Pierattini DI STORIA DELL’ARCHITETTURA QUADERNI … · 2019-07-26 · quanto dell’architettura...

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QUADERNI DELL’ISTITUTO DI STORIA DELL’ARCHITETTURA n.s., 67, 2017 SAPIENZA - UNIVERSITÀ DI ROMA DIPARTIMENTO DI STORIA, DISEGNO E RESTAURO DELL’ARCHITETTURA «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

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QUADERNI DELL’ISTITUTO DI STORIA DELL’ARCHITETTURA

n.s., 67, 2017

Sapienza - UniverSità di roma dipartimento di Storia, diSegno e reStaUro dell’architettUra

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«l’erma» di BretSchneider

Alessandro Origini dell’architettura lapidea in Grecia, 700-650 a.C.Pierattini

Francesco Repishti Maffiolo da Giussano, un «amico lombardo» di Bramante

Alessandra Il progetto per la chiesa di San Francesco di Paola ai Monti Schiavone e l’attività architettonica di Giovanni Pietro Moraldi

Cesare Crova Il cantiere di Sant’Antonio a Padova (1877-1903) nella rilettura critica delle carte conservate presso l’Archivio Storico della Veneranda Arca

Calogero Bellanca, Santa María la Real de Sasamón, Burgos. Un ejemplo Susana Mora de estratificaciones a lo largo del tiempo

QUADERNI ARCHITETTURA N.S. 67 - 2017 ISBN 978-88-913-1657-8

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QUADERNI DELL’ISTITUTODI STORIA DELL’ARCHITETTURA

n.s., 67, 2017

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER

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Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura

© 2017 «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER© Sapienza-Università di Roma Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura

ISBN 978-88-913-1657-8 (cartaceo)ISBN 978-88-913-1660-8 (pdf )ISSN 0485-4152

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Segreteria di redazioneMonica Filippa

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Il presente fascicolo è stampato con il parziale contributo di Sapienza-Università di Roma

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SOMMARIO

Alessandro PierattiniOrigini dell’architettura lapidea in Grecia, 700-650 a.C. . . . . . . . . . . . . 5

Francesco RepishtiMaffiolo da Giussano, un «amico lombardo» di Bramante 19

Alessandra SchiavoneIl progetto per la chiesa di San Francesco di Paola ai Monti e l’attività architettonica di Giovanni Pietro Moraldi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31

Cesare CrovaIl cantiere di Sant’Antonio a Padova (1877-1903) nella rilettura critica delle carte conservate presso l’Archivio Storico della Veneranda Arca . . . . . . . . . . . . 45

Calogero Bellanca, Susana Mora Santa María la Real de Sasamón, Burgos. Un ejemplo de estratificaciones a lo largo del tiempo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67

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Le origini dell’architettura lapidea greca hanno esercitato un fascino difficilmente eguagliato nel-la tradizione degli studi sull’architettura antica. La ragione è ovvia: la transizione dalla costruzione straminea a quella lapidea demarca il confine tra quanto dell’architettura greca ci è dato conoscere sulla base di evidenze tangibili e quanto sulla base di interpretazioni ipotetiche. Le ragioni letterarie sono più sottili e si legano al mito pindarico dello sviluppo del tempio di Apollo Delfico dalla primi-tiva capanna di alloro al tempio lapideo, cui il mito stesso associa i nomi dei primi artefici, Trofonio e Agamede1. Dal topos della capanna, storicamente, discende una deriva puramente teorica del dibatti-to sulle origini dell’architettura lapidea, che attra-verso Vitruvio arriva all’età neoclassica2.

Un altro filone storico del dibattito combina l’o-rigine della costruzione in pietra con la genesi degli ordini architettonici. Fondato anch’esso, in origine, su basi puramente letterarie, questo filone ha avu-to esiti soprattutto speculativi fino a tempi recenti. Emblematiche in tal senso sono le teorie sulla deri-vazione tettonica del Dorico dalla carpenteria lignea che, prendendo spunto dalla spiegazione vitruviana del mutulo e forzando nella stessa chiave l’interpre-tazione del triglifo, hanno prodotto tra Settecento e Novecento congetture ingegnose quanto poco corroborate dall’evidenza. Negli ultimi decenni il confronto più puntuale con i reperti archeologici ha conferito rigore scientifico alla discussione sul-la genesi degli ordini, che rimane il tema centrale nell’attuale dibattito sulle origini dell’architettura greca3, mentre la questione dello sviluppo della co-struzione lapidea resta di solito relegata in secondo piano. È un fatto, però, che una radicale innovazio-ne nell’uso della pietra in architettura avvenga in Grecia, in età storica, in anticipo rispetto alle prime tracce documentate del Dorico e dello Ionico. Tali precoci esordi, che rappresentano il punto d’inizio nello sviluppo della costruzione monumentale gre-ca, meritano dunque una riflessione indipendente.

Anzitutto, è necessario precisare quali aspetti del-la costruzione lapidea abbiano segnato una reale di-scontinuità rispetto alle pratiche precedentemente

Origini dell’architettura lapidea in Grecia, 700-650 a.C.Alessandro Pierattini

in uso e possano essere messi direttamente in re-lazione con il successivo sviluppo dell’architettura monumentale. L’uso della pietra in architettura, infatti, non costituisce in sé un’innovazione: mu-rature in pietrame non lavorato o appena sbozzato allettato in malta di terra appaiono in Grecia senza soluzione di continuità a partire dal Neolitico, ben-ché esse siano di solito confinate alla parte basamen-tale di strutture straminee. Anche l’applicazione di tali murature all’intero alzato, documentata tra la fine dell’età del Bronzo e l’età arcaica soprattutto a Creta e nelle Cicladi, non sembra avere esercita-to in sé un’influenza determinante sullo sviluppo dei caratteri dell’architettura monumentale nelle rispettive aree. L’adozione di un partito regolare sulla parete della cella del tempio di Era a Samo in-torno al 700 a.C. rappresenta invece un passaggio più significativo, in quanto introduce in area greca l’apparecchio con paramento isodomo, destinato a diventare cifra estetica della parete in età classica. Dal punto di vista tecnico, tuttavia, l’esperimento samio non si discosta sostanzialmente dalla tradi-zione precedente, in quanto solo la faccia esterna delle pietre impiegate assume forma rettangolare, mentre le altre facce restano irregolari e si ammor-sano ad un riempimento di terra e pietrisco come nelle precedenti murature in pietrame.

È in Corinzia che, nei decenni immediatamente successivi, si attua una più radicale innovazione. I primi due templi di Poseidone a Isthmia e di Apol-Isthmia e di Apol-lo a Corinto, entrambi costruiti nella prima metà del VII secolo a.C. e assai simili a giudicare dai re-perti4, presentano una muratura perfettamente iso-doma costituita di blocchi calcarei diatoni di forma parallelepipeda (figg 1A-B). Tagliati nel calcare lo-cale, tali blocchi hanno dimensioni relativamente modeste (ca. 27x60x80 cm)5. Significativamente associata fin dal principio alla copertura fittile – anch’essa alla sua prima apparizione in Grecia6–, la muratura lapidea corinzia rappresenta un chiaro punto di svolta nell’architettura greca. La portata di tale cambiamento appare epocale se si considera l’impegno finanziario e logistico di simili cantieri rispetto alla tradizionale costruzione straminea e,

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non a caso, queste colossali imprese edilizie sono spesso legate a regimi oligarchici o tirannici.

Tratteggeremo adesso in sintesi uno spaccato di questi primi rivoluzionari cantieri, a partire dall’ap-provvigionamento del materiale lapideo fino alla fi-nitura in opera dei blocchi. Allo stesso tempo, ten-teremo di contestualizzare la portata dei problemi tecnici affrontati dai Corinzi rispetto alla cultura greca del tempo e ad esperienze analoghe in altre aree del Mediterraneo orientale. Nel far ciò, ci in-terrogheremo necessariamente sulle origini di tale

radicale progresso. Le intense relazioni commercia-li tra Corinto ed i maggiori porti del Mediterraneo tra VIII e VII secolo a.C. rendono infatti legittimo domandarsi quanto delle innovazioni corinzie sia attribuibile ad influenze esterne e quanto, invece, si possa ricondurre a radici autoctone.

Uno dei fattori chiave nel fenomeno corinzio ri-siede nell’abbondanza di calcare oolitico, una pietra tenera e facile da lavorare ed abbastanza compatta per l’uso edilizio7. Di fatto, il calcare corinzio reste-rà per tutta l’antichità una delle principali pietre da costruzione a livello sia locale che sovraregionale, come dimostrano le cospicue esportazioni a Del-fi e a Epidauro. Se lo sfruttamento intensivo delle cave corinzie porterà successivamente alla creazione di un’apposita rete viaria per il trasporto, dobbiamo immaginare che i primi cantieri lapidei di Corinto e Isthmia sfruttassero materiale cavato nelle immediate vicinanze. A Corinto le ricostruzioni della topogra-fia originaria mostrano che l’area immediatamente a ovest del tempio di Apollo era in origine occupata da una collinetta che fu gradualmente rimossa dalle operazioni di cava a partire dall’età arcaica. Tra i resti archeologici antistanti il tempio sono infatti ben evi-denti le tracce dell’estrazione di blocchi quadrango-lari direttamente dal banco roccioso (fig 2).

Quanto alle tecniche di cava, un ovvio problema pratico per lo studio dei metodi più antichi consiste nel fatto che le tracce delle fasi iniziali sono di nor-ma cancellate dalle successive. In ogni caso, la tec-nica estrattiva non sembra aver subito innovazioni sostanziali dall’età del Bronzo fino all’epoca romana, né aver presentato significative variazioni nelle di-verse aree geografiche del Mediterraneo Orientale. Il metodo base consiste nell’isolare il blocco sul letto di cava scavando una trincea attorno al perimetro e nel distaccare successivamente la base dalla roccia ma-

Fig. 1 – A: fronte della muratura isodoma della cella del tempio proto-arcaico di Isthmia, ricostruita dallo scavatore Oscar Broneer sulla terrazza a nord dello scavo B: vista di lato dei blocchi, provvisti di solchi sulla faccia di posa e su una delle due facce laterali di contatto

Fig. 2 – In primo piano, indicato dalle frecce, calcare affiorante sbancato per le operazioni di cava al margine ovest della collina del tempio di Apollo a Corinto In secondo piano, i resti del tempio successivo, risalente alla metà del VI secolo a C

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dre8. La tecnica della trincea è documentata a partire dall’Antico Regno in Egitto, che sembra essere stato il luogo della sua prima sperimentazione. Quanto al distacco dal sostrato, il sistema documentato in Gre-cia fin dal VI secolo a.C. è quello tuttora in uso nella tecnica tradizionale per spaccare la roccia secondo i piani di stratificazione, che consiste nel percuotere progressivamente dei cunei inseriti in appositi intagli praticati lungo la linea di distacco desiderata. Tale metodo è attestato in Egitto solo più tardi, cosa che ha spinto a ipotizzare piuttosto un’influenza orienta-le sulla nascente tecnica greca9.

Il distacco del blocco dalla roccia madre è un’ope-razione delicata a causa della difficoltà di controlla-re con precisione la giacitura del piano di frattura. Onde evitare che irregolarità nel distacco rendessero inutilizzabile il blocco, questo veniva di norma ca-vato in dimensioni eccedenti quelle richieste in can-tiere, cosa che, come vedremo, garantiva inoltre dal potenziale danneggiamento durante il trasporto.

A questo punto si pone per i blocchi corinzi un primo problema. Il loro tratto più caratteristico consiste nella presenza di due solchi paralleli, pro-fondi 1-2 cm e di sezione vagamente triangolare (figg 3A-B), su due delle sei facce di ciascun blocco, ovvero quella di posa ed una delle due facce laterali. Una delle ipotesi sulla loro funzione è che essi ser-vissero ad alloggiare funi usate per movimentare i blocchi appena distaccati dalla roccia madre10 (fig 4). Leve e funi erano comunemente impiegate nelle operazioni di cava nella Grecia arcaica e classica11; tuttavia, per queste operazioni l’uso di scanalatu-re nei blocchi non è altrimenti documentato né in Grecia né in alcun altro contesto del Mediterraneo orientale in età antica. Se si accetta tale ipotesi in-terpretativa, sotto questo aspetto la tecnica elabo-rata dai Corinzi nella prima metà del VII secolo a.C. appare del tutto originale. Alcuni aspetti di questa interpretazione paiono tuttavia poco con-

vincenti. Dal punto di vista pratico, se è vero che i solchi sulla faccia inferiore avrebbero consentito di sfilare le funi una volta deposto un blocco, la tesi non spiega la presenza dei solchi sulla faccia verti-cale, che sarebbero stati di fatto superflui. Inoltre, l’idea che i solchi fossero intagliati in cava mal si accorda con la prassi, sopra citata, di trasportare i blocchi con uno strato di sacrificio (àpergon) onde evitarne il danneggiamento12. Ben documentata a partire dall’età arcaica, tale prassi era già impiegata in età geometrica (900-700 a.C.)13, e il suo utilizzo nel tempio arcaico di Isthmia è provato da alcuni blocchi interpretati come elementi dello stilobate14, sulla cui sommità lo strato di pietra in eccesso non fu completamente rimosso. Tornando ai blocchi corinzi, la rimozione in cantiere di tale strato, che in epoca arcaica e classica raggiunge i 4-5 cm di spessore, avrebbe presumibilmente cancellato i sol-chi, che invece compaiono puntualmente su ogni esemplare. L’alternativa che i solchi fossero stati in origine assai più profondi ed ampi di quanto non appaiano sui reperti oggi osservabili non convince, considerando che intagli così cospicui avrebbero comportato una mole di lavoro considerevole e non giustificata dalla sezione delle corde15. Il significato

Fig. 3 – Rilievo delle scanalature nei blocchi dei primi templi di Isthmia e Corinto A: Isthmia, reperto IA 851; B: Corinto, 208

Fig. 4 – Utilizzo ipotetico delle scanalature per assistere la movimentazione dei blocchi appena cavati (elaborazione da R F Rhodes, Rope Channels and Stone Quarrying, cit , p 551, fig 5)

A B

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delle scanalature va dunque ricercato altrove, e vi torneremo tra breve nel trattare del sollevamento e della posa dei blocchi.

A questo punto, conviene spostare la riflessione dalla cava alla muratura, nel tentativo di compren-dere l’innovazione corinzia sia rispetto al contesto delle tradizioni costruttive antecedenti e coeve in area mediterranea orientale, sia in relazione alla cul-tura locale.

La particolarità della muratura dei primi due templi di Isthmia e Corinto è, come abbiamo vi-sto, quella di essere costituita di corsi isodomi di blocchi parallelepipedi di dimensioni relativamente regolari e tutti diatoni, ovvero che attraversano lo spessore del muro da parte a parte. Messi in opera a secco e senza l’ausilio di grappe, i blocchi presen-tano anatirosi primitiva sulla faccia di posa e, meno sistematicamente, su quelle laterali.

Fin dall’età del Bronzo, murature in blocchi la-pidei dalla faccia in vista rettangolare ed accurata-mente rifinita sono diffuse soprattutto in Egitto, in Siria settentrionale, in Palestina, a Creta e in area fenicia. È tuttavia raro che in tali murature i bloc-chi presentino altezza e spessore omogenei e che siano squadrati su tutte e sei le facce.

A Creta le tipiche facciate di età minoica sono di norma costituite di blocchi di profondità variabile, e l’isodomicità dei corsi non è infrequente. Tuttavia, mentre lo spessore delle murature protoarcaiche co-rinzie equivale a quello di un singolo blocco, le pa-reti minoiche presentano due paramenti e un riem-pimento di terra intermedio, con uno spessore assai considerevole (oltre 1 m), e la faccia posteriore dei blocchi è spesso tagliata obliquamente o lasciata irre-golare per ammorsarsi al riempimento interno. Uno dei tratti distintivi di queste murature è la presenza di grandi blocchi ortostati16, invece presumibilmen-te assenti nelle murature corinzie. Se a Creta in età geometrica sopravvive in certa misura il retaggio del-le murature minoiche rivestite di blocchi, e talvolta i medesimi blocchi minoici vengono reimpiegati, si assiste tuttavia ad un declino di tale tradizione, che è pressoché completo nel VII secolo a.C.

In Egitto la tecnica di lavorazione della pietra è già applicata alla muratura in corsi regolari di blocchi squadrati del complesso di Djoser (circa 2780 a.C., oppure 2650 secondo la cronologia bassa) a Saqqa-ra. A differenza di quelli corinzi, i blocchi egizi, che sono di solito di mole considerevole, mostrano va-rietà di forme e dimensioni nella stessa muratura, e spesso presentano giunti obliqui o a gradino per economia nell’uso del materiale e nella lavorazione. Fin dall’Antico Regno, i blocchi soggetti a sforzi par-ticolari vengono connessi con grappe lignee o me-talliche17. Siffatte connessioni compaiono in Grecia solo più tardi nel corso dell’età arcaica, ovvero dopo i primi contatti diretti documentati tra le due cul-

ture18. Cosa altrettanto significativa, i blocchi egizi squadrati rappresentano di solito il paramento di una compagine in pietrame o in blocchi più rozza-mente sbozzati, o addirittura in mattoni crudi, come nelle piramidi del nuovo regno.

A Oriente le testimonianze apparentemente più vi-cine ai caratteri delle murature corinzie provengono dall’area palestinese19. Qui, fin dall’inizio dell’età del Ferro, troviamo murature a strato singolo in blocchi parallelepipedi di dimensioni regolari, con alcuni caratteri che ricordano quelli delle murature corin-zie. Tra questi spiccano l’ortogonalità dei giunti, una primitiva anatirosi e l’assenza di grappe o perni. Altri aspetti, invece, distinguono nettamente le murature palestinesi da quelle corinzie. I blocchi palestinesi hanno spesso altezza maggiore rispetto allo spessore, ed un apparecchio murario tipico di quest’area è ca-ratterizzato da gruppi di due o tre blocchi alternati di testa e di taglio. Inoltre, le murature palestinesi, come quelle cipriote e siriane del medesimo periodo, si distinguono per l’uso di membrature lignee inte-grate nella struttura muraria.

In definitiva, l’analisi delle evidenze note non consente di individuare modelli diretti per le mu-rature corinzie, né la storia delle relazioni con le altre culture del Mediterraneo orientale suggerisce influenze precise e determinanti sullo sviluppo del-la tradizione lapicida corinzia. Più fruttuoso in tal senso si rivela lo studio delle tradizioni autoctone in ambito funerario. Il rito prevalente nella regione è l’inumazione, che in alcuni casi prevede l’uso di sarcofagi, squadrati in forme parallelepipede già a partire dal 900 a.C.20 Nulla di simile si riscontra nelle altre regioni di cultura greca, e le origini della precocissima arte lapicida locale non sono note. Per di più, in Corinzia nel corso dell’VIII secolo a.C. blocchi squadrati compaiono già in ambito edili-zio, benché essi siano inizialmente limitati a muri di contenimento del terreno e a soglie e stipiti in organismi costruiti in mattone crudo. Dal punto di vista dell’apparecchio murario, l’adozione di bloc-chi parallelepipedi consente di assimilare la parete in pietra a quella in mattoni crudi, in cui il sistema a corsi isodomi di elementi diatoni con giunti ver-ticali sfalsati era pratica corrente nella Grecia di età geometrica.

Certo è che intorno al 700 a.C., quando Corin-to conquistò in Grecia il primato nei traffici com-merciali e le strutture amministrative della polis resero possibile l’accumulazione di risorse necessa-ria all’investimento in infrastrutture pubbliche, le aspirazioni dei corinzi alla monumentalità poteva-no contare sia sull’abbondanza di calcare di qualità che su una tradizione lapicida già in certa misura applicata all’edilizia.

A conclusione di questa riflessione comparativa, merita un cenno il caso di Megara Hyblaea, la cui

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tradizione lapicida, benché leggermente seriore ri-spetto a quella corinzia, potrebbe forse condivide-re con questa un comune retaggio. In Occidente, Megara Hyblaea è la colonia greca che sviluppa per prima una tradizione muraria lapidea. In un terri-torio ricco di pietre calcaree e arenaria, si sviluppa, infatti, una tradizione lapicida che porta già intor-no alla metà del VII secolo a.C. alla sperimenta-zione di murature in blocchi isodomi a una testa. La colonia siceliota fu fondata nel 728-727 a.C. da Megara, città greca assai prossima a Corinto e in origine da essa dipendente. In considerazione di ciò, il precoce sviluppo delle murature isodome di Megara Hyblaea appare assai significativo. È lecito immaginare, ci chiediamo, che i megaresi condi-videssero la medesima tradizione lapicida corinzia? L’esodo dei coloni megaresi, in ogni caso, risale ad una fase che precede di almeno 25-50 anni quella in cui sorgono i due primi templi corinzi; ammet-tendo la possibilità di una tradizione comune, per l’adozione estensiva dell’opera isodoma in architet-tura parrebbe quindi più saggio, in assenza di prove certe, immaginare sviluppi paralleli ma autonomi.

Nel trattare della transizione dalla muratura in terra a quella lapidea, una questione tradizional-mente dibattuta è quale ruolo abbia giocato in tale passaggio la maggiore portanza della muratura in blocchi lapidei. È infatti un luogo comune spesso ribadito nei manuali che l’aumento del peso del-la copertura dovuto al passaggio dal rivestimento stramineo a quello fittile sarebbe responsabile di una revisione delle strutture portanti e per conse-guenza dell’adozione della pietra nelle murature. La tesi, concettualmente razionale, sembrerebbe trovare la sua più eloquente conferma proprio nei primi templi di Corinto e Isthmia, in cui tegole e blocchi fanno contestualmente la loro prima appa-rizione nota nella Grecia dell’età del Ferro21.

Tuttavia, evidenze e dati tecnici altrettanto ben noti non possono accordarsi con tale idea. Per co-minciare, muri in pietra (benché non ancora in opera quadrata) erano già in uso in area greca in-sulare e orientale indipendentemente dalle tegole, in associazione con tetti piani o, in alcuni casi, a ripide falde straminee. Cosa ancor più significati-va, tra VII e VI secolo a.C. la maggior parte dei templi greci, sia nella madrepatria che nelle colonie occidentali, presenta tetti fittili gravanti su elevati in terra cruda perfettamente in grado di sostenerli. Inoltre, le vicende edilizie di edifici originariamente straminei come il tempio tardogeometrico di Arte-mis ad Ano Mazaraki mostrano che l’originario tet-to in paglia fu sostituito da tegole nel corso del VI secolo a.C. senza bisogno di sostituire le murature in materiali deperibili. Se non bastasse, ricordiamo che l’architettura etrusca associa invariabilmente pareti in argilla a coperture in tegole fittili, che gli

Etruschi impiegavano anche nell’edilizia abitativa, mentre in Grecia esse erano inizialmente riservate ai soli templi.

Che il tetto fittile non richieda la muratura lapi-dea, che del resto in alcune aree non si diffuse mai (di nuovo, l’Etruria), sembrerebbe insomma un fatto palese. A conferma di quanto suggerito dalle evidenze, una semplice stima quantitativa confer-ma due dati essenziali. Per cominciare, il peso di un rivestimento in paglia non supera in modo troppo significativo quello del suo corrispondente fittile. Dobbiamo infatti considerare che, mentre le tegole fittili sono relativamente sottili e poggiano su falde a pendenza assai ridotta, la copertura in paglia pre-senta uno spessore cospicuo e implica falde a pen-denza ripida, con corrispondente aumento del cari-co per metro quadrato in proiezione orizzontale22.Inoltre, e soprattutto, la resistenza a compressione offerta da una parete in mattoni crudi sopravanza ampiamente quella necessaria a sopportare il più pesante dei tetti fittili23.

In definitiva, piuttosto che leggere nel tetto fit-tile e nella litizzazione delle pareti un rapporto di causa-effetto, pare più sensato vedere nei due feno-meni una manifestazione della medesima tensione verso una maggiore durevolezza dell’edificio-sim-bolo di una comunità dinamica e ricca, che nel caso di Corinto possiede le risorse finanziarie, materiali e tecnologiche necessarie per portare a pieno com-pimento il proprio obiettivo.

Riprendiamo adesso il discorso sul processo edi-lizio dei cantieri corinzi da dove lo avevamo lascia-to, ovvero dalla cava. Dopo l’estrazione, i blocchi dovevano essere trasferiti in cantiere, operazione verosimilmente non troppo complessa, viste le di-mensioni relativamente modeste dei blocchi e la prossimità delle cave impiegate. A seconda della distanza da percorrere, possiamo immaginare che il trasporto impiegasse carri o che, al limite, con-sistesse più semplicemente nel trainare i blocchi su binari lignei, con l’interposizione di rulli (tecnica impiegata fin dall’antico Egitto e prassi ordinaria in Grecia in età classica ed ellenistica). A questo punto, stoccato il materiale lapideo in cantiere, tre operazioni ci separano dall’opera finita, ovvero il sollevamento, la posa e la finitura dei blocchi. De-finire l’ordine e le modalità di queste operazioni, ciascuna in sé relativamente complessa, è di grande importanza per comprendere lo sviluppo della tec-nologia greca in questa fase cruciale di transizione.

Dopo l’estrazione, una prima regolarizzazione del-le superfici all’ascia ed il trasporto, i blocchi arriva-vano in cantiere, come già accennato, in dimensio-ni eccedenti quelle richieste, e lo strato di sacrificio andava rimosso (ergasìa). La prassi già impiegata nell’antico Egitto24 e ben documentata in Grecia a partire dall’età arcaica prevedeva che – per ovvi mo-

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tivi pratici – la rimozione di tale strato e la finitura a scalpello avvenissero prima della posa per le due su-perfici destinate al contatto con i blocchi già posati, ovvero la faccia di posa e una di quelle laterali. Per le rimanenti quattro superfici, la finitura avveniva in-vece dopo la posa, accorgimento che consentiva di ottenere piani omogenei e privi di asperità o gradini tra un blocco e l’altro. I reperti del primo tempio di Isthmia hanno invece suggerito che agli esordi della costruzione lapidea i Corinzi avessero adottato una prassi diversa. L’analisi delle schegge di lavorazione dei blocchi rinvenute sotto il pavimento del tempio mostra infatti che la maggior parte di esse, relati-

vamente grandi, presentano superfici lisce e bordi squadrati e sembrerebbero pertanto il prodotto di intagli effettuati in blocchi già rifiniti, piuttosto che della rimozione a scalpello dello strato di sacrificio. Ciò ha portato a supporre che, a differenza dell’epo-ca immediatamente successiva, la finitura dei blocchi avvenisse prima della posa, e che la preoccupazione principale dei costruttori fosse la rapidità dell’assem-blaggio piuttosto che la perfetta planarità delle su-perfici, tanto più che quelle esterne erano coperte di stucco e legno25. Tale ipotesi pone però dei proble-mi. Se è vero che la superficie esterna della cella dei due templi di Corinto e Isthmia non era lasciata in vista, sottolineiamo però che le parti destinate ad es-sere coperte da elementi lignei, consistenti in bande verticali e orizzontali estese su più blocchi (fig 5), erano accuratamente levigate per assicurare un con-tatto ottimale. Tali bande erano con tutta probabilità tracciate sulla superficie esterna una volta ultimata la costruzione della parete, siccome la relativa variabi-lità della lunghezza dei blocchi avrebbe reso l’ope-razione assai difficile se questa fosse stata effettuata prima della posa, lavorando sui blocchi singoli. Se il tracciamento delle bande avveniva a costruzione ultimata, anche la finitura sia di queste (levigate per il contatto col legno) che degli ampi pannelli tra esse interposti, scalpellati in sottosquadro per ricevere lo stucco, doveva avvenire dopo la posa. L’intera parete, insomma, si direbbe essere stata rifinita a costruzione ultimata coerentemente con la prassi documentata nelle epoche successive.

Possiamo adesso addentrarci nella meccanica del sollevamento e della posa. A questo riferimento, dobbiamo riprendere il discorso lasciato in sospeso a proposito delle scanalature parallele tipiche dei blocchi dei due templi, che una parte della lettera-tura archeologica ha associato all’uso di funi per il sollevamento attraverso macchine26 (fig 6). Secondo questa tesi, infatti, le scanalature avrebbero evitato lo slittamento delle funi durante il sollevamento, e ne avrebbero poi consentito lo sfilamento dopo la deposizione del blocco.

L’invenzione di macchine vantaggiose per il sol-levamento è considerato uno dei più significativi contributi greci al progresso della tecnica costrutti-va, destinato ad essere sviluppato con risultati pro-digiosi soprattutto in età ellenistica e poi romana. Per macchina elevatrice intendiamo qui un telaio ligneo combinato con funi azionate da paranchi (sistemi di pulegge) e verricelli, che rispettivamente riducono l’entità del carico e moltiplicano l’effetto della forza applicata per spostarlo.

A partire da un saggio fondativo di John James Coulton, è opinione largamente condivisa che le macchine di sollevamento si siano diffuse in Grecia solo a partire dalla fine del VI secolo a.C., mentre il sistema fino ad allora impiegato sarebbe stato la

Fig. 5 – Un brano del muro della cella del primo tempio di Isthmia, ricostruito da Oscar Broneer Le linee tratteggiate indicano l’allineamento verticale delle bande levigate destinate al contatto con pilastri lignei Le frecce indicano lacerti di stucco ai margini dei pannelli scalpellati in sottosquadro

Fig. 6 – Utilizzo ipotetico delle scanalature per alloggiare funi durante il sollevamento dei blocchi attraverso macchine (elaborazione da H S Robinson, Excavations at Corinth, cit , p 226, fig 7)

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rampa. È alla fine del VI secolo a.C., infatti, che appaiono in Grecia i primi fori di olivella o di te-naglia, entrambi indizi inequivocabili del fatto che i blocchi su cui essi appaiono fossero sollevati ver-ticalmente per mezzo di funi27. L’ipotesi dell’uso di meccanismi di sollevamento nei cantieri corinzi della prima metà del VII secolo a.C. pone quin-di un problema cronologico notevole. Oltre a ciò, l’associazione a macchine elevatrici delle scanalatu-re sui blocchi dei due templi è stata contestata su basi pratiche. Le scanalature in questione, infatti, non sarebbero abbastanza profonde da consentire, a posa effettuata, lo sfilamento di funi di spessore sufficiente per sostenere il peso dei blocchi28.

Rilievi dettagliati della profondità delle scanala-ture, effettuati da chi scrive nell’estate del 2014, re-stituiscono valori medi di ca. 2 cm, con minimi di 1 cm. Per valutare la resistenza di funi compatibili con il valore minimo, è necessario indagare la natura delle corde presumibilmente impiegate in Grecia nel periodo in esame. Un’indagine incrociata delle fon-ti letterarie antiche e delle evidenze archeologiche29, costituite da resti di corde provenienti soprattutto da contesti nautici, rivela che tre delle specie vegetali più utilizzate in antichità per la produzione di cordame – il lino (linum usitatissimum), la ginestra (spartium junceum) e il giunco (scirpus holoschoenus) – erano endemiche della Grecia propria. L’uso di funi di lino è confermato, per l’età classica, da Eschilo e Euri-pide30. Che tale specie fosse utilizzata fin da molto prima per il medesimo scopo, come probabilmente anche il giunco e la ginestra31, è suggerito da docu-menti amministrativi in Lineare B che attestano che la città micenea di Pylos era rinomata per la produ-zione di corde e per la coltivazione di lino32.

Il cordame antico era qualitativamente assimi-labile a quello prodotto attualmente utilizzando i medesimi materiali33. Una fune tradizionale in lino del diametro di 8 mm presenta un carico limite di circa 500 kg, che corrisponde ad oltre il doppio del peso medio dei blocchi dei due templi e supe-ra abbondantemente quello dei blocchi più grandi, appartenenti alla cornice del tempio di Isthmia, sti-mabile intorno ai 350 kg.

Per verificare la possibilità pratica di sfilare le funi dai blocchi posati in opera accanto a quelli adiacenti, chi scrive ha effettuato test sperimentali utilizzando blocchi-replica di dimensione, fattura e materiale analoghi a quelli degli originali, e funi tradizionali in lino e in ginestra. I risultati positivi confermano che, a livello puramente pratico, i sol-chi nei blocchi corinzi si direbbero compatibili con l’ipotesi del sollevamento.

La questione storica non si può dirimere in ma-niera altrettanto diretta. Alcuni indizi potrebbero in effetti suggerire l’impiego episodico di macchine

elevatrici prima di quanto comunemente accettato. Ad esempio, i solchi a U visibili in alcuni casi ai lati dei blocchi di età arcaica, anch’essi traccia af-fidabile dell’uso di macchine, compaiono in alme-no due esempi noti in contesti datati intorno alla metà del VI secolo a.C. In entrambi i casi, però, i blocchi in esame appartengono al registro sommi-tale, e potrebbero rappresentare una fase tarda della costruzione34. Un ulteriore caso interessante è rap-presentato da un capitello del tempio di Apollo a Corinto della metà del VI secolo a.C. (il successore del primo tempio), sulla cui sommità parzialmen-te preservata un foro a V35 potrebbe suggerire un sistema di ancoraggio di corde usate per il solleva-mento36. Il foro in esame si trova però in posizione non baricentrica, e l’ipotesi del sollevamento risul-terebbe praticamente plausibile solo supponendo la presenza di un foro analogo e simmetrico al primo nella parte del capitello non preservata.

In ogni caso, tali evidenze seguono di almeno un secolo i primi templi di Corinto e Isthmia, e non possono pertanto far luce sulle tecniche di solleva-mento usate nei primi cantieri lapidei corinzi.

Indizi più utili in tal senso provengono invece dalla tradizione funeraria locale, ovvero dai già ci-tati sarcofagi corinzi di età geometrica. Il loro peso ragguardevole (fino a oltre 2,5 tonnellate) solleva infatti il problema di come essi potessero essere ca-lati nelle relative fosse, troppo strette per consentire l’utilizzo di rampe. L’ipotesi ritenuta più plausibile è che i sarcofagi venissero calati con funi sospese ad un’incavallatura lignea37. Una simile struttura, se formalmente è assimilabile al telaio delle macchine di sollevamento più tardi sperimentate dai Greci, non costituisce necessariamente un anacronismo nella Grecia di età geometrica se la si immagina priva di paranchi e verricelli38, ovvero dei disposi-tivi a cui le macchine elevatrici propriamente dette dovranno il loro vantaggio meccanico, e con esso il loro successo. Il telaio di cui parliamo avrebbe avuto la semplice funzione di cambiare la direzio-ne della trazione applicata, con vantaggio ‘pratico’ ma non meccanico. Del resto, l’uso di meccanismi semplici di questo tipo è documentato anche in culture, come quella egizia ed assira, che mai speri-mentarono le macchine di sollevamento, ed in cui, di fatto, il principale sistema di sollevamento rima-se la rampa39. Che i Greci avessero familiarità con tali elementari sistemi in età geometrica è evidente considerando l’analoga tecnologia delle imbarca-zioni a vela coeve, le cui vele venivano issate tirando verso il basso drizze passanti attraverso occhielli fis-sati all’albero maestro o al pennone40 (figg 7A-B).

In definitiva, sembrerebbe storicamente plausibi-le che i blocchi dei templi corinzi della prima metà del VII secolo a.C. fossero stati sollevati vertical-mente per mezzo di funi collegate ad un telaio del

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tipo appena descritto. Dobbiamo però valutare la probabilità di tale ipotesi considerando il sistema di sollevamento alternativo, impiegato tradizional-mente sia in Grecia che nelle altre culture dell’O-riente mediterraneo antico fino almeno dall’età del Bronzo, ovvero la rampa. Come è ben noto, que-sta fornisce un vantaggio meccanico inversamente proporzionale rispetto alla sua pendenza e consente il sollevamento di carichi di entità virtualmente il-limitata senza particolari complicazioni tecniche o concettuali. Ciò, naturalmente, a patto di disporre di manodopera in abbondanza, dal momento che sia l’allestimento che la rimozione delle rampe, co-struite di solito in terra o mattoni crudi, richiedeva-no un dispendio di energie notevole a prescindere dall’entità dei carichi da sollevare. Per tale ragione tenderemmo ad associare la rampa al sollevamen-to di carichi di mole più considerevole rispetto a quella dei blocchi corinzi. L’evidenza archeologica fornisce un indizio potenzialmente rilevante a que-sto proposito. Nello strato sottostante il pavimen-to del primo tempio di Isthmia sono documentate cinque file longitudinali di fori (fig 8), inizialmen-te interpretati come traccia di ponteggi41. L’uso di strutture lignee provvisorie sarebbe difficilmente compatibile con l’ipotesi delle rampe di terra, dal momento che queste si sarebbero trovate proprio al di sopra di alcuni dei fori in questione. Certo, è possibile in alternativa che rampe lignee si ap-poggiassero a ponteggi in carpenteria; tuttavia, la dimensione considerevole dei fori ed il loro ampio interasse farebbero pensare piuttosto a sistemi di

Fig. 7 – Rappresentazioni di imbarcazioni a vela tra VII e VI secolo a C A: La parte anteriore di un’imbarcazione mercantile dipinta su una placca votiva di VII secolo a C rinvenuta a Corinto (elaborazione da L Casson, Ships and Seamanship, cit , fig 98 La sommità dell’albero maestro presenta due occhielli, in cui presumibilmente scorrevano le drizze della vela maestra B: Imbarcazione a vela dipinta da Exekias sulla nota kylix  di Dioniso  (Monaco 2044), risalente al 540-530 a C (disegno dell’autore); anche in questo caso, la sommità dell’albero maestro mostra due occhielli, e uno ulteriore è visibile all’estremità del pennone, in cui scorre la scotta usata per manovrare la vela lateralmente

stabilizzazione di telai lignei puntuali o di bitte di ancoraggio delle funi42.

Due ulteriori aspetti dei reperti di Isthmia meri-tano riflessione e consentono di ricostruire le opera-zioni finali della costruzione muraria. Le scanalature parallele che abbiamo appena trattato in relazione al sollevamento appaiono, va rilevato, anche in bloc-chi originariamente posti a terra, e che pertanto non avrebbero richiesto sollevamento. Inoltre, tali bloc-chi poggiavano sulle fondazioni, i cui elementi solo parzialmente squadrati e allettati in malta di terra sono gli unici appartenenti al tempio privi di sca-nalature43. Tali aspetti, il primo dei quali parrebbe indebolire l’associazione tra le scanalature e il sol-levamento, vanno a nostro parere letti insieme e in relazione all’operazione che necessariamente seguiva il sollevamento nella dinamica di cantiere, ovvero la posa in opera del blocco a stretto contatto con quello adiacente. Se supponiamo che le scanalature fossero coinvolte anche in questa fase, assume senso il fat-to che esse si trovino su tutti i blocchi tranne quelli che, allettati nella terra, non avrebbero richiesto una posa a contatto stretto tra pietra e pietra. Per verifi-care tale ipotesi è necessario considerare la tecnica di posa adottata in Grecia in età successiva. Ciascun blocco veniva deposto sul proprio filare ad una cer-ta distanza dalla posizione finale44, verso la quale esso veniva traslato su rulli. La rimozione dei rulli e la discesa del blocco sul piano di attesa erano rese possibili sollevando e calando il blocco applicando delle leve in due punti, ovvero l’estremità inferiore del lato libero e quella superiore del lato di contatto,

A B

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Fig.

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provviste di appositi fori. Un altro foro sul letto di attesa inferiore consentiva di spingere il blocco ver-so quello adiacente45 (fig 9). Una tecnica simile era già utilizzata in Egitto almeno a partire dal regno di Hatshepsut (1479-1458 a.C.)46. Che una dinamica analoga fosse stata utilizzata nel cantiere di Isthmia è suggerito da un intaglio da noi notato su un lato dei blocchi, nella posizione in cui in età successiva veni-va praticato il foro per il sollevamento del lato libero

(figg 10A-B). Se è vero che questo intaglio avrebbe presumibilmente consentito in certa misura anche la spinta finale del blocco, rileviamo che per il solleva-mento del lato di contatto l’unico possibile appiglio per le leve sarebbe stato fornito dalle funi alloggiate nelle scanalature (fig 11). Un simile sistema si ac-corda con l’interpretazione dei fori a V (figg 12A-B) che compaiono sulla sommità dei blocchi dei templi arcaici immediatamente successivi rispetto a quelli

Fig. 9 – La dinamica di posa dei blocchi in età classica (disegno dell’autore) Il blocco viene portato a contatto con quello adiacente su rulli; la rimozione dei rulli e la posa richiedono il sollevamento del blocco tramite leve agenti su due punti (l’estremità inferiore della faccia libera e quella superiore della faccia di contatto), provvisti di appositi fori 1) Il blocco viene calato in posizione, e contestualmente il contatto tra le due superfici viene migliorato correggendo eventuali asperità 2) Il blocco viene spinto contro quello adiacente utilizzando una leva alloggiata in un foro sul piano di attesa inferiore

Fig. 10 – Blocchi della cella del tempio proto-arcaico di Isthmia, sul cui lato privo di scanalature si osserva, al centro dello spigolo inferiore, un intaglio presumibilmente utilizzato per alloggiare l’estremità di una leva A: reperto IA 852 B: reperti IA 851 (sotto) e IA 3576 (sopra)

A B

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di Isthmia e Corinto. Collocati nella maggior parte dei casi presso una delle facce laterali, questi fori – e le funi che verosimilmente vi si ancoravano – forni-vano infatti un appiglio per manovrare l’estremità di contatto durante la posa47 (fig 13). Una simile funzione avevano presumibilmente anche le scana-lature trasversali su un lato della faccia di posa dei blocchi dello stilobate interno nord del tempio ar-caico di Hera Akraia a Perachora. In definitiva, i pri-mi blocchi dell’architettura greca suggeriscono che già in questa fase si andava sperimentando la tecnica di posa attraverso leve poi perfezionata durante l’età arcaica e divenuta prassi in età classica. Il fatto che in Grecia le prime fasi sperimentali richiedessero oltre alle leve anche l’uso di corde appare significativo in relazione alla lunga tradizione egizia, che già dalla metà del XV secolo a.C. impiegava solo leve (come nella versione matura poi adottata dai Greci in età classica). Anche questo aspetto parrebbe infatti ca-ratterizzare gli esordi dell’architettura lapidea corin-zia come un fenomeno dalle radici locali e sperimen-tali piuttosto che importato da tradizioni esterne.

A conclusione di questa disamina, ricordiamo che il trattamento finale dei blocchi, effettuato a costruzione ultimata, prevedeva la finitura a scal-pello delle superfici esposte e la scansione della parete in una serie di campi in lieve sottosquadro rivestiti di un sottile strato di stucco chiaro (1-2 mm), delimitati da fasce probabilmente levigate per abrasione con pietre piatte (come poi da prassi in età successiva) dopo la scalpellatura, destinate ad essere rivestite di tavole o paraste lignee. In com-plesso, l’aspetto di queste prime murature, come

si può facilmente immaginare, doveva essere assai diverso da quello poi caratteristico dell’architettura classica, in cui l’apparecchio murario viene esibito con valenza estetica. Ancorché isodome e in certa misura già mature sotto il profilo costruttivo, dal punto di vista estetico le prime murature lapidee corinzie si direbbero piuttosto conservatrici nel richiamare i caratteri della costruzione in legno e mattone crudo, che fino a quel momento aveva co-stituito la norma, in Grecia, anche per l’architettu-ra templare. Paraste lignee e rivestimenti in stucco sono infatti diffusi nell’architettura straminea di età geometrica fin dal X secolo a.C., come dimo-stra il monumentale edificio di Toumba-Lefkandi, e sono ancora in uso a cavallo tra VIII e VII secolo a.C. nei templi straminei di Helike, Sparta, Halieis e Kalapodi (tempio Sud). In quest’ultimo, l’affinità estetica con i templi lapidei di Corinto e Isthmia è accentuata dalla presenza, sul lato interno delle pareti della cella, di analoghe megalografìe dipinte.

La radicale innovazione nella tecnica muraria sperimentata in Corinzia pone insomma una que-stione, quella di come declinarne la nuova imma-gine, che troverà una soluzione solo più tardi. Se rivestimenti in stucco e legno resteranno in uso in molte delle prime architetture lapidee di età arcai-ca, cosa del resto razionale per proteggere dall’e-rosione la pietra porosa e friabile impiegata so-prattutto in Grecia propria e in Sicilia, l’adozione del marmo contribuirà a consolidare la soluzione estetica della parete nuda.

*Le fotografie che illustrano il saggio sono dell’autore.

Fig. 11 – La dinamica ipoteticamente attuata per la posa dei blocchi dei primi templi di Isthmia e Corinto (disegno dell’autore) 1) Rimozione dei rulli e discesa del blocco; 2) spinta del blocco contro quello adiacente A giudicare dagli intagli in fig 9, l’estremità libera del blocco veniva movimentata attraverso leve in modo del tutto analogo a quello tipico in età classica Quanto all’estremità di contatto, invece, l’unico possibile appiglio era costituito dalle scanalature, attraverso le corde in esse alloggiate

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Fig. 12 – Fori a V in prossimità del margine della superficie di attesa di blocchi arcaici A: Blocco della cornice del tempio arcaico sull’acropoli di Micene B: blocco del secondo filare al di sopra delle fondazioni del tempio di Era Akraia a Perachora

Fig. 13 – La dinamica presumibilmente attuata per la posa dei blocchi provvisti di fori a V in prossimità del margine della superficie di attesa (disegno dell’autore) Il Sistema di sollevamento dell’estremità di contatto attraverso corde si direbbe rappresentare un’evoluzione del metodo sperimentato con i blocchi dei primi templi di Corinto e Isthmia

AbstractThe origin of Greek stone architecture has always been one of the richest topos in archaeological and historical-architectural literature. The debate is centered primarily on the myth that associates the origin of stone building with the appearance of the orders. Discussions based on archaeological evidence showing that monumental stone architecture begins in Greece well before the appearance of the architectural orders, are much less developed. In the area of Corinth, two temples constructed entirely in opus isodomum of limestone blocks appear in the first half of the 7th century BC, surprisingly much earlier than the rest of Greece. Contextualizing the nature of these early stone walls, already relatively mature in terms of technique, is of great importance to the history of Greek architecture. This essay summarizes the conclusions of a direct analysis of the findings of the Proto-Archaic temples in Corinth and Isthmia. From quarry operations to the crucial issue of lifting and the contextual development of lifting machines, to installation and finishing techniques, this contribution offers a brief look at the first Greek monumental building sites in an attempt to shed light on the historic passage from straminea construction to that in stone and the conditions that brought it about.

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Note

Il presente contributo sintetizza alcuni dei risultati di uno studio in corso sui due templi proto-arcaici di Corinto e Isthmia, che chi scrive porta avanti dal 2011 con la collabo-razione dell’American School of Classical Studies at Athens e della Direzione degli scavi di Isthmia (University of Chi-cago) e con il consenso del Servizio Archeologico Naziona-le greco (37a Eforia). Ringrazio in particolare Guy Sanders, Elizabeth Gebhard, Robin Rodes, Kostantinos Kissas e So-crates Koursoumis per aver favorito il mio accesso ai materiali archeologici e per i loro preziosi suggerimenti. Inoltre, sono grato a Jim Coulton e Manolis Korres per il loro generoso e assiduo supporto e agli altri studiosi i cui consigli hanno fornito un impulso significativo ai miei studi. Tra questi, ringrazio in particolare Dieter Mertens, Clemente Marconi, Giorgio Ortolani, Alessandro Viscogliosi e Paolo Vitti.

1 La fonte del mito è l’VIII peana di Pindaro (composto probabilmente tra il 490 e il 480 a.C.), ripreso da Pausania (X, 5, 9-12) nel II secolo d.C. Prima di Pindaro, Trofonio e Agamede sono già menzionati nell’Inno Omerico ad Apollo (294-299), composto nel VI secolo a.C.

2 Vitruvio descrive lo sviluppo tecnico dalla capanna stra-minea all’architettura in II, 1, 2-7. Sulla ripresa del tema tra XVIII e XIX secolo, si veda H.W. Kruft, Storia delle teorie architettoniche, Bari 1988, in particolare i capitoli XIII e XVI.

3 La più recente trattazione è in M. Wilson Jones, Ori-gins of classical architecture: temples, orders, gifts to the gods in ancient Greece, New Haven e Londra 2014, con bibliografia essenziale, p. 4.

4 Sia i blocchi lapidei che le tegole dei due templi sono assai simili per dimensioni e forma. I reperti furono rimossi già in antico dalla loro situazione iniziale, e le esigue tracce in situ sono di difficile lettura. Sui reperti lapidei del pri-mo tempio di Isthmia, si rimanda a: O. Broneer, Isthmia I: The Temple of Poseidon, Princeton 1971, pp. 3-56; E.R. Gebhard, F.P. Hemans, University of Chicago Excavations at Isthmia, 1989: I, in «Hesperia», 61, 1992, pp. 1-77; E.R. Gebhard, The Archaic Temple at Isthmia: Techniques of Con-struction, in Archaische griechische Tempel und Altägypten, a cura di M. Bietak, Vienna 2001, pp. 41-61; F.P. Hemans, The Archaic Temple of Poseidon: Problems of Design and Inven-tion, in Bridge of the Untiring Sea, a cura di E.R. Gebhard e T.E. Gregory Princeton, pp. 39-64. Sui reperti lapidei del primo tempio di Corinto, si vedano: S.S. Weinberg, Excavations at Corinth, 1938-1939, in «AJA», 43, 1939, pp. 592-600; M.C. Roebuck, Excavations at Corinth, 1954, in «Hesperia», 24, 1955, pp. 147-157; H.S. Robinson, Exca-vations at Corinth: Temple Hill, 1968–1972, in «Hesperia», 45, 1976, pp. 203-239; R.F. Rhodes, Early Corinthian Ar-chitecture and the Origins of the Doric Order, in «AJA», 91, 1987, pp. 477-480; Id., Early Stoneworking in the Corinthia, in «Hesperia», 56, 1987, pp. 229-232; Id., Rope Channels and Stone Quarrying in the Early Corinthia, in «AJA», 91, 1987, pp. 545-551; Id., The Earliest Greek Architecture in Corinth and the 7th-Century Temple on Temple Hill, in Co-rinth: The Centenary, 1896-1996, a cura di C.K. Williams II e N. Bookidis, Atene 2003, pp. 85-94; Id., The Woodwork of the Seventh Century Temple on Temple Hill in Corinth, in Holztragwerke der Antike, a cura di A. von Kienlin, Istan-

bul 2011, pp. 109-124. Sui reperti fittili dei due templi si segnala: P. Sapirstein, How the Corinthians Manufactured Their First Roof Tiles, in «Hesperia», 78, 2009, pp. 195-229, con bibliografia precedente.

5 Per le misure medie dei blocchi di Isthmia si vedano E.R. Gebhard, The Archaic Temple at Isthmia, cit., p. 47, e O. Broneer, Isthmia I, cit., pp. 13-33 (catalogo dei reperti lapidei). Nessuno dei blocchi di Corinto conserva le dimen-sioni originarie. Sugli aspetti dimensionali di questi blocchi, si vedano M.C. Roebuck, Excavations at Corinth, cit., p. 155, e H.S. Robinson, Excavations at Corinth, cit., pp. 225-226.

6 Sul discusso impiego di coperture in tegole fittili in età mi-cenea, si veda P. Sapirstein, How the Corinthians Manufactu-red Their First Roof Tiles, cit., p. 196, n. 6. Sull’uso di scandole fittili durante l’Antico Elladico (casa delle tegole, Lerna) si veda M.H. Wiencke, Lerna IV 1: The Architecture, Stratification, and Pottery of Lerna III, Princeton 2000, pp. 197-207.

7 Sul calcare corinzio si segnala in particolare C.L. Hayward, Corinhian Stone Exploitation and Inscribed Building accounts, in The Corinthia and the Northeast Peloponnese: Topography and History from Prehistoric Times until the End of Antiquity, a cura di K. Kissas e W.D. Niemeier, Atene 2013, pp. 63-78, con bi-bliografia precedente.

8 G. Ortolani, Lavorazione di Pietre e Marmi nel Mondo Antico, in Marmi Antichi, a cura di G. Borghini, Roma 1989, pp. 19-42, in particolare p. 28.

9 Riferimenti in J.C. Fant, Quarrying and Stoneworking, in The Oxford Handbook of Engineering and Technology in the Classical World, a cura di J.P. Oleson, Oxford 2009, p. 122.

10 R.F. Rhodes, Rope Channels and Stone Quarrying, cit.11 M. Korres, From Pentelicon to the Parthenon, Atene

1995, pp. 16-35.12 R. Martin, Manuel d’architecture grecque 1: Matériaux

et techniques, Paris 1965, p. 199.13 R.F. Rhodes, Early Stoneworking in the Corinthia, cit.,

p. 230.14 Blocchi Ar 9, 10, 12.15 Come più avanti argomentato, corde dello spessore di 1

cm sarebbero state più che sufficienti per sollevare i blocchi.16 Sul tema si veda, in particolare, J.W. Shaw, The Deve-

lopment of Minoan Orthostates, in «AJA», 87, 1983, pp. 213-216.

17 D. Arnold, Building in Egypt: Pharaonic Stone Mason-ry, New York e Oxford 1991, pp. 124-128.

18 R. Haeny, Peripteraltempel in Ägypten - Tempel mit Umgang, in Archaische griechische Tempel, cit., p. 105.

19 Sul tema si segnala E.R. Gebhard, The Archaic Temple at Isthmia, cit., pp. 47-50, cui si rimanda per la bibliografia.

20 Sintesi e bibliografia in G. Sanders et al., The Panayia Field Excavations at Corinth The Neolithic to Hellenistic Pha-ses, in «Hesperia», 83, 2014, pp. 34-35. Sull’arte lapicida co-rinzia di età geometrica si veda anche C. Pfaff, Geometric Graves in the Panayia Field at Corinth, in «Hesperia», 76, 2007, pp. 530-531.

21 Più o meno contemporanee sono le prime coperture fit-tili di Olimpia. Sintesi in P. Sapirstein, Origins and Design of Terracotta Roofs in the Seventh Century BCE, in A Companion to Greek Architecture, a cura di M.M. Miles, Chichester 2016, pp. 47-49.

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Alessandro Pierattini Origini dell’architettura lapidea in Grecia, 700-650 a C

22 Il carico di un rivestimento fittile varia tra i ca. 60 kg/m2 dei tetti etruschi di Acquarossa ai ca. 94 kg di quelli dei primi templi di Corinto e Isthmia, detti anche tetti proto-corinzi, le cui tegole sono relativamente spesse (ca. 4 cm). Il carico di un rivestimento stramineo varia tra 25 e 50 kg/m2 a seconda del materiale e dello spessore dello strato di stra-mi. Per un confronto è necessario rapportare i valori stimati nei due casi al carico per m2 in proiezione orizzontale, dal momento che la pendenza della falda (α) è sensibilmente maggiore nei tetti straminei. Dobbiamo dunque moltipli-care i diversi valori per 1/cos (α). Ipotizzando un’inclina-zione di 45°, abituale nei tetti coperti in paglia, il carico degli strami va moltiplicato per ca.1,42, il che porta ad una stima di 35-70kg/m2. Le basse pendenze dei tetti fittili non determinano invece un aumento sostanziale del carico in proiezione, e l’oscillazione risulta tra 70 e 100kg/m2.

23 La resistenza a compressione del mattone crudo è stima-bile tra i 14 e i 35 kg/cm2. Considerando un muro della sezione di 50 cm, comune negli edifici di età arcaica in Grecia e in Italia, il carico massimo per metro lineare cui esso può essere sottoposto è pari all’area unitaria (50 x 100 cm = 5.000 cm2) moltiplicata per la resistenza, che dà il risultato minimo rag-guardevole di 70.000 kg, ben al di là di qualsiasi stima del ca-rico di una copertura fittile insistente sulla superficie in esame.

24 D. Arnold, Building in Egypt, cit., p. 44.25 F.P. Hemans, The Archaic Temple of Poseidon, cit., p. 44.26 S.S. Weinberg, Excavations at Corinth, 1938-1939, cit.,

p. 595; O. Broneer, Isthmia I, cit., p. 13. Più recentemente, F.P. Hemans, The Archaic Temple of Poseidon, cit., pp. 46, 49.

27 J.J. Coulton, Lifting in Early Greek Architecture, in «JHS», 94, 1974, pp. 1-19, in particolare p. 7.

28 R.F. Rhodes, Rope Channels and Stone Quarrying, cit., p. 549. Rhodes discute inoltre disposizioni particolari delle scanalature, trattate in dettaglio in A. Pierattini, Interpreting Rope Channels, di prossima pubblicazione.

29 Cfr. W.H. Charlton, Rope and Knot-Tying in the Seafa-ring of the Ancient Eastern Mediterranean, Master Thesis Texas A&M University, 1996, pp. 16-36, 115-116; L. Casson, Ships and Seamanship in the Ancient World, Princeton 1971, p. 231.

30 W.H. Charlton., Rope and Knot-Tying, cit., pp. 20-21.31 Ringrazio Jim Coulton per aver condiviso con me i ri-

sultati dei suoi studi più recenti sul tema. 32 R. Williams, Nestor’s War Effort, in «CQ», 36.1, 1986,

pp. 280-283.33 W.H. Charlton, Rope and Knot-Tying, cit., p. 115.34 J.J. Coulton, Lifting in Early Greek Architecture, cit.,

pp. 8-9.35 Denominati V-shaped holes nella letteratura anglofona.

Si tratta di due fori sulla superficie superiore, raccordati da un tunnel.

36 C. Pfaff, Archaic Corinthian Architecture ca 600 to 480 B C , in Corinth: The Centenary, 1896-1996, cit., Athens 2003, p.107, n. 88.

37 G. Sanders et al., The Panayia Field Excavations at Co-rinth, cit., p. 39.

38 Se i paranchi, la cui prima descrizione teorica compare nelle Questioni Meccaniche dello Pseudo-Aristotele, vennero verosimilmente applicati alle macchine elevatrici verso la fine del VI secolo a.C. (J.J. Coulton, Lifting in Early Greek Archi-tecture, cit., p. 7); i verricelli potrebbero essere stati impiegati per la trazione di carichi in Corinzia già durante la tirannide di Periandro (625-585 a.C.). Cfr. M.J.T. Lewis, Railways in the Greek and Roman World, in Early Railways, a cura di A. Guy, J. Rees, Londra 2001, pp. 11-13.

39 In Egitto, strutture semplici a puleggia singola venivano già usate durante il Medio Regno. D. Arnold, Building in Egypt, cit., pp. 73-74, figg. 3.20-3.24. La più antica testimo-nianza assira di un telaio analogo è rappresentata da un rilievo del IX secolo a.C. A.G. Drachmann, The Mechanical Techno-logy of Greek and Roman Antiquity, Copenhagen e Madison 1963, p. 203.

40 Sulla tecnologia delle imbarcazioni greche tra età ge-ometica ed età arcaica, si veda L. Casson, Ships and Sea-manship, cit., cap. 4.

41 O. Broneer, Isthmia I, cit., p. 11.42 F.P. Hemans, The Archaic Temple of Poseidon, cit., p. 49.43 Ciò si evince da un lacerto di fondazione rinvenuto in

situ presso l’angolo nord-est del tempio.44 La posizione dei fori di leva sul piano di attesa indica

in genere che i blocchi venivano deposti in una posizione più o meno centrale, per poi essere traslati verso gli ango-li, da una parte e dall’altra. Ciò consentiva a due squadre di operai, servite da una singola macchina elevatrice, di la-vorare contemporaneamente alle due estremità. La recente ipotesi di Hemans (The Archaic Temple of Poseidon, cit., p. 46, fig. 3.8.) che i blocchi di Isthmia fossero stati deposti di-rettamente nella loro posizione finale non convince se con-sideriamo che persino le sofisticate macchine elevatrici ad ampia mobilità orizzontale di età ellenistica, che riuscivano a posare i blocchi in prossimità della posizione finale, sem-bra richiedessero comunque una traslazione finale su rulli (J.J. Coulton, Lifting in Early Greek Architecture, cit., p. 6).

45 Tale tecnica è illustrata con ineguagliata chiarezza in M. Korres, Μελέτη αποκαταστάσεως του Παρθενώνος. Τόμος 1, Athens 1983, pp. 105-107, e in The Parthenon: Architecture and Conservation, a cura di M. Korres, G.A. Panetsos, T. Seki, Athens 1996, pp. 98-101.

46 P. Lacau, H. Chevrier, et al , Une chapelle d’Hatshep-sout à Karnak, I, Cairo 1977, p. 9, fig. 1.0.

47 J.J. Coulton, Lifting in Early Greek Architecture, cit., p. 2.

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Se non fosse per alcuni episodi, primo fra tutti il documentato rapporto con Bramante, la figura di Maffiolo da Giussano, attestata dal 1487 al 1512, parrebbe confusa con quella di molti altri ingegneri e architetti della Milano sforzesca e francese, im-pegnati, anche senza un vero e proprio ruolo pro-gettuale, nelle pratiche della professione. L’impor-tanza di questo notaio, agrimensore, architetto e ingegnere idraulico, la cui formazione non avvenne con un percorso interno al tradizionale mondo del-le arti, ma in quello della ars mensoria, emerge poco prima del ritorno di Massimiliano Sforza, quando, dopo un viaggio a Roma, nel 1509 Maffiolo dedica al re di Francia una nuova Coreografia dell’Italia set-tentrionale e quando nel 1512 è responsabile delle opere dei francesi volte a fortificare con nuovi ba-stioni la città di Milano. La ricostruzione della sua figura permette di comporre ulteriormente la sfac-cettata azione nel campo delle arti di alcuni perso-naggi francesi, in particolare di Charles Chaumont d’Amboise1 (fig 1), e di arricchire i dati su alcuni episodi del primo decennio del Cinquecento rela-tivi al governo delle acque in Francia e in alcune regioni italiane. Tuttavia, nonostante queste pre-messe, e la fortunata disponibilità di alcune carte del suo archivio personale e professionale, ancora di recente la sua opera è stata completamente igno-rata per rincorrere, ancora una volta, i grandi pro-tagonisti.

Ingegnere del ComunePossediamo pochi riscontri documentari relati-vi ai primi anni della sua carriera2, ma nel 14863 Maffiolo è già un notaio e uno degli architetti del Comune di Milano, una carica con mansioni pre-valentemente tecniche e giuridiche nel campo degli spazi e delle proprietà pubbliche, nel settore edili-zio, amministrativo e in quello idraulico, che non dispensava diritti economici, ma riconosceva una sorta di abilitazione a svolgere incarichi ‘pubblici’. Questa nomina a ingegnere o architetto non sem-pre era indipendente dalla pluralità di percorsi for-mativi nelle diverse arti (pittore, magister a muro,

Maffiolo da Giussano, un «amico lombardo» di BramanteFrancesco Repishti

intagliatore ligneo, lapicida o scultore) e privilegia-va soprattutto coloro i quali già svolgevano la pro-fessione di agrimensori; l’iscrizione al numero degli ingegneri seu architetti (esecutori di atti con ricono-scibilità amministrativa e giuridica) era sottoscritta dal vicario del Tribunale di Provvisione su richiesta esplicita del soggetto e dopo un parere richiesto ad altri colleghi sulla «eius sufficentia et probitate et longa experentia»4. Maffiolo figura così sia tra gli ingegneri del Comune, sia tra gli agrimensori, dal-la fine del Quattrocento elencati nelle edizioni dei Dies utiles5 pubblicate con i professionisti abilitati ad operare e ad esercitare la professione di periti pubblici6.

Fig. 1 – Andrea Solari, Ritratto di Charles II d’Amboise, 1507 circa; Paris, Musée du Louvre.