Piccola storia delle avanguardie

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Mucchi Editore Fausto Curi Piccola storia delle AVANGUARDIE da Baudelaire al GRUPPO 63

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Piccola storia delle avanguardie. Da Baudelaire al GRUPPO 63 di Fausto Curi

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Il Gruppo 63 è stato, e non solo per l’Italia, l’ulti-ma, estrema manifestazione della cultura d’a-vanguardia. Nel cinquantesimo anniversario della fondazione del Gruppo giova ricordare che esso, attraverso le discussioni e i dibattiti dei suoi membri, dei quali sono stati forniti anche di recente ampi e precisi ragguagli a stampa, e attraverso la pubbli-cazione dei loro libri, ha elaborato una cultura pro-fondamente nuova che, al tempo stesso, si nutriva delle opere e delle sollecitazioni più fertili prodotte dalle precedenti avanguardie. Per questo il pre-sente opuscolo di Fausto Curi traccia una rapida ma totalmente comprensiva storia dei movimenti d’avanguardia guardati attraverso i loro protago-nisti, a partire da Baudelaire, primo vero scrittore della modernità, passando per Rimbaud, Mallar-mé, Lautréamont, soffermandosi su Pound, Eliot e Joyce e giungendo fino a Marinetti, Tzara e Breton. In questo contesto le ragioni e i modi del Gruppo 63 risultano alla fine storicamente forniti di più salde ed evidenti motivazioni. Non sfuggono all’attenzio-ne dello storico i protagonisti delle avanguardie pittoriche, musicali e cinematografiche come, per esempio, Picasso, Braque, Kandinski, Duchamp, o Schönberg, Berg, Webern, o Buñuel e Clair. Una densa bibliografia essenziale conclude l’opuscolo.

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Fausto CuriPiccola storia delleavanguardie

da Baudelaire al GRUPPO 63

Fausto Curi

Piccola storia delle avanguard

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isbn 978-88-7000-602-5

9 788870 006025 € 7,00 i.c.

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Fausto Curi

Piccola storia delle avanguardieda Baudelaire al Gruppo 63

Mucchi Editore

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isbn 978-88-7000-602-5

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I edizione pubblicata in Modena nel 2013

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Il fine e il carattere di questo opuscolosono puramente divulgativi e didascalici.Per eventuali approfondimenti criticisi rinvia alla Bibliografia essenziale.

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“Che «tutto continui così» è la catastro-fe”. Questa frase di Walter Benjamin cor-risponde così perfettamente alla odierna situazione politica italiana da lasciare stu-pefatti. Il pericolo non viene dunque tanto dai mutamenti e dalle trasformazioni, che pure, quando ci sono stati, sono stati tutti di segno negativo. Il pericolo viene dall’immo-bilità e dalla ripetizione. Il pericolo viene dal fatto che il nuovo, quando non è un peggio-ramento dello stato precedente, altro non è che un suo stanco prolungamento. Mi pare che non lo si noti abbastanza ma il nuovo più infame e più deleterio, se non fosse il più ridicolmente assurdo, è, oggi, in Italia, Ber-lusconi che si presenta come il salvatore del-la patria, colui che ha soprattutto a cuore gli interessi del Paese. La catastrofe, dunque, non è una minaccia, la catastrofe è qualco-sa in mezzo alla quale viviamo da tempo. Qualcosa alla quale sopravviviamo perché siamo così assuefatti al disastro e allo schi-

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fo da accorgerci appena che fa schifo. Atten-zione però: c’è qualcuno che alla catastrofe non si è assuefatto perché non può permet-terselo. Il giorno in cui verrà meno anche il pochissimo di assuefazione che gli è rima-sto, verrà meno anche la catastrofe. Allora il nuovo nascerà davvero. Non sappiamo però che forma avrà e se ci piacerà.

La frase di Benjamin indica perfetta-mente anche la situazione da cui nasce l’a-vanguardia. La quale è dunque prima di tut-to una rottura della continuità, un’inter-ruzione volontaria della normalità e della stabilità. Ed è un’interruzione globale, che non riguarda solo la letteratura, ma aspira a investire tutte le arti e, al di là di queste, tut-te le istituzioni, politiche, sociali, economi-che. Per questo non sempre si dà avanguar-dia, quando sembra che vi sia avanguardia.

Da un punto di vista storico, si è soliti far iniziare l’avanguardia da Baudelaire. Ma Baudelaire non è propriamente un poeta d’avanguardia, anche se con lui incomincia-no una condizione dello scrittore, e un com-portamento dello scrittore, che in un breve

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volgere di anni porteranno all’avanguardia vera e propria. In un capitolo del suo sag-gio intitolato Il pittore della vita moderna, tracciando il profilo di quello che egli chia-ma il dandy, Baudelaire ha perfettamente prefigurato il profilo dello scrittore d’avan-guardia. Il dandy, per Baudelaire, non è il personaggio ozioso, amante del lusso e pre-occupato soltanto dell’eleganza della pro-pria persona al quale di solito quella deno-minazione rinvia. I dandys sono una sorta di comunità, una “casta”, dice precisamen-te Baudelaire, costituita da uomini “disgus-tati”, “declassati” e “disoccupati” che si collo-cano all’“opposizione” e aspirano alla “rivol-ta”. Il dandy è all’“opposizione” della classe dominante, cioè della borghesia, perché è “disgustato” dal suo comportamento ban-ale, volgare e repressivo, mentre il cittadi-no che sarebbe un giorno diventato un dan-dy si era illuso, in un primo momento, che i borghesi potessero amare e proteggere le arti. Il dandy è inoltre un “declassato”, cioè non ha più una classe di appartenenza, o perché da essa è stato espulso o perché ne è

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uscito volontariamente. Dunque è un uomo socialmente libero, anche se porta il peso di quella libertà. Infatti è un “disoccupato”, nel senso che, essendo un “declassato”, è sta-to privato di ogni mandato sociale, cioè di ogni funzione all’interno non soltanto della propria classe d’origine, ma dell’intera soci-età, o a quel mandato ha rinunciato per suo conto. Non è tanto un ritratto, quello forni-toci da Baudelaire, quanto un autoritrat-to, o meglio, per usare una nota definizione di Starobinski, un “autoritratto travestito”, mediante il quale il poeta rappresenta la pro-pria condizione, che è socialmente e cultural-mente nuova in quanto egli non è più, come era ancora in quegli stessi anni in Francia un poeta come Victor Hugo, un rappresentante della classe borghese, perfettamente inte-grato nelle idee e nei valori di quella classe, ma è all’“opposizione” e in “rivolta” contro di essa, da essa completamente dissociato. Si pensi a ciò che questo significa. Si pensi a ciò che per secoli la poesia ha quasi sempre significato per la classe dominante, abitua-ta a considerare gli scrittori, e segnatamente

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i poeti, come propri cortigiani. Trattati con maggiore o minore riguardo, essi erano pur sempre al servizio dei potenti. E, come è noto, si trattava non di rado di grandi poeti: Ariosto, Tasso, Racine, La Fontaine. Dopo la Rivoluzione francese, salita al potere la borghesia, la condizione del poeta si fa cer-tamente più libera, ma non lo è mai total-mente. Per essere libero Hugo deve sceg-liere l’esilio. E la vita del borghese Foscolo è sempre libera ma precaria. Mentre precar-ia non è, se non per scelta, la vita del conte Alfieri, del conte Manzoni, del conte Leop-ardi. Libero ma integrato: così può riassum-ersi la condizione del poeta postrivoluzion-ario. Libero e non integrato è invece Baude-laire, che, si narra, si aggira per Parigi coper-to di stracci e quasi sempre pieno di debiti, tranne quando la sua fitta collaborazione ai giornali gli concede un po’ di respiro. Il gior-nalismo, divenuto una vera e propria profes-sione, è infatti spesso il segno della nuova condizione del libero scrittore.

L’“autoritratto travestito” delineato da Baudelaire nel Pittore della vita moder-

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na non ci dice tutto su di lui e sulla prefi-gurazione del poeta d’avanguardia. Giacché occorre guardare a un episodio fondamen-tale della vita di Baudelaire per intendere appieno quella prefigurazione. Non si trat-ta, ora, di letteratura, o meglio, non si trat-ta soltanto di letteratura. Il 20 agosto 1857, a pochi giorni dall’uscita del suo capolavo-ro, I fiori del male, la sesta Camera correzio-nale di Parigi, su segnalazione del Ministe-ro dell’Interno, condanna Baudelaire a 300 franchi d’ammenda e soprattutto a soppri-mere sei componimenti del libro. Sua col-pa: “oltraggio alla morale pubblica”. Fac-ciamo attenzione, non siamo di fronte a un incidente di scarso rilievo. Siamo di fronte a un evento storico e simbolico che segna indelebilmente la modernità letteraria. Che i despoti e i potenti abbiano sempre guar-dato con sospetto il lavoro intellettuale è cosa nota. Che abbiano perseguitato scritto-ri e filosofi fino al punto di gettarli in gale-ra e a volte di mandarli a morte innocenti, è cosa altrettanto nota: da Giordano Bruno ad Antonio Gramsci. Ma si trattava, appun-

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Il Gruppo 63 è stato, e non solo per l’Italia, l’ulti-ma, estrema manifestazione della cultura d’a-vanguardia. Nel cinquantesimo anniversario della fondazione del Gruppo giova ricordare che esso, attraverso le discussioni e i dibattiti dei suoi membri, dei quali sono stati forniti anche di recente ampi e precisi ragguagli a stampa, e attraverso la pubbli-cazione dei loro libri, ha elaborato una cultura pro-fondamente nuova che, al tempo stesso, si nutriva delle opere e delle sollecitazioni più fertili prodotte dalle precedenti avanguardie. Per questo il pre-sente opuscolo di Fausto Curi traccia una rapida ma totalmente comprensiva storia dei movimenti d’avanguardia guardati attraverso i loro protago-nisti, a partire da Baudelaire, primo vero scrittore della modernità, passando per Rimbaud, Mallar-mé, Lautréamont, soffermandosi su Pound, Eliot e Joyce e giungendo fino a Marinetti, Tzara e Breton. In questo contesto le ragioni e i modi del Gruppo 63 risultano alla fine storicamente forniti di più salde ed evidenti motivazioni. Non sfuggono all’attenzio-ne dello storico i protagonisti delle avanguardie pittoriche, musicali e cinematografiche come, per esempio, Picasso, Braque, Kandinski, Duchamp, o Schönberg, Berg, Webern, o Buñuel e Clair. Una densa bibliografia essenziale conclude l’opuscolo.

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isbn 978-88-7000-602-5

9 788870 006025 € 7,00 i.c.