Piatti e prodotti tipici della provincia di Salerno

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alla scoperta del gusto e dei sapori dei prodotti della terra, dal mare alla montagna, un viaggio gastronomico nella provincia di Salerno

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Le antiche e consolidate tradizioni enogastronomiche rappresentano un’impor-tante componente del patrimonio alimentare e culturale del Salernitano. Lariscoperta della dieta mediterranea ha esaltato ancora di più la valenza di quel-le che possono essere definite autentiche prelibatezze. Il filo rosso della conti-nuità con il passato si rintraccia nelle colture tipiche dell’habitat agricolo delMediterraneo e nell’elaborazione di piatti che associano alla piacevolezza delgusto notevoli proprietà organolettiche. Né può essere sottovalutato il proces-so di riaggregazione di percorsi “artigianali” e produttivi che emerge dalla ritro-vata capacità di recuperare materie prime e metodologie di lavorazione allabase di un successo di profilo internazionale.Sullo sfondo prende sempre più consistenza la consapevolezza della fondamen-tale importanza per l’economia salernitana del comparto agroalimentare, prin-cipale riferimento per l’attivazione di dinamiche di crescita e di sviluppo ancheoccupazionale.La Provincia di Salerno ha già avviato, riscuotendo risultati concreti, una politi-ca di valorizzazione e di promozione del settore ponendo in primo piano l’esi-genza di tutelare ed adeguatamente inserire nei circuiti commerciali nazionalied esteri la produzione di tutte quelle aziende che hanno intrapreso con lungi-miranza la strada del miglioramento qualitativo.In tale contesto diventa trainante e decisiva la capacità di veicolazione di quel-lo che non a torto può essere definito un vero e proprio giacimento economicoin grado di ampliare significativamente anche il profilo dell’offerta turistica nelnostro territorio.

Angelo VillaniPresidente della Provincia di Salerno

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Editore, direttore editoriale e artisticoMariano Grieco

Coordinamento scientificoTeobaldo Fortunato

Direttore responsabileDario Coviello

Relazioni esterneErsilia Ambrosino

Testi:Simona Mandato

Foto:Alfio Giannottie Archivio Altrastampa

Progetto grafico Altrastampa

Copertina Limoneto ad AmalfiFoto: Alfio Giannotti

Si ringraziano per la preziosa collaborazione:Marco e Luigi Aceto, Letizia Braggio,Giuseppe e Rosanna Cricchio,Pasquale Cammarano, Giuseppe Cobalto,Bianca Cosenza, Rosario Costantino,Pantaleo De Luca, Sig. De Mattetis,Gennaro D’urso, Michele Gaggia,Carmine Granito, Michele Iacullo,Francesco Innella, Paola Margarita,Pasqualina Marino, Antonio Martuscielli,Linuccia Monaco, Vincenzo Monaco,Sig.ra Morena, Giuseppe Morese,Francesco Petrosino, Vittorio Rambaldo,Gaetana Rubino, Caterina Stellato,Alfonso Tufano, Oscar Zonzi

CAMPANIA FELIX®

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Itinerario enogastronomiconella provincia di Salerno

Sapori di terra e di mare

Numero specialeItinerario enogastronomico

nella Provincia di Salerno

• I LUOGHINumeri telefoniciricavati dalla Guida MonaciAnnuariodella Regione Campania

• Salerno089.661111

• Acerno089.9821211

• Agropoli0974.823094

• Amalfi089.8736211

• Aquara0828.962003

• Battipaglia0828.677111

• Bellosguardo0828.965026

• Buccino0828.752311

• Camerota0974.920211

• Campagna0828.241211

• Campora0974.944004

• Capaccio0828.812111

• Casaletto Spartano0973.374285

• Castel San Lorenzo0828.944066

• Cetara089.261068

• Cicerale0974.834021

• Colliano0828.992711

• Conca dei Marini089.831301

• Controne0828.772023

• Corbara081.913811

• Felitto0828.945028

• Furore089.874100

• Giffoni Valle Piana089.9828711

• Gioi0974.991026• Maiori089.814211

• Nocera Inferiore081.8005111

• Nocera Superiore081.931676

• Ogliastro Cilento0974.833004

• Padula0975.77002

• Pagani081.8009111

• Pertosa0975.397028

• Pisciotta0974.973035

• Pollica0974.901421

• Praiano089.874026

• Ravello089.857122

• Ricigliano0828.953016

• Roccadaspide0828.948224

• San Gregorio Magno0828.955328

• San Marzano081.955143

• Sapri0973.605511

• Sarno081.8007111

• Scafati081.8507300

• Serre0828.974900

• Siano081.5183811

• Stio0974.990034

• Tramonti089.856811

• Provincia di Salerno089.6141111• Parco Nazionaledel Cilento e Vallodi Diano0974.719911

S o m m a r i OS o m m a r i OSalerno e la Costiera Amalfitana

4L’Agro Sarnese-Nocerino

13I Picentini, l’interno, il Vallo di Diano

18Tra monti e mare, il Cilento

27Vini D.O.C. e I.G.T.

38L’olio extravergine di oliva D.O.P.

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ca, la rosola in padella e poi lacuoce a lungo nell’aceto, in mododa stemperare il forte sapore dellamilza. La pietanza viene tagliata afette trasversali che vanno adinsaporire il pane, assieme al sugoprodotto dalla cottura.Città di mare - San Matteo è an-che protettore dei pescatori, loricordano le tre triglie d’argentoche il Santo tiene in mano comeex voto - Salerno è contornata dafertili colline: anche il toponimodel quartiere Pastena ricorda chequi si “pastinava”, ovvero si colti-vavano legumi e ortaggi. I prodot-ti su cui potevano contare le cuo-che cittadine, a prezzi alla loroportata, erano quindi pesce e ver-dure, che spesso riuscivano a com-

binare in fantasiosi abbinamenti.Quei favolosi Totani con le patateo quelle saporitissime, eppuresemplicissime, Seppie con i pisel-li possono essere considerati all’o-rigine degli accostamenti di maree orto, che oggi osano i miglioricuochi campani. Altrettanto semplice ma efficacein tavola è la Cianfotta, un mistodi patate, melanzane e peperoni (ilTalarico della “Gastronomia saler-nitana di ieri e di oggi” suggerivaquelli più saporiti di Nocera), frittio cotti al forno con olio, pomodo-ro, cipolla e peperoncino: un primoconsistente, che fonde diversisapori della terra. La cianfotta èsolo uno dei tanti piatti salernita-ni a base di melanzane: su tutti

domina, regina incontrastata, laParmigiana, che si distingue daquella napoletana per la doppiafrittura delle verdure, la secondadelle quali avviene dopo aver pas-sato le fette del violaceo ortaggionella farina e poi nell’uovo sbattu-to con formaggio, sale e pepe.Varianti della parmigiana tipichedi questa provincia sono quelle abase di zucchine o di carciofi. Nei mercati si trovano ancora nondi rado le maruzze, le Lumache diterra, che lessate e poi fatte all’in-salata o al sugo hanno costituitoper secoli l’elemento base di piat-ti, anche in questo caso modestima deliziosi, che davano allapopolazione un considerevole ap-porto di proteine.

Avventurarsi nella descrizione deiprodotti tipici e della gastronomiadella provincia di Salerno è stataimpresa non facile: ha significato“odorare, assaggiare, gustare” pre-libatezze tanto differenti quantovario ed esteso è il territorio - dallaValle del Sarno alle estreme pro-paggini del Cilento - attraversandoterre di costa e di colline, laddovecambiano sapori e tradizioni. Gentie varietà colturali diverse traman-date da un tempo remoto; si consi-deri che la memoria scritta comin-cia, in questi luoghi, sei secoliprima di Cristo. La fertilità delsuolo ha avuto un ruolo determi-nante, la pescosità del mare su cuisi affaccia tanta parte del territo-rio salernitano, hanno fornito gliingredienti fondamentali per lapreparazione di pietanze che oggivengono riproposte.È stato arduo dunque, ma indi-spensabile, operare una selezionedei prodotti di cui parlare: la tiran-nia di spazi e tempi concessi oanche scelte dettate talvolta dalgusto? Non ce ne vogliate se alcu-ne prelibatezze, talora troppolocali, non sono state “assaggiate”!Il senso di questo itinerario è quel-lo di indurre il lettore ad appagare,durante brevi o prolungate escur-sioni, la vista con scenari paesag-gistici incomparabili o monumentiunici, coniugandoli, mediante l’ol-fatto ed il gusto, con le meravigliedella tavola.Iniziamo il nostro viaggio alla sco-perta di memorie e sapori propriodal capoluogo di questa provincia,Salerno, immergendoci e facendocicoinvolgere in una manifestazionepopolare antica e corale, la festa diMatteo, il Santo Bifronte.

Pesci, limoni e fantasiaSalerno e la Costa d’Amalfi

in cucina

Dopo aver percorso la principalevia Mercanti, di corsa i portatoridella statua d’argento risalgono lavia che porta al Duomo, e cosìanche le scale antistanti l’ingressoal portico normanno della catte-drale, a dimostrazione della loroimmensa fede. Qui gli uomini ese-guono, quasi con la leggiadria di

una danza, qualche allegra rotea-zione: è il saluto di San Matteoalla popolazione di Salerno, cuiimpartisce le ultime benedizioniprima di rientrare nel tempio.Quello del 21 settembre è un ritoche annualmente coinvolge i cit-tadini per le principali strade dellacittà antica, in un gioioso e sono-ro giro insieme al Santo Patrono.Dopo la processione, è d’obbligouna fetta di mèveza ‘mbuttunatain mezzo al pane. La Milza imbot-tita è la pietanza per eccellenza diSan Matteo: quel profumo acre sisprigiona da ogni vicolo della cittàmedievale, molti negozi la espon-gono, la mente - quella parte incui risiede la memoria olfattiva -ricollega a quel profumo la festa

cittadina per eccellenza.Un piatto povero, molto povero:una parte del vitello che altrimen-ti si dà a cani e a gatti, qui, inqualche remoto tempo di stentiveniva recuperato. D’altra parte, lamaggior parte delle pietanze dellagastronomia salernitana è nata neltentativo di insaporire piatti mo-desti, spesso dando origine ameravigliose combinazioni. La pre-parazione parte dalla milza di bue,di vitella o di manzo, che la mas-saia della città ippocratica ripuli-sce da tutti i filamenti che la rico-prono; tagliatala trasversalmente,così da trasformarla in una sacca,la riempie con tanto prezzemolo,aglio, mentuccia, peperoncino esale. Con ago e filo richiude la tas-

In questa pagina.Salerno,

il porticonormanno

del Duomo diSan Matteo.

Pagina seguente.La milza ripiena.

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Sapori di terra e di mareItinerario enogastronomico nella provincia di Salerno

testo: Simona Mandatofoto: Alfio Giannotti

e archivio Altrastampa

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sulle tracce di antichi e moderniproduttori di ceramiche, si giungea Cetara, un antico affastellamen-to di case, e campanili smaltati diverde e di giallo. La conformazione dell’insenaturain cui sorge il paese, naturalmenteriparata dalle correnti, crea la con-dizione ideale per l’attracco diimbarcazioni. Se ne accorsero an-che i monaci della vicina abbaziadi Cava de’ Tirreni, che ne acquisi-rono il porto nel 1120 allo scopo diutilizzarlo come scalo per i com-merci che intrattenevano in tuttoil Mediterraneo. Oltre che naviga-tori però, gli abitanti di Cetarasono stati da sempre anche pesca-tori: lo testimonia il toponimo che,qualsiasi interpretazione etimolo-gica se ne voglia dare, fa riferi-mento a pesci o alla loro lavora-zione. Da secoli sono rinomate leAlici sotto sale di Cetara, da sem-pre catturate in grandi quantitànelle prolifiche acque prospicientila costa dell’antica Repubblica diAmalfi. Per conservare questi pela-gici saporiti e ricchi di proteinepescati nei mesi primaverili edestivi, si rendeva necessario sotto-porli a salagione. Nei secoli, iCetaresi hanno elaborato un me-todo di lavorazione che si traman-da di padre in figlio, fino ad oggi.Le alici scapezzate, ossia private ditesta ed eviscerate a mano, vengo-no costipate nei terzigni, piccolebotti in rovere, che hanno doghescollate e non sono quindi più ido-nee a contenere il vino; il sale inabbondanza tra uno strato e l’altroconsente di eliminare i liquidi con-tenuti nel pesce. Ma antichesapienze suggeriscono di non get-tar via la parte acquosa che se neestrae. Nel Medioevo, i monaci cistercen-si della canonica di San Pietro aTuczolo di Amalfi scoprirono chequesto fluido, ricco delle sostanzecontenute nelle alici maturate permesi sotto l’effetto del sale, eramolto saporito, e somigliava moltoad una salsa tradizionalmenteusata in cucina dai Romani. Dalledescrizioni tramandate nel De recoquinaria dal cuoco latino Apicio,infatti, emerge che nei sontuositriclini, agli inizi dell’Impero, sucarne, verdure e uova si facevaampio uso di garum, un condi-mento ricavato dagli umori delpesce, rilasciati nel corso della suamacerazione sotto sale, insieme anumerosi aromi e spezie. Quella che è arrivata fino a noicon il nome di Colatura di alici èperò, la ricetta cistercense, oggicristallizzata in un disciplinare diproduzione che ne riconosce ilvalore di prodotto tradizionale dasalvaguardare. Attraverso una gra-duale pressione esercitata dall’alto

Lavorazionedelle alici sottosale a Cetara.

Un’altra specialità povera delletavole salernitane sono le Laganecon i ceci, una pietanza che riescesuperlativa se si usano i legumi diCicerale. Laganon o lasanon eranole strisce di impasto d’acqua efarina che gli antichi Greci arrosti-vano o friggevano prima di immer-gerle nella zuppa. Entrambe le ver-sioni linguistiche sono pervenutefino a noi: le lagane che qui siaccostano ai ceci, e le più notelasagne. L’impasto è rimasto lostesso, che ridotto a sfoglia vienetagliato in strisce di una ventina dicentimetri e larghe uno. Nei cecilessati a lungo e poi cotti insiemea olio, aglio e prezzemolo, si ag-giungono le lagane.L’accostamento è particolarmentesaporito, lo stesso Orazio, cheamava la vita semplice e rustica,descrisse il piacere di tornare acasa dopo una giornata di lavoroper mangiare una scodella di porri,ceci e lagane, “porri et ciceris laga-nique catinum”. Per i giorni della festa, invece,l’abbondanza è d’obbligo. Al pran-zo natalizio trionfa il Brodo dicappone, cotto con un’imbottiturafatta con le stesse interiora delvolative, uova, formaggio e pepe;tolto il cappone, nella sua acqua sicuoce la cicoria, che viene servitaassieme al brodo. Il pranzo si con-clude con la frutta secca, in parti-colare i fichi del Cilento, e i dolci. ICalzoncelli (o Calzoncini, come lichiama Talarico) sono la ghiotto-neria che si scambia tra famiglie:pasta sfoglia tagliata a cerchi datrasformare in tasche, per acco-gliere un impasto a base di casta-gne lessate e sbucciate, e ciocco-lato disciolto, oltre a vino cotto,canditi, uva passa e pinoli. Fritti easciugati, si servono ricoperti dimiele e di coloratissimi diavolini,una leccornia per grandi e piccini.Oggi, tutti questi piatti della tradi-zione, rivalutati dopo un venten-nio o più di ripudio in favore dipiatti più nobili, si gustano nelletrattorie storiche o nei ristorantiche hanno fatto del recupero dellamemoria gastronomica di Salernoil loro credo.

•••Il “metrò del mare” consente diraggiungere la Costiera Amalfita-na evitando il traffico della stradalitoranea, al tempo stesso godendouna prospettiva particolare di baieed insenature, quella che conob-bero i viaggiatori europei di Settee Ottocento, spesso ritratte neiloro romantici schizzi. Il riflessodisegna un’ideale continuazione dimontagne e borghi nelle acquemarine, li fa vivere oltre se stessi eoltre il brusìo dei turisti d’estate.Vietri è la prima perla che s’incon-tra tra queste falesie; proseguendoI calzoncelli.

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di Polvica di Tramonti, pocodistante da Maiori: le Melanzaneal cioccolato. Lungo ed elaboratoè il procedimento che permette diottenere questo squisito dessert:le fette di melanzane vengonofritte una prima volta, poi infari-nate e indorate nell’uovo, e nuova-mente fritte. È di rilevante impor-tanza che ogni volta le si facciaasciugare ben bene dall’olio difrittura, per evitare di rovinare ilrisultato. Le fette vengono poiimmerse in una salsa di cioccolata,acqua e zucchero, e disposte in untegame. Tra uno strato e l’altro,noci e mandorle tritate, pinoli,cedronata e, a gusto, anche altricanditi. Alcuni aggiungono allasalsa di cioccolato anche ilConcierto, l’infuso di erbe locali espezie orientali che gli stessimonaci di Polvica producevano.Il profilo della Costiera Amalfitanaè definito dalla miriade di maceri-ne, i terrazzamenti disseminatilungo tutto il territorio scoscesodei Monti Lattari, limitati damuretti a secco faticosamentecostruiti, e in gran parte coltivati alimoni. Tra le impalcature di pali dicastagno emergono le verdissimechiome delle coltivazioni diSfusato, come è chiamato, per lasua forma affusolata, l’agrumecoltivato in questo territorio.

Già dal X secolo i declivi dellacosta venivano lavorati per dareposto a queste piante, la cui colti-vazione fu importata, con moltaprobabilità, dall’Oriente arabo at-traverso la Sicilia, porti e popolicon i quali i navigatori dellaRepubblica intrattenevano intensitraffici. Ma lo sfusato è il risultatodi innesti realizzati con il cetran-golo, l’arancia amara anticamentemolto diffusa sul territorio amalfi-tano. Da secoli, i “giardini di limo-ni” non solo definiscono il paesag-gio, ma anche l’economia di que-sta favolosa striscia di terra: gliagrumi venivano esportati neipaesi nord-europei, perché furonoriconosciuti ottimi nella lotta alloscorbuto, una malattia tipica deinavigatori, derivante dalla man-canza di vitamina C. Per questomotivo, Amalfi decretò che abordo delle sue navi dovesse sem-pre essere presente un carico dilimoni. La conferma scientifica allededuzioni empiriche del passato èvenuta da recenti studi, che hannoevidenziato come questa varietà dilimone sia tra le più ricche di acidoascorbico, ossia vitamina C.Oggi lo storico agrume è protettodalla denominazione LimoneCosta d’Amalfi Igp, le cui caratte-ristiche sono quelle già descrittenel 1646 dal botanico G.B. Ferrari:

oltre alla forma ellittica allungatadi dimensioni medio-grosse, ilLimon Amalphitanus ha una buc-cia ruvida e verrucosa di mediospessore, dal colore giallo citrino econ la punta sporgente; l’intensoaroma deriva dalla quantità di olioessenziale contenuto nella scorza;la polpa è invece povera di semi, ilsucco abbondante e piacevolmen-te aspro. Per lunga tradizione que-sto frutto fa parte integrante dellagastronomia locale, dagli antipastiai dolci: l’impiego più tipico e altempo stesso semplice è all’insala-ta, fatta con fettine di limone earancia condite con olio, sale eaceto. Antipasti di mare, linguine epesce sono preparati con il succo ola buccia grattugiata, mentresaporitissimo è il fior di latte cuci-nato assieme alle foglie dello sfu-sato. Da annaffiare rigorosamentecon vini Doc Costa d’Amalfi, pro-dotti sulle irte pendici di Furore,Tramonti e Ravello.La Delizia al limone è la soaveconclusione dei pranzi amalfitani:una forma semisferica di pandi-spagna, riempita e ricoperta conuna delicata crema al limone, checonquista senza esitazione il pala-to di turisti e abitanti del luogo.Questi ultimi maliziosamente lachamano ‘a zizza ‘e monaca, asso-ciandone la forma a quella del

della botticella, le parti liquideprodotte dalla fermentazione dellealici sotto l’azione del sale, salgo-no in superficie: vengono recupe-rate e in boccioni esposte alla lucediretta del sole, così che la parzia-le evaporazione ne consenta unamaggiore concentrazione.Quando, fra ottobre e novembre, leacciughe sono pronte, il liquidoviene versato nuovamente nel ter-zigno, così da arricchirsi dei sapo-ri acquisiti dal pesce attraverso lamaturazione. Praticando un forosul fondo della botticella, si racco-glie il pregiato fluido, che sarà poifiltrato attraverso imbuti di lino. Ilrisultato è un distillato dal coloreambrato scuro e dal sapore moltointenso, da usare in piccolissimedosi per rendere più raffinati alcu-ni piatti di pesce.In ogni casa cetarese si produce lacolatura, ed è usanza farne donoper Natale a parenti e amici che lautilizzano per condire linguine espaghetti. La produzione casalingacostituisce però una versione sem-plificata di quella più “nobile” ecomplessa degli antichi frati: lealici sono messe in cappucci dilino a “colare” i loro preziosiumori. Abili e rinomati pescatori, iCetaresi usavano anche andare acaccia di tonni. Fino al XIX secolo,usavano la cosiddetta “tonnara”,

una lunga rete dalle maglie moltoresistenti, fatta di canapa e sparto,fermata sul fondale da mazzere edancore, e tenuta a galla medianteun sistema di sugheri. Questegigantesche reti venivano dispostein modo da formare una serie diambienti subacquei, comunicantifra loro mediante delle “porte”, incui i pesci venivano intrappolati econdotti fino alla camera dellamattanza. Alla fine dell’Ottocentoerano ancora in funzione le tonna-re di Conca dei Marini e VetticaMinore. La tradizione della pescadel Tonno si è tramandata fino adoggi: i mezzi sono chiaramenteevoluti, e per tonnara oggi s’inten-de la grossa imbarcazione attrez-zata per questo particolare tipo dipesca; solo la trasformazione deltonno non fa più parte delle tradi-zioni della Costiera Amalfitana,che invece vende grossi quantita-tivi del pregiato prodotto ittico aiGiapponesi.Tra le specialità a base di pesceche si assaggiano sulla costa diAmalfi, gli Scialatielli ai frutti dimare non rappresentano, in realtà,un piatto della tradizione locale,sebbene siano qui offerti daimigliori ristoranti. La loro origine ècalabrese, ed un rinomato cuoco liha introdotti pochi anni or sono inversione “marinara” sul territorio

amalfitano, contribuendo così adinnovarne la gastronomia. Un tipo di pasta che appartiene,invece, alla cucina tradizionalelocale sono gli ‘Ndunderi: la loroorigine risale alla polenta caseatadi farro che mangiavano i Romani,ovvero un impasto di farina difarro con il latte cagliato median-te lattice di fico, poi ridotto a pic-cole palline che si cuocevano inacqua bollente; quando la patata -importata dalle Americhe - sosti-tuì il latte, se ne ricavarono glignocchi. Oggi gli ‘ndunderi sifanno con farina e ricotta vaccina,si condiscono con un sugo a basedi pomodorini e scamorza, e costi-tuiscono il piatto tipico dei festeg-giamenti di Santa Trofimena aMinori. A Maiori invece, patronadella città è l’Assunta: nel XIIIsecolo, dopo che una nave prove-niente dalla Siria aveva scaricato amare alcune balle per alleggerire ilsuo carico, i pescatori Maioresiritrovarono impigliata tra le retiuna bella statua lignea dellaMadonna. Da allora, il 15 agosto sifesteggia Santa Maria del Mare, eben presto si scelsero le pietanzeper i festeggiamenti in suo onore.Oltre alla mèveza, come per SanMatteo a Salerno, le fu dedicatoun dolce particolare, inventato daimonaci francescani del convento

Colatura di alicia Cetara.

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Limoneto adAmalfi.

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seno femminile.La tradizione campana dei “rosoli”,gli infusi ricavati da diversi frutti ofoglie, ha colto nella ricchezzaaromatica della buccia del limonedi Amalfi il potenziale per un pro-fumato digestivo: una ricercadell’Università di Salerno ha dimo-strato che, rispetto a qualsiasialtra specie, nel suo flavedo è rac-chiuso quasi il doppio di compostiossigenati. Si mettono in infusionenell’alcool puro le scorze, preleva-

te dal frutto con l’accortezza dinon tagliare anche il “pane” bian-co, che darebbe un gusto amaro-stico al prodotto. Dopo una decinadi giorni di macerazione, si diluiscecon acqua e zucchero, e se neottiene un prodotto da consumaremolto freddo, il Limoncello, cherisulta rinfrescante e digestivo altempo stesso, e che negli ultimianni spopola in tutto il mondo.Anche i tradizionali Babà vengonoinondati di limoncello piuttosto

che di rhum, dando vita ad unaversione amalfitana del dolce tra-dizionale partenopeo.Nel silenzio del Convento domeni-cano di Santa Rosa, arroccato tragelsi e carrubi sulle alture allespalle di Conca dei Marini, lemonache cucivano e cucinavano.Mescolando semola, latte dolcifi-cato e frutta secca rigenerata nelrosolio, ricavarono un deliziosoimpasto; chiuso in una sfoglia dipasta frolla arricchita di strutto,

In questa pagina.In alto:

limonetoin Costiera

Amalfitana.In basso:

lavorazionedel limoncello.

Pagina seguente.In alto:

delizie al limone.In basso,

a sinistra:limoncello.

A destra:lavorazione delledelizie al limone.

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cedro, fa cosa santa. Fatta la sfo-gliata, lasciala mezza aperta emezza ‘nchiusa da una parte edove là scorre la crema facci setteocchi piangenti con sette amareneo pezzulli di percocata. Mandatutto al forno, fa cuocere lento,mangia caldo e alléccate le dita.

La valle delle delizieL’Agro Sarnese-Nocerino

È metà agosto e, a dispetto divacanze e mare, in ogni famigliache si rispetti in Campania, ledonne si riuniscono in un ambien-te ampio e dotato di spazio all’a-perto, acqua, fornelli, bacini earnesi vari da cucina: con – o non-ostante! - i ragazzini che giranointorno per “aiutare”, si avvia l’an-nuale rito collettivo della lavora-zione dei pomodori San Marzano.Le donne cuociono, pelano esetacciano instancabilmente perdue, tre giorni quantità enormi dipummarole per trasformarle inconserve. Pelati, a filetti, in passa-te o concentrati, i San Marzanocostituiranno la base dei sughiquotidiani e dei ragù dei giorni difesta nell’inverno che arriva.Quanto fosse buono il PomodoroSan Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino, le massaie campane lo

sapevano da molto tempo; che ilsuo sapore agrodolce, la scarsapresenza di semi e la faciltà concui si lascia pelare costituisconodelle caratteristiche di qualità, loha confermato l’UE nel 1996quando gli ha riconosciuto laDenominazione d’Origine Protettanella versione “pelato” (ma il Con-sorzio di Tutela ha recentementeproposto di ammettere al discipli-nare della Dop anche la tipologia“pelato a filetti”).La qualità del San Marzano risaltaperò, soprattutto nelle pietanze,che non si caricano di quella tipi-ca acidità dei pomodori, e i sughiche se ne ricavano hanno il mera-viglioso pregio di attaccarsi allapasta in un abbraccio passionale,senza scivolarne più via!La coltivazione della Dop avvienein uno dei territori più fertilid’Italia: i millenari sedimenti diceneri del vicino Vesuvio - cheaveva cominciato ad eruttaremolto prima di quel 79 d.C. in cuirimase sepolta Pompei - hannotrasmesso a questo terreno unconcentrato di nutrimenti che tra-sformano in “oro” qualsiasi cosa visi pianti. E qui “l’oro rosso” si rac-coglie sette, otto volte o anche piùda luglio a settembre.Da quanto tempo nell’Agro noceri-no-sarnese vi siano coltivazioni di

questi pomodori non è documen-tato, solo dai primissimi anni delNovecento si sa della presenzacerta, tra San Marzano, Sarno eNocera, di colture della bacca ver-miglia dalla tipica forma allunga-ta. Se la sua origine è americana, èattraverso le tecniche colturali im-piegate in questa fertilissima valle,il particolare terreno, il clima mitee l’abbondanza di acqua che si èselezionato l’ecotipo tanto virtuo-so.Agli inizi del secolo scorso sorserole prime industrie conserviere, chepresto si moltiplicarono nell’areastessa di produzione del pomodo-ro, un’area che fino a vent’anni faera coltivata quasi esclusivamentea San Marzano. Ma la cultivar èparticolarmente delicata, e quan-do un’infestazione distrusse i rac-colti, ci si accorse di non poter fareaffidamento su un prodotto cosìfacilmente deperibile. Anche nelcorso della lavorazione può acca-dere che si guasti: per la produzio-ne di pelati, le industrie conservie-re cominciarono, allora, ad acqui-stare delle varianti ibride, menovalide da un punto di vista quali-tativo, certo, ma anche meno sen-sibili alla lavorazione meccanica.Ciò mise a rischio d’estinzione ilSan Marzano, già svantaggiato perun altro aspetto: la tecnica di col-

cui le suore diedero la forma delcappuccio monacale, fu messo alforno. La badessa volle che ladolce pietanza fosse intitolata aSanta Rosa, e che se ne preparas-sero in quantità da donare a tuttala popolazione di Conca. Nei seco-li la dimensione si è ridotta fino adottenere dei pasticcini dalla crostacroccante, la frutta secca è statasostituita con i canditi, ma è rima-sta la tradizione di consumare leSfogliate Santa Rosa il 30 agostoin onore della Santa.Nell’Ottocento, il poeta SalvatoreDi Giacomo, scavando tra antichecarte d’archivio, scoprì casual-mente la ricetta della sfogliataSanta Rosa, scritta di pugno dauna monaca del convento. Prendi il fiore e mettilo sopra iltagliero nella quantità di rotolomezzo (un rotolo=circa 80 gr).Mettici un pocorillo d’insogna efaticalo come un facchino. Doppostendi la tela che n’è riuscita efanne come se fosse una bella pet-tola. In mezzo alla pettola metticiun quarto d’insogna ancora, e spie-ga a scialle, 4 volte d’estate: 6 volted’inverno. Tagliane tanti pezzi,passaci il laganaturo e dentro met-tici crema e cioccolata o se più tipiace ricotta di Castellammare. Seci metti un odore di vaniglia o pureacqua di fiori e qualche pocorillo di

In alto:il Convento diSanta Rosa a

Conca deiMarini.

In basso:lavorazione

della sfogliataSanta Rosa.

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SfogliateSanta Rosa.

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additivi! Chi è nato da queste partiha impresso nelle narici il profumointenso del sugo della domenica,quando in tavola compaiono imaccheroni al ragù: la pazienza diresistere a quell’odore che comin-cia a diffondersi in casa fin dalprimo mattino, è premiata da unasalsa che trascende se stessa. Gliumori della carne prima soffrittasono divenuti tutt’uno con quellidel pomodoro in cui ha poi cotto alungo. Plop, plop, il lento e prolun-gato bollore ha reso questo sacroconnubio un concentrato di aromi,quel gusto un po’ dolce un po’amarognolo è un inno alla bellez-za e alla vita. No, proprio non ce lasentiamo di rinunciarvi!Che dire poi del sughetto frescoestivo? Pochi accorti ingredienti,aglio, olio extravergine d’oliva,sale e pomodorino fresco! Tra levarie specie che fiammeggiano alsole del sud v’è il Corbarino, vez-zosamente chiamato così dal terri-torio in cui viene tradizionalmentecoltivato, quello del Comune di

tivazione in verticale con l’uso ditutori rende la raccolta moltolaboriosa e necessaria di manodo-pera, quindi costosa.Da alcuni anni la Regione Cam-pania e il Consorzio di Tutela stan-no attuando delle iniziative fina-lizzate a recuperare il prodottonelle linee genetiche pure e arilanciare il prodotto storico anchesu scala internazionale. Oramai lerichieste - anche sull’onda dellerivelazioni circa la virtuosa dietamediterranea, e dell’ottima famache gode tutto ciò che è italiano -giungono da tutti i continenti.Queste operazioni hanno salvatoanche noi che, in tempi di globa-lizzazione e pomodori provenientida paesi su cui il sole brilla non piùdi dieci giorni all’anno, proprio nonvogliamo rinunciare a quel saporepieno e profumato. Un prodottoche, anche se è in scatola, sai cosamangi, perché una breve cottura ela sistemazione in barattoli lofanno durare un anno e più, senzabisogno di conservanti o altri

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In questa pagina.In alto:

PomodoroSan Marzano.

In basso:filari di

PomodoroSan Marzano.

Pagina seguente.In alto:

PomodoroSan Marzano,

pelati.In basso:

barattoli dipelati artigianali.

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di quantità a scapito - era inevita-bile - delle caratteristiche qualita-tive. Ma si sa che produttività equalità è molto difficile che vada-no d’accordo. Recentemente alcu-ni studi condotti dall’Università diNapoli hanno indagato gli aspettiigienico-sanitari del Pomodorinodi Corbara. Si è scoperto che, par-ticolarmente ricco di antiossidanti,aiuta nella protezione da alcunetipologie di cancro; questa carat-teristica si accentua soprattutto seè consumato maturo, crudo ocotto, in combinazione con olioextravergine d’oliva (non l’avevagià detto qualche tempo fa uncerto Ancel Keys?). Certo è, cheanche il pomodorino di Corbaramerita la denominazione Dop, ilConsorzio per la Tutela del Pomo-doro San Marzano dell’Agro Sar-nese-Nocerino sta avviandone laprocedura. E, poiché anche l’oc-chio vuole la sua parte, non vor-remmo perdere l’allegria e queltocco colorato dei piennoli appesiai lati di porte e balconcini dellenostre contrade. Il terreno fecondodi questa vallata e il clima mite,ma generoso di piogge, che labacia, consentono di dare a coltu-ra numerose altre specie ortofrut-ticole, e di ricavarne degli ottimiprodotti. Il Cipollotto Nocerino,dichiarato Dop nel 2004, è uno deipiù rappresentativi; anche in que-sto caso il nome deriva dall’area dimaggior produzione, che si esten-de tra Nocera, Pagani, Scafati eSarno. Ma già i Romani li produce-vano, come indica la raffigurazio-

ne rinvenuta a Pompei nel Larariodel Sarno, il fiume che attraversal’Agro nocerino-sarnese, divinizza-to dai Latini per i suoi beneficiinflussi sul territorio circostante.Un po’ più a monte del fiume è ilcentro omonimo, nei cui dintornisi coltiva il Finocchio di Sarno,ottimo non solo a crudo, ma anchelessato, brassato o gratinato.Non solo prodotti dell’orto maanche enormi quantità di fruttache arricchiscono i mercati italia-ni, provengono da questa pianura.La Ciliegia di Siano è chiamataPrimitiva per la sua precoce matu-razione, già dalla prima decade dimaggio arriva sulle tavole dellaregione: di colore rosso brillante,ha una polpa consistente e uninconfondibile sapore agrodolce.La sciazza - questo il nome dialet-tale - è autoctona della valle diSiano. Tipici prodotti di Paganisono le Arance di giardino e i Caki,questi detti anche legnasanta,perché il frutto tagliato ricorda lavenatura del legno della Croce. Sitratta della tipologia CakiNapoletano, per la quale è statorichiesto il riconoscimento euro-peo Dop. La pregiata cultivar dàfrutti grossi e gustosissimi nelledue versioni vainiglia (a fruttofecondato, che si possono mangia-re alla raccolta ed hanno numero-si semi) e loti stufati (a fruttoammezzito, non fecondato e sot-toposto ad un trattamento che nefavorisce la maturazione). Il pae-saggio della campagna nocerino-paganese si compone in maniera

particolare nei periodi invernaliquando, cadute tutte le fogliedagli alberi di caki, i rami spogliostentano, quasi fossero statiaddobbati, i globi lucidi dal tipicocolore ambrato.Un’altra specialità di Pagani, inve-ce, è legata ai festeggiamenti dellaMadonna delle Galline nellaDomenica in Albis: meravigliosiCarciofi arrostiti sulle carbonellee speziati con prezzemolo, aglio eolio, diffondono nelle strade infesta della città un profumo irresi-stibile, a cui la mente lega indisso-lubilmente il ricordo dei toselli edelle tammurriate. Il ritmo inces-sante delle tammorre, degli sceta-vajasse e dei tricche ballacche,accompagna anche i pellegrinidella notte di ferragosto, quandoda ogni vicolo o paese dell’Agro, sirecano al Santuario di Mater-domini, a Nocera Superiore.Invocando la protezione dellaVergine da secoli, si assaggia laPalatella ca’ ‘mbupata ‘e aliceovvero una sorta di panetto concantucci arrotondati, simile ad unarcaico fuso, farcito di succulentemelanzane marinate con aceto esuccessivamente condite con olioextravergine di oliva ed acciughesalate.Altre pietanze fanno parte delricettario del millenario conventofrancescano di Materdomini: ilCartoccio di baccalà e broccoli e isottilissimi Maccheroncini conditicon un composto di capperi, uvet-ta, pinoli, acciughe ed olive diGaeta.

Corbara. Lo scegliamo sicuramenteper quel suo caratteristico saporeagrodolce, mai aspro, sul quale ilbasilico arriva a chiudere inmaniera perfetta il cerchio, abbi-nandosi come il cacio con i mac-cheroni, come pane e fichi, in unmatrimonio ideale. Questa piccolabacca dalla forma “allungata apera”, la polpa compatta e pocosuccosa, è sempre stata coltivatasulle pendici dei Monti Lattari conmetodi da agricoltura tradizionalee nelle limitate quantità che pote-vano derivarne, destinate al soloconsumo locale. In cucina si usavafresco, trasformato artigianalmen-

te in conserve, o in una manierasemplice e al tempo stesso singo-lare: l’esperienza aveva insegnatoai contadini a raccogliere questipomodorini all’inizio dell’estate,ad attaccarli in grossi grappolimediante una cordicella di canapa,e ad appenderli in locali chegarantissero la giusta combinazio-ne di fresco e umidità. Nient’altro,e il piennolo (pendolo) di Corbaradurava tutto l’inverno e ancheoltre. Il trucco sta nella bucciaspessa e resistente: con il passardel tempo il sapore e il profumodiventano più intensi poiché ilpomodoro si asciuga, ed è come se

diventasse un concentrato di sestesso. Con il suo prezioso aiuto,tutto l’anno si possono prepararedei meravigliosi vermicelli allevongole o dell’ottimo pesce all’ac-quapazza. Negli ultimi anni, iristoratori più rinomati dellaregione - e anche oltre i confini -si sono accorti che il loro impiegoin cucina dà un valore aggiunto apiatti raffinati. L’aumentatarichiesta, anche da parte delleaziende di trasformazione, haindotto i coltivatori a produrne dipiù e, per questioni pratiche, inpianura: se n’è avvantaggiata cer-tamente la produzione in termini

In alto:ciliege dell’Agro.

In basso: carciofi arrostiti.

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Piantagione diCaki Napoletano.

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lo del mirto: secoli fa, i pastoriindividuarono in questo arbustoun ideale imballaggio per alimenti,perché foglie e rametti sono lisci,non porosi. Che l’aroma assorbitodal latticino fosse così particolarefu la scoperta che diede vita allamuzzarella co’ a mortedda, laMozzarella nella mortella. Questo formaggio fresco si distin-gue dalle altre paste filate campa-ne per l’impiego di latte vaccinoinvece che bufalino, per la formapiuttosto schiacciata e lunga, eper la lavorazione praticata inassenza di siero, il che lo rende piùasciutto e compatto. La differenzasi rileva poi nel gusto, dotato diuna lieve acidità e dei profumi tra-sferitigli dal mirto, e insaporito datutte le fragranze delle erbe di cuisi sono nutrite le vacche in altamontagna. La mozzarella nellamortella è da gustare assoluta-mente pura, generosamente ac-compagnata da un Bianco Doc diCastel San Lorenzo. Nel Cilento, però, la maggior partedell’allevamento è dedicata allecapre, che negli arbusti della mac-chia mediterranea trovano un giu-sto e saporito nutrimento. Secoli

di vita tra questi monti hannodeterminato la selezione di unarazza autoctona, nota come Capradel Cilento, allevata perlopiù per lasua carne – numerosi sono i piattilocali a base di capretto -, ma oggisono apprezzati in particolar modoi formaggi che si ricavano dal suosquisito latte, povero di colestero-lo e ricco di antiossidanti. Anche inquesto caso, la ricchezza aromati-ca dipende da ciò con cui si ali-mentano gli animali: queste capresono spesso tenute allo statosemibrado per molti mesi all’anno,libere di brucare le diffuse erbe diquesta terra, abbondanti di oliiessenziali. I formaggi, è quasi su-perfluo dirlo, sono molto saporiti efragranti; in particolare il Cacio-ricotta, che viene prodotto impie-gando una particolare tecnica dicoagulazione del latte, ottenuta inparte mediante il caglio e in partecon la cottura: come dice il nome,a metà tra le rispettive lavorazionidel formaggio e della ricotta.Fresco, accompagnato dal mieleha del divino, ma anche più sta-gionato e grattugiato sul ragù dicastrato procura enorme gioia achi lo prova. Sia nel caso della

mozzarella nella mortella che delcacioricotta caprino del Cilento,Slow Food veglia sulle produzioni,un tempo pilastri dell’alimentazio-ne locale, cercando di favorirne lemicroeconomie che andrebberoaltrimenti perse, assieme ai parti-colarissimi prodotti artigianali. Se qui a farla da padrona sono iformaggi, nella propaggine piùestrema della provincia, ai confinicon la Basilicata, alcuni salumi

In questa pagina.In alto:lavorazionedel caciocavallosilano.In basso:mungituradelle pecore.Pagina seguente.Salumi di SanGregorio Magno.Pagina successiva.Pane di Padula.

Al contadin non far sapere…L’area montana: il Cilento

e i Picentini

Freddo, crasso, e stipante e duroè il cacio,E unito al pane è un’ottimavivanda,Non agl’infermi,ma a’ robusti e sani.

La celebre Scuola Medica Salerni-tana, una delle prime e più cono-sciute scuole di medicina d’Eu-ropa, elogiò molto il formaggiocome alimento, e ne esaltò le virtùterapeutiche finanche nel suoRegimen Sanitatis, la regola sani-taria con cui la Schola fornivanorme dietetiche e consigli praticiper la prevenzione delle malattie. Seguendo quei dettami, l’interaprovincia salernitana è ancoraoggi un’alacre produttrice di for-maggi, vaccini, bufalini e caprini, apasta filata o duri, freschi o sta-gionati: moltissime varianti con-corrono a formarne la ricchezzacasearia, in particolare dell’areacilentana interna.Sugli altipiani e tra i boschi deiMonti Alburni e Cervati pascolano,

serafiche, numerose vacche Podo-liche o loro incroci, una razza au-toctona dell’Appennino interno,tipica delle regioni meridionali.Dal loro latte si produce un cacio-cavallo che prende il nome dall’al-topiano della Sila, l’area calabreseda cui proviene l’antica tradizione.Il Caciocavallo Silano Dop si pro-duce da latte podolico ma nonsolo; è un formaggio semiduro,lavorato similmente alla mozzarel-la, ossia a filatura. Alla temperatu-ra di 36-38 gradi, al latte siaggiunge caglio di vitello o dicapretto, e in seguito ad una lungafermentazione la pasta raggiungela maturazione giusta per esserefilata. Il lungo cordone di amalga-ma che si forma, viene arrotolato epoi lavorato dal casaro con laforza delle braccia e tanta mae-stria, fino a conferirgli la tipicafoggia ovale. Seguendo remoteusanze, ancora oggi le forme ven-gono appese a stagionare a cop-pie, “a cavallo” di una pertica: daqui il nome antico casicaballus,caciocavallo. Penzoloni da quella trave, sotto lasottile crosta, il formaggio svilup-pa un sapore inizialmente dolce,

che, con l’aumentare della stagio-natura - dai 12 ai 18 mesi - diven-ta sempre più piccante, assumen-do un gusto pieno e pastoso: inciascuna fase il caciocavallo è par-ticolarmente saporito, anche se inmaniera differente, sia servito alnaturale che usato per condiredelle pietanze.La lavorazione avviene prevalente-mente nel periodo estivo, quando ipascoli sono ricchi di erbe aroma-tiche: il latte di questi mesi rac-chiude profumi di trifoglio, di sullae di altri odorosi doni dei pratid’alta quota, ma anche dei sotto-boschi di faggete e castagneti. Inun’area interna del Cilento, con-centrata perlopiù intorno al MonteGelbison, non tutto il latte muntosi trasforma in caciocavallo, per-ché una parte è utilizzata per pro-durre mozzarella. Il mercato e laclientela si trovano però nei centria valle, e per trasportare il lattici-no fresco, anticamente i pastoricasari l’avvolgevano nelle foglie dimortella.Su queste pendici abbonda unavegetazione mista spontanea, lamacchia mediterranea dispensa-trice di mille profumi, tra cui quel-Caciocavallo silano.

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sopraffini tengono lo scettro dellagastronomia locale. Siamo neltriangolo magico segnato daRicigliano, San Gregorio Magno eBuccino, qui la fabbricazione degliinsaccati segue antichi, saggi pro-cedimenti, in cui trovano spaziosolo le carni migliori e una lavora-zione manuale. Così, dalla partemuscolosa del collo nasce ilCapicollo di Ricigliano, preparatoutilizzando sale, pepe e vino. LaSoppressata di Ricigliano e di SanGregorio Magno impiega le partimigliori del maiale, il prosciutto eil filetto, finanche il grasso è quel-lo più consistente del prosciutto.La punta del coltello, e non qual-che sbrigativa macchina per maci-nare, riduce il tutto a pezzetti; salee pepe nero, intero e macinato,insaporiscono la carne, ed aiutanonel contempo l’essiccazione. Per laSalsiccia si usano invece le partimagre di seconda scelta, non perquesto meno saporite, in ogni casotagliate a mano, insaccate in unbudello naturale ed appese adasciugare ad una trave, che confe-risce loro la tradizionale forma aU. Un companatico eccellentemerita un accompagnamento allasua altezza: il Pane di Padula fa alcaso nostro. Cosa rende specialequesto pane casereccio? L’impastodi farina di grano tenero misto aquello integrale viene fatto lievi-tare naturalmente, 3-4 ore di ripo-so per le forme, che poi riescono amantenersi anche più di una setti-mana. Alcuni panificatori dell’areadi Padula, inoltre, cuociono lepagnotte ancora, coraggiosamentein forni a legna!Il pane prende le forme tondeg-gianti delle “panelle” da un paio dichili, o dei “panielli”, più piccoli edalla forma più allungata. Leprime in particolare, prima di esse-re infornate - rigorosamente amano – vengono segnate con deitagli trasversali che determinanouna sorta di quadratura: questoparticolare le avvicina al panisquadratus dei Romani, rappresen-tato in un celebre mosaico pom-peiano.Risaliamo il Vallo di Diano, nonprima di aver visitato la celebre eimponente Certosa di Padula,capolavoro architettonico e com-pendio delle migliori espressionidelle arti applicate italiane dal XIVal XVIII secolo. Arriviamo aPertosa, un minuscolo centro conuna grossa fama, quella delle grot-te che percorrono il suo territorio equello di Auletta, in un intrico dicirca 2300 metri di cunicoli,impreziositi da concrezioni, stalat-titi e laghi ipogei.Eppure questo non è l’unico tesorodi Pertosa: il suo territorio, assie-me a quelli di Auletta, Caggiano e

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nano agli esigui campi coltivati acarciofi.Nell’alta Valle del Sele, pocodistante dal confine con la Puglia,nei boschi che contornanoColliano si va alla ricerca di pre-giati tartufi. Questo fragrantedono che la montagna incuba trale sue viscere dopo abbondantipiogge, è in realtà il frutto di unfungo ipogeo che si sviluppa sugliapici radicali di alcuni alberi oarbusti. La sua particolarità è tuttanel profumo, di cui i buongustaivanno a caccia per arricchire leloro pietanze, pregno com’è degliodori della terra bagnata, delbosco, del legno. Tuber lo definiro-no i Latini, perché a lungo nonriuscirono a capire che tipo dipianta fosse; il Medioevo lo bandìcome ingrediente perché si ritene-va che avesse proprietà afrodisia-che - e bandita era qualsiasi ten-tazione! -, e che fosse cibo del dia-volo e delle streghe. In realtà, pareche le qualità eccitanti siano statefrutto di pura credenza, sebbeneindicate dallo stesso Galeno. Ilripristino - e sulle migliori tavole!- di questo fungo sotterraneoavvenne nel Rinascimento, quandole tartuffole divennero un ciboricercato dalle corti italiane.Il Tartufo di Colliano ha unadimensione che varia da quella diuna noce a quella di un uovo digallina, con una fossetta centraleche lo fa somigliare ad un rene. Lascorza rugosa è nera, mentre lapolpa è giallastra o bruna convenature chiare. In realtà, questoconcentrato di aromi è abbastanzadiffuso sull’Appennino Campano,ma qui, e in limitati casi dei MontiPicentini, se n’è avviata una ricer-ca produttiva, che punta a dare ilgiusto rilievo ad un prodotto spon-taneo di qualità. La specie che sirinviene in quest’area tra ottobre egli inizi di aprile si presta a nume-rosi impieghi in cucina; nel suoterritorio naturale si possonogustare deliziose tagliatelle “allaCuglianese”, l’agnello o la trota delSele profumate al tartufo. Risaliamo ancora la provincia, indirezione di Salerno. Ci fermiamonel luogo in cui il Tenza, unaffluente del Sele, scorrendo nellaparte meridionale dei Monti Pi-centini, forma una gola: sulle suependici si è sviluppata nei secoli lacittadina di Campagna, custode diopere d’arte e tradizioni. Lungo ilcorso del fiume s’insediarono, giàa partire dall’XI secolo, mulini,frantoi e più tardi anche una“maccarunera”, che sfruttavanol’impetuosità di quelle acque e laloro forza motrice, capace di fargirare pale e di innescare i mecca-nismi necessari alle differentilavorazioni. A condurci qui è la

fama di un tipo di pasta, ereditàtramandataci da secoli di lavora-zione tra le quattro mura dellecase di Campagna.Le giovani mani di donna affonda-no in un impasto di acqua e farinadi grano duro, poi, ottenuta la giu-sta consistenza dell’amalgama,avviano la lavorazione finale. Ognitrancio viene lavorato a cerchio, ledita lo schiacciano e l’assottiglia-no in un infinito cordone di pastasenza farlo mai spezzare. Dopo unpo’ di lavoro, il filamento è tantolungo e sottile da poter essereavvolto attorno ad una mano: èquesta “matassa” a dare nome altipo di pasta. Spezzandola siottengono delle striscioline irrego-lari, vagamente tubolari; una mez-z’oretta di riposo e potranno esse-

re messe a cuocere.Pochi e semplici gesti bastanoanche per preparare il condimen-to: in una padella, l’olio soffriggecon aglio e prezzemolo sminuzza-ti, una cascata di fagioli già cotti ela loro stessa acqua vanno adaggiungersi al soffritto, poi unanuvola di sale e pepe. Qualchemestolo dell’acqua di bollituradella matassa, arricchita del suoamido, aiuta a far amalgamare lapietanza saltata nella padella.Nella pignatta, un tegame di cera-mica, Matassa ‘e fasule finirannodi incorporarsi l’una agli altri, inuna superba fusione di gusto. Se ifagioli poi sono quelli di Controne,la zuppa sarà ineguagliabile.Piccoli, rotondi, bianchissimi,niente macchie né occhi, dalla

Salvitelle produce una varietà dicarciofi molto particolare, chemeriterebbe un riconoscimentoeuropeo, e una maggiore diffusio-ne che ne sollecitasse la produzio-ne. Solo tre ettari sono infattidedicati al Carciofo Bianco diPertosa o del Basso Tanagro, ilfiume che ne attraversa l’area dicoltura: questa è suddivisa in pic-coli appezzamenti posti fra i 300 ei 700 metri d’altitudine, tenuti dauna trentina di agricoltori che loimpiantano ai margini dei lorocampi, per il consumo familiare epoco più. Anche Slow Food si staprodigando per ottenere la giustavalorizzazione di un eccellenteprodotto di nicchia.La qualità di questo carciofo è nelcolore verde tenue, quasi bianco,come indica il suo nome; nei capo-lini grossi e rotondi, caratterizzatida una lieve apertura al centro;nelle brattee esterne prive di spinee quelle interne particolarmentedolci e delicate; nelle speciali qua-lità organolettiche e nel fatto chenon viene impiegato alcun tipo ditrattamento artificiale. Eppure,qualcosa qui si muove: i produtto-ri si sono riuniti in consorzio, men-tre è in fase di attuazione la crea-zione di un centro per il confezio-namento dei carciofini in OlioExtravergine di Oliva Dop CollineSalernitane. Un giusto abbina-mento, che rimanda a quello delleproduzioni agricole di maggiorpregio del basso Tanagro: i grossiappezzamenti ulivati che si alter-

In alto:i carciofi bianchi

di Pertosa.In basso:

cercatoredi tartufie tartufi

di Colliano.

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In alto:lavorazionedella matassaa Campagna.In basso:minestradi matasse e fagioli.

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Spadone. La buccia verde chiaro ela forma leggermente allungatasono i caratteri che permettono didistinguerle sui banchi del merca-to, già pregustandone la polpagustosa. Ricca di sostanze zucche-rine, vitamine e sali minerali, que-sta cultivar è ottima anche per leproprietà nutritive che racchiude.La sua commercializzazione èfavorita dall’elevata produttivitàdelle piante e dalla precocità dimaturazione dei frutti.Superando la parte collinare deiPicentini, e inoltrandosi nell’entro-terra, a maggiori altitudini si sco-prono territori di cui i castagnisono signori indiscussi, le lorochiome abbondanti e sempreverdidelineano i profili e i profumi diqueste montagne. Il Piano diAcerno è contornato dalle cime delMonte Polveracchio, dell’Accellicae del Cervialto, i cui fitti boschisono mete di frequentati itineraridi trekking. Tra queste foreste siraccoglie una delle varietà dicastagne più pregiate della regio-ne, indicate fra i principali prodot-ti tradizionali della Campania.Se oggi l’economia della cittadinae di tutta l’area è fortementeimprontata alla produzione casta-nicola, per secoli la popolazione siè servita in abbondanza di questifrutti farinosi per nutrirsi. Lodimostra l’ampio repertorio dipiatti che la cucina della memorialocale ci ha tramandato: dalla

cottura veloce, ma soprattutto unabuccia sottilissima, impalpabile,che li rende altamente digeribili:queste sono le caratteristicheorganolettiche che contraddistin-guono il legume dei Monti Alburnidai suoi “fratelli”. Ma anche da unpunto di vista nutrizionale, iFagioli di Controne hanno qual-cosa in più: questo ecotipo contie-ne particolari sostanze in grado dicontrollare la concentrazione dizucchero nel sangue, il che lorende particolarmente indicato

anche nelle diete speciali.L’indicazione geografica è assolu-ta, poiché solo il territorio diControne, e neanche tutto, è ido-neo alla sua coltura: solo i terrenisiti nei pressi delle sorgentiAcquaviva e Mascherone sono ingrado di assicurare, attingendoalle fonti di acqua pura che siforma nelle viscere degli Alburni, ilcostante apporto idrico di cui que-sti fagioli necessitano. Anche quile coltivazioni sono limitate inminuscoli appezzamenti, spesso -

ironia della sorte! - nonostantel’abbondanza di acqua, perchémanca un valido sistema di cana-lizzazione. L’auspicato riconosci-mento Igp potrebbe indurre arimuovere gli ostacoli che impedi-scono di ottenere maggiori produ-zioni, e ad avviare una valida pro-mozione del delicato fagiolo.Dopo questa breve deviazionesugli Alburni, riprendiamo il nostrogiro dei Monti Picentini e scopria-mo che su queste colline si ottienela varietà più pregiata di Pere

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In questa pagina.In alto:

piantagionedi fagioli

a Controne.In basso:fagioli di

Controne.Pagina seguente.

In alto:pera spadona

salernitana.In basso:

castagnetoad Acerno.

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sce un vantaggio per i produttoridella Tonda rispetto alla concor-renza. Infatti, solo il 10% del rac-colto annuo di nocciole di Giffoniè venduto per il consumo diretto,tutto il resto viene assorbito dalmercato dell’industria alimentare.Dodici comuni delle aree collinaridel Salernitano, della Valle del-l’Irno fino ai Monti Picentini sonocoinvolti nel disciplinare, uno deiquali, Giffoni, dà il nome all’Indi-cazione Geografica Protetta.La coltivazione di noccioli inCampania risale a tempi moltoantichi, come emerge da testimo-nianze nella letteratura latina delIII a.C.: pare che proprio da questaregione il croccante frutto si siadiffuso nel resto della penisola.L’amministrazione del Regno delleDue Sicilie predispose addiritturadegli uffici ad hoc per la misura-zione e la commercializzazionedelle nocciole. Il primato si è tra-mandato attraverso i secoli, per-ché oggi la Campania è la maggiorproduttrice italiana. I noccioleti dei Picentini definisco-no gran parte dei paesaggi a basse

quote, mentre i loro frutti caratte-rizzano i dolci casalinghi di questependici e della provincia intera. Lemassaie qui suggeriscono di pre-parare una pasta sfoglia a base difarina, zucchero e olio extravergi-ne di oliva, tagliata a strisce den-tellate che poi si arrotolano a spi-rale e si friggono: le Crespelleriempite di nocciole tritate emiele, sono belle a vedersi nellaloro decorativa forma a rosone, egustosissime da mangiare aNatale. In una raccolta di ricette delSettecento, una monaca delConservatorio di Santa Maria diLoreto di Roccadaspide annotòcome preparare il Croccante, undolce caramellato ancora oggimolto in uso. Lei indicò l’uso dimandorle, ma la ricetta può essererealizzata, secondo tradizione,anche con le nocciole di Giffoni. Roccande d’amendole.Si pestano l’amendole, e si taglianoa pezzetti lunghi, si friggono nel-l’olio, a frittura giusta farete delgileppo (=giulebbe, uno sciroppodi zucchero e acqua o succo di

frutta, qui di limone), le involgere-te nel gileppo, o le fate a pezzettinell’ostia, o pure si unga una cas-suola d’olio, e vi si spanda dentro lapasta, restando vuota in mezzo, sipone nel forno, e quando è movibi-le la metterete per sopra e la guar-nirete.

Prelibatezze dai montie dal mare

Il medio-basso Cilento

La rettilinea strada nazionale cheda Battipaglia porta verso sud,percorre un paesaggio fatto diimmensi campi verdi, le righe ordi-nate delle coltivazioni intensive ealcuni casolari ottocenteschi dis-seminati sul territorio. Oltre tuttoquesto, il mare, piatto ma maiimmobile, che lambisce la Pianadel Sele.E qui, tra i mille prodotti che que-sta terra generosa produce, cresceun ecotipo locale di carciofo, deri-vato dal più generico tipo“Romanesco”, che qui ha sviluppa-to delle caratteristiche che lo ren-

In questa pagina.Noccioledi Giffoni.Pagina precedente.In alto:castagnedi Acerno.In basso:noccioladi Giffoni.

pasta con le castagne alla squisitazuppa di castagne e fagioli, e poitantissimi dolci, i calzoncelli diNatale, le pasticelle, le crostate.I marrons glacés sono confeziona-ti con le Castagne di Acerno,secondo una raffinata ricetta, chene fa un prodotto molto richiestosoprattutto all’estero. Anche la fa-rina ha un discreto commercio perla lavorazione di pasta fatta incasa, per la quale viene mischiataa quella di grano.La coltura per eccellenza deiMonti Picentini è però, la NocciolaTonda di Giffoni, tra le varietà piùapprezzate d’Italia. Il frutto diforma tondeggiante ha una polpabianca, aromatica e consistente, ela pellicola che lo ricopre è facileda asportare. La sua adattabilitàalla trasformazione nelle fasi ditostatura, calibratura e pelatura,la rendono particolarmente idoneaalle lavorazioni pregiate, e quindimolto richiesta dalle industrie dol-ciarie di qualità. Anche il fatto dimaturare già alla terza decade diagosto, con leggero anticiporispetto ad altre cultivar, costitui-

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diamento, e dal Seicento la lavora-zione di questo latte ha costituitoun’importante fonte di guadagnoper gli allevatori dell’area. Le suetrasformazioni in caseus (formag-gio), recocta (ricotta) e soprattut-to provatura (provola) erano i pro-dotti più richiesti da Salerno eNapoli; la mozzarella invece, piùfacilmente deperibile, era destina-ta al consumo familiare o locale. A Paestum e a Battipaglia sonosopravvissute antiche bufalare, lecaratteristiche costruzioni a formacircolare, al cui centro era siste-mato il camino per la cottura dellatte e la sua trasformazione. Inseguito alla bonifica della Pianadel Sele, a partire dagli anni Trentale aziende si ammodernarono, l’al-levamento brado scomparve perfar posto a quello stallino, e la

produzione conobbe una forteespansione.Se il latte è un elemento distintivodella Mozzarella di Bufala Cam-pana Dop, altrettanto vale per iltipo di lavorazione, la filatura. Lapasta di formaggio alla sua matu-razione, viene lavorata a mano conacqua bollente finché non rag-giunge quella consistenza tipica,leggermente elastica: in una paro-la “fila”. La fase della “mozzatura”,il taglio tradizionalmente eseguitoa mano, è quella che origina ilnome del manufatto.Tagliando la crosta sottilissima,bianca come la porcellana, com-pare del siero profumato, l’aroma èespressione della microflora svi-luppata attraverso la lavorazione.Il sapore fresco e inconfondibile siesprime al meglio una decina d’ore

dopo la lavorazione, quando lapasta ha perso un po’ della suaelasticità. Al gusto di ciascunorimettiamo la scelta del formato:le classiche pezzature tonde da700, 800 grammi, oppure i più pic-coli bocconcini o le minuscoleciliegine e perline, ma anche trec-ce e nodini, da un minimo di 10grammi a pezzo.Se la bufala produce un meravi-glioso latte, il maschio della stessarazza, per secoli usato solo per iltraino e la riproduzione, oggimacellato guadagna consensi. InItalia la carne bufalina non èancora giustamente valorizzata:grave errore! Rispetto a quella dimanzo e vitello, infatti, risulta piùtenera e succosa. La Carne diBufalo Campana contiene anche il50% di colesterolo in meno diquella vaccina. Per il resto, i con-tenuti in ferro e proteine sonomaggiori che in altre carni bovine. Gli allevatori di bufale della Pianadel Sele stanno diversificando laloro produzione, oramai non piùconcentrata solo sui prodotticaseari, ma anche sulla carne. Perevitare che lo stato brado le con-ferisca un sapore rustico, anche gliesemplari maschi - gli unici desti-nati alla macellazione - vengonoallevati in stalla. Il mercato per

In alto:mozzarelladi bufala campana.In basso:allevamentodi bufale.

Un campo dicarciofi diPaestum.

dono particolarmente pregiato. IlCarciofo di Paestum Igp, notoanche come Tondo di Paestumdalla forma dei suoi capolini, haavuto la sua prima raccolta condenominazione nel 2005. 82 etta-ri di produzione rientrano nell’areaIgp (con il 70% del raccolto di car-ciofi della Campania!), da Battipa-glia lungo la costa fino ad Agro-poli, e poi un po’ più internamentefino a Serre e a sud a Ogliastro Ci-lento. Una coltivazione complessaed attenta, l’ambiente della Pianada millenni resa fertile dal fiumeSele, il clima, fresco e piovoso nelperiodo di produzione da febbraioa maggio: tutto ciò consente diottenere un carciofo tenero e deli-cato, che matura precocemente,anticipando sul mercato gli altridello stesso tipo. Questo fiore

verde dalle sfumature violetto-rosacee ha una consistenza com-patta ed il cuore carnoso; il capo-lino raggiunge medie pezzature ele brattee, ossia i petali - in cuci-na volgarmente detti “foglie” -,sono prive di spine. In forma dipasticcio o in crema per condire lapasta, il Carciofo di Paestum riescefacilmente a conquistare ognipalato, oltre che ad appassionare,per i notevoli principi nutrizionaliche racchiude, i più accaniti soste-nitori della dieta mediterranea. Riprendendo la stessa stradanazionale, il tracciato curva perseguire l’andamento della cintamuraria a baluardo della città diPaestum, blocchi di pietra messil’uno sull’altro ventisei secoli fa.Nel Settecento, decine di viaggia-tori inglesi, tedeschi, francesi por-

tavano a casa i ricordi di questiimponenti templi, magari lieve-mente alterati, che poi prendevanoforma in splendide rappresenta-zioni a stampa. Curioso scoprirvispesso bufale sonnolente ai piedidei solenni monumenti ellenici, uncontrasto di soggetto che si com-pone in una poetica visione.Quelle bufale risiedono qui da sva-riati secoli, forse autoctone, forseimportate dai Longobardi o piùtardi dai Normanni intorno all’an-no 1000. Ben presto si scoprì ilvalore del loro latte, meno gustosodi quello vaccino, ma “più abbon-dante e sostanzioso, bianchissimo,dolce e dotato di odore legger-mente muscato, e perciò offremateria a delicati prodotti”.L’impaludamento della pianura asud di Salerno favorì il loro inse-

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la rendono molto pregiata, e giàfortemente richiesta dalle indu-strie di trasformazione. Come rico-noscere dagli altri, dunque, ilMarrone di Roccadaspide? Sicuramente dalle dimensionimedio grandi e dalla forma semi-sferica; la buccia marrone-brunoha delle striature non immediata-

mente evidenti. Ma soprattutto lapolpa è molto dolce, particolar-mente adatta alle mille versioni didolci casalinghi che si preparanonel Salernitano da novembre aNatale, come i calzoncelli e latorta farcita ai marroni.Poco distante da Roccadaspide, èFelitto, altro centro d’origine

medievale posto sul bordo d’uncolle a guardare la valle, notosoprattutto per due sorprendenti“attributi”: le gole formate daun’ansa del fiume Calore e i fusil-li. Qui la tradizione della pastafatta in casa è ancora molto senti-ta, donne anziane e giovani impa-stano e manipolano secondo gli

questa ottima carne, fresca oinsaccata, oggi è perlopiù al nordItalia. Riusciranno i produttori aconvincere anche i consumatorisalernitani e campani?Saliamo per Capaccio e ci dirigia-mo verso la Valle del Calore, in unpercorso che s’inerpica sui montiaffacciati sulla valle, tra splendidi

boschi di querce e terreni ulivati.Su uno sperone scorgiamo il borgomedievale di Roccadaspide, da cuiprende l’appellativo un marrone diqualità; in realtà il territorio dellacultivar è ben più vasto, e va dagliAlburni alla Valle del Calore,estendendosi ancora in buonaparte del Parco Nazionale del

Cilento e Vallo di Diano, in tutto su4.200 ettari. Anche in questo casosi tratta di una produzione secola-re, alcuni documenti dell’Abbaziadi Cava de’ Tirreni attestano chegià nel 1183 nel Cilento v’eranoestesi castagneti. Le caratteristiche morfologiche edorganolettiche di questa castagna

Un produttore dimozzarella di

bufala campanamostra

orgogliosoi suoi prodotti.

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lo centro del Cilento ha un’originemolto evidente, riscontrabile nel-l’effettiva capacità di questi terre-ni di produrre legumi di ottimaqualità. Anche Cicerone descrisseil territorio da Vallo a Paestumcome una terra di produzione diceci: dunque, spazio per dubbisulla genesi del toponimo non ven’è. Eppure, le emigrazioni del XIXsecolo hanno rischiato di cancella-re millenni di tradizione e un pro-dotto speciale. Il biglietto perl’America costava quanto un ap-pezzamento di terreno, quello chei contadini della zona spesso ven-devano pur di giungere oltreocea-no, nel paradiso dei guadagni, elasciarsi dietro la miseria dellaproduzione di legumi. Ma la riva-lutazione oggi in atto delle colti-vazioni più pregiate offre opportu-nità prima impensate a chi lavoranei campi. In quest’ottica, l’ammi-nistrazione comunale di Ciceraleha cercato di promuovere unaripresa della tradizione agricola:ne sono nati i Ceci di Cicerale, unadenominazione protetta da undisciplinare di produzione cheimpone la coltivazione su terrenicertificati biologici e ne vieta l’an-naffiatura. Altra iniziativa comu-nale è quella di donare ogni annodei semi di ceci ai cittadini, e losforzo fatto per favorire il progres-sivo reimpianto della cultivar parestia sortendo i suoi effetti.

insegnamenti di remote antenate.L’impasto è quello classico disemola di grano duro - rimacinata- e uova, fin qui tutto normale.L’abilità consiste nello stirare erollare un piccolo cilindro di pastaattorno ad un sottile ferro a sezio-ne quadrata (anche questi di pro-duzione artigianale locale). Un’accentuata lunghezza e la par-ticolare sottigliezza a cui sonoridotti, rendono i Fusilli di Felittoprofondamente differenti da quel-li prodotti nel resto del Cilento.Non vogliamo sminuire la bontàdei secondi, ma è certo che i primihanno un quid in più. L’impasto,lavorato senza aggiunta di farina eammorbidito da un goccio d’olio,risulta molto tenero; il foro lascia-to al loro interno dal ferro e lospessore ridotto della pasta garan-tiscono delicatezza e un saporespeciale. La particolare raffinatez-za di questi fusilli ha guadagnatoloro l’Indicazione Geografica Pro-tetta nel 2002. L’abbinamento tra-dizionale con il ragù di castrato hala saggezza degli antichi insegna-menti; la ciliegina sulla torta? Unrosso Barbera Doc di produzioneCastel San Lorenzo. “Terra quae cicera alit”, terra voca-ta alla produzione di ceci: è lafrase che compare sullo stemmadel Comune di Cicerale, accompa-gnata dalla raffigurazione di unapiantina di ceci. Il nome del picco-

Lavorazionedei fusillia Felitto.

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prodotti dalla terra del Cilento. Restiamo in zona per assaggiareun’altra meraviglia della sapienzagastronomica di questo popolo, eraggiungiamo Gioi. Pare che giànell’XI secolo qui si producesse uninsaccato “lardellato”, una parti-colare tecnica di lavorazionemolto diffusa nelle zone montaneabruzzesi: la transumanza dellegreggi costituiva valida occasioned’incontro fra popolazioni dipastori distanti tra loro. A rendereparticolarmente pregiata la Sop-pressata di Gioi è innanzitutto lacarne utilizzata: solo le parti piùnobili del suino, filetto, coscia,lombo e spalla vengono sminuzza-te rigorosamente a punta di col-tello, poi sale e pepe – magari unpo’ di finocchietto o peperoncino –per favorirne la conservazione. Unbudello naturale ospita il saporitomiscuglio, al centro del quale s’in-serisce un unico filetto di lardo;l’insaccato viene poi tenuto sottoun peso per eliminare l’aria resi-dua (da qui il nome), e prima diavviarlo alla stagionatura, si ese-gue una leggera affumicatura.

Venti, trenta giorni e la soppressa-ta è pronta, ma per conservarla piùa lungo si mette sott’olio o nellostrutto. Purtroppo, la produzioneesclusivamente familiare rischia dideterminare la fine di questa nobi-lissima tradizione. Attraverso unsuo presidio nelle aree di Gioi eStio, Slow Food sta cercando di

promuoverne il valore, per salvar-ne l’economia. La soppressatatagliata, sfoggia una carne rossobruno su cui spicca il bianco dellardo al centro. Un pezzo di panepaesano e un buon rosso CilentoDoc, ed è semplice magia.Tra ulivi ad alto fusto ci dirigiamoverso la costa, e scendiamo fino a

Unici nel loro genere per la pellesottile e tenera, il gusto fine ed ilsentore di noce, questi ceci delCilento sono tornati a dare ilmeglio di sé. E i riconoscimentinon tardano a venire. Sono richie-stissimi dai migliori ristoratorid’Italia, che li preparano secondoricette tradizionali o innovative,con le lagane tipiche del Saler-nitano o in gustose minestre, maanche in insalata con molluschi epolpi.Continuando la nostra passeggiatanel Cilento interno, scopriamo unpaesaggio lussureggiante: la spon-taneità di un’odorosa macchiamediterranea si alterna alla rego-larità dei terreni addomesticatidall’uomo, dov’è un tripudio diolivi, viti, fichi. Questi ultimi inparticolare crescono qui in grandiquantità, in coltivazioni, e spessoanche spontaneamente. I fichicilentani, d’origine araba, sonodella specie “Dottato”, ma le pecu-liari condizioni di terreno e climahanno fatto sì che vi si sviluppas-sero in una forma endemica parti-colare, oggi definita dall’appellati-

vo Fico Bianco del Cilento, impal-mato dal prestigioso riconosci-mento europeo della Dop, per unterritorio molto ampio: ben 68comuni dalle colline prospicienti ilmare di Agropoli fino all’internoBussento, ai confini con laBasilicata. Gran parte del meritospetta all’azione mitigatrice delmare, che con il fertile suolo con-tribuisce a determinare una condi-zione pedo-climatica ideale perquesta coltura. E allora eccolispuntare un po’ ovunque, anchenelle situazioni più impervie, glialberi di fico con le loro poche,grandi foglie, quelle che copronola nudità adamitica, i rami flessibi-li… e i frutti dolcissimi. Che l’areafosse particolarmente idonea allacoltura di fichi era noto fin dal-l’antichità, Catone e Varronedescrissero l’usanza in pratica nelCilento già in epoca romana, diasciugarne i frutti al sole per con-servarli. Oggi il fico essiccato,magari farcito o ricoperto di cioc-colato, rappresenta una leccorniairrinunciabile a conclusione delgrande banchetto natalizio.

Ebbene, questa prelibatezza dasocietà benestante, un tempo hacostituito la principale fonte disostentamento per i contadinicilentani: strano destino, da panedei poveri a ghiottoneria per ric-chi! La buccia d’un giallo chiarouniforme, la polpa dalla consisten-za pastosa, l’interno del fruttoabbondante: a mangiarli puri,come la pianta e poi il sole lihanno fatti, se ne apprezza il livel-lo zuccherino equilibrato e il sapo-re gradevole e profumato. Le fasisuccessive di lavorazione contri-buiscono alla ricercatezza delrisultato finale: i fichi vengonodisposti su ampi graticci ricavatida canne intrecciate, che nellafase di essiccazione lasciano benpassare aria e umidità. Un’altraversione tradizionale ne prevede lacottura nel forno a legna, che neprosciuga gli zuccheri; classica è laconfezione dei fichi infilzati su unbastoncino di canna. Tradizioneanche nella farcitura: noci, noc-ciole, mandorle, semi di finoc-chietto e bucce di agrumi sonotutti ingredienti rigorosamente

In questa paginae in quellaseguente.

Essiccazionedei fichi bianchi

del Cilentoe la soppressata

di Gioi.

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la menaica in verticale, in unaposizione tale da sbarrare il per-corso del branco. Un po’ d’attesa,poi, a mano e con cautela, si tirasu la rete. Tra le maglie sono rima-ste intrappolate solo le alici di 10-12 centimetri, quelle più piccolesono riuscite a sgusciare via. Unavolta incastrate, cominciano a

dimenarsi, e questo facilita la lorostessa decapitazione e il dissan-guamento. Man mano che la rete ètirata su, con delicatezza si es-traggono le alici impigliate, aspor-tandone testa e interiora. Scopodella pesca con la menaica è pro-prio quello di privare del sangue ilpesce, così da ritardarne la putre-

fazione. La carne, molto chiara, hain conseguenza un aroma e ungusto molto delicati; inoltre, inquesto modo è possibile portare aterra il pescato senza utilizzare ilghiaccio.Qui le alici vengono immediata-mente lavate in salamoia e poimesse sotto sale in vasetti di ter-racotta. La stagionatura al fresco eumido dei magazzeni, antichi rico-veri per le barche, dura tre mesi, ilrisultato finale non deve esseretroppo asciutto.Chi è a bordo con Antonio e com-pagni assaggia, invece, l’insalatadi alici crude, sciacquate in mare eleggermente marinate con il limo-ne, poi olio, aglio e prezzemolo:direttamente dal mare alla bocca.Purtroppo questo tipo di pescanon dà frutti abbondanti, e sonorimasti in pochi a praticarla; SlowFood ha istituito un presidio aPisciotta per cercare di impedireche vadano persi una tradizioneimportante e un prodotto gastro-nomico unico.Anche Antonio ci ha detto che, traquelli che la praticano ancora,qualcuno lo fa per mestiere, qual-cun altro, come lui, per passione.

Pisciotta. È il tramonto, fra un po’imbrunirà. In una luce giallo ocra,al porticciolo i gozzi beccheggianosereni, pare che incoraggino lereti, pigramente ammassate aterra, a predisporsi al lavoro. Sonosette, otto, non di più, le barchepisciottane che, da aprile a lugliorinnovano un rito millenario – locelebravano gli antichi Greci! -,quello della pesca con la “menai-ca”. Che è semplicemente una retea maglie molto fitte, certo non perpesci grossi, poi il nome si è tra-smesso anche alla barca. La costatra Acciaroli e Punta Infreschi èquella delle Alici di menaica (omenaide), che la sabbia pulita, nonfangosa, rende più pregiate.Partiamo in barca con Antonio,uno dei pescatori che fannopescaturismo qui: l’aria fresca, lemontagne e il piccolo centro diPisciotta abbarbicato in lontanan-za, il piede nudo di Antonio chedirige con sagacia il timone, poi ilbuio e il silenzio del mare. I pesca-tori sono concentrati ad osservarele stelle, la luna: le alici sonomolto sensibili alla luce degli astri,e loro, se vogliono “irretirle”, devo-no prevederne le rotte. Poi calano

In questa paginae in quellaseguente.

La pesca dellealici di menaica.

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di produrre alcuni tra i migliorivini d’Italia. L’aumentata richiestadi prodotti enologici di qualità suscala sia nazionale che internazio-nale e la forte concorrenza globa-le, negli ultimi vent’anni hannofavorito un crescente impegnoanche da parte delle case vinicolesalernitane. Di questo impegno sivedono i frutti in tre Doc e due Igt.Un “tour enologico” attraverso laprovincia proporrà i mille coloridel suo fertile territorio e dei suoiinvidiabili frutti: il verde di unanatura superba e lussureggiante; ilblu e l’azzurro di un mare limpidoe mitico; tutte le nuances dalbianco al beige al rossiccio, checonosce la roccia in questo sor-prendente angolo di mondo; imarroni e gli ocra delle vigne inautunno, prima della vendemmia;e infine i rossi, i granati, i rosa, igialli e gli ambrati di questi vini,quelli che, con sapienza, sonoalchemicamente prodotti in vec-chie e nuove cantine.Partiamo dal luogo in cui untempo approdarono i figli d’Ellade,portatori d’un seme prolificoattraverso i secoli e i millenni.Siamo nella Piana del Sele, nel ter-ritorio che fu di Poseidon. Qui enelle zone limitrofe si produce laIgt Paestum: in realtà, la zona dicoltura dei vigneti comprende ilbasso e l’alto Cilento, le sue viticrescono sulle colline prospicientiil Calore salernitano e nella stessavalle di questo limpido fiume. Le

Piccoli tesori tra i filari I vini Doc e Igt della provincia

Su candidi triclini ammorbiditi damaterassi azzurri, distesi, alcunigiovani uomini partecipano ad unbanchetto. Sono intenti a suonarecetre e flauti, a giocare, ad assa-porare l’amore. Elemento unifica-tore del loro libero godere, nel-l’ambito del simposio, degli aspet-ti più nobili della vita, è quelmagico liquido rosso contenutonelle kylikes, gli ampi calici di ter-racotta dai quali, nella tradizioneellenica, si gustava il vino. La cele-bre rappresentazione decora lacosiddetta Tomba del Tuffatore

(480 a.C.), rinvenuta nella Pianadel Sele e conservata nel MuseoArcheologico di Paestum. Spinti da motivi politici, molti cit-tadini d’Ellade avevano abbando-nato la loro terra, ma mai avreb-bero potuto fare a meno di quelsucco fermentato, intorno al qualeavevano costruito il mito piùvenerato in Patria, il mito diDioniso. Tutto cominciò nell’arco inferioredel golfo di Posidonia, oggi diSalerno: tra il santuario dedicatoad Hera alla foce del Sele e la cittàcommerciale di Elea, gli Aminei,colonizzatori d’origine tessala, ini-ziarono a coltivare quelle viti cheben presto si diffusero anche

altrove, in particolar modo nell’a-rea vesuviana. Plinio e Columellane descrissero ampiamente lecaratteristiche, indicando come“viti aminee” tutti i vitigni campa-ni di origine greca. Così come pureper estensione fu attribuito a tuttal’Italia il nome greco Enotria,“terra del vino”, in origine riferitadai Greci a quella sola porzione dicosta da cui tutto si era originato.Certo è, che qui le viti ellenichetrovarono condizioni meteorologi-che e fisiche ideali per crescereabbondanti e dare ottimi succhi.Quello stesso terroir - come siindica in francese il territorio di unvino – esaltato da quel medesimoclima mite, ancora oggi consente

In questa pagina.A destra, in alto:

Aglianico.Al centro:

Coda di volpe.In basso:

Piedirosso.Pagina seguente.

Vigneti nelCilento.

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Falernum, il vino più amato daiRomani, Plinio in testa? AncheColumella Onorati, esperto ampe-lografo campano, nel 1804 scrive-va “Finalmente le uve da vino sonoprincipalmente la glianica, dettaanticamente ellenica o ellanica,(…) ch’è di colore nero”. Ma sequesta nobile discendenza è statada più studiosi messa in dubbio,tutti concordano sul fatto chel’uva Aglianica può originare vinieccelsi. In particolare, nel Cilentosi presentano caldi e sensuali. Maprodurre vini a base di Aglianicorichiede molto lavoro nella vigna elunghe attese, affinché il vinopossa esprimere il meglio di sé.Restiamo ancora nel Cilento, ma citrasferiamo nell’alta Valle delCalore, un’area in cui la natura dàspettacolo di sé con fenomeni car-sici strabilianti, una vegetazione in

molti tratti intonsa, un’aria e delleacque pure come non ce le ricor-diamo più. Sui crinali della vallesono disposte, con invidiabileesposizione, le vigne allevate aguyot, a portamento basso o asesti fitti. Su quegli stessi crinali siadagiano deliziosi borghi: Bel-losguardo, Castel San Lorenzo, eFelitto, nel cui territorio il fiumeCalore forma delle gole mozzafia-to. Da quarant’anni lavora su que-sto territorio una cantina socialeche raccoglie le uve di milletre-cento soci, coltivate in otto comu-ni: il suo ruolo nel sostenere l’eco-nomia rurale locale anche neiperiodi più difficili dello spopola-mento è stato fondamentale. Glisforzi però hanno fruttato nel1991 il riconoscimento della DocCastel San Lorenzo. Più di recentesono emersi due nuovi piccoli pro-

duttori. Anche qui la tradizionevitivinicola è remota, come emer-ge da antiche carte in cui era cita-to un vino “Aquadia”, detto cosìdal suo luogo di provenienza, pro-babilmente Aquara, oggi nel terri-torio della Doc. Se tutte le Doc e Docg campanehanno puntato su vitigni autocto-ni, la produzione del Castel SanLorenzo si avvale di uve nazionali,piantate qui quando si badava allaproduttività solo in termini quan-titativi. Il Bianco è prodotto, infat-ti, principalmente da uve di Treb-biano toscano e Malvasia bianca,ne risulta asciutto, acidulo e frut-tato, oltre che leggermente ama-rognolo, con una colorazione gial-lo paglierino; si accompagna benetanto a insalate di mare e crosta-cei, quanto a lasagne e sartù.Il Rosso e il Rosato sono a base diBarbera e Sangiovese: anche senon autoctono, il Barbera è pre-sente da almeno cinquant’anni suquesto terroir, a cui nel tempo si èadeguato (risulta oramai differen-te da quello piemontese!), ed oggiè espressione delle sue caratteri-stiche, tanto da essere raccoman-dato per la provincia di Salerno. IlRosso dal colore rubino, è legger-mente acidulo, asciutto ma armo-nico. La varietà Barbera è formatada almeno l’85% di quest’uva;nella versione Riserva - invecchia-ta di almeno un paio d’anni -assume un colore granato, unodore intenso, un sapore asciuttoe armonico, particolarmente indi-cato per accompagnare piattiabbastanza strutturati: carni ovinee suine arrosto, coniglio all’ischi-tana, e, perché no, i fusilli diFelitto al ragù di castrato. La Doccomprende anche vini da dessert,il dolce e vellutato Moscato, mera-viglioso sul babà e le sfogliatelle, ilMoscato Spumante e il Lambic-cato, quest’ultimo dichiarato dal-l’Unione Europea protetto inquanto derivato da tradizionalisistemi di vinificazione.Risaliamo verso nord, e ci fermia-mo sulle colline intorno a Salernoe nella Valle dell’Irno, un temporinomate per l’uva Sanginella, oggiquasi scomparsa, e per un rossocorposo di fabbricazione contadi-na; ma oggi sono ben pochi ivigneti e i vini di pregio di questafertilissima area. Da una quindici-na d’anni, il territorio dei MontiPicentini ha però visto affermarsiuna singola realtà produttiva cheha stupito, con la qualità dei suoivini, il mondo dell’enologia italia-no e internazionale. Stiamo par-lando del vino che risponde allaIgt Colli di Salerno, nell’area diMontevetrano, un blend fraAglianico e Cabernet che ha fattomolto parlare di sé. Purtroppo

versioni Rosso, Rosato e Bianco sicompongono di Aglianico, Bar-bera, Coda di volpe, Fiano, Greco,Moscato, Piedirosso e Sciascinoso,insomma il meglio dei vitigni rac-comandati o autorizzati per laprovincia di Salerno. Negli ultimianni, particolari soddisfazionihanno dato i Bianchi a base diFiano e i Rossi di Aglianico.Dal promontorio di Agropoli fino alconfine meridionale della provin-cia a Sapri, il territorio della DocCilento accompagna lungo unacosta, che alterna le rocce aspre etaglienti di Punta Licosa alle diste-se di sabbia candida e vellutata diMarina di Camerota e Acciaroli;s’inoltra poi all’interno nell’areameno battuta del Cilento, Stio,Campora, e giù fino a CasalettoSpartano, un tempo territori inac-cessibili, che portano ancora ad-

dosso le tracce del loro secolareisolamento, in un paesaggio domi-nato da olivi che il tempo ha con-torto, castagneti cedui e aromati-ca macchia mediterranea.Le aspre pendici rocciose sonostate sfidate da tenaci vignaioli,che con ostinazione hanno volutosfruttare questi terreni calcarei e ilclima mite. Nel 1989 fu assegnatoai vini del Cilento il riconoscimen-to Doc, primo nella provincia diSalerno, oggi onorato da una deci-na di produttori. Il Bianco, fresco earmonico, si produce da uve diFiano e di Trebbiano toscano e, inminor misura, Greco e Malvasiabianca. L’antichissimo Fiano, inorigine “uva apiana”, detta così daiLatini perché la sua dolcezza atti-rava le api, è l’orgoglio Biancodella regione, e negli ultimi diecianni anche nel Cilento sta dando

ottimi risultati per eleganza estruttura. È ideale con la mozza-rella di bufala e i carciofi diPaestum.I vigneti ad Aglianico, Piedirosso ePrimitivo preparano il corpo e iprofumi del Cilento Rosso (maanche del Rosato, anche se inquantità minore rispetto alle uveSangiovese), un vino dal colorerubino, e dal gusto asciutto e cor-poso, che accompagna con equili-brio i formaggi di media stagiona-tura e gli arrosti. Nella tipologiaAglianico, quest’uva è presentealmeno per l’85%, e si disponeperfettamente ai piatti tipici dellacucina cilentana; alcune cantinenell’area Doc lo producono addi-rittura in purezza. D’altronde,come non esaltare questo vitigno,per secoli ricollegato alla vitis hel-lenica, da cui si ricavava l’antico

Vignetoin Costiera

Amalfitana.

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Bello e buonoL’olio extravergine di oliva

Olea prima omninium arborum est,l’ulivo è il primo fra tutti gli albe-ri, scrisse Columella, agronomolatino del I secolo d.C. nella suanota opera De Arboribus. Diciannove secoli più tardi, unmedico statunitense che daglianni Cinquanta aveva condottostudi sul rapporto fra dieta e salu-te, elesse a dimora degli anni dellasua anzianità un piccolo centrodella costa del Cilento, Pollica. Glistudi e le riflessioni di Ancel Keystrovarono in questo appartatoangolo di mondo un’immensa fon-te d’ispirazione. Dall’osservazione del modo dinutrirsi della popolazione delluogo, il medico si rese conto chel’origine rurale della loro alimen-tazione era alla base del loro otti-mo stato di salute, fino in etàavanzata. Il fisiologo americanostudiò a fondo gli elementi checompongono la cucina cilentana, enotò che scarso era l’uso di carni e

Olivetisulle collinesalernitane.

però, le quantità sono piccole:28.000 bottiglie, quelle di una solacantina! Terminiamo questo nostro tourenologico percorrendo una stradafamosa nel mondo: lungo le infini-te curve della “divina” CostieraAmalfitana, lo sguardo è rapito dalblu profondo del mare, dalle infi-nite venature della roccia chestrapiomba, irriverente, nelle ac-que marine, dalla ricca vegetazio-ne. All’attenzione s’impone, però,anche una natura non d’originedivina ma umana: l’uomo è riusci-to a rimodellare questo territoriocon le innumerevoli terrazze sca-vate, con alacrità e ostinazione,nelle montagne scoscese, per col-tivarvi limoni e uva. Da quell’uvaarrampicata sulla roccia e che haridisegnato il profilo di questacosta, si ricavano dei vini che dal‘95 sono entrati nell’olimpo delleDoc. La denominazione dei viniCosta d’Amalfi è una delle ultimein ordine di tempo riconosciute inCampania, che si differenzia nellesottozone di Furore, Ravello eTramonti, aree alquanto diverse

per esposizioni e microclima.Quei grappoli, che pittorescamen-te pendono da pergolati, sono inbuona parte di Piedirosso: il nomedi questo vitigno autoctono cam-pano è l’italianizzazione del napo-letano per’ e palummo, ispirato daipedicelli rossicci degli acini, chericordano le zampe dei colombi.D’altronde, gli esperti fanno risali-re il vitigno al Columbina descrittoda Plinio nella Naturalis Historia.Dall’equilibrata mistura con uve diAglianico o Sciascinoso (altro viti-gno autoctono campano) nasce unRosso dal colore rubino e il gustoasciutto e corposo, non troppoalcolico, che ben si adagia suminestre asciutte, arrosti di carnibianche e purpitielli (polpi) in cas-suola. Il Bianco, asciutto, dal pro-fumo delicato, lussuosamenteaccompagna frutti di mare, “scia-latielli ai frutti di mare” - il piattotipico di Amalfi a base di pesce epasta fatta a mano - ma ancheformaggi molli. A base di Piedi-rosso e Aglianico o Sciascinoso è ilRosso, di Falanghina e Biancolellail Bianco. Quest’ultima è una delle

uve pregiate della regione, crescesolo qui e solo in prossimità delmare, è la salsedine che ne rendecosì originale il succo. All’epocadella frequentazione della Costierada parte del jet set internazionalenegli anni ’60, risale il lancio delRosato, a base di Piedirosso, Scia-scinoso o Aglianico. La lavorazio-ne in piccole cantine è il segreto diquesti vini; al tempo stesso, leridotte dimensioni del terreno uti-lizzabile costituisce il limite dellaproduzione amalfitana (1.658 hlsecondo il censimento del 2001),in gran parte assorbita dal turismodei grandi alberghi e ristorantidella costa. Ciononostante, la Docha fatto breccia, negli ultimi anni,in un certo mercato di nicchia dacoltivare. Concludiamo questobreve vagare per cantine ammi-rando il golfo di Salerno da unaterrazza della Costiera Amalfitana,sotto una splendida pergola vitata,ricordando un saggio insegnamen-to di Seneca: Il vino (…) libera l’a-nima dalla schiavitù degli affanni,e la dispone più ardita ad ogniintrapresa. Prosit!Bello e buono

Vignetoa Pontone

sulla CostieraAmalfitana.

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elemento centrale del sistemanutrizionale della regione da luistudiata, ma in generale del sudItalia. La Dieta Mediterranea indicata daAncel Keys è costituita da uncoerente programma dietetico,che prevede il consumo di cibinaturali di stagione, una grandevarietà di alimenti, condite conolio extravergine di oliva e bagna-ti anche da moderate quantità divino, pane e pasta preferibilmenteprodotti da farine integrali; super-fluo aggiungere che è nel contem-po fondamentale avere uno stile divita basato sull’attività fisica.Nessuno di questi elementi, però,fornisce di per sé una protezione, èla loro combinazione ad aiutare aprevenire, non solo le malattiecardiovascolari, ma anche tumorie obesità (questi ultimi effetti

sono il frutto di successive ricer-che italiane ed americane).Un filo d’oro lega dunque, ed esal-ta tutte le componenti di questomodello alimentare, un gioiello lecui gemme si formano copiosenegli orti e sui rami degli alberi, inquesta terra baciata da un climaparticolarmente benevolo. Il filod’oro è quello che cade e si posa suinsalate, pomodori, verdure di tuttii colori e le fogge, sulle zuppe diceci, cicerchie, fave e fagioli. Quelfilo che per secoli è costato faticaimmensa a chi lo produceva, durolavoro a mano degli uomini chedissodavano e pulivano la terra aipiedi degli ulivi, potavano, costrui-vano muretti a secco per rafforza-re i terrazzamenti su cui le piantesi disponevano a crescere almeglio. E durissimo lavoro dischiena delle donne e dei bambini

che, piegati, per giorni interi rac-coglievano quei minuscoli frutti,scrigno di preziose gocce oleose, ene trasportavano pesantissime ce-ste sul capo.Da millenni questa pianta, pilastrodell’alimentazione delle popola-zioni meridionali, caratterizza,assieme al fico, il paesaggio natu-rale di gran parte del territorioconsiderato. I Greci ne avviaronoqui l’allevamento, i Romani lo dif-fusero, da allora molte collinedella Costiera Amalfitana comedel Cilento sono state ricopertedalle terrazze ulivate, in una sortadi giardino mediterraneo, untempo in coltura mista a viti edaltre specie da frutta, oggi semprepiù in impianti monocolturali spe-cializzati, lavorati con sistemiintensivi. Difficile indicare un singolo terri-

grassi animali, mentre l’apportoproteico era assicurato soprattuttodai legumi, la carne dei poveri.Confrontò questo modello di dietacon quello finlandese, in cui, alcontrario, prevaleva un esasperatoconsumo di burro e cibi animali: selì si rilevavano frequenti patologiecardiovascolari, dall’arteriosclerosiall’infarto, qui invece tali malattieerano ridotte a percentuali mini-me. Fu definitivamente chiaro chealla base di tutto era l’alimenta-

zione: laddove fortemente grassa ecalorica, provoca forti danni allacircolazione sanguigna, con tuttele conseguenze che ne possonoscaturire, comprese le cardiopatie.Proprio in senso anti-nordeuropeo,il modello di dieta ideale propostoda Keys fu da lui stesso denomina-to “Dieta Mediterranea”.Dunque, una base sostanziosa dilegumi dà un fondamentale ap-porto in termini di proteine maanche di fibre, essenziali a garan-

tire un buon funzionamento inte-stinale e un equilibrato assorbi-mento di zuccheri e grassi.Anche noi, in questo breve viaggio,abbiamo parlato di ceci e fagioli,sottolineando il valore particolaredi alcune nobili varietà tipiche delSalernitano, da sempre qui prodot-te ed essiccate. Come in ogni comunità rurale,anche nel Cilento prevalgono i cibivegetali: oltre ai legumi, farinacei,frutta e verdura. Secondo gli studidel dottor Keys, tutte le ghiottequalità di paste e pani, un tempofatti in casa, contribuiscono conapporti di amidi nella giusta quan-tità a questo tipo di alimentazio-ne, sana, oltre che saporita. Infine,egli diede un particolare riconosci-mento all’olio extravergine dioliva, collante naturale di tutti glielementi della cucina cilentana,

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In questa pagina.Antico frantoio.Pagina precedente.Teli stesiper la raccoltadelle olive.

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torio in cui si possono ammirare lechiome argentate: basta aggirarsitra le strade della provincia perscoprirvi innumerevoli terrazzecoltivate ad ulivi, gli alberi alge-bricamente equidistanti fra loro.Le distinzioni saranno solo tra dif-ferenti specie di piante, talvoltaevidenti anche ad occhi profani,come è il caso dell’ulivo che daPisciotta, piccolo centro dellacosta cilentana, prende il nome:insolitamente dritto ed alto, dalfusto solido e le fronde ricche.All’abbondanza d’olio che si ricavanel Salernitano corrisponde ancheun prodotto qualitativamente pre-giato, dovuto alla costante atten-zione fatta negli ultimi anni perridurre l’uso di antiparassitari(dura è stata, per decenni, la cac-cia alla mosca olearia, capace didistruggere interi raccolti!), attra-verso l’introduzione di metodicheecocompatibili.Due sono le aree, individuate daaltrettante Dop, in cui si suddividela produzione della provincia,tutta fortemente vocata all’olivo-coltura, date le condizioni pedocli-matiche particolarmente indicate,coltura che si esprime in un’ampiaed originale gamma di varietà. Laprima prende il nome dal capoluo-go, Olio Extravergine di OlivaColline Salernitane: il pregiatoestratto è limpido, ed ha una colo-razione tra il verde e il giallopaglierino; il suo profumo è pulito,vi si scorgono sentori di erba epomodoro acerbo, che al palatodiventano quelli decisi dei carciofi

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e dei cardi, misti ad una gradevoleamarezza e piccantezza che loimpreziosiscono ancor di più. Leolive previste dal disciplinareappartengono a varietà autoctone:Rotondella, Frantoio, Carpellese oNostrale per almeno il 65%,Ogliarola e Leccino ammesse perun massimo del 35%. Le minestredi legumi della tradizione localetrovano nella Dop Colline Saler-nitane il loro giusto condimento,così come anche i gustosi sughiper la pastasciutta e le grigliate dipesce. L’area di produzione dell’O-lio Extravergine di Oliva CollineSalernitane è molto ampio: dallaCostiera Amalfitana, passando peri Picentini e gli Alburni, finoall’Alto e Medio Sele e al Vallo diDiano, per un totale di 19.000ettari. Anche il Parco Nazionaledel Cilento e Vallo di Diano ha unsuo olio Dop, l’Olio Extraverginedi Oliva Cilento appunto, ricono-sciuto nel 1998 contestualmentealla denominazione già descritta.L’extravergine Cilento si ricavadalla premitura delle varietàPisciottana, Rotondella, Ogliarola,

Frantoio, Salella e Leccino peralmeno l’85%. Giallo paglierinointenso è il colore dell’olio, talvol-ta un po’ velato nella densità; alnaso è fruttato, in alcuni casi conaromi di mela e di foglia verde; alpalato invece, si manifesta in tuttala delicatezza dell’oliva fresca,dolce ma con lievi note amare epiccanti, ed evidenzia sentori dipinolo, nocciola e mandorla.Proprio la sua notevole aromatici-tà lo rende particolarmente indi-cato su piatti dal gusto sostanzio-so. Per entrambe le Denomina-zioni, la raccolta deve essere effet-tuata entro la fine dell’anno e,secondo tradizione, rigorosamentea mano, ma è consentito l’impiegodi scuotitori e pettini vibranti. Lamolitura deve rispettare tempibrevissimi, al massimo 48 ore dallaraccolta, poiché l’acidità massimaconsentita in ambedue i casi èdello 0,70%. Oltre che per saggia-re il gusto profumato di quest’oliosu una minestra di cardi o di cico-rie, o più semplicemente su unafetta di pane, vale la pena percor-rere le contrade del Cilento per

individuare antiche tracce di unavita in simbiosi, i contadini e i loroulivi. Spesso se ne scorgono con-torti esemplari, evidentementeplurisecolari, in tripudi di nodi, irami ripiegati su se stessi, magariaffiancati ad impianti nuovi, comediverse generazioni di uomini,bambini ed anziani, vivono in unostesso quartiere.Ma qualcuno ha descritto in ma-niera encomiabile la bellezza diquei nodi e di quei rami.Per una mezzorata se ne stette apanza all’aria, senza mai staccarelo sguardo dall’àrbolo. E più lotaliava, più l’ulivo gli si spiegava,gli contava come il gioco del tempol’avesse intortato, lacerato, comel’acqua e il vento l’avessero annoappresso anno obbligato a pigliarequella forma che non era capriccioo caso, ma conseguenza di neces-sità. (Andrea Camilleri)

Conseguenza di necessità ancheapprezzare la bontà del suo sapo-rito succo benefattore.L’ulivo, bello e buono: cosa preten-dere di più?