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BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA ROMA - Serie XIII, vol. VII (2014), pp. 165-181 GIULIA URSO PIANIFICAZIONE STRATEGICA E SOGGETTUALITÀ TERRITORIALE NELL’ESPERIENZA ITALIANA Introduzione. – Partendo dal concetto di soggettualità territoriale, il contribu- to ripercorre brevemente l’esperienza della pianificazione strategica italiana, con l’obiettivo di dimostrare quale parte abbia avuto questa soggettualità nel deter- minare il successo o il fallimento della prassi pianificatoria. Se è vero che la riuscita del piano è riconducibile alla sua qualità e coeren- za territoriale, è nostra convinzione che un ruolo niente affatto secondario sia rivestito dalla natura e dal profilo del soggetto che lo progetta. La disamina delle pratiche messe in atto evidenzia infatti come l’efficacia dei modelli di go- vernance che sottendono la pianificazione strategica dipenda in larga misura dal livello di soggettualità che il luogo è in grado di esprimere. È proprio que- sta qualità territoriale a favorire il coinvolgimento attivo degli attori locali e la convergenza strategica che precede l’individuazione degli obiettivi, prima, e la definizione delle linee d’azione, poi. In generale, qualsiasi forma di aggrega- zione sociale su base territoriale sembra essere facilitata dalla presenza di una forte soggettualità, in quanto questa, fondandosi sulla condivisione di un me- desimo sistema valoriale e di una comune matrice identitaria, è alla base dei processi di accumulazione del capitale sociale. Tra quest’ultima e la governan- ce sembra pertanto instaurarsi una relazione di reciprocità, giacché, a sua volta, la riuscita di meccanismi partenariali, che vanno a sedimentarsi nella memoria della comunità e a concretizzarsi in azioni di territorializzazione dello spazio fi- sico, conduce a un rafforzamento della soggettualità e della sua capacità di pla- smare il luogo e di orientare l’agire collettivo. Essa diviene dunque un presup- posto imprescindibile perché si inneschino processi di sviluppo endogeno e autocentrato a scala locale e perché la vision attorno alla quale si costruisce il piano possa effettivamente acquisire una funzione performativa nei confronti della realtà territoriale. I principali rischi connessi alla pianificazione strategica rilevati in quest’analisi attengono all’autoreferenzialità del piano e degli attori; all’incoerenza delle opzioni strategiche, al sovradimensionamento della vision

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BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANAROMA - Serie XIII, vol. VII (2014), pp. 165-181

GIULIA URSO

PIANIFICAZIONE STRATEGICA E SOGGETTUALITÀ TERRITORIALE

NELL’ESPERIENZA ITALIANA

Introduzione. – Partendo dal concetto di soggettualità territoriale, il contribu-to ripercorre brevemente l’esperienza della pianificazione strategica italiana, conl’obiettivo di dimostrare quale parte abbia avuto questa soggettualità nel deter-minare il successo o il fallimento della prassi pianificatoria.

Se è vero che la riuscita del piano è riconducibile alla sua qualità e coeren-za territoriale, è nostra convinzione che un ruolo niente affatto secondario siarivestito dalla natura e dal profilo del soggetto che lo progetta. La disaminadelle pratiche messe in atto evidenzia infatti come l’efficacia dei modelli di go-vernance che sottendono la pianificazione strategica dipenda in larga misuradal livello di soggettualità che il luogo è in grado di esprimere. È proprio que-sta qualità territoriale a favorire il coinvolgimento attivo degli attori locali e laconvergenza strategica che precede l’individuazione degli obiettivi, prima, e ladefinizione delle linee d’azione, poi. In generale, qualsiasi forma di aggrega-zione sociale su base territoriale sembra essere facilitata dalla presenza di unaforte soggettualità, in quanto questa, fondandosi sulla condivisione di un me-desimo sistema valoriale e di una comune matrice identitaria, è alla base deiprocessi di accumulazione del capitale sociale. Tra quest’ultima e la governan-ce sembra pertanto instaurarsi una relazione di reciprocità, giacché, a sua volta,la riuscita di meccanismi partenariali, che vanno a sedimentarsi nella memoriadella comunità e a concretizzarsi in azioni di territorializzazione dello spazio fi-sico, conduce a un rafforzamento della soggettualità e della sua capacità di pla-smare il luogo e di orientare l’agire collettivo. Essa diviene dunque un presup-posto imprescindibile perché si inneschino processi di sviluppo endogeno eautocentrato a scala locale e perché la vision attorno alla quale si costruisce ilpiano possa effettivamente acquisire una funzione performativa nei confrontidella realtà territoriale. I principali rischi connessi alla pianificazione strategicarilevati in quest’analisi attengono all’autoreferenzialità del piano e degli attori;all’incoerenza delle opzioni strategiche, al sovradimensionamento della vision

e degli obiettivi a essa collegati; e, soprattutto, alla mancanza di un coinvolgi-mento effettivo dei principali portatori di interesse. La conclusione a cui si per-viene è che la pianificazione territoriale, a scala urbana o di area vasta, apparedirettamente connessa a una soggettualità capace di promuovere la convergen-za tra gli attori locali e la partecipazione attiva della comunità nella fase di at-tuazione del piano.

Soggettualità territoriale e pianificazione strategica: un rapporto di recipro-cità. – La soggettualità territoriale (Pollice, 2008) consiste nella capacità di unterritorio di rappresentarsi, agire e farsi riconoscere come un soggetto unico dinatura collettiva. Si tratta, quindi, di una particolare forma di soggettività colletti-va in cui l’aggettivazione «territoriale» esprime sia la caratterizzazione geografica(ossia il riferimento a un predefinito ambito spaziale), sia il fattore coagulante edunque costitutivo della dimensione collettiva (giacché la coesione su cui que-sta si fonda discende dal sentirsi parte del medesimo luogo), sia, ancora, la fina-lizzazione (il territorio, per l’appunto). Come si evince da questa prima perime-trazione concettuale, il rapporto tra soggettualità e identità territoriale, che è direciprocità più che di dipendenza, è assai stretto: se il rappresentarsi come sog-getto collettivo – condizione fondante della soggettualità – presuppone priorita-riamente il riconoscersi come tale, solo una forte identità territoriale può darluogo a forme di soggettualità attiva. Più elevato è il senso di appartenenza,maggiore sarà la coesione e la convergenza strategica tra i membri del gruppo e,di conseguenza, l’impegno a esprimersi come entità sociale. Il presentarsi e l’a-gire come comunità locale tende a sua volta a rafforzare la coesione e il legameaffettivo con il territorio e i suoi abitanti, e questo sia per il potere performanteinsito nelle rappresentazioni che l’azione collettiva produce, sia per l’effetto coa-gulante delle azioni in sé quando si accompagnano a esperienze partenariali. Adifferenza di quella politica, che può essere attribuita dall’alto, la soggettualitàterritoriale ha una matrice endogena in quanto si manifesta come prodotto di unautoriconoscimento e di un sentimento di appartenenza collettivi. Grande im-portanza ha, pertanto, in tal senso il livello di partecipazione della comunità nel-la vita politica e sociale del territorio: «[the] opportunity to participate enhances asense of belonging and enables citizens to be active agents of change» (García,2006, p. 747). I processi di empowerment su base locale rappresentano espe-rienze condivise che rinsaldano i rapporti comunitari e, sedimentandosi nel mi-lieu come pratiche di successo, favoriscono il formarsi di successive aggregazio-ni trasversali tese al conseguimento di obiettivi territoriali: «the empowerment ofcivil society in a context of interactions – a context where actors and groups di-scover common interests, structured by their common belonging to the territory– is leading to a renewed capacity for government. Thus, a mode of regulationof behaviour is being constructed around a revalidated institution: the territory-community» (Pinson, 2002, p. 482).

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Il rapporto che lega soggettualità territoriale e pianificazione strategica è giàchiaro a partire dalla definizione di quest’ultima. Lo «strategic spatial planning» èil risultato di uno sforzo collettivo («refers to self-conscious collective efforts tore-imagine a city, urban region or wider territory», Healey, 2004, p. 46) il cuiorientamento «strategico» contribuisce alla «formation of active coalitions amongan array of small municipalities, or mobilize active stakeholder groups importantto an area’s development who can move perceptions (and hence actions) fromjust “being in an area” to a recognition of an area as having an identity (a city orregion “in itself”), and beyond this, to having the capacity to act “for itself”(Beauregard, 1995; Healey, 2002)» (ibidem, p. 45). Il modello di governance sot-teso alla pianificazione strategica, basato su un approccio onnicomprensivo e in-tegrato allo sviluppo economico, sociale e ambientale dei contesti urbani (Hea-ley e altri, 1997; Healey, 2007), e territoriali più in generale, si afferma a seguitodel palesarsi dei limiti e delle contraddizioni insiti in approcci meramente setto-riali, per parti e progetti, al governo della città; approcci connessi a pratiche dipianificazione focalizzate unicamente sulla scala microterritoriale e senza obietti-vi di coerenza trasversale negli interventi di trasformazione puntuale. A metà de-gli anni Novanta si diffonde, anche in Italia, la terza generazione degli strumentidi pianificazione strategica, definita da Gibelli (1996) come «reticolare e visiona-ria» in quanto orientata a creare sinergie tra i decisori, anche attraverso meccani-smi di attivazione del consenso, attorno a un’immagine condivisa del futuro de-siderabile, comunemente identificata nella vision (Breheny e Rookwood, 1993;Hall e Ward, 1999). A seguito della «svolta istituzionale» (Amin, 1999; 2004) cheha investito le scienze sociali, e con esse la geografia, con la sua enfasi sul ruo-lo degli attori locali e delle istituzioni (Storper, 1997) e sull’interazione tra pro-cessi di sviluppo e ispessimento localizzato di relazioni (Amin e Thrift, 1995), lanuova governance urbana, detta «istituzionalista», è vista come «un set di relazio-ni istituzionali complesse ai problemi di aggiustamento economico, sociale eambientale; come un problema di coordinamento fra politiche perseguite allediverse scale (sopranazionale, nazionale e di ambito metropolitano e locale), inopposizione alla frammentazione amministrativa; come opportunità per realizza-re accordi pubblico/privato sia informali che formali in cui deve essere garantitatrasparenza e una chiara leadership pubblica nel processo decisionale, e per va-lorizzare le opportunità di coinvolgimento dei cittadini in ogni fase della elabo-razione ed attuazione del piano» (Gibelli, 2003, p. 58). Il nuovo strumento piani-ficatorio si distingue, in primo luogo, per un ampliamento dei confini spaziali(che qui prescindono da quelli amministrativi) e temporali dell’azione politica,con un’operazione di «rescaling» (Albrechts, 2004) e il rilancio della programma-zione di area vasta – a dimostrazione della crescente consapevolezza dell’impor-tanza delle relazioni di interdipendenza che legano un centro urbano al suo in-torno geografico – e l’assunzione di un’ottica a lungo termine. Insita nella co-struzione di una visione condivisa e asse portante di tali modelli di governanceè la partecipazione attiva della comunità locale nel processo pianificatorio, una

comunità legittimata da procedure interattive trasparenti e inclusive e stimolatada un’azione promozionale volta alla valorizzazione della relazionalità locale: «itis a model of decision-making that emphasizes consensus and output and thatclaims to be participatory» (García, 2006, p. 745). Non a caso Camagni sottolineaa riguardo che «è possibile affermare che la pianificazione strategica urbana –valorizzando e promuovendo le reti sociali, facendo leva sulla condivisione divalori e sugli elementi di identità e costruendo tavoli di confronto, discussione ecoordinamento – configuri la creazione di una community governance» (Cama-gni, 2003, p. 79). In sostanza, quindi, il principale fattore di distinzione di talemodello pianificatorio rispetto ai precedenti sta proprio nel fatto che l’esito del-l’azione di governance non dipende più dalla qualità in sé del progetto, ma daquella delle interazioni in itinere (Donolo, 2003) che vengono a costruirsi e arafforzarsi nella sua realizzazione: il primato è pertanto dato non più al prodottofinale, ma al processo (Celata, 2005; Albrechts, 2006) e al «come» «significantstakeholders can be mobilized to develop strategic agendas in a “diffusedpower” context, and become cohesive enough to develop “collective actor”power» (Healey, 2004, p. 46). La governance fa infatti riferimento a un «broaderrange of processes which contribute to the aggregation of interests and de-mands and to the coordination of social activities» (Pinson, 2002, p. 478). In que-sto quadro, la soggettualità territoriale costituisce un presupposto ineludibile perl’attivazione di qualsiasi processo di trasformazione spaziale che voglia definirsiendogeno e autocentrato e riflettere, secondo un orientamento che recepisce eintegra le proposte che vengono dal basso, la volontà collettiva, assicurando larappresentanza degli interessi diffusi. In linea teorica, l’esempio più compiuto diun tale approccio è costituito per l’appunto dalla pianificazione strategica. Più inparticolare, la vision, l’elemento centrale del piano che seleziona e ordina lepriorità in termini di linee d’azione e che «visualizes – in words and pictures –what a place could be or should be in the future» (Albrechts, 2006, p. 1160), èl’aspetto più intimamente collegato alla soggettualità, tanto perché questa ne co-stituisce la premessa, quanto perché la si può interpretare come il prodotto diuna convergenza allargata e il risultato di una sua presenza manifesta o latente.È in tale fase, infatti, che questa si palesa come attore collettivo in grado diesprimere una propria prospettiva di sviluppo e di influenzare le decisioni poli-tiche. Affinché ciò avvenga, costituisce condizione favorevole la pre-esistenza difenomeni aggregativi di natura territoriale, in cui cioè il fattore aggregante è ilterritorio ed è al territorio che costantemente si richiama la definizione degliobiettivi. La governance poggia, difatti, su azioni territorializzate, riconoscibili apartire da tre caratteristiche: «they refer to the territory as a common good; theyare concerned with the identification and valorisation of territorial capital; andthe territory itself is defined during the action (government actions apply to anadministrative territory while governance actions do not necessarily do so)» (Da-voudi e altri, 2008, p. 44). Consenso, contributo collettivo al raggiungimento deirisultati e condivisione della visione sono poi i presupposti fondamentali della

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governance, definita proprio come «the capacity of public and private actors to:– build an organisational consensus involving different actors in order to definecommon objectives and tasks; – agree on the contribution by each partner to at-tain the objectives previously defined; – agree on a common vision for the futu-re of their territory» (ibidem, p. 35). Una forte soggettualità territoriale sarebbe,da un lato, precondizione di una propensione alla soluzione concertata dei pro-blemi locali, dall’altro, attiverebbe un meccanismo di controllo implicito dell’a-zione politica. Quello del controllo sociale sul piano e sulla sua attuazione è for-se uno degli aspetti più interessanti e significativi dell’interazione pianificazionestrategica-soggettualità territoriale: anche quando quest’ultima non si esprime informa direttamente politica riesce a esercitare una pressione sui decisori pubbli-ci che consente di influenzarne le scelte.

Dalle riflessioni sin qui svolte, la soggettualità appare intimamente connessaalla governance, sia perché si esprime attraverso di essa, sia perché è essenzial-mente per suo mezzo che è in grado di guidare la gestione di una città o di unaconfigurazione più ampia. Come sottolineato da più parti, infatti, la governance«is a concern with governing, achieving collective action in the realm of publicaffairs» (Stoker, 2000, p. 93) e ha a che vedere con la modalità con cui un attorecollettivo emerge da un diversificato gruppo di interessi (Le Galès, 1998). Essa èstata definita come una modalità di azione collettiva in cui «urban elites endea-vour to make the city into a collective actor, a social and political actor posses-sing autonomy and strategies» (Bagnasco e Le Galès, 2000, p. 25).

Il caso italiano favorisce la comprensione del ruolo svolto dalla soggettualitànell’ambito dei processi di pianificazione.

La specificità dell’esperienza pianificatoria italiana. – Oltre ai processi di piùvasta portata che hanno condotto a uno sviluppo della pianificazione strategicain ambito europeo, vi sono elementi peculiari dell’adesione italiana a questomodello di governance su cui è opportuno soffermarsi. Tali caratteri risultanodel resto più chiari se letti in rapporto alla fase di mutamento radicale di regola-zione politica locale che il nostro paese ha vissuto negli ultimi due decenni. Lapianificazione strategica viene, infatti, a collocarsi nella stagione di più acuta cri-si dell’approccio tradizionale alla gestione, politica e amministrativa, dello spa-zio urbano. Nella seconda metà degli anni Novanta, una trasformazione drasticainveste le città italiane messe a dura prova da Tangentopoli e dal conseguentedeclino del sistema tradizionale dei partiti (Pinson, 2002; Healey, 2004; Jouve,2005). Tale mutamento non ha peraltro riguardato solo le grandi città (BolocanGoldstein, 1997; Dente, Bobbio e Spada, 2005), ma ha interessato in manieradiffusa anche la rete dei contesti urbani di media dimensione, da sempre rico-nosciuti come i veri motori dello sviluppo del paese. Almeno tre sono i tratti di-stintivi di tale cambiamento (Pasqui, Armondi e Fedeli, 2010). Innanzitutto, lascomparsa (sebbene talora solo temporanea) della classe dirigente locale colle-

gata ai partiti della cosiddetta Prima Repubblica, travolti dal crollo di legittima-zione e credibilità che ha colpito, anche a scala urbana, l’intero sistema politicoitaliano. Il secondo elemento, strettamente connesso al primo e al vuoto politicoche ne è conseguito, è l’emergenza di nuove élites locali, in molti casi estraneealle cerchie partitiche o alle logiche tradizionali e provenienti da ambienti (l’uni-versità, le professioni, l’imprenditoria, l’associazionismo) in parte lontani daigruppi politici storicamente consolidati. In terzo luogo, si registrano importanticambiamenti istituzionali nel campo delle autonomie locali nel quadro dellariforma introdotta dalla legge 142/90, con l’elezione diretta dei sindaci e il tenta-tivo di superamento di una logica meramente burocratica dell’azione ammini-strativa. In questa delicata fase di transizione, in molti casi sono degli «imprendi-tori politici», veri e propri «imprenditori schumpeteriani» (Armondi, 2008) a farsipromotori dei piani strategici italiani. Questi innovatori si trovano, dunque, asperimentare l’azione di governo in contesti nei quali la crisi dei partiti ha allen-tato anche il legame di questi con le comunità, indebolendo la loro fiducia nelleistituzioni: «i nuovi amministratori, doppiamente spiazzati dalla crisi di legittima-zione e dalle innovazioni legislative che affidano loro poteri molto più ampi ediscrezionali […] cercano dunque modalità di interlocuzione diverse che per-mettano loro di rilegittimare l’azione di governo e di costruire forme nuove didialogo con le società locali» (Pasqui, Armondi e Fedeli, 2010, p. 103), assumen-dosene «volontariamente» il rischio. A tal proposito, è indispensabile tener contoche, nel nostro paese, la pianificazione strategica non è formalizzata, non derivacioè da indicazioni legislative che vincolano gli enti a intraprendere processi ditale natura: essa discende da atti di volontà delle amministrazioni di governo lo-cale che, singolarmente o in forma associata, elaborano obiettivi di carattere nonprescrittivo (Gastaldi, 2003). Il piano strategico italiano si configura pertanto co-me uno strumento argomentativo e spontaneo che propone orientamenti di po-licy e linee guida continuamente soggette a rimodulazione a seguito della natu-ra partecipativa della definizione degli interventi.

A fronte del ritardo con cui le nuove pratiche di governance sono state av-viate in Italia (anni 1990), oggi sono una quarantina le città (grandi e medie, pic-coli centri e associazioni di comuni) che adottano il piano strategico e che, ac-canto alle ragioni di fondo su citate, vi sono approdate anche per motivi piùcontingenti, quali la crisi della propria identità territoriale e la necessità di riaf-fermarne una nuova (Torino, La Spezia, Lamezia Terme); la gestione delle sfidedella globalizzazione economica e della competitività internazionale (come nelcaso di città medie storicamente ricche e con alta qualità della vita, vedi Trento,Bolzano, Ferrara); la valorizzazione della vocazione tradizionale attraverso l’in-novazione negli elementi di eccellenza (si pensi alle città d’arte – Firenze, Vene-zia); la ricostruzione di un tessuto sociale e un senso di appartenenza al territo-rio in contesti caratterizzati da un capitale relazionale estremamente disperso(Bari, Napoli); il controllo di processi decisionali complessi e l’accesso a finan-ziamenti per la realizzazione di opere pubbliche (per lo più infrastrutturali), co-

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me nella maggior parte delle città meridionali (Florio, 2010). Riprendendo laclassificazione proposta da Ave e Ceccarelli (2006, p. 88) le esperienze pianifica-torie sin qui realizzate possono essere raggruppate, in base all’idea di sviluppoperseguita, in tre categorie: a) città che incentrano il piano sulla riscoperta e sul-la valorizzazione delle proprie origini (Firenze, Trento, La Spezia, Copparo); b)città che attraverso il piano tendono a reinterpretare il proprio futuro (Torino,Venezia, Pesaro, Sesto San Giovanni); c) città il cui piano si fonda sulla raziona-lizzazione delle risorse e su una ricerca in itinere della vision da perseguire (Ro-ma, Genova, Perugia, Piacenza, Varese e Verona).

Nonostante l’eterogeneità di queste esperienze pianificatorie, è possibilescandire in tre momenti il percorso di appropriazione del nuovo modello di go-verno urbano da parte degli enti locali: a) la fase di sperimentazione pionieristi-ca, con i piani attivati in forma volontaristica nel corso degli anni Novanta, incui si assiste alle prime esperienze italiane di città che, spinte dalla recessioneeconomica e dalla ristrutturazione del sistema produttivo (si pensi alla città exindustriale di Torino), sono costrette a ripensare le loro strategie di crescita (LaSpezia, Piacenza, Firenze); b) la fase della propagazione nel Centro-Nord, in cuisono per lo più le città di media dimensione che, nel tentativo di accrescere laloro visibilità a livello nazionale e internazionale, introducono perfezionamentie innovazioni di metodo negli strumenti pianificatori sulla scorta di quanto ap-preso dalle pratiche in corso (da Trento a Perugia, da Verona a Jesi); c) la fasedi picco (2006-2008), con la proliferazione di iniziative di pianificazione strate-gica nelle città meridionali, stimolate dagli incentivi provenienti dai fondi stan-ziati dalla delibera Cipe 20/04 e tese a rafforzare la progettualità urbana inter-cettando risorse aggiuntive in vista anche della tornata dei fondi strutturali 2007-2013 (CENSIS, 2006).

Molto discordanti sono invero le considerazioni svolte in merito a quest’ulti-mo stadio e, in particolare, all’iniziativa governativa (Pasqui, 2011): se, da un la-to, questa è valutata positivamente in quanto di stimolo alla convergenza delMezzogiorno verso un modello di gestione territoriale ritenuto innovativo, dal-l’altro è vista generare un potenziale effetto negativo nello snaturamento di alcu-ni dei tratti caratterizzanti lo strumento, primo fra tutti la natura volontaristicadell’azione pianificatoria e la matrice endogena del processo.

Un’altra criticità attiene a una dimensione cruciale della pianificazione stra-tegica, ossia la partecipazione strutturata di una pluralità di attori. Osservate daquesto punto di vista, le forme di coinvolgimento dei cittadini attivate in Italia,sebbene diversificate, sembrano servirsi di dispositivi piuttosto tradizionali,ideati seguendo metodologie interattive formalizzate, che non corrispondono senon in parte alle esigenze di comunicazione e cooperazione rinvenibili nei sin-goli contesti, incorrendo talvolta nei rischi propri della eteroreferenzialità al pa-ri di qualsiasi altra forma di strategia esogena. Si pensi a Piacenza, dove i tavolitematici della prima fase (intesi come pratiche ritualizzate invece che attività dico-progettazione), a fronte della scarsa capacità cooperativa di attori locali iner-

ti, poco propensi al coordinamento sia verticale che orizzontale, non sono statiin grado di mobilitarli e di ispessire le relazioni tra loro (Florio, 2010). A tal pro-posito, è stato rilevato che «there exists a connection between the openness tocitizen participation grounded in previous experiences of social citizenshippractices and an extension of the public sphere to new groups […] Alternati-vely, when such ground has not been consolidated, as is the case in southernEuropean countries, opportunity structures for participation in cities are guidedby local policies, ad hoc projects or depend on specific leadership» (García,2006, p. 762). Le varie sperimentazioni sembrano pertanto avere successo soloquando appaiono esito di un processo di apprendimento collettivo dell’ente lo-cale e degli attori coinvolti e di innovazione graduale nei metodi di gestione delcontesto urbano, sulla scorta di una pregressa e valida esperienza di program-mazione condivisa.

La soggettualità territoriale come determinante dell’efficacia della pianifica-zione strategica. – Il largo patrimonio di pratiche di pianificazione strategica atti-vate in Italia è stato oggetto di diverse valutazioni. La letteratura sull’argomentoesprime numerose perplessità circa gli esiti di queste sperimentazioni: c’è chievidenzia come «le nuove codificazioni ripropongano dispositivi basati su unasequenza lineare tra conoscenza e azione e un approccio di tipo comprensivo,oltre che una impostazione top-down e mono-attoriale dell’azione» (Pasqui, Ar-mondi e Fedeli, 2010, p. 13). In sostanza, si sarebbero ripresentati modelli di go-vernance tradizionali in una nuova veste retorica e narrativa, poco o affatto di-versificata – «everything is changed (in the discourse) in order that everythingremains unchanged in the hierarchy of positions and roles» (Jouve, 2005, p. 291)– in un «isomorfismo normativo» che ha visto l’emulazione di altre esperienzesenza una riflessione autonoma che partisse dal contesto locale. Cercando di an-dare oltre il mero criterio di efficacia inteso come capacità di conseguimento de-gli obiettivi, si intende qui valutare se la sperimentazione abbia o meno prodot-to elementi di rottura rispetto al passato (in termini di introduzione di innova-zioni di processo, di prodotto o di agenda nell’area di applicazione, negli attorie nelle loro relazioni), focalizzando l’attenzione non già sulla realizzazione degliinterventi dichiarati dal piano, quanto sull’individuazione del «deposito» che lanuova pratica consegna al territorio. D’altra parte, è ampiamente condivisa l’ideache uno dei risultati maggiori della pianificazione strategica sia la crescita dellerisorse intangibili dell’area in termini di un capitale di tipo sociale (maggiori re-lazionalità e fiducia tra i soggetti), di tipo intellettuale (maggiore conoscenzacondivisa) (Albrechts, 2004) e di tipo politico (definizione di alleanze) (Ave eCeccarelli, 2006). Sebbene la ricognizione dell’esperienza pianificatoria dellecittà italiane non permetta facili generalizzazioni, è possibile condurre una rifles-sione sui risultati del percorso di apprendimento collettivo, che vanno dalla co-struzione di una «comunità di pratiche» che ha talvolta avviato e diffuso processi

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di innovazione amministrativa all’estensione di metodologie di progettazione,management, monitoraggio e valutazione delle politiche pubbliche, alle attivitàordinarie del governo con una maggiore attitudine alla trasparenza delle proce-dure, a un salto culturale nella consapevolezza dei cittadini, coinvolti in mecca-nismi partecipati di discussione collettiva.

Esiste, però, una serie di questioni cruciali che ha limitato il pieno dispiega-mento di tali effetti generativi. A una prima analisi della via italiana alla pianifi-cazione strategica, sono ben riconoscibili infatti alcune criticità diffuse che l’han-no svuotata di efficacia. Il primo nodo essenziale per valutare le esperienze ita-liane poggia sulla constatazione che nella quasi totalità di esse l’azione di pianoè in prima istanza una mossa «imprenditoriale» di un soggetto innovatore, chesolo in un secondo momento compie lo sforzo di aggregare attorno a sé il restodelle forze politiche e della collettività. Questo implica che i processi di pianifi-cazione strategica risultano legati a doppio filo con la robustezza della leader-ship del politico/imprenditore (Pasqui, Armondi e Fedeli, 2010), rendendo lesperimentazioni attivate troppo dipendenti dal ciclo politico: il piano tende a en-trare in crisi o addirittura a fallire quando i promotori vengono sostituiti o con-cludono il proprio mandato amministrativo. È quanto avvenuto, per esempio,per il piano strategico dei Comuni Copparesi elaborato nel 2002 su iniziativa delsindaco di Copparo, che a soli due anni dall’avvio, appena approvato, viene so-speso per le dimissioni del suo principale promotore (Florio, 2010), ma ancheper quelli di Prato, Verona e altre città. In definitiva, «i meccanismi di successodei piani strategici, oltre alla già richiamata presenza di una forte leadership po-litica, sembrano strettamente connessi alla capacità di mettere in campo cono-scenze e dispositivi di radicamento, ossia di progettare una istituzionalizzazionesufficientemente flessibile da non coartare la necessaria dimensione sperimenta-le dei processi, ma abbastanza robusta da metterli al riparo dall’andamento erra-tico dei cicli politici» (ibidem, p. 112). Ciclo della politica, necessariamente scan-dito e spesso caratterizzato da forte instabilità, e ciclo del piano strategico, piùesteso e meno definito, corrispondono solo raramente a causa del loro diversoorizzonte temporale, breve o brevissimo per i mandati elettivi di governo, lungoper il secondo (10-15 anni) (CENSIS, 2006). Causa delle interruzioni dei progettiin Italia è quindi innanzitutto la forte personalizzazione del processo di costru-zione del piano, che non è espressione di una ben riconosciuta e riconoscibilesoggettualità territoriale, ma di interessi più ristretti. Dopo una promettente fasedi avvio, difatti, alcuni piani italiani si arrestano in quanto poco in grado di inci-dere significativamente sui meccanismi istituzionali consolidati e di radicare lenuove forme di partecipazione al governo locale all’interno della comunità.

Altro punto di debolezza ricorrente è l’emergere di conflittualità di ordinepolitico-territoriale circa sconfinamenti dell’azione di pianificazione nelle com-petenze dell’uno o dell’altro dei soggetti interessati (Ave e Ceccarelli, 2006), os-sia l’ente iniziatore del processo, in genere un comune, e gli altri comuni coin-volti – nel caso di aree vaste – e/o la provincia di riferimento. In altre parole,

«the local Italian political system fell back into the same old battles between dif-ferent interests, and this for a very simple reason: neither the provinces nor theregions, which are the other sub-national levels of government in Italy, had theleast interest in seeing a strong level of urban government develop (Jouve andLefèvre, 1997)» (Jouve, 2005, p. 288). È quanto avvenuto, ad esempio, a Firenze,dove progetti concorrenti con il piano e incidenti sulle medesime aree (quellodella Regione per un’area metropolitana Prato-Firenze-Pistoia e il Patto per loSviluppo Territoriale della Provincia) ne hanno indebolito l’efficacia (Florio,2010), o a Trento, il cui piano non prevedeva né il coinvolgimento dei comuniricadenti nell’ambito territoriale della città, né quello della Provincia Autonoma.Questo tipo di cooperazione, d’altronde, è in grado di generare valore aggiuntosolo se si fonda sulla capacità di riprodurre «cooperative relations» tra gli enticon una certa stabilità nel tempo (Davoudi e altri, 2008). L’esperienza pianifica-toria nel nostro paese, specie se si estende al di là dell’area urbana, e comporta,dunque, oltre alle difficoltà di coniugare le diverse esigenze che convivono al-l’interno dello stesso spazio, anche complicazioni politiche (accordi fra comunicon peso e ruolo differenti) e organizzative (l’integrazione dell’attività delle variestrutture amministrative e gestionali), risulta spesso fortemente condizionata dalmancato superamento delle tradizionali questioni di rappresentanza politica edall’incapacità di far convergere intorno al piano una solida coalizione locale disviluppo. Nella nostra interpretazione, questo è indice di una mancata coinci-denza tra soggettualità politica, che resta frammentata nei suoi «municipi», e sog-gettualità territoriale, che si tenta di far collimare innaturalmente con la primapur non essendovi coincidenza. Esemplare è Prato e il radicato campanilismodelle città toscane, ma è ciò che si è riscontrato anche a Venezia, dove l’agendapolitica dei comuni è rimasta prima di tutto municipale e la creazione di un sen-tire comune a livello metropolitano di area vasta non è ancora un fatto acquisi-to. Una soggettualità territoriale forte probabilmente assicurerebbe in tali circo-stanze una risposta condivisa e orientata attraverso un percorso dialettico tra in-teressi anche divergenti, o comunque non allineati, che tenderebbero a conver-gere trovando nello spazio vissuto un fattore coagulante. Una soggettività collet-tiva possiede, infatti, una connotazione territoriale se rappresenta la comunitàlocale (condizione soggettiva) e concorre, sia pure in termini potenziali, alla co-struzione del luogo (effetto territorializzante e condizione oggettiva). Questapuò assumere poi natura politica ed essere quindi espressione della capacità diprotagonismo collettivo di un sistema territoriale locale (Boggio, Memoli e Rossi,2010). È la governance territoriale del resto che «makes it possible for territories,at different levels […] to behave and act as “collective actors”. In this context,governance is seen both as the capacity to integrate and shape organisations,social groups and different territorial interests in order to represent them to ex-ternal actors, and to develop more or less unified (and unifying) strategies» (Da-voudi e altri, 2008, p. 35). I due livelli non vanno, però, confusi: la soggettualitàpolitica di un territorio costituisce una dimensione altra, dipendente da fattori

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solitamente esogeni, come il grado di autonomia istituzionale di cui l’area puògodere; mentre quella territoriale ha matrice endogena, ed è cioè determinata daspecifiche condizioni locali. Le due dimensioni appaiono comunque legate daun’evidente interdipendenza (Pollice e Urso, 2013). Una forte soggettualità terri-toriale può essere alla base della nascita, prima, e del consolidamento, poi, dimovimenti autonomistici più o meno strutturati sul piano politico, che possonoportare al riconoscimento di maggiori livelli di indipendenza dell’area, accre-scendone la soggettualità politica. Allo stesso modo, quest’ultima tende a raffor-zare la preesistente soggettualità territoriale o, in presenza di luoghi in cui que-sta non si sia ancora manifestata, a promuoverne lo sviluppo, laddove essa siain capo al luogo, sia cioè espressione delle forze che operano nello stesso e chenello stesso si riconoscono. Diversamente, si innescherebbero processi deterrito-rializzanti con l’effetto di indebolire o annullare la soggettualità territoriale, so-prattutto se debole o non dotata di una propria forza performante.

Osservazioni critiche possono svolgersi, inoltre, in merito ai processi parteci-pativi messi in atto nella fase di start up della concezione del piano, spesso in-capaci di irrobustirsi nel tempo. Il coinvolgimento dei cittadini è per lo più codi-ficato e/o «orientato», rappresentando solo un momento di intermediazione pre-liminare tra la comunità e il progetto, cui non fa seguito nei fatti un’effettiva in-clusione della comunità nelle decisioni di governo, con una conseguente dele-gittimazione del piano che nell’articolazione della «griglia delle scelte» non ri-specchia il sentire comune. A Trento si è trattato di una scelta politica nella con-vinzione di alcuni promotori che il piano presupponga competenze e linguaggiche sono appannaggio di interlocutori necessariamente strutturati (Florio, 2010).

Alla luce di quanto emerso, la pianificazione strategica avviata in Italia evi-denzia i suoi limiti nel modificare, in misura significativa, le pratiche di governo,rivelando piuttosto una certa resistenza al cambiamento, quando non una verainerzia, delle istituzioni. Ciò dipende evidentemente da una molteplicità di fatto-ri, propri di determinati contesti, ma che nel caso specifico sembrano poter es-sere ricondotti a un’unica matrice causale identificabile in un basso livello disoggettualità territoriale delle aree proponenti il piano, come dimostrato dalledifficoltà di pervenire a una vision largamente condivisa, dall’incapacità di supe-rare istanze campanilistiche e dallo scarso esito dei meccanismi di coinvolgi-mento attivo della comunità locale, indice di un basso livello di capitale sociale.La rilevanza di tali presupposti per la buona riuscita delle sperimentazioni sem-bra essere confermata da un’analisi più puntuale della via italiana alla pianifica-zione strategica. Se, da un lato, si contano poche grandi città che hanno adotta-to un piano con esiti soddisfacenti nel nostro paese (si tratta degli esempi bennoti di Torino, Venezia e Firenze), a fronte di importanti realtà come Milano,Roma o Genova e Bologna, che non vi si sono cimentate fino in fondo, esiti piùpositivi, tanto in termini di diffusione che di qualità, sono stati conseguiti dallecittà medie del Centro-Nord, che si sono dimostrate maggiormente in grado digestire la transizione urbana da modelli di sviluppo consolidati a uno del tutto

nuovo e che hanno peraltro firmato protocolli di intesa (La Spezia, Pesaro, Pe-rugia, Trento) per riflettere sul loro ruolo, riunendosi nella Rete delle Città Stra-tegiche. Si tratta prevalentemente di contesti caratterizzati da solide identità ter-ritoriali (Dente, 2010) che, orientando l’agire collettivo e poggiando su un siste-ma valoriale condiviso, hanno probabilmente agevolato la convergenza su unastessa visione del futuro della città. Nella maggior parte dei casi di successo, sia-mo in presenza di enti locali che avevano già sperimentato l’evoluzione dal go-vernment alla governance (Painter e Goodwin, 1995; Pierre, 2000; Peters, 2000;Le Galès, 2002; Jouve, 2005; Davoudi e altri, 2008), cioè «dall’esercizio in formadiretta ed esclusiva delle funzioni di governo locale al metodo del coordina-mento e della pianificazione condivisa tra più soggetti pubblici e privati» (Gioio-so, 2006, p. 13). È il caso di Perugia, una tra le prime città a promuovere già ne-gli anni Sessanta la costituzione di società per azioni miste pubblico-private perla gestione di servizi locali e più recentemente un’Agenda 21 comprendente piùcomuni, di Torino, dove si registra da tempi antecedenti il piano la presenza diagenzie a governance mista pubblico-privata, e ancora di Firenze e dei ComuniCopparesi. Più frequentemente, però, nelle partnerships con il settore privato,«we […] see the multiplication of ad hoc organisations that are created to mana-ge large-scale infrastructure and urban development projects. This is, for exam-ple, the case in Naples where Bagnoli Futura is in charge of the urban renewalof an important part of the downtown» (Jouve, 2005, p. 292). La stretta correla-zione osservabile tra l’attitudine degli enti all’utilizzo di criteri manageriali nell’a-zione politica urbana (Granados Cabezas, 1995; Albrechts, 2004) – tra le altre,coinvolgimento di soggetti pubblici e privati e superamento dei confini ammini-strativi per la risoluzione di problemi collettivi – e la loro propensione a pro-muovere piani strategici prefigurano l’agire di fenomeni di path-dependence(García, 2006, p. 762). Questi sono più facilmente osservabili proprio nell’ambi-to del mutamento istituzionale, che in genere si compie attraverso il naturalematurarsi di trasformazioni incrementali e continue, e non attraverso innovazio-ni radicali e repentine. Il mancato sviluppo di una soggettualità che fa capo alluogo sarebbe interpretabile come l’effetto di una sorta di «impedenza territoria-le» (Pollice, 2012), concetto che si richiama alla teoria della path dependency eche fa riferimento all’insieme delle condizioni locali (materiali e immateriali) cheostacolano il cambiamento. Queste sono il prodotto della storia del luogo, sonoquei fattori che, sedimentatisi nel milieu e introiettati dalla comunità, influenza-no e vincolano l’agire individuale e collettivo. A suffragare la tesi appena deli-neata è l’esperienza pianificatoria del Mezzogiorno dove, a fronte di considere-voli elementi di debolezza e di crisi di molte aree, si è tentato di stimolare l’i-nerzia istituzionale attraverso un supporto pubblico che ha in parte fuorviato ilmeccanismo spontaneo dell’adozione di un approccio strategico. L’esperienza diBarletta, dove il piano è stato reinterpretato come dispositivo di attuazione dellepolitiche regionali e, dunque, incardinato nella programmazione dell’ente so-vraordinato, dimostra proprio come l’istituzionalizzazione top-down abbia limi-

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tato le potenzialità di apprendimento insite nella nuova governance senza ne-cessariamente aumentare l’efficienza dell’azione pubblica (Pasqui, 2011). Unaprima distorsione della pianificazione nel Sud rispetto ai caratteri delle esperien-ze rinvenute nel resto del paese è quella per cui la realizzazione del piano di-venta un obiettivo in sé (Camagni, 2010), un mezzo per attingere a risorse eso-gene, svuotato del percorso di maturazione e consapevolezza che va dal ricono-scimento del suo valore e della sua utilità alla creazione di consenso intorno aesso e alla individuazione di obiettivi condivisi. L’opportunità poi di legare levarie progettualità ai finanziamenti europei ha viziato i meccanismi partenarialiche sono chiamati a rafforzare la soggettualità territoriale e la sua capacità diguidare l’azione collettiva, poiché se, da un lato, hanno facilitato la costituzionedi un partenariato (in virtù del vantaggio derivato a ogni attore dalla partecipa-zione al processo), dall’altro, questo non è stato dettato da logiche di coerenzacomplessiva della vision, ma è stato assoggettato a quelle della competizionenell’accesso ai fondi, in «una sorta di gioco a somma zero in cui il problema perciascun partner è come tirare dalla propria parte le risorse esistenti e non quellodi come realizzare buona progettualità, forte integrazione e sinergie tra progetti»(ibidem, p. 206). Terminati gli investimenti pubblici, il processo pianificatoriosubisce un rallentamento se non una battuta d’arresto, dal momento che i fondiper la prosecuzione del progetto vanno reperiti all’interno del sistema locale, ca-la la tensione creativa e, soprattutto, viene meno la motivazione all’azione che,sin dall’inizio, non era legata evidentemente a un interesse collettivo di crescitadel territorio. Il finanziamento esogeno e una presenza scriteriata o «viziata» deiprivati nelle sperimentazioni «artificiali» del Sud hanno significato anche unabassa responsabilizzazione degli attori, con la negazione dell’idea di base dellapianificazione strategica secondo cui «i molteplici soggetti della società localedebbano diventare artefici e protagonisti dello sviluppo del proprio territorio esentirsi responsabili del raggiungimento degli obiettivi auspicati» (Gastaldi, 2003,p. 126). Due peculiarità rinvenibili nelle città del Mezzogiorno danno conto ditale aspetto: la non coerenza degli interventi, che sembrano solo apparentemen-te basati sulle specificità del luogo, ma che in realtà non hanno alcun riferimen-to concreto al contesto locale (Governa e Pasqui, 2007), e la costruzione di un«libro dei sogni», con liste di interventi di improbabile realizzazione, che, nellaloro vistosa non-economicità, sfidano i criteri di eleggibilità dei finanziamentiimprontati a concretezza e cantierabilità dei progetti (Camagni, 2010). Quanto alprimo elemento evidenziato, significativo è l’esempio di Napoli dove parados-salmente, proprio in un territorio metropolitano caratterizzato da alte densità,estese urbanizzazioni, crescita demografica e insediativa, il piano prevede la«densificazione urbanistica» (Frallicciardi, Delle Donne e Palmentieri, 2010, p.180). Il caso di Bari mostra, invece, chiaramente il forte scollamento tra realtàurbana e proiezione della città nel visioning, con una limitata attenzione allastessa consequenzialità degli obiettivi: «il Piano […] appare eccessivamente com-plesso e articolato sotto il profilo strettamente programmatico, con azioni non

sempre coerenti e coordinate e, soprattutto, con una scarsa considerazione perle diverse problematiche che affliggono il contesto metropolitano; problemati-che che, se non debitamente affrontate e risolte, rischiano di minare alla basel’intera impalcatura pianificatoria. Emblematica in tal senso è la distanza che se-para quello che la città ambisce a diventare e quello che effettivamente è» (Pol-lice e Zacheo, 2010, p. 122).

Note conclusive. – Più di qualsiasi altro modello di governo del territorio, lapianificazione strategica sembra risultare efficace solo se risponde a un interesseterritoriale costruito e condiviso localmente. L’individuazione della visione-obiettivo e le azioni di planning collegate (momento volontaristico) mostranouna incisività territoriale se vedono il coinvolgimento effettivo di un ampiogruppo di attori in rappresentanza di interessi diffusi. Il futuro di una città, comedi qualsiasi altro contesto spaziale, non può essere ridisegnato prescindendo intutto o in parte dal milieu locale e dai fattori specifici che ne hanno guidato losviluppo, pena la compromissione del processo pianificatorio e la generazionedi impatti deterritorializzanti nell’area geografica su cui questo proietta i suoi ef-fetti. L’esperienza pianificatoria italiana, nella molteplicità e differenziazione del-le sue forme e dei suoi esiti, testimonia della non completa maturazione deglienti locali sulla strada dell’innovazione istituzionale, presupposto per l’adesioneai più recenti modelli di governance e per la loro corretta implementazione, del-l’assenza di un forte capitale relazionale che da istantaneo e legato alla costru-zione e condivisione entusiastiche della vision sia in grado di sedimentarsi nellacomunità, rinsaldandola nella realizzazione delle successive fasi progettuali, diuna soggettualità territoriale debole o inesistente, solo di rado espressione degliinteressi plurali e delle attese multiple della comunità locale.

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Università del Salento, Dipartimento di Storia Società e Studi sull’Uomo

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