Pezzali Max Stessa Storia Stesso.posto Stesso Bar

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 Stessa storia, stesso posto, stesso bar Max 

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Stessa storia, stesso posto, stesso bar 

Max 

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Partendo proprio dai temi a lui più cari (l'amore, l'amicizia, la solitudine, la vita in 

  provincia) Max Pezzali si racconta e insieme racconta la sua generazione e quella 

dei suoi fan; i sogni, le delusioni, la noia della vita in provincia, dalle "vasche" in 

centro all'amore condiviso per certi libri, certi fumetti, certi dischi. Non so se ve ne 

siete accorti anche voi: da qualche anno a questa parte ogni giorno gli scienziati 

scoprono il gene di qualcosa. L'infedeltà, il cancro, la depressione, l'omosessualità,

la carie, la sudorazione eccessiva, la tendenza a ordinare la pizza ai quattro 

  formaggi... qualsiasi cosa sarebbe originata dal nostro codice genetico. Forse è 

veramente così. E se così veramente fosse, un giorno potremmo scoprire che da 

qualche parte esiste un piccolo gene, simpatico, ma a volte un po' rompicoglioni, che 

invoglia, stimola e spinge alcuni di noi a riunirsi nei bar. Nonostante la vita ci porti 

spesso a cambiare abitudini e traiettorie, nonostante luoghi e persone attraversino 

il nostro campo visivo e affettivo con crescente rapidità, ogni tanto una forza 

incontrollabile ci attrae là, al nostro posto di combattimento, a parlare di cose di cui 

 parliamo da sempre con persone che conosciamo da sempre.

Ad alcune di queste conversazioni da bar si sono uniti Joe e Mauro, miei compagni 

di cordata in questa avventura, registrando e riorganizzando gli sconclusionati 

argomenti che il mio amico Cisco e io affrontavamo. Non aspettatevi quindi che nel 

libro che avete in mano sia contenuta alcuna Grande Verità della Vita o che vi siano 

espressi concetti o giudizi assoluti: al bar si parla così, si dice Tutto e il Contrario di 

Tutto per il puro piacere di conversare. E di ricordare. Se diciamo che la provincia è 

soffocante pur amandola e continuando a viverci per libera scelta, se facciamo 

quelli che hanno capito tutto delle donne, ma poi ci innamoriamo come degli 

adolescenti, se ironizziamo sullo stile di vita degli sposati per poi stare malissimo 

se il matrimonio di un amico naufraga... non sono contraddizioni: è il codice 

genetico, è lo stile del bar, è «Tutto e il contrario di Tutto». Spero che Mauro, Joe,

Cisco e io siamo riusciti a ricreare questo clima un po' goliardico e surreale che si 

respira nei luoghi in cui sono nato e cresciuto e in cui sono nate e cresciute le 

canzoni degli 883.

Buon divertimento.

Max 

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La mia è stata un'adolescenza allungata; la tipica condizione di studente che ti fa

rimanere tranquillo (anche se non necessariamente contento) per molto più

tempo rispetto a chi lavora appena terminata la scuola dell'obbligo o catturato un

diploma. L'adolescente di provincia con l'allungo può ingannare il tempo fino alla

laurea abbondante, praticantato o tirocinio compresi. Mi iscrissi a scienzepolitiche, illuso - chissà perché - fosse l'unico modo per evitare la matematica e

insieme sbrigarsela in fretta. Bella mossa. Reduce dallo scientifico, sapevo

perfettamente che il mio cervello si trovava in difficoltà con qualsiasi operazione

più complessa del due più due. Già il liceo l'avevo scelto con un infallibile criterio:

dunque, se parto quest'anno con il classico, capito in quella sezione, dove c'è

l'abbinata tra la prof. tizio e il prof. caio, che rendono la vita impossibile a

chiunque... vabbe', non c'è storia. A Pavia esistono ben due licei scientifici.All'inizio frequentai il Taramelli; poi, cambiando casa, passai al Copernico. Tra il

primo e il secondo, in una città di settantacinquemila abitanti, divampava una

rivalità come tra Cambridge e Oxford. Il Taramelli era quello storico, più

«esclusivo», di antica tradizione, ubicato in centro e facilmente raggiungibile:

parecchio noblesse oblige. Il Copernico, invece, era di recente costruzione e

tacciato di essere il più facile, un asilo da cretini. Come risultato, un'incazzatura

perenne dei professori che si sentivano sminuiti, presi per il culo, e conseguentemetamorfosi in un commando d'assalto alla Delta Force. Un effetto inevitabile del

complesso d'inferiorità sofferto dalla scuola X nei confronti della Y, con il preside

che fomentava massacri, espulsioni, bocciature, altrimenti non era contento.

Così, non la trovai lunghissima, ma un annetto lo persi. E nella terza ripetuta feci

la conoscenza di Mauro Repetto: un segno del destino, se non l'avessi incontrato

probabilmente non sarebbe successo nulla. Per natura pigrissimo, lontano

dall'esibizionismo gratuito, mai avrei mosso il culo per proporre le mie canzoni aqualcuno. Al Copernico godevo dell'aura magica e brillante del ripetente, di quello

che «chissà quante ne ha combinate»; calato in mezzo alla paninaro generation,

cioè i disgraziati nati nel Sessantotto, ero un maledetto peggio di Charles

Bukowski. E poi giravano leggende incredibili sul mio conto, visto che l'anno

precedente ci avevano stangati in undici, senza aver combinato poi niente di

che... Vabbe', qualcosa di vero c'era. Per esempio, una volta allagammo mezzo

istituto, ma solo per provare l'efficacia dell'impianto antincendio; sul più bellosaltò tutto, i tubi impazzirono per la pressione, e i corridoi si trasformarono nella

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corsia di una piscina olimpionica. Ribadimmo compatti la versione dell'incidente,

ma non ci credette nessuno.

Oppure, a Carnevale...

Oh, chi è di Pavia lo sa, Carnevale è la festa più bella del mondo: gli istituti

superiori vengono «liberati» dagli studenti universitari a forza di uova e farina.Ancora adesso il cataclisma scocca alla prima ora di lezione: i goliardi arrivano,

colpo di fischietto e si sgombera. Una volta volavano pure manganellate e

schiuma da barba, ma nessuno ci prestava attenzione. Era un casino solo se

capitava un ritardo. Mettiamo che alla prima ora ci fosse matematica.

La prof.: «Domani interrogo».

Noi in coro: «Ma no, signora, è Carnevale».

 Tragica risposta: «Quelli che riesco a fare li faccio».Allora era una catastrofe. Bisognava avere dei contatti, imbastire accordi nei

giorni precedenti, perché la sopravvivenza dipendeva da quale istituto i goliardi

partivano a liberare. Se cominciavano dalla zona opposta al Copernico, si

rischiava di sforare alle nove, nove e un quarto. Da qui una continua trattativa:

«Dai, venite prima da noi, vi diamo dieci carte». Un delirio. Nel Carnevale

dell'Ottantaquattro un mio compagno, un ripetente, portò un simpatico estintore

caricato a farina, praticamente un cinque chili. Una bella sberla: raggiungeva unapressione di tre atmosfere, assicurando la nebulizzazione perfetta del contenuto,

tanto che ancora adesso al Copernico si possono trovare righe bianche tra una

mattonella e l'altra. Prima lo provammo in classe, e la prof, non si incazzò più di

tanto: una pioggerella, un richiamo, un «signora, oggi ogni scherzo vale» e finita lì.

Iniziata la liberazione, ci buttammo in strada e ci accorgemmo che stava

arrivando quel cagacazzo dell'assistente di fisica, con la sua Ritmo nuova,

azzurrina, appena lavata.Non ci sembrò vero. Il compressore rombava a piena potenza, tre atmosfere nette.

Aiutai il mio amico a sollevare il tubo e – con un botto della stramadonna – 

spruzzammo una nevicata alta tre dita sull'automobile del tipo, che commise il

tragico errore di azionare lo spruzzino del tergicristallo. La Ritmo si trasformò in

una pizza, con i riccioli di pasta che scendevano molli dal vetro.

Alla fine il tipo si decise a scendere dall'auto: «Chi è stato?». AH GENIO!: siamo

qui in due con un estintore rosso in braccio, ma chi cazzo vuoi sia stato?

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«Bene» continuò. «Siete così vigliacchi da non farvi avanti.» Risalì sull'autopizza e

se ne andò. Senza mandarci dal preside! Incredibile.

Insomma, nonostante la bocciatura, il periodo fu piuttosto allegro.

L'anno dopo, grazie a mille episodi del genere, incontrai Mauro. Eravamo

compagni di banco: il ripetente doveva stare con quello meno pericoloso... che inrealtà era una bomba pronta a esplodere. Proprio lui, che sembrava il più regolare

del mondo: infanzia da sogno, adolescenza passata all'oratorio di San Mauro a

giocare a calcio, con strabilianti risultati come centravanti. La combinazione

Repetto/Pezzali innescò un potenziale distruttivo enorme, fin da quando ci

trovammo a studiare insieme, cioè a parlare di dischi tutto il santo pomeriggio.

Musicalmente io provenivo da certe esperienze, il punk a tredici anni, poi il rock;

generazione «Rockerilla» in altre parole. Adoravo -e adoro tuttora - i Wall of Voodoo di Stan Rid-geway, con quella sua voce calda, inimitabile in capolavori

come Lost Weekend. Mauro invece si buttava più sul commerciale, Duran Duran

e parecchia dance nera. Cominciammo a scambiarci i dischi, a diventare critici da

bar, a botte di «va' che figata quello» e «che pirla sarai, è una merda». Usciti dalla

morsa letale dello scientifico, continuammo a frequentarci, a sparare stronzate.

Finché nell'Ottantotto non andai a New York a trovare un amico, con sacrifici

economico-morali incredibili: promesse su promesse ai genitori perché l'Americaera ancora una terra lontana, almeno per me, e avere i soldi e l'approvazione dalla

famiglia... lasciamo perdere. Da lì tornai con una batteria elettronica della Roland

di cui mi ero intrippato, più un pacco di mix rap che in Italia ancora non si

trovavano.

Fatti di rap, Mauro e io pensammo: Cazzo, è come all'epoca dei punk, anche loro

non sapevano suonare, tre accordi e stop, però si divertivano. Ci sembrava che

tutta la nuova tecnologia, la Roland, il campionatore, facesse tornare la musica ailegittimi proprietari e non ai delegati delle grandi case discografiche. Sentivamo i

dischi portati dagli usa, incisi con una drum machine e basta: quattro note in

croce, ma bellissimi.

Partiti con niente, avevamo un punto di riferimento, un collante, come parecchi

della nostra età: Radio Deejay, l'emittente più strana che ci fosse in giro, in onda

a Pavia dall'Ottantatré in avanti. Lì trasmettevano a manetta, roba commerciale e

non, specialmente con l'arrivo di LorenzoJovanotti: un pazzo con un fegato della

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madonna, in pieno pomeriggio metteva su Sophisticated Bitch dei Public Enemy,

non esattamente la classica canzoncina per l'ora del tè. E poi la sua

impostazione, il suo sbattersene della tradizione, l'assorbire e diffondere energia;

assieme alla convinzione, da noi perfettamente condivisa, che il rap fosse un

modo per ricominciare a creare musica in maniera più semplice, diretta, senzatante menate. Ancora adesso penso che Lorenzo sia un grande, con un istinto

naturale bestiale e una conoscenza abissale del mondo che gli sta intorno.

Se lo dice lui vuol dire che si può; vuol dire che anche in Italia deve nascere un

movimento come quello americano. Per noi gli Stati Uniti erano una terra

promessa, fatta di ghetti e di rapper che con due piatti componevano un pezzo: il

mito dell'hip hop. Decidemmo così di registrare un provino, una porcata delirante

che mandammo a Lorenzo in radio, ottenendo persino l'onore di essere trasmessi.Poi partecipammo al suo programma su Italia 1, «1-2-3: Jovanotti», sempre con lo

stesso brano, Live in the Music. in inglese, una lingua che conoscevamo

malissimo.

Era l'epoca del qualsiasi cosa a qualsiasi costo; cioè, anche se non sei il massimo,

buttati lo stesso, che cazzo te ne frega. Questo era lo spirito autentico di Mauro,

la sua potenza, il suo «adesso pensiamo a divertirci, poi si vedrà». Il suo grido di

battaglia: DIGNITÀ ZERO! Senza pudore, senza ritegno; la follia inconsapevole ecoraggiosa di chi non vede il pericolo, si butta e non pensa alle conseguenze.

Smaltita la sbornia del passaggio tv (dove non eravamo ancora gli 883, ma I Pop,

un nome inventato sul momento da Claudio Cecchetto), prendemmo la grande

decisione: cantare in italiano... anche perché, come già detto, il nostro inglese

faceva davvero cagare.

Dopo i primi pezzi, anche la prima inculata, per una semplice svista. A metà

dell'Ottantanove, in un delirio di onnipotenza, Mauro si convinse che dovevamocercare a ogni costo un contratto discografico. «Perfetto» dissi io «fa' pure», sicuro

che avrebbe tirato in ballo qualche sponsor, un lontano parente, uno zio, un

cugino, un amico di un amico del nonno, eccetera eccetera eccetera. Invece, si

limitò a spalancarmi davanti alla faccia le Pagine Gialle alla voce «case

discografiche» o roba del genere, scegliendone una in particolare perché gli

piaceva il logo, gli ricordava i cartoni animati di Willycoyote o chissà che... e

commettendo un errore clamoroso.

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6 BOB

Quella abilmente selezionata da Mauro era una società di edizioni. Ora, è una

storia un po' incasinata, ma le edizioni non servono quasi più a niente da prima

di Luciano Tajoli, quando c'erano gli autori, gli spartiti, gli interpreti, cioè una

distinzione tra mille categorie ormai inutile. Così, è vero, firmammo un contratto,NON discografico, MA editoriale: duecentosettantamila nette per un'esclusiva di

tre anni, con un'opzione per altri due. E con l'aggiunta di un particolare

allucinante: una penale da incubo, tipo dieci milioni, se non si componevano

almeno dodici pezzi ogni dodici mesi.

Da qui l'obbligo di produrre come pazzi, al ritmo di «cazzo, siamo indietro di tre»;

ma anche l'alibi per toglierci soddisfazioni incredibili, sfornando roba ai limiti

della decenza umana. Non 6 Bob Dylan risale proprio a quel periodo, nasce da unmomento di grande disperazione, ed è contenuta come traccia nascosta in La

donna, il sogno & il grande incubo; parte otto minuti dopo la fine del cd per chi

ha voglia di stare ad aspettare.

Bellissimi, gli anni con quelli del marchietto alla Willycoyote, tipetti simpatici che

continuavano a cambiare ragione sociale e uffici; forse temevano incursioni di

uomini bomba che si facevano esplodere in piena riunione aziendale. Il direttore

artistico, una personcina fantastica, ci cazziava perché non facevamo testi «allaMasini»; ogni tanto ci offriva il pranzo nel ristorante sotto una delle mille sedi, a

Milano, tutto compreso tranne il dolce. Se penso che per poche lire e qualche

piatto di pastasciutta si è assicurato la coedizione della maggior parte dei pezzi

composti dall'Ottantanove al Novantadue... vabbe', 'fanculo, ci siamo divertiti lo

stesso e l'errore è stato nostro. E comunque non tutto il male viene per nuocere.

Con un deca, in Hanno ucciso l'uomo ragno, ricorda proprio l'atmosfera di quei

tempi. Cioè: realmente messi male, perché ci piaceva quello che facevamo,avevamo l'alibi di un lavoro, ma soldi zero. Si viveva di mancette settimanali, ai

limiti della sopravvivenza; era l'andazzo da matricola squattrinata, Mauro a

Lettere e io a Scienze Politiche (mai laureato, «salvato» dal servizio civile). Ancora

abitavamo con i genitori.

Un assioma: a Pavia si divertono TUTTI gli studenti, tranne quelli del posto. Così

mi toccava sopportare racconti epici di canne, figa e depravazione, di monolocali

condivisi nella più assoluta promiscuità e di orge degne di «Le ore», per poitornarmene a casa, nella mia cameretta, passando mestissimo davanti alla

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televisione del salotto. Una frustrazione unica, senza un filo di genio &

sregolatezza bohemienne, perché comunque mangiavi a casa e comunque dormivi

a casa. Una tristezza...

Le discoteche, che in Con un deca erano due contro centosei farmacie, adesso

sono scese a una; no, anzi, a zero, anche l'ultima ha chiuso, è diventata un discopub. Una volta a Pavia c'erano il Docking e il Matisse, che si chiamava ancora

Celebrità, stava dietro all'Eden, un cinema a luci rosse. Fondamentale, da

universitari, la tradizione del pornazzo del pomeriggio, che adesso si è persa per

colpa del videoregistratore. Intorno all'Eden nascevano e prosperavano centinaia

di leggende metropolitane, del genere: «Ragazzi, non sedetevi in platea, non

toccate niente, ma soprattutto evitate i cessi, perché se ci entrate non tornate mai

più». Era un posto frequentatissimo, ci andava anche un redattore di una rivistamusicale, un intellettuale che si copriva sempre le cosce con un piumino blu. Ora

non c'è più niente, lì di fianco hanno aperto un caffè letterario, da universitari

stronzetti.

Il Docking e il Matisse/Celebrità, quando ancora esistevano, funzionavano alla

grande; senza contare il Mulino, che però era già fuori porta, bisognava avere la

macchina, chiederla al padre. Tra me e Mauro con i mezzi di trasporto ce la

cavavamo, una volta lui e una volta io. Ci dividevamo a turno lo sforzo bellicodella richiesta. Erano gli anni del «ce ne andiamo a New York», come extrema

ratio, piuttosto che rimanere a Pavia e precludersi ogni prospettiva futura. Già

cominciavamo a vedere l'amico laureato che impazziva per trovare un lavoro,

rassegnandosi a una vita squallidissima; piuttosto che finire così, meglio

emigrare.

Dagli esordi con Live in the Music, registrato e suonato come veniva, lentamente

approdammo al magazzino Merula di Bra: quello delle offerte speciali, un postostorico dove prima o poi passano tutti i gruppi. Lì acquistammo un sintetizzatore

e un campionatore a prezzo ribassatissimo. Quella fu la Grande Svolta.

Hanno ucciso l'uomo ragno, il compact, uscì nel '92; ma l'anno prima ci fu Non

me la menare. Portammo il pezzo su cassetta nella portineria del vecchio ufficio di

Cecchetto, in via Massena. E restammo in fiduciosa attesa.

Nel frattempo io avevo fatto qualche calcolo a mente fresca: «Il servizio civile come

volontario della Croce Rossa non mi dispiace, si conosce un pacco di gente e poic'è la possibilità di essere assunti...». Sembrava una soluzione accettabile, quasi

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un'uscita di sicurezza, non avrei guadagnato chissà cosa, ma 'fanculo; fino ad

allora mi ero limitato a consegnare i fiori per il negozio di papà e mamma, non

proprio il massimo delle mie aspirazioni.

Mentre ero ancora preso in questi ragionamenti, arrivò la telefonata di Pier Paolo

Peroni, braccio destro del capo di tutti i capi: «C'è Claudio che vi vuole parlare,sbrigatevi». Noi schizzammo, e subito: «Okay, è deciso, si fa». Non capivamo più

un cazzo, cominciammo a registrare e nel frattempo, sempre Claudio: «Tra un po'

c'è Castrocaro. Volete andarci?».

Così capitammo al nostro primo concorso, allo sbaraglio, impreparatissimi. Non

sapevamo neanche che si cantava dal vivo con la base; ce la portò Pier Paolo da

Milano nel giro di poche ore, confezionando alla meglio una versione strumentale,

cancellando solo le voci.L'ambiente di Castrocaro è molto... termale, fatto di gente che, vabbe', ha i suoi

problemi e se ne potrebbe stare tranquillamente in albergo a spararsi le sue belle

cure. Invece vanno a tutte le manifestazioni. Paresi totale. E puzza di zolfo, di

uova marce.

Non avevamo mai fatto niente dal vivo: un esordio in presa diretta, stupendo.

Comunque il vero spettacolo erano i giovani cantanti «di carriera», grandiose facce

da fame arretrata e discorsi modello «se vinci tu, sarò contentissimo». Ma non èvero niente! Rischi la pazzia, hai un'acidità di stomaco atroce e ancora spari 'ste

stronzate! Mauro e io giravamo spaesati, pure un po' imbarazzati dalla situazione,

da un mondo stranissimo e alieno. Nel Novantuno c'era anche Nek di Laura non

c'è; solo che gareggiava con il suo gruppo, I Nek, un plurale da Dio. Quel nome mi

lasciò un po' perplesso, ma era già l'epoca dei primi telefonini, circolava il

cellulare-mattone della Nec, e mi convinsi che i mitici Nek fossero sponsorizzati.

A Castrocaro Mauro si presentò vestito da macho gay di San Francisco caduto indisgrazia: torso nudo, giubbottino di pelle aperto sul davanti, collanona in corallo

e chitarra elettrica Fender (mai saputa suonare, però gli serviva come punto di

appoggio nei momenti di strizza). In quanto a me non ricordo, forse

inconsciamente ho cancellato tutto. Comunque, un gran figurone, noi due.

Poi... be', poi per mille ragioni mi sono trovato solo, quasi mio malgrado. Ho già

detto che non sono un esibizionista, non mi piace cuocere sotto i riflettori; mi

sono dovuto inventare come «Max Pezzali degli 883», perché serviva a me e al

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gruppo, ma il mio ideale sarebbe restare dietro le quinte. La molla che mi spinge

a buttarmi è l'affetto, la carica che ricevo dal pubblico durante i concerti.

In fondo il cantautore classico modello Guccini è partito timidamente, cercando di

raccontare qualcosa di sé, e giocoforza si è trovato preso in mezzo. Il rocker,

invece, ha un ego grosso così, tipo Mick Jagger; deve apparire sempre ecomunque, se no sono cazzi. Anche l'interprete «puro» sa come giocarsela, perché

ha scelto una determinata carriera per precisi motivi. Già durante i primi concerti

si atteggiava a «bello della band», e se vai a chiedere a quelli che suonavano con

lui, dicono che sì, era il figo della situazione, sotto le luci, mai in ombra. Lo vedi

anche oggi nei localini, nelle birrerie, che esiste questa figura del bello;

chiaramente canta, come non importa, ma innanzitutto si sente una star.

Io appartengo alla categoria opposta, a quella del «sono qui quasi per caso, ehilà,come va»; insomma, me la gioco con parecchia ironia, cercando di divertirmi.

A darmi manforte c'è Claudio Cecchetto, il fondatore di Radio Deejay ancor prima

che mio produttore. Claudio, e più lo conosco più me ne rendo conto, è una rarità

nel panorama discografico. Se crede in un progetto va fino in fondo, fregandosene

di mode dell'ultima ora e fidandosi ciecamente del suo istinto, che magari lo

spinge più lontano e più avanti di mille complicatissimi ragionamenti fatti da

altri.Quando Mauro e io iniziammo a portare in giro i provini, tutti ci consigliarono di

essere meno rap (con particolare riferimento a Non me la menare) e più «alla

Bigazzi, alla Raf», perché la scuola fiorentina era il massimo e da lì non si

sgarrava. Se proponevi qualcosa di diverso, non importava fosse bello o brutto,

era SBAGLIATO, punto e basta. Claudio, invece, si limitò a commentare: «Mi

piace, venite su, si fa il disco».

Ancora adesso ascolta tutto ciò che gli arriva; per lui è una questione di principioe di orgoglio. «Dentro questa cassettina potrebbe

esserci un pezzo della madonna. Non posso buttarla via perché non ho tempo; il

tempo lo trovo, è il mio mestiere.» Stesso discorso per Pier Paolo Peroni.

La maggior parte delle case discografiche italiane non funziona così. Gettano via

tonnellate di nastri quasi senza ascoltarli, al massimo producono un gruppo

perché propone un genere che sembra tirare, ma poi non lo promuovono, non si

arrischiano nemmeno a realizzare un video, lo buttano a mare. Per commentare

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alla fine, davanti ai cadaverini: «Che stronzi, che merde, non valevano un cazzo,

non hanno funzionato per niente».

E ci credo, con un trattamento simile.

In provincia, a una certa età, si cerca di gestire equamente il budget andando

prima in discoteca, al massimo dopo una puntata al bar. Qui a Pavia tutto chiudealle 2.00, ohi, le due fisse, mentre uno studente può ben aver voglia di andare da

qualche altra parte. Per noi le ultime diecimila erano il simbolo del fine serata.

Sempre che uno disponesse di un budget, il massimo per un diciottenne degli

Ottanta erano le cinquantamila del weekend. Togli l'ingresso in discoteca,

quindici o venti con una consumazione... ma una non bastava mai. Era

bellissimo quando ti succedeva di trovare dei soldi per terra, che nel nostro caso

appartenevano immancabilmente al buttafuori. Portava quei pantaloni con lepences e la tasca bassa: teneva il grano lì dentro. Ogni tanto gli cadeva, noi un

paio di volte eravamo lì vicino... no, eravamo sempre lì vicino.

Il deca rimaneva l'ultima speranza, perché alla fine della storia, quando uscivi da

una discoteca alle due, ti restava soltanto la pizzeria. Un paio erano ancora

aperte a quell'ora, a volte con la serranda calata. Chi è del posto può entrare dalla

porticina; bussi e ti aprono, agli altri no, perché «sai, le multe sono in agguato...».

Se diecimila non bastavano neanche per la margherita e una piccola, ti ritrovavi agirare senza meta, senza un'anima in giro. Un'atmosfera da provincia di notte,

con qualcosa che non torna, perché la provincia è nata per andare a dormire

all'ora giusta.

«Di che ti lamenti, vivi in una città a misura d'uomo...» Sì, vabbe', ma quale

uomo? A chi cazzo hanno preso 'ste misure? Probabilmente, se fai la tua vita bella

normale, da regolare, va bene tutto: la passeggiatina nel corso, le vasche

lentissime... Non mancano nemmeno le isole pedonali. A Pavia ce n'è unacostruita in maniera fantastica per chi ha tanto tempo da perdere, per chi può

lasciare la macchina a casa di Dio e spararsi a piedi tutto il centro.

L'ideale per gli onesti cittadini che lavorano, dormono, e la mattina si alzano

PRECISI. A una certa ora di notte non senti volare una mosca; il rumore di un

accendino lo becchi a due chilometri di distanza. È frustrante, non ci sono

alternative, non ci sono possibilità. Molto presto si passa a paragonare la

mancanza di prospettive della serata con la mancanza di prospettive nella vita: aldi fuori di quelle quattro menate che hai vissuto in una notte, c'è il niente.

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Questa però è già la fase post-Jolly Blu, dopo la sala giochi, dopo l'adolescenza.

Dopo il periodo dai sedici ai venti, un momento eterno, finito il quale ti sorprendi

a considerare che, se in quattro anni ho combinato tutto questo, altri cinque sono

una vita completa. Posso anche morire giovane, che tanto... Poi ti riscopri a

trentanni, non sai nemmeno come, e non ti ricordi neppure i passaggi intermedi.In quell'istante passi dalla presunta onnipotenza a... merda!

Almeno nelle compagnie di ragazzini si era nella stessa barca, c'era uno che

faceva l'istituto tecnico, l'altro l'Ipsia, l'altro ancora il liceo, con in comune il

miraggio della fine della scuola. Con le leggende sull'universitario che non

combina mai un cazzo, chiava giorno e notte, fuma come un turco, al massimo

dello sforzo occupa la sede della facoltà. Sognavi una vita dopo, al di là dell'alzarsi

la mattina alle sette per essere in classe alle otto; sognavi la libertà. E alla finec'era la macchina, Cristo, sarebbero arrivati prima o poi i famosi diciott'anni con

LA MACCHINA. «Se in moto facciamo tutto questo, in due sul sellino, in gruppo,

con un freddo della madonna, quando abbiamo l'auto chi ci ferma più?

Passiamo il sabato sera a Parigi!»

Invece è esattamente il contrario, la macchina serve solo per parcheggiarla

davanti al bar, non hai più un posto dove andare, non hai più l'entusiasmo di

andare in quel posto. Scopri che quando gli altri cominciano a lavorare, gli sichiude la vita davanti, devono entrare in un ordine di idee ben preciso; dopo

poco, andando all'università, urli dentro di te: «Ma allora non era vero niente!». Ti

senti impotente, hai paura di dover seguire uno schema fissato da altri.

In provincia la sindrome del tutto programmato, chiamiamola del Rotaract, del

Rotary Giovani, la provi sulla tua pelle. In un certo senso gli anni Ottanta sono

stati determinanti, hanno dato moltissimo, ma costituiscono anche la frazione di

tempo in cui lo stile di vita altoborghese ha stravinto, diventando il modello pereccellenza.

6/1 SFIGATO

In una città come Pavia ci sono i ricchi veri e quelli finti. In parole povere, i ricchi

vanno nei bar dei ricchi, fanno le cose da ricchi nei loro ricchissimi ambienti. Tra

quelli a stipendio fisso e basso, c'è chi cova un'invidia terribile e prende la

seconda scelta di un universo inarrivabile, vivendo di luce riflessa.

Ricordo un mio amico, fantastico, un vero esempio, era il migliore nel tenere lamoto su una ruota sola, poteva andare avanti per ore. Dopo il diploma da

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ragioniere, subito entrò nel mondo del lavoro a Milano. La Milano da bere, un

inferno di camicie azzurre a righine, robe inquietanti, anche pericolose,

come certi mocassini da delirio... Per non parlare dell'Audi 80, l'auto che nel

normale sviluppo socioeconomico di un individuo veniva dopo la Golf. La Golf era

per il giovane, l'Audi era già con la coda, cioè: «Mi è cresciuta la coda, sonoarrivato, sono adulto; questo segno tangibile mi distingue da voi che aprite il

portellone, il bagagliaio... qui c'è la coda!».

Insomma, il ragioniere subì una metamorfosi totale, del tipo: «Tra l'altro, voglio

dire, noi maneggiamo un sacco, costruiamo tantissimo». Lavorava per un famoso

costruttore, un posto dove giravano soldi, dove «mi hanno dato un incarico di

enorme responsabilità». È strano sia ancora fuori di galera, perché i giovani di

belle speranze in genere li piazzavano a smazzare il lavoro sporco, magari afirmare le bolle del materiale in entrata, poi succedevano casini tremendi e il

titolare: «Non ho fatto niente, sono innocente, ha combinato tutto lui di sua

iniziativa». Questo era il nuovo mondo selvaggio del mio amico.

La Milano di allora per chi viveva in provincia era la manna, dava lavoro a

chiunque: tutti costruivano, tutti facevano, giravano le milionate. I politici

spendevano come pazzi; i miei genitori, con il loro negozio di fiori, erano

contentissimi. «Comunione della figlia di XY: bouquet da settecentomila lire.»Grandioso. E gli importatori paralleli di suzukini: esisteva un fuoristrada migliore

per la figlia che andava al tennis club? «Uèhi, mi mandi la bambina in giro col

pandino? Dai, cazzo, non puoi!»

A noi del gruppo non importava una sega dei ricchi, ma tra le nostre fila si

infiltravano degli agenti sabotatori, pieni di ammirazione per un mondo di

champagne e lustrini. Al punto da farci sentire delle merde perché non

appartenevamo al giro giusto. «Non possiamo uscire; e che, andiamo in discotecacon te vestito così? Che figura!» O magari telefonavano: «Ah sì, stasera si

combina? Ma chi c'è?». Eccheccazzo te ne frega! Chi c'è, c'è! Io, Mauro e gli altri

della compagnia avevamo ancora un comportamento adolescenziale, ma già

odiavamo questi «nostri» che si ammazzavano a copiare lo stile di vita degli altri.

Ricorderò per sempre una serata tra le più brutte della mia vita. Avevo la Golf di

mio padre, solo per questo ero stato accettato nel convoglio. «Andiamo a mangiare

i pansotti a sugo di noci a Varazze.» Obiettivamente, un'idea tremenda. A tirarcidentro, uno dei «nostri», con un solo lato buono: la più figa di Pavia per sorella,

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che allora filava con un ricco, uno con una finanziaria fantasma. Dopo aver

venduto la bellezza di centoquaranta posti macchina inesistenti, si è tenuto

lontano dalla città per parecchio, tornando solo di recente su una Jaguar da

pappone. Allora sembrava così rispettabile.

Inseguire il tipo fino a Varazze fu un problema: perché devi farmi pesare che haila Mercedes S, che poi sulla Serravalle non mi fotte nessuno e devi rimanere

indietro ugualmente. Alla fine arrivammo al ristorante, un vomito, e sborsammo

pure una cifra. Non avevamo neanche i soldi della benza per tornare, e allora

tutto uno stare attenti con l'acceleratore, perché alla partenza avevo ipotizzato

che vabbe', cinquanta carte al ritorno le mettevo dentro e arrivavo a casa

tranquillo. Invece no, pelato completo in questo posto sul mare; una tristezza, con

lo stronzo che ripeteva: «Oh, mi raccomando, nessuna brutta figura».Eccoli, gli infiltrati che ti ficcavano in simili incubi, che continuavano a uscire con

te perché non si potevano ancora permettere la settimana piena con gli altri. E

che parlavano in stretto gergo pillitteriano, un po' tipo la macchietta dei film dei

Vanzina. Giuro che sono tra le poche persone che non voglio sentire mai più;

neppure vedere un loro e-mail, perché sicuramente inizierebbe con un «cazzo,

cioè no, siamo andati dal Dado...» e immaginerei di ascoltare l'intonazione della

frase. Anche una parola scritta da loro ha un suono, che orrore. La té la tiri dellacanzone è una poveretta fregata da quel mondo. La figa di provincia; non la

bonazzona in assoluto, ma la wannabe, la fotomodella dei poveri. Considerata un

idolo dai ragazzi locali, ma un idolo accessibile, che puoi frequentare.

Il personaggio in carne e ossa a cui mi sono ispirato era una parrucchiera. Per la

provincia fare la parrucchiera è già glamour allo stato puro, perché ti occupi pur

sempre di bellezza, di look. Sei tra le più carine del posto, guardata con

ammirazione dai maschi della discoteca, e allora caghi solo quelli dai trenta inpoi, con la Mercedes penultimo modello (magari in leasing o prestata da un amico

ricco).

La classica té la tiri suscita tenerezza; ha fatto male i suoi calcoli, è una perdente

anche se non lo sa. Si mostra gelida nei confronti dei ragazzi del gruppo, per lei

sono meno di zero, sfigati da bar. Pretende il tipo con l'appartamento in centro,

ma nel centro di una città come Pavia, settantacinquemila abitanti. Tutto diventa

quindi molto relativo, una guerra tra poveri, con lei che scarta la compagnia epreferisce quelli da «soldi pochissimi, debiti tanti».

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Alla fine, per le wanna be si scatena la guerra dell'ultimo secondo; le vedi a

ventinove, trentanni che cercano di sposarsi a ogni costo, perché cominciano a

venire considerate zitelle dopo essere state le strafighe che facevano girare la testa

a tutti. È il peggior destino che possa capitare. Hanno giocato al rialzo, ma poi è

arrivata la febbre asiatica delle borse orientali con il relativo crollo.Nell'orbita della te la tiri circola lo sfigato. Ora, esistono due tipi diametralmente

opposti di sfiga: c'è quella dignitosa e quasi orgogliosa, che deriva dalla

consapevolezza di non essere al centro dell'universo di nessuno... magari non si

combinerà molto nella vita, però va bene lo stesso. Poi c'è lo sfigato che è convinto

di essere un genio assoluto, che vive di miti visti in tv, al cinema, all'interno dei

mensili patinati. Ogni tanto si sposta nella metropoli e frequenta locali rimasti

aperti solo per i provinciali, dove i milanesi non mettono più piede da anni. È unpersonaggio che ha sempre frainteso tutto; a volte un ex «nostro» con la

convinzione che per diventare «così» (così belli, così bravi, così ricchi) sia

necessario avere certi atteggiamenti, certi vestiti.

Un mio amico tagliatore di marmo, bravissimo, un bel momento cominciò a

odiare la sua professione. Iniziò a spendere barche di soldi per l'abbigliamento e

un giorno fece il grande salto, andando a lavorare in una boutique. Questo solo

per rendersi conto di guadagnare la metà di prima e ritornare, con un certoorgoglio, alla vecchia occupazione.

In provincia il weekend è davvero tragico, perché diventa il sabato del villaggio.

Quando si andava a scuola, poi, era brevissimo; cominciava il sabato pomeriggio

con le prime vasche in centro.

«Allora, stasera c'è una festa della madonna.»

«Ma si può andare?»

«Tranqui, è un amico, ci becchiamo al bar;mi raccomando, nove puntuali, a posto.

 Tu arrivavi bello pompato e: «Ma lo sai

che non la fanno più, hanno perso la voglia.

Dai, andiamo in discoteca.

Allora, ci siamo caricati per niente? Tutte notizie assolutamente finte di storie

bellissime che uno al pomeriggio aveva organizzato, poi la sera non c'era più

nulla. Capitavi sempre nello stesso posto, a ucciderti nello stesso modo e apensare se avevi la sfiga congenita.

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Il brutto era come Pavia riuscisse a sognare con niente. Milioni di uscite, ma

milioni veramente, finite a parlare di: «Cristo, coso mi ha detto che ad Amsterdam

c'è un pub con le fighe che, appena entri, arrivano con lo scivolo!».

Oppure: «A New York, minchia, ci sono tutti dei locali che fanno musica così e

cosà, tu vai e ti diverti da Dio, mica come qui». Il piangersi addosso dellaprovincia è squallido, sprechi un sacco di tempo a pensare come sarebbe se tu

non fossi lì in quel momento... però intanto ci sei. Meglio adattarsi e cercare

di giocarsela bene; ma no, ti trovi a sopravvivere col miraggio di chissà che.

Non credo sia cambiato moltissimo per i ragazzi di oggi, al massimo la forma, non

la sostanza. Forse è peggio. Ci sono meno punti di riferimento, meno sorprese. Lo

noto dai particolari, dal rapporto con i motori, per esempio; noi dovevamo

spingere a settanta all'ora delle baracche che stavano insieme a stento. Tipo ilCiao che è, e resta, uno dei peggiori esempi di minimalismo meccanico; eppure ci

combinavamo delle robe...

...come con quello tinta albicocca di un vecchio amico; andava come una

scheggia, si doveva pedalare per quindici chilometri per fargli prendere velocità

perché non aveva il variatore, ma una puleggina grande uno sputo. Quindi: tvooo,

 woooo, wooooo, wooooooooooo, una salita non l'affrontava, però in piano tirava gli

OTTANTA all'ora. Unico problema, non si doveva mai rallentare o frenare, pernessuna ragione al mondo.

Al colmo della voglia di vivere, il nostro amico si spinse fino a Milano. Dunque, in

diretta: Milano, ruota del Ciao, rotaia del tram, ci entra dentro, lanciatissimo, non

riesce a uscirne, incrocio, i binari curvano, il motorino pure. Lui no. Il Ciao andò

avanti da solo, pacifico, meno male che aveva «il rapido» se no era ancora lì che

girava. Il tipo si fece un male boia, e da allora per un bel po': «Cazzo, in città

occhio alle rotaie perché... figa».A Pavia niente tram, niente rischi.

I ragazzini di adesso sognano di meno. Negli Ottanta esistevano dei miti, ma

irraggiungibili: l'Aspes Yuma, il 125, gran figata, ma non ce l'aveva nessuno.

Partivamo tutti alla pari e vinceva chi più spendeva in emozioni, fatica, sudore.

Ora li vedi che ci tentano, magari provano la marmittina speciale, ma non osano

veramente: è finito il gusto del personalizzato, dell'elaborazione. Come traguardo

hanno giusto la Leo Vinci, che solo il nome è di un kitsch pazzesco. Non è colpaloro, ma del periodo in cui si trovano a vivere.

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  Tutto omologato. Non esistono più le tribù. È sempre stato un problema della

provincia, d'accordo: a Milano i punk potevano essere l'uno per mille, a Pavia

l'unico punkettone se le beccava da chiunque. Però quei quattro o cinque un po'

strani, che ascoltavano musica particolare, c'erano.

Forse è dovuto al fatto che le mode giovanili arrivano direttamente dal produttoreal consumatore, perdendo nel mentre quel poco di carica eversiva che potevano

possedere. Un tempo furoreggiavano le fanzine, adesso mtv che fa diventare

patinata qualsiasi cosa, anche la più rivoluzionaria. La rivistina ciclostilata in

cento copie era un tam tam tra iniziati; il video è un prodotto destinato a TUTTI,

tanto che non esiste più nessuna distinzione tra il gruppo rap cattivo, bastardo,

e... Notorious B.I.G.

Questo dimostra che l'overdose di informazioni può essere peggio della carenza.Negli Ottanta, se non riuscivi a ottenere ciò che ti interessava, perché non era

subito a portata di mano, ti sbattevi come una bestia per ottenerlo. Con

l'overdose, con grandi pere di Internet, rischi di diventare insensibile a qualsiasi

tipo di messaggio: ti arrivano così tanti input che il tuo filtro mentale non riesce a

reggere, a separare il buono dal meno buono, il nuovo dal vecchio, l'utile dal

perfettamente inutile.

Anche nella musica. Per esempio, qui a Pavia esisteva Bootleg, un negoziomicroscopico con dischi d'importazione altrimenti introvabili, che ha cambiato la

vita di una generazione. Medesimo discorso per le stazioni radio; una volta c'era

quella pirata o davvero all'avanguardia, oggi sono tutte uguali, non ce n'è una

diversa dall'altra, trasmettono lo stesso prodotto a ripetizione.

Vabbe', viene a farci la predica proprio lui che...

Un momento. Sono uno dei più miopi della provincia, e che mi frega, ma quando

avevo tredici anni mi importava eccome. Non esistevano ancora gli occhiali conlenti da due micron o quelle a contatto. Allora:

vetri da finestra davanti al naso. Bastava un particolare simile per essere

considerato malissimo, per essere evitato da certi coglioni in prima liceo e pure

dopo, per non venire invitato al tennis club dalla ragazzina che ti piaceva.

Così mi trovai giocoforza nelle vesti dell'alternativo, del simpatizzante punk, del

tipo a cui piaceva musica stranissima; cazzo, quello era il mio alibi, il mio gadget,

e nessuno me lo poteva togliere. Altrimenti, cosa mi sarebbe rimasto?

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Però in quel modo scoprii di vivermi bene certe storie che altri rifiutavano, tipo:

«Concertone a Piacenza con i Not Moving, si va!». Se non altro si usciva dal solito

giro. Poi arrivavi al pub, chiedevi dello spettacolo al proprietario e lui ti guardava

stranito, non ne sapeva niente. Morale: si era sbagliato giorno. E tu, giunto sul

posto una domenica pomeriggio dopo un viaggio allucinante e con un paio difighette assonnate, ti incacchiavi di brutto, ma pazienza.

O la volta a Pavia con i Chelsea Hotel, il massimo della trasgressione, quattro

gatti a vederli, con il cantante che cominciò a tagliuzzarsi le braccia e venne

portato via d'urgenza dalla Croce Verde...

Questo mondo è morto. Una volta, tipo, i Not Moving erano credibili perché si

sparavano un culo della madonna, suonando in buchi da cinquanta posti al

massimo; avevano il culto della produzione indipendente, rifiutavano qualsiasiapproccio con le major del disco. Oggi il gruppo italiano «alternativo» (tra

virgolette GIGANTI) pretende di utilizzare i canali ufficiali, punta subito alla

grande etichetta, al posticino al caldo in classifica. Non esiste più un forte

movimento, una sincera spinta dal basso: si pensa solo ad arrivare in alto, con

qualsiasi mezzo. Ultimamente, ai giovani underground hanno dato una bella

scossa i non più giovani csi. Fedeli alla linea da secoli, con l'ultimo disco possono

andare tranquilli dalle band che se la tirano e dire: «Tu, tu, tu e tu: sareste ilfuturo?».

All'omologazione si aggiunge anche l'orrido concetto del franchising: tutto uguale

a se stesso. Un anno vanno le birrerie australiane con i manifestini della XXX?

Bene, facciamo cento. Adesso tirano quelle irlandesi? Bene, mille in tutta Italia! A

Pavia ne hanno piazzata una nell'ex palazzo comunale; Cristo, una costruzione

del Milleduecento con dentro i gagliardetti della Guinness! All'inizio, camerieri

rigorosamente irlandesi, tanto per fare i fighi, una vergogna da avanspettacolo;poi questi scompaiono, di punto in bianco, e non capisci neanche più dove sei.

Il bar, almeno, ha i suoi punti di riferimento. È quel luogo magico dove avviene

tutto e di tutto, dove puoi chiacchierare con chiunque.

Perché la vita non ha senso se non la racconti a qualcuno.

A Pavia il bar è un posto veramente transgenerazionale, dai tredici ai novantanni,

dove non sei mai solo; al massimo parli con il proprietario. Non esiste il locale

mirato, targettizzato; te lo farebbero fallire in un paio d'ore. La clientela è fissa, o

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quasi e parecchio abitudinaria; non vede di buon occhio i cambiamenti di arredo,

di mobilio. Vuole che tutto rimanga congelato nel tempo.

Il nostro bar, quello della compagnia, venne rilevato nell'Ottantatré dal Dante, da

cui Bar Dante. Suo figlio Miano girava con noi, quando ancora andavamo in sala

giochi, prima la Jolly Blu, poi un'altra in centro. Finché il Miano: «Ohi, ho preso ilbar, mi venite a trovare?». Ci precipitammo il giorno dopo. La sala giochi era una

scelta dettata dalla pura necessità: si stava al caldo e non c'era

l'obbligo della consumazione.

Il Bar Dante nel tempo è cambiato, ma si è trattato di un'esigenza di vita.

Inizialmente un buon terzo della metratura era consacrato ai pensionati, che

regolarmente non consumavano. Avevano eletto a loro territorio la stanzetta in

fondo; non si sa per quale motivo, forse per la presenza di un televisore a colori.Il pensionato è molto più lesto dei ragazzini e ha mille sistemi per dissuaderti

dallo sconfinare. Se a sedici anni ti sedevi vicino a loro, magari con una tipa,

cominciavano a guardarti storto finché non ti alzavi e ti spostavi.

Quando la saletta è sparita, con il vantaggio di guadagnare qualche metro

quadro, i vecchietti hanno avuto un moto di ribellione; si sono allontanati dal

locale in massa, per poi tornarci, sempre senza consumare, sempre giocando a

carte.Da poco il bar ha un nuovo orario: chiude alle due e mezzo di pomeriggio e riapre

alle sei, per evitare quel buco nero durante il quale non ci sarebbe anima viva.

Per i pensionati è stato un dramma, fino a quando non si sono attestati in un

locale d'appoggio di fronte al Dante, per far quadrare la giornata

e riempire i tempi morti. Neanche le Brigate Rosse erano così organizzate.

I frequentatori abituali, che bene o male si conoscono tra loro, si concentrano in

aree particolari. Per esempio, quando esisteva il vecchio Dante con saletta, dietroci stavano i pensionati, al banco lo scapolo o chi fuggiva dalla moglie per l'ora

dell'aperitivo...

...ecco, il rito dell'aperitivo serale – pressappoco le sei, dopo il lavoro - rappresenta

il top della giornata. È il momento in cui ognuno deve mostrare quanto conta

veramente nella vita. Dall'ordinazione alla scelta delle parole, tutto deve essere

perfetto; il bancone con i trespoli sul davanti è un palcoscenico, il punto più

visibile del locale, el'esibizione non ammette errori.

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C'è chi: «Minchia, è dura», minimalismo allo stato puro, commentando la giornata

appena trascorsa. Oppure: «Oggi pomeriggio tre ore bloccato sulla tangenziale da

Milano», per metterci in mezzo un pizzico di esotismo, per chiarire che si arriva da

una città vera. A seguire, buttata lì con nonchalance: «Che sudata; ma per un

miliardo e due di contratti firmati ne vale la pena, dai». Qui scatta l'inevitabilerisposta, quasi una requisitoria: «Cazzo dici, se ti ho visto alle quattro in centro a

Pavia!».

Sul palcoscenico del bar devi conoscere e rispettare le regole del racconto, tenere

desta l'attenzione dell'audience (quella dell'aperitivo è la più esigente). Nulla ti

viene perdonato. Se ti dilunghi in una descrizione ti mandano 'affanculo, se sei

troppo conciso rischi di non farti capire. Tipo quando butto giù una delle mie

canzoni: il superfluo non serve, il ritmo è fondamentale. Non per niente albancone nascono dei veri fenomeni. Al Dante il massimo è Bussolini, che sostiene

di essere parente del Duce solo perché ha un cognome simile. È un pazzo, ma

come le racconta lui, non le racconta nessuno.

In genere i clienti normali non ci capiscono niente: magari uno, poveretto, è

venuto solo a bersi un caffè in santa pace, e si sente troppo a disagio, spaesato. È

il problema dei bar quando diventano proprietà esclusiva della clientela abituale;

gli «occasionali» li abbandonano. L'unica soluzione è quella di istituire zoneseparate, firmare un patto di non belligeranza: «Non andare di là a rompere le

palle; tu non sei un diente, ma l'habitué».

Però i ragazzini entrano sempre, quelli che un tempo eravamo noi; sono arrivati a

darci il cambio, permettendoci di godere di un potere maggiore. Il rispetto per il

«nonno» è fondamentale. Esempio pratico: classico posteggio in doppia fila davanti

al bar. Chiaro che puoi arrivare e mettere la macchina dietro a qualcuno, ma

seguendo una precisa gerarchia. Non è che mi parcheggi dietro se sei il bambinodi diciott'anni, non esiste proprio, è un casino; la metti dietro all'auto del tuo

amico, punto e basta. Io, invece, posso bloccarti con la mia. Le piazzate, in ogni

caso, sono all'ordine del giorno. Magari hai la macchina nuova, magari uno vuole

fare il furbo, e allora tuonano bestemmie e smadonnamenti: regolare.

Noi della compagnia abbiamo l'accesso alle leve del potere. «La penisola che non

c'è» ci appartiene di diritto. È il tavolo più bello del bar, attaccato al muro ma

proteso verso l'esterno: da qui il suo nome. Un punto di osservazione privilegiato,al centro dell'attenzione ma insieme un po' defilato.

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Come compagnia di amici hai un'enorme forza contrattuale, rappresenti il soldo.

Basta uno sguardo di traverso, un «mi hai segnato la consumazione che ti ho già

pagato ieri», e scatta l'avvertimento mafioso. Ale, ci si sposta, per un mese ci si

trova - poniamo - dal Piscella; magari lì non ti senti a tuo agio, ma quando ritorni

al vecchio bar, scopri ad attenderti il tappetino rosso. E a malincuore capisci chel'eccessiva confidenza colpisce nel portafoglio, quasi sempre.

Le coppie vanno ai tavolinetti, e nella geopolitica del bar vengono considerate

meno della merda. Uno squallidume. Al massimo, se lei è carina, ci si lascia

andare a qualsiasi tipo di commento. Se i due vengono colti in atteggiamenti

teneri, si levano bordate di fischi. Il loro potere contrattuale è pari allo zero, gli

portano anche le ordinazioni sbagliate, perché non possiedono nessuna dignità,

nessuna giustificazione all'interno dell'ottica del bar.I pensionati non li cagano. Lo scapolo che sta al bancone li fissa sorpreso,

convinto di essere nel giusto. La sua è una scelta dettata da una precisa

motivazione: tutte le donne sono troie. Lo sposato, evaso da casa e felice della sua

ora d'aria, potesse sterminare l'intero genere femminile lo farebbe; d'altronde, è la

causa prima dei suoi guai.

Classico tipo da bar è il rappresentante. Un tempo era il maitre à penser della

situazione, perché viaggiava, conosceva gente nuova, posti nuovi; poi tornava eraccontava. Non per niente, Marco Polo faceva il rappresentante.

Se ti capita di esclamare: «Domani devo spararmi fino a Bergamo!», il nostro

personaggino se ne esce con un: «Ma allora va' a mangiare da Tizio; appena uscito

dal casello, prendi di lì, gira di là e ci sei. Ordina la tagliata che è buonissima». È

il suo momento di massima gloria. Tipo Han Solo di Guerre Stellari: atterra con il

Millennium Falcon, prende l'aperitivo e riparte. Per lui Pavia è uno sputo di

asteroide nella più remota delle galassie. O così vuol far credere.Il rappresentante può anche non abitare in città, ma avere clienti in zona. All'ora

dell'aperitivo lo trovi al bar, con la sua Volvo Station attraccata fuori. Arrivando

da altre realtà socioeconomiche, si sente obbligato a sottolineare che la provincia

fa cagare, in toto: «Qui non capite una sega, non conoscete il significato di

imprenditorialità...». Naturalmente la mette sul piano del suo problema

immediato; una deviazione per lavori in corso, per esempio. «Ma che cazzo, tirate

una linea dritta ed evitatevi 'sto casino. Eeeeh, mancano i progetti, mancano leidee.»

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Una nuova figura è il softwarista, o chiunque si intenda d'informatica.

Sostituitosi al rappresentante quale «intellettuale», dovrebbe costituire

l'interfaccia tra le nuove tecnologie e il bar.

In realtà non capisce una fava. Sua tipica affermazione: «Adesso sto curando la

manutenzione di una rete; pensa che puoi uscire di casa, andare in ufficio, tiraregiù le tapparelle e fregartene del resto. Tanto se ne occupa il computer».

Grazie a quelli come lui, persino Internet è arrivato in città nel modo sbagliato.

Per esempio, l'azienda servizi municipalizzati di Pavia ha una pagina web con gli

orari degli autobus. Che figata. Sono a casa, bello tranquillo, mi collego, bip, bip,

bip, user name, password, becco il bookmark, vado all'ASM, mi incarto con il

modem... Un delirio. Non è più semplice scendere a controllare il cartellino alla

fermata? Ci si impiega un quindicesimo del tempo. Questo è il tipico caso daservice provider locale. Come può sopravvivere un service provider a Pavia?

Facilissimo: inculando tutti i commercianti della zona. Una volta esistevano le

mappe topografiche della città, grandi come cartoline e con la pubblicità del

verduriere o del lattaio. Uno sborsava cinque milioni per duemila fustelle con

sopra stampato il nome della sua bottega, per poi donarle ai clienti affezionati.

Adesso non è più così; c'è Internet, l'ultima frontiera. Dove, assieme agli utilissimi

orari dei bus, trovi anche la brochure digitalizzata di una ditta di giunzioni pertubi. Stupendo.

Ogni amministratore locale parla della famosa rete. Vicino a Pavia c'è un comune

piccolissimo, del tipo dove il consiglio si riunisce in municipio e poi si sposta a

proseguire in osteria; la bottiglia una volta la paga la maggioranza, un'altra

l'opposizione. Bene, il sindaco ha annunciato trionfalmente che la sua città presto

avrà un sito on line. Ma se abitano tutti a tre chilometri dal centro, massimo! Se

esistono sì e no cinque abbonamenti a un provider nell'intero paese!Non riesco più a sopportare i settimanali come «L'Espresso» o «Panorama»,

convinti che l'Italia si stia informatizzando. Palle. Non siamo in America, dove

persino il centro minuscolo ha il suo negozietto di computer. A Pavia la maggior

parte della gente vive con un milione e otto al mese; non puoi rompere,

sostenendo che bisogna avere quattro milioni di personal e stampante, da

cambiare una volta l'anno. Non puoi andare in giro a dire che, con supporti

multimediali ad alto livello, vedrai il film sottotitolato pure in finlandese (che se ti

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interessa imparare il finlandese è il massimo), interagendo nel frattempo con il

regista. Ma chi se ne frega, perché devo interagire?

Mi pare un mondo artificiale, con giornalisti sicuri di parlare a un pubblico di

milioni, quando in realtà si rivolgono a non più di centomila addetti ai lavori. È il

problema dei media, non guardano in faccia la realtà: le fabbriche, gli uffici, i bar.Vadano un po' a spiegare l'Italia in rete» a chi deve prendere ogni mattina il treno

per Piacenza (anzi, no, la littorina diesel!), cambiando a Stradella, pregando che

non ci sia nebbia, impiegandoci un'enormità di tempo.

Dal bar, come dall'intero pavese, sono sparite le tribù giovanili. Non solo i punk,

gli skin o i mod, che trovavi in tutta Italia, ma anche quei movimenti tipicamente

ed esclusivamente cittadini. Tipo i cosmobimbi, che per anni furono il terrore

della popolazione. Nessuno sapeva - o sa ancora adesso - perché avessero sceltoun nome così delirante; secondo un paio di amici derivava dal Cosmic, una

discoteca di Verona. Giravano con i capelli lunghi e tinti, il giubbottino K2,

modello sacco della spazzatura, i jeans strettissimi e cortissimi, le Clark con le

calze rosse di lana; d'estate, immancabile il sandalo indiano di cuoio con

l'infradito (da bruciare). Alcuni usavano vecchie Diane scassate con dietro

l'adesivo del vagabond, l'autostoppista sballone con chitarrone che va verso il sole

nascente; altri andavano in Vespa, con strani tappetini. Non si lavavano pergiorni, puzzavano come fogne e nascondevano l'odore con litri di profumi

orientali, da vomito. Adoravano Bob Marley, reggae a manetta, si ammazzavano di

canne, ma giù di brutto sul serio, passando in certi casi anche alla merda

pesante. Odiavano chiunque fosse lontano dal loro giro, soprattutto i dark; vestiti

di nero, erano contrari alla loro presunta «solarità». Nel giro di pochissimo, Pavia

si riempì di graffiti del Fronte della Gioventù: «Morte ai cosmobimbi!». Roba che se

uno arrivava da fuori: «Ma di che cazzo parlano? Sono rincoglioniti?».Comunque, per una serie di ragioni imponderabili, i cosmos - si abbreviava così -

piacevano da pazzi alle ragazzine. Ci sbavavano dietro, in particolare agli

eroinomani. Una volta, durante un party con falò nel Parco del Ticino, si unì al

gruppo un tossico errante: «Oh, l'altro giorno mi ha fermato la polizia, sapete, mi

chiamo Lippi, come Claudio Lippi il presentatore, e alora ce l'hanno con me...». E

tutte: «Che carino, che strano». Insomma, fuori come un balcone equivaleva a dire

interessante, a posto, giusto.

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Svaniti anche i cosmobimbi, forse resistono solo i metallari, che però ascoltano i

Sepultura e... che so, gli 883.

DI Dio

Cisco («che resta in bagno un'eternità», in una canzone) fa il metalmeccanico a

Binasco: dignitosissimo nel suo ruolo, orgogliosamente personaggio da bar, senzapaura di niente. Se si presenta a una ragazza: «Piacere, Cisco. Faccio l'operaio».

Così, tranquillo.

Quando gli chiedi: «Ma a te cosa piace fare con una donna?» risponde: «Leccare la

figa». Normale, come fosse la roba più naturale del mondo; a volte si impegna

pure in un discorso piuttosto complesso: «Sai, per me è una questione di

romanticismo...».

Cisco è la vera autorità del Dante, lo frequenta almeno sei volte la settimana;compila tabelle e calendari. È l'habitué più in confidenza con il proprietario;

costituisce un po' la coscienza storica e critica del bar. A me ogni tanto sfugge

qualcosa, a lui mai.

Cisco sa che la tipa X è venuta già quattro volte questo mese, senza fidanzato.

Che i tizi della compagnia A ce l'hanno su con i tizi della B. Che i tizi della C ce

l'hanno su con il padrone perché ieri l'altro gli ha fatto pagare le tartine assieme

all'aperitivo. Una serie di informazioni indispensabili per chi manca da un paio digiorni, in modo da non sbagliare mai.

Per questi motivi, Cisco è rispettato da tutti.

E tutti gli danno retta. Cioè, se io dico:

«Cazzo raga, non facciamo sera qui dentro»,

devo spiegare il perché e il percome della mia affermazione, indicando

chiaramente dove voglio spostarmi. Se si alza lui, si va in massa senza aprire

bocca. Perché Cisco è UNO CHE SA. Se si muove, non si è semplicemente rotto distare lì. Probabilmente si DEVE andare.

YeYe è un amico con anni di tossicodipendenza alle spalle; alla fine ne è uscito,

una vera mosca bianca. Da poco abbiamo preso tre struzzi in società, un delirio.

Ancora dobbiamo capire quando cominceranno a produrre uova.

YeYe è il protagonista di «cumuli di roba e di spade»: una mia canzone, sì, ma

anche il tentativo di capire l'esperienza della droga e della comunità.

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«Racconta quei metodi coercitivi, tipo le corvè, tipo passare lo spazzolino da denti

tra una piastrella e l'altra.» Così, senza correre il rischio di cadere nella retorica,

di affermare:

«Però vedi che alla fine ti sei redento, ne sei uscito pulito». Molto meglio: «Ah, lì

dentro schiattavi? Bello, almeno impari ad avermi inculato un cinquantamilaquella volta là».

Sempre con parecchia ironia.

In genere, quando si parla di drogati, escono subito fuori le immagini del tunnel

delle crisi, una tristezza e banalità uniche. Per carità, vengono anche quei

momenti, con perdita assoluta di dignità e di valori umani; però, almeno all'inizio,

il tossico si fa perché gli piace un casino. Grazie a Dio è arrivato un film come

  Trainspottìng a chiarire la situazione: se drogarsi fosse una merda fin dalprimissimo buco, nessuno mai si sognerebbe di spararsi le pere.

Il moralismo alla «perché lo fai?», con un tot di finta pietà, non serve a un cazzo;

anzi, spesso stimola il tossico a pensare che, Cristo, se questi sono quelli che mi

dovrebbero salvare, arrivederci e grazie. A spingere YeYe verso la comunità, dove

potevano tirarlo fuori sul serio, è stata la compagnia. Cercavamo di aiutarlo, ma

alla pari, magari prendendolo in giro per quei classici atteggiamenti da tossicone

ultimo stadio, tipo lo strascicato «oh, dai mille lire?» o lo strofinarsi di continuo ilnaso con gli occhi socchiusi.

Se c'è una cosa che, da eroinomane, ti da più fastidio che una scenata, è

sicuramente la presa per il culo da parte dell'amico: non ti senti più il maledetto,

il rifiuto di una vita ingrata, ma un pagliaccio. E capisci che, se vuoi continuare a

frequentare la compagnia, senza finire come uno scoppiato tra gli scoppiati, allora

devi scegliere. Dalla nostra ti daremo la mano più grossa possibile, ma il resto

dovrai smazzartelo da solo.La madre degli attuali proprietari del Dante è stata una figura importantissima:

noi eravamo i ragazzi del bar, lei la nostra seconda mamma. Se nella notte tra

venerdì e sabato capitava di stare seduti fuori a parlare fino a notte fonda, era lei

che arrivava ad aprire il locale la mattina e a farci le menate: «Forza, è ora di

andare a casa».

La sua morte per noi è stata terribile. Da ragazzo ne hai una strana concezione: è

quasi meno pazzesco che muoia il tuo amico tredicenne in moto, piuttosto che un

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adulto. Sai perfettamente che se fai il coglione in Ciao puoi crepare, e pensi che i

genitori ti lascino all'età giusta, più o meno quando te l'aspetti.

E invece... I figli poi, erano sconvolti dal dolore: da ragazzini spensierati che

erano, si trovavano soli e con tutto sulle spalle. Ricordo che dopo il funerale, al

ristorante, noi in silenzio, manco capivamo dov'eravamo, e loro a ripetere: «Eadesso?». Furono costretti a diventare adulti da un giorno all'altro, per forza.

Qui la morte non è mai stata lontanissima.

Quando esisteva una nutrita sezione pensionati, la vedevi bene nelle loro facce.

Facce di vecchi, spesso vedovi con lo spauracchio della solitudine, un pomeriggio

per bere un caffè o leggere il quotidiano, una partita a carte, quattro chiacchiere

con quello di fronte.

Ogni tanto, se li contavi, ti accorgevi che ne mancava uno.I nostri «preferiti» erano i Corvi. Se li infastidivi, ti rispondevano con un: «Va' fora,

se no mi t'mas». Immancabilmente, ti capitava un incidente, anche piccolo.

Avevano un simile potere.

Gli avvoltoi rappresentano l'alter ego dell'amico della famosa regola: utilizzano a

loro uso e consumo la momentanea crisi in una relazione di coppia. «Poverina,

vieni qui, ma come ti ha trattato, che stronzo, lasciati coccolare.» Cazzate simili.

Generalizzando, l'avvoltoio può anche essere il ma perché non ti fai mai i cazzituoi?»: il maldicente che vive di invidie, di stronzate qualsiasi, inventandosi

cattiverie spicciole sulle persone e creando piccole leggende di provincia. È un

misero, un perdente assoluto, che alla fine non viene più creduto da nessuno,

con le sue presunte verità ridotte al rango di chiacchiera da bar.

Come tutto, del resto.

Luigi, il gatto del bar (bar dante, pavia (pv).

Ha cominciato a frequentare il bar come un comune cliente, veniva inizialmentesolo al pomeriggio a dormire. Ora e' la nostra mascotte. Qualche anno fa e' stato

investito da una macchina, cosi’ abbiamo fatto una colletta per pagare

l'operazione. Purtroppo ha subito un altro intervento: abbiamo dovuto farlo

castrare, perche', quando sentiva una femmina in calore, si azzuffava con gli altri

gatti, e una volta e' tornato veramente malconcio. A causa di questa operazione

subita, di tanto in tanto cisco lo chiama "luisa".

Il mitico crystall ball!

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Chi ha la mia età', o giù' di li', ricorderà' sicuramente quei tubetti pieni di una

sostanza strana che si metteva sulla cannuccia, si soffiava e poi venivano fuori

delle bolle colorate che dopo un po' si sgonfiavano. Guardando questa foto un

altro mio amico ha avuto una brillante idea su come e con cosa gonfiare il crystal

ball, ma grazie a dio lo abbiamo dissuaso.Il maestro con l'umile allievo, cioè' cisco e me. Cisco e' presente in gran parte delle

storie raccontate nelle canzoni degli 883: come protagonista, come

coprotagonista, come semplice spettatore, e più' spesso come coscienza critica e

supervisore del nostro gruppo di amici.

Dopo il periodo di una coraggiosa adolescenza, arriva prima o poi il passaggio

epocale della linea d'ombra: okay, so che esistono determinate responsabilità,

dopo un attimo di crisi mi butto e vada come deve andare.Storie. Non è così facile, non per me. Il mondo degli adulti continua a

preoccuparmi. Se maturare significa acquisire una visione a senso unico della

vita, diventare gretti e meschini, tradire i propri sogni, allora posso farne a meno,

grazie mille.

Poi attorno a te vedi quelli passati direttamente dalla motocicletta al passeggino

con il pupo, vagamente rassegnati, parecchio cinici, che ripetono a memoria: «Sei

un ragazzino, quando crescerai? Anch'io la pensavo così, ma ho dovuto cambiareidea». E perché? Non è detto che uno sia costretto a piangere miseria se gli piove

in casa, magari la colpa è del vicino di sopra. Non so se ho reso l'idea.

La paura di crescere esiste, ma di crescere come «gli altri»; con in più la nostalgia

di quando il problema manco si poneva. Un fondo di amarezza per un passato

che non può tornare, l'invincibile e irriducibile giovinezza, il «cazzo, che problema

vuoi ci sia». Sì, magari c'era il casino dell'interrogazione a sorpresa o del primo

lavoro di merda, ma esisteva comunque uno stupendo spirito di gruppo: PRIMANOI, POI IL RESTO DEL MONDO.

«Siamo qui noi» per spaccare il culo ai passeri, per coprirci l'un l'altro, per

condividere certe scelte e non sentirci mai abbandonati in mezzo alle strade della

vita.

Quando i mesi volano rapidi, quando la compagnia inevitabilmente si sfalda

(«ognuno col suo viaggio, ognuno diverso» alla Vasco), vieni preso dal terrore di

avere perso tutto, compreso te stesso, e di essere completamente SOLO. È ilbisogno di chiudere sogni, speranze, dubbi, valori, idee in una stanza, lontano da

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tentazioni, paranoie e cattive influenze esterne. La famosa camera 106, con i tuoi

giocattoli; se qualcuno ci entra (una donna, per esempio), è perché VUOLE farlo.

Solo così riuscirà a conoscerti. Se cerca di trascinarti fuori a forza, può perdere la

partita.

Un esempio: Mauro Repetto. Ci siamo tornati. Sbattuto dal successo improvvisoin una galassia nuova e sconosciuta, dove combini quello che vuoi, entri dove ti

pare, conosci delle strafighe che un tempo manco ti avrebbero salutato... è un bel

rischio, se non hai un sistema immunitario potentissimo. Aggiungici la crisi di

quello che «cazzo, stai sempre lì a saltellare, ma non canti mai!»; logico che, dopo

uno sbandamento della madonna, cerchi un'altra strada.

Adesso Mauro si è messo a scrivere sceneggiature cinematografiche, ha seguito

uno stage in California, sembra contento; ma c'è stato un attimo in cui, messa inun cantuccio l'esperienza musicale e mandata 'affanculo la vecchia vita da eterno

adolescente, ha corso dei pericoli mica da ridere.

Non intendo fare la morale a nessuno: ognuno arriva al successo, al mitico sciò

bisnis, per la sua strada e dopo mille esperienze, io, oltre alla canzone, ho bisogno

di un mondo compatto che mi difenda. Per questo non rinuncerei mai a Pavia.

Qui so chi sono, cosa posso o non posso fare; conosco amici e nemici, frequento i

primi ed evito i secondi. L'«altro mondo» l'ho visto e continuo a vederlo, e forse miserve ancora adesso per capire meglio la mia realtà. Non vivo con l'angoscia di

chi, cazzo, chissà che mi sono perso...

Ho fatto una scelta; in parte mi sono accettato per quello che sono. Ho scoperto

che la provincia, con tutti i suoi difetti e le sue magagne, mi stimola la crescita

degli anticorpi. In città puoi passare una vita prima di rivedere certi fantasmi del

passato; in provincia fanno il pieno di benzina al tuo stesso distributore. Chi è

nato e cresciuto qui, arrivando fino ai trentanni sano di mente e non cedendo allamorale comune, può anche andare in mezzo agli integralisti islamici e incularseli

tutti quanti.

Naturalmente, visto che pochi la pensano come te, ogni tanto ti sorge il dubbio:

«E se mi fossi sbagliato?». D'altronde, alcuni errori li ho commessi, altre storie

sono finite («vedo le fedi alle dita di due/che porco giuda potrei esser io/qualche

anno fa»). La certezza assoluta è un'invenzione: magari per 364 giorni all'anno

nessun problema, poi una mattina cominci a interrogarti sulle scelte, sui perché e

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i percome, e allora giù di Maalox o di Lexotan. Non esistono verità o risposte

universali; esistono quelle che vanno bene per te.

Oggi come oggi sono abbastanza sereno, sicuro, soddisfatto, come può esserlo

chiunque viva in un mondo imperfetto. Una volta c'erano le ideologie, i partiti, a

fornirti una giustificazione, una qualsiasi, un senso d'appartenenza. Ora invecenon mi sento rappresentato o confortato da nessuno nelle mie tragedie, nelle mie

paranoie, che saranno anche minuscole, ma intanto sono io a doverci convivere.

In fondo poco è cambiato. Da studente fallito con il pallino della musica sono

diventato quello che ha avuto il colpo di culo; nella logica perversa e maligna della

provincia, la mia fortuna potrebbe finire da un momento all'altro. E poi mi

ritroverei qui, a uno e sei al mese, con in più le lezioni di recupero sul vero

significato dell'esistenza.Per la gente di Pavia, per nonni e genitori, cantante lo diventi solo quando vai a

Sanremo; per questo l'ho fatto, una specie di dovere. PROFESSIONE CANTANTE;

anzi, cantautore, che come categoria non esiste, l'ho detto per scherzo alla tipa

dell'anagrafe e lei me l'ha scritto sulla carta d'identità.

In provincia si vive sempre con un'atmosfera da catastrofe imminente. I miei

genitori mi hanno inculcato la mentalità del foglio di carta, come se con un

diploma o una laurea si campasse meglio. Poi: «Fatti un tetto sulla testa, compraquattro muri perché da lì non ti sbatte fuori nessuno.» Ma in affitto non va bene

lo stesso? Chi mi dovrebbe cacciare via? Dulcis in fundo, il posto fisso: «Impiegati

là, perché non possono licenziarti». Fantastico, così mi tutelano come i russi sotto

il vecchio regime, mi costringono a fare due stronzate in croce, sempre e solo

quelle, mi obbligano a sbattermene e a lavorare il meno possibile.

Se proprio mi costringessero a fuggire da Pavia, come alternativa sceglierei New

York: o la provincia o il delirio! Anche Londra non mi dispiacerebbe, per il suopassato, la Bat Cave del primo dark, locali del genere. Eviterei il sole, perché sono

un finto albino e mi scotto per un niente, e il mare. Primo perché non so nuotare;

secondo perché odio la vita da spiaggia, con i suoi sacri rituali, vagamente

glamour.

Dai, in fondo qualsiasi posto freddo e umido mi andrebbe bene.

Oggi il trentenne, quello della nostra generazione, rischia di beccarselo nel culo

da tutti. Può persino innamorarsi di una prostituta albanese da sbarco, per

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redimerla. «Poverina, deve pur guadagnare. Però con me è diverso. Mi vuole bene,

sul serio.» In cuor suo sa che non è vero, tutte palle, ma finge di crederci.

È terrorizzato. Esce di casa e non sa quel che trova. L'altro giorno incontro un

amico, bravissimo musicista e figura storica del punk pavese, felicemente

sposato.«Hai cinque minuti?» mi chiede con la faccia sconvolta.

Okay. Andiamo al Dante.

«Cazzo, sono nei casini» continua.

«Come mai?»

«Mi è nata la bambina.»

«Figa, sono contento.»

«Sì, anch'io. Però devo lasciare mia moglie.»«E perché?»

«Max, mi sono innamorato di una tipa, una giovane. L'ho sedotta io, ho preso io

l'iniziativa.»

«Ma che stronzate racconti? Hai trentanni...»

«Sì, infatti poi le ho detto che non se ne faceva niente. Ma ieri è venuta a

trovarmi.»

Era disperato. In balia di una ragazzina, che magari per gioco, magari per sfizio diprovare con l'adulto...

Finché queste storie capitano al colletto bianco con la tipa del commerciale, a uno

che parte già da certezze sbagliate, vabbe', lo si può capire; ma a un musicista, a

un creativo vero, all'apparenza scafatissimo... Cristo. Sarà che le sedicenni di oggi

sono delle macchine da guerra; a una triturazione e associazione delle

informazioni, uniscono processi elaborativi molto più sottili di qualsiasi

venticinquenne.Per noi del Sessantasette e dintorni la vita è un tunnel degli orrori. Esiste un gap

enorme tra quello che ci hanno sempre promesso tutti, dalla scuola ai genitori, e

ciò che ci troviamo davanti. Un delirio, un'operazione senza anestesia.

Quando andavamo alle medie, i professori: «Scegliete l'indirizzo giusto, seguendo i

nostri consigli, e sarete a cavallo». La foto di Pertini o - prima - di Leone appesa

sotto il crocefisso, la carta geografica dell'Italia e dell'Europa attaccata vicino alla

lavagna: un insieme di immagini che ci dava l'impressione... anzi no, la certezzache qualcuno stava pensando a noi, al nostro futuro.

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Alle superiori, liceo o istituto tecnico: «Forza, che tra qualche anno andrete

all'università/comincerete a lavorare. Comunque, vi potrete mantenere da soli».

Milioni di sogni ci entravano in testa: l'automobile, la fidanzata, il posto in banca

o chissà dove.

Bene, usciamo dalla scuola e scopriamo che nel frattempo il meccanismo ha fattoCRAC. Nessuna certezza; neanche una fede politica, a mo' di antidolorifico. Niente

di niente. Le promesse... e quali promesse?

Come una volta risposi a un giornalista che rimproverava il carattere eternamente

adolescenziale delle mie canzoni: «Ti sei guardato in giro? Sai che a volte quella di

non crescere è una necessità? Ammesso di avere i soldi per sposarsi, hai idea

quante coppie della mia età divorziano? Come mai? Se continua così i pezzi degli

883 rimarranno ancora attuali per i quarantacinquenni della mia generazione,seduti al bar con un mazzo di carte».

L'età delle responsabilità, della famosa maturità, arriva solo quando acquisti un

ruolo preciso all'interno della società. Altrimenti, zero. Oggi non esistono, almeno

per noi, le condizioni per crescere.

  Torniamo al passato: «Da grande troverai un lavoro che ti piace, incontrerai una

ragazza carina, ti sposerai, avrai dei figli, ma - attento! - dovrai credere in te

stesso, rimanendo fedele a quello che eri». Una bella favola, a posteriori, maanche un processo costante che spinge a maturare.

E invece no. Attorno a noi, sembra essere cresciuto solo chi ha fatto «il grande

salto»; chi ha capito - dice lui - come gira il mondo, rinnegando le convinzioni di

un tempo. Poi magari lo si vede al bar, mogio mogio, si scopre che ha divorziato,

divisione dei beni, «però la casa non gliela smollo, a quella puttana!», figli usati

come ostaggi, e via così. Viene spontaneo chiedersi: «Bisogna fare questa fine?».

La risposta è fin troppo facile: se hai una compagnia giri con loro, se sei da solo tirinchiudi in te stesso e speri in Dio, in un cambiamento. E aspetti.

Io, con un lavoro che mi soddisfa, rispetto ad altri ammetto di avere una fortuna

della madonna. Però, lo ripeto, per vivere necessito di anticorpi con i

controcoglioni.

Noi trentenni rischiamo di essere fottuti anche dai ragazzini, soprattutto sulle

tecnologie avanzate. Forse nascono con il cervello già demolito dalle radiazioni;

fatto sta che a tredici anni sanno già tutto di computer e compagnia, parlano

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decentemente l'inglese, e in una sfida sul loro campo multimediale ci stracciano

dieci a zero.

Fortunatamente in qualcosa ci salviamo.

Un dialogo con un sedicenne, un mostro di programmatore: «Allora, tu che sei

bravissimo: vorrei un sito internet, con il Java, la chat...».«Nessun problema.»

«Ecco, sì, ma mi piacerebbe conferirgli un aspetto, una grafica, un impatto...»

«Eh no, mica è il mio lavoro. Qui devi prendere un designer.»

E lì capisci di averlo inculato; perché il designer sarà sempre e comunque un

creativo, uno dei nostri. Il sedicenne sarà pure bravissimo a smanettare un

Pentium, ma non andrà oltre, quasi gli mancasse un file del database.

 Tiri un sospiro di sollievo. Almeno da questa, ti dici, riuscirò a uscirne vivo.I rapporti con l'altro sesso... nel senso letterale dell'altro sesso: un'esperienza

traumatizzante.

lo e un mio amico eravamo da una compagna di classe, normali, tranquilli.

Facevamo le elementari, terza o quarta; per noi esistevano solo i fumetti, i

soldatini, Big Jim e Big Jeff. Che bello, quello era vivere, chi pensava al resto!

Di botto, ci trovammo calati in un incubo. La padrona di casa si era sfilata il kilt e

le mutande, mostrando soddisfatta una roba strana, persino un po' disgustosa,senza un pelo uno... Un delirio. Scappammo via spaventatissimi, giurando di non

raccontare niente a nessuno.

Il fattaccio si ripropose l'anno successivo, nei bagni di scuola, con un'altra

ragazzina; tutti che correvano a vedere, tranne noi che ci guardammo bene dal

ripetere l'errore. Solo a immaginarla, quella roba, ci cagavamo addosso dalla fifa.

Vabbe', sia come sia, passai buona parte dell'infanzia a temere la... che non è una

paura del tutto infondata; forse già avevo colto il potere magico, ma distruttivo,dell'oggetto in questione.

Da ragazzi, in compagnia, usciva con noi quella appena sfidanzata, per divertirsi

e farsi passare il malumore; si andava in discoteca, dove lei magari ribeccava il

tizio, qualche parolina dolce e si rimettevano insieme. Poi si mollavano e, a

distanza di due-tre anni, la tipa tornava con noi. Da qui il rischio di essere

sempre e solo l'amico simpatico e cazzone.

«Sai, sei davvero divertente.»«Sì, però se scopassimo mi farei anch'io due risate.»

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Cose così. Allora la buttavi sul finto sociologico, sul fatto che non frequentavi gli

ambienti giusti, sì, d'accordo, la discoteca, ma meglio la Motonautica, il Circolo

Canottieri, il fottutissimo tennis club.

La ragazza carina sapeva - e sa - di esserlo, anche se, quando glielo dici,

sicuramente ti risponde: «Io? Davvero?». Roba da prenderla a schiaffi. Non poteva- e non può - considerare te, creatura da bar di provincia, il punto d'arrivo; al

massimo un approdo sicuro dopo la tempesta.

Esistono le eccezioni. «Tappetini nuovi, arbre magique»: connubio fantastico a

significare un rapporto con l'altro sesso diretto, sincero, senza promesse né da

una parte né dall'altra. Senza

le mitiche fasi di passaggio: il rituale d'avvicinamento, l'assidua frequentazione, il

bacio con lingua, e poi, poi, poi, FORSE... poi.Invece, una storia semplicissima: Pavia, agosto del Novantadue, un torrido nulla,

dieci persone in centro, aperto solo il Mulino, io e Cisco piazzati lì assieme ad

altre due. Per puro caso. Un accoppiamento come nella stagione degli amori,

come quando il cinghiale entra in calore; in un preciso periodo dell'anno, da non

sgarrare, già a settembre non sarebbe successo niente.

La donna è l'elemento più disgregante che esista. Oh, parlo di esperienze

personali, di casi specifici; non voglio generalizzare. Allora: lei vuole fartidiventare l'uomo dei suoi sogni, a tutti i costi, eliminando gli aspetti caratteriali

«negativi». Con gente come noi, cresciuta all'interno di una compagnia, è già una

bella impresa.

Prima bordata femminile: «Solo i deboli hanno bisogno del gruppo».

Ma 'vaffanculo, ficcati tu in certi casini e poi prova a uscirne da sola, se ti riesce.

La compagnia è un porto sicuro, un'oasi felice dove puoi essere quello che sei

veramente, circondato da persone che ti conoscono non da tre mesi, ma daquindici anni, minimo. Dispongono, per usare termini medici, di un'anamnesi

completa; non ti vengono a dire «oggi mi sembri sano», possiedono una cartella

clinica spessa così con sopra scritto il tuo nome. Con loro, le maschere non

servono a niente. I trucchetti non funzionano; non ti metti a fare il figo solo

perché sei diventato un cantante di successo. Ti conoscono da troppo tempo. Puoi

anche essere un premio Nobel, ma verrai trattato alla pari; anzi, come il deficiente

che andava in giro con il motorino smarmittato. E, nei limiti, è giusto che sia così.Se i tuoi amici parlano di calcio o di politica o di cazzi vari, la tua opinione vale

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quanto la loro; mica sai tutto della vita. Al massimo di dischi, di canzoni, okay,

ma della vita no. Sui problemi reali sei costretto a confrontarti ogni singola volta.

La donna teme i sentimenti forti che non la vedono protagonista. Non riesce a

capire come tu possa provare affetto per un gruppo di deficienti o perché diventi

deficiente quando sei nel gruppo. Insomma: «O me o...».Ho verificato sul campo che quando una ragazza ha deciso razionalmente, troppo

razionalmente, di farla finita, da quel preciso istante TU NON ESISTI PIÙ. Magari

tu continui a menartela per anni, a starci male, a dannarti, mentre lei ci tira

sopra una bella riga ed esce con uno completamente diverso da te. Il gruppo,

invece, non lascia mai a piedi nessuno.

Altra frase storica: «Il vero uomo deve partire da solo e affrontare il viaggio come

Ulisse». Ma quale Ulisse?!?. Se poi è una donna a fare da timoniere su acque inburrasca... Oh, ma cosa hai combinato nella vita per saper governare una nave?

Chi ti ha dato il brevetto? Appena ti gira, cambi rotta, mai una uguale all'altra,

nord sud ovest est. Sopra la barca ci voglio tutto il gruppo, un bravo marinaio ci

sarà; almeno si va dritti per la propria strada e non si rischia d'affondare.

La compagnia di amici è insostituibile quando lei ti molla. Non verrà mai più

salutata da uno del giro, anche se fino al giorno prima si passavano le giornate

insieme. Questo è il gruppo; non il «sì, l'ho saputo, è brutto, sfogati, racconta» ma:«Tizia non c'è più? Ah. Andiamo al ristorante». Nessuno vuole sapere com'è

andata, di chi è la colpa.

Se avrai bisogno di un aiuto, basterà chiedere; altrimenti stop, fine della storia.

Proprio questa chiusura costituisce l'unico meccanismo di difesa della

compagnia: siamo un piccolo mondo sereno e vogliamo restare tale; qui le cose

funzionano in un certo modo, giusto o sbagliato che sia. Poi chiaramente c'è il

«traditore», si rimane in meno, scatta implacabile la dura legge del gol... ma ipochi che rimangono sono la vera squadra. Essere in cinque o in mille funziona

nello stesso modo: cinque membri permanenti con diritto di veto, più gli altri a

rotazione. Va bene ugualmente, almeno sai che da lì l'inculata non ti arriva; anzi,

che su certi valori fondamentali, all'interno del gruppo l'inculata proprio non

esiste.

Non credo più alla figura dell'uomo all'antica, dell'animale che di sera esce e va in

giro a trombare. «Altolà, so come trattare la creatura, riesco a non farmicoinvolgere.» Magari il quarantenne, il cinquantenne, ancora ancora... ma gli

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sfigati della nostra generazione si sono inculati da soli, irrimediabilmente.

Comprensivi, carini, sensibili, riuscirebbero a innamorarsi perdutamente di un

travestito di Buenos Aires. Basta una parola che si commuovono; è sufficiente

una frase giusta per condizionarli, manipolarli al di là del bene e del male. Sono

capaci di sentirsi terribilmente in colpa nei confronti della fidanzata solo perchéla mattina hanno bevuto un caffè macchiato al posto del cappuccino.

Un delirio. «Perché non mi parli più alla sera prima di addormentarti? Stai

pensando a qualcun'altra.» Cristo, non sto pensando a nessuno, ho

semplicemente gli occhi stanchissimi, mi ha tagliato la strada un camion

ungherese che se non frenavo di colpo mi mozzava il muso dell'auto con il

rimorchio.

«Vabbe', ho capito, non mi ami più.» E qui o sopporti lo stress, fingendo diinteressarti a ogni piccolo problema, stando attento a ogni presunta mancanza, o

lasci perdere.

Per una serie di motivi difficilmente comprensibili, le ragazze hanno una netta

divisione mentale tra amici e partner: una convinzione diffusa che, da tormentone

da bar, è diventata regola matematica.

Da anni le donne vanno in giro a sostenere che bisogna superare la vecchia logica

del corteggiamento, dei ruoli prestabiliti, del concedersi e del negarsi. «Noi»giurano «desideriamo in primis il dialogo; quindi, senza amicizia, il legame non

può nascere.»

 Tutte stronzate, con relativa inculata. Se ti apri fin da subito, iniziando a parlare

di te, svelando anche i tuoi lati oscuri, è finita; scoperto ogni segreto, alla donna

non interessi più come possibile fidanzato. Al massimo, sarai un ottimo animale

da compagnia.

«Meno male che ci sei, meno male che ti ho trovato»: già, perché TU hai iltelefonino sempre acceso, mentre il vero macho misterioso lo tiene regolarmente

spento.

Giustifichi il tuo errore con un generico: «Okay, andiamole incontro, tastiamo il

terreno, facciamoci conoscere e poi...». Sbagliatissimo. Non scoprirai MAI la sua

parte debole, o «vera»; solo quella ufficiale. O meglio: lei ti racconterà le sue

debolezze che UN ALTRO, meno deficiente o meno «partito», ha saputo sfruttare.

Se sei l'amico della regola, ancora con qualche speranza di combinare, soffri comeun disperato: non esiste dolore più grande che ascoltare la sua vita lontana da te.

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La confessione nasce dal bisogno di giustificarsi. La donna ha una paura

incredibile di venire considerata: a) leggera; b) sensibile ai piaceri della carne, e

basta; ó responsabile di un qualsiasi errore. Non ammetterà mai: «D'accordo, ho

sbagliato, mi sono comportata da stronza». O, nel caso, aggiungerà subito: «Però

sono stata costretta». Una causa esterna, gravissima, esiste sempre.Spesso assume la forma di un ex fidanzato. Bastardo come pochi. Se comincia a

parlartene, bloccala, scappa o sei fatto. Corri il rischio di diventare una specie di

shuttle, di navicella emozionale che lei piloterà pervenire trasportata da un brutto

passato a un futuro migliore (ma non con te). Prima di ripartire per il mare

Ho degli incontri occasionali, sei la baia tranquilla; non rompi, stai buono, la

ascolti, e soprattutto non chiedi niente in cambio.

«E pensare che ero innamorata di lui; che figlio di puttana!» Dopo una similefrase, si rischia di scendere all'infimo livello dell'infamone, capace di sostenere

che sì, i maschi sono autentiche merde, che i pregiudizi nei loro confronti sono

verissimi, che sono esseri capaci del peggio... tutti, tranne te. Oppure: «Non che io

sia tanto meglio; ma con una come te sarebbe vergognoso comportarsi da

bastardi».

Non ti viene da chiederti perché lei metta in piazza affari privati, o perché se la

prenda così tanto per un figlio di puttana (sono parole sue). Ormai sei diventato«l'amico delle donne», con un quadro della vita sentimentale assolutamente

sballato.

«Guarda, scusa, mi spiace affrontare argomenti così, ma se non li racconto a te

che sei UN AMICO... Pensa che un mese fa, dopo aver fatto l'amore, Giorgio non

mi ha più parlato; anzi, gli è suonato il telefonino, ha risposto, è andato a

chiacchierare nell'altra stanza e io sono scoppiata a piangere. Che figlio di

puttana!»A questo punto ti immagini l'orribile scena, senza pensare cosa ci sia di vero.

Vieni preso dall'insana voglia di spaccare la faccia all'ex, urlando: «Non meriti di

vivere! Dovrebbero fucilarti! Trattare così una... una...». Magari scoprirai, dopo

mesi, che mentre lei si sfogava c'era un terzo che si godeva lo spettacolo; con il

quale poi si è messa, grazie a te. «Sai, ti devo proprio essere grata dell'esperienza

passata insieme, mi è servita tantissimo e ora sono contentissima.» Ma che cazzo

di esperienza, mediti; e solo lì, forse, alla fine, capisci.

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Credo che a tutti noi sia capitato, prima o poi, di recitare in uno di questi ruoli,

magari anche a turno: l'amico, il Giorgio e il nuovo fidanzato.

Nessuno ci guadagna, comunque, lo dico per esperienza personale. Non l'amico,

che brucia neuroni per stare attentissimo a ogni mossa di lei, poi va dritto al bar

smadonnando e bestemmiando come un turco. Non il Giorgio, che si devesopportare le menate della ex, i suoi rinfacci, le sue invenzioni. E neppure il

nuovo fidanzato, messo di fronte a paragoni continui con «uno che, sai, mi ha

voluto tanto bene, SENZA PRETENDERE NULLA IN CAMBIO; mica cercava solo di

farmi su, come te.

Se poi da amico diventi «il» ragazzo, i casi sono due:

1 ) ti va da Dio (mai capitato) e instauri un legame stupendo (idem);

2) è un inferno, con lei che - abituata al corteggiamento d'assalto a cui ti hacostretto, con il suo negarsi, il fingere di non capire - ti mette in croce per ogni

presunta caduta d'interesse nei suoi confronti.

«Ma come, prima mi telefonavi anche il pomeriggio, adesso basta? Sono delusa.

Sono amareggiata. Sono diventata un oggetto. E tu sei freddo. Sei scostante. Sei

diverso.»

Sì, certo: sei diventato il Giorgio.

Allora, misoginia o no, mandi tutto e tutte a cagare, che te ne frega, se devi farti ilculo con 'ste strategie è meglio un gioco di ruolo. Almeno rischi di vincere.

Uno perennemente incasinato con le donne è l'impiegato, il mitico colletto bianco

a cui hanno fatto credere di essere due spanne sopra la classe operaia, quasi un

creativo.

In realtà guadagna meno di chi vernicia le scocche della Cinquecento, però è

convinto di costituire un meccanismo fondamentale dell'azienda.

Già le certezze di base sono sbagliate, figuriamoci il resto. Una conversazionetipica: «Sono in crisi con mia moglie...».

«Come mai?»

«Non ne sa niente...»

«Di che? Che siete in crisi?»

«No... sai, dove andiamo a mangiare a mezzogiorno c'era una

dell'amministrativo... no, del commerciale. Uno sguardo, una sensualità... Alla

fine...»

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Nota bene: questi due non stanno ancora chiavando, forse mai lo faranno, ma lui

è già sulle spine, lui già se la mena.

«Ha un marito. Però abbiamo avuto modo di parlarne in ufficio: non è soddisfatta

del suo rapporto. Si è sposata molto giovane, e io lo capisco, solo che adesso...

non so, con mia moglie...»«Allora avete combinato, vi siete fatti un weekend da qualche parte?»

«No, ma si vede che a me ci tiene. Quando ci troviamo verso l'una e tre quarti,

dopo la pausa pranzo, a prendere il caffè alla macchinetta, lei arriva già con due

tazzinette Lavazza. Capisci, DUE, pensa sempre a me...»

Altro guaio: il mito del principe azzurro. Molti genitori fanno crescere le figlie -

meglio se carine e intelligenti - con una favola: «Quando diventerai grande,

troverai un uomo bello, simpatico, gentile e pure ricco». Le disgraziate trascorronol'adolescenza con questo ideale; il resto può essere stranezza, trasgressione,

divertimento. Anche il fidanzatino così al volo, con cui si esce tre volte, grande

emancipazione, soprattutto i primi anni universitari. Però, l'uomo della vita DEVE

essere il principe azzurro.

Ora, arrivi tu e non puoi competere con questa mitica figura. A ogni modo, vieni

scelto e sottoposto a una prova; anzi, a una serie di prove, per verificare quanto ti

avvicini a un personaggio da favola, frutto di fantasia.Il passo fondamentale è l'approvazione dei genitori di lei: quasi il marchio di

qualità della comunità europea.

Se talora ci si umilia con la propria ragazza, figuriamoci con i suoi genitori. C'è

chi si veste come mai si sarebbe sognato nella vita. Ci si mette in mostra, ma non

troppo, perché, cioè no se poi si fanno un'idea sbagliata? Diventa un casino!

Allora: look sobrio ed elegante, cercando di intuire i gusti della padrona di casa.

Il potere è della mamma, chiaramente e ineluttabilmente.L'accoppiata fidanzata/madre della medesima può portare alla pazzia; le due,

messe insieme, hanno licenza di uccidere. Il padre invece, soprattutto se le figlie

sono tante, è di massima un rincoglionito con nessun potere all'interno del

nucleo familiare, convinto di avere un ruolo fondamentale quando in realtà conta

meno di un soprammobile.

Quindi, si capisce quanto sia importante farsi su la mamma. Ti escono

complimenti squallidissimi («una pasta al forno così buona... una cuocaperfetta...») e ricevi risposte altrettanto orripilanti («oh, sul serio... comunque mia

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figlia ha preso da me...»). Per capirci, una conversazione che ti rende subito

nervoso. In quel preciso

istante scatta l'istinto atavico di autoconservazione; devo uscirne vivo, continui a

ripeterti. Però tutto sembra strano, i muri, i mobili, ti senti prigioniero di non sai

cosa; vivi un'esperienza un po' alla Shining, magari noti un'orribile cornicetta dipeltro e mediti che la tua fidanzata ha passato ventitré, ventiquattro, venticinque

anni con quella merda davanti agli occhi, senza aver mai avuto il coraggio o lo

spirito d'iniziativa di buttarla nel cesso. Uno non può vivere con tali schifezze

dentro casa e restare normale, pensi, e allora ti spari dei film allucinanti modello

Nightmare.

Il massimo è quando dalla sala da pranzo ti sposti alla cameretta dove lei vive o

viveva, che è rimasta identica negli anni. I genitori te la mostrano ghignanti perconfermare che appartiene ancora alla loro bambina, che bambina non lo è più

da secoli. Allora, Perché ci sono ancora pupazzetti, peluche e Poster di cantanti?

Perché papà e mamma e figlia li conservano religiosamente? Per farti sentire in

colpa che stai approfittandoti dell'angioletto del focolare? Tutti siamo cresciuti;

anch'io avevo Big Jim, ma non lo tengo lì in bella vista.

Il gelo aumenta e, a questo punto, per difenderti puoi solo mostrarti

assolutamente asessuato, privo di volontà e di qualsiasi barlume d'intelligenza.Devi ridere a qualunque stronzata, andando in automatico, senza problemi,

sudando e basta.

Ancora peggio quando vieni trattato come Essere Umano Alla Pari: una commedia

atroce. Bisogna stare attenti al genitore così democratico da uscirsene con un

«dormite pure insieme, ragazzi», mentre gli scocca negli occhi un sottinteso «se

stanotte sento il minimo rumorino sospetto...». Così passi quelle nottate terribili,

con lei che chiede: «Non mi dai neanche un bacio? Guarda che loro non siincazzano». E tu: «La pasta al forno era ottima, ma adesso mi sta tornando su»,

magari pure ad alta voce, per far capire che non sta succedendo nulla.

Una tragedia unica. Il genitore democratico: «Tranquillo, vieni pure a colazione in

pigiama, io, con loro, mostrarmi così? Fossi scemo. E allora ti presenti in giacca e

cravatta alle nove in punto; altrimenti ti sentiresti indifeso. Se sottostai

all'umiliazione del pigiama, addio, papà e mamma di lei diventano i futuri

suoceri: un'esperienza da non augurare a nessuno.

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Qui sta il punto di non ritorno, da dove tutto è in discesa. Il padre democratico

tenterà di comportarsi da amicone, considerando che un giorno potrai schierarti

dalla sua parte contro la moglie. Però ti guarderà sempre con un misto di

superiorità e diffidenza, perché comunque gli rubi la bambina, il suo fiorellino.

La bambina? Il fiorellino? Ma se quella magari ha fatto di tutto ancor prima diconoscerti. Il genitore, bastardo, finge di non saperlo, anche se sulla tua fronte

sta scritto a caratteri cubitali io – mi – sono – scopato – vostra – figlia – prima – 

del - matrimonio.

Così, soprattutto con i meno democratici, partono gli «eeehh, voi di adesso, tutto

subito, sesso subito». E ancora: «Vedi quando le cose sono fuori posto cosa

succede? Si divorzia, poi i figli crescono male». Ma quali figli? Tu vorresti essere

già in auto, a centottanta fissi, diretto verso un posto qualsiasi, ma lontano anniluce.

«Sai, mi raccomando, noi ti abbiamo accolto in casa, io ero un po' contrario

perché a me queste robe non piacciono.» Ma pensa! E di nuovo: «Diamoci del tu,

visto che mia figlia è convinta che tu sia il tipo importante. Devi avere intenzioni

molto serie». Intenzioni molto serie? Ma devo già dichiararlo adesso come la buca

del biliardo? Provo a buttarla dentro, però siamo in netto anticipo. Magari le

famose intenzioni le hai pure, ma lì, preso dal panico...Ritorniamo alla bambina, al fiorellino, all'angelo del focolare. Nessuno considera

che anch'io potrei essere prezioso nel mio piccolo? Cioè, devo essere una merda?

Comunque la rigiri, arrivi sempre al punto: «Adesso sta a te dimostrare di essere

all'altezza». Ma scusa, non dovrebbe essere anche un po' il contrario? Non

dovrebbe essere pure lei a dimostrare di essere alla MIA altezza?

Ribaltiamo la situazione. Il padre di un figlio maschio, arrivata la fidanzata,

comincia a dirle: «Aaaah, lo so che gli fai quei lavoretti lì, io non voglio sapernenulla, però una volta non era così. Voi pensate di andare da 'sti bambini qua e

succhiarveli fino all'osso».

Lei come si sentirebbe?

A parità di età, statisticamente, è molto più probabile che abbia cominciato a fare

sesso prima del maschio. Cioè, se io mi sono addentrato nei meandri del delirio a

diciott'anni, la mia X a sedici probabilmente era espertissima. Tant'è vero che la

storia dell'uomo quale sommo depositario dell'arte sessuale è una cagatapazzesca. Probabilmente, le classiche reazioni alla «è stato bello» potrebbero

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trasformarsi in «senti, deficiente, ti devo spiegare un paio di questioni

fondamentali». Se non succede (non in maniera tanto schietta), è giusto perché lei

capisce che determinati «atti» dipendono da un fattore psicologico; niente

erezione, niente scopata.

A parte che poi si scoprono robe allucinanti; tipo che quando diventi il fidanzatopresentato in casa, serio, regolare, improvvisamente certi giochini risultano

sgraditi.

«Mi piacerebbe che questo e quest'altro lo facessimo solo quando...» Scusa, in che

senso? Quando... quando? Esiste un momento preciso? Tra l'altro sai benissimo

che con Tizio e con Caio, prima di te, orge selvagge. Se ti azzardi a chiedere

spiegazioni...

sei un cafone. Comunque ero giovane e non capivo bene. Ora mi sentoresponsabile..» E la stoccata finale: « È solo perché ti amo davvero che faccio...».

Naturalmente, con il tono di: MI ABBASSO a fare...

non esiste via di uscita. La donna nega di provare il trasporto dei sensi,

ammettendo solo la potenza del sentimento. Ipocrisia pura. Anche per questo

motivo è raro che capitino i discorsi alla «senti, deficiente...». Si scoprirebbe

troppo.

  Talvolta le mie canzoni ricordano i fumetti, fin dal titolo o dalle copertine deidischi. Adoro quel mondo di carta.

Vai di hit parade personale:

primo posto assoluto a Rat Man di Ortolani, popolare e alternativo al tempo

stesso, nonché capace di farmi letteralmente schiattare dalle risate. Fantastico,

insuperabile. L'antieroe per eccellenza.Secondo: Preacher, per le sceneggiature di Garth Ennis, surreali, grottesche,

violentissime e malinconiche. Ennis è formidabile, compro qualsiasi fumetto

scritto da lui, non rischia MAI di deludermi.

  Terzo: Batman, nelle varie incarnazioni, da quella anni Cinquanta alla gotica,

anche se ultimamente i supereroi mi hanno rotto i coglioni.

Un tempo adoravo l'Uomo Ragno, i classici Marvel dei Settanta; adesso, come si

lamenta un amico che ha un pub: «I cloni, ma che cazzo li hanno messi a fare?».Un delirio per spillare soldi al lettore con mille versioni della stessa pappa. Come

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la saga dell'Arcano, un bel giramento di palle; che poi 'sto Arcano è un tamarro

con la camicia aperta fino all'ombelico, roba che vestito così lo caccerebbero via a

pedate persino dal Baxter Building dei Fantastici Quattro. E tu vorresti

conquistare l'Universo? Ma dai!

In fondo, in ordine sparso: il Corvo, gran figata, parecchio tenebrosa. Lobo, che seesistesse sul serio saremmo probabilmente amici. Il Punitore, versione impazzita

del Giustiziere della notte, capace di giurare: «No, non ti ammazzo» e poi, BANG,

in piena fronte.

Parecchi anni fa, io, Repetto e Tito Turbina (tastierista futurista: un folle, una

vera «scorreggia impazzita») ci divertivamo a creare supereroi assolutamente

inutili, tipo l'Uomo Bottone o stronzate così. Bei tempi. Il megacriminale che si

trova davanti l'Uomo Bottone: «Cazzo ci combino con questo? Devo mettermi acombatterlo?». Insomma, povero cristo, spiazzatissimo.

Già che ci siamo, continuiamo con altre letture che bene o male mi hanno

influenzato, forse anche inconsapevolmente. Ultimamente mi è piaciuto un casino

Bastogne di Enrico Brizzi, per la sua voglia di ripescare e reinventare l'universo

pazzo e maledetto degli anni Ottanta. Prima, da adolescente, tutto Baudelaire, I

fiori del male e il resto, i decadenti francesi, parecchio Charles Bukowski. E molto

Stephen King, che seguo tuttora: lo scrittore dell'orrore quotidiano, un maestro,che tra un secolo studieranno all'università.

Fissazioni personali a parte, nei miei dischi non offro la soluzione di niente. Non

mi azzardo a dare risposte. Racconto solo la mia vita. Se qualcosa mi fa ridere o

mi diverte o mi interessa, ci scrivo su un pezzo; magari metterà di buon umore o

comunque colpirà chi l'ascolta. È un attimo, uno spicchio di esistenza colto al

volo. Per usare un felice neologismo di Claudio Cecchetto, parecchie mie canzoni

sono constatative; cioè, fotografie della realtà scattate da una precisa angolazione.Quando invece sono in crisi o sto male per i cazzi miei, l'affare è più complicato.

La creazione diventa un mezzo per tentare di capire che diavolo è andato storto.

Non posso sapere tutto della vita, non sono un genio; altrimenti farei il premier, o

mi improvviserei Dio, invece di stare negli 883. Non mi metto a tavolino

pensando: okay, il problema è questo, adesso lo risolvo in due note e quattro

parole. Magari devo arrivare fino al fondo di una canzone per scoprire: e se fosse

proprio così?

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La riflessione più ampia, profonda, capita quando c'è di mezzo l'emozione, il

sentimento. Da una parte la donna, che dovrebbe essere più di un amico e quasi

mai lo è; dall'altra le insicurezze, i dubbi, le paure.

Stendo tutto ben chiaro sulla carta, con calma, per mettere ordine nell'incredibile

caos che ho in testa.

Era il 1994. 17 luglio.

Forse una domenica. Una calda e afosissima serata estiva.

Ricordo tutto come se fosse accaduto ieri.

 Tutti i bar, a parte quelli con il megaschermo, erano chiusi. Nella città regnava un

silenzio irreale. Non un'automobile, non un passante, solo il ronzio delle zanzare e

la lontana eco di televisori sintonizzati tutti sulla stessa trasmissione. Al RoseBowl Stadium di Los Angeles, California, l'Italia stava giocando contro il Brasile la

finale del Campionato del Mondo di calcio. La Coppa del Mondo era lì, potevamo

toccarla. La volevamo disperatamente. Ma il sogno di chi, come me, aveva

assaporato nel 1982 la meravigliosa sensazione di essere Campioni del Mondo, si

sarebbe scontrato con la drammatica realtà dei calci di rigore.

Dopo 90 minuti di tempi regolamentari e 30 di supplementari, dopo due

interminabili ore di gioco, il risultato era fermo sullo 0-0. Cominciammomalissimo. Iniziò lo stillicidio il grande Franco Baresi, si portò nei pressi del

dischetto, tirò... e sbagliò. Il mondo sembrò crollare addosso a milioni di tifosi

Italiani, la più cupa angoscia ci avvolse fino quasi a strangolarci. Ma subito dopo

avvenne il miracolo il Mitico,

l'Assoluto Gianluca Pagliuca intuì la traiettoria Inferta al pallone da Marcio

Santos, e come una pantera si avventò sulla sua preda: parò il rigore!

Si ricominciò a vivere. Si ricominciò a sperare.Per poco.

Il tiro parato a Daniele Massaro e il successivo incredibile errore dal dischetto di

Roby Baggio posero fine ai nostri sogni di gloria.

In quel periodo veniva al bar una coppia; erano molto affiatati, sempre mano nella

mano, a volte persino un po' eccessivi nelle dimostrazioni di affetto reciproco:

spesso andavano addirittura in bagno insieme, e a noi della compagnia era

venuto il dubbio che fosse a causa di qualche strana perversione feticista.

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Probabilmente andavano a limonare e basta, ma si sa, al bar tutto viene

ingigantito...

Comunque questi due avevano deciso di andare a vedere la partita con gli amici a

casa di un tizio, sul lago Maggiore. Splendida cornice lacustre/prealpina, ma

soprattutto niente afa e niente zanzare. Ma, appena arrivati sul posto, lui siaccorge che la fidanzata si comporta in modo strano: lo tiene a distanza, evita di

stare sola con lui, e gli dimostra una costante insofferenza. Chissà, pensa il

malcapitato, probabilmente non vuole che le stia troppo addosso davanti a tutti...

La pesante verità gli sarebbe stata rivelata solo nell'intervallo tra il primo e il

secondo tempo. Lei si avvicina a lui e, con un'espressione pericolosamente in

bilico tra la tenerezza e il disagio, gli chiede di seguirla in cucina.

«Sai, è da tanto tempo che volevo dirtelo, ma non volevo farti soffrire. Non volevorovinarti la serata. Solo che vederti qui, seduto accanto a lui... mi sono sentita un

verme, non potevo andare avanti con questa farsa. Da un paio di settimane ho

una relazione con Tizio, sì, proprio lui, il padrone di casa; la storia tra me e te

non poteva più continuare, ecc. ecc, non pensavo fosse una cosa seria, ecc. ecc,

lui mi fa sentire, ecc. ecc, però tu e io restiamo comunque amici, ecc. ecc, non

dimenticherò mai il nostro rapporto, ecc. ecc, tu per me sei stato molto

importante, ecc. ecc. ecc..».Disperato, il neo-ex fidanzato esce di casa, sbatte la porta e non saluta nessuno.

 Trova solo la forza di raggiungere una panchina sul lungolago. Si siede. E inizia a

piangere a dirotto. Le immagini dei momenti trascorsi con lei gli passano davanti

come se fossero un lunghissimo film, e con loro passano i minuti, e i quarti d'ora

e le mezz'ore. Lui piange, singhiozza, piange, singhiozza.

Un signore sulla cinquantina, unico passante, attraversa la strada deserta che

costeggia il lago, gli si avvicina, lo guarda dritto negli occhi umidi, lo abbracciaforte e, con la voce rotta da un recente pianto, gli sussurra: «Fatti forza ragazzo,

purtroppo la lotteria dei rigori è così!».