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«Critica del testo», rivista quadrimestrale Fondata da Roberto Antonelli ISSN 1127-1140 ISBN 978-88-6728-930-1 (carta) 978-88-6728-931-8 (e-book) Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 125/2000 del 10/03/2000 Direzione: P. Canettieri, L. Formisano, M. L. Meneghetti * , A. Pioletti Direttrice responsabile: A. Punzi * Per tutta la durata del suo impegno all'ANVUR, M. L. Meneghetti non si occuperà della direzione della rivista. © Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali, “Sapienza” Università di Roma Questa rivista è finanziata da “Sapienza” Università di Roma Viella libreria editrice via delle Alpi, 32 – I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 – fax 06 85 35 39 60 www.viella.it – [email protected]

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«Critica del testo», rivista quadrimestrale Fondata da Roberto AntonelliISSN 1127-1140ISBN 978-88-6728-930-1 (carta) 978-88-6728-931-8 (e-book)Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 125/2000 del 10/03/2000

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Annalisa Perrotta

“Matti” e traditori a corte: uso della parola e potere politico

tra Spagna, Orlando innamorato e Mambriano*

Il saggio fornisce un’analisi di due personaggi della letteratura cavalleresca italiana – Astolfo il “matto” e Gano il traditore – in alcune opere composte tra il Trecento e l’inizio del Cinquecento. In questi poemi l’efficacia della rappresenta-zione si basa sul rinnovamento dei personaggi tradizionali. In particolare l’Orlan-do Innamorato di Boiardo e il Mambriano di Francesco Cieco da Ferrara mostrano due differenti modelli di corte: Boiardo discute i pericoli e le virtù connessi al potere e alla sua gestione; quasi venti anni più tardi, Francesco Cieco presenta un modello alternativo di corte, trovando (o immaginando di trovare) strategie per controllare e contenere la crisi.

Astolfo d’Inghilterra e Gano di Maganza, due personaggi fon-damentali della narrativa carolingia in Italia, sembrano avere poco in comune. Nemici giurati l’uno dell’altro, il secondo è traditore, il primo fedelissimo sodale di Orlando e Rinaldo e tra i più acerrimi nemici proprio di Gano e di tutti i Maganzesi. Eppure, nella serie di storie che ruotano intorno alla corte di Carlo Magno e alla sua lotta contro i saraceni, storie spesso anonime, spesso popolari, par-te di un repertorio consolidato, composto per essere letto o ascol-tato, queste due figure hanno alcune cose in comune: entrambi si distinguono per una certa imperizia in battaglia, entrambi costitu-iscono un principio di disordine all’interno della corte, seminano zizzania, alimentano risentimenti e provocano contrasti, e lo fanno con la parola prima che con la spada.

* Ringrazio Anna Carocci, Jane Everson, Serena Sapegno e Franca Strologo per aver letto versioni precedenti di questo lavoro. Mia la responsabilità del risul-tato finale.

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In questa sede mi occuperò di letture e riletture dei personaggi di Astolfo il “matto” e di Gano il traditore in alcune storie carolinge composte tra il Trecento e l’inizio del Cinquecento. Farò dunque una breve rassegna dei luoghi principali in cui i due personaggi ap-paiono, e tenterò poi di mostrare come la funzione loro attribuita in ciascuna storia cambi sotto la spinta di mutate esigenze rappre-sentative in due poemi del Rinascimento che segnano un profondo rinnovamento – una rivoluzione, si potrebbe dire – della materia carolingia italiana: l’Inamoramento de Orlando (o Orlando innamo-rato) di Matteo Maria Boiardo e il Mambriano di Francesco Cieco da Ferrara, due poemi scritti a meno di vent’anni di distanza, all’in-terno di un ambiente cortigiano appassionato di letteratura caval-leresca come la corte degli Este a Ferrara e la corte dei Gonzaga a Mantova.1 I due poemi contengono due diversi modelli di corte: attraverso i personaggi della tradizione carolingia, nell’Innamorato Boiardo discute con libertà anche divertita i problemi, le insidie e le virtù della gestione del potere, giocando con i tòpoi della tradizio-ne, e senza preoccuparsi troppo di fornire una trattazione coerente, piegando il tratteggio dei personaggi alle esigenze rappresentative, che potevano cambiare da un punto all’altro del poema: esemplare è Carlo Magno che, da figura debole e macchiettistica nel primo libro, diviene un sovrano autorevole nel secondo, nella sezione più epica del poema, dedicata alle guerre contro Agramante e alla cele-brazione dinastica. Francesco Cieco, cantore al servizio della corte,

1. Il Mambriano di Francesco Cieco da Ferrara fu iniziato verosimilmente intorno al 1489 e fu terminato qualche anno prima della morte, forse nel 1502 (v. J. Everson, Sulla composizione e la datazione del ‘Mambriano’, in «Giornale storico della letteratura italiana», 160 [1983], pp. 249-271); fu stampato postumo, a Fer-rara, per i tipi di G. Mazzocchio del Bondeno, nel 1509. Quando iniziò il poema, Francesco Cieco viveva al servizio della corte di Mantova. Poi passò alla corte di Ferrara e pare che al momento della morte, nel 1506, fosse al servizio della famiglia d’Este; v. J. Everson, The identity of Francesco Cieco da Ferrara, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 45 (1983), pp. 487-502; Ead., Francesco Cieco da Ferrara, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 49, Roma, Istituto della Enci-clopedia italiana, 1997, pp. 715-718. L’inizio della composizione del Mambriano si colloca dunque tra la stampa dei primi due libri dell’Orlando innamorato e l’in-terruzione del poema all’inizio del terzo libro. Sul Mambriano si legge ora l’ampia monografia di E. Martini, Un romanzo di crisi. Il ‘Mambriano’ del Cieco da Ferra-ra, Firenze, Società fiorentina editrice, 2016.

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risponde qualche anno dopo con un modello alternativo, frutto delle mutate condizioni delle corti italiane: e la distanza tra le due opere è anche quella che separa Boiardo, l’intellettuale autonomo, il col-laboratore del potere centrale, da chi guarda il mondo delle corti da una distanza maggiore, e ne percepisce la crisi.2

Nei poemi cavallereschi italiani prima di Boiardo, la narrazione si articola intorno a due luoghi: la corte presso Carlo Magno che costituisce, ovunque essa sia, un luogo simbolico, un “dentro” attra-versato da tensioni, alleanze e contrapposizioni, a cui si contrappone il “fuori” della Pagania e delle strade che conducono ad essa. I due luoghi, il dentro e il fuori, sono strettamente correlati: la cristianità è in lotta con i pagani, la tenuta della corte di Carlo e la concordia tra i paladini si fanno garanzia di vittoria; quando, come spesso accade, la concordia manca, la corte (e con essa la cristianità tutta) corre un serio pericolo. Gano e Astolfo costituiscono le due figure che ne mi-nacciano l’equilibrio in modo più significativo; esse sono correlate, come si diceva, perché entrambi i personaggi utilizzano la parola, la narrazione, un giudizio plausibile sui fatti come mezzo di persuasio-ne; se la persuasione risulti efficace o meno, però, è una questione connessa con la percezione di quello che dicono: è credibile? Op-pure no? Gano è traditore? Nella tradizione in ottava rima spesso lo è per tutti, tranne che per Carlo. Astolfo è un buffone? Se sì, tale percezione getta discredito sulle sue parole, ma non impedisce che esse comunichino narrazioni plausibili dei fatti e creino situazioni di tensione a corte.

A diversi modelli di corte corrisponde un diverso ruolo del tra-ditore e del “matto” eversivo. Nell’Innamorato e nel Mambriano vediamo strategie di allontanamento, contenimento, trasformazione di queste due figure, che mostrano come il fuoco rappresentativo della narrativa carolingia si sia spostato: non più l’ansia della con-trapposizione con i saraceni, la difesa territoriale ottenuta per via militare o attraverso alleanze e conversioni, la dimostrazione della forza dei singoli e della capacità della corte di Carlo di ricompattar-si, nonostante le rivalità interne, di fronte al nemico comune: questo

2. Ripercorre la biografia di Boiardo e le circostanze di composizione delle sue opere – con particolare attenzione ai rapporti del Conte con gli esponenti della famiglia d’Este – T. Zanato, Boiardo, Roma, Salerno Editrice, 2015.

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era il panorama dei poemi anonimi in ottave e del Morgante di Luigi Pulci. Nell’Innamorato la rappresentazione della forza d’amore si affianca a una riflessione sul potere e sul buon governo, sulla scon-fitta dei vizi e il trionfo della virtù; nel Mambriano, il racconto si fa moralmente più serio, l’amore tende alla costruzione di legami stabili,3 e la corte diviene un luogo dove il tradimento non esiste e le spinte eversive sono neutralizzate grazie alla grande saggezza di Orlando e di Carlo Magno: un mondo in cui Astolfo e la sua temibile lingua non creano dissidi e in cui forse la rotta di Roncisvalle non avrà mai luogo.

1. Astolfo e la parola irriverente: Entrée d’Espagne e Aquilon de Bavière

Il personaggio di Astolfo ha suscitato più volte l’interesse della critica, anche per il ruolo speciale che riveste nell’Orlando furio-so.4 Il suo carattere irriverente e arguto, facile alla parola e incline

3. «Nell’Innamorato il ludus e l’amore in tutte le sue varianti sono viva espressione del mondo cortese (…) la situazione cambia nel Cieco (…). Al piacere lussurioso e alienante del giardino di Carandina, il Cieco contrappone l’amore-fides

di Fulvia e Sinodoro»; Martini, Un romanzo di crisi cit., p. 166.4. Sul personaggio di Astolfo nella tradizione in francese, franco-italiano e

italiano, si veda G. G. Ferrero, Astolfo (storia di un personaggio), in «Convivium», 5 (1961), pp. 513-530; A. Limentani, Il comico nell’‘Entrée d’Espagne’, in Id., L’‘Entrée d’Espagne’ e i signori d’Italia, a c. di M. Infurna e F. Zambon, Padova, Antenore, 1992, pp. 109-141; J-C. Vallecalle, ‘Fortitudo et stultitia’: remarques sur le personnage d’Estout dans les chansons de geste, in Miscellanea mediaevalia. Mélanges offerts à Philippe Ménard, a c. di J.-C. Faucon, A. Labbé e D. Quéruel, Paris, Honoré Champion, 1998, II, pp. 1423-1434; L. Bartolucci, La figura di Astol-fo nell’‘Aquilon de Bavière’, in Bologna nel Medioevo, Atti del convegno (Bolo-gna, 28-29 ottobre 2002), Bologna, Patròn, 2004 (Quaderni di filologia romanza della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Bologna, 17), pp. 292-303; A. Spinelli, Der Antiheld Astolfo und die Entheroisierungder Ritterepik zwischen Mittelalter und Renaissance, in «helden, heroes, héros», 3 (2015), 1, pp. 37-46; sul personaggio nella tradizione italiana, oltre a Ferrero, Astolfo cit., alle pp. 520-530, si vedano anche L. Sampietro, L’Astolfo di Matteo Maria Boiardo, in «Forum Ita-licum: a Journal for Italian Studies», 14 (1980), pp. 43-61; M. Cirillo, Mutevole fi-sionomia di un personaggio: Astolfo, in «Italian Culture», 13 (1995), pp. 55-74; M. Santoro, L’Astolfo ariostesco: ‘homo fortunatus’, in Id., Ariosto e il Rinascimento, Liguori, Napoli, 1989, pp. 185-236; si sofferma sulla figura di Astolfo anche A. Canova, Vendeta di Falconetto (e Inamoramento de Orlando?), in Boiardo, Ariosto

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all’esagerazione è piuttosto stabile nella tradizione e si trova in nuce già in alcuni brevi episodi della tradizione epica francese, in parti-colare in quella più legata alla successiva tradizione italiana come il Renaut de Montauban, ma anche in un poema connesso alla spedi-zione di Carlo Magno in Spagna, come il Gui de Bourgogne, oppure nell’Otinel.

Il personaggio, però, assume una fisionomia più precisa nella tradizione italiana, in lingua franco-italiana e in italiano, fisionomia che rimarrà a grandi linee stabile nella tradizione anonima e d’au-tore, fino al Furioso. In particolare, Astolfo sembra precisarsi, tro-vare un suo spazio nella Entrée d’Espagne dell’anonimo padovano e nella Continuazione dell’Entrée d’Espagne di Niccolò da Verona e da qui nelle Spagne in rima e in prosa della tradizione italiana. Qui, come nel Renaut de Montauban e nel Gui de Bourgogne, le risposte di Astolfo (Estolt, Estous) sono argute e irriverenti, in par-ticolare contro l’autorità, anche se sembrano fatte per suscitare più le ire dell’interlocutore che il suo riso.5 Nell’Entrée e nella Conti-nuazione, Astolfo (Hestous) è il fedele compagno di Orlando (Rol-lant, Rolland), irruento e impulsivo, maldicente; qui generalmente i compagni accolgono le sue parole tra le risa o lo redarguiscono bonariamente.

e i libri di battaglia, Atti del convegno (Scandiano, Reggio Emilia, Bologna, 3-6 ottobre 2005), Novara, Interlinea, 2007, pp. 77-106.

5. Nel Renaut, come gli altri paladini interpellati da Carlo, Astolfo si rifiuta di impiccare Richard, fratello di Renaut caduto prigioniero, ma lo fa dichiarandosi teo-ricamente disposto a farlo solo dopo aver ereditato i territori del padre ed essere dive-nuto vassallo di Carlo (9376-9395). Significativamente, nel Rinaldo da Montalbano la battuta si fa ancora più irriverente e diretta: Astolfo, nel parlare al sovrano, ride e gli dice che certo, lui andrà ad impiccare Ricciardetto, ma solo se Carlo andrà con lui «e l’un di noi farà buona sentita» (Cantari di Rinaldo, XXXVIII 24, 4); nell’ottava suc-cessiva Ricciardetto esorta i compagni a non essere «tanto matti» (25, 3) perché forse Malagigi lo aiuterà. Nel Gui si gioca sull’equivoco Estous/estous, e a farlo è proprio il padre di Astolfo, quando il figlio difende il re neo-eletto Gui de Bourgogne (al posto di Carlo che da ventisette anni ormai combatte in Spagna) e lo redarguisce minaccian-do di strappargli la barba e i baffi: «Tu as mult verai non, / tu es fel et estous; Estous t’apele l’on» (892-893). Le citazioni sono tratte da Renaut de Montauban, a c. di J. Thomas, Genève, Droz, 1989; I cantari di Rinaldo da Montalbano, a c. di E. Melli, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1973; Gui de Bourgogne. Chanson de geste, a c. di H. Latour, Paris, École nationale des chartes, 1976. Cfr. Ferrero, Astolfo cit., pp. 514-515.

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Eppure, per quanto le sue uscite risultino attese, Astolfo sembra a volte avere un ruolo ben più serio.6 Si prenda un episodio dell’En-trée: appreso da una spia che la città di Noble è senza difese, Orlan-do costringe i suoi ad una marcia forzata verso l’assedio alla città, e ad abbandonare Carlo in un momento delicato della guerra per una destinazione che deve rimanere segreta: «asez i a de ceus a qi mult desagree / laser l’anpereor en dure e fort meslee» (Entrée, 9066-9067);7 in questa circostanza è Astolfo che dà voce alla preoccupa-zione di tutti: con Olivieri dichiara di rifiutarsi di proseguire se non avrà maggiori informazioni (Entrée, 9093-9097), e questi riporta le rimostranze a Orlando, prendendone le distanze, ma usando paro-le dure: «Le partire qe vos feites resemble mout savage / a cestor q’amenez, e laser l’anperage: / encui poroit le rois perdre par cist follage» (Entrée, 9105-9107); Astolfo ha paura: rivolgendosi diret-tamente a Orlando manifesta questo sentimento, che nessun altro osa dichiarare apertamente. Orlando lo rimprovera e lo esorta al co-raggio e attraverso di lui sprona anche gli altri e li incita ad essere fedeli e ad avere fiducia in lui. L’effetto che ottiene viene amplificato proprio dal fatto che Astolfo si scusa e accetta di seguire il suo si-gnore: sa di essere un codardo («Bien sai qe sui ceitis, autre tieche non ai», 9162), ma vuole proseguire («Mais de cil pué qe puis ja-mais non te faudrai», 9163).

Un episodio molto interessante per valutare la funzione dell’ir-riverenza verbale di Astolfo compare in un’altra opera in franco-ita-liano, in prosa, l’Aquilon de Bavière. Qui Astolfo (Astolf), è in linea con la rappresentazione dell’Entrée e della Continuazione:8 la sua

6. Le diverse e sempre piuttosto brevi analisi del personaggio di Astolfo nei testi in franco-italiano tendono ad appiattirlo sulle caratteristiche più vistose qui descritte: l’indole scherzosa e il valore militare per Santoro, L’Astolfo ariostesco cit., pp. 195-199; più complesso e sfaccettato nel resoconto di Ferrero, Astolfo cit., pp. 516-518: il suo Astolfo è anche l’amico carissimo di Orlando e manifesta una certa saggezza e capacità di giudizio.

7. Le citazioni sono tratte dall’edizione antologica con traduzione italiana a fronte (Anonimo Padovano, L’Entrée d’Espagne. Rolando da Pamplona all’Orien-te, a c. di M. Infurna, Roma, Carocci, 2011). Per l’edizione integrale, L’Entrée d’Espagne. Chanson de geste franco-italienne publiée d’apres le manuscrit unique de Venise, a c. di A. Thomas, Paris, Didot, 1913 (anche in rist. anast. con premessa di M. Infurna, Firenze, Olschki, 2007).

8. Bartolucci, La figura di Astolfo cit., pp. 291-292.

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capacità di esprimere il non detto/non dicibile travalica i confini del-la realtà esperita e gli dona facoltà predittive, come avviene quando si rivolge a Berta, madre di Orlando e moglie di Gano in seconde nozze, esortandola a non piangere, perché sarà consolata della sua pena solo quando il marito sarà squartato come merita. Il narratore commenta la battuta come espressione di una dote inconsapevole di Astolfo, l’altra faccia del suo «gaber»: «li dus li dis por gaber, mes il profetiza, che inzi li avint, ch’il fu squartés quand la doloroxe rote fu feite in le plans de Roncival».9 Si tratta di un elemento molto importante, anche se la “preveggenza” di Astolfo è presente solo nell’Aquilon: è infatti una declinazione possibile del rapporto spe-ciale che Astolfo e la sua lingua irriverente hanno con la verità.

2. Astolfo e le narrazioni alternative nella Spagna in rimaNell’ambito delle opere carolinge in lingua italiana, la Spagna

in rima rappresenta in modo particolare un aspetto del personaggio che diventerà centrale nei poemi successivi: la sua capacità di mo-dificare la realtà, o di darne una diversa narrazione, di elaborare – in competizione con la versione principale dei fatti – una narrazione alternativa. Questo aspetto è particolarmente evidente nell’episodio in cui Orlando, dopo aver ucciso Ferraù, ne veste le armi e si presen-ta a Lazera, nella sala del palazzo dove i suoi compagni sono tenuti prigionieri. Si tratta di una strategia consigliata da Ferraù morente che, dopo il battesimo in extremis, si preoccupa per la sorte dei cri-stiani: Ferraù descrive la madre come un essere mostruoso, una don-na che assomiglia a un drago, o a un serpente: «non fu drago giamai over serpente, / ch’avesse sì arotati i suoi unghioni» (Spagna, V 36, 5-6):10 sapendo il figlio morto non esiterebbe a rendere immedia-tamente esecutiva la condanna dei prigionieri; per questo Orlando

9. Ibid., p. 298; citazione da Raffaele da Verona, Aquilon de Baviére. Roman franco-italien en prose (1379-1407), a c. di P. Wunderli, Tubin, Niemeyer, 1982, II, p. 833.

10. Le citazioni sono tratte da La ‘Spagna’. Poema cavalleresco del secolo XIV, a c. di M. Catalano, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1939-1940; qui si considera la cosiddetta Spagna maggiore, in 40 cantari; sulle altre versioni dell’opera e i loro rapporti, si veda l’accurato studio di F. Strologo, La ‘Spagna’ nella letteratura cavalleresca italiana, Roma-Padova, Antenore, 2014; discute molte questioni sulla tradizione delle “Spagne” in rima e in prosa G. Palumbo,

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deve presentarsi nella sala vestito con le armi di Ferraù e trascina-re il corpo senza vita dell’avversario con indosso le sue armi. Così avviene; ma l’identità celata di Orlando diviene anche un mezzo per mettere alla prova i paladini: alla messa in scena della morte di Orlando tutti piangono in un angolo (VI 23,8). Solo Astolfo si com-porta diversamente:

Astolfo allora (…)Per gran paura disse cotal motto:– Gentil baron, ben ti possa incontrare.Bene hai fatto c’hai morto lo sterpone,che volia sogiogar tutte persone.Signoregiar volia tutti e Cristianicon suo superbia e con suo grande orgoglio.Benedette ti sien, baron, le manicon che gli desti morte con cordoglio.E fra i Cristiani in paesi lontanicon mie persona acompagnar ti voglio.(…) –.

(Spagna, VI 26-27, 6)

Astolfo ha paura e la sua strategia è ben chiara: per ingraziarsi quello che crede essere Ferraù, parla pubblicamente male di Orlan-do, mette in scena quelle ragioni di rivalità o discordia che possano rendere credibile il suo passaggio di campo. Spinto da superbia e orgoglio, dice Astolfo, Orlando voleva signoreggiare tutti i cristia-ni; per questo lui è contento che sia morto e ora si affida al nuovo vincitore. Le parole di Astolfo sono innanzitutto una manifestazione dell’antica codardia, ma non solo: la loro plausibilità è evidente pro-prio nell’economia della storia narrata nel poema. Qualche canto più tardi, l’orgoglio e la superbia di Orlando, infatti, metteranno il pala-dino in competizione con lo stesso Carlo Magno e saranno all’origi-ne del suo allontanamento volontario dall’esercito cristiano dopo la presa di Nobile. Carlo rimprovera Orlando di aver fatto di testa sua e di aver provocato la morte di Sansonetto; assume un atteggiamen-to così duro dopo che Gano, nel giubilo generale alla notizia della

La ‘Chanson de Roland’ in Italia nel Medioevo, Roma, Salerno Editrice, 2013, in particolare a p. 211 ss.

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presa di Nobile, aveva colto questa occasione per mettere in cattiva luce Orlando agli occhi di Carlo. Così Gano riferisce per primo a Carlo il fatto:

Monsignor Carlo, imperador sovrano,per lo tuo nievo è tal novella rea,che sanza tuo saputa s’è partitoe questa notte a Nobil se n’è gito.

E combattella come fanno e matti:della sua gente più di cinquecentoper sua follia sono morti e disfatti,miglior ch’aveva e di più ardimento.Se spesso avesse de sì fatti tratti,noi rimarremmo con pena e tormento.Anco fu morto a così fatta zuffaSanson di Piccardia, a non dir buffa.

(Spagna, XIII 42, 5-43, corsivi miei)

Le parole di Gano presentano l’impresa di Orlando come un’ini-ziativa personale e perciò illegittima, come un gesto contro Carlo e contro l’impresa dei cristiani (un atteggiamento folle che, se reitera-to, provocherebbe gravi danni: «noi rimarremmo con pena e tormen-to»). Come si vede, quello che nell’Entrée era un giudizio comune (del narratore, dei personaggi) su un’impresa molto rischiosa, nella Spagna viene attribuito solo al malanimo di Gano e a Carlo che gli dà retta; l’Orlando italiano sembra così più al riparo dalla comples-sità della gestione del potere e dell’equilibrio precario tra riverenza e autonomia. Conquistata la città, Orlando, contro il consiglio di Namo, si presenta comunque davanti al suo sovrano, che gli dice:

Per mille volte tu sia il mal venuto,sozzo sterpone, malvagio troiante,che contro a me tanto orgoglio hai cresciuto,che sanza mia parola, sir d’Anglante,colla mie gente te diparti e vaie di me come tuo sergente fai.

Stanotte ti partisti con mia gentee cinquecento n’hai fatto morire.

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Sanson di Piccardia, baron possente,per tua follia l’hai fatto così gire.

(Spagna, XIV 7, 2-8, 4 corsivi miei)

Nella sua risposta Carlo riecheggia le parole di Gano («sanza tuo saputa», «sanza mia parola»; «per sua follia», «per tua follia»); il discorso del sovrano, però, riprende anche alcune parole che Astolfo aveva rivolto a Orlando/Ferraù («sterpone», «orgoglio»).

Astolfo, dunque, nel presentare le motivazioni credibili di un passaggio di campo che gli salverebbe la pelle, tocca un aspetto cruciale della percezione di Orlando da parte degli altri personag-gi, un’ambiguità ben presente nella rappresentazione dei rapporti di potere nella corte di Carlo.11 Il suo discorso, come quello di Gano (il discorso del matto come il discorso del traditore), sottolineano l’am-biguità della posizione di Orlando, che la prospettiva del narratore, invece, tende ad oscurare. Nei due episodi compaiono le parole con cui si attuano il tradimento e la calunnia (seppur con intento difensi-vo) e che manifestano il sospetto del sovrano insicuro. Come a dire: chi tradisce, chi calunnia, chi sospetta formula una narrazione alter-nativa, una diversa interpretazione dei fatti; e per tutti e tre l’oggetto delle narrazioni alternative riguarda la posizione di Orlando a corte. L’ambiguità di tale posizione, però, non è solo nelle parole. Infatti, attaccato da Carlo, Orlando per tutta risposta si proclama al servizio del papa e della fede cristiana, non di Carlo:

Carlo, se è stata morta di mia gente,già non hai tu di ciò a far nïente.

11. Si tratta naturalmente di un topos che affonda le radici nella tradizione francese e troverà spazio nella tradizione anonima e d’autore dei poemi successi-vi: nel Falconetto Carlo si scaglia contro Orlando quando Gano gli riferisce che ha concordato la pace coi nemici a sua insaputa: «Ohimè grande robadore, Ro-lando bastardo, convene che da la mia corte sie discumiato!», Falconetto (1483), a c. di A. Canova, Mantova, Arcari, 2001, vv. 2211-2212. Si veda anche Luigi Pulci, Morgante, I 11-15. In molti poemi stampati alla fine del Quattrocento, però, Carlo è in competizione solo con Rinaldo, come nella Trabisonda (si veda il di-scorso calunnioso di Gano a Carlo in Trabisonda, I 10-12, in cui il traditore dice di parlare al sovrano «Acio che possi ben firmar tuo stato / e sotto ti sia ognun pacificato», I 1 11, 7-8; citazione da Trabisonda Venezia, Giovanni Padovano e Venturino de Ruffinelli, 1535).

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Tu non gli paghi di oro né argento,anzi gli paga la romana Chiesa:e ventimila men dà e secento,perché gli tenga sempre a suo difesain ogni parte dove guerra sentoch’abbin Cristian co’ Saracin contesa:con questa gente io debbo là andaree per la santa fé ogni ben fare.Sicché se cinquecento o meno o piùedella mia gente son morti o cotanto,la Chïesa di Roma per un duene solderà l’Apostolico santo.

(Spagna, XIV 9, 7-11, 4)

Orlando rivendica innanzitutto la “proprietà” della gente («mia gente»), e subito dopo sottolinea che i suoi uomini sono assoldati dal papa, che è capace di procurarne altri, in quantità doppia rispetto alle perdite. Ma soprattutto ribadisce che proprio il servizio presso il papa gli dà un compito che trascende lo stesso Carlo: non al suo sovrano Orlando deve rendere conto, ma al papa (e a Dio). Carlo a queste parole reagisce colpendo Orlando sul viso con un guanto di ferro. Tre gocce di sangue gli cadono dal naso e tutti si stupiscono, perché sanno che Orlando per volere divino non può essere ferito: «ognuno si me-ravigliòe / perché ’l messo di Dïo l’anunziòe / in Aspramonte che mai non potesse / esser ferito che sangue perdesse» (XIV 12, 5-8); oscuro presagio che forse rimanda alla tragedia di Roncisvalle.

Tornando all’episodio di Orlando celato nelle vesti di Ferraù, per ingraziarsi il vincitore Astolfo arriva a promettere i propri territori e si offre come guida per sconfiggere i cristiani («Teco verrò e ’nsegnerot-ti tutto: / so di Cristianità tutto il camino», Spagna, VI 37, 1-2), anche se dichiara che non abbandonerà la fede cristiana. Quando finalmente Orlando rivela l’inganno, Astolfo ha la giustificazione pronta:

Rispose Astolfo: – Io avrei fatto altro piantose t’avessi veduto sì tapino.Io te ricognoscea, ma io voliaudir Gan traditor quel che dicia.(…) –.

(Spagna, VI 40, 5-8)

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Astolfo medesimo connette la propria condotta con quella di Gano. In questo gioco di interpretazioni, di intenzioni non dichiarate, o dichiarate, la parola pubblica non serve a svelare la verità ma pie-ga l’interpretazione dei fatti ai fini di chi parla, o in risposta alle sue paure: Astolfo menziona Gano e nel contempo sta facendo un gioco molto simile a quello di Gano il traditore; solo che Astolfo non ha l’intenzione di tradire e Orlando lo sa bene; quando Orlando si rivela, Astolfo prova vergogna, si giustifica con un’altra menzogna, e viene comunque perdonato: la sua speciale condizione gli dà la libertà di esprimere sentimenti e posizioni senza subirne le conseguenze.

3. Astolfo nell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo

Nell’Inamoramento de Orlando (o Orlando innamorato) Astol-fo è innanzitutto una delle figure istituzionali del panorama caro-lingio12 che Boiardo ricostruisce all’inizio del primo libro e in cui fa deflagrare la «nova cossa»13 (OI, I i 20, 7) costituita dalla forza d’amore. Così, nella descrizione di questo personaggio Boiardo dia-loga fittamente con la tradizione. Attraverso la sua figura, però, Bo-iardo conduce anche un altro gioco rappresentando un conflitto tra due piani del discorso: quello che si dice di Astolfo – che il pubblico si aspetta – e quello che di lui si rappresenta. Se la tradizione popo-lare in ottave aveva, infatti, accentuato i caratteri comici e antieroici del personaggio,14 l’Orlando innamorato rappresenta in lui «senza dubbio il cavaliere più coraggioso che esista: pur non potendo con-tare su una grande forza, né sull’invulnerabilità, o su armi incantate,

12. Sampietro, L’Astolfo di Matteo Maria Boiardo cit.; Cirillo, Mutevole fisio-nomia di un personaggio cit.

13. Le citazioni sono tratte da Matteo Maria Boiardo, L’Orlando innamorato. L’inamoramento de Orlando, a c. di A. Canova, Milano, Rizzoli, 2011; nelle cita-zioni, l’opera verrà indicata con l’abbreviazione OI.

14. Lo si veda per esempio nell’Altobello, in una scena in cui il paladino insegue e colpisce alle spalle i nemici in fuga e si parla del vanto menzognero di Astolfo: «Chi è questo Cristian batizato / a mi me par un mato de cadena / de quel che mai non fece s’ha vantato». Dudone risponde dicendo che «de corte de Carlo l’è un mezo bufone» (XIV 37, 4-6 e 37,8; la citazione è tratta dall’edizione stam-pata a Vicenza, Simon Bevilaqua, 1491 e conservata presso la Bodleian Library di Oxford).

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è sempre il primo che si getta contro il nemico».15 Nel canto I, ii trova per caso appoggiata a un albero la lancia che l’Argalia aveva abbandonato fuggendo verso la foresta di Ardenna: non ne conosce la virtù straordinaria (chiunque al suo colpo viene disarcionato) con cui illude gli astanti e si illude di poter davvero lui, da solo, sconfig-gere i nemici e salvare la Francia (Astolfo che disarciona un temibile avversario è un coup de thèâtre che stupisce non solo il pubblico che assiste ai suoi colpi, ma il personaggio stesso).16 Astolfo inter-viene nella giostra e atterra Grandonio, il «pagan oribele, / che per il campo tal tempesta mena» (OI, I ii 52, 1-2) armato di un’«antena», l’albero di una nave; risponde così facendo al grido disperato di Car-lo che si trovava senza i suoi paladini migliori: non «se crede quel franco barone [scil. Astolfo] / aver victoria contra de il pagano,/ Ma sol cum pura e bona intentïone/ Di far il suo dover per Carlo Mano» (OI, I ii 66, 1-4). La pura e buona intenzione del paladino, però, è accolta con diffidenza: «E somigliava a un cavalier soprano, / ma color tuti che lo han conosciuto / diceano: “O Dio, deh, mandaci altro aiuto!”»; Carlo in un a parte commenta: «E’ ci manca questa altra vergogna!» (OI, I ii 66, 6-8 e 67, 8). Astolfo si comporta con ossequio di fronte al sovrano, ma tutti leggono il suo intervento alla giostra come un estremo atto di millanteria (Carlo è «turbato d’altro e disdegnoso» e teme che il suo intervento costituisca un’altra ver-

15. Tissoni Benvenuti, commento al luogo, in Matteo Maria Boiardo, L’ina-moramento de Orlando, ed. critica a c. di A. Tissoni Benvenuti, Milano-Napoli, Ricciardi editore, 1999, p. 40. In questo paragrafo si tratterà di alcuni episodi del I libro, perché l’interesse riguarda in particolare Astolfo all’interno della corte di Carlo Magno. Astolfo e la sua fama di «pazo palese» (II xii 40, 7) giocano un ruolo importante anche all’interno di un’altra corte, quella di Manodante, quando Bran-dimarte scambia sé e Orlando per permettere al paladino di lasciare incolume il palazzo; ma Astolfo ha un rapporto diretto con la verità, non tollera la menzogna, e accusa Brandimarte di impostura; per questo Brandimarte gli dà pubblicamente del pazzo, affinché le sue parole non siano credute. Sull’episodio e l’intertestualità con i Captivi di Plauto, v. Zanato, Boiardo cit., p. 334 ss.

16. Si tratta del frequente rovesciamento dei tòpoi carolingi (la rappresen-tazione stessa di Orlando innamorato fa parte di questo meccanismo) che Tissoni Benvenuti ha descritto con la categoria retorica dell’oppositio in imitando; vedi A. Tissoni Benvenuti, Rugiero o la fabbrica dell’«Innamoramento de Orlando» in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, a c. di S. Albonico, A. Comboni, G. Panizza e C. Vela, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996, pp. 69-89.

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gogna per la parte cristiana, I iii 67). Astolfo ha paura, ma affronta il pericolo con coraggio, temendo più la vergogna («Astolfo contra a lui è rivoltato, / pallido alquanto e nel cor pauroso, / bench’al morir più che a vergogna è dato», I iv 2-4). Quando la lancia fatata disar-ciona Grandonio:

Levossi un crido tanto smisuratoche par che ’l mondo avampi e ’l ciel roini.Ciascun ch’è sopra a’ palchi è in piè levatoe cridan tutti, grandi e picolini.(…)L’imperator, che in terra il pagan vede,videndo istesso, agli ochi soi non crede.

Stavassi Astolfo nel rengo vincentee a sé stesso non lo credea quasi.

(OI, I iii 5, 1-4, 7-8; 8, 1-2)

All’interno di questo gioco tra aspettativa/delusione/meraviglia si inserisce un altro particolare che aumenta l’impressione di essere di fronte a un caleidoscopio illusionistico di opinioni: quando Grandonio cade, si apre la ferita che Ulivieri gli aveva inferto nello scontro che aveva preceduto quello con Astolfo: ne esce un fiotto di sangue che pare una fontana (OI, I, iii 6, 7-8). Il narratore si fa garante di ciò che è davvero accaduto, ma che cosa pensa invece il pubblico della giostra?

Chi dice che la botta valorosa de Astolfo il fece, et a lui dano il lodo;altri pur dice il ver, comm’è la cosa:chi sì, chi no, ciascun parla a suo modo.

(OI, I iii 7, 1-4)

E non è finita qui: Boiardo collega la propria opera con la tra-dizione e dice che per quella ferita Grandonio ucciderà Astolfo a Roncisvalle. Come il primo gruppo di spettatori, anche Grandonio sembra essere vittima delle apparenze, mentre ad Astolfo le false credenze costeranno la vita. Così, in parte riscrivendo la tradizione (nella Spagna ferrarese, che sembra essere fonte di questo particola-re, si dice che Grandonio uccise Astolfo, ma certo non si fa menzione della ferita inferta durante una giostra indetta in un giorno di Pasqua

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rosata),17 Boiardo aggiunge un altro rapidissimo approfondimento sulla questione della gestione delle informazioni e delle aspettati-ve del suo pubblico, della percezione di quello che accade da parte dei personaggi (dentro il testo) e del rapporto che il narratore (del tutto veridico) instaura con la tradizione (distinguendo quella falsa – che rappresenta Astolfo come un buffone codardo e millantatore – e quella vera – che racconta della sua fine per mano di Grandonio). La zuffa che conclude l’episodio mette Astolfo in cattiva luce di fronte al sovrano, che interviene a dividere i contendenti a colpi di bastone e poi mette in prigione Astolfo.

Astolfo però si prende la sua rivincita alcuni canti più tardi quando si ritrova a combattere contro Gradasso e a salvare – in as-senza di Orlando e Rinaldo e sempre grazie alla lancia magica – tutta la corte. L’episodio è rilevante perché vi si discute proprio l’imma-gine di Carlo e le sue capacità di sovrano. Nel canto vii del I libro Carlo è prigioniero di Gradasso insieme a numerosi altri combattenti cristiani. In assenza di Carlo, Astolfo è liberato dalla prigione e «de il governo ha pigliato il bastone» (I vii 44, 7), un bastone metafo-rico, ma che richiama quello ben più concreto con cui Carlo aveva picchiato i suoi paladini litigiosi. Gradasso ha fatto un accordo con Carlo: non vuole infatti il suo territorio, ma solo Baiardo, il cavallo di Rinaldo, e Durlindana, la spada di Orlando: avuto almeno il ca-vallo, li lascerà andare. Il sovrano manda dunque Ricardo a prendere Baiardo per ottenere la libertà. Astolfo però non accetta di dar via il cavallo del cugino: mette in prigione il messaggero e sfida Gradasso a confrontarsi con lui. Gradasso chiede ai prigionieri chi sia costui, e Gano risponde: «Signor, egli è un buffone, / che dà dileto a tutta nostra corte: / non guardar a suo dir» (OI, I vii 46, 7-8).

17. Vedi Tissoni Benvenuti, commento al luogo, in Boiardo, L’inamoramento cit., p. 90; Ead., Intertestualità cavalleresca, in «Tre volte suona l’olifante...» (la tradizione rolandiana in Italia fra Medioevo e Rinascimento), Milano, Unicopli, 2007, pp. 57-78. Su questo luogo e sulla relazione tra Inamoramento de Orlando e Spagna è intervenuta D. Delcorno Branca, Sulla tradizione della ‘Spagna in rima’. Una recente edizione e alcune note sul combattimento di Orlando e Ferraù, in «Lettere italiane», 63 (2011), pp. 345-377; sull’importanza della menzione della morte di Astolfo per riflettere sulle relazioni tra Innamorato e le diverse versioni della Spagna e più in generale, con indicazioni di metodo per lo studio dell’interte-stualità tra i diversi poemi, Strologo, La ‘Spagna’ cit., pp. 96-116.

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All’udire che l’accordo con Gradasso è saltato, Carlo è molto turbato: nonostante Gano cerchi di mostrargli che le parole di Astol-fo non sono degne di considerazione, pure Gradasso è impressionato dal suo ardire, e dimostra autonomia di giudizio («sia chi si vòle, egli è de molto ardire», OI, I vii 47, 4). Ma, aggiunge, se prenderà Baiardo con la forza, non è detto che libererà i suoi prigionieri, come avrebbe fatto se Baiardo gli fosse stato concesso senza combattere. «O quanto era turbato il re Carlone! / Ché dove il crede libertate ave-re / e stato e robba ed ogni suo barone,/ perde ogni cossa; e un pacio n’è cagione», OI, I vii 48, 5-8. Poco prima della battaglia, com’era uso, Astolfo si vanta; Gradasso ride e risponde:

Cortesemente Astolfo ha salutato,poi dice: – Io non sciò già che tu ti sia;io dimandai de tua condicïone:Gano me dice che tu sei buffone.

Altri m’ha detto poi che sei signore,ligiadro, largo, nobile e cortese,e che sei de ardir pieno e di valore.Quel che se sia, io non facio contese,Anci sempre ti voglio far onore.(…) –.

(OI, I vii 52, 5-53, 8)

Dunque sul conto di Astolfo ci sono due versioni discordanti: l’una lo dice pazzo e buffone ed è attribuita a Gano; l’altra lo fa nobile e cortese. La prima versione è affidata alla voce del traditore; l’altra è invece generica, senza una fonte precisa. Entrambi i giudi-zi sono presenti nella tradizione, come abbiamo visto: attribuendo a Gano l’opinione che discredita Astolfo, Boiardo ne sceglie uno come veritiero e attribuisce l’altro al malanimo e alla frode.

Astolfo vince Gradasso grazie alla lancia fatata (del cui potere non sarà mai consapevole); al momento di intraprendere la battaglia, dunque, si mette in gioco per la salvezza del sovrano e dei suoi com-pagni, mostrando un grande coraggio («forcia non ha, ma l’animo non manca», OI, I vii 55, 8). Quando Gradasso viene disarcionato, rinuncia a Baiardo e libera Carlo e gli altri paladini. Astolfo, però, vuole prendersi una piccola soddisfazione («solacio» I vii 58, 8) nei

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confronti di coloro che non avevano creduto in lui; prega perciò Gra-dasso di non rivelare la verità a Carlo e di lasciare parlare lui. Quello che Astolfo dice a Carlo è una narrazione alternativa dei medesimi fatti, un’altra possibile lettura, in competizione con quella ufficiale. Vale la pena riportarne una buona parte:

E gionto avanti a lui, con viso acerbodisse: – E peccati te han cerchiati in tondo:tanto eri altero e tanto eri superboche non stimavi tutto quanto il mondo!Renaldo e Orlando, che fòr di tal nerbo,sempre cercasti di metterli al fondo;ecco usurpato te avevi Baiardo:or l’ha acquistato questo re gagliardo.

A torto me ponesti in la pregione,per far careza a casa di Maganza;or dimanda al tuo conte Ganeloneche ti conserve nel regno di Franza!Or non v’è Orlando, fior de ogni barone,non v’è Renaldo, quella franca lanza:ché se sapisti tal gente tenire,non sentiresti mo’ questo martire(…) –.

(OI, I xii 59-60)

Astolfo afferma poi di aver donato il cavallo a Gradasso e di essere divenuto il suo buffone, dato che Gano tanto aveva tessuto le sue lodi; e aggiunge che ciascuno di loro è destinato a servire Gradasso.

Già non rideva Astolfo de nïente,e proprio par che il dica dadovera.Non dimandar se il re Carlo è dolentee ciascadun ch’è preso in quella schiera!Dice Turpin a lui: – Ahi, miscredente!Hai tu lasciata nostra fede intiera? –.A lui rispose Astolfo: – Sì, pritone,Lassato ho Cristo, ed adoro Macone! –.

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Ciascun è smorto e sbigotito e bianco:chi piange, chi lamenta e chi sospira.Ma poi che Astolfo di beffar è stanco,svanti a Carlo in ginochion se tira,e disse: – Signor mio, voi seti franco!E se il mio fallir mai vi trasse ad ira,per pietate e per Dio chiedo perdono,ché, sia quel ch’io mi voglia, vostro sono.

Ma ben ve dico che mai per nïentenon voglio in vostra corte più venire:Stia con voi Gano e ogni suo parente,Che sano il bianco negro far venire.Il stato mio vi lasso obedïente:io damatina mi voglio partire,né mai me posarò per fredo o caldo,insinché Orlando non trovi e Ranaldo! –.

Non sàno ancor se il beffa o dice il vero:tutti l’un l’altro se guardano in volto.

(OI, I vii, 63-66.2)

Astolfo è capace di far perdere ogni punto di riferimento: quale versione dei fatti è beffa, quale è invece veritiera? La sue parole però sono interessanti in quanto variamente connesse da una parte con i tòpoi della tradizione carolingia, dall’altra con altri fatti appartenen-ti all’Innamorato:– Astolfo accusa Carlo di essere tanto superbo («Tanto eri altero e

tanto eri superbo, / che non stimavi tutto quanto il mondo!») da non avere la lucidità necessaria per prendere le decisioni (e le parole di Astolfo riprendono OI, I i 20, l’ottava in cui Carlo mostra tutto il suo orgoglio e proprio allora viene annunciata la «nova cossa»: «Re Carlo, che si vede in tanta altezza, / tanti re, duci e cavalier valenti/ tuta la gente pagana disprezza, / come arena del mar denanti ai venti. / Ma nova cossa che ebe ad aparire…» I, i 20, 3-6).

– Le parole di Astolfo insistono poi su un motivo di cui abbiamo già parlato a proposito della Spagna: la relazione tra i sentimenti di timore/invidia di Carlo nei confronti dei suoi più forti paladini, Orlando e Rinaldo, e il bisogno che il sovrano ha di loro.

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– Lo accusa poi di aver usurpato Baiardo. Le scene di battaglia che dipingono Carlo su Baiardo sono in effetti piuttosto eloquenti sul vantaggio che Carlo aveva ottenuto proprio grazie alla sua caval-catura eccezionale:

Non si spaventa quel destrier gagliardo.Sancia che Carlo lo governa o guide,volta le groppe e un par de calci serra;dove la spala apunto si divide,gionse a Cornuto, e getalo per terra.Oh quanto Carlo forte se ne ride!

(OI, I vii, 10.9-11.5)

– Astolfo accusa Carlo di averlo messo in prigione per favorire la casa di Maganza (e non dunque per fare giustizia): il narratore al canto iii si dilunga sulle scorrettezze di Anselmo della Ripa, che erano state causa della zuffa terminata con l’imprigionamento di Astolfo.

– Infine, Astolfo imputa a Carlo l’incapacità di tenersi a corte Orlan-do e Rinaldo. Questo punto costituisce un’anticipazione di quello che nel II libro Carlo sarà invece in grado di fare, quando prende in custodia Angelica e la promette a chi si porterà meglio in battaglia. Ottiene così le migliori prestazioni dai suoi paladini, ma accettan-do anche di passare in secondo piano – lui, la difesa della Francia, la lotta contro l’infedele – e sfruttando tale posizione a proprio vantaggio (II, xxi, 9-21 e xxiii, 15-19). Nel II libro però, Carlo Magno è ormai una figura lontana da quella che Astolfo poteva permettersi di criticare apertamente e di cui poteva smascherare le debolezze.

Nell’episodio del I libro, Boiardo opera un rovesciamento dei tòpoi ben più profondo rispetto a quello rappresentato attraverso la lancia fatata dell’Argalia: per magia Astolfo disarciona gli avver-sari, e questo suscita meraviglia; ma per natura è leale e di buon cuore, perché solo il malanimo di Gano e i cattivi rapporti di corte hanno insinuato il contrario. È ben vero che dichiara davanti a Carlo di essersi convertito alla fede maomettana, cosa che l’Astolfo della Spagna non aveva osato: ma nella Spagna Astolfo ha paura e la sua proposta al finto Ferraù non è una burla, come è invece il caso del

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suo discorso davanti ai prigionieri di Gradasso.18 Attraverso la paro-la scherzosa, Astolfo investe i fatti e le relazioni tra i personaggi ben noti al pubblico di un acuto spirito critico, prende posizione rispetto ad essi e smaschera, lui che è consapevole della propria debolezza, le indicibili debolezze dei potenti.

4. «Rinaldo l’abbracciò chiamandol padre»: nuovi personaggi per nuove corti nel Mambriano

Nel Mambriano Carlo è un sovrano competente e venerabile: è inoltre vecchio e fragile, ma ha una piena consapevolezza del pro-prio ruolo di fronte a Dio e ai suoi sudditi.19

A differenza che nella tradizione precedente, in particolare quel-la anonima in ottave che aveva messo particolarmente in evidenza le discordie interne, nel Mambriano lo spazio della corte diviene un luogo in cui i paladini, e in particolare Orlando, sanno contenere il germe della discordia, che è principalmente retorico e viene incarna-to da Astolfo; lo contengono e lo decostruiscono agendo da uomini magnanimi, e liberali.

La corte di Carlo come rappresentata da Francesco Cieco si di-stingue per un’altra caratteristica rivoluzionaria:20 Gano non è più un traditore ma un nobile forte e leale; se inganna lo fa a buon fine, come avviene nel canto XIII, quando escogita un tranello ai danni di Mambriano, liberandosi dalla prigionia e favorendo l’esercito cri-

18. Un Astolfo particolarmente incline ai passaggi di fede oltre che di campo si trova nella Vendetta di Falconetto (Milano, Zanotto da Castiglione per i fratelli di Legnano, 1512; esemplare conservato nella Biblioteca Nazionale Braidense); su questo, v. Canova, Vendetta cit., pp. 98-106.

19. Sulla regalità di Carlo Magno nel Mambriano si veda J. Everson, «E più e men che re»: Carlo Magno nel ‘Mambriano’, in Carlo Magno in Italia e la fortuna dei libri di cavalleria, a c. di J. Bartuschat e F. Strologo, Ravenna, Longo, 2016; su re e corti saracene, Ead., Il buono, il brutto, il cattivo: figure di regnanti non-

cristiani nel ‘Mambriano’ di Francesco Cieco da Ferrara, in «Rassegna europea di letteratura italiana», 44 (2014), pp. 29-43. Le citazioni dal Mambriano sono tratte dall’ed. a c. di G. Rua, Torino, Utet, 1926.

20. V. J. E. Everson, Sconvolgere gli stereotipi: la caratterizzazione del tra-ditore e della donna guerriera nel Mambriano, in Diffusion et Réception du gen-re chevaleresque, éd. par J. L. Nardone, Toulouse, Université Toulouse-Le Mirail, 2006, pp. 165-168.

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stiano. In questo caso, la strategia è chiara: Gano è un personaggio astuto e pieno di inventiva, ma utilizza questa sua capacità contro il nemico esterno:

Costui volea che Gano fosse impeso;e Mambrian l’avrebbe conceduto,se l’arte sua non l’avesse difeso;tanto bene seppe oprar l’ingegno astuto,quantunque fosse da più parti offeso,che il nemico cangiò legge e statuto,e fecelo il primo uom de la sua cortesolo a fin di condur Rinaldo a morte.

(Mambr., XIII 65)

Gano, infatti, dichiara a Mambriano che il vivere di Rinaldo gli è «in tanto dispiacere, / che torrei a negar Cristo e il Vangelo / e mettermi la croce sotto a i piei, / pur che costui morisse a’ giorni miei» (69, 5-8). Mambriano gli crede, come gli crede senza dubbio il pubblico, abituato alla consueta figura di Gano traditore.21 Le loro aspettative rimangono però deluse: qui il tradimento è una finzione, Gano è in realtà un uomo leale.

A questo puoi veder, Rinaldo mio,ch’io non son quel che la brigata dice.Poss’io venir in disgrazia di Dio,s’io cerco d’estirpar la tua radice,e se del fio d’Amon altro desiose non vederlo glorioso e felice.Rinaldo l’abbracciò chiamandol padre.Poi messe in punto tutte le sue squadre.

(Mambr., XIII 78)

La slealtà di Gano, la sua capacità di trame e inganni si esercita-no fuori dalla corte: che sia un traditore contro i suoi è solo una ca-lunnia ai suoi danni. Si tratta di una delle due forme di dislocazione del tradimento a cui assistiamo nel Mambriano. L’altra, che vedre-mo nel prossimo paragrafo, riguarda invece la punizione esemplare

21. «Mambriano, come qualsiasi lettore di cantari carolingi, conosce solo Gano il traditore e presume di poterlo usare contro Carlomagno, Rinaldo e gli altri» (Everson, Sconvolgere gli stereotipi cit., p. 177).

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del tradimento contro chi si fida: che nel Mambriano, a differenza che nelle storie di Roncisvalle, viene punito prima che il traditore abbia la possibilità di nuocere.

Il rinnovamento della figura di Gano porta a tre conseguenze legate tra loro: innanzitutto allontana il tradimento dallo spazio del-la corte di Carlo;22 poi, Roncisvalle cessa di essere una prospettiva necessaria e la fine di tutte le storie; infine, nel Mambriano la rappre-sentazione e la gestione del tradimento e della discordia passeranno attraverso personaggi e situazioni nuovi e alternativi.23

4.1. La corte d’Orlando e la rappresentazione del tradimento punito

Il Cieco sposta il tradimento (contro nemici non cristiani) e la sua punizione in un luogo “altro” che rimanda a (ma non è) la corte di Carlo; questo consente al Cieco di affrontare temi legati alla rap-presentazione del potere senza intaccare direttamente tale spazio. L’“altrove” è rappresentato in questo caso dalla “corte” di Orlando, che prende forma all’interno dei canti dedicati alla guerra di Orlando contro il pagano Meonte e poi per il controllo della città di Utica e dell’isola di Piraga (canti XI-XII e XVII-XIX).

In questo contesto il ruolo di Orlando non è solo quello del di-fensore, o del combattente per la giustizia e per la fede: sconosciuto, egli si fa portatore della civiltà della guerra, organizzando gli eserciti e comportandosi con magnanimità e nel rispetto dell’avversario; si fa carico dell’educazione di tre giovani destinati a divenire sovrani, e alleati dei cristiani: Sinodoro, Nisballe e Timocrate;24 diviene conver-

22. Si tratta di una strategia presente già in altri testi anonimi di materia caro-lingia, circolanti a stampa alla fine del Quattrocento: v. A. Perrotta, I ‘Falconetti’, il ‘Morgante’ e la memoria della rotta, in «Par deviers Rome m’en revenrai errant», Atti del XXe Congrès International de la Société Rencesvals. Rome, Université “La Sapienza” (20-25 juillet 2015), a c. di M. Careri, C. Menichetti e M. T. Rachetta, Roma, Viella, 2017, pp. 143-153.

23. Secondo Everson, potrebbe spiegare il rinnovamento della figura di Gano anche il fatto che una leggenda faceva discendere la famiglia d’Este proprio dai Maganzesi; Everson, Sconvolgere gli stereotipi cit., p. 180. La notizia si trova in P. Rajna, Le origini delle famiglie padovane, in «Romania», IV (1875), pp. 161-181.

24. Ciascuno di questi personaggi destinati a diventare cristiani e fidi alleati hanno beneficato della generosa forza di Orlando. Nisballe, figlio di Ascarione, re della Numidia, viene liberato dalla prigionia di Fulicane, al servizio del crudele Me-

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titore di interi popoli; la sua opera in guerra ha l’obiettivo di riportare la pace e la concordia, e non ha mire di conquista territoriale.25

In questo contesto e durante le attività belliche si inserisce l’epi-sodio del tradimento di Filomede. Questi è stato eletto dai cittadi-ni di Utica successore di Meonte, il sovrano ucciso da Orlando nel canto XII. Filomede è catturato dai Numidi, che assediavano Uti-ca e avevano preso nuova forza dopo la morte di Meonte, e quasi impiccato, ma viene salvato da Orlando. Quando poi Orlando, con l’approvazione di tutti, designa il giovane Nisballe sovrano di Utica, Filomede se ne dispiace, ma dissimula. Commenta il narratore:

El si suol dir, chi l’impiccato spicca,quel sceso dalle forche mai non cessa,che di sua mano il dispiccante impicca.Orlando, che la vita avea concessaa Filomede, ancor tanto alto il ficca,che niun più di lui al re s’appressa;ma quanto più l’ingrato alto diventa,peggio il conosce e manco si contenta.

(Mambr., XVII 78)

Filomede medita dunque vendetta:

Così verso d’Orlando operar volsein Utica l’ingrato Filomede;il qual tant’odio in petto si raccolsequando Nisbal pigliò la regal sede,che da la mente sua rimosse e tolse il ricordo di tutta la mercedegià conseguita, e con fraudi secretesopra i compagni ordiva una gran rete.

(Mambr., XVII 79)

onte. Orlando salva anche Sinodoro dal macabro rito pagano ordinato da Meonte in onore di Marte (canto XI); Timocrate, invece, è mosso da un’innato senso della giustizia e ammira fin dal principio Orlando, salvandolo dal tradimento di Filome-de, come vedremo (canto XIX).

25. Sulla rappresentazione di Orlando paladino della pace ha ben detto A. Carocci, Il Cieco da Ferrara e Matteo Maria Boiardo: una ripresa per opposizione, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXCII (2015), 640, pp. 549-570, alle pp. 558-561.

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Filomede, che era stato posto da Orlando a guardia della porta che si apriva verso Tunisi, scrive ad Alifarne, sovrano alleato dei Garamanti che assediavano Utica, proponendogli un incontro se-greto. Questi risponde che l’incontro deve avvenire non prima di mezzanotte, per evitare di incontrare Timocrate suo figlio, che ha orrore dei tradimenti e presto lo impiccherebbe (dove è interessante l’immagine del padre che teme la punizione del figlio). Intorno al tradimento il narratore interviene, accresce le aspettative, e in questo modo lo segnala come evento rilevante nell’economia del racconto. Con un’apostrofe diretta ad Orlando, commenta:

O pover Conte, tu assegni i pulciniin guardia al nibbio e al crudel lupo gli agni,e trovar pensi fra questi assassinileal custodia per li tuoi compagni;e non t’accorgi ch’al buio camminidrieto a un che ti vuol dar pene e lagni,e una notte assai più che fele amara,se il ciel per sua pietà non gli ripara.

(Mambr., XVIII 90)

A segnalare con maggiore enfasi la natura del traditore, Filome-de viene paragonato a Sinone e a Giuda (soprattutto quest’ultima è una similitudine topica per designare Gano): «Affidatosi Orlando ne le mani / d’un secondo Sinon, d’un nuovo Giuda, / s’andò a posar con gli altri capitani» (Mambr., XVIII 92, 1-92, 3).

Filomede, però, incontra Timocrate, il figlio onesto di Alifarne. È indotto a scoprirsi e gli rivela il suo piano. Timocrate lo rimprove-ra aspramente. Poi:

Che ingiustizia è la tua? dove si spandetanta malignità? chi la sostiene?costor t’hanno esaltato e fatto grandemolto più asai che non ti si conviene;e tu t’ingegni con opre nefandetradirli ad un che non ti fe’ mai bene.Ove potrò trovare io mai supplizioche sia conveniente a tanto vizio?Trovate poi due piante in un boschettol’una dall’altra non distanti molto,

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tanto piegar le fece a lor dispetto,che l’una cima a l’altra porgea il volto.Quivi co’ piedi fu legato strettoFilomede, tenendo il capo voltoverso la terra afflitto e mal contento,tardi pentito del suo tradimento.

E vedendosi giunto a fin sì miserochiese a’ ministri, in luogo di mercede,un’altra morte, ma quei se ne risero;da poi lasciato ad ogni pianta un piede,con tanta furia quelle si divisero,ch’in due parti mandorno Filomede;pensar vi lascio che morte fu questa!A tutti gli altri fe’ tagliar la testa.

(Mambr., XIX 5-7)

Il supplizio di Filomede ricorda da vicino lo squartamento di Gano. L’attenzione alle modalità di esecuzione della pena (prima Timocrate che escogita, poi Filomede che se ne lamenta, infine la differenza tra il trattamento riservato a Filomede e quello riservato ai suoi uomini) mostra che il narratore vuole sottolineare l’epilogo di questa vicenda, e indicare Filomede come nuovo Gano. Questa volta, però, l’inganno del traditore non riesce, Orlando è salvo gra-zie all’intervento di buoni servitori: Timocrate milita ancora nella parte avversa ma presto diverrà uno dei più affezionati giovani so-stenitori del paladino.

Quando Orlando scopre il tradimento fallito e l’esecuzione di Filomede, Timocrate, per giustificare la propria iniziativa dice:

Io te l’avrei, signor, mandato vivoacciò che il proprio oltraggio vendicasti;ma sì ti veggio al perdonar proclivo,che dubitai che non gli perdonasti,onde per questo l’ho di vita privo;e quella cortesia che tu mi usastior combattendo in mezzo alle tue squadrem’ha costretto a pugnar contro mio padre.

(Mambr., XIX 25)

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Timocrate va contro il proprio padre naturale e ne sceglie un se-condo, d’elezione, un maestro e un signore a cui essere «suggetto»:

Non puote il damigel allor tenersich’el non stendesse ambedue le sue bracciaal col d’Orlando solo per potersigloriar d’averli baciata la faccia;dappoi incominciò forte a dolersich’ei non avesse seguito la tracciad’un tal barone più presto che allora.Rispose Orlando: – Tu sei giunto ad ora –.

(Mambr., XIX 35,7-37)

Nella corte secondaria e dislocata, ma esemplare, che Orlando ha costruito in occasione dell’assedio di Utica ha luogo un tradi-mento; il traditore, come il Gano della tradizione, viene squartato e assimilato a Giuda. In un luogo altro e lontano dalla corte di Car-lo Magno si consuma così una nuova narrazione del tradimento di Gano: il traditore viene ucciso prima che possa ultimare il tradi-mento, per mano di un servitore e un alleato magnanimo e di buon cuore. L’autore delinea così un modello di collaborazione politica e di rapporti tra il signore e coloro che sono al suo servizio, guidati da un condiviso modello di bene e di buona condotta, seguendo il quale è consentito un margine di autonomia e di (paternalistica) libera ini-ziativa del sottoposto rispetto al suo signore.

4.2. Strategie di contenimento a corte: il ruolo di Astolfo

Veniamo ora all’ultimo punto della nostra analisi, che riguarda il ruolo di Astolfo presso la corte di Carlo.26 Nel Mambriano Astolfo è un personaggio orgoglioso e particolarmente lussurioso, sbruffone

26. Sulla figura di Astolfo nel Mambriano, v. Martini, Il ‘Mambriano’ cit., pp. 309-334; Santoro, L’Astolfo ariostesco cit., pp. 209-212. In particolare Martini rile-va il ruolo di contenimento dell’eversione giocato da Orlando e da altri personaggi nei suoi confronti, analizzandolo in vari momenti del testo: «La capacità logica di Astolfo (…) è (…) molto pericolosa: essa sovverte l’ordine. Per questo viene man-tenuta (…) all’interno di una dimensione comica, di motteggio» (p. 315). Martini analizza vari esempi di questo meccanismo di lusus eccedente e ripristino della misura, e rimandiamo al suo lavoro per una esemplificazione; qui ci concentreremo sullo scambio del canto XXXV, che Martini tralascia di commentare, e che invece,

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e millantatore: anche durante le più serie battaglie l’autore colloca spesso una finestra sulle poco serie imprese di Astolfo. Compagno di Orlando, parte con lui alla ricerca di Rinaldo, poi lo segue nella spedizione contro Meonte e le guerre successive. Anche nel Mam-briano, però, Astolfo ha la parola pronta, la lingua lunga e insinuan-te, che spesso insiste malevola su tratti degli altri personaggi che ap-partengono alla tradizione: Orlando il casto e impacciato in amore, Rinaldo facile preda di Venere e ladrone, Carlo sciocco.

Nel Mambriano al canto XXXV, Astolfo viene rappresentato all’interno della corte di Carlo.27 Ci troviamo alla fine dell’ampia sezione del poema dedicata alla conquista di Utica, alla difesa di Piraga e alla sconfitta di Mambriano. Al termine di queste imprese, tutti i paladini tornano a corte, per presentare a Carlo i risultati delle loro campagne di conquista: approdano a Valenza e si dirigono ver-so Parigi, accolti festosamente dalla popolazione. Segue la minuta descrizione delle ricchezze conquistate da Rinaldo, che si snodano in un corteo trionfale. Il trionfo romano è il modello a cui Francesco Cieco si ispira, come dichiara lui stesso:28

Niun romano mai con tanto onore,al tempo che più Roma trionfava,ritornò alla sua patria vincitore,come Rinaldo a Parigi tornava;e pervenuto al palazzo maggiore,pria che smontasse, a Carlo consegnava

proprio perché avviene nel contesto della corte di Carlo, è di particolare interesse per il discorso che stiamo svolgendo.

27. Fino a quel momento, infatti, abbiamo visto Astolfo all’opera fuori dalla corte di Carlo Magno, e lontano dal suo cospetto. Un secondo momento di “interno corte” si presenta nell’ultimo canto, che si conclude proprio sugli scambi di facezie tra Astolfo e Alda (che come Fulvia è dama di corte modello e sa dunque rispondere a tono ai motti e alle facezie; su questo, Martini, Il ‘Mambriano’ cit., p. 323-326): Carlo probabilmente è presente, ma non prende la parola né viene nominato.

28. Il trionfo in stile classico è una tipica manifestazione pubblica delle città italiane del Rinascimento. Francesco Cieco descrive più volte, e con dovizia di par-ticolari, ingressi trionfali e cortei, militari, mitologico- allegorici, e anche un trionfo del mondo della ventura, con creature fantastiche – un drago, una sirena, un gigante e un centauro (quello di Ivonetto, al c. XXXVIII); su questo Martini, Un romanzo di crisi cit., pp. 381-394.

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oltra il tributo tutti quei baroniche in Calcidonia eran stati prigioni.

(Mambr., XXXV 64)

È in questo contesto trionfale (e dunque intrinsecamente tea-trale e performativo) che deve essere letto lo scambio tra Orlando, Astolfo e gli altri paladini. Orlando, con magnanimità, evita di far risaltare le proprie imprese, per meglio mettere in luce davanti a Carlo le imprese di Rinaldo (a partire dai Cantari di Rinaldo da Montalbano, la tradizione italiana vuole che Rinaldo debba sempre un po’ riabilitarsi agli occhi dell’imperatore). Astolfo, con evidente contrasto, comincia invece a sbeffeggiare e a denigrare Rinaldo. Le sue parole hanno due funzioni: da una parte offrire la rappresenta-zione di un abbassamento, e di un rovesciamento del grande con-dottiero, protagonista del trionfo; dall’altra costruire un teatro della maldicenza proprio utilizzando quei tòpoi ben consolidati all’interno della materia carolingia italiana. Astolfo riprende così, ma facendo-sene unico portavoce, la tendenza alla maldicenza, all’invettiva, alla rissosità propria della corte di Carlo nel suo complesso, che tanto ne aveva minacciato l’unità, la stabilità e l’incolumità. Nel caso del Mambriano la maldicenza affonda le radici nel passato dei paladini (e dunque, in altre storie della tradizione); nello stesso tempo, assu-me una funzione precisa e viene in questo modo addomesticata, ri-condotta entro una forma e una misura per cui Carlo può ben stupirsi che Astolfo dica «così ben male» (XXXV 51, 2).

L’Astolfo del Mambriano sembra così rientrare all’interno della rappresentazione del conflitto di narrazioni di cui abbiamo parlato sopra. La sua maldicenza è innanzitutto millanteria iperbolica, argo-mentazione capziosa, rovesciamento del senso comune, fino a sfio-rare l’assurdo. Non per questo, però, risulta meno eversiva: è proprio nel contenimento dell’eversione che si mostra la capacità dei buoni cortigiani di mettere ordine e di contenere le spinte disgregatrici. In questo modo, con un comportamento da «pazzo», Astolfo sfrutta l’enciclopedia cavalleresca delle enfances dei suoi compagni e sot-tolinea aspetti della loro vicenda che possono portare discredito.

Quando Rinaldo si avvicina a Carlo per offrirgli il proprio tribu-to, Astolfo lo precede, per parlare con Carlo prima di lui. Ecco, per punti, quello che dice:

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– Astolfo esorta Carlo Magno a far venire il boia: ecco il ladro! non si curi Carlo che gliel’abbiano condotto su un carro trionfale (XXXV 42).

– Rinaldo dà del pazzo ad Astolfo (43, 1-7).– Astolfo dà del pazzo a Carlo se non lo impicca: entro un anno

potrebbe rubargli anche la corona! Per Astolfo Carlo non ha paura del futuro, e «vanamente spera e crede / trovar leanza ove non fu mai fede» (44, 7-8).

– Carlo risponde che lui però si sente ben difeso poiché avrà Astolfo al proprio fianco, uomo pieno di ardimento: al massimo Astolfo cade da un cavallo «che a sommo studio ti lascia cadere» (45, 8).

– Astolfo insiste sul cavallo: se lui avesse Baiardo sarebbe superiore allo stesso Orlando (46).

– Astolfo dichiara di aver più volte in Africa salvato Orlando da morte: sarebbe morto, infatti, se lui non lo avesse «da compagno ardito / infiammato a scoprir le sue faville» (47, 3-4), e per questo si sarebbe fatto «erede» di gloria.

– Astolfo dovrebbe andare in trionfo, non Rinaldo: «ma tu [scil. Car-lo] sei tanto d’ignoranza pregno, / che a un figliuol de le forche l’hai concesso / ingiustamente per soverchio amore» (48, 5-8).

– Carlo risponde che giustamente trionfa Rinaldo, per aver vinto Mambriano e perché sopporta l’insolenza di Astolfo (49).

– la risposta di Carlo fa sospettare ad Astolfo che lui sia segretamen-te socio di Rinaldo nelle sue ruberie (50).

– «Carlo non puote far che ’l non ridesse / udendo Astolfo dir così ben male» (51, 1-2); ma lo prega di non esagerare a parlare contro la corona

– Astolfo risponde:

Pensi tu, Carlo, disse Astolfo, ch’iosia così fuor de l’usata prestanza,che poner voglia il tuo nome in obblio?Nessun giudichi in me tal discrepanza;quanto a Rinaldo io ti giuro perdioch’io el biasmai per provar la sua costanzae per dare al trionfo, oltra la gloria,una perpetua e indecibil memoria.

(Mambr., XXV 52)

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La parola di Astolfo appare programmaticamente irriverente: in questo specifico contesto, celebrativo e trionfale, l’invettiva e il vitu-perio di cui si fa portavoce il “pazzo” Astolfo potrebbe assumere il valore che i carmina triumphalia avevano nella tradizione degli an-tichi trionfi romani: una funzione apotropaica, come correttivo della laudatio, per stornare la possibilità di un castigo degli dei a causa dell’eccessiva manifestazione di potere dei mortali. Nell’ultimo passo citato, le parole in rima io-obblio e gloria-memoria risultano partico-larmente eloquenti in questo senso. D’altra parte, poco più giù, Rinal-do fa solenne giuramento di non depredare più e di lasciare libere le strade (XXXV 67-68). E mantiene la promessa, visto che lo troviamo nel canto XLIV alle prese con qualche problema economico: la sua condotta è troppo liberale e quello che doveva bastagli cent’anni non gli era durato sei mesi (88); i suoi lo pregano di consentire loro di tornare sulle strade a depredare i mercanti, ma Rinaldo è fermo su questo punto: ha dato la sua parola (89-92); alla fine ritroverà un po’ di respiro grazie all’aiuto di Malagigi: questi episodi mettono in luce quanto di vero ci fosse nelle parole del maldicente Astolfo.

Torniamo al canto XXXV: dopo Rinaldo, l’attenzione passa ad Orlando. Astolfo «vedendo far tante carezze a Orlando» (XXXV 74, 6) chiede a Carlo che non distribuisca tutto il premio a uno solo: lui ha meriti anche superiori a quelli di Orlando nelle guerre d’Africa! Carlo risponde: il maltrattamento è un giusto premio ai meriti di Astolfo, che ha dormito in Africa, mentre Orlando combatteva (76). Astolfo si sente offeso: come se lui non avesse mai fatto nulla per la sua corte (78)! Scaglia allora la lingua contro Orlando: Orlando che visse alla grossa sotto il monte Sutri, che venne tre volte a rubare tazze e vivande a Carlo per bisogno (79); Orlando fu prima cialtrone che paladino; esercitò il mestiere di bandito in quel di Sutri (80).

Orlando, acciò che peggio non dicesseconoscendolo aver la lingua acutain mordere i compagni, gli concessemezzo il tesor, dicendo: – Cugin mutaomai linguaggio, chè l’ingiurie espresseSoglion esser all’uom mortal feruta,e provocarlo a far cose sì enormeche in vita sua mai più quieto non dorme –.

(Mambr., XXXV 81)

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Astolfo si accorge di aver passato il segno e si scusa:

Astolfo che si vide aver passato il segno, disse verso il suo germano:– Non creder che così abbia parlatoper farti ingiuria, o Senator romano;io il fe’ per veder chi era meglio armatodi costanza, o tu o il sir di Montalbano;e ognun di voi si è portato in tal modo, ch’io non so dir qual merti maggior lodo.(…) –.

(Mambr., XXXV 83)

Orlando decide di concedere ad Astolfo metà del bottino; Astolfo accetta, dichiarando di farlo appunto perché sa che gli viene dato per merito e non per bisogno (altra allusione a Rinaldo, che invece col tesoro si sostenta); il narratore ammicca al lettore: si sa che il tesoro viene dato ad Astolfo per farlo tacere; Carlo è grato ad Orlando per questo gesto di liberalità che ferma l’invettiva. La simmetria vilipen-dio/pentimento delle due serie ingiuriose, il fatto di ricalcare lo sche-ma – classico nel genere – che abbiamo trovato nella Spagna, laddove Astolfo afferma di aver parlato solo per mettere alla prova Gano, la prontezza di Astolfo a pentirsi di fronte al sovrano: tutti questi elementi mostrano l’efficacia di questa rappresentazione del contenimento dei sentimenti di invidia che avviene nello spazio della corte.

Espunto il traditore, la corte è ora diventata uno spazio chiuso e contenitivo, in cui la figura paterna di Carlo (rispecchiata e amplificata in Orlando) è garanzia di stabilità. Soprattutto, come anche testimo-niato dalla punizione del traditore Filomede, la stabilità della corte è affidata alla bontà dei collaboratori, che superano addirittura le impas-se legate ai principali tòpoi canterini. In questo modo, la rappresenta-zione della corte si fa prescrittiva: raffigura la corte come dovrebbe es-sere, una corte perfetta, non senza intenzioni propagandistiche. Il buon ammaestramento che Francesco Cieco consegna ai suoi committenti segna il passaggio dalla riflessione appassionata sul potere, che era nel poema boiardesco, alla celebrazione di un ordine costituito.

Il Mambriano «romanzo di crisi» e di rifondazione dei valori cavallereschi della cavalleria e della politica: gli ultimi studi (Ever-

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son, Carocci, Martini) concordano su questa conclusione. Qui si è mostrato come l’efficacia rappresentativa in un genere codificato e dalla struttura seriale si fondi su una operazione continua di ri-lettura della tradizione, che rinnova gli stereotipi (che spesso sono più negli occhi di chi legge che nei testi) con un sapiente gioco tra riconoscibilità (e dunque conservazione) e innovazione. È quello che accade nella Spagna e nel primo libro dell’Innamorato, attra-verso l’associazione delle figure di Gano e di Astolfo. In particolare Boiardo recupera la dimensione di Astolfo propria del personaggio nei testi in franco-italiano: il suo speciale rapporto con la verità (al limite della preveggenza, come nell’Aquilon) che aveva reso pos-sibile una rappresentazione complessa del valore militare e della fedeltà al signore, che desse spazio anche al dubbio e alla paura (come nell’Entrée). È questa speciale e complessa figura che nel Mambriano viene disinnescata, innanzitutto attraverso il potenzia-mento dei suoi aspetti più iperbolici, caustici, eversivi, e poi con il loro contenimento e ri-funzionalizzazione nello spazio della corte; nel momento in cui il traditore è rappresentato fuori dalla corte, e un nuovo Gano leale balza sulla scena (chi lo voleva traditore era male informato), Astolfo rimane l’unico rappresentante della discordia e della sua risoluzione.

Forse, si potrebbe concludere, il meccanismo dello spostamento è alla base della costruzione anche dell’Astolfo di Ariosto; in que-sto caso potrebbe trattarsi di uno spostamento della pazzia e dello squilibrio fuori dal personaggio, che invece è reso responsabile del rinsavimento e dell’equilibrio restaurato; anche la parola satirica, quella che in quanto tale può pronunciare la verità, è collocata ester-namente, nel mondo rovesciato, nell’altrove della luna, di cui Astol-fo si fa spettatore. Nel Furioso l’Astolfo della tradizione sembra così aver subito una sorta di scomposizione, con un processo del tutto opposto rispetto a quello in atto nell’Innamorato e soprattutto nel Mambriano. Questa operazione risulta più significativa se vista in dialogo con la tradizione e con particolare attenzione alle sotter-ranee forme di continuità che punteggiano le letture e riletture delle storie di cavalleria e dei loro protagonisti.

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Questo volumeè stampato su carta Palatina

delle Cartiere Miliani Fabriano S.p.A.

Finito di stamparenel mese di settembre 2017

dalla Grafica Editrice Romana s.r.l. – Roma