PERCHÉ UN PANNOLINO VALE PIÙ DI UN FILM? - 8-mezzo.it · Così, quando agli inizi del 1977...

108

Transcript of PERCHÉ UN PANNOLINO VALE PIÙ DI UN FILM? - 8-mezzo.it · Così, quando agli inizi del 1977...

C’è una domanda a cui, per quan-to mi sforzi, non riesco a dare una risposta.

Perché se uno vuole acquistare sul web qualsiasi prodotto mate-riale – dai formaggini ai pannolini – trova normale che questi abbia-mo un prezzo e che per poterne disporre bisogna sostenere un costo, mentre di fronte a prodotti cosiddetti immateriali – un film, un brano musicale, un articolo, un testo – molti pretendono che siano disponibili gratuitamente? Forse che il lavoro di un produtto-re di pannolini vale di più di quel-lo di chi realizza un film o di chi scrive una canzone?

Misteri della Rete.

Fatto sta che sia a livello europeo che a livello italiano un fronte ampio che va dai post-comunisti ai neo-sovranisti urla compatto contro la Legge che tutela il di-ritto d’autore, in difesa di quella che loro chiamano la libertà della Rete. Che è poi la liberta di alcu-ni colossi del web di rubacchiare contenuti prodotti da altri e di metterli a disposizione drenando pubblicità da capogiro e pagando tasse in misura ridicola. Ma sanno i paladini della libertà che i loro amati Google e Facebook hanno fatturato in Italia nell’ultimo anno 2 miliardi di euro, accaparrandosi il 90% delle risorse pubblicitarie, dando lavoro a un numero ridico-

PERCHÉ UN PANNOLINO VALE PIÙ DI UN FILM?

lo di persone (poche decine) e pa-gando meno tasse di una piccola impresa mobiliera della Brianza?

Ci sono voluti secoli per arriva-re a tutelare il diritto d’autore. Per vedere riconosciuto il valore del lavoro intellettuale e creati-vo. Per far sì che le professioni creative non fossero più solo appannaggio di rentier con alle spalle famiglie aristocratiche. Ci sono voluti secoli per capire che il riconoscimento economico del diritto d’autore, nel momento in cui questo diventa di massa, è una delle poche vie di cui il singolo individuo dispone per sfuggire davvero alla schiavitù del lavoro salariato. Ora tutto ciò rischia di essere cancellato da coloro che con la scusa della libertà della Rete in realtà diventano le guar-die del corpo dell’algoritmocra-zia. E allora bisogna dirlo forte e chiaro che nella battaglia europea per la difesa del diritto d’autore passa non solo l’affermazione di un principio, ma anche il futuro dell’industria culturale e dei no-stri attrezzi per fantasticare.

Se si perde quella battaglia, il ri-schio è che di qui a poco non ci siano più film, musiche e testi che non siano quelli voluti e approvati dai detentori delle infrastrutture tecnologiche di circuitazione di contenuti rubati. C’è il rischio che il regista o il musicista o lo sceneg-giatore non siano più professioni

editoriale

di GIANNI CANOVA

retribuite ma attività dopolavori-stiche e dilettantesche. Oppure attività da cortigiani disposti a produrre ciò che i nuovi Padro-ni vogliono si produca. È questo che volete? Questo che vogliamo? Questo il futuro che ci attende? La battaglia di settembre sul copyri-ght è una battaglia decisiva. Non solo per noi, ma anche per quelli che verranno dopo di noi.

INCHIESTE

36 Nuovi Cinema Paradiso di Gianni Canova

38 Sopra i tetti di Milano di Hilary Tiscione

40 Questione di… Hart di Margherita Bordino

41 Seravezza: patrimonio Unesco e Grand Gourmet di Nicola Calocero

cover

voci

EDITORIALE

01 Perché un pannolino vale più di un film? di Gianni Canova

sommario

SCENARI

06 Tra cromofobia e cromofilia di Gianni Canova

08 Peppino Ortoleva: l’eccitazione cromatica di un Paese in bianco e nero di G. C.

10 Questione di luce di Federico Pierotti

12 Una matita gialla di Silvana Annicchiarico

14 Desaturando desaturando di Rocco Moccagatta

16 Cinema ibrido di Elena Gipponi

18 Il primo fu Totò di F. P.

20 Quadri in tipografia di E. G.

22 Viaggio cromatico nella memoria del cinema di Andrea Guglielmino

8½NUMERI, VISIONI E PROSPETTIVE DEL CINEMA ITALIANO

Bimestraled’informazioneeculturacinematografica

Iniziativa editoriale realizzata da Istituto Luce-Cinecittà in collaborazione con ANICA e Direzione Generale Cinema

DirettoreResponsabileGiancarlo Di Gregorio

DirettoreEditorialeGianni Canova

ViceDirettoreResponsabileCristiana Paternò

CapoRedattoreStefano Stefanutto Rosa

InRedazioneCarmen DiotaiutiAndrea Guglielmino

CoordinamentoredazionaleDGCinemaIole Maria Giannattasio

CoordinamentoeditorialeNicole Bianchi

HannocollaboratoSilvana Annicchiarico, Pedro Armocida, Alice Bonetti, Margherita Bordino, Nicola Calocero, Gianni Celata, Roberta Chiti, Corrado Colombo, Carlo Cresto-Dina, Silvio Danese, Steve Della Casa, Laura Delli Colli, Federica D’Urso, Catherine Fitzgerald, Iole Maria Giannattasio, Elena Gipponi, Oscar Iarussi, Marcella Leonardi, Jennifer Malvezzi, Anton Giulio Mancino, Andrea Mariani, Raffaele Meale, Rocco Moccagatta, Valentina Neri, Federico Pierotti, Ilaria Ravarino, Claver Salizzato, Boris Sollazzo, Azzurra Teoli, Hilary Tiscione, Roberta Torre, Bruno Zambardino

ProgettoCreativo19novanta communication partners

CreativeDirectorConsuelo Ughi

DesignerGiulia Arimattei,Matteo Cianfarani, Valeria Ciardulli, Martina Marconi,Lorenzo Mauro Di Rese

StampaedallestimentoArti Grafiche La ModernaVia Enrico Fermi 13/1700012 Guidonia Montecelio (Roma)

RegistrazionepressoilTribunalediRoman°339/2012del7/12/2012Direzione,Redazione,AmministrazioneIstituto Luce-Cinecittà SrlVia Tuscolana, 1055 - 00173 RomaTel. 06722861 fax: [email protected]

Chiuso in tipografia il 31/07/18

24 Allargare la visione di Raffaele Meale

26 AAA cercasi Pontormo di Roberta Torre

28 Quadricromia. Quattro autori del nostro cinema 28 La tavolozza di Bava di Boris Sollazzo

29 Antonioni, dipingere la realtà di Cristiana Paternò

30 La pulsazione emotiva di Matteo Garrone di Marcella Leonardi

31 Lo stracolore va… Bene di Steve Della Casa

32 Rosso Shining, blu Titanic sondaggio

di Alice Bonetti

SCANNER

66 La sfida della Legge Cinema al mondo delle sale di Federica D’Urso, Iole Maria Giannattasio, Bruno Zambardino

FOCUS NUOVA ZELANDA

75 Metti una nuvola nel blockbuster di Ilaria Ravarino

80 VA TAPUIA! La forza creativa della diversità di Catherine Fitzgerald

CINEMA ESPANSO

82 Calzature Divine di Stefano Stefanutto Rosa

87 Özpetek e le stelle digitali di Nicole Bianchi

88 Prandino, conte & regista di Corrado Colombo

GEOGRAFIE

90 L’Adriatico di Fellini di Oscar Iarussi

RACCONTI DI CINEMA

54 La città delle donne La smorfia amorfa e lo scafandro di Silvio Danese

REPRINT

56 Un deserto di colori in un mondo pazzo quattro volte di Gianni Toti da “Giovane critica”, ottobre-novembre 1964

di Andrea Mariani

ANNIVERSARI

58 A 50 anni da C’era una volta il West

59 Quando la leggenda diventa realtà, vince la leggenda di Claver Salizzato

latestrewind

RICORRENZE

92 Una bicicletta per l’Italia del ’48 di Nicole Bianchi

RICORDI

94 Anna Maria Ferrero (1934-2018) Via dal cinema per amore di Laura Delli Colli

95 Carlo Vanzina (1951-2018) Il critico (gentile) che non c’è stato di Rocco Moccagatta

INNOVAZIONI

96 Falchi e colombe contro Netflix & Co. di Roberta Chiti

98 Le tre eresie del cinema di Gianni Celata

INTERNET E NUOVI CONSUMI

100 Ritorno alla Luna, da Méliès alla realtà virtuale di Carmen Diotaiuti

MARKETING DEL CINEMA ITALIANO

102 L’anno der canaro di Andrea Guglielmino

104 BIOGRAFIE

42 Policlinico Gemelli, l’arte della CineTerapia di Nicole Bianchi

43 Dal Cine-panettone al Cine-panzerotto di Anton Giulio Mancino

44 Proiezioni memorabili di Valentina Neri

DISCUSSIONI

46 Un gatto in the Sky di Pedro Armocida

PUNTI DI VISTA

48 Il nuovo pensiero critico italiano di Jennifer Malvezzi

50 Beethoven e la Virtual Reality di Carlo Cresto-Dina

voci - inchieste non ci sono più i cinema di una volta? Sì, ce ne sono di nuovi.

4/5

coverSCENARI

06 Tra cromofobia e cromofilia di Gianni Canova

08 Peppino Ortoleva: l’eccitazione cromatica di un Paese in bianco e nero di G. C.

10 Questione di luce di Federico Pierotti

12 Una matita gialla di Silvana Annicchiarico

14 Desaturando desaturando di Rocco Moccagatta

16 Cinema ibrido di Elena Gipponi

18 Il primo fu Totò di F. P.

20 Quadri in tipografia di E. G.

22 Viaggio cromatico nella memoria del cinema di Andrea Guglielmino

24 Allargare la visione di Raffaele Meale

26 AAA cercasi Pontormo di Roberta Torre

28 Quadricromia. Quattro autori del nostro cinema

28 La tavolozza di Bava di Boris Sollazzo

29 Antonioni, dipingere la realtà di Cristiana Paternò

30 La pulsazione emotiva di Matteo Garrone di Marcella Leonardi

31 Lo stracolore va… Bene di Steve Della Casa

32 Rosso Shining, blu Titanic sondaggio di Alice Bonetti

scenari

di GIANNI CANOVA

TRACROMOFOBIA

scenari

E CROMOFILIA

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

6/7

C’è una diffusa cromofobia che attraversa la storia sociale italiana nella seconda metà del ‘900.

Paura del colore. Diffidenza. Astio. Sospetto. Ostilità. Il culmine di questa tendenza si ha all’inizio de-gli Anni ‘70, quando uno dei primi governi Andreotti rischia di cadere perché il segretario del Partito Re-pubblicano Italiano, Ugo La Malfa, minaccia di ritirare la sua delega-zione dal governo se il Consiglio dei ministri dovesse decidere di dare il via libera all’introduzione anche in Italia della Tv a colori. Il colore – pensano in tanti – non è solo inutile, è anche scandaloso. È un vizio che non ci si può permet-tere. È un incitamento neanche tanto implicito ai bagordi del con-sumismo. La pensano così, tra i tanti, molti sindacalisti della CGIL (“L’adozione della televisione a colori si muove in senso del tutto

opposto alle esigenze del nostro Paese”) e anche il Partito Comu-nista, che con un tipico atteggia-mento pedagogico-paternalista si preoccupa di proteggere le masse dagli adescamenti del superfluo e del consumo. Così la Tv a colori, che era già da tempo una realtà non solo in America ma anche in Fran-cia e Germania (e che la Rai era tec-nicamente pronta a realizzare fin dal 1961), da noi arriva con almeno 10 anni di ritardo, e con l’industria elettrotecnica italiana messa sul lastrico dalla miopia delle scelte politiche governative: per anni gli italiani smettono di comprare te-levisori in bianco e nero in attesa dell’autorizzazione all’acquisto di apparecchi a colori che però le aziende produttrici non possono né costruire né commercializzare perché vietati. Così, quando agli inizi del 1977 finalmente il colore arriva, nei negozi si trovano solo

marchi stranieri, perché quelli ita-liani hanno chiuso o sono falliti. Potenza della politica, miseria del-la politica. Ma anche, e soprattut-to, paura della modernità. Disagio della modernità. Diffidenza nei confronti della tecnica. E – su tutto – la solita, cronica paura del nuovo.

Sul colore, attorno al colore, la società italiana gioca una partita importante nel suo percorso verso la modernità. Nel cinema, come è noto, il colore era già arrivato all’i-nizio degli Anni ‘50: Totò a colori (1952) di Steno, realizzato con la tecnologia tutta italiana della Fer-rania, inaugurava una stagione in cui l’euforia cromatica (il Ferra-niacolor conferiva alle pellicole un colore molto sgargiante e acceso, quasi da risultare irreale, o in alcuni casi addirittura instabile) si appli-cava soprattutto alle pellicole più popolari, ai film di genere, a quelli

più vicini al varietà, mentre gli au-tori (con poche sporadiche ecce-zioni: Antonioni e il Visconti del Gattopardo su tutti) continuavano a disdegnare il colore e a preferire il bianco e nero – da Bellocchio e Bertolucci – sin quasi alla fine de-gli Anni ‘60. La partita vera si gioca nel decennio successivo. Anche se passati alla Storia come gli “anni di piombo”, i Seventies italiani han-no in realtà ben poco di grigio. È in quel decennio infatti che la società italiana, all’improvviso, si colora. Arrivano ad esempio gli eviden-ziatori Stabilo, che sostituiscono la vecchia sottolineatura con la matita (grigia…) con un tratto fluo-rescente giallo o verde. Ma arriva-no anche le copertine dei dischi di vinile, con le tinte lisergiche di una grafica ardita e trasgressiva, che assorbe gli umori della musi-ca e li trasforma in segni colorati che rompono gli schemi e fanno

degli album dei Pink Floyd o dei Led Zeppelin, anche in Italia, degli oggetti di culto. Ma anche la moda si colora: dal negozio di Piazza san Babila, a Milano, Fiorucci trasfor-ma zeppe e monokini sgargianti quasi in oggetti da pop art e invade l’immaginario collettivo con una visione del tutto nuova che vetri-nizza il mondo anche attraverso l’uso fortemente connotativo di tutto lo spettro cromatico. E poi ci sono i fumetti: Pentothal, Canniba-le, Frigidaire, Stefano Tamburini e Andrea Pazienza, e tutto l’universo psicotropo della new wave italiana che celebra nel colore la propria vocazione irridente e incendia-ria, mentre al MoMA di New York la mostra Italy. The New Domestic Landscape fa decollare nel mondo i colori del nuovo design italiano. Perfino il cibo vuole essere più colorato: bibite e gelati ostentano colorazioni estrose ed eccessive,

arrivano i ghiaccioli translucidi e gli sciroppi per le granite, spopo-lano i coloranti che qualche tempo dopo sarebbero stati denunciati come nocivi (ricordate l’E123 che dava una colorazione amaranto?), il packaging delle merci diventa sempre più indiscreto, ammic-cante e vistoso. E il cinema? Come regola il cinema italiano il suo rap-porto col colore? Come gestisce il rapporto con una società passata repentinamente dalla cromofobia pauperistica alla cromofilia eufo-rica? Come incide sui gusti e sulle tendenze cromatiche (e sociali…) degli italiani? Sono le domande a cui cerchiamo di dare una risposta nelle pagine che seguono, convinti che anche a partire da punti di vista eccentrici come questo si possono individuare snodi, problemi e con-traddizioni che investono non solo la Storia del nostro cinema ma an-che il suo rapporto con la società.

L’improvvisa svolta nella percezione e nel consumo sociale del colore segna – negli Anni’70 – uno dei passaggi più rilevanti nel percorso della società italiana verso la modernità. Allora si passò repentinamente dalla cromofobia pauperistica alla cromofilia euforica. E oggi? Qual è oggi il nostro rapporto con il colore? E che ruolo gioca il cinema nella definizione dello spettro cromatico della realtà contemporanea?

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

di G.C.

P E P P I N O O R T O L E V A :

L ’ E C C I T A Z I O N E

C R O M A T I C A D I U N P A E S E

I N B I A N C O E N E R O

8/9

Tra i più autorevoli studiosi dell’universo mediatico contemporaneo, lo storico e sociologo della comunicazione ripercorre in questa intervista modi e forme del passaggio dal bianco e nero al colore nella società italiana a partire dalla metà degli Anni ‘70.

Uno dei suoi libri più importanti si intitola Un ventennio a colori. Te-levisione privata e società in Italia, 1975-1995. Fin dal titolo, sembra che lei legga il colore come tratto connota-tivo della società italiana in quel ven-tennio nevralgico che va dall’omicidio di Pasolini alla discesa in campo di Berlusconi…

La Tv a colori arriva in Italia in modo travagliato. Alcune forze politiche la osteggiano e ritardano un processo che dal punto di vista tecnologico era da tempo maturo. Negli USA la Tv a colori c’era già da anni, in Francia e Germania ar-riva negli Anni ‘60, da noi solo nel 1976. Questo fa sì che la Tv a colo-ri si diffonda da noi un po’ come prodotto di contrabbando: per qualche anno ci si trova a guarda-re le Tv estere che già trasmettono a colori, vietate fino al 1974 ma poi divenute in fretta oggetto di curio-sità e di attenzione collettiva. Con l’avvento della Tv a colori muore “Carosello” (che era in bianco e nero) e inizia l’era della pubblicità a colori. Il colore televisivo è un co-lore elettronico. La Tv il colore te lo proietta negli occhi, non si limita a fartelo vedere. E ciò produce effet-ti coloristici peculiari: è un colore fluorescente, quello televisivo. E dilaga in fretta dallo schermo Tv alle automobili, alla cartellonistica, agli elettrodomestici, al packaging. Tutto diventa più luminescente…

Questa diversità ha delle ricadute e dei riflessi anche sulla fenomenologia della percezione?

Certo! Se l’industria comincia ad adattarsi ai colori della Tv è per-ché i colori naturali cominciano ad apparire piatti, meno lumino-si. Ricordo solo che gli anni in cui esplode il colore elettronico sono anche gli anni delle luci strobo-scopiche delle discoteche, con la profluvie di effetti flickering, e di sberluccicamenti e di sfarfallii… e tutto questo in un Paese dove fino a poco tempo prima c’era una cultura molto riduttiva del colo-re. Il vestiario maschile aveva una gamma coloristica assolutamente ridotta. La vita di una donna, poi, era fatta di nero per 2/3 dell’esi-stenza. La cultura del lutto, non dimentichiamolo, imponeva di vestirsi di nero per 11 anni dopo la morte del padre, per 7 anni dopo la morte della madre, i momenti chiave della vita erano fatti di bian-co e nero (matrimoni, battesimi, comunioni…). A fronte di questa austerità cromatica, stava però l’esplosione coloristica delle feste patronali, e poi c’erano le pitture delle madonne, i fuochi d’artificio. Le processioni, le luminarie. Alla festa di sant’Agata a Catania, ad esempio, la processione si svolge-va al buio con le torce. E a guidarla c’erano degli incappucciati vestiti di nero. Insomma: un mondo ri-gido sul piano coloristico diventa improvvisamente colorato perché tutte le merci lo diventano e con esse le riviste, i fumetti, le coperti-ne dei dischi, gli abiti….

In Italia il colore ha sempre avuto un forte valore simbolico anche sul pia-no politico. Il primo simbolo di tutte le forze politiche è spesso stato un colore. Dai rossi e dai neri degli Anni ’70 agli azzurri di Berlusconi via via fino al nuovo governo giallo-verde. Un po’ come nel tifo calcistico (i nerazzurri, i giallorossi…) dove il colore è l’elemen-to connotativo dell’identità…

Questo però non è un fenomeno specificamente italiano. Il simbolo politico per eccellenza, le bandie-re, sono colorate. Sempre, ovun-que. Così come il tifo calcistico, che è colorato in tutto il mondo. È interessante piuttosto, in Italia, vedere il percorso per cui un certo colore viene associato a una certa idea, a un certo partito. La DC ad esempio sceglie un bianco casto e virginale, mentre l’azzurro di Forza Italia è di chiara derivazione calci-stica ed esprime l’ambizione del partito di Berlusconi di essere un po’ la Nazionale di calcio della po-litica italiana. Il giallo storicamen-te è stato un colore dispregiativo (ricordiamo il “sindacato giallo”), mentre il verde è un colore “libe-ro” associabile alle istanze più di-verse, dall’ecologismo a Gheddafi via via fino alla Lega…

Il passaggio dai vecchi telefonini ai nuovi smartphone può essere visto come l’avvento del colore anche in questo campo? Ormai viviamo in un’eccitazione cromatica perenne…

Non so se eccitazione sia la pa-rola più esatta. Parlerei piuttosto di alterazione. Primo perché – lo ricordo ancora – i colori elettro-nici non sono i colori della natura. Secondo perché l’alterazione può essere eccitante ma anche depri-mente. L’esplosione dei colori ha senz’altro un effetto onirico, ta-lora anche un effetto surreale, ma non necessariamente eccitante. Potrebbe essere anche stordente, o addormentante. Non a caso, ci sono prime avvisaglie, in giro, di un ritorno a un uso più pacato del colore. Più discreto. Lo si vede in certe grafiche di gusto ecologista, perfino in certe insegne, in certo packaging, che sembrano voler uscire dal sovraccarico cromatico e informativo degli ultimi anni.

Che differenza c’è fra questo nuovo colore televisivo e il colore al cinema?

Mi sembra che due siano le diffe-renze fondamentali. In primo luo-go, l’immagine televisiva è fatta di puntini luminosi. La luce non pro-ietta immagini, le fa. Lo schermo è un proiettore: è uno schermo pro-iettante, non ricevente come quel-lo del cinema che viene colpito dalla luce dal proiettore. In secon-do luogo, mentre la somma di tutti i colori nell’immagine naturale è il nero, nell’immagine elettronica la somma dà il bianco. Anche i colo-ri primari sono opposti: per la Tv sono rosso, verde e blu, per la na-tura sono giallo, ciano e magenta. In ogni caso, quello televisivo è un colore autoilluminante.

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

di FEDERICO PIEROT TI

Breve storia del colore nel cinema italiano da Totò a Una giornata particolare.

È con Totò a colori che nel ‘52 il co-lore si affaccia con decisione sulla scena del cinema italiano, dopo una serie di esperimenti portati avanti senza esito fin dagli Anni ‘30 (perfino Alessandro Blaset-ti nel 1937 si era misurato con il Technicolor). Forte del successo ottenuto in sala e della possibilità di utilizzare la pellicola naziona-le Ferraniacolor, il film di Steno è finalmente in grado di mettere in moto un processo che nel giro di una quindicina di anni porterà al definitivo passaggio dal bianco e nero al colore. Nei suoi primi dieci anni di vita, il colore è un patrimonio quasi esclusivo del cinema popolare e dei generi di profondità: non solo i film comici di Totò e di altri attori che si sono fatti le ossa nel varietà e nell’avan-spettacolo, ma anche film opera,

melodrammi d’appendice, peplum e commedie balneari. Inizialmente, gli autori conclamati si mantengono a distanza di sicu-rezza dal colore, preferendo prose-guire sul solco già ben tracciato del bianco e nero. Le ragioni dello scet-ticismo non sono soltanto tecniche (c’è scarsa fiducia sull’affidabilità delle nuove pellicole), ma soprat-tutto culturali: il colore è ancora considerato dalle élite come un elemento facile e superficiale, più adatto alla fruizione veloce della pubblicità e del consumo di massa che alle esigenze riflessive del film d’autore. A tutta prima, il colore non sembra adattarsi per niente a quei registi come De Sica, Rossellini e Visconti, che con i film neorealisti hanno appena scritto una pagina importante della Storia del cinema. Q

UE

ST

ION

E D

I L

UC

E

10/11

Tra i protagonisti di quella vicen-da, è Visconti a rompere per pri-mo gli indugi, nel 1954, decidendo di affidarsi al rodato e costoso Technicolor per girare Senso, che ricostruisce con sguardo pitto-rico un ritratto indimenticabile dell’aristocrazia veneziana duran-te il Risorgimento. Mentre Senso diventa il simbolo della battaglia delle idee degli Anni ‘50 (il pas-saggio dal Neorealismo al reali-smo di aristarchiana memoria), per i successivi Le notti bianche e Rocco e i suoi fratelli Visconti ri-piega sul bianco e nero, tornando al colore solo con Il Gattopardo, a quasi un decennio di distanza dal-la prima prova.

Nel frattempo, le vecchie resi-stenze sono state man mano superate e, anche su impulso di uno scenario internazionale che preme per il cambiamento, il ci-nema tutto inizia a confrontarsi in maniera decisa e sistematica con il colore: “tra poco il bian-co e nero diventerà veramente materiale da museo”, dichiara Antonioni mentre è in sala il suo Deserto rosso (1964), un film che si confronta con i colori funzio-nali della società industriale per comporre un magistrale ritratto disfunzionale della donna mo-derna. Nello stesso periodo, con Giulietta degli spiriti (1965), Fellini si appropria delle policromie po-polari dei fumetti, delle illustra-zioni e dei manifesti per compor-re un affresco di grande impatto, che trascina lo spettatore in un vortice allucinatorio e abbacinan-te di suggestioni visive. Sono film, questi ultimi, che assieme a quelli

di Ferreri (Dillinger è morto), Paso-lini (La ricotta, La terra vista dalla luna, Che cosa sono le nuvole?), Petri (La decima vittima) e altri ancora, segnano un punto di non ritorno per il cinema italiano. Di fronte a tanta ricchezza, le obiezioni di ap-pena dieci anni prima appaiono di colpo indifendibili. A partire dal momento in cui, alla metà degli Anni ‘60, il colore si impone come scelta pressoché obbligata, si possono individua-re due grandi linee possibili di sviluppo. Innanzitutto, dall’on-data più propriamente popolare prende il via un filone di grande creatività, destinato a riscuote-re un forte successo. Un nutrito gruppo di registi, direttori della fotografia e scenografi si diverte a usare il colore con grande fan-tasia e disinvoltura, infrangendo allegramente le vecchie regole hollywoodiane della misura e del controllo: inaugurato idealmente dai peplum rutilanti di Francisci (Le fatiche di Ercole, Ercole e la regi-na di Lidia), il filone viene portato avanti da Mario Bava (La frusta e il corpo, Terrore nello spazio), rag-giungendo con Dario Argento vet-te di grande ricercatezza visiva, in cui la cura formale tende a subli-mare le dosi crescenti di sangue che inondano lo schermo (Pro-fondo rosso, Suspiria). Se in tutti questi film il colore è genuinamente concepito in tutta la sua matericità e concretezza, un secondo filone tende invece a pensare il colore come elemento etereo e impalpabile, che lavora per toni più che per timbri, per accenti più che per macchie. Il colore è allora chiamato a sfida-re il bianco e nero sul suo stesso

terreno, diventando soprattutto un problema di chiaroscuro e di modellazione delle forme. Se la disponibilità di pellicole sem-pre più sensibili mette i direttori della fotografia in condizione di sperimentare soluzioni sempre più ardite, già nel 1962 in realtà Zurlini, coadiuvato da Rotunno, tenta di forzare i limiti del colo-re con Cronaca familiare. Il film, prefigurando i tempi, lavora so-prattutto sulle sottoesposizioni e sulle illuminazioni in chiave bas-sa, privilegiando i mezzi toni e ed eliminando ogni traccia di satura-zione. Qualche anno dopo, men-tre a Hollywood impazza la moda del flashing (che ha in Altman, Cimino e Polanski i suoi più nobili esponenti), un’originale via italia-na alla desaturazione è proposta da Bolognini con Metello (Ennio Guarnieri ammorbidisce i toni con una pellicola a basso contra-sto) e da Scola con Una giornata particolare. In quest’ultimo, Pa-squalino De Santis rievoca con grandissima efficacia le atmosfere livide e plumbee che avvolgono Mastroianni e la Loren nel giorno della visita di Hitler a Roma. Il colore, ormai, ha già cominciato a produrre una sorta di assuefa-zione presso gli spettatori. Esso non è più concepibile come qual-cosa di separato dalla luce e dal la-voro del direttore della fotografia, almeno per quella scuola italiana che proprio in questi anni afferma la sua leadership internazionale. I film, insomma, tornano a esse-re una questione di luce, come ai tempi del bianco e nero. Lo dimo-strano tra gli altri Giuseppe Ro-tunno (Roma, E la nave va) e Vitto-rio Storaro (Il conformista, Ultimo tango a Parigi, Novecento), che ini-ziano a modellare il colore come se fosse un elemento liquido, per creare trame di luce sempre più eleganti e raffinate, che saranno spesso imitate in Italia e all’estero.

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

di SILVANA ANNICCHIARICO

U N A M A T I T A G I A L L A

Come percepiamo il colore? E come può il colore cambiare il nostro sguardo sul mondo?

Alcune possibili risposte nel saggio Cromorama di Riccardo Falcinelli,

grafico, visual designer, autore di migliaia di copertine e di saggi

dedicati alla cultura visuale.

Facciamo un gioco.

Provate a immaginare una mati-ta. Una di quelle vecchie matite con la mina in grafite che abbi-sognano periodicamente del temperino per essere appuntite e quindi usate. Di che colore ve la immaginate? Chiudete gli occhi e provate a vederla. Nella maggior parte dei casi è molto probabile che quella matita la vediate gialla. Non lo dicono solo gli psicologi della perce-zione. Lo dicono anche i dati di mercato. Chi ha fabbricato ma-tite di altri colori (verdi, marro-ni, nere…) ne ha vendute molte

meno. Se digitate “matita” su Google, e cliccate su Immagini, le prime matite che appaiono sono gialle. O gialle e nere. An-che negli emoticon, il giallo è il colore più associato alle matite. Perché? Parte da questa doman-da il saggio di Riccardo Falci-nelli Cromorama (Einaudi Stile Libero, 2017), un viaggio colto, appassionato, sorprendente, il-luminante e suggestivo su come il colore ha cambiato il nostro sguardo e il nostro modo di per-cepire il mondo. Le matite sono gialle – osserva Falcinelli – per-ché un giorno – verso fine ‘800 – qualcuno decide di avvolgere

12/13

e contenere la mina di grafite in un involucro di legno. Il che evita, se non altro, di sporcarsi le dita a chi impugna la matita stes-sa. E questo legno viene ricoper-to da uno smalto giallo. Perché proprio giallo? C’è chi dice per motivi nazionalistici (il giallo è il colore dell’impero austro-un-garico, e le prime matite venne-ro realizzate proprio lì, prima a Vienna e poi in Boemia), chi per motivi metaforico-diplomatici (la grafite viene dalla Cina e il giallo era il colore della famiglia imperiale cinese). Fatto sta che da allora le matite sono gialle. I 2/3 delle matite prodotte sono di questo colore. Il che significa – conclude Falcinelli – che il co-lore “non è solo una sensazione né un mero attributo delle cose, il colore è soprattutto un’idea, o un’aspettativa. Certe tinte di-ventano tutt’uno con gli oggetti che le indossano, al punto che è difficile pensarli altrimenti” (p.7). Così, ad esempio, per re-stare sul giallo, ci sono oggetti che non possono che essere pensati in quel colore: le Pagi-ne Gialle, i girasoli di van Gogh, il barattolo del Nesquik, i taxi newyorkesi. Una cosa analoga si può dire anche di certi perso-naggi dell’immaginario: Robin Hood e Peter Pan, per dire, sono verdi, Cenerentola è azzurra, i Simpson sono gialli, Cappuccet-to è rossa fin dalla sua denomi-nazione, Audrey Hepburn in Co-lazione da Tiffany è nero, e così via. Attingendo all’intero uni-verso delle immagini (dalla pit-tura alla pubblicità, dal cinema alla letteratura, dal packaging al fumetto…), Falcinelli – grafico, visual designer, autore di miglia-ia di copertine e di saggi dedi-cati alla cultura visuale – passa in rassegna la storia del colore e racconta come, proprio attra-verso il colore, si è formato lo sguardo moderno. Che è diverso dallo sguardo delle epoche pre-cedenti. Considerate anche solo

l’idea – per noi quasi scontata – di tinta unita. Oggi noi attribu-iamo questa qualità cromatica a una superficie omogenea e uniforme in cui riconosciamo lo stesso colore in ogni suo punto. Ma la tinta unita, nota Falcinelli, è un portato dell’industrializza-zione e dei processi di standar-dizzazione produttiva: nel mon-do antico era quasi impensabile, non solo impossibile da produr-re. In un dipinto rinascimentale, per dire, non esiste la tinta unita. Esistono sfumature, velature, sgranature. Il colore è disomo-geneo e discontinuo. La stes-sa cosa non si può dire invece per un mattoncino Lego, per la scocca di un’automobile, per un catino di plastica. “La tinta uni-ta – scrive Falcinelli – è la virtù principe delle cose moderne. La frequentazione dell’omogeneo è ormai regina della nostra vita” (p. 24). Le tinte chimiche e poi elettroniche non sono assimila-bili, insomma, ai colori che Le-onardo si macinava da solo. Nel mondo antico i colori si ricava-vano dalle cose (il nero, per dire, dal carbone, il blu dal lapislaz-zulo), oggi nell’epoca dei pen-narelli è qualcosa che si spande sopra le superfici. Ma quanti sono oggi i colori? I produttori di elettronica parlano di 16 milioni, gli ottici replicano che l’occhio umano però non ne distingue più di 200. Certo è che rosso o verde o blu sono denominazioni troppo ampie e generiche, e co-prono una gamma troppo vasta di tonalità cromatiche. Falcinel-li, ad esempio, intitola i suoi ca-pitoli a colori sempre qualificati in modo storico-culturale: beige coloniale, arancione bollente, rosa pesca, giallo giuda, marro-ne neuronale, porpora simboli-co, indaco spettrale, malva mo-dernità e così via…. Per dire che il colore è un costrutto culturale, e che attraverso i colori costruia-mo sempre più spesso la nostra percezione del mondo. Perché

Flaubert veste di blu Madame Bovary? Perché nei dipinti di Mondrian il verde non c’è mai? E perché invece Hitchcock il verde lo usa in abbondanza, so-prattutto in Vertigo? Perché – po-tremmo aggiungere – una serie Tv come Il racconto dell’ancella e prima ancora il romanzo di Margaret Atwood da cui la serie è tratta costruiscono un mondo in cui anche i ruoli sessuali e le gerarchie sociali sono cromati-camente connotati? Perché an-cora oggi molte bambine vengo-no educate alla predilezione per il colore rosa? E perché la carne di vitella non viene acquistata se non resa bianchissima magari artificialmente? Passando dai colori di Pompei a quelli di Ul-timo tango a Parigi, dalle infinite gradazioni cromatiche del vino alle tonalità dominanti in certi oggetti di design, Falcinelli ci offre un percorso prezioso che è anche – a suo modo – un antido-to contro i rischi di standardiz-zazione dello sguardo, contro il pericolo che anche attraverso la “politica dei colori” esso pos-sa essere reso “prevedibile ed eventualmente dominabile”.

di ROCCO MOCCAGAT TA

Il lavoro di sottrazione del colore nel panorama che va

da Una giornata particolarefino a Dogman.

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

14/15

Desaturando desaturando, si sa, l’immagine cinematografica s’illividisce, s’incupisce. I suoi colori si atrofizzano, si svuotano, si asciugano. Perdono senso e consistenza, rinunciando a essere percepiti singolarmente, in favo-re di una smorta indistinguibili-tà. Quasi monocromatica. Anzi, acromatica. L’immagine a colori tende a non essere (più) a colori.Eccolo il paradosso del quale si fa portatrice quest’opzione di trattamento fotografico, che, pur in un panorama tecnologico segnato dal passaggio dalla pel-licola analogica al nuovo regime del digitale, il cinema italiano continua a praticare oggi come ieri. Nel passato, tra l’altro, so-prattutto in quegli Anni ‘70 che, pure, sono stati il primo vero de-cennio compiutamente a colori per i film italiani, dopo i ‘60 anco-ra attraversati dal corpo a corpo tra bianco e nero e colore. Anzi, se si ricorda così tanto la desa-turazione delle immagini di Una giornata particolare compiuta di comune accordo dal regista Scola e dal suo direttore della fotografia Pasqualino De Santis è, probabil-mente, perché ha un valore pro-grammatico auto-evidente. Per il come, innanzitutto: attraverso una triplice strategia, che partiva già dal profilmico, con arredi di scena e costumi decolorati prima (secondo una linea d’intervento attivo sul set da ricostruire prima o poi nella sua ricchezza e varietà, da La spiaggia di Lattuada fino a Il deserto rosso), proseguiva in sede di riprese con filtri particolari e trovava il suo compimento in post-produzione, in fase di stam-pa. Però, è sul perché che vale la pena in questa sede intrattenersi. Non tanto e non solo, come ha af-fermato spesso Scola, per garanti-re una continuità visiva con le im-magini del cinegiornale in bianco e nero sulle quali il film si apre, immediatamente contestualiz-zando la giornata particolare dei suoi protagonisti in quel 6 maggio del 1938. Quanto piuttosto per rendere il grigiore di un’epoca, per restituire il senso di narcosi col-

lettiva di un popolo sotto il tacco della dittatura, per far provare allo spettatore l’impressione di una prigionia, di una chiusura. Come giustamente sostiene Emiliano Morreale nel suo L’invenzione della nostalgia, si voleva stingere il co-lore del film nel bianco e nero. O, meglio, in un tono grigio, spento, senza nessuna speranza, nel quale evidentemente si rispecchiano i due protagonisti, in una vita che di particolare, in quel momento storico, non ha nulla. Lo sguardo sul passato del film di Scola, in sostanza, non è nostalgico, anzi è proprio l’esatto contrario, e l’ope-rato di De Santis, da questo punto di vista - lui che già passava per principe delle tenebre per aver affogato nel buio tanto dell’ulti-mo Visconti, anche lì offuscando il colore dell’immagine - fece ra-pidamente scuola, quando si do-veva mettere in scena il passato, impolverandolo e spegnendolo, da Cristo si è fermato a Eboli (De Santis per Rosi, 1979) in giù o in su. Questa strategia del nascondi-mento del colore, come dice Luca Venzi, è una delle manifestazioni di una vera estetica dell’acromia e, ammettiamolo, vale già come giu-dizio chiaro ed evidente su quel passato. Anche Bertolucci e Stora-ro ne Il conformista, qualche anno prima, vi avevano fatto generoso ricorso, di nuovo per esprimere l’ottundimento dei sensi (e della morale) del protagonista Marcel-lo e della società in epoca fascista. Come che sia, questo sguardo sul passato reso concreto attraverso la messa in sordina del colore si è spinto fino a oggi. Anzi, nelle nuove possibilità della fotografia digitale, si intensifica ed è opzio-ne prediletta ogni qualvolta si mettono in scena, con frequenza, gli Anni’70, plumbei e incolori per antonomasia, come fa Fabio Cianchetti ne L’ultima ruota del carro (Veronesi, 2013) e pure in certe operazioni al confine con il genere, come Romanzo criminale film e serie tv. Anche lo sguardo à rebours del protagonista di Fai bei sogni (Bellocchio, 2016) prende corpo attraverso la fotografia di

Daniele Ciprì che stende un velo di polvere sul passato, spegnen-do i colori verso il b/n (degli sce-neggiati tv, non a caso). Proprio il lavoro sull’immagine di Ciprì, so-prattutto nei film da regista, con-sente di spostare i termini della questione: l’idea di “film in vinile” che lui stesso associa al grottesco metaforico (in un presente fuo-ri dal tempo) de La buca (2014, girato in pellicola) fa evadere la fotografia decolorata dall’obbli-go di guardare esclusivamente al passato. In tanto cinema italia-no degli ultimi anni, l’immagine desaturata, produttiva di quello stato di spegnimento del colore e di assoluta indistinguibilità si al-larga al presente e al mondo che ci sta attorno. Con tante varianti: può assumere i toni gelidamente

opachi, fin quasi al b/n de L’in-dustriale (Catinari per Montaldo, 2010), dove rappresenta l’inverno perenne della crisi economica, può diventare l’assenza di luce e di emozione (e di morale) delle vite dei celerini sbandati di ACAB (Carnera per Sollima, 2012), può declinarsi nelle sfumature cupe e smorte della periferia degradata al centro de La terra dell’abbastanza (ancora Carnera per i fratelli D’In-nocenzo, 2018). Anzi, per questa via dialoga con l’impressionante lavoro compiuto da Nicolaj Bruel per Garrone sull’immagine illi-vidita e apocalittica di Dogman, una sorta di patina oleosa e mar-cescente che si spalma sui nostri occhi. Come, quarant’anni fa, la coltre di nebbia calata da De San-tis su Una giornata particolare.

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

di ELENA GIPPONI

C I N E M A I B R I D O

Esempi di viraggio tra colore e b/n nel cinema italiano contemporaneo.

Se colore e b/n al cinema sono per lo più usati separatamente (la maggior parte dei film è o in-teramente a colori, o interamente in b/n), esiste un piccolo corpus di pellicole che ricorre a entram-bi i registri cromatici, alternando sequenze a colori e sequenze in b/n, oppure accostando colore e b/n nella stessa inquadratura. È proprio in questo genere di film ibridi e meticci che le connotazio-ni culturali di colore e b/n, i loro significati socialmente sedimen-tati, si impongono con maggiore evidenza: da un lato il binomio presente/passato (dove in genere il b/n segnala il passato e il colore un approssimarsi alla contem-

poraneità, come avviene ad es. in C’eravamo tanto amati); dall’altro la più complessa contrapposi-zione tra realtà e finzione (dove ciascuno dei due statuti cromatici può indicare entrambi i corni del binomio, come accade ne La ricot-ta pasoliniana).Anche nella produzione ita-liana contemporanea figura-no alcuni film insieme a co-lori e in b/n: in questi casi che rapporto si istituisce tra i due tipi

16/17

cazzeggio post-adolescenziale, alle soglie dei trent’anni si interro-gano sull’opportunità di crescere, prendersi delle responsabilità, cercare un lavoro. Il prologo del film li vede bambini nell’estate del 1994: è lì che per la prima volta si sentono invadere inesorabilmen-te da un grigiore che ne spegne tutti i colori. L’alternanza di colore e b/n non segnala infatti in questo film il passaggio tra due epoche, bensì quello tra due condizioni: il mondo chiuso e volutamente im-mutabile dei tre amici asserraglia-ti attorno al tavolo della cucina, in b/n (a mimare l’estetica low-bud-get di certo cinema indipendente americano), finisce forzatamente per colorarsi quando i tre sono costretti a uscire e fare i conti con la “realtà” (ma basta che anche uno solo di loro lasci la stanza perché il regime acromatico ceda il posto al colore).L’ultimo esempio è il melodram-ma Per amor vostro (Giuseppe M. Gaudino, 2015), dove il colore sembra letteralmente applicato “a pennello” all’interno di scene in b/n: Anna (Valeria Golino), tre figli e un marito violento e malavi-toso, lavora come addetta al gob-bo sul set di una fiction tv. Il film è ambientato a Napoli e presenta una grande sperimentazione visi-va e di linguaggi (e di lingue: nella famiglia di Anna si parla anche la lingua dei segni). Dal punto di vi-sta cromatico, il racconto in b/n della difficile quotidianità della

di regime cromatico?Per rispondere prendiamo in esame tre esempi, accomunati in particolare non tanto da un’ordi-nata giustapposizione di colore e b/n (prima sequenze a colori, poi sequenze in b/n), quanto da un esibito viraggio tra l’uno e l’altro, una sorta di “contagio” dell’uno sull’altro, in seno alla medesima inquadratura: l’imma-gine si colora o si decolora senza soluzione di continuità.È quel che avviene innanzitutto in Belluscone (2014), meta-do-cumentario di Franco Maresco sul tentativo fallito di ricostruire l’origine siciliana della fortuna politico-finanziaria di Silvio Ber-lusconi. Uno dei personaggi prin-cipali è Ciccio Mira, impresario di cantanti neomelodici dichiara-tamente legato alla mafia “di una volta”. Questa figura ambigua e omertosa, in equilibrio tra pre-sente e passato, è l’unica a essere filmata in b/n (tutte le altre inter-viste sono a colori) e la sua pre-senza in scena sortisce l’effetto di decolorare l’intera immagine: ogniqualvolta Mira entra in cam-po, l’inquadratura, prima a colori, vira repentinamente verso un b/n alla Cinico tv, con effetti di stra-niante e grottesca comicità. Non solo: quando, durante le riprese di un concerto di piazza, Mira com-pare fugacemente sullo sfondo, la sua presenza defilata non riesce ad adombrare per intero l’inqua-dratura, a innescare la transizione al b/n. L’immagine rimane perciò ibrida, con Mira come unico irri-ducibile “buco bianco-nero” in un mondo per il resto a colori.Questa contaminazione del co-lore da parte del b/n è ancora più evidente in The Pills – Sempre me-glio che lavorare (2016), esordio nel lungometraggio dell’omoni-mo trio di Youtubers: i tre amici romani Luca, Matteo e Luigi, fino a quel momento dediti a un fiero

donna è di tanto in tanto squar-ciato da sprazzi di colore: alcuni sono fugaci flashback della sua infanzia (con un’inversione delle convenzioni che legherebbero il b/n al passato), altri sono sue percezioni soggettive, a metà tra la visione e l’incubo (ad esempio il paesaggio marino fuori dalla finestra), altri ancora sono com-menti a latere, sequenze musicali in cui l’azione è sospesa e chiosata dai testi di alcuni brani in dialetto. Qui il volto in b/n di Anna, con-gelato in un freeze frame, viene digitalmente dipinto e decorato, pennellata dopo pennellata, fino a diventare una specie di santino.In tutte e tre i film la commistione dei due regimi cromatici certo ar-ticola uno (o entrambi) dei bino-mi citati sopra (presente/passato, vero/falso). Più in generale tutti questi esempi – ma se ne potreb-bero citare altri, ad esempio Che strano chiamarsi Federico (Ettore Scola, 2013) – presentano, seppur a diversi livelli di profondità, una dimensione autoriflessiva: il vi-raggio senza stacchi di montaggio tra i due registri cromatici, facili-tato dalle possibilità di manipo-lazione dell’immagine garantite dal digitale, mette in crisi in modo giocoso ma radicale lo statuto di realtà di quello che stiamo veden-do, facendo saltare uno dei codici cinematografici più “trasparenti” e “naturali”, vale a dire la stabilità cromatica della rappresentazio-ne. Il trascolorare dell’immagine sotto i nostri occhi diviene così un’ulteriore possibilità espres-siva, segno tangibile e materico (pur nella smaterializzazione del virtuale) della difficoltà a fissare un mondo sempre più complesso e cangiante, perfino nel suo strato più superficiale.

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

di F.P.

Ferraniacolor è qualcosa di più di una marca di pellicole. Col tempo, il marchio è diventato un simbolo della cultura italiana del dopo-guerra, capace di alludere per me-tonimia ai cambiamenti e agli og-getti che le immagini a colori del tempo hanno saputo documenta-re: il boom economico e la società dei consumi, le automobili e gli elettrodomestici, le vacanze e il tempo libero. Il Ferraniacolor ha saputo rappresentare con colori vividi un pezzo importante della cultura visuale italiana, non solo attraverso il cinema, ma anche grazie alle fotografie, alle diaposi-tive, agli 8mm e ai super8 che negli anni sono andati ad arricchire gli album fotografici e le bobine di decine di migliaia di persone.

IL PRIMO FU TOTÒQuando una tecnologia genera uno stile:il caso Ferraniacolor.

18/19

L’etichetta Ferraniacolor iden-tifica infatti materiali fotografici e cinematografici per amatori e professionisti. Fratello minore di quella Ferrania (C6, C7, P30), che ha scritto la storia del bianco e nero italiano, il Ferraniacolor ini-zia a essere prodotto stabilmente sul finire degli Anni ‘40. Sono gli anni in cui, finita la guerra e de-caduti i brevetti dell’Agfacolor, le aziende fotografiche cercano di copiare il marchio tedesco, che ha il vantaggio di registrare tutti i colori in un colpo solo su un’uni-ca pellicola. Una versione ancora provvisoria del Ferraniacolor vie-ne testata con Ceramiche umbre, presentato alla Mostra di Vene-zia nel 1949, e con una dozzina di altri cortometraggi realizzati a seguire. Nel 1952 finisce il tempo degli esperimenti e il Ferrania-color tenta di entrare nel mondo del cinema dalla porta principale con Totò a colori. A quanto si dice, la sensibilità è ancora bassissima. Sul film circolano aneddoti, non si sa quanto attendibili: pare che per girare servano talmente tante lampade da far incendiare la par-rucca di Totò… Vero o falso che sia, il successo che il film ottiene fa da traino alla pellicola, che di-venta subito la preferita per quei piccoli e medi produttori che vo-gliono fare film a colori senza do-ver andare all’estero.

Negli Anni ‘50, Ferraniacolor di-viene sinonimo di cinema popo-lare. Oltre 150 film italiani usano la pellicola, offrendo agli addetti ai lavori e agli spettatori la possi-bilità di prendere familiarità con il colore. Sono tanti i generi targati Ferraniacolor che riescono a toc-care le corde del pubblico popo-lare: dal Felice Sciosciammocca di Totò (Un turco napoletano, Mi-seria e nobiltà, Il medico dei pazzi) al melodramma matarazziano (Tor-na!), dal film rivista (Attanasio ca-vallo vanesio, Il paese dei campanel-li), al proto-musicarello (Canzoni di mezzo secolo e Canzoni, canzoni, canzoni). Il marchio Ferraniacolor va a comporre una vivace giganto-grafia multicolore che i vari Mat-toli, Mastrocinque, Paolella e Ste-no concorrono via via a disegnare, assieme a molti altri nomi caduti nel dimenticatoio.

In alcuni casi, il Ferraniacolor of-fre interessanti occasioni di spe-rimentazione a dei registi desi-derosi di tentare una via al colore alternativa a quella offerta dalle pellicole d’importazione. Uno dei più bei film in Ferraniacolor resta oggi senza alcun dubbio La spiaggia di Lattuada, in cui l’auto-re milanese (complice l’operatore Mario Craveri) cerca di valoriz-zare la morbidezza delle tinte e dei toni medi (grigi, rosa chiaro e altri colori stinti, oltre ai bianchi e ai neri), evitando il più possibile i rossi, con l’obiettivo di restituire la sensazione dei materiali sbiadi-ti per effetto del sole battente. Al-tro bell’esperimento è Giorni d’a-more di De Santis: in questo caso è coinvolto il pittore Domenico Purificato, che oltre a disegnare bozzetti e costumi è chiamato a farsi garante del gusto plastico e compositivo con cui il film cerca di trarre il massimo partito dal marchio nazionale.

Al cinema, il Ferraniacolor resi-ste per una decina di anni, fin-ché il mercato interno non vie-ne cannibalizzato dai prodotti statunitensi. Le prime avvisaglie sono l’arrivo dell’Eastmancolor in Italia (1954) e l’apertura del-lo stabilimento Technicolor a Roma (1958). Data l’impossibilità di reggere la concorrenza estera, il negativo viene ritirato alla fine degli Anni ‘50, mentre i supporti fotografici e i formati per cinea-matori restano disponibili, conti-nuando ancora per qualche tem-po a perpetuare il mito nazionale del Ferraniacolor.

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

di E.G.

Q U A D R I I N

T I P O G R A F I A

La tradizione italiana dei manifesti illustrati tra pittura e fotografia.

Tra i maestri Anselmo Ballester, Silvano (Nano) Campeggi, Ercole Brini, Renato

Casaro, Averardo Ciriello, Enrico De Seta.

Tra i paratesti e i materiali effimeri che orbitano attorno allo spetta-colo cinematografico vero e pro-prio, il manifesto murale è uno dei più longevi. Preesistente alla nascita del cinema, continua a es-sere un veicolo di pubblicità e uno strumento molto efficace di po-sizionamento del prodotto filmi-co. Mentre i cosiddetti manifesti tipografici, diffusi soprattutto nei primi decenni della storia del ci-nema, facevano affidamento per-lopiù sulla componente verbale, i manifesti illustrati, nati per pub-blicizzare altre forme di intrat-tenimento, dal café-chantant al circo, puntavano principalmente sulla componente iconica. La loro fortuna è dilagata in particolare nel secondo dopoguerra, anche in virtù del perfezionamento delle tecniche di riproduzione fotogra-fica (la cosiddetta stampa offset in quadricromia, metodo di im-pressione indiretta che perfezio-na i risultati della cromolitografia,

sfruttandone il medesimo princi-pio di scomposizione dell’imma-gine in quattro matrici, una per ogni tinta primaria più una quarta per la scala dei grigi).Eppure, nonostante questa con-quistata facilità riproduttiva di materiale anche fotografico a colori, i manifesti rimangono a lungo disegnati, dipinti a mano, a pennello, da un manipolo di cartellonisti che verrà presto rico-nosciuto come “scuola italiana” di alto artigianato: Anselmo Bal-lester, Silvano (Nano) Campeg-gi, Ercole Brini, Renato Casaro, Averardo Ciriello, Enrico De Seta sono solo alcuni dei nomi più ri-correnti e riconosciuti. Oggi cele-brati come autori e maestri da una

20/21

folta messe di mostre e pubblicazioni, questi “pitto-ri del cinema” erano in genere chiamati a proporre bozzetti originali a partire da una proiezione privata del film in anteprima e dalla rielaborazione del ma-teriale fotografico fornito dalle case di produzione.Ma perché ricorrere a un dipinto dalle tinte sgargian-ti in luogo di una foto o di un collage di fotogrammi e soggetti tratti direttamente dalla pellicola? Le ra-gioni della persistenza e del successo – almeno fino a tutti gli Anni ’60, ma con code significative fino agli ‘80 e oltre – della pratica dell’illustrazione, di un’immagine sintetica per annunciare uno spetta-colo analogico, sono molteplici e chiamano in cau-sa in un ruolo non secondario proprio il colore.Da un lato, infatti, a fronte di una produzione ci-nematografica ancora massicciamente in b/n, il ricorso al colore per i manifesti era ovviamente fun-zionale ad attirare l’attenzione dei passanti, a cattu-rare lo sguardo in un paesaggio urbano che si stava rapidamente affollando di segni visivi. A tal propo-sito, come ha raccontato Silvano Campeggi (Come dipinsi il cinema, 1994), il colore dello sfondo era spesso strategicamente più importante delle figure ritratte, poiché quella dello sfondo era la campitura cromatica più estesa del rettangolo del manifesto, una macchia immediatamente riconoscibile e facile da “memorizzare”.Mentre però si sarebbe potuto generare questo stesso effetto seduttivo anche con una composizio-ne fotografica a colori, il ricorso al quadro, a colori applicati, a olio, tempera o acquerello, porta con sé altri valori “nobilitanti” e un’aura che la riprodu-zione fotografica non avrebbe avuto. Come spesso avviene con il colore, infatti, considerato un orpello superfluo e volgare, è insomma necessaria la me-diazione “alta” della pittura per garantire la bontà dell’apporto della componente cromatica alla rap-presentazione, e in questo caso specifico per attuti-re le lusinghe delle sirene di un’immagine dichiara-tamente pubblicitaria.D’altro canto, se di pittura si tratta, la tradizione iconografica a cui i manifesti fanno riferimento è prevalentemente quella del realismo didascalico dell’illustrazione popolare, dell’arte minore del-le tavole de “La Domenica del Corriere” e dei libri per bambini (e infatti molti cartellonisti erano atti-vi anche in questi settori editoriali “contigui”), giù giù fino a recuperare proprio quel modello foto-grafico da cui sembravano aver preso le distanze. I disegni e i colori dei manifesti, infatti, in molti casi sembrano alludere direttamente alla fotografia,

mimandone i bianchi, i neri e la scala di grigi, o ri-servando colorazioni monocrome ad alcuni sog-getti, quasi fossero fotografie virate o imbibite (ad esempio il volto di Mastroianni dipinto di blu sul manifesto de La dolce vita). Un’altra variante della convivenza dei due regimi scopici (oltre che croma-tici), delle due diverse forme visive è l’inserimento di vere fotografie e fotogrammi del film (spesso in b/n) entro una cornice illustrata variopinta. Prima che la fotografia arrivi davvero a sostituire le illu-strazioni sui manifesti cinematografici – ma conti-nueranno a sussistere le eccezioni, basti guardare ad esempio al manifesto di Song’e Napule (2013) – si attraversa insomma un periodo di coesistenza e di “innesti” tra colore applicato e colore fotografico, o meglio tra l’ampia tavolozza pittorica e l’acromia (o la monocromia) fotografica.In accordo con gli orientamenti della cultura visua-le e dell’archeologia dei media, che considerano parte integrante del patrimonio visivo anche i pro-dotti più apparentemente insignificanti, i manifesti hanno dunque legittimamente conquistato piena dignità di studio e di analisi per la storia del cinema e per la storia del colore. In più, alla luce della per-sistenza in essi di immagini sintetiche, di un regime percettivo arcaico, pur in seno alla modernità ana-logica e anzi in strettissima relazione con questa, i manifesti cinematografici illustrati rappresentano una mediazione culturale significativa tra due para-digmi che merita ancora qualche riflessione.

di ANDREA GUGLIELMINO

Quanti colori nei titoli dei film, da Profondo rosso a Pericle il nero.

VIAGGIOCROMATICO NELLA MEMORIA DEL CINEMA

VIAGGIOCROMATICO NELLA MEMORIA DEL CINEMA

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

22/23

Qual è il rapporto del cinema ita-liano con il concetto di colore? Non intendiamo il lavoro di foto-grafia, che merita una trattazione apposita, ma proprio la presenza dei colori nei titoli e nelle tema-tiche delle nostre pellicole, e soprattutto il ricordo che ne ha lo spettatore. Abbiamo posto la domanda direttamente al pubbli-co tramite un semplice status di Facebook, così il pezzo in costru-zione si è trasformato facilmente in un interessante esperimento di memoria collettiva, offrendo punti di vista inaspettati e interes-santi. La domanda era: “Quali film italiani ricordate, di qualsiasi gene-re, che abbiano un colore nel titolo?”.

Da registrare la generica velocità – e conseguente superficialità – con cui spesso si interpretano le istanze sui social network. Non lo diciamo con il tono dei professori – presi da ritmi frenetici come sia-mo, avremmo potuto facilmente “sbagliare” anche noi – ma con quello degli osservatori: molti, semplicemente, hanno proposto film non italiani, come ad esem-pio Pomodori verdi fritti, Il miglio verde o la trilogia di Kieslowski. Qualcuno gioca e si diverte a “trollare”, come si dice oggi, pro-ponendo titoli che non rispondo-no alla domanda o che rispondo-no ad altre domande, ad esempio con i numeri (Ricomincio da tre). Naturalmente “colore” può esse-re inteso sia come aggettivo (La casa del tappeto giallo di Lizzani, Il sangue verde di Segre, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto di Lina Wertmüll-er) che come sostantivo (Giallo di Argento, Nero bifamiliare di Zam-paglione, o semplicemente Nero di Soldi), in questo secondo caso è interessante notare come quasi sempre il colore indichi anche il genere del film.

Tra i più gettonati c’è naturalmen-te Bianco, Rosso e Verdone, col gio-co di parole sul nome del regista e interprete, ma solo due utenti hanno ricordato Bianco, Rosso e… di Lattuada, che precede il film di Verdone che si ispira proprio a quel titolo in versione parodistica. L’horror la fa da padrone, in testa c’è Argento (che al limite è un colore anche nel cognome) con Profondo rosso e Quattro mosche di velluto grigio, ma anche Fulci con Sette note in nero, Infascelli con Almost Blue, Bava con Il rosso segno della follia e Sergio Martino con Tutti i colori del buio. Ci hanno chiesto, proponendo quest’ulti-mo esempio, se valesse anche il ri-ferimento generico ai colori e non a un colore specifico, e abbiamo deciso di estendere, così è arriva-to anche il ricordo di Totò a colori, dove il titolo si fa anche questione di marketing perché richiama la novità tecnologica che è stata an-che, a suo tempo, una delle mag-giori attrattive del film.

Lato dramma, immancabili Pa-lombella rossa, Il deserto rosso di Antonioni, guarda caso il primo film a colori del maestro, che in Fare un film è per me vivere: scrit-ti sul cinema (Venezia, Marsilio, 1994), racconta che il film avrebbe dovuto intitolarsi Celeste e verde, e a proposito di “celeste”, il recente Corpo celeste di Alice Rohrwacher.

E poi Lo sceicco bianco di Felli-ni, il recente Bianca come il latte, rossa come il sangue di Giacomo Campiotti, il musicarello kitsch con Max Pezzali Jolly blu, Ame-ricano rosso (D’Alatri), Nel conti-nente nero (Marco Risi), Telefoni bianchi (Dino Risi), vari “corsari neri”, Mare nero (Torre), un al-tro Giallo (quello di Camerini del 1933), Il bianco, il giallo il nero (Corbucci, con connotazione

“etnica”), Cuori al verde e Il rosso e il blu (Piccioni), Il cielo è sempre più blu (Grimaldi), Anime nere (Munzi), La nave bianca e Anima nera, entrambi di Rossellini, Peri-cle il nero (Mordini), Rosso Malpelo (Scimeca) e alcune chicche come Tombolo paradiso nero di Giorgio Ferroni, ispirato a un articolo di Indro Montanelli, La contessa az-zurra di Claudio Gora, La ragazza dal pigiama giallo di Flavio Mo-gherini, Il peccato degli anni verdi di Leopoldo Trieste. L’esperimento, comunque, è piaciuto, generan-do anche proposte spiritose – in questo caso volutamente “fuori tema” – come il film biografico su Giuseppe Verdi, del 1953. Ci fermia-mo, dato che il nostro fine ultimo non è la completezza enciclope-dica ma una gita pop nella me-moria a colori della settima arte della penisola.

E chiudiamo con alcune risposte non proprio centrate, ma comun-que da registrare, con riferimento a film dove il colore corrisponde al nome della protagonista (Bian-ca, Viol@, Viola bacia tutti), oppu-re a specie vegetali (Il nome della rosa) e animali. Soprattutto una ci ha fatto particolare simpatia, nel suo denotare una singolare esigenza di comunicazione. Si tratta di Viola di mare di Donatella Maiorca, tratto da un bel romanzo che porta il nome di una partico-lare specie di pesce ermafrodita che si chiama così quando assu-me caratteristiche femminili. Il titolo del libro, invece, si rifaceva alla versione maschile, non pro-priamente adatta ad apparire sui manifesti promozionali di un film senza passare per le forche della censura: si chiamava, infatti, Min-chia di re.

di RAFFAELE MEALE

A L L A R G A R E

L A V I S I O N E

Il cinema italiano e la color-science: il punto di vista di due tecnici del settore,

Walter Arrighetti e Nicola Sganga.

Se esiste una branca della (post)produzione cinematografica che risulta ancora oscura per la mag-gior parte degli appassionati, e anche per molti addetti ai lavori, è sicuramente quella che riguar-da l’intervento sull’immagine, la lavorazione del colore, dell’in-tensità. Una pratica che il cinema italiano frequenta con regolarità solo da pochi anni, dopo averne relegato il ruolo a quello di sem-plice “tappabuchi” di quel che non si riusciva a risolvere diretta-mente sul set. Eppure, la lavora-zione delle riprese, del suo croma-tismo, la cosiddetta color-science rappresenta anche la costruzione

dell’immaginario, in qualche mi-sura. Un passaggio fondamentale per donare compiutezza a un’ope-ra audiovisiva, e che nonostante le nuove tecnologie digitali immer-ge la sua storia nella storia stessa della Settima Arte.

Per approfondire il tema abbiamo contattato due tecnici del settore, Walter Arrighetti e Nicola Sganga, chiedendo loro come prima cosa di definirsi: “Negli ambienti ci-nematografici mi qualifico come ingegnere di post-produzione, ma per anni sono stato Chief Te-chnology Officer di un’impor-tante azienda di post-produzione

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

24/25

romana”, esordisce Arrighetti, che ha di recente lavorato all’im-plementazione end-to-end de Il ragazzo invisibile – Seconda genera-zione di Gabriele Salvatores. Sgan-ga, che lavora per Makinarium, rivendica invece nel suo ruolo di supervisore VFX la responsabili-tà di lavorare tanto sia sulla veste tecnica, che su quella artistica del film. Nonostante il cinema italiano non abbia una frequen-tazione di generi come il fantasy o che comunque necessitano di un forte lavoro sotto il profilo dell’effettistica, secondo Sganga la “considerazione sta maturan-do, e gli effetti visivi non sono più visti solo come una toppa con la quale coprire o riparare qualcosa che è stato immortalato in fase di ripresa. Il merito è soprattutto di operazioni come Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, anche se il gap con l’estero è ancora forte ed evidente”. Se per Arrighetti la crescita sem-pre costante della tecnologia digitale può essere intesa come una vera e propria rivoluzione (“L’avevate mai visto prima un controllo dei costi/ricavi preciso dal singolo fotogramma girato al singolo minuto consumato tra-mite il vostro tablet?”) per quanto concerne il colore dice di intrave-dere “in ACES e nella possibilità di condividere immagini in flussi di lavoro in tempo reale fattori abi-litanti per nuovi modi di narrare una storia”. Ma Sganga, pur lavo-rando a sua volta con le tecnolo-gie più all’avanguardia, non legge ciò che sta avvenendo in questi anni come una svolta rispetto alla Storia del cinema: “Gli orizzon-ti che vedo per il futuro sono in qualche modo quelli che ci sono sempre stati. La color-science e la post-produzione dell’immagine e del grading si facevano anche in pellicola; noi non facciamo al-tro che emulare qualcosa di ana-logico, simulando gli acidi per cercare di raggiungere gli stessi

risultati – con mezzi diversi – dei pionieri degli effetti speciali. È un processo in continuità con il passato”. Un concetto che Arri-ghetti amplia: “Abbiamo per anni considerato la color-correction come un’estensione della cine-matografia, operata da un colorist professionista, con vari gradi di discrezionalità, ma sempre su-pervisionato dall’autore della fo-tografia. Le tecnologie disponibili oggi superano i confini di quello che si potrebbe considerare la VFX. Le competenze tecnico-e-secutive vanno al di là di una sem-plice estensione della fotografia”. Ma qual è, a conti fatti, il livello dell’elaborazione e della lavo-razione fotografica nel cinema italiano contemporaneo? “Il cine-ma italiano sta facendo progressi - incalza Arrighetti - ma spesso la color-correction è utilizzata come mero ‘restauro’ per una fo-tografia non adeguata. Complici sono spesso i budget striminziti che demandano alla post-produ-zione il compito di sopperire, se possibile, a scelte economiche nelle tecnologie di ripresa. Scelte che impoveriscono il linguaggio visivo dei consumatori”. Una po-vertà di linguaggio che è il nemico da combattere anche per Sganga, secondo il quale “quello che man-ca è la cura e la passione per l’in-quadratura: le inquadrature lar-ghe sono ancora rare nel cinema italiano, quasi si avesse paura di confrontarsi con un immaginario meno asfittico, meno controllato. Ai giovani registi all’estero vie-ne insegnato a essere più arditi, più ‘cinematici’, a osare non solo nelle storie da narrare, ma nelle immagini, nelle tecniche. L’Italia deve ripartire dall’apertura men-tale di Matteo Garrone, e pensare che non esiste solo la commedia come veicolo narrativo. La tecni-ca ce l’abbiamo, serve la volontà”.

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

di ROBERTA TORRE

L’estetica della luce nel cinema italiano, tra vecchia e “nuova” pellicola, dove il bianco e il nero si fanno contemporanei nell’attesa di un nuovo cromatismo mutuato dalla pittura cinquecentesca.

“Colori? Chiamali colori!”. Lo scriveva Pier Paolo Pasolini ac-cecato dai rossi, dai rosa e dai gial-li che aveva scoperto nei dipinti del Pontormo e del Rosso Fioren-tino. Il poeta-regista ha ricostrui-to sotto forma di tableaux vivants due “Deposizioni” dei due pittori: le due scene interrompevano il bianco e nero del suo film La ri-cotta. E se persino lui ha sentito la necessità di strappare al bianco e nero folgorante di Tonino Delli Colli uno squarcio di colore per narrare, un motivo ci sarà.

Si ha la sensazione che oggi il co-lore sia l’invitato chiassoso e sco-modo al banchetto del bon ton di certa narrazione cinematografica che identifica nel naturalismo la sua più valida espressione foto-grafica, eppure è inestimabile il tesoro di colore che in pittura è stato ed è il patrimonio italiano: quantomeno è importante regi-strare che nel cinema dei nostri giorni tutto questo non abbia lasciato se non flebile traccia e auspicarne un ritorno in forma di rielaborazione contemporanea.

Del potere narrativo del colore ci racconta Michelangelo Antonio-ni: “Ho cercato di sfruttare ogni minima risorsa narrativa del colo-re in modo che entrasse in armo-

nia con lo spirito di ogni scena, di ogni sequenza. La concordanza tra certi nuovi modi di utilizzare il colore nel cinema moderno – penso per esempio a Resnais, a Bergman – non è casuale. È un’e-sigenza che abbiamo sentito con-temporaneamente perché è legata all’espressione della realtà del no-stro tempo […].

Ed è proprio lo stesso direttore della fotografia Carlo Di Palma a raccontare la pratica del dipin-gere l’erba in alcune sequenze de Il deserto rosso perchè il verde di quel prato doveva essere così fo-tograficamente forte e splendente a contrasto di quanto lo circon-dava. La narrazione del racconto con la luce e con il colore, laddove il colore era alleato imprescindi-bile della luce e viceversa, emerge folgorante nel bel documentario di Fariborz Kamkari - Acqua e zuc-chero - Carlo Di Palma, I colori della vita, biografia imperdibile di uno dei più grandi direttori della fo-tografia italiani che abbiamo mai avuto, uno appunto che narrava con la luce e non viceversa.

Del colore e del suo uso simbolico ci ha raccontato magistralmente sempre Vittorio Storaro, soffer-mandosi sul simbolismo: il giallo, l’arancio, il rosso del corso solare

a evocare l’essere maschile; l’az-zurro, il grigio, il bianco della luna e del suo ciclo a definire quello femminile. E, ancora oltre, fino a utilizzare in modo simbolico lo stesso rapporto fra luci e ombre. In un perenne alternarsi fra pit-tura e cinema che non è possibile tralasciare ma piuttosto è da con-siderare il fil rouge di ogni narra-zione per immagini. “Credo che la luce e il colore possano essere utilizzati come le note di una par-titura musicale o le parole di una sceneggiatura”, dice Storaro.

Ci sono state poi operazioni no-stalgiche favorite dal trattamen-to digitale dell’immagine, film in cui il colore è stato usato come espediente narrativo che simula l’epoca, generalmente sono i film che raccontano gli Anni ‘60, ma anche i ‘70. Ne avremo sicura-mente in arrivo altri con l’appros-simarsi dello storico anniversa-rio 2018/1968. Ma è evidente che non basti desaturare i colori per viaggiare nel tempo, quello che si ottiene spesso è solo una visione estetizzante, una sensazione arti-ficiosa e l’effetto di questa scelta estetica è il contrario di quello che si vorrebbe: l’ “idea” del co-lore sbiadito o delle “graffiature di pellicola” nelle inquadrature prende impropriamente il posto

della memoria e del ricordo, che è invece per sua natura luce im-provvisa, folgorante e nitidissima seppur frammentaria. Potrebbe essere interessante rac-contare l’eclatante anniversario, il 1968 appunto, con un viaggio nei colori. Certi accostamenti indi-menticabili negli abiti: gli arancio-ni, i marroni bruciati dei maglioni, il verde degli eskimo vicini ai rossi imbandierati che sfilavano per strada durante le manifestazioni, o infilandosi negli interni, fare un viaggio cromatico dentro le case borghesi e il loro design, quei sa-lotti di Cassina dove non mancava un divano rosso lacca cinese acco-stato a pareti blu cobalto... Raccon-tavano, questi colori, il fulgore di anni in cui tutto sembrava (anco-ra?) possibile e il loro manifestarsi in modo così pieno lascerebbe intendere che anche la Storia sap-pia quando e dove il colore abbia ragione di esplodere.

Quanto e come abbia mutato lo scenario cromatico del cinema il passaggio dalla pellicola al digitale è un’altra questione da non sotto-valutare. È innegabile che l’econo-mia dell’industria di cinema abbia inciso in modo determinante sulle scelte tecniche e dunque artistiche del fare cinema. Il digitale non è paragonabile alla pellicola sempli-

26/27

cemente perché è altro e dunque anche narrativamente va conside-rato in modo diverso.

“È qualcosa di diverso, non so se migliore o peggiore”, diceva Martin Scorsese nel 2013, mentre sappiamo che Tarantino resta a tutt’oggi il maggior detrattore del cinema digitale da lui definito “la morte del cinema” ma, tra detrat-tori e i sostenitori, quello che suc-cede al colore è argomento ancora da approfondire anche in termini di possibile. La color correction digitale ha aperto mondi impen-sabili e per certi versi ghiotti a chi ama giocare ed equilibrare i pesi di luce e ombra, di contrasto e in-tensità nelle immagini di un film. In fondo e in modo brutale siamo diventati un po’ tutti dei novelli colorist armeggiando con i vari programmi più o meno rudimen-tali dei cellulari di ultima gene-razione. Se sia un bene o un male non è dato capirlo una volta e per sempre, e probabilmente non serve neppure. L’idea romantica della fotografia analogica al cine-ma è percorribile da chi può per-metterselo o da chi ne conosce il valore narrativo, la definizione unica, sia 35 millimetri o Super16: è innegabile che ogni volta la sto-ria dei colori cambi. E se Taran-tino ci fa godere della meraviglia di una fotografia e di colori del 70 millimetri Ultra Panavision (bea-to lui) per The Hateful Eight c’è da notare che Kodak è tornata a pro-durre da poco pellicola Ektacro-me Super8, quella con i classici colori saturi da impazzire.

Due sono le scuole di pensiero sui colori primari: quella classica che riconosce giallo rosso e blu e un’altra, meno tradizionale e più ardita, che annette anche il nero, colore affascinante che li contie-ne tutti quanti. E dunque chissà che non sia poi il bianco, e il suo opposto nero, la vera sfida del cinema italiano contemporaneo, quello che potrebbe dire come stiamo davvero, almeno fino all’arrivo – per chi crede nei mira-coli di un Dio sensibile ai cromati-smi - di un nuovo Pontormo.

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

Quattro autori del nostro cinema – Michelangelo Antonioni, Lamberto Bava, Carmelo Bene e Matteo Garrone – hanno sempre

Q U A D R I

di BORIS SOLLAZZO

L A TA V O L O Z Z AD I B A V A

Lamberto Bava e l’uso del cromatismo come elemento

fondante delle sue visioni e dei suoi incubi.

Lamberto Bava raramente trova una collocazione. Se si esclude la macrocategoria dell’horror, non è il genere il suo recinto. Lo è semmai una capacità notevole e fantasiosa, quanto le sue idee più terrificanti, nell’usare il cromatismo come un elemento fondante delle sue visio-ni e dei suoi incubi. Persino più di Dario Argento, che pure dei colori è maestro, perché nelle scene di Bava jr è la colorazione dominante, unita alla fotografia che fa da pennello, a essere usata come colonna portan-te della narrazione, dello sguardo dello spettatore e dell’autore. Te ne accorgi in Demoni, dove il rosso e il blu, anche grazie a Battaglia, dominano costruendo l’atmo-sfera del film, dove le emozioni viaggiano sulle tonalità cro-matiche. Pensate alla scena claustrofobica del condotto che vive di una pigmentazio-ne che sembra seguire esat-tamente i respiri, i battiti del cuore di chi la guarda, di chi la sente addosso, di chi la vive, così come avviene anche con la musica di Simonetti. Nel meno riuscito Demoni 2 il blu, che addi-rittura diventa sentiero narrativo e individua alcuni volti e oggetti chiave della trama, si alterna al gial-lo accesso, soprattutto del fuoco. I rossi, i bianchi, i gialli molto delicati dell’esordio Macabro sono un’ere-dità che ritroveremo ovunque nel cinema di un regista sì discontinuo ma profondamente inventivo e pittorico, fino a, persino, quel Fan-taghirò che rappresenterà il trionfo, e a volte un necessario abuso di cro-matismi accesi, tra cui l’arancione e

il blu, a incorniciare scenografie fantastiche e il volto incantevole di Alessandra Martines.Se il padre Mario era geniale nella capacità tecnica di ripresa e nella volontà e abilità di alternare e con-taminare generi diversi tra loro, Lamberto, che pure non si dedicò solo all’horror, mostra quel talento nella tavolozza di colori che offre alla sua arte. Talmente vario - più nelle tonalità che nelle varietà, in un cinema profondamente ossessivo, preferisce dedicarsi a colori primari

e secondari, spesso a coppie - da dimenticare o forse semplice-

mente perdere interesse per la solidità delle sue trame.

Luci e cromatismi valoriz-zano inevitabilmente an-che gli attori - risaltano per come vengono “disegna-ti” Stanko Molnar o Nata-sha Hovey, per citarne un paio -, a volte finendo per saturare la visione, condi-

zionando anche la tenuta della tensione dei suoi rac-

conti cinematografici. A volte, guardando le opere

di Lamberto Bava, ma anche le sue seconde unità (pensate

a Cannibal Holocaust e Inferno e troverete la sua firma, anche nei colori), pensi che sarebbe stato straordinario vedergli non solo rac-cogliere l’eredità di papà Mario, ma anche lavorarci insieme. Da pari a pari. La loro complementarità visi-va, e non solo, è molto più forte di quanto si sia pensato negli anni che hanno segnato le rispettive attività. Li avrebbero davvero usati tutti i colori della paura.

28/29

di CRISTIANA PATERNÒ

A N T O N I O N I , D I P I N G E R E L A R E A LTÀ

to di sfruttare ogni minima risorsa narrativa del colore in modo che entrasse in armonia con lo spirito di ogni scena, di ogni sequenza. La concordanza tra certi nuovi modi di utilizzare il colore nel cinema moderno (penso per esempio a Resnais, a Bergman), non è ca-suale. È un’esigenza che abbiamo sentito contemporaneamente perché è legata all’espressione della realtà del nostro tempo che, secondo me, può sempre meno prescindere dal colore”. Una ri-flessione che prosegue per tutta la sua carriera e che ritroviamo limpida, cristallina ne Il mistero di Oberwald (1980) dove sperimen-ta per la prima volta l’uso della telecamera: “Il sistema elettro-nico – commenta Antonioni – è molto stimolante. Lì per lì sembra un gioco. Ti mettono davanti una consolle piena di manopole mano-vrando le quali puoi aggiungere o togliere colore, intervenire sulla sua qualità e sui rapporti tra le varie tonalità (…) un modo nuovo di usare finalmente il colore qua-le mezzo narrativo, poetico”. E ancora, sempre in “Fare un film è per me vivere, scritti sul cinema”: “In Il deserto rosso ho dovuto cam-biare faccia alla realtà, violentarla, dipingerla materialmente. Le ap-parecchiature elettroniche con-sentono di aggiungere, togliere, modificare il colore, di tutta o di una parte dell’immagine, mentre si gira il film. (…) La telecamera consente, insomma, di immagi-nare di più”.

Cineasta (ma anche pittore), maestro nell’uso consapevole del cromatismo teorizzato in opere come Il deserto rosso e Il mistero di Oberwald.

La bimba col cappottino rosso di Schindler’s List (1994), figura simbolo su cui sono stati versati fiumi di inchiostro, ha un singo-lare antecedente, chissà se noto a Spielberg, nel paltò verde indos-sato da Monica Vitti ne Il deserto rosso. Un indumento che “buca” lo schermo con il suo cromatismo acceso - rosso e verde poi sono

colori complementari - e che in un caso è un indice puntato con-tro la disumanità del nazismo, nell’altro un sintomo palpabile di quel malessere esistenziale di Giuliana, la donna borghese così perfettamente avvolta nella neb-bia della noia e dell’inconsistenza del vivere come in quel soprabito in antitesi con la sua cronica inde-

cisione, frutto del puntuale lavoro della costumista Gitt Magrini (poi artefice anche degli abiti di Ultimo tango a Parigi). Siamo nel 1964 e Michelangelo Antonioni – anche grazie alla fotografia di Carlo Di Palma - fa un uso pienamente consapevole e direi icastico del colore nel suo primo film non in bianco e nero. Consapevolezza che traspare da tutte le sue testi-monianze coeve o successive. Il regista ferrarese, non a caso, svilupperà un’attività pittorica fin dagli Anni ’60 per proseguirla fino alla fine della sua esistenza, attività che ha uno dei suoi picchi creativi nel ciclo delle “Montagne incantate”, acquerelli e collage di piccole dimensioni dove i pig-menti hanno precise funzioni po-etiche, espressive e persino psico-logiche. Nell’intervista rilasciata a Jean Luc Godard a proposito de Il deserto rosso Michelangelo parla anzi di psicofisiologia del colore, raccontando che durante le ripre-se l’interno della fabbrica era sta-to dipinto di rosso e questo aveva provocato delle liti tra gli operai, placate da una mano di verde chiaro. Peraltro, il film doveva intitolarsi inizialmente “Celeste e verde” alludendo alla scelta di Giuliana per l’arredo del negozio in allestimento che dovrà avere pareti celesti e soffitto verde. Ed è ancora Antonioni, nel volume curato da Carlo Di Carlo e pub-blicato da Cineteca di Bologna e Istituto Luce Cinecittà, a interve-nire sul tema: “Ho dunque cerca-

C R O M I Amesso in scena il loro immaginario visivo attraverso un forte uso del colore, ciascuno in maniera personalissima.

Ci voleva un autore come Garrone, con la sua formazione pittorica, per riportare il cinema italiano ol-tre le sfere puramente narrative e razionali, in una dimensione in cui esso si fa intermittenza, irraziona-lità, pulsazione emotiva. Garrone sottrae lo spettatore dal semplice ruolo di voyeur per stabilire con lui con contatto, investirlo di impulsi: il suo cinema rompe la finzione ed esibisce se stesso attraverso colori dalla forte risonanza emotiva. Ci-nema dei sensi, “eccesso” di infor-mazione, note coloristiche come pensiero e sentimento.Si prenda, ad esempio, l’importan-za del blu: non è un caso che la pro-tagonista di Primo amore (2004) arrivi con un autobus blu. In quella vettura dal colore squillante, inse-rita in un paesaggio monotono, è contenuta un’immagine di alterità: elettrica, invasiva, portatrice di una dimensione altra rispetto al quoti-diano. Uno spazio che i due perso-naggi scaveranno in modo patolo-gico fino all’annullamento: ecco

di MARCELLA LEONARDI

Da L’imbalsamatore a Dogman, emerge la formazione pittorica di un autore capace di portare il cinema italiano in una dimensione di irrazionalità.

allora il bianco del paesaggio in cui le due figure umane si scontorna-no, fino alla perdita di definizione. Una morte che culmina nella sfo-catura dei volti, espediente lingui-stico attraverso il quale Garrone li trasforma in fantasmi.

Il blu come “spazio” emotivo era già presente nelle notti livide e neb-biose de L’imbalsamatore (2002), ma soprattutto assume valore emblematico in Gomorra (2008): le cabine abbronzanti avvolgono i protagonisti in un blu-neon inna-turale e al contempo freddo; è la luce di una “differenza” che viene immediatamente stabilita, una saturazione disumanizzante, stac-cata dai toni seppia-marroni di una naturalità da violentare. Garrone lavora spesso attraverso l’impressionismo emotivo che scaturisce dalle macchie di colore: l’esempio più evidente è nei rossi de Il racconto dei racconti (2015), che accende gli abiti e i corpi attra-verso il sangue. Garrone affida ad incendi coloristici il furore delle passioni, riprendendo la tecnica dei pittori del Seicento e sintetiz-zando così astrazione e natura.

Il suo cinema è messinscena del desiderio attraverso una sintesi cromatica: basterebbe la visio-ne di Reality (2012) per cogliere questa tensione profonda. Qui il colore - primario, saturo - aspi-ra a superare la materialità, farsi desiderio di trascendenza, os-sessione mistica, apparizione, di-stacco dall’esperienza meramen-te umana. Al contrario, il “troppo umano” di Dogman (2018) ha colori senza speranza: beige, verdi spenti, paesaggi seppiati, è l’invasione di un reale che non la-scia scampo, un marrone triste e spersonalizzante in cui gli esseri umani sono soli e abbandonati, come bottiglie di Morandi.

L A P U L S A Z I O N E

E M O T I V A

D I M A T T E O G A R R O N E

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

LO STRACOLOREVA… BENEdi STEVE DELLA CASA

Odia le mezze tinte, adora

la colorazione primaria.

L’inquietudine è la vera chiave di lettura, la linea unificante

della produzione artistica

di Carmelo Bene.

30/31

Nel finale di Capricci, forse il film più estremo e più personale di Car-melo Bene (“volutamente mal girato”, come lo stesso ebbe a definirlo), possiamo verificare quanto le cromaticità siano importanti nella co-struzione del suo cinema. Non è infatti l’immagine dei cavalieri in tenu-ta da caccia alla volpe ciò che ci si aspetta in un film del geniale regista pugliese. Dopo una serie di visioni che lasciano a bocca aperta, il loro arrivo stupisce ancora di più: fino a quando si capisce il perché di quella sequenza. In tutto il film, Bene decostruisce l’Arden di Feversham da lui portato a teatro (con altrettanto grande scandalo) poco tempo prima: i dialoghi elisabettiani sono apertamente mortificati dalla recitazione ir-

ritante e mediocre acuita dal fuori sinc. Nella sequenza fi-nale, il colore dei cavalieri è il rosso:

un rosso vivo,

saturo, che a poco a poco invade lo schermo. Si esce dalla proiezione stanchi, insoddisfatti, spaesati: esattamente l’effetto che Bene voleva imporre. Se Erich von Stroheim era l’uomo che avreste voluto odiare, Capricci è il film che volete odiare.

Il colore predominante, insomma, come modo per raccontare ciò che i dialoghi e le immagini da soli non avrebbero potuto narrare. Carmelo Bene odia le mezze tinte, adora invece la colorazione primaria: e que-sto è molto evidente, nonché perfettamente coniugabile con gli aspetti esteriori della sua personalità e della sua poetica. Ma Carmelo Bene, come sappiamo, non è mai prevedibile e men che meno banale. E an-cora una volta il colore e il suo uso lo soccorrono quando vuole spin-gere la sperimentazione in terreni mai percorsi, e forse impercorribili

dagli altri. La sua Salomè, ad esempio, è stata a suo avviso “il primo film a colori della storia del cinema”. E se vediamo con

attenzione la cromaticità di quel film, scopriamo che anche in questo caso bisogna andare oltre,

molto oltre la prima lettura. Salomè è un film in cui i colori si mescolano e si rifrangono, proprio come il travaso nel cinema dell’estetica della Pop Art ci abi-

tuava in quel momento. Ma è altrettanto evidente che qui siamo in un campo molto diverso, ad esem-pio, dal cavallo dipinto di giallo montato da Vittorio

Gassman ne L’armata Brancaleone. Non c’è nessuna volontà di stupire, di catturare l’occhio: si vuole so-prattutto creare disagio, impedire che lo spettatore si

“diverta”, si distenda, si rilassi. Con Bene, questo non deve essere possibile: l’inquietudine, per lui, è la vera chiave di lettura, la linea unificante della sua produ-

zione artistica.

Una linea radicale che si spinge fino a teorizzare una nuova cromaticità anche per il bianco e nero. Nel suo Amleto televisivo non ci sono grigi: anche il grigio è una mezza tinta, e le mezze tinte, davvero, non appartengo-no al suo mondo.

cover - scenari Profondo rosso o Nero bifamiliare? Tutti i colori del cinema italiano

di ALICE BONET TI

IL SONDAGGIO

R O S S O S H I N I N G , B L U T I T A N I C

Quali sono i film diventati iconici per l’uso particolare di una nuance o di un dettaglio cromatico? Abbiamo tentato di scoprirlo chiedendoa un gruppo di 30 persone di associare una pellicola ai 10 colori più usati nel cinema. Successo per Wes Anderson, quasi totale assenza di titoli nostrani.

Avete mai pensato a come sa-rebbe Shining se fosse stato ambientato in un hotel con gli arredi verdi invece che rossi? Po-tente strumento di narrazione in grado di suscitare emozioni di-verse a seconda dell’uso che se ne fa, il colore ha un ruolo estre-mamente importante nella resa finale del film: ci parla, ci comu-nica sensazioni, guida la nostra percezione e possiede una sua forte dimensione psicologica, fi-siologica ed estetica. Il colore è, in definitiva, l’elemento filmico universale attraverso cui i nostri sensi apprendono la realtà (fil-mica) e la reinterpretano.

Ma quali sono quei film diventati iconici proprio per l’uso particola-re di una nuance o di un dettaglio cromatico? Noi abbiamo tentato di scoprirlo chiedendo a un gruppo di 30 persone quale pellicola ve-nisse loro in mente pensando ai 10 colori più usati nel cinema.

Tra i colori caldi, il rosso (con le sue gradazioni) è stato sicura-mente quello che più di tutti è stato ricordato come dominante in diversi film. Colore vivo, di-namico, simbolo per eccellenza della passione, dell’amore, dell’e-rotismo e della lussuria, in tanti lo hanno associato a film come Moulin Rouge, In the Mood for Love, Her (completamente costrui-to su tonalità calde a indicare lo stato emotivo del protagonista) e il drammatico American Beauty (cult la scena di Mena Suvari ri-coperta di petali di rosa rossi). Il cremisi può rappresentare però anche rabbia, pericolo imminen-te, morte (emblematico il detta-glio del cappottino rosso della bambina di Schindler’s List) e follia omicida. A tal proposito, Shining di Kubrick è stato il più citato: la famosissima scena del fiume di sangue che esce dall’ascensore è certamente ben impressa nella memoria di tutti.

Se l’arancione è usato spesso per rappresentare il deserto, la deso-lazione post-apocalittica e lo stra-

32/33

niamento (Mad Max: Fury Road, The Martian, Apocalypse Now), il giallo rappresenta invece la luce, la gioia, la positività (Il mago di Oz, Moonrise Kingdom, Big Fish) ma può spesso simboleggiare anche follia, irrazionalità, delirio. A tal proposito, c’è chi si è perfino ri-cordato che in Birdman di Iñárri-tu, la scena del monologo fuori controllo di Sam (alias Emma Stone) si dipinge di sfumature paglierine. Tra i vari film ricordati, spicca sicuramente (per numero di citazioni) Kill Bill e l’iconica tuta gialla di Uma Thurman.

Simbolo per eccellenza di femmi-nilità, innocenza e giovinezza, gli intervistati non hanno avuto diffi-coltà ad associare il colore rosa a film come Marie Antoinette, Closer (chi non ricorda la sensuale Nata-lie Portman con il suo caschetto rosa shocking?), La rivincita delle bionde, Harry Potter (nel 5° film della saga il rosa confetto carat-terizza il subdolo personaggio di Dolores Umbridge), Grand Bu-dapest Hotel - dove è utilizzato per rappresentare la dolcezza del per-sonaggio di Agatha – e, ça va sans dire, La Pantera Rosa.

Pochi dubbi poi su quale film ven-ga in mente agli spettatori pen-sando al color marrone: La fab-brica di cioccolato (sia la versione burtoniana che quella precedente di Mel Stuart) è stato il film più ci-tato – per non dire l’unico - da chi ha risposto al questionario.

Il colore del cielo, che può assu-mere toni drammatici e malinco-nici come in Vita di Adele o espri-mere tranquillità, quiete, silenzio come in alcune scene di Se mi lasci

ti cancello, è stato invece associa-to soprattutto a due film: Avatar di James Cameron (in effetti qui la presenza del blu è fortissima, dall’ambientazione - il satellite Pandora – ai personaggi princi-pali, i Na’vi) e Titanic di James Cameron. Ma c’è chi si è ricordato anche di quel gioiellino de La for-ma dell’acqua.

Verde come pace, senso di rina-scita, quiete (la natura incontami-nata di Into the Wild, per esempio, o i paesaggi bucolici de Il Signore degli Anelli: La Compagnia dell’A-nello) ma anche noia, prigionia, stati di allucinazione (L’uomo sen-za sonno, Blade Runner, Fight Club, Natural Born Killers, Trainspot-ting) e - perché no – orchi (Shrek docet). Grigio, invece, come as-senza totale di movimento e di speranza. Pochi i film che i nostri intervistati hanno associato a questo colore. Tra essi spiccano American Beauty, dove è il grigio a rimarcare lo status di “prigioniero della routine” del protagonista e Revolutionary Road, dove è usato per l’emblematica scena dei bu-siness man tutti rigorosamente vestiti di grigio che escono dalla stazione (cinerea anch’essa) per andare al lavoro.

Il viola, colore tra i più seduttivi, viene invece spesso associato al mistero, all’ambiguità – sessuale in molti casi (The Neon Demon di Refn) – e all’eccentricità. Colore

molto usato nei musical, gli spet-tatori lo hanno ricordato soprat-tutto in La La Land, nei film di Tim Burton (La sposa cadavere, Dark Shadows) e in Grand Budapest Ho-tel di Wes Anderson: indimenti-cabile il personaggio di Monsieur Gustave H., il cui color viola della divisa fa da contrasto agli ambien-ti arancioni e rossi dell’hotel.

Asettico, pacifico, ovattato, il bianco è il colore puro per ec-cellenza e può simboleggiare situazioni di isolamento, emar-ginazione (Qualcuno volò sul nido del cuculo) e di sospensione spazio-temporale (2001: Odissea nello spazio, Gravity). C’è chi lo ha ricordato anche in Arancia mecca-nica, dove Kubrick ne stravolge il senso facendogli raffigurare tutto ciò che è violenza e sopruso.

Guardando i risultati del son-daggio, constatiamo la presenza massiccia dei film di Wes An-derson, segno che gli spettato-ri italiani hanno colto l’unicità dell’estetica e dell’originale uso del colore, ma anche che il regi-sta statunitense è ormai diven-tato un vero fenomeno culturale mondiale (tanto da avere cen-tinaia di account Tumblr, GIF su Facebook, avatar, citazioni e quote in ogni parte del globo). L’assenza quasi totale di titoli italiani tra quelli indicati dagli intervistati (rare le eccezioni: Il deserto rosso di Antonioni, Medi-terraneo di Salvatores e qualche opera di Bertolucci), lascia invece un po’ perplessi. Consola il fatto che, forse inconsapevolmente, in molti hanno ricordato la firma di un artista italiano, nascosta dietro a molti dei film citati. È quella di Vittorio Storaro, maestro dell’u-so della luce e del colore, che ha firmato la fotografia di capolavo-ri come Apocalypse Now, L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto e Ultimo tango a Parigi.

A questo punto sorge spontanea una domanda: sono i film italiani a non essere in grado di ancorarsi saldamente nella memoria visiva degli spettatori, oppure sono que-sti ultimi a essere particolarmente distratti quando a scorrere sullo schermo sono immagini di pelli-cole nostrane?

28 13 20 22 5 8 22 17 15 13

ro

sso

ar

anci

one

gi

allo

ro

sa

m

arro

ne

gr

igio

ve

rde

bl

u

vi

ola

bi

anco

voci - inchieste non ci sono più i cinema di una volta? Sì, ce ne sono di nuovi.

34/35

vociINCHIESTE

DISCUSSIONI

PUNTI DI VISTA

36 Nuovi Cinema Paradiso di Gianni Canova

38 Sopra i tetti di Milano di Hilary Tiscione

40 Questione di… Hart di Margherita Bordino

41 Seravezza: patrimonio Unesco e Grand Gourmet di Nicola Calocero

42 Policlinico Gemelli, l’arte della CineTerapia di Nicole Bianchi

43 Dal Cine-panettone al Cine-panzerotto di Anton Giulio Mancino

44 Proiezioni memorabili di Valentina Neri

46 Un gatto in the Sky di Pedro Armocida

48 Il nuovo pensiero critico italiano di Jennifer Malvezzi

50 Beethoven e la Virtual Reality di Carlo Cresto-Dina

inchieste

voci - inchieste non ci sono più i cinema di una volta? Sì, ce ne sono di nuovi.

N U O V I C I N E M A PA R A D I S O

Molte sale, negli ultimi anni, hanno chiuso. Ma da qualche tempo in qua si registra anche il fenomeno inverso: sale che aprono, o riaprono. Sono ancora casi isolati, certo. Però indicano un’inversione di tendenza. E dimostrano che è possibile pensare nuovi modi di proporre e di vedere film.

di GIANNI CANOVA

36/37

Al fondo, c’è sempre una relazio-ne a due. Di là uno schermo, di qua una postazione per lo spet-tatore. In mezzo, la magia del cinema. Storicamente, tutto ciò è stato strutturato – sul piano delle relazioni spazio/temporali – nell’architettura della sala ci-nematografica. Che – a pensarci bene – ha mutuato dalla Chiesa (prima ancora che dal Teatro) il proprio modello relazionale. Con lo schermo al posto dell’altare e le poltrone/sedili per il pubbli-co nella “navata” dove pregano i fedeli. Così, nel buio, in un buio quasi sacro, dove la vita subisce la transustanziazione in imma-gine, il cinema ha attraversato il ‘900. Ma ora quel modello è in declino. Le sale cinematografiche – soprattutto in Italia – sembrano perdere appeal. Molte sale hanno chiuso con l’avvento del digitale. Altre hanno chiuso (e chiudo-no…) per stanchezza, per calcolo, per speculazione. Ma da qualche tempo in qua, un po’ a sorpresa, si nota una piccola ma significa-tiva inversione di tendenza. Qua e là ci sono nuove sale che apro-no. O vecchie sale che riaprono. Ci sono appassionati di cinema che provano a crederci ancora. E che si inventano, spesso rischian-do in proprio, non solo nuove modalità di fruizione, ma anche nuovi modi di pensare al “luogo” del cinema. Il mondo è pieno di sale “strane”, di modi di visione eccentrici. Di spettacoli che pon-gono lo spettatore di fronte allo schermo – questo sì ineliminabile – in posizioni e su supporti diver-si. Qualche anno fa, ad esempio, in occasione di una grande mo-stra al Beaubourg parigino, mi era capitato di imbattermi in una sala dove davanti allo schermo invece di sedie o poltrone c’erano letti. Ti ci sdraiavi sopra e vedevi il film

in posizione supina. Ho saputo poi che un noto brand svedese (indovinate quale?) per lanciare una nuova linea di materassi, ha messo a disposizione di alcune sale cinematografiche di Mosca e di Parigi proprio svariati letti, per visioni supine esclusive e di sicuro successo. Ma ci sono espe-rienze anche più estrose e fanta-siose: la catena Hot Tub Cinema (presente a Londra, New York e Ibiza) propone forme di cinematic experience organizzando visioni di film di volta in volta in vecchie fattorie o su grandi terrazze, dove gli spettatori, invece che seduti in platea, vengono fatti accomodare in grosse vasche idromassaggio che possono contenere fino a sei persone. Qui il cinema diventa ovviamente un’altra cosa. Qui la vista perde l’egemonia assoluta che aveva sugli altri organi di sen-so. Qui lo spazio del cinema di-venta inevitabilmente sinestetico e coinvolge altri luoghi un tempo impensabili. Il regista thailan-dese Apichatpong Weerasetha-kul e l’attrice Tilda Swinton, ad esempio, organizzano ogni anno il Festival Film on the Rocks Yao Noi, dove sia lo schermo sia gli spettatori sono collocati su due gigantesche zattere galleggianti in una baia edenica di uno degli arci-pelaghi più belli del mondo. Ma lì – potrebbe obiettare qual-cuno – non si vede il film. Lì si resta abbagliati dalla bellezza del luogo. Vero. Ma come si è abba-gliati dal luogo vedendo film nel Teatro Greco di Taormina, o sulle terrazze del Castello Aragonese durante l’Ischia Film Festival. Il modo in cui percepiamo un film,

e lo metabolizziamo, dipende sempre anche dal luogo in cui l’abbiamo visto. E spesso si ricorda il luogo più e meglio della trama del film. A me, almeno, a volte capita così. E capita allora che ci sia, anche in Italia, chi si inventa modi e luoghi davvero “strani” di proporre il cinema. Qualche anno fa, ad esempio, Francesco Azzini si è inventato Cortomobile, il ci-nema più piccolo del mondo: un’Alfa Romeo berlina del ’74 adibita a ci-nema a due posti in cui proporre cortometraggi. Vetri oscurati, pop corn garantiti. Dentro, è proibito fumare e tenere il telefono acceso. Un’idea per certi versi analoga è quella di Cinecamper, un cinema mobile a set-te posti, ricavato all’interno di un Camper Ford Transit del 1981 di colore arancione con il proiettore posizionato nel bagno. C’è anche chi usa un camion: con Cinema del deserto due italiani, un ragazzo e una ragaz-za, portano il cinema nei villaggi poveri dell’Africa. Proiettano film da un camion che ha sul tetto pannelli solari e uno schermo installato su un lato, quasi a riscoprire l’origine nomade e ambulante del cinemato-grafo. Ambulante è anche l’esperienza di PostKino, che quest’estate ha portato il cinema in giro per la Puglia, in contesti sempre diversi: una torre che in tempi antichi ospitava i Cavalieri Templari, un ipogeo nel cuore di una città vecchia, una masseria in Valle d’Itria dove si allevano i cavalli, una terrazza vista mare, un chiostro monumentale, un lido sul lungomare. Sono proiezioni che prendono vita al di fuori delle sale, sul mare o in campagna, a volte in piccoli borghi che sono del tutto sprov-visti di un cinematografo. Ma poi ci sono anche le sale. Che qua e là ria-prono. In posti impensati (sui tetti, nei musei…). O con offerte differen-ziate (cine-ristoranti, cine-bar…). Nelle pagine che seguono proviamo a dare conto proprio di alcune di queste esperienze. Per dimostrare come qualcosa si stia muovendo anche in un settore che pareva immobile e non rinnovabile come quello dei luoghi in cui vedere film.

voci - inchieste non ci sono più i cinema di una volta? Sì, ce ne sono di nuovi.

Gli spazi strani della città meneghinache “ospitano” sale cinematografiche: i casi Cinema Bianchini, Nobel-Eataly e il nuovo cinema della Fondazione Prada.

di HILARY TISCIONE

S O P R A I T E T T I

D I M I L A N O

38/39

Visto sopra i tetti, un film, è tutto un altro cinema. Il cinema dentro lo schermo, ma anche tutto intorno, sopra le case, ap-pena sotto il cielo, proprio dove vive il Cinema Bianchini: un piccolo spazio dentro un altro, infinito, che sovrasta Milano.Fino al 30 settembre, sulla Highline di Galleria Vittorio Emanuele che va da Piazza Duomo a Piazza della Scala, verrà proposta - dalle ore 21 - una selezione di film che varia dai grandi cult, al cinema d’autore, ma anche quelli senza tempo come La notte, A qualcuno piace caldo, Vacanze romane, Barbarella, Miracolo a Milano. E sì, qualcosa di miracoloso ef-fettivamente c’è. La quiete, come prima cosa, rarissima da trovare nel baricentro milanese. Poi, l’incanto fra le tegole, indugio di dodici gatti neri – così vuole la leggenda – che sgambettano, certamente sedotti dall’armonia del posto.Non va solo a braccetto con l’estate l’idea di posizionare un grande schermo all’aperto, lassù dove l’aria è pulita e più fresca, ma è il con-cetto di unire la potenza dell’arte cinematografica all’ampiezza dello spazio. Come a voler dire che una tale ricchezza merita un’estensione ampia, infinita; un posto rialzato, dove osservare tutto l’effimero scena-rio mondano, dall’alto. In un seggio elitario fatto di comode sedute che - attorniate da una vite inerpicata intorno alle grate - ospitano cinquanta persone al massino, pertanto diventa indispensabile la prenotazione a tempo debito, così da evitare il sold out ricorrente.Eretto lassù, il cinema dei tetti, ha un non so che di dominante, ma non per supremazia, piuttosto per capacità di oltrepassare il terreno e innal-zare l’arte al cielo. Allora, le immagini si elevano e raggiungono le guglie del Duomo, camminano verso il Castello Sforzesco, via via fino a Porta Nuova; si arrampicano sulla Torre Branca, scivolano su il Dritto, indu-giano rapite dalla Cupola. Ma questo non è l’unico esempio di cinema originale, anticonformista. Infatti, in una Milano che anticipa sempre di più tutte le nuove forme di espressione, apre la prima sala risto-cinema d’Italia: Nobel-Eataly ospitata dall’Anteo Palazzo del Cinema, dove diventa possibile appaga-re il palato e la vista, ma anche l’udito e il gusto, lo svago e la necessità, il piacere di una cena e quello di un post cena contemporaneamente.L’iniziativa, considerevole anche nella cultura smisuratamente trend del presente, si fa portatrice d’ispirazione e fonde l’emozione filmica con la creatività gastronomica. La sala cine-gastronomica propone tre appuntamenti quotidiani come le pause culinarie che scandiscono la nostra giornata, capaci però di spianare i modelli e scomporre i disegni programmatici della vita.Ma il cinema, quello senza margini, si annida e coabita anche in una del-le più famose istituzioni dedicata all’arte contemporanea: Fondazione Prada, che ha inaugurato il nuovo cinema al suo interno. Si tratta dell’unico spazio filmico della Zona 5 di Milano, una sala che rivolge l’attenzione sia alla memoria dei capolavori intramontabili, ma anche alla parte più emancipata stilisticamente. Offre, così, generi ci-nematografici diversi: dai più classici ai più sperimentali, gli inediti, ma anche i restauri – per esempio Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, proiet-tato il 6 maggio in anteprima nazionale e introdotto dal regista in perso-na - per rievocare la traccia storica e il contributo nei confronti dell’arte che, prima ancora di essere segmentata nei vari rami e nei vari ambienti, è la genitrice suprema del sacro e della bellezza.

Nell’Era del marketing e dei social network c’è chi trasforma la sala cine-matografica tradizionale come fosse una vera casa, un modo per man-tenere e proteggere il senso di comunità e di esperienza primaria del ci-nema stesso. Da Bangkok a Mosca, da Parigi a Stoccolma diversi cinema presentano al grande pubblico una sala dal lusso casalingo, offrono l’op-portunità di vedere un film comodamente sdraiati su un letto. Questa stessa esperienza si può vivere anche in Italia, precisamente in Via Cri-spi 33 a Napoli, dove si trova il cinema Hart. Una sala indipendente che conta 110 posti tra poltrone e divani, tra questi 5 letti da 3 posti ciascuno, posizionati in prima fila. Il cinema Hart è stato indicato come una delle tre sale più innovative dalla 20th Network Conference Bucharest 2017 di Europa Cinemas, il network composto da 2.900 cinema indipendenti di tutto il vecchio Continente. Il suo progetto è stato realizzato con un investimento di 800mila euro nella storica sala dell’Ambasciatori da tre imprenditori: Luciano Stella, Sigfrido Caccese e Mariano Pierucci. Stel-la, dopo avere viaggiato molto e visto sale innovative, ha pensato a quel-la del cinema Hart rispondendo all’interrogativo: quale futuro per le mono-sale? L’Hart è diventato, dal dicembre 2015 a oggi, un luogo mul-ticulturale. Un locale che offre al tempo stesso cinema, musica e bistrot. Una storica sala resa attuale, futuristica, intima ed elegante. Grande tec-nologia e proposta culturale sono alla base di questo cinema che pren-de il nome dalla parola olandese, “cuore”, ma che rappresenta anche un neologismo anglofono derivante da “arte” e “terra”. Il cinema Hart ha un target trasversale, come trasversale è stata la programmazione in questi anni, dalla commedia Dio esiste e vive a Bruxelles, all’animazione partenopea di Gatta Cenerentola. La sala dell’Ambasciatori contava 350 posti, ora ne esistono la metà e permettono di assistere comodamente ad un film. Non bisogna pensare al “letto” solo nel senso letterale del termine. Ovunque sieda, lo spettatore ha un poggiapiedi davanti a sé e una scatola in cui tenere la propria borsa, o altro, all’interno trova anche un caldo pile per essere, nei mesi invernali, ancora più a proprio agio. La sala Hart ha lampadari Anni ‘30 e soffitto a volta, caratterizzato da gio-chi di colori: nel momento in cui parte la proiezione tutto diventa buio, come vuole la tradizione cinematografica. Con l’esperienza, che funzio-na, del cinema Hart c’è da chiedersi: e se la soluzione all’evidente crisi cinematografica fosse effettivamente, e banalmente, la comunicazione e la trasformazione della sala?

Q U E S T I O N E D I… H A R TLo storico cinema Ambasciatori di Napoli nel circuito internazionale delle tre sale più innovative secondo la 20th Network Conference Bucharest 2017 di Europa Cinemas. Come vedere un film comodamente sdraiato su un letto (non a casa propria).

di MARGHERITA BORDINO

voci - inchieste non ci sono più i cinema di una volta? Sì, ce ne sono di nuovi.

La storia di questa sala inizia molto tempo fa; siamo nella se-conda metà del XVI secolo ed il granduca Cosimo, in questa epo-ca di aspri contrasti dove il tardo Rinascimento si confondeva con l’affermarsi della Controriforma, elesse le pendici delle Alpi Apua-ne come luogo ideale per il sog-giorno estivo della corte. Vide così la luce presso il borgo di Seravezza la Villa Medicea, oggi riconosciuta patrimonio UNESCO. La storia della Villa si è incrociata con il destino del borgo, sfiorato dalla Via Francigena e tristemente si-tuato – durante la Seconda Guerra Mondiale - sulla linea gotica (vedi Il paziente inglese). Nel corso del-le generazioni le Scuderie della Villa hanno avuto molte vite: da alloggio per i puledri del sovrano a stazione di posta, da sala da ballo tardo Liberty a magazzino comu-nale. Finalmente (come capita per fortuna sempre più spesso in provincia) un’amministrazione sensibile ed illuminata ha resti-tuito le Scuderie alla cittadinanza identificandole come location ideale per il cinema municipale. Sfida ambiziosa per un Comune di poco più di 10.000 abitanti, quando nel nostro Paese abbia-mo purtroppo anche cittadine ben più grandi che hanno perso la loro sala. La programmazione delle Scude-rie è ricca ed attenta. Nella sala - attiva tutto l’anno dal 2013 - pas-

S E R A V E Z Z A : P A T R I M O N I O U N E S C O

E G R A N D G O U R M E TDove una volta c’erano le stalle dei Medici,

tra le Alpi Apuane, ora la settima arte è di casa.

di NICOLA CALOCERO

sano sempre più spesso cineasti e uomini di cultura qui attratti a promuovere una programmazio-ne decisamente scrupolosa nel riuscire a presentare tutti i film importanti della stagione. E pro-prio nelle Scuderie, la sala prin-cipe di questo territorio, in con-temporanea con Torino è stato presentato Mia madre fa l’attrice di Mario Balsamo, girato proprio da queste parti. Il palinsesto colto ha risvegliato un forte sentimento di apparte-nenza cinefila in tutte le vallate Apuane e ha realizzato quella che dovrebbe essere l’ambizione di ogni sala: far crescere un pubblico sempre più curioso e preparato. Per questo vi ha trovato asilo an-che il festival OPERAZIONE PAU-RA, che ospita da anni le fanzine più attive del cinema di genere italiano, e non è mancato in que-sti anni un curioso omaggio a Ugo Tognazzi. Ospite estivo per anni nella vicina Versilia è stato ricor-dato a Seravezza presentando le sue pellicole di argomento panta-gruelico, abbinate a degustazioni dedicate. Partendo da La grande abbuffata per arrivare a L’anatra all’arancia. Non a caso fu Caterina de’ Medici, cugina di Cosimo, a portare a Parigi quel piatto tipico della tradizione toscana oggi sim-bolo del Gran Gourmet.

40/41

Un titolo insegue l’altro, se si pen-sa al connubio tra cinema e me-dicina: dal nostro Alberto Sordi protagonista de Il medico della mu-tua (1968), all’affascinante dottor Ross interpretato Oltreoceano da George Clooney nella serie tv E.R. - Medici in prima linea, senza dimenticare il pioniere della riso-terapia sul grande schermo, Robin Williams e il suo Patch Adams, dell’omonimo film (1998). La realtà, si sa, supera la fantasia e così cinema e medicina si sono in-contrati con la missione di essere “terapia di sollievo” per persone costrette a medio-lungo degenze: il cinema s’inserisce come parte integrante delle terapie classiche, per migliorare la qualità della vita dei pazienti attraverso la visio-ne dei film. Con questo intento è stato promosso e costruito il primo spazio cinematografico all’interno di una struttura ospe-daliera, che da settembre 2016 ha esordito con una programma-zione cinematografica regolare,

dando concretamente il via al progetto di ricerca scientifica che ha come obiettivo l’osservazio-ne degli effetti di questa terapia non convenzionale sui pazienti, adulti e bambini. Lo studio è il primo del suo genere in assoluto. L’approccio è progressivo e inter-disciplinare e si avvale di un team di ricercatori, medici e psicologi, che hanno iniziato a valutare l’ef-ficacia del cinema - fruito in una sala tecnologicamente all’avan-guardia, costruita appositamen-te - rispetto alle finalità di ausilio terapeutico, reinserimento socia-le e riduzione dello stato di incer-tezza e ansia, spesso connessi alla degenza. Praticando un coinvol-gimento diretto, tramite questio-nari, approfondimenti personali di tipo qualitativo, sono coinvolti pazienti di tutte le fasce anagrafi-che, sin dall’infanzia.

P O L I C L I N I C O G E M E L L I , L ’ A R T E D E L L A C I N E T E R A P I A

La prima sala costruita all’interno di una struttura ospedaliera offre una terapia di sollievo per molti lungo-degenti.

di NICOLE BIANCHI

MediCinema programma regolar-mente film “per tutti” il martedì e film dedicati ai pazienti pediatrici il giovedì: il coordinamento delle prenotazioni da parte dei reparti coinvolti (ormai oltre una venti-na) e l’assegnazione dei posti in sala, oltre naturalmente all’assi-stenza, è in capo al SITRA, con il supporto dei medici e dei gruppi di volontari, sia dell’A.VO.G., sia degli studenti della Facoltà di Medicina e Chirurgia. La riposta entusiastica dei pazienti, dei loro familiari e accompagnatori, è fon-te di grande incoraggiamento per

proseguire su questa strada, che pone così il Policlinico “Gemelli” all’avanguardia sul fronte delle terapie complementari dedicate al benessere della persona nella sua interezza.Il premio Oscar Giuseppe Torna-tore ha preso parte sin dall’inizio al progetto, con la realizzazione di uno spot dedicato – Il film come terapia - che si è avvalso della co-lonna sonora di Claudio Baglioni: il cinema come strumento per sostenere la campagna di fundrai-sing di MediCinema Italia, la no profit nata 5 anni fa, ispirata Medi-Cinema UK. Per “andare al cinema al Gemelli” si sale tra l’8° e 9° piano dell’ospe-dale romano, dove si accede ad un ambiente che conta 130 posti a sedere, inclusi spazi per perso-ne non autosufficienti, allettati o in sedia a rotelle, il tutto calibrato sui numeri dell’ospedale stesso, che conta 1.558 posti letto, 35 sale operatorie, 850 medici e 3.400 in-fermieri, tecnici e operatori.

voci - inchieste non ci sono più i cinema di una volta? Sì, ce ne sono di nuovi.

42/43

Chi non ricorda l’11 settembre del 2001? A Bari, mentre crollavano le Torri Gemelle a New York, veniva inaugurata l’Arena “Ai Riciclotteri”, probabilmente una delle sale cinematografiche più eccentriche e resi-stenti d’Italia, concepita dal decano dei cineasti underground pugliesi, Nico Cirasola, e portata avanti ancora oggi, tra slanci fantasiosi, intre-pida, allegra determinazione e difficoltà quotidiane, da Luca Ciraso-la e Francesca Garulli. Il riferimento al concetto del “riciclaggio”, del cinema, dei materiali, degli oggetti vintage, dagli elettrodomestici alle macchine da proiezione, è parte integrante di un progetto di lunga du-rata che assieme alla programmazione di film vecchi e nuovi, eventi di ogni tipo, happening, iniziative sull’educazione alla legalità, presidia un territorio della città raggiungibile, sì, ma vagamente post-atomico. Di sicuro, non da cartolina. L’innesto di questa Arena in uno spazio simile, con film che si agitano letteralmente quando il telone è scosso dal ven-to, è un’esperienza unica, da cinema delle origini, quando lo spettacolo era ospitato da fiere, circhi, inserito nei vaudeville. Lo scrittore Gianrico Carofiglio gli ha dedicato un ampio brano del suo libro Né qui né altrove. Una notte a Bari (Laterza, 2008): “Per andare al mio preferito, però, la macchina è necessaria, ci vuole un’ottima conoscenza del territorio e deve essere estate. Questo posto si chiama Arena ai Riciclotteri: ignoro cosa significhi il nome e non ho mai cercato di scoprirlo. La stessa per-sona stacca i biglietti, ti vende le birre gelate custodite in un vecchio fri-go Anni ’60 e fa gli interventi sul vecchio proiettore sferragliante. Tutto è assai romantico e fuori dal tempo in quest’arena collocata fuori città, nel mezzo di nulla, fra capannoni industriali dismessi, depositi, rotaie sulle quali, nel pieno delle scene più emozionanti, rombano treni diretti chissà dove, a quell’ora della notte. Le file di sedili verdi di legno e me-tallo sono collocate su un pavimento di ghiaia e le facce dei frequentato-ri, me incluso, sembrano quelle di un gruppo di turisti da macchina del tempo, in gita premio dal passato. Se passate da Bari in estate andate a vedervi un film in questo cinema, se riuscite a trovarlo”. Da allora le novità ulteriori non sono mancate. La programmazione in-fatti ha sempre avuto una sezione intitolata “Cinema con gusto”, dove al film è stata per tradizione abbinata la degustazione, di vini o di cibo, a cura degli sponsor. Ma la vera rivoluzione è arrivata con il “Cine-panze-

D A L C I N E - P A N E T T O N E

A L C I N E - P A N Z E R O T T O

L’arena “Ai Riciclotteri” di Bari: sala eccentricae resistente, concepita dal decano dei cineastiunderground pugliesi, Nico Cirasola. Nel nome, il riferimento al concetto del “riciclaggio”, del cinema e degli oggetti vintage, dagli elettrodomestici alle macchine da proiezione.

di ANTON GIULIO MANCINO

rotto”, sorto sulle ceneri del “Ci-ne-panettone”. Insomma, mentre il filone più redditizio del cinema italiano era in esaurimento, ecco il panzerotto barese a dare man-forte agli spettatori di film accorsi a Bari: superata l’uscita Picone, in zona Santa Fara, dopo il Distribu-tore ERG , in via Massimi Losacco numero 4. Anche le precauzioni

suggerite agli avventori dell’Are-na “Ai Riciclotteri”, sono – come dire - alla Cirasola: “Parcheggio gratuito non custodito. Copritevi sempre bene che la sera ‘stringe’, siamo vicini alla murgetta! Por-tate un k-way e un ombrello nel caso piovesse! ‘Il Cinema all’aper-to, più all’aperto che c’è!’”… Vero. Assolutamente vero.

Da anni, soprattutto nel nostro Paese, si suona il de profundis della sala cinematografica. Per farlo smettere bisogna ripensare la fruizione cinematografica, reinven-tandola, con piglio ludico o guardando al passato. E’ il caso delle fondatrici e direttrici del Milano Design Film Festival (25-28 ottobre), Silvia Robertazzi e Antonella Dedini, che all’interno della manifestazione hanno ide-ato l’appuntamento al buio di Cinema Nascosto. Gli iscritti alla newsletter ricevono per email indicazioni su dove e quando incontrarsi; una volta all’appuntamento vengono accompagnati nel luogo reale della proiezione

Marco Belardi, Antonio Avati, Cristiana Caimmi, Carmen Giardina, Marta Donzelli, Roland Sejko, Felice Laudadio e Laura Delli Colli ci raccontano il luogo più insolito in cui hanno visto un film.

di VALENTINA NERI

P R O I E Z I O N I M E M O R A B I L I

voci - inchieste non ci sono più i cinema di una volta? Sì, ce ne sono di nuovi.

e solo qui viene svelato il film. Spesso il luogo contagia la pro-iezione, arricchendola, creando maggiore immersività o ampli-ficando le emozioni trasmesse, come la volta in cui il produttore Marco Belardi, bloccato negli USA per un volo cancellato, deci-se di passare la serata guardando sul tablet uno dei suoi film pre-feriti, 2001: Odissea nello spazio, in uno dei luoghi più simili all’infini-tà del cosmo presenti sulla Terra, il Grand Canyon. In altri casi può accadere l’esatto contrario: il film può risentire di una location non all’altezza o di un’atmosfera negativa. Quello che accadde ad Antonio Avati quando dicianno-venne e con il sogno di diventare un attore, in una Roma deserta per Ferragosto, decise di vincere la solitudine andando al cinema. “Il Quirinetta era l’unico aperto. Quel giorno c’era Billy il bugiardo di John Schlesinger, pellicola piut-tosto godibile, ma resomi conto di essere completamente solo in sala non mi interessava più: ogni

scricchiolio, ogni rumore, mi ter-rorizzavano da morire. Dopo 20 minuti, sono letteralmente scap-pato. Il film sono riuscito poi a rivederlo per intero anni dopo, in tv, mentre paradossalmente la sala, il Quirinetta, ha portato bene alle nostre produzioni”. Fu la ten-sione invece ad accompagnare la proiezione che la press agent Cri-stiana Caimmi non può dimen-ticare. “Anteprima stampa di Non ci resta che piangere. Una saletta privata, non più di 25 critici im-portanti dell’epoca. Il film snoc-ciola battute diventate cult come “Due fiorini”, “Come il babbo!” “Grazie Mario” ma in platea non ride nessuno, anzi più la storia va avanti più il gelo diventa palpabi-le. Io, produttori e distributore ci guardammo preoccupatissimi: pensavamo di presentare un ca-polavoro di comicità con due geni come Massimo Troisi e Roberto Benigni ma sembrava che non ca-pissero l’ironia del film. La notte non dormii chiedendomi dove avevamo sbagliato. Poi quando il film uscì in sala diventando il suc-cesso di quella stagione (1984-85), con oltre 15 miliardi di lire d’incas-so, mi rilassai: il pubblico lo aveva premiato trasformandolo nella pellicola iconica che tutti cono-sciamo”. A base di suspense è sta-ta anche la proiezione raccontata dall’attrice Carmen Giardina del suo corto da regista, La gran-de menzogna, opera in costume e bianco e nero su Anna Magnani e Bette Davis. Nel 2009 l’Ischia Global Film Fest aveva optato per

una fruizione in spiaggia: schermo praticamente nell’acqua e spet-tatori sull’arenile, peccato che la serata fosse ventosa e in più di un’occasione lo schermo sia stato a un passo dal volare via. Sembra uscire da un’altra epoca il raccon-to della produttrice Marta Don-zelli che per Le quattro volte di Michelangelo Frammartino si è ri-trovata ad Alessandria del Carret-to, dove è stata girata la sequenza legata all’albero della cuccagna. “Dopo Cannes decidemmo di organizzare delle proiezioni nei luoghi in cui avevamo realizzato il film. La logistica era a cura del Comune che allestì lo schermo nella piazza principale, davanti alla chiesa, ma una volta arrivati sul posto ci rendemmo conto che c’era solo lo schermo: i cittadini non si scomposero, aprirono la chiesa e cominciarono a portare fuori i banchi e le panche per se-dersi. In pochi minuti lo schermo diventò un altare speculare della chiesa”. Ha il sapore di un tem-po lontano anche l’esperienza di Roland Sejko, regista e direttore responsabile del sito dell’Archivio Storico Luce. Da ragazzino, nel-la sua città di origine, Elbasan in Albania, andava spesso al cinema dei piccoli, ma quando arrivava l’estate ad attirarlo era l’arena estiva nel centro della città. Uno dei pochi svaghi in circolazione nel ‘78. I ragazzini come lui re-stavano davanti all’ingresso fino all’inizio dello spettacolo speran-do di convincere i gestori a farli entrare gratis, ma l’arena esauriva sempre i posti e alle piccole gang di spettatori non restava che ripie-gare sui pini dall’altra parte della strada. Appollaiato sui rami, vide Le ragazze con i nastri rossi, pel-licola propagandistica albanese sulla resistenza antifascista in un liceo femminile durante gli anni

dell’occupazione italiana. Per una volta un film da grandi. Le-gata all’infanzia anche la testimo-nianza di Felice Laudadio, pre-sidente del Centro Sperimentale di Cinematografia. Il primo film che ricorda d’aver capito davvero è stato Cristo fra i muratori. Era il 1951, lui aveva 7 anni, ma aveva già visto tanti film perché l’unico cinema a Mola di Bari, l’Orfeo, era di proprietà del nonno materno. “I miei genitori mi scaricavano lì ogni giorno per qualche ora in un posto di prima fila, sempre lo stes-so. A quel tempo le sale di paese proiettavano un film diverso ogni giorno, tranne il sabato e la dome-nica. Per anni ho visto lo stesso film. Per anni ho visto film dal lu-nedì al sabato, anche due volte di seguito. Ma quel drammone ne-orealista di Edward Dmytryk che racconta la storia di un emigrato italiano a New York che lavoran-do s’ammazza per comprar casa me lo porto dietro da sempre”. A metà tra rito folcloristico e nuo-ve tendenze del comfort invece l’esperienza vissuta da Laura Delli Colli nel Sudest asiatico. Nel 2011 la presidente del Sinda-cato Giornalisti Cinematografici Italiani si trovava a Bangkok per il Moviemov e con sincera curiosità assistette alle proiezioni del car-tellone italiano del Festival con il cerimoniale obbligato in apertura a ogni proiezione e la “pillola” di un minuto sui reali thailandesi. Nella sala accanto, in un mul-tiplex affollato a ogni ora del giorno, una platea speciale, con un’ultima fila di poltrone rosse, in velluto, profonde come un letto. C’era il grande spettacolo di un blockbuster action. “Nonostante il velluto di una poltrona letto in cui sprofondare, e il jet leg del gruppo italiano, avendo ovviamente visto tutti i nostri film in cartellone, ricordo che, dopo aver reso di-sciplinatamente omaggio al re, ci siamo subito infilati in sala per te-stare la novità. Restando svegli, nonostante la super comodità della poltrona, sicuramente grazie ai colpi di scena di un film che te-neva col fiato sospeso”.

44/45

voci - discussioni

discussioni

U N G A T T OI N T H E S K Y

Panoramica sulla questione che vede Sky

rispettare, appena sul filo del rasoio,

la “finestra” dei 105 giorni tra l’uscita in sala e la messa

in onda tv di un film, con la complicità

del gruppo Vision: dibattito tra tutela della prima visione

e soddisfazione popolare domestica,

nei pareri di Nicola Maccanico,

Mario Lorini e Lorenzo Ferrari

Ardicini.

di PEDRO ARMOCIDA

46/47

“A pochi mesi dall’uscita nelle sale cinematografiche, Sky Cinema presenta in prima tv Come un gatto in tangenziale, il film diretto da Ric-cardo Milani prodotto da Wildside con Vision Distribution in colla-borazione con Sky Cinema, lunedì 16 aprile dalle 21.15 su Sky Cinema Uno HD e disponibile anche su Sky On Demand”. Questo l’inizio del comunicato stampa di Sky che annunciava appunto l’uscita di-rettamente sul suo canale cinema - quindi non nella formula tradi-zionale per le grandi anteprime pay per view di Primafila - del film ita-liano campione di incassi dell’ulti-ma stagione cinematografica, ap-prodato sul grande schermo sotto le festività natalizie, il 28 dicembre 2017 per l’esattezza. Un’uscita che salta a piè pari lo sfruttamento do-mestico, quello dell’home video, ma che rispetta numericamente i tradizionali 105 giorni di distanza tra la prima proiezione di un film sul grande schermo e il suo succes-sivo sfruttamento commerciale fuori dalle sale cinematografiche, la cosiddetta “Window Cinema”. In contemporanea anche TIMVI-SION annunciava che “per la pri-ma volta i film saranno disponibili con grande anticipo, a partire dal quarto mese dopo l’uscita nelle sale” e ovviamente il primo ap-puntamento è stato il 16 aprile con Come un gatto in tangenziale.L’impressione però che molti os-servatori hanno avuto, anche nel tipo di lancio della comunicazio-

ne, è stata di un’eccessiva enfa-tizzazione, una sorta di ravvicina-mento tra l’uscita in sala e la messa in onda televisiva della piattafor-ma Sky Italia che, insieme a cinque tra le maggiori case di produzione indipendenti italiane - Cattleya, Wildside, Lucisano Media Group, Palomar e Indiana Production - ha dato vita, nel dicembre 2016, a Vi-sion Distribution. “Non c’è nessu-na volontà di accorciare la finestra theatrical - scandisce bene Nicola Maccanico amministratore de-legato di Vision - anche se si tratta di regole non scritte non è nostra intenzione mettere in discussione la finestra dei 105 giorni che pro-teggono il passaggio in sala. Gra-zie a Sky vogliamo valorizzare al massimo il prodotto italiano con questo tipo di accesso al pubblico per renderlo più popolare. Secon-do noi può avere un effetto molto importante per il cinema italiano”.Fatto sta che Sky nei mesi scorsi ha ripetuto l’operazione per altri due titoli, solo del listino Vision, Sono tornato di Luca Miniero, uscito nel-le sale l’1 febbraio 2018 e passato su Sky Cinema Uno HD il 21 maggio, e La casa di famiglia di Augusto For-nari, mandato in onda il 21 marzo e uscito sul grande schermo il 16 novembre 2017. Mario Lorini, neopresidente dell’Anec, l’associazione degli esercenti cinematografici, esprime

qualche riserva sull’operazione: “Non c’è una posizione positiva rispetto a questo atteggiamento, bisogna rimarcare che l’esperienza in sala è primaria e va mantenuta al primo posto. Sono state ribaltate le cronologie rispetto a tutto quello che c’è dopo, sono stati invertiti i tempi rispetto all’home video. In una nota di qualche mese fa Anec ha ribadito di non inficiare, anche da un punto di vista della comu-nicazione, l’esperienza in sala. Vi-sion si è dimostrata disponibile”. Proprio come conferma Nicola Maccanico: “Ci sono state lunghe discussioni e li ringrazio per que-sto. Ho spiegato il senso delle no-stre scelte. Loro sono stati molto attenti e impegnati a difendere le proprie ragioni ma, alla fine, il no-stro interesse è collegato al loro interesse”. Infatti Anec, anche con la nuova presidenza, non è chiusa a riccio: “Nessuno di noi va con-tro chi entra nel mercato, nessuno mette in discussione le esperienze successive dei film che non vanno demonizzate, però l’importante è rimanere dentro i canoni fonda-mentali e difendere sempre l’im-printing della visione in sala”.Ma, sulle “finestre” distributive, il presidente di Univideo che si oc-cupa dell’home video, Lorenzo Ferrari Ardicini, ha una posizio-ne molto aperta: “È giusto che ven-gano riviste in funzione dei bisogni dei consumatori. La politica di Vi-sion, sicuramente per loro, ottiene

sviluppi positivi ma a questo punto bisognerebbe iniziare a parlare del-le ‘window’ di tutta la filiera”. Una posizione questa completamente opposta a quella degli esercenti, ma che si basa anche su dati reali come quelli del fenomeno della cosiddetta pirateria. Proprio nel lu-glio scorso la Fapav (Federazione per la tutela dei contenuti audiovi-sivi e multimediali) ha pubblicato un importante sondaggio di Ipsos sullo stato attuale del fenomeno in Italia: “Dai dati più recenti - conti-nua Ferrari Ardicini - risulta che la pirateria nel 2017 ha inciso per 500 milioni di Euro di mancati introiti per l’home video che, lo ricordo, ha un mercato complessivo di 340 milioni. Per combattere la pirateria sarebbe necessario lavorare tutti insieme sulla finestra theatrical. Perché se l’home video, che è la prima linea dopo la sala, non se la passa bene, anche gli altri sfrutta-menti non stanno molto meglio”.Nel frattempo, a scompaginare un po’ questi discorsi, c’è stata la no-tizia della nuova uscita nelle sale in estate di Un gatto in tangenziale. Perché quando il film è forte, an-che se esce dalla porta, può sempre rientrare dalla “finestra”…

voci - punti di vista

punti di vista

L’intera comunità scientifica uni-versitaria e molti cinefili curiosi si sono riuniti a Parma per parte-cipare al convegno “Il pensiero critico italiano. Scrivere di cinema dal dopoguerra al web” organizza-to dall’ateneo locale e curato da Michele Guerra e Sara Martin.Negli ultimi anni l’attenzione sempre crescente alla nostra tradizione cinematografica ha riaperto un cantiere di studi sul pensiero critico italiano, nel qua-le molti giovani studiosi stanno costruendo, mattone su mattone, il loro percorso di ricerca. Il dato anagrafico non è secondario poi-ché segno dell’attualità del tema, ma non sono mancati neppure gli interventi degli esperti. Roberto De Gaetano ha aperto il convengo con un discorso sulla forma criti-ca intesa come azione che confor-ma il pensiero, speech che ha sim-bolicamente introdotto al panel sui rapporti tra teoria e critica e a quello di carattere monografico sull’autore come critico. A fare da contraltare a questi temi consoli-

dati, due sessioni parallele rispet-tivamente dedicate ai video essay e a televisione e web, nuove forme mediali che hanno riconfigurato la figura del critico e modificato il comportamento dei fruitori, inne-scando pratiche di fidelizzazione e autorevolezza inedite, una ricca tornata che si è conclusa con l’in-tervento di Roy Menarini che qui ha anche presentato il suo nuovo libro Il discorso e lo sguardo. Forme della critica e pratiche della cinefilia. Ma il digital turn ha favorito an-che un lavoro “di scavo” e digi-talizzazione nelle biblioteche e negli archivi, inimmaginabile soltanto pochi anni fa. All’analisi delle riviste di settore al momen-to stanno lavorando diversi grup-pi di ricerca, tra i quali il team vincitore del PRIN (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale) “Comizi d’Amore”, che al con-vegno ha presentato l’intervento che ha aperto la sessione dedica-ta, appunto, alle riviste. Appro-fondimenti sulla stampa specia-lizzata sono stati curati anche da Emiliano Morreale che ha parlato di “archeologia del popolare” e da Francesco Di Chiara e Paolo

I L N U O V O P E N S I E R O C R I T I C O I TA L I A N Odi JENNIFER MALVEZZI

Noto, che hanno proposto un affondo sui rapporti di reciproca influenza tra critica e produzione cinematografica. Nondimeno sono emerse letture dedicate al contributo dato da figure, categorie o generi spesso trascurati in passato: differenti sessioni sono state dedicate ai cineamatori, alla critica femmi-nile, ma anche ai vivaci dibatti sul cinema nelle riviste d’arte, industriali e addirittura… di cuci-na! In merito a questo dualismo conflittuale tra il cinema inte-so come arte o, di contro, come strumento di servizio al reale al convegno è stato presentato an-che il nuovo volume di Marco Bertozzi Documentario come arte.Le tre giornate sono servite alla comunità scientifica per fare il punto sullo stato degli studi a li-vello nazionale e internazionale: sono infatti intervenuti relatori provenienti da diversi atenei sta-tunitensi, tra i quali Francesco

Casetti che ha chiuso i lavori in bellezza, definendo la critica come atto d’amore. Ma il Conve-gno di Parma è stata anche l’oc-casione per i padroni di casa per presentare gli esiti di un ampio progetto triennale.Nel 2015 infatti il Ministero dell’I-struzione, dell’Università e della Ricerca ha deciso di finanziare il progetto SIR (Scientific Indepen-dence of Young Researchers) dal titolo “Italian Film Criticism in Post-war Cultural and Popular Pe-riodicals (1945-1955)” coordinato da Michele Guerra. Per tre anni un team di ricerca composto da stu-diosi di cinema e informatici ha quindi lavorato per “riportare alla luce” una serie di contributi sul ci-nema all’interno di periodici cul-turali e popolari di diversi ambiti disciplinari che confluiranno en-tro la fine dell’anno in un database open access, dove chiunque potrà consultare, attraverso un intuitivo sistema di indicizzazione per tag, migliaia di articoli in formato pdf per scopi di studio, per amore del vintage o per curiosità. “Culture del Film”, questo il nome del database, permetterà di “toccare con mano” la pervasi-vità del discorso cinematografico in un periodo cruciale per l’Italia quanto per il cinema stesso. Il fer-vore di un’epoca segnata tanto dal

48/49

divismo quanto dalle riflessioni sul mezzo e sulle sue potenzialità attraversa la cultura italiana tut-ta, senza distinzione tra “alta” e “bassa”, investendo sia le riviste d’arte (Arti Visive, AZ, SeleArte, Emporium, Mercurio) che quelle di architettura (Domus, Architet-tura. Cronache e storia, Spazio, Stile), tanto i rotocalchi femmi-nili (Annabella, Bellezza, Grazia, Novità) quanto i periodici di po-litica e attualità (Il Politecnico, Rinascita, Società, Il calendario del Popolo, La cultura sovietica, Epoca), senza tralasciare le rivi-ste letterarie e teatrali (Il dram-ma, Sipario, Drammaturgia, Te-atro d’oggi, Arena, La Lapa) o le pubblicazioni industriali e di arti applicate (Edilizia Moderna, Fer-rania, Mani di Fata). “Culture del Film” permetterà così di ripensare alla tradizione del pensiero critico italiano, ri-considerandone il ruolo, l’impat-to e le funzioni all’interno di un più ampio discorso sul cinema e sui suoi destini nel dibattito cul-turale contemporaneo.

voci - punti di vista

Che serata il 23 giugno di quest’anno a Bologna! La Fondazione Cinete-ca di Bologna ha invitato Martin Scorsese perché conversasse con quat-tro registe e registi italiani di cinema: Matteo Garrone, Valeria Golino, Jonas Carpignano e Alice Rohrwacher. Teatro Comunale strapieno, risse telefoniche per avere un invito, per-sonalità da tutto il mondo, perfetta organizzazione e poi grande calore, emozione, applausi in piedi, “martin-scorsese-è-uno-di-noi”, insomma il coronamento perfetto per la 32esima edizione de “Il Cinema Ritrova-to”, Festival che ogni anno dimostra come la Cineteca di Bologna - oltre 100 dipendenti tra Fondazione e laboratorio di restauro - sia oggi, con la Mostra di Venezia, i broadcaster e il MiBAC, a livello mondiale tra le poche importanti istituzioni di cinema italiane. E anche una delle più grandi media company nel nostro Paese. Occupandosi solo ed unica-mente di cinema d’autore di provata qualità. Provateci voi. La sera del 23 giugno è stata memorabile, come quelle cene calorose che ancora il giorno dopo viene voglia di telefonarsi e continuare il discorso. Giornali, televisioni e poi tutto il gracidante mondo dei media fai-da-te, hanno riportato e amplificato le appassionate parole di Scorsese in difesa del cinema goduto in sala, “the collective film going experience” per lui piena di memorie “vado al cinema dal 1944”, componente sostanziale e generativa di ciò che è stato il cinema nel XX secolo, così come l’abbia-mo conosciuto e amato. “Dobbiamo far vergognare chi non aiuta e finanzia il cinema in sala”, ha detto Scorsese mentre i nostri quattro autori annuivano largamente e il pubblico fragorosamente approvava. Se non che, riprendendo il mi-crofono e chiedendo un po’ più di tempo per articolare il suo pensiero, Scorsese ha aggiunto un paio di cose che non ho visto riportate altrove, magari mi sbaglio. Scorsese ha detto (sintesi mie): “se sappiamo difenderla l’esperienza del cinema non scomparirà, il problema è trovare come convivere con altri modi di fruire il racconto videografico”, come per dire che questa convivenza deve diventare ricchezza. Gli hanno chiesto: “Ma allora bisogna insegnare cinema nelle scuole?” e lui ha risposto: “la nostra fondazione investe in programmi di alfabetizzazione visiva, insegnare

B E E T H O V E N E L A V I R T U A L R E A L I T Ydi CARLO CRESTO-DINA

che cosa significa un’inquadratura e soprattutto che un’immagine può essere letta e capita”, come dire che non importa insegnare l’opera li-rica nelle scuole, importa insegnare il senso della musica nella nostra esistenza. Ha aggiunto che l’alfabetizzazione visiva è tanto più urgente oggi con la regressione delle immagini a flusso ininterrotto. Ovviamen-te gli hanno chiesto della controversia digitale/pellicola e lui ha spiegato i perché della pellicola guardandosi complice con i suoi colleghi sul pal-co, ma poi ha detto che l’ultimo film l’ha girato tre quarti in pellicola e un quarto in digitale, e che tante volte usa il digitale perché se deve girare di notte in esterni servono meno luci e risparmia. Ha detto: “la mia ge-nerazione ha diritto di lamentare la fine del cinema in sala ma in questo momento sta nascendo altro, abbiamo avuto 100 anni di cinema e ora forse stanno iniziando 100 anni di qualcosa che sarà diverso”. E ha fatto un gesto con le braccia indicando i registi attorno a lui e ha proseguito: “E questo ‘qualcos’altro’ siete voi! Io sono il passato.” E su questo ha fatto un esempio: ormai sappiamo, dice Scorsese, che i drammi di Shakespeare erano scritti per essere rappresentati in modo molto diverso da oggi; il famoso monologo “to be or not to be”, ha spiega-to, veniva spesso recitato passando in mezzo al pubblico, rivolgendo di-rettamente agli spettatori le domande angosciose che scuotono Ham-let, quasi raccogliendo le loro reazioni. Se Shakespeare attraversasse i secoli e si sedesse in uno dei nostri compassati teatri con Amleto in nero nel cono di luce, dentro uno spazio vuoto e buio, salterebbe in piedi ur-lando: “Ma che cos’è? Mica l’ho scritta così io!!”. E ha aggiunto: “ogni generazione ha diritto di fruire l’arte nei modi che vuole, il problema è l’arte, il suo valore, il problema è se in questo mo-mento c’è un Beethoven che sta facendo virtual reality”. Tra le tante, bellissime cose che Scorsese ha detto, immagini di strada all’East Villa-ge, lampadine accese nei corridoi di condomini scuri, i film di John Ford nello splendore del Cinemascope, l’incontro con il realismo italiano, mi pare sia importante ricordare questa proiezione al futuro, la speranza che già oggi esista un “Beethoven che fa VR” m’è restata in mente. Mi sembra che se c’è un senso al nostro, faticoso ma comunque fortunato, lavoro è proprio nel cercare il Beethoven della VR.

50/51

voci - inchieste non ci sono più i cinema di una volta? Sì, ce ne sono di nuovi.

52/53

rewindRACCONTI DI CINEMA REPRINT ANNIVERSARI

54 La città delle donne La smorfia amorfa e lo scafandro di Silvio Danese

56 Un deserto di colori in un mondo pazzo quattro volte di Gianni Toti da “Giovane critica”, ottobre-novembre 1964

di Andrea Mariani

58 A 50 anni da C’era una volta il West

59 Quando la leggenda diventa realtà, vince la leggenda di Claver Salizzato

L A C I T TÀ D E L L E D O N N E

L A S M O R F I A A M O R FA E L O S C A FA N D R Odi SILVIO DANESE

racconti di cinema

rewind - racconti di cinema

Un giorno mi rendo conto che sto accumulando una strana cartel-letta di ritagli. Arianna, paladina social anti violenze, è morta stran-golata dall’ex. A Iglesias, Federica è stata sgozzata dal marito davanti ai tre figli. A Treviso, Irina 21enne incinta va in tomba perché non voleva abortire. A Palermo, Lidia si fa fotografare cerotti e tumefa-zioni in apertura di pagina. Elena Farina barista è stata lì lì, “Il mio ex mi ucciderà, stia in cella”, ma lui esce regolare, arriva al bar, però la pistola s’inceppa, evviva. Anche Antonietta, che invece se ne va ben sparata dall’ex. Poi c’è Mari-lena, la promoter che se ne sta in giardino sotto un po’ di terra get-tata dal vicino di casa, ma la testa al momento è in giro in qualche cassonetto. Le cartellette diven-tano due. Poi tre. E viene fuori la storia di Stefania. Ma qui, come faccio a riassumere? Lei e Dino, borghesia di media imprenditoria, l’amore al bowling e fuga nella vita davanti, due figli, 20 anni di matri-monio. E puntuali, rituali, botte. Poi il coraggio: Stefania si separa. Entra nella sua vita l’informatico Roberto. Una sera, nella nuova mansarda di Stefania, invita Dino per una cena con orata al sale. La questione è un’ambigua assicura-zione per i figli, e lei scoppia e lo informa: niente è più come prima. Dino non fa una piega, incassa gli insulti, occhi di ghiaccio che non si leggono dal burqa delle mani in-crociate sulla faccia. In due passi e mezzo giro del tavolo rotondo è sulla gola di Stefania. Quante altre volte. Questa è diversa. Quan-do Stefania è alla fine, la smorfia amorfa per rilascio dei muscoli sopraffatti da assenza di sangue, luminoso abbandono delle resi-stenze nel cervello per soffoca-mento, la mano trova quello che cercava, e Dino si becca sotto l’a-scella il Global Fillet G 18 Flexible Knife 24 per pulire l’orata, poi nel fianco, nella pancia, nelle brac-cia, 19 volte, e il Global finisce a bandiera nel costato. Penso: una che ce l’ha fatta. Lago di sangue. E lago d’Orta, dove Dino scivola cadavere da un tappeto, con l’aiu-to di Roberto, per cancellare una vita e pretendere quella nuova. Poi c’è il resto, il corpo riemerso

sul litorale, indagini, confessione, processo, difesa, sentenze. Ma è un’altra storia. Il punto è questo: Dino, il suo corpo spintonato dal-le correnti dei fondali, il Global Fillet sarcastica prova d’affetto sporgente, il silenzio navigante là sotto. Il punto è il sogno che ho fatto io, l’altra notte – dico l’al-tra notte, ma non so più quando, forse mesi, forse ogni notte di tutto il tempo che ha preso que-sto pensiero, perché, poi, quando sai con certezza che hai sognato e cosa sogni veramente? Avanzo tra fettucce di alghe e limacce, fi-bre e sterchi di legno galleggianti nel pulviscolo intorno, come i popcorn degli astronauti. I piedi affondano nella sabbia melmosa e sollevano torba fino alle ginoc-chia. Sono pesante pesantissimo. Mi muovo su questa broda cene-re, nel bagno d’acqua verdastra che mi schiaccia e mi copre non so quanto sopra di me. Dal mon-do di terra il buio riceve baglio-ri lenti che solcano un cielo di plastica opaca lassù. Respiro. Sì, pazzesco, respiro normale. Vengo dall’angoscia di un’apnea senza speranza. Se tiro dentro liquido nei polmoni muoio. E invece: re-spiro! Sono, non sorpreso, ma in-credulo, anzi illuminato dal mira-colo della inspirazione. Porta aria bella, gonfia, invece che acqua. Respiro, ma perché è un sogno, certo, e nei sogni si respira anche sott’acqua, e me lo ripeto mentre avanzo sentendomi dormire. Pos-so continuare a vivere, ok, quindi procedo accolto dal fango soffice che si solleva e sfuma dal basso, e avanti a piombo, ora cercando di intravedere qualcosa nella tra-sparenza notturna di una semio-scurità opprimente. Sto cercando qualcosa che la mia voce vorrebbe pronunciare e non riesce. Se par-li, la norma decade. Se apri, per dire, la bocca si riempie e soffochi strozzato. Cammino sul fondo e resto vivo nel magico equilibrio di silenzio e respiro. Non c’è ver-so di vedere più in là di qualche metro nel plasma torbato dove, mi accorgo, non passa neanche un pesce, accidenti non c’è nien-te che nuota, niente di vivo, una qualsiasi prova dell’umanità che sta sopra, oltre il mio cielo liqui-

do, superficie e specchio dell’altro cielo. Un’ambigua logica mi fa no-tare la speciale condizione di passeggiatore subacqueo senza pesi, ed è a questo punto, mi sembra, che mi accorgo di essere nudo. Sentendo il nudo sento il freddo. Sul ventre, sulle cosce, sul sesso. Tra i piedi, anzi di fianco, mi segue un tubo biscioso attaccato a me, alle mie spalle, pro-venienza lontana, da qualche parte del fondo infinito, e il mio respiro prende a rimbombare intorno alla faccia, ma lento, tranquillo come prima però chiuso, ufff, pausa, fffu, pausa, ufff pausa, fffu pausa, e non sono più nudo, cioè sono nudo, ma in uno scafandro, così adesso che mi trovo ricoperto dal ferro stagno come i palombari corazzati di anti-che avventure sottomarine non riesco più a vedere i miei piedi dal vetro tondo dell’elmo un po’ appannato, ma riesco a dare almeno un senso al peso delle gambe nell’armatura. E qui, da uno dei piccoli oblò laterali, altezza guancia, ore sette, compare, galleggiante da un sito archeologico di statue tristi e monche, prima un piede che avanza orizzontale, poi il polpaccio e la gamba intera, due piedi, sono due gambe che precedono forse un corpo, due gambe infilate in un tessuto gonfio sfilacciato navi-ganti qui di fianco. Sfilandomi orizzontale di fianco nella semioscurità di me palombaro si presenta tutto intero. Galleggia avanti superando-mi, lento più veloce, prima le gambe gonfie di un ripieno impensabile, poi il ventre col calzone sfatto, il costato incamiciato col ferro triste di vedetta e il volto concentrato nel letargo, bianco tetro nei panni sman-giati, le palpebre funebri. Ehi. Ma non parlo. Dico ancora: Ehi. Ma non sto parlando, ci tengo alla vita, non mi faccio fregare dall’acqua in bocca. Parlo nella mente, e lui rallenta. Galleggia steso, comodo e immobile. Rallenta. Mi sente, lui mi sente, sente le parole oltre lo scafandro di fer-ro mentre avanzo, un passo nella melma che esplode a rallentatore, un altro passo nel pulviscolo. Avanziamo insieme, io dritto pesante d’uma-no, lui sdraiato leggero di morte. Nell’opaca trasparenza passeggiamo sotto il cielo d’acqua verso una meta che s’allontana, lo spazio limitato di liquido verdastro che si apre mentre si chiude dietro nel buio peren-ne. Andiamo insieme, in cauta distanza. Abbiamo tanta strada davanti, qui sotto, e andiamo, tanto tempo davanti, tanto.

54/55

reprint

rewind - reprint

di A

ND

RE

A M

AR

IAN

I

Un deserto di colori in un mondo pazzo quattro volte di Gianni Totida “Giovane critica”, ottobre-novembre 1964, 5, p. 14-20

Giornalista siciliano, poeta (an-che cinematografico) e intellet-tuale eclettico e raffinato, Gian-ni Toti interviene con un lungo pezzo dalla sensibilità estetica spiccata, su un numero della rivi-sta “Giovane Critica”, una testata che merita una presentazione e qualche contestualizzazione. Su “Reprint” abbiamo già avuto modo in passato di ospitare con-tributi provenienti dalle pagine di fogli o riviste giovanili, se non proprio universitarie: lo abbia-mo fatto con “Centrofilm”, una testata importante proveniente dall’esperienza dei CUC, ovvero i Centri Universitari Cinemato-grafici. “Giovane critica” è un caso molto simile a “Centrofilm”, eppure profondamente autono-mo e originale nel quadro della pubblicistica cinematografica giovanile degli Anni ‘50 e ‘60. La rivista nasce nel dicembre 1963 per iniziativa di un giovane Giam-piero Mughini, nella Catania nei primi Anni ‘60, così spesso rac-contata dal giornalista nei suoi libri autobiografici. Il CUC nasce a Catania qualche anno prima, ma il passaggio del decennio tra i Cinquanta e i Sessanta vede un in-cremento esponenziale delle im-matricolazioni e un innalzamento progressivo dell’alfabetizzazione a livello nazionale, con la nuova Riforma scolastica da poco en-trata in vigore. Il CUC di Catania si ritrova ad essere il più impor-tante centro culturale della città siciliana: da qui l’idea di fondare un organo culturale che ne fosse l’emanazione. Il giovane Mughini, temendo di rimanere imbrigliato in un’impresa dal respiro corto e provinciale – con quel particolare

snobismo che lo ha sempre carat-terizzato, ma che è pure stato il propulsore di imprese ardite e lo-devoli – dà fin da subito alla rivista un taglio e una caratura nazionale, raccogliendo nella sua abitazione catanese i pezzi di giovani firme di prestigio della critica cinema-tografica nazionale, ma anche in-tellettuali di grande peso, siciliani e nazionali. “Giovane critica” si stava preparando a diventare, con lo scaldarsi della temperatura po-litica dopo il 1966, una delle riviste di punta della cultura politica gio-vanile degli Anni ‘60 e ‘70, facen-do il paio con “I quaderni piacen-tini” e “I quaderni rossi”… ma fino al 1965 “Giovane critica” conserva un baricentro per lo più cinema-tografico e di alto livello: le firme sono di Mino Argentieri, Adelio Ferrero, Lorenzo Pellizzari, Gior-gio Tinazzi, Pio Baldelli, i registi Giuseppe Ferrara e Gianni Amelio e tanti altri… Gianni Toti è tra gli intellettuali di maggior peso nella Sicilia di quei tempi, già direttore de “Il lavoro”, firma de “l’Unità”, “Via Nuove”, “Paese Sera”, futu-ro pioniere della “videopoesia”, e sul finire del decennio collabo-ratore di Cesare Zavattini ai “Ci-negiornali liberi”, che raccolsero molti dei registi più impegnati del giovane cinema italiano. Il gior-nalista e poeta imposta subito la riflessione sul piano dei rapporti tra cinema e poesia: “Il cinema sembra aver rinunciato, ormai, alla metafora, cioè alle figure, ai tropi, ai procedimenti innovativi del linguaggio-pensiero, alle for-mule di stile, alle variazioni se-mantiche. Al cinema niente è più ‘come’ o ‘come se’, ma ogni cosa è quello che è” e ancora più espli-

citamente “sono più di trent’anni che il processo di spoetizzazione del cinema continua”…è presto per Pasolini, e dunque il pensiero torna chiaramente al cinema e alla teoria di Ėjzenštejn, Dovzhenko, Vertov, “erano allora i rappresen-tanti riconosciuti della tendenza poetica del cinema […] Ma dove sono andate a finire oggi quelle appassionate polemiche, dove è andato a soffiare quello spirito ribelle contro ogni arte ‘piatta e protocollare’, contro il cinema d’appendice, contro il cinema delle ‘messe in scena’, delle ‘tra-duzioni visuali’?”. Va tenuto conto del fatto che il dibattito sul cine-ma e la teoria del cinema sovieti-ci – spunto qui per una polemica inevitabilmente anti-capitalistica – prendevano forza da un’impor-tante retrospettiva che si era chiu-sa poche settimane prima alla Mostra di Venezia, e che Adelio Ferrero aveva discusso proprio su “Giovane critica” nel numero pre-cedente a quello che stiamo trat-tando. E lo spunto è occasione per una polemica, seppure elegante, con l’Antonioni di Il deserto rosso e il potere metaforico dell’uso del colore che il regista ferrarese fa nel suo film. “Qualcuno si illude”, scrive Toti, che “basti qualche poeta del cinema a ricondurre lo schermo da quel suo ‘sospetto biancore’ all’incandescenza della creatività artistica, ma non è nep-pure una illusione riformistica, è una illusione semplice e tota-le”. E da lì si lancia in una preca-ria dimostrazione della fragilità simbolica (ma anche ontologica, filosofica) della strategia croma-tica introdotta da Antonioni, sulla quale lasciamo il lettore.

56/57

IN QUESTO NUMERO UN ARTICOLO ESTRATTO DALLA RIVISTA

“GIOVANE CRITICA”1964

anniversari

a 50 anni daC’ERA UNA VOLTA IL WEST

rewind - anniversari a 50 anni da C’era una volta il West

Le foto della sezione ‘Anniversari’ sono state gentilmente concesse dall’archivio fotografico ©

Si ringraziano Dott. Gabriele Antinolfi, Direttore CN; Dott.ssa Viridiana Rotondi, Responsabile Archivio fotografico della CN; Dott. Alessandro Andreini, ricerca e elaborazione immagini Archivio fotografico della CN.

58/59

QUANDO LA LEGGENDA DIVENTA REALTÀ, VINCE LA LEGGENDA

Quando Sergio Leone, nei primi Anni ’60, si trasferì negli USA alla fortunosa ricerca dell’interprete giusto per il suo Pugno di dollari e s’imbatté in un ancora impac-ciato ed imberbe Clint Eastwood, non avrebbe mai immaginato che, dopo nemmeno un lustro da allo-ra, si sarebbe trovato a dirigere dei veri macigni di Hollywood come Henry Fonda, Jason Robards, Charles Bronson. Non si sarebbe mai nemmeno immaginato che alla sua corte avrebbero avuto ac-cesso due fra i cineasti italiani più promettenti dell’epoca come Ber-nardo Bertolucci e Dario Argen-to, destinati, per strade del tutto differenti, ma di egual valore, a segnarne profondamente i per-corsi futuri. Per dar vita e respiro all’impalcatura ideale e pratica, ovverosia al soggetto, di C’era una volta il West. Classe 1968.Leone proviene, in quella fase della sua carriera, dai fasti e dal clamore della cosiddetta “Trilo-gia del Dollaro” (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo) che ha appena finito di incassare com-plessivamente nelle sale del Bel Paese lo sproposito di circa dieci miliardi della vecchia moneta nostrana, dando nel contempo la stura alla fortunatissima e get-tonatissima stagione del western italian style, o “spaghetti western” nella sua accezione più dispregia-tiva e colorita, e sta per darne alle stampe una versione mastodonti-ca e terminale, come quando i Be-

Claudia Cardinale durante una pausa di C’era una volta il West di Sergio Leone, 1968. Foto di Angelo Frontoni. ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale - Museo del Cinema di Torino

di CLAVER SALIZZATO

Charles Bronson sul set di C’era una volta il West di Sergio Leone, 1968. Foto di Pierluigi Praturlon. ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale

rewind - anniversari a 50 anni da C’era una volta il West

atles avevano cantato per l’ultima volta insieme sul tetto del palazzo della Apple Records nel centro di Londra, All You Need Is Love. Mastodontica, nel senso di kolos-sal(e), perché stavolta a produrre è una major come la Paramount, sia pure affiancata dalla neonata compagnia leoniana Rafran (dai nomi dei figli del regista, Raffaella, Francesca e Andrea). Terminale, perché quel C’era una volta... del titolo sta proprio a significare che qui si tratta di qualcosa che è lega-

to ad una favola che, come tutte quelle che si rispettano, non ha alcuna dimensione in un doma-ni, ma soltanto nell’hic et nunc del racconto presente, bastevole a se stesso, secondo il postulato che l’Eroe e le sue imprese non invec-chiano mai.È la favola di un West popolato da figure senza tempo (appunto) che incarnano solo la rappresen-tazione mitologica di una Storia: un uomo che nessuno conosce, Armonica, sbarca un giorno da un treno per cercare e poi affrontare, in un gunfight a morte, un efferato pistolero, Frank, che in un remoto passato gli ha ucciso, dopo una lunga scia di sangue, il fratello, costringendolo a morire su una forca improvvisata (particolare non indifferente, poi rivelato in un flashback finale: essendo co-stretto egli stesso a sorreggere il fratello in piedi sulle sue spalle, cadendo per l’insopportabilità del peso sul suo corpo da ragaz-zino adolescente, diventa esecu-tore materiale della condanna). Dentro questo meccanismo che appartiene ai fondamentali del “genere”, fin dal capostipite Om-bre rosse di Ford (anche là Ringo, l’eroe-non-eroe, torna da qualche parte per vendicarsi di un torto su-bito e riportare ordine e pace dove c’era solo caos), Leone e Sergio Donati, suo fedele sceneggiatore, incastonano, come una gemma in un gioiello, il personaggio femmi-nile (massima eresia per un film western) di Jill, una Penelope/Andromaca/Medea/Baccante e chi più ne ha ne metta, da teatro classico greco, intorno alla qua-le ruoterà l’intera vicenda (altra massima eresia) della Nascita di una Nazione (Sweetwater), con tutte le sue bassezze e grandiosità, portate dalla Ferrovia e dalla Ci-viltà, che spazzeranno una razza e ne insedieranno una nuova.

Lionel Stander in C’era una volta il West di Sergio Leone, 1968. Foto di Angelo Frontoni. ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale - Museo del Cinema di Torino

Claudia Cardinale durante una pausa di C’era una volta il West di Sergio Leone, 1968. Foto di Angelo Frontoni. ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale - Museo del Cinema di Torino

60/61

Nessun regista americano, diret-tamente coinvolto in una faccen-da così intima e connotata alle origini della propria Terra, avreb-be mai potuto darne una lettura tanto straniante e tanto iperboli-ca, sommamente iperrealistica. Solo un “oriundo” apolide che avesse accostato quelle origini non attraverso la vita vissuta, ma la mitologia raccontata ed appre-sa da voci straniere, poteva am-bire a dipingere un affresco così allegorico e paradigmatico di un intero evo, della Storia e del Cine-ma. La potenza, poi, della rappre-sentazione e della messinscena leoniane, apprese e assimilate, e quindi riproposte a modo proprio (le inquadrature in panfocus, l’uso degli obiettivi fotografici a focale lunga, l’utilizzo del ralenty, il gusto per i particolari e i dettagli, la pre-dilezione per lo schermo panora-mico, il piacere del travelling come mezzo narrativo), dalla grande lezione americana degli Anni ’50 della Hollywood sul Tevere (tutto già contenuto nella meravigliosa sequenza della corsa delle bighe in Ben Hur di William Wyler, una lezione che Leone non poteva mai dimenticare), fa del film l’apoteosi di un modo quasi “Divino”, alla De Mille/Occhio di Dio, di concepire l’arte cinematografica.Ma per ricordare degnamente e quindi celebrare, com’è giusto e doveroso, dopo cinquant’anni spaccati, un film epocale ed em-blematico come C’era una volta il

West (prima uscita in sala il 21 di-cembre 1968, anno fatidico di rivo-luzioni, sugli schermi e fuori, con un incasso complessivo di circa due miliardi e mezzo di Lire), è ne-cessario, utile e opportuno fare un passo indietro sui Sentieri Selvaggi e polverosi del genere più antico (The Great Train Robbery, di Edwin S. Porter, con la colt che spara al pubblico in platea, origine della specie, risale al 1903) e codificato di Hollywood e dintorni.Quando il figlio di Roberto Ro-berti (“direttore” per eccellenza della divina Francesca Bertini, vamp del Muto), Bob Robertson, al secolo (purtroppo ormai pre-maturamente trapassato) Sergio Leone, mette in scena il primo atto della sua personalissima Pa-storale Americana, che verrà poi sbrigativamente e abbastanza pedestremente derubricata, da una critica sciatta e, come spesso accade anche oggidì, vanaglo-riosa, con la locuzione “Trilogia del West” o, più a proposito, “del Tempo” (con C’era una volta in Messico/Giù la testa e C’era una volta in America), il “modello” Western, hollywoodiano ed euro-peo (soprattutto italiano), ne ha viste tante di cose che “voi umani non potete neanche immagina-re”, da tramutarsi in una sorta di residuato bellico, di rara avis più difficile da scovare, che da imbal-samare ad eterna memoria nella teca dorata di un Museo Egizio. Qualcuno - André Bazin nel suo

imprescindibile saggio Evoluzione del western contenuto nella pre-ziosa raccolta di scritti Che cosa è il cinema? del 1958 – fa risalire tale mutazione soprattutto a titoli quali Mezzogiorno di fuoco (High Noon, di Fred Zinnemann) e Il ca-valiere della valle solitaria (Shane, di George Stevens), fra il 1952 e ’53 (vanno sottolineate, per amor del vero, le date e le identità dei registi che, con l’argomento, c’entrano poco o nulla). Una metamor-fosi kafkiana che Bazin chiama “sur-western”, l’inizio della fine di un’epopea ed insieme la sua più alta espressione poetica. Ma l’au-tentica pietra miliare, la “madre di tutte le battaglie” che verranno combattute su questo fronte e che porteranno fin sulle estreme rive della Camelot leoniana, quando il grande critico francese stila le sue valorose note non è neanche all’orizzonte e non se la può nem-meno lontanamente immaginare. Anche perché, oltre ad una que-stione di tempi (quando il fat-taccio avviene siamo ormai fuori dagli Anni ’50, nel promettente 1962), c’è pure che il suo demiur-go è proprio colui che il “modello” di cui sopra l’ha tenuto a battesi-mo, comunicato e cresimato in circa mezzo secolo di storia. Si tratta, nientepopodimeno, che di Lui, John Ford, il padreterno di

tutte le Praterie, le Diligenze, le Cavallerie, le Valli Monumentali, le Sparatorie, divenute famose in ogni angolo del pianeta sotto la definizione di Frontiera. Nel ’62, difatti, con L’uomo che uccise Liberty Valance (nel cui cast, va cerchiato in rosso, compare un certo Lee Van Cleef ), l’ “uomo che diede vita al Western”, inteso come storytelling della Nazione americana, decide di sparigliare le carte e fa pronunciare ad uno dei suoi personaggi (Maxwell Scott, il direttore del giornale “Shinbo-ne Star”), alla fine del film, con una sudicia e cadente diligenza dietro di sé, marchio di fabbrica dell’officina fordiana, le fatidiche parole: “Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”. Mentre il protagoni-sta, Tom Doniphon/John Wayne, giace in una bara di quattro scon-nesse assi di legno, là vicino, il suo antagonista, Ransom Stoddard/Ja-mes Stewart non può far altro che officiarne le esequie come si con-viene, rievocandone la vita, e tutto questo plot si può condensare in un unico assunto, allegorico: il West...ern è morto, viva il West...ern!Ford stila l’atto di nascita e redige il certificato di morte del mestiere più vecchio del mondo, il Westerner.Apres lui, le déluge.

LA LETTURA IPERBOLICADI UN ORIUNDOAPOLIDE

rewind - anniversari a 50 anni da C’era una volta il West

È a partire da questo momento, da quelle parole sul valore della leggenda e della realtà, e sulle loro interconnessioni e ricorrenze sto-riche, che si chiude l’era del genere come “racconto”, più o meno co-lorito e folk, degli eventi insiti in un popolo e in una cultura, ed inizia quello, triste, solitaria y final, dell’ “elegia” che trasfigura quel raccon-to in Chanson de Geste omerica.Leone, con la sua opera, che per quanto riguarda l’argomento di queste righe culmina nell’elegiaco (appunto) canto del cigno di C’era una volta il West, è il primo esegeta mondiale della nuova dottrina del suo maestro John Ford, colui che, convenuto al capezzale del defun-to, comprende prima di altri (Sam Peckinpah, di lì a poco, dà alla luce l’altro epigono, il suo Mucchio sel-

vaggio) l’importanza e la necessità, una sorta di imperativo morale dello spettacolo, di narrarne, non tanto e non più, perché quel treno è oramai passato, gli atti mortali, ma le imprese immortali. La “ragion pura” del Western, destinata a consumarne, via via, l’essenza, come un fuoco che consumi la vittima sull’altare dei sacrifici. Così impugna, non la colt che ci si sarebbe potuto aspettare da bambini, ma la cetra e, come un terri-bile imperatore Nerone, compone versi e canti mentre Troia (o Roma) brucia. Esametri epici su cavalieri senza nome (Per un pugno di dollari), stranieri che tornano a Itaca, dopo aver attraversato “l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei” di Iliade e Odissea, per compiere il Fato (Per qualche dollaro in più), eroi ed antieroi guidati dai capricci degli Dei (Il buono, il brutto, il cattivo), guerrieri che si rincorrono sulla rena, davanti alle Porte Scee, in cerca della loro Nemesi (C’era una volta il West). È dunque a questo estremo (estremo in ogni senso, etico ed estetico) film di Sergio Leone, regista italiano, intrinsecamente romano, che cinquant’anni or sono ha più o meno l’età del Genere yankee per anto-nomasia, nato con il cinema stesso, in quella stessa parte di California sotto la collina di Beverly Hills destinata a guidare in futuro e pratica-mente nei secoli dei secoli che verranno le cinematografie dei conti-nenti, che si deve attingere, cui si deve ogni volta tornare, per ammi-rare il Monument da lui eretto sui resti di una gloriosa civiltà. C’era una volta il West è, nello stile e nella sostanza, la versione No (Kurosawa

docet, fra Yojimbo, Il trono di sangue e Ran) della cronaca e del Mito della Frontiera. La Leggenda fordiana all’ennesima potenza. Se Bazin non fosse mancato dieci anni esatti prima, certamente ne avrebbe annotato la contiguità e la consequenzialità ultimativa con Shane e High Noon, campioni terminali di un’Epos al tramonto. Come nel primo, i caratteri messi in campo da Leone nel suo tragi-co ritratto di un’Era, più fiabesca che cinematografica, non sono altro che “maschere” di un teatro di ombre cinesi in una fumeria d’oppio (magari quella che dà forma ai fantasmi di Noodles in C’era una volta in America) in cui Bene e Male, Ying e Yang, com-battono la loro sempiterna lotta circolare senza vinti né vincitori. I nomi stessi, Armonica, Cheyen-ne, Ciuf-ciuf (l’onomatopea con cui verrà definito il “padrone del-le ferriere” Mr Morton/Gabriele Ferzetti), Frank, Jill, testimonia-no la loro natura di marionet-te di una picaresca Commedia dell’Arte ambientata in un Ovest che non ha più ragione di esiste-re. E, come nel secondo, tutta la vicenda si incastona nell’osses-sione di un Tempo che trascorre inesorabile e ogni cosa porta via con sé. Il cerchio (e la circolarità, appunto) è infatti la figura geo-metrica preminente, qui e in tutto il cinema leoniano, qui portata al parossismo. Parossismo di orolo-gi d’ogni tipo e dimensione, e di spazi nei quali inscenare le sfide all’Ok Corral. Il Tempo dei fla-shback, il Tempo dilatato delle attese, il Tempo accelerato, spez-zato, quasi inavvertibile ad oc-chio umano per la sua fulminea velocità, delle pistole che sputa-no fuoco e morte. Il Temps perdu di proustiana ascendenza (“Cosa hai fatto in questi anni?” - chie-de Fat Moe a Noodles vecchio; “Sono andato a letto presto” - ri-sponde lui) e mai più retrouvé. Il Tempo che John Ford ci metteva a fare un film e che Leone consu-ma già tutto nel prologo del suo. Qui comanda non più il West, ma la sua Apocalisse.

IL CANTO DEL CIGNO

Claudia Cardinale e Charles Bronson sul set di C’era una volta il West di Sergio Leone, 1968. Foto di Angelo Frontoni. ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale - Museo del Cinema di Torino

62/63

anche l’effetto di una generale vo-cazione per il racconto: l’America, ai miei occhi, appare come una lunga e crudele notte araba. Per questo il mio cinema è popolato di ladri di Bagdad, di principesse rapite, di maghi cattivi, di uccelli Roc, e la loro eloquenza, quando ne hanno una, è quella che sa dar-gli Sherazade. Raccontare, cattu-rando l’attenzione del pubblico, oppure la sentenza di morte verrà eseguita all’alba”.Dopo tutto questo, dopo C’e-ra una volta il West, dopo cin-quant’anni dalla sua uscita, il Genere “per antonomasia” non è mai più stato quello di “prima della rivoluzione”, non è mai più stato né il racconto della Storia Patria, né la sua commemorazio-ne barocca e trompe l’oeil. Anzi, non è mai più stato, nemmeno qualcosa di diverso da se stesso, se non indulgente autocitazione e

spettacolarizzazione del proprio, ahinoi estinto, lignaggio e magi-stero. Un po’ come, se si vuole usare la lingua delle immagini, l’uomo che uccise Liberty Valance chiuso ormai dentro poche assi sconnesse di legno scadente con un fiore di cactus sul coperchio. Oppure Armonica che se ne esce per sempre dall’inquadratura e dal progresso della civiltà, e sa che a Sweetwater non metterà mai più piede, “un giorno o l’altro”, come sembra promettere a Jill.Perché, appunto, come diceva quel tale, “Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa real-tà...” con quel che segue.Buon compleanno, C’era una volta il West…ern. Cento e non più cento di questi giorni.

“C’era una volta...” significa proprio questo: che tutto ciò che ci viene mostrato e che vedremo sullo schermo, è solo ombra e polvere di ciò che non c’è più e non potrà mai più ritornare se non in un sogno dolo-roso da cui, prima o poi, ci si dovrà svegliare. Come nelle parole dello stesso regista, mai pubblicate in passato e che è giusto dare oggi, cin-quant’anni dopo, alle stampe in esclusiva, per magnificare la sua opera, che restituiscono in pieno i suoi intendimenti, la sua idea del mondo e del Cinema, con la “c” maiuscola: “Il mio cinema vuole essere un fatto essenzialmente popolare. Non voglio essere ricordato come un filoso-fo, a differenza di tanti miei fratelli in celluloide. Voglio essere ricordato come un intrattenitore. Oppure dimenticatemi proprio. Dico davvero. Il mio interesse per il cinema, anzi l’universale interesse per l’America, è

“NON RICORDATEMI COME UN FILOSOFO, ANZI DIMENTICATEMI PROPRIO”

Claudia Cardinale e Sergio Leone sul set di C’era una volta il West di Sergio Leone, 1968. Foto di Angelo Frontoni. ©Archivio fotografico della Cineteca Nazionale - Museo del Cinema di Torino

latestSCANNER

CINEMA ESPANSO

GEOGRAFIE

RICORRENZE

RICORDI

INTERNET E NUOVI CONSUMI

FOCUS NUOVA ZELANDA

MARKETING DEL CINEMA ITALIANO

INNOVAZIONI

66 La sfida della Legge Cinema al mondo delle sale di Federica D’Urso, Iole Maria Giannattasio, Bruno Zambardino

75 Metti una nuvola nel blockbuster di Ilaria Ravarino

80 VA TAPUIA! La forza creativa della diversità di Catherine Fitzgerald

82 Calzature Divine di Stefano Stefanutto Rosa

87 Özpetek e le stelle digitali di Nicole Bianchi

88 Prandino, conte & regista di Corrado Colombo

90 L’Adriatico di Fellini di Oscar Iarussi

92 Una bicicletta per l’Italia del ’48 di Nicole Bianchi

94 Anna Maria Ferrero (1934-2018) Via dal cinema per amore di Laura Delli Colli

95 Carlo Vanzina (1951-2018) Il critico (gentile) che non c’è stato di Rocco Moccagatta

96 Falchi e colombe contro Netflix & Co. di Roberta Chiti

98 Le tre eresie del cinema di Gianni Celata

100 Ritorno alla Luna, da Méliès alla realtà virtuale di Carmen Diotaiuti

102 L’anno der canaro di Andrea Guglielmino

104 BIOGRAFIE

latest - scanner dati e tendenze del mercato audiovisivo a cura di DG Cinema

scanner

LA SFIDA DELLA LEGGE CINEMA AL MONDO DELLE SALEdi FEDERICA D’URSO, IOLE MARIA GIANNAT TASIO, BRUNO ZAMBARDINO*

Dal combinato disposto del Piano straordinario

e delle misure fiscali a favore del potenziamento

delle sale sul territorio nazionale - ben 46 milioni

di euro solo per l’annualità 2017 - si attendono effetti

decisivi per modernizzare un buon numero di strutture,

creando le condizioni favorevoli per aumentare il flusso

di pubblico e soprattutto far tornare in sala fasce

di popolazione ormai disaffezionate.

* con la collaborazione di Azzurra Teoli

66/67

Le risorse stanziate dalla DG Cinema a favore delle sale (anno 2017)

LINEE DI INTERVENTO PER LE SALE

Tax credit per le strutture

16M€

Premi d’essai

5M€

Tax credit per le programmazione

30M€Fondi selettivi piccole sale

960K€Piano straordinario

30M€

Fondi Cipe

2M€

Questa è una fase storica particolarmente delicata per il mondo dell’e-sercizio, che deve fare i conti con uno scenario in forte evoluzione in cui le modalità di fruizione dei film – soprattutto per alcune fasce di età - si diversificano e puntano sempre di più verso piattaforme distributive on line, e in cui si assiste ad un progressivo spostamento degli investimenti verso la serialità televisiva.Lo confermano i dati non incoraggianti sul versante degli incassi e delle presenze, soprattutto del cinema italiano, che ha visto nel 2017 un calo di ingressi in sala del 12,38% rispetto al 2016 (92,3 milioni anziché 105,3) e una riduzione dell’11,63% al box office (584,8 milioni di euro nel 2017 invece dei 661,8 milioni del 2016). È in questo contesto che i primi provvedimenti previsti dalla Legge Franceschini per risollevare le sorti del comparto entrano in una fase operativa. Può essere utile allora offrire un quadro dei diversi interventi previsti a sostegno dell’esercizio cinematografico, con un focus sul Piano straor-dinario per il potenziamento del circuito delle sale cinematografiche e polifunzionali previsto dall’articolo 28 della legge n. 220 del 2016, per cui sono stanziati 30 milioni di euro per l’anno 2017. Buona parte delle risorse sono erogate tramite lo strumento del credito

d’imposta, che può contare su 16 milioni di euro riservati agli investi-menti per l’adeguamento strutturale e tecnologico, cui si aggiungono 30 milioni destinati al potenziamento dell’offerta cinematografica, con particolare attenzione alla programmazione di film italiani ed europei, alle proiezioni nel periodo estivo e in sale d’essai o ubicate in piccoli comuni. Ulteriori 5 milioni riguardano i premi d’essai, che consistono nell’attribuzione di contributi alle sale di qualità sulla base del volume di film d’essai proiettati, sia lungometraggi che cortometraggi.Sono previsti ulteriori interventi di minor importo ma altrettanto rile-vanti dal punto di vista delle finalità. Tra questi un fondo “una tantum” per le piccole sale, che attinge ad una dotazione extra rispetto alla Legge Cinema grazie a fondi CIPE non ancora utilizzati e che verranno impie-gati per investimenti tecnologici legati alla digitalizzazione degli im-pianti, come ad esempio i sistemi per migliorare l’accessibilità delle sale da parte di persone con disabilità sensoriale e cognitiva. Poco meno di un milione è infine destinato alle piccole sale per attività di diffusione della cultura cinematografica; tali sale sono caratterizzate dal radicamento sul territorio di riferimento e dal coinvolgimento del pubblico giovanile; sono incoraggiate anche particolari iniziative tese a favorire l’intrattenimento culturale di persone con disabilità o l’inse-rimento culturale e sociale di soggetti con problemi di emarginazione, nonché strategie di multi-programmazione. La linea di finanziamento appena descritta non è ancora stata resa operativa.

latest - scanner dati e tendenze del mercato audiovisivo a cura di DG Cinema

IL PIANO STRAORDINARIO

Il primo provvedimento già esecutivo è il Piano straordinario per il po-tenziamento delle sale cinematografiche e polivalenti.Entrato in vigore il 12 ottobre 2017,1 dispone di una dotazione comples-siva di 120 milioni di euro in 5 anni, di cui 30 milioni per gli anni 2017, 2018 e 2019 e altri 30 per i due anni successivi (20 per il 2020 e 10 per il 2021). Si tratta di contributi a fondo perduto distribuiti su quattro linee di intervento. Le risorse sono indirizzate in modo prioritario (50%) a la-vori di riattivazione di sale chiuse o dismesse e di creazione di citiplex urbani per arrestare il grave processo di desertificazione che numero-si centri urbani stanno subendo da diversi anni: una misura pertanto che dovrebbe contribuire a rilanciare i cinema urbani e di prossimità, probabilmente più vicini alle caratteristiche dei consumi culturali 2.0, improntati a personalizzazione, rilevanza, multitasking e interattività.

Un 25% è inoltre destinato alla realizzazione di nuove sale, prevedendo anche l’acquisto dei locali e dei servizi connessi. Un ulteriore 15% è fina-lizzato alla trasformazione delle sale esistenti con l’obiettivo di aumen-tare il numero di schermi, mentre un 10% riguarda la ristrutturazione e l’adeguamento strutturale e tecnologico della sala, includendo quindi anche il rinnovo di impianti, apparecchiature, arredi e servizi comple-mentari alle sale.Di tali contributi possono beneficiare le imprese di esercizio cinema-tografico italiane, purché rispettino i requisiti di accesso e fruizione per le persone con disabilità, svolgano l’attività di proiezione per almeno i cinque anni successivi alla richiesta e si impegnino a riservare per tre anni il 35% della programmazione a film italiani ed europei.Il Ministero indica una serie di priorità nella concessione dei contribu-ti in base alla localizzazione geografica delle strutture, con l’intento di garantire un accesso alle risorse equilibrato ed omogeneo sul territorio senza trascurare le realtà più deboli. Difatti nell’assegnazione viene data la precedenza innanzitutto a quelle sale che si collocano in comuni che sono stati interessati da eventi si-smici, seguono le sale storiche, le sale ubicate in comuni con meno di 15 mila abitanti o quelle ubicate nelle periferie urbane, senza escludere una premialità nel caso di investimenti realizzati da micro imprese o piccole imprese.

1 Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 4 agosto 2017 avente ad oggetto “Disposizioni applicative del Piano straordinario per il potenziamento del circuito delle sale cinematografiche e polifunzionali”. Gazzetta Ufficiale n.239 del 12 ottobre.

Piano straordinario sale

RIPARTO RISORSE 2017

• riattivazione sale cinematografiche chiuse o dismesse (50%)

• realizzazione nuove sale, anche mediante acquisto di locali per l’esercizio cinematografico e per i sevizi connessi (25%)

• trasformazione sale o multisala esistenti in ambito cittadino finalizzata all’aumento del numero degli schermi (15%)

• ristrutturazione e l’adeguamento strutturale e tecnologico sale; l’installazione o il rinnovo di impianti, apparecchiature, arredi e servizi complementari alle sale (10%)

68/69

A tutti i beneficiari è richiesto anche un impegno circa la desti-nazione d’uso e la programma-zione. Infatti uno degli aspetti più innovativi del piano straordinario riguarda le particolari condizioni di vantaggio previste per quei pro-getti che proporranno, anche in accordo con gli enti locali, un’of-ferta di eventi culturali, creativi, multimediali e formativi in grado di contribuire alla sostenibilità economica delle strutture, ovve-ro alla valenza sociale e culturale dell’area di insediamento.Nel caso di riapertura e realiz-zazione di sale o di aumento del numero di schermi, la richiesta di contributo di una monosala non può superare i 2 milioni di euro, mentre per una multisala si parte da 2 milioni di euro per gli interventi riguardanti la prima sala e le parti comuni, per poi po-ter avere fino a 350 mila euro in più per ogni ulteriore sala, senza superare il limite massimo di 6 milioni di euro per struttura. Gli

interventi di ristrutturazione e adeguamento tecnologico, inve-ce, non possono superare il costo eleggibile di: 650mila per le mo-nosala, 1.250.000 per le multisa-la a 2 schermi, 1.750.000 per le multisala a 3 schermi, 2.100.000 per le multisala a 4 schermi e 2.250.000 per le multisala a 5 o più schermi. Nel caso di multi-sala da 1 a 3 schermi dichiarate di interesse culturale, il massima-le di costo eleggibile equivale a 1.750.000 euro.Le richieste di contributo pos-sono essere presentate alla DG Cinema attraverso la modulistica on line presente sulla nuova piat-taforma informatizzata DGCol nel periodo compreso tra l’1 feb-braio e il 30 aprile per ognuno dei cinque anni di attività del Piano straordinario. A seguito dell’assegnazione, vie-ne erogato il 30% del contributo, mentre la restante parte viene sal-data entro 90 giorni dal termine dei lavori previsti.

ESITI PARZIALI DELLA PRIMA ANNUALITÀ 2017

Lo scorso 16 maggio è stato pubblicato un primo elenco provvisorio delle imprese beneficiarie dei contributi per le prime tre linee di intervento previste dal Piano straordinario. Complessivamente sono state approvate 25 domande sulle 88 ricevute, per un finanziamento totale di 26,6 milioni di euro, la cui l’ammissibilità preve-deva, tra gli altri parametri, l’avvio dell’investimento nel periodo compreso tra il 1 gennaio e il 12 ottobre 2017. Per la prima linea di intervento riguardante la riattivazione di sale chiuse o dismesse, sono sette le imprese ad avere ottenuto il contributo, per complessivi 7,3 milioni di euro utilizzati rispetto ai 15 milioni di euro a dispo-sizione; le risorse in eccedenza sono state ridistribuite sulle altre linee di intervento. Tra le sale ritornate in attività grazie al piano straordinario ci sono, per esempio, il Cinema Troisi di Roma riaperto dall’Associazione Piccolo Cinema America e “Il Garibaldi” (ex Cinema Excelsior) di Prato, rimesso in sesto da Civico 69 s.r.l.

La seconda linea di intervento ha invece contribuito alla realizzazione di otto nuove sale, tra cui il CityLife Anteo di Milano, il Multisala Red Carpet a Monopoli (BA) e il Cinema Victoria Mirandola, proprio nell’omo-nimo comune in provincia di Modena colpito dal terremoto dell’Emilia del 2012. In totale le risorse concesse per tale linea equivalgono a 9,5 milioni, che eccedono rispetto ai 7,5 disponibili, potendo contare sulle risorse eccedenti della prima tipologia di intervento.

La terza linea riservata alla trasformazione delle sale e all’aumento del numero di schermi ha infine premiato dieci imprese di esercizio, per un totale di 9,7 milioni di euro invece dei 4,5 milioni inizialmente previsti. Le sale vincitrici hanno diversa collocazione geografica e vanno dall’Anteo - Palazzo del Cinema di Milano, al Cinema Pierrot di Napoli, fino al Cinema Loren di Praia a Mare in Calabria.

Nel momento in cui si scrive si sta concludendo il lavoro istruttorio relativo alla quarta linea di intervento relativa alla ristrutturazione e all’adeguamento strutturale e tecnologico della sala, per la quale sono giunte ben 139 richieste pur trattandosi della linea con la dotazione finanziaria più contenuta.

latest - scanner dati e tendenze del mercato audiovisivo a cura di DG Cinema

LE MODIFICHE AL DPCM PER L’ANNUALITÀ 2018:LA NOVITÀ DEI CINEMA IN CORSIA

Nel febbraio 2018 al decreto relativo al Piano straordinario per il po-tenziamento del circuito delle sale cinematografiche e polifunzionali, sono state apportate alcune significative modifiche in riferimento ai beneficiari del contributo e ad una particolare destinazione di parte delle risorse.Nel dettaglio, la Presidenza del Consiglio, su proposta del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha stabilito che, per il quadriennio 2018-2021, il 10% delle risorse annue disponibili per il pia-no straordinario venga riservato alla realizzazione di nuove sale nelle strutture ospedaliere pubbliche o private convenzionate, da parte di enti del terzo settore con comprovata esperienza nella programmazio-ne cinematografica. L’accesso a tali sale deve essere ovviamente garan-tito gratuitamente ai pazienti delle strutture, ai loro accompagnatori e al personale medico-sanitario, in linea con l’idea che il cinema possa dimostrare il proprio potenziale benefico proprio su coloro che per di-verse ragioni si trovano ad affrontare problemi di salute e a dover sog-giornare per lungo tempo negli ospedali.Altra sostanziale modifica apportata al piano straordinario riguarda la formalizzazione dell’ampliamento delle categorie dei destinatari: ol-tre alle imprese di esercizio cinematografiche italiane già previste dal DPCM-Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 4 agosto 2017 (articolo 4, comma 1), ora possono ufficialmente fare richiesta e bene-ficiare dei contributi anche i Comuni o altri soggetti pubblici, a condi-zione che, in caso di assegnazione, le risorse vengano impiegate da una impresa di esercizio cui l’ente locale dovrà affidare la gestione della sala.Per quanto riguarda le richieste di contributo relative al 2018, saranno finanziati gli investimenti che prenderanno avvio entro un anno dalla domanda e che dovranno concludersi entro due anni.

IL TAX CREDIT PER GLI INVESTIMENTI

Accanto al Piano straordinario – come già detto – è prevista una linea di intervento stabile ed ordinaria che, al posto del desueto meccanismo dei contributi in conto capitale e conto interessi, concede crediti di im-posta sugli investimenti relativi alle stesse tipologie di intervento del Piano straordinario ma con una ripartizione delle risorse differente che privilegia l’adeguamento strutturale e tecnologico delle sale. In questo modo l’esercizio si allinea agli altri segmenti della filiera (produzione e distribuzione) che già da diversi anni beneficiano di misure fiscali per lo svolgimento delle proprie attività. Le aliquote in base alle quali è riconosciuto il beneficio sono differen-ziate per dimensione aziendale e localizzazione delle sale. Sono inoltre previste premialità per le sale ubicate in comuni sotto i 15mila abitanti, per le “sale storiche” e per le imprese di nuova costituzione. Per evitare rischi di concentrazione è stato fissato anche un tetto massi-mo di contributi che può essere accordato a ciascuna impresa o gruppo di imprese (2 milioni di euro all’anno).È possibile beneficiare di queste risorse per i lavori avviati sin dal gen-naio 2017. I beneficiari dovranno rispettare requisiti di accessibilità e svolgere per i tre anni successivi attività di pubblico spettacolo cinematografi-co proprio per garantire che gli incentivi siano duraturi e valorizzino la fruizione cinematografica. Nella stessa ottica è stato posto un vincolo di programmazione per tre anni dalla data di richiesta del beneficio (mini-mo 35% di film italiani, percentuale che scende al 25% per sale con non più di 2 schermi).

70/71

GLI ALTRI INTERVENTI A SOSTEGNO DELLE SALE

Non solo benefici per il rafforzamento delle strutture, ma risorse co-spicue anche per incentivare la programmazione di film, in particolare quelli italiani ed europei. Ci riferiamo alla dotazione annua di 30 milioni di crediti di imposta che, a partire dal 1 gennaio 2018, saranno concessi con un nuovo meccanismo sulla base di aliquote differenziate (cumu-labili fino ad un massimo del 20%) per PMI-Piccole e Medie Imprese e grandi gruppi. L’entità dei crediti sarà più elevata se si programma nel periodo estivo, contribuendo così - in coerenza con analoghi interventi adottati nel settore della distribuzione - ad allungare la stagione cine-matografica e ad evitare dannosi affollamenti di titoli in una manciata di mesi. Particolari tipologie di film programmati (italiani, europei e d’essai) o di sala cinematografica (ubicata in piccoli comuni e/o sala d’essai) beneficiano di aliquote maggiorate e un trattamento di favore (regime semplificato) è riservato anche a particolari tipologie di eser-centi, fra i quali ricevono una particolare attenzione le imprese start-up.I crediti di imposta a favore dell’adeguamento strutturale e della pro-grammazione prima di entrare in vigore necessitano del via libera dalla Commissione europea per verificare la compatibilità di tali misure con la normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato.

IMPATTO DELLE NUOVE MISURE A FAVORE DELLA SALA

Difficile stimare l’impatto delle nuove misure a sostegno del settore. L’efficacia delle disposizioni dipenderà anche da come si muoverà la distribuzione nel prossimo futuro. Come già accennato si tratta del comparto che più di altri in questi anni sta subendo i contraccolpi le-gati alle nuove modalità di fruizione dei film e alla moltiplicazione dei canali di accesso e diffusione dei contenuti audiovisivi all’interno del nuovo ecosistema digitale. Film che accanto alle serie tv sono oggetto di appetiti crescenti da parte di nuovi operatori del web, da Apple ad Amazon passando per Netflix, i quali fanno a gara per investire in con-tenuti originali dall’appeal globale, diventando interlocutori interes-santi anche per festival, addetti ai lavori e soprattutto per i produttori di audiovisivo. Cresce così la pressione sul modello classico di distri-buzione e, in particolare, su quella finestra di esclusività che finora è stata riservata al grande schermo, in quanto cardine della valorizza-zione dell’opera anche rispetto ai suoi canali successivi di sfruttamen-to. Gli interventi dello Stato da questo punto di vista cercano di creare condizioni atte a trasformare le attuali minacce connesse alle nuove dinamiche della domanda e alla possibile marginalizzazione della fruizione in sala in opportunità, anche sotto il profilo della redditività economica oltre che di una maggiore presenza e diffusione di presi-di socio-culturali nel nostro Paese. L’interrogativo è: su quali basi e a quali condizioni le sale cinematografiche, anche grazie alle robuste ri-sorse finanziarie messe a disposizione dalla nuova Legge Cinema (80 milioni di euro, ovvero il 20% del fondo complessivo nel 2017, quasi 50 milioni in più rispetto alla precedente dotazione FUS-Fondo Unico dello Spettacolo), riusciranno a riacquistare centralità nel quadro del-le nuove modalità di consumo di cultura ed intrattenimento?

latest - scanner dati e tendenze del mercato audiovisivo a cura di DG Cinema

PIANO STRAORDINARIO SULLA DIGITALIZZAZIONE DEL PATRIMONIO

Accanto al Piano Straordinario a favore delle sale, la legge n. 220 del 2016 ha previsto un secondo Piano straordinario finalizzato alla digitalizzazione delle opere audiovisive e cinematografiche, così da permetterne la fruizione favorendo anche il ritorno di vecchie opere sugli schermi cinematografici. Il Piano può conta-re su una dotazione di 10 milioni annui per il 2017, 2018 e 2019.La richiesta di contributo può essere effettuata da cineteche pub-bliche e private italiane e da imprese di post-produzione italiane. Queste ultime in particolare devono essere in possesso di classi-ficazione Ateco J59.11 e J59.12, avere un capitale versato di alme-no 40mila euro e aver realizzato, negli ultimi due anni, almeno il 25% del fatturato in attività di post-produzione cinematografica e audiovisiva.Il progetto di digitalizzazione, per cui si fa domanda di contributo presso la DG Cinema utilizzando l’apposita modulistica on line, deve possedere delle dimensioni minime del materiale audiovisi-vo in base alla sua tipologia: per soli materiali filmati almeno 100 ore, per lungometraggi o cortometraggi almeno 20 ore, nel caso sia di materiali filmati sia di lungometraggi e cortometraggi la durata non deve essere inferiore a 70 ore per la prima tipologia e a 10 ore per la seconda.

Il progetto, inoltre, deve concludersi entro 24 mesi dall’assegna-zione del contributo e prevedere la possibilità di fruizione delle opere da parte delle persone con disabilità. Tra i costi eleggibili sono compresi quelli legati a diverse fasi di lavorazione: il restauro dei materiali (incluse pulizia e riparazione del supporto), la scansione digitale, il trattamento di digital clean o color correction, la realizzazione di una copia in pellicola e l’acqui-sto o il noleggio di sistemi di memorizzazione del materiale.Il contributo eventualmente concesso viene erogato in due tran-che, un 50% all’atto di riconoscimento del contributo e la restante parte dopo la verifica della digitalizzazione da parte della DG Cine-ma, e solo a seguito della effettiva consegna della copia digitalizza-ta presso la Cineteca nazionale.

72/73

CONCLUSIONI E RISULTATI ATTESI

Innovazione, questa la parola chiave, il filo conduttore dell’articolato pacchetto di misure che la nuova legge cinema e i successivi decreti attuativi prevedono a sostegno del mondo delle sale cinematografiche. Innovazione presente nelle priorità di intervento e nelle procedure di assegnazione delle risorse e che si riflette nella capacità di innovazio-ne richiesta ai beneficiari delle risorse, in termini di programmazione, di dotazione tecnologica, di offerta di servizi agli utenti, di promozione sociale culturale e di coinvolgimento del pubblico.L’approccio adottato dal Ministero non segue più una logica di mero assistenzialismo, ma punta a rafforzare il sistema sala in un’ottica più integrata e di sistema, e lo fa sotto un duplice punto di vista. Da un lato sostenere il comparto sotto il profilo economico-industriale, fissando alcune priorità strategiche che, a seconda della tipologia di intervento, pongono l’accento sulla necessità di favorire e incrementare gli inve-stimenti per l’adeguamento tecnologico delle strutture (risorse ordi-narie tramite crediti di imposta) piuttosto che riattivare sale chiuse o dismesse e trasformare strutture in ambito cittadino ampliandone gli schermi (risorse straordinarie). Dall’altro lato l’ottica adottata è quella di premiare ed incentivare la programmazione offerta dalle sale, in par-ticolare quella legata al cinema italiano ed europeo di qualità, perfezio-nando il precedente sistema dei crediti di imposta alla programmazione e confermando il fondo ad hoc per le sale qualificate d’essai basato su punteggi differenziati in funzione della localizzazione sul territorio e del numero di schermi. Nei prossimi anni sarà interessante valutare gli effetti legati alla decisio-ne di operare una distinzione fra micro, piccole e medie imprese, alle quali sono assegnate aliquote più elevate, e i grandi complessi, i quali, ad esempio nel caso del tax credit per le strutture, non possono supera-re il 20% delle risorse disponibili. La differenziazione delle aliquote fiscali, frutto di un complesso lavoro di analisi e confronto con le categorie, è stata effettuata tenendo conto della forte eterogeneità del mercato sotto il profilo della dimensione aziendale, dell’ubicazione territoriale e del numero di schermi di cui è dotata la singola struttura. Pur mirando a favorire lo sviluppo economico-industriale del compar-to, si è rivolta particolare attenzione all’introduzione di correttivi capaci di creare condizioni di mercato più equilibrate, come ad esempio le mi-sure a favore delle piccole realtà imprenditoriali e, al loro interno, le sale storiche, piccole imprese in comuni sotto i 15mila abitanti e le bisale. Dal combinato disposto del Piano straordinario e delle misure fiscali

a favore del potenziamento del-le sale sul territorio nazionale - ben 46 milioni di euro solo per l’annualità 2017 - si attendono effetti decisivi per modernizza-re un buon numero di strutture, creando le condizioni favorevoli per aumentare il flusso di pub-blico e soprattutto far tornare in sala fasce di popolazione ormai disaffezionate. Più in generale, le azioni messe in campo dal Ministero cercano di dare una risposta concreta a questo obiettivo, puntando con decisione a diffondere il valore culturale della fruizione dei film in sala, a premiare quelle scelte di programmazione che in as-senza di un contributo pubblico rischierebbero di assottigliarsi con negativi effetti sugli equilibri di mercato, a valorizzare quelle strutture che - grazie agli incen-tivi resi disponibili in modo certo per i prossimi anni - sapranno of-frire servizi in grado di risponde-re ai bisogni di un pubblico sem-pre più esigente e diversificato all’interno di strutture moderne e professionali.

latest - focus Nuova Zelanda

Persone che lavorano nell’industria cinematografica: 14.000

Impiegati alla Weta Digital: 1.300

Numero di schermi: 411

Box office (2012): 145 milioni di dollari

Film di maggiore incasso girato in Nuova Zelanda: Avatar

F O C U S

N U O V AZ E L A N D A

Nome ufficiale New Zealand/Aotearoa

Forma di Governo Monarchia parlamentare (Commonwealth)

Lingua ufficiale Inglese, Maori

Capitale Wellington

Numero abitanti 4.578.900

Densità 17 ab./km2

Superficie 267.710 km2

Valuta Dollaro neozelandese

74/75

Più estesa della Gran Bretagna, ma con una popolazione di poco più di 5 milioni di individui, contro i 60 milioni di sudditi di Sua Maestà, la “Terra dalla lunga nuvola bianca” (questo il significato del nome Nuova Zelan-da, Aotearoa, in maori) è una nazione biculturale, popolata dai discenden-ti dei coloni europei, principalmente scozzesi e irlandesi (74%), e dagli abitanti originari del Paese, i maori (14%).Il cinema di lingua inglese - film dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna - è ancora predominante, in termini numerici e di gradimento: i primi dieci film per incasso del box office 2017 sono infatti produzioni americane, con Star Wars: Gli ultimi Jedi a guidare la classifica con 6.121.931 dollari.Il pubblico neozelandese mostra tuttavia apprezzamento anche per i prodotti nazionali, non più di una decina all’anno. Con una particola-rità: le cinque pellicole neozelandesi che hanno incassato di più dagli Anni ‘90 a oggi sono accomunate dal tema (storie maori) e dal destino dei registi, tutti affermati internazionalmente: La ragazza delle balene (2003) di Niki Caro (6.400.000 $), Once Were Warriors (1994) di Lee Ta-mahori (6.795.000 $), Indian - La grande sfida (2005) di Roger Donaldson (7.047.000 $), Boy (2010) di Taika Waititi (9.322.000 $) e Selvaggi in fuga (2016) ancora di Waititi (11.053.000 $).Il cinema è la forma d’arte più amata e praticata nel Paese: nel 2017 il 91% dei profitti del mercato culturale neozelandese proveniva proprio dal set-tore cinematografico, con una crescita del 6% rispetto al 2014. L’industria dell’audiovisivo ha generato nel 2016 profitti per 3.3 miliardi di dollari, con il 64% del mercato che gira intorno alla “Cinecittà” di Wellywood e un aumento del 15% dei ricavi dal business della post-produzione.Negli ultimi 40 anni l’industria cinematografica è maturata. Le risorse (talenti, facilities tecniche, location) sono diventati competitivi a livello globale, e mentre le coproduzioni crescono di importanza, aumenta an-che la consapevolezza della validità della cinematografia nazionale, so-stenuta dal lavoro dei festival (New Zealand International Film Festival), e alimentata dalle scuole di cinema (la New Zealand Film and Television School di Wellington, la New Zealand Film Academy di Auckland).

M E T T I U N A N U V O L A N E L B L O C K B U S T E R

di ILARIA RAVARINO

latest - focus Nuova Zelanda

Le origini del cinema neozelan-dese, raccontate con romantica ironia da Peter Jackson nel mocku-mentary Forgotten Silver (1996), risalgono al 1896, con un film proiettato nella Opera House di Auckland durante uno show della compagnia di Vaudeville di Char-les Godfrey. Ancora Auckland ha il primato della prima proiezione a colori, il 24 dicembre del 1911: Al-fred Whitehouse, inglese cresciuto

Alle origini del cinema in Nuova Zelanda e autore di dieci film tra il 1898 e il 1900, è ritenuto il pioniere del cinema nazionale.Il più antico film conservato nel-lo New Zealand Archive of Film di Wellington è un documentario del 1914, la prima sala cinematografica ad aprire il Roxburgh di Central Ota-go, inaugurato nel dicembre 1897.Tra gli Anni ‘20 e ‘30 nasce nel Paese una piccola industria cine-matografica, il cui principale ani-matore è l’inglese Rudall Hayward, produttore e regista di My Lady of

Lezioni di piano,Karekar beach

the Cave (1922), The Te Kooti Trail (1927) e Rewi’s Last Stand (1925), un western maori ambientato du-rante la battaglia di Ōrakau.Nel 1940 Rewi’s Last Stand torna al cinema nel remake sonoro del prolifico John O’Shea, attore, regista indipendente e storico del cinema che nel 1952 fonderà, insieme a Roger Mirams, la com-pagnia Pacific Films. In attività tra gli Anni ‘40 e ‘70 - periodo in cui il genere documentario, finan-ziato dalla National Film Unit, fondata nel 1941, è molto popola-re - O’Shea realizza numerosi film tra cui Broken Barrier (1952), Ru-naway (1964) e Don’t Let It Get You (1966), apparendo in un cameo nel Forgotten Silver di Jackson.Nel 1977, un anno prima della fon-dazione della New Zealand Film Commission, il thriller Unica re-gola vincere di Roger Donaldson, primo film in pellicola realizzato interamente con una troupe ne-ozelandese, è anche il primo lun-gometraggio del Paese a ottenere la distribuzione negli Stati Uniti, lanciando la carriera di Sam Neill - nato in Irlanda del Nord, ma di famiglia neozelandese. Donald-son, che nel 1984 partecipa al Festival di Cannes con Il Bounty, prodotto da Dino De Laurentiis, dopo aver realizzato negli Stati Uniti successi commerciali come

76/77

Cocktail (1988) e Senza via di scam-po (1987) tornerà a girare in Nuova Zelanda nel 2005 Indian - La gran-de sfida, con Anthony Hopkins come protagonista.Gli Anni ‘80 segnano per il cinema neozelandese la rottura di alcuni tabù. La prima donna a dirigere un film è Melania Read, con il thriller femminista del 1984 Trial Run, mentre il primo autore maori di successo è Barry Barclay (Ngati, 1987), che spianerà la strada alla documentarista e attrice maori Merata Mita (Mauri, 1988). Pro-prio il marito di Mita, il regista e musicista Geoff Murphy, sbanca il box office nazionale nel 1981 con l’action indie Goodbye Pork Pie, e dopo altri due film neozelandesi, Utu (1983, prima pellicola del pa-ese selezionata al festival di Can-nes) e The Quiet Earth (1985) en-tra nell’orbita di Hollywood, dove gira gli adrenalinici Young Guns 2 (1990), Freejack (1992) e Under Siedge 2 (1995) prima di rientrare in Nuova Zelanda per assistere Peter Jackson nella lavorazione de

Il Signore degi Anelli(Lothlorien), Kaitoke Regional Park

Il signore degli anelli e girare lo sfor-tunato thriller Spooked (2004).Negli Anni ‘90 il cinema neozelan-dese incontra il successo mondia-le, con i tre Oscar e la Palma d’oro assegnati a Lezioni di piano di Jane Campion (1993), già premiata nel 1990 dalla giuria della Mostra di Venezia con Un angelo alla mia tavola. In questo periodo, mentre Once Were Warriors di Lee Ta-mahori (1994) conquista il box of-fice nazionale, emerge la tendenza “fantastica” del cinema neozelan-dese, destinato a diventare negli anni successivi l’alfiere mondiale del fantasy globalizzato. Del 1994 è infatti l’horror di Peter Jackson Heavenly Creatures, di poco prece-duto dalla fantascienza suggestiva di The Navigator (1988) di Vin-cent Ward, selezionato a Cannes nel 1984 con Vigil. Si affermano in questi anni le prime importanti co-produzioni con gli Stati Uniti (Ron Howard fu tra i pionieri, girando nel 1988 in Nuova Zelanda il suo Willow), di pari passo con la ten-denza a usare nelle pellicole attori non neozelandesi (Harvey Keitel per Lezioni di piano, Kate Winslet per Heavenly Creatures), e con la migrazione all’estero dei talenti.Tra gli autori più significativi della scena contemporanea, il regista di origine maori Taika Waititi ha esordito nel 2007 con il film Ea-gle vs Shark, dopo aver sfiorato nel 2005 l’Oscar con il corto Two Cars, One Night. Con Boy nel 2010 ha messo a segno il miglior incasso di tutti i tempi per un film neoze-landese, superato nel 2016 dal suo stesso Selvaggi in fuga, girato dopo il mocumentary vampiresco Vita da vampiro - What We Do in the Sha-

dows (2014). Molti i giovani autori maori che si stanno facendo strada nel cinema nazionale, anche grazie allo speciale programma di forma-zione e finanziamento del gover-no: tra i nomi degni di segnalazione Briar Grace-Smith, Awanui Simi-ch-Pene, Casey Kaa, Ainsley Gar-dinier, Katie Wolfe, Renae Maihi, Chelsea Winstanley, Paula Jones e Josephine Stewart-Te Whiu.Il genere fantastico resta un caval-lo di battaglia della cinematogra-fia del Paese, con Chris Graham (Quattro amici e un matrimonio, 2006) che nel 2007 ha portato alla ribalta internazionale l’horror The Ferryman, mentre Peter Bur-ger nello stesso anno spaventava le platee con The Tatooist e Glenn Standring tornava ai vampiri con The Perfect Creature (2007). Inte-ressati a esplorare la storia del Pa-ese, ancora poco conosciuto al di fuori del Pacifico, il samoano Tusi Tamasese con The Orator (2011) ha raccontato la vita quotidiana dei contadini indigeni, mentre Robert Sarkies con Out of the Blue (2006) si è cimentato con la cronaca, portando sullo schermo il massa-cro di Aramoana del 1990. Molti i felici ritorni in Patria, con Ward di nuovo nel suo Paese per River Queen (2005) e Rain of the Children (2008) e Jane Campion che ha scelto il Queensland e Glenorchy, l’isola più a sud del Paese, per la sua miniserie Top of the Lake (2013)Tra gli attori neozelandesi più fa-mosi Anna Paquin (prima attrice del Paese a vincere un Oscar), Karl Urban, Lucy Lawless, Mela-nie Lynksey, Martin Henderson, Daniel Gillies e il “gladiatore” Russell Crowe.

latest - focus Nuova Zelanda

Nato a Pukerua Bay, una città co-stiera nei pressi di Wellington, Pe-ter Jackson esordisce con la com-media low cost Bad Taste (1987), seguita da Meet the Feebles (1988) e Splatter - Gli schizzacervelli (1991), horror fantastici e volutamente eccessivi trattati con una raffi-natezza formale che sarà anche la cifra di Heavenly Creatures, nel 1994 Leone d’argento a Venezia, e Sospesi nel tempo (1996).Notato da Hollywood, dirige il progetto destinato a imprimere il “brand” della Nuova Zelanda nel cine-immaginario globale: la saga fantasy de Il signore degli anelli (La compagnia dell’anello, 2001; Le due torri, 2002; Il ritorno del re, 2003). Largamente finanziata dagli Stati Uniti, con un cast internazionale, la saga è stata realizzata dal regista con il supporto di una troupe qua-si interamente neozelandese. De-ciso a rimanere in Nuova Zelanda nonostante l’enorme successo in-ternazionale riscosso dai film, con la stessa strategia - denaro ameri-cano, troupe neozelandese - Ja-ckson realizza tra il 2012 e il 2014 i tre prequel de Il Signore degli Anelli (Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato, 2012; Lo Hobbit - La desolazione di Smaug, 2013; Lo Hobbit - La battaglia delle Cinque Armate, 2014). Per avere un’idea dell’impatto esercitato dal-la sua opera fantasy sull’economia del Paese basti pensare che i tour operator neozelandesi inseriscono ormai nei pacchetti di viaggio anche il giro delle location dei film: la Con-tea Hobbit nel villaggio di Watawa-ta, a nord di Auckland; il Monte Fato e la Montagna Solitaria nel Tongari-ro National Park; Gran Burrone nel Kaitoke Park, e molte altre location nel Queensland e nel Marlborough.

Il successo delle operazioni ha se-gnato l’inizio di una nuova era per la Nuova Zelanda, scelta sempre più spesso come base operativa dalle grandi produzioni ameri-cane: Avatar di James Cameron (2009), Le Cronache di Narnia e Mr.Pip di Andrew Adamson (2005 e 2012), 10.000 BC di Roland Em-merich (2008) e naturalmente le coproduzioni di Jackson, tra cui il remake di King Kong (2005).

Città nella città di Wellington, il complesso noto con il nomignolo di Wellywood comprende l’in-sieme degli Studios e delle Com-

Il caso Peter Jackson

Wellywood

V

Hobbiton (movie set), Waikato Region

Ma il dibattito sulla reale efficacia degli investimenti stranieri sul territorio è oggi molto acceso, tra chi difende la bontà delle opera-zioni e chi si lamenta tanto del mercato “drogato” dai larghi bu-dget americani, che ha reso strut-ture e mezzi quasi inaccessibili ai registi locali indipendenti, quanto del presunto “spreco” di fondi che potrebbero invece essere destina-ti a film nazionali.

tures e la divisione Weta Digital, aperta dal regista con Richard Taylor, Tania Rodger e Jamie Selkirk. La Weta, con il suo staff di 1.300 persone, è oggi leader nel settore degli effetti speciali, ha vin-to sei Oscar per il cinema e dieci nel campo dell’innovazione tec-nologica. Oltre ai film di Jackson, la Weta si è occupata tra gli altri degli effetti di Avatar, L’alba del pia-

pany sorte a partire dagli Anni ‘80 in una zona precedentemente occupata da basi della seconda guerra mondiale, e nate su im-pulso di Peter Jackson. Un hub dominato dalla Weta Workshop (da cui provengono i set, i costu-mi, le armi e le armature di Hobbit e Signore degli Anelli), fondata nel 1993 da Jackson per produrre gli effetti speciali di Heavenly Crea-

78/79

Fondata nel 1978, la New Zealand Film Commission è composta da otto membri nominati dal Ministro per le Arti e la Cultura. Si propone per statuto di incoraggiare e assi-stere la promozione, distribuzione e circolazione dei film; occuparsi del networking fra gli addetti al settore; informare sulle risorse del Paese; cooperare con altre organiz-zazioni per promuovere occupa-zione nell’ambito dell’audiovisivo; conservare gli archivi; promuovere lo studio della Storia del cinema ne-ozelandese; riferire, nel rispetto del-la propria indipendenza, al governo dello stato dell’industria. Nel corso del tempo la NZ Film Commission ha incorporato tra i suoi obiettivi anche l’attrazione sul territorio delle produzioni straniere, trami-

V

Le cronache di Narnia, Cathedral Cove

neta delle scimmie di Rupert Wyatt (2011) e Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie di Matt Reeves (2014), The Avengers di Joss Whedon (2012) e Prometheus di Ridley Scott (2012). Appartengono a Jackson anche la compagnia di produzione Wingnut Films, la Park Road Post e gli Stone Street Studios.

te l’istituzione di speciali incenti-vi. Dal 1978 a oggi ha finanziato più di 650 film.Il governo neozelandese offre dall’aprile 2014 generosi incenti-vi alle produzioni internazionali che vengono a girare nel Paese attraverso il New Zealand Screen Production Grant, fondo ammi-nistrato dalla New Zealand Film Commission. L’incentivo - equiva-lente al 20% della spesa sul territo-rio in servizi e location, si applica a film nel formato cinematografico (investimento minimo: 15 milioni di dollari) o televisivo (4 milioni), documentari, serie tv, animazione per bambini o servizi di postpro-duzione (basta il 18%). I vantaggi offerti comprendono: deregola-mentazione del mercato, stagio-nalità inversa (“Se vi serve la neve a luglio, o campi di grano a febbra-io, possiamo aiutarvi”), casting “etnico” e la trasparenza di “uno dei Paesi considerati dalla Banca

Mondiale tra i meno corrotti al mondo”. Nel 2016 le coproduzioni internazionali sono state quattro con tre Paesi (Australia, Francia, Cina), nel 2017 cinque con quat-tro Paesi (Australia, Canada, Cina, Germania).Le produzioni nazionali - com-pagnie di produzione residenti in Nuova Zelanda, operative nel Pa-ese da almeno 18 mesi - possono accedere a un finanziamento pari al 40% del denaro speso in servizi e location. Si applica a film (inve-stimento minimo: 2,5 milioni di dollari), serie tv (spesa per episo-dio: 800.000 $), cortometraggi (250.000 $). I film devono tassa-tivamente dimostrare di avere una distribuzione in Nuova Zelanda.La Film Commission neozelande-se ha inoltre recentemente attivato il programma “Te Rautaki Maori” per tutelare il cinema maori e “ce-lebrare la cultura unica e distintiva di Aotearoa che rende originale il

nostro cinema nazionale”. Uno speciale fondo di due milioni per lungometraggi il cui regista - o una delle figure creative chiave - sia maori, e uno di due milioni e mez-zo se il film è girato in lingua maori e realizzato da filmakers maori. Al-tre iniziative comprendono il sup-porto a progetti di sostegno alla lingua, corsi di formazione per fil-maker e tecnici maori e workshop per i giovani creativi. “La voce dei maori è fondamen-tale per la forza della nostra indu-stria - ha dichiarato recentemente il CEO della Film Commission, Annabelle Sheenan - e questo è un fatto confermato dal successo dei film e dei filmakers maori”. Di quest’anno l’istituzione di un pre-mio, il Te Tumu Whakaata Taonga Māori Screen Excellence Award, assegnato a filmaker maori capaci di esercitare un impatto sulla real-tà locale o internazionale.

New Zealand Film Commission - produrre in Nuova Zelanda

latest - focus Nuova Zelanda

Il New Zealand International Film Festival è un evento nazionale che per due settimane, durante l’in-verno, offre tra le 150 e le 170 pro-iezioni nelle arene di Auckland e Wellington. Una parte del pro-gramma “viaggia” anche attraver-so altri dodici centri urbani, tra cui le due maggiori città del Sud. L’u-nione delle realtà festivaliere ne-ozelandesi nel contenitore unico del NZIFF è avvenuta per la prima volta nel 2009, e da allora il succes-so dell’iniziativa non ha smesso di

crescere, con un totale di 250.000 biglietti venduti nel 2017. Il NZIFF è finanziato da un fon-do no profit, il New Zealand Film Festival Trust, e la sua sopravvi-venza dipende dal gradimento del pubblico, con l’89% delle entrate derivate proprio dalla vendita dei biglietti. Recenti ricerche segna-lano che il pubblico del festival è composto soprattutto da giova-ni donne laureate e professionisti quarantenni, uomini e donne in eguale misura, a smentire il cliché

di CATHERINE FITZGERALD*

VA TA P U I A !L A F O R Z A C R E AT I VA

D E L L A D I V E R S I TÀ

per cui il pubblico del cinema in-dipendente sarebbe rappresentato esclusivamente da persone in età da pensione, appassionati di una certa età disposti a riempire le sale solo durante gli spettacoli diurni. Attento a rispettare i più alti stan-dard tecnici per le proiezioni, il NZIFF è orgoglioso di presenta-re i suoi film nelle più belle sale della Nuova Zelanda, dal Civic di Auckland al Regent di Dunedin, dall’Embassy di Wellington (l’u-nico “vero” cinema del Festival)

all’Isaac Theatre Royal di Chri-stchurch - sale accuratamente re-staurate dalle amministrazioni cittadine con il pieno supporto del Festival, in prima linea nella raccolta di fondi ad hoc. Il Festival si è anche assicurato altre splendi-de location, tutte in grado di ospi-tare le sue proiezioni: il Te Papa, il museo nazionale di Wellington, e più recentemente il nuovo ASB Waterfront Theatre di Auckland.Fondamentale la spinta coesi-va fornita alle diverse anime del

80/81

NZIFF dal direttore Bill Gosden, programmatore del Festival di Wellington nel 1980 e curatore, nel 1984, anche dei Festival di Au-ckland, Dunedin e Christchurch. Da 38 anni Bill viaggia nel mon-do alla ricerca dei film miglio-ri per espandere e arricchire il programma del NZIFF, che oggi è sotto la sua direzione in stret-ta collaborazione con un team di capaci programmatori. Sono convinta che parte della salute e della vitalità del cinema indipen-dente del nostro Paese dipenda anche dalla presenza di un pub-blico attento e sofisticato, il cui palato cinematografico è stato al-lenato dal lavoro del NZIFF. La mia avventura come presiden-te del Festival prende le mosse da una lunga militanza nel cinema neozelandese. Dopo aver lavora-to per cinque anni con i giovani talenti del Paese nella New Zea-land Film Commission, ho deciso di fondare una mia compagnia di produzione. Senza che ci fosse uno specifico indirizzo, se non la ricerca di talento e genio, tutti i corti che ho realizzato hanno un autore maori o samoano nei re-parti di regia o sceneggiatura. Ho sempre trovato le loro voci le più interessanti del Paese, e la stessa intuizione è stata condivisa anche dalle rassegne che nel corso degli anni li hanno selezionati: la Set-timana della Critica di Cannes, le sezioni Panorama e Generation della Berlinale, il Sundance e gli Oscar - con Two Cars, One Night di Taika Waititi nominato come Mi-glior Corto Live Action. Con il re-gista samoano Tusi Tamasese ho realizzato il corto Va Tapuia, che

nel 2011 è stato proiettato alla Mo-stra Internazionale d’arte cinema-tografica di Venezia. “Va Tapuia” è un concetto difficile da tradur-re, ma fondamentale per la nostra cultura: allude all’energia che uni-sce spazi diversi, a quella forza di origine divina che può mettere in comunicazione ambienti lontani. Il nostro secondo film, One Thou-sand Ropes, è stato selezionato dal-la Berlinale, girato a Wellington e raccontato dal punto di vista di un immigrato di Samoa. Amo il lavo-ro di Tusi Tamasese perché, senza tradire le proprie origini culturali, e forte di una profonda conoscen-za del cinema indipendente, riesce a raccontare storie universali: con-tinuo perciò a lavorare al suo fian-co come produttrice, continuando a occuparmi anche di coproduzio-ni con Corea, Cina, Scozia, Irlanda. Lavorare nel cinema in Nuova Ze-landa oggi è un’esperienza stra-ordinaria. Nonostante nel No-vecento la maggioranza della

* produttrice e presidente dello New Zealand Interna-tional Film Festival

Filo diretto da WellingtonIl punto di vista critico.

popolazione fosse di origine eu-ropea, culturalmente dominata dai valori britannici, in più di un secolo di Storia il Paese ha impa-rato a rispettare e conoscere il po-polo originario, i Maori, compren-dendo quanto tutti abbiamo da guadagnare dalla reciproca colla-borazione. Oggi siamo fieri della nostra nuova identità. La nostra nazione è cambiata e abbiamo fatto della diversità una forza. Crediamo nei valori dei nostri an-tenati europei, ma siamo anche convinti che le antiche culture del Pacifico abbiano molto da offrire alla comunità globale. Convinti anche che il pubblico ci-nematografico, nel mondo, non abbia solo bisogno di sentirsi con-fermato e rassicurato, ma anche intrigato dalla cultura di altri Pae-si e di altre nazioni. Incuriosito, in-somma, da come altri popoli ab-biano risposto con i “loro” film a una domanda universale: che cosa ci rende, oggi, umani?

di STEFANO STEFANUTTO ROSA

Il Museo Ferragamo e la mostra “Italia a Hollywood” dedicata alle creazioni di Salvatore, nel suo periodo hollywoodiano: a Firenze, palazzo Spini Feroni, fino al 10 marzo 2019.

C A L Z A T U R E D I V I N E

latest - cinema espanso

cinema espanso

“Hollywood è la città paradisiaca e infernale, crogiuolo di gioie e dolori, godimenti e supplizi, lus-surie e macerazioni, sfinimenti d’orgia e sfinimenti di miseria, oro che trabocca, povertà della più squallida”. Così il “paradiso” del cinema viene descritto negli Anni ’20 da Alberto Rabagliati, allora attore, giunto in California dopo aver vinto nel 1927 un con-tratto della Fox per la ricerca di un nuovo “Rodolfo Valentino”. Prima di Rabagliati molti altri connazionali arrivano sulla West Coast in cerca di fortuna.E proprio il fenomeno migratorio italiano nella California dei primi due decenni del ‘900, e in parti-colare l’influenza che la nostra cultura ha nel mondo dello spet-tacolo e della nascente industria cinematografica, è al centro della mostra “Italia a Hollywood”, cu-rata da Giuliana Muscio e Stefania Ricci, promossa e organizzata dal

Museo Salvatore Ferragamo che la ospita fino al 10 marzo 2019 a Firenze, nel palazzo Spini Feroni.La mostra è articolata in 8 sale che espongono fotografie, video, se-quenze di film, manifesti, dipinti, disegni, sculture, oggetti e abiti. Si apre con un dipinto, Emigranti (1894) di Raffaele Gambogi, che ritrae una famiglia italiana sulla banchina in attesa di salire su una nave diretta in America. Tra il 1880 e gli Anni ‘20 milioni di italiani, da tutte le Regioni, lasciarono il Pa-ese. Tra questi emigranti l’irpino Salvatore Ferragamo (1898-1960) che, dopo un breve soggiorno nel 1915 sulla East Coast, si trasferi-sce in California, che ospita una variegata colonia italiana di cui la mostra illustra le diverse attività: agricoltura, viticoltura, ortofrut-ticoltura, conserve alimentari, pesca, editoria, perfino la finanza. Nel periodo trascorso in Califor-nia (1916-1927) Salvatore Ferra-

gamo apre a Santa Barbara, con i fratelli, un negozio di riparazioni e di scarpe su misura.Da qui comincia la collaborazione con il mondo del cinema, realiz-zando calzature per i protagonisti e le comparse dei film di Griffith, Cruze, Walsh e DeMille. Ferra-gamo si afferma come shoemaker e shoedesigner, seguendo l’indu-stria cinematografica quando si traferisce nel 1923 a Hollywood dove apre un nuovo negozio in Hollywood Boulevard frequenta-to dalle star: Mary Pickford, Pola Negri, Joan Crawford, Charlie Chaplin, Rodolfo Valentino e Lil-lian Gish. Il capitolo californiano di Ferragamo è riassunto nell’ul-tima sala della mostra che ricrea l’Hollywood Boot Shop con i suoi prestigiosi clienti.Il successo di Ferragamo va di pari passo con il fascino che la cultura e l’arte italiana esercitano sullo stile architettonico delle ville, su-gli arredi delle case private, per-sino sulla struttura delle fastose sale cinematografiche. La mostra ricorda come il progetto della Cittadella Italiana, curato dall’ar-chitetto Marcello Piacentini, e la sua realizzazione alla Esposizio-

82/83

ne Universale (Panama-Pacific International Exposition) di San Francisco (1915) è così apprezza-to da vincere il primo premio tra i 110 concorrenti. Inoltre, pittori e scultori italiani espongono per l’Expo nel Palace of Fine Arts, che include anche una sezione ricca di opere futuriste. Il nascente cinema hollywoodia-no è intanto influenzato dal no-stro cinema muto che, insieme a quello francese, domina allora la scena internazionale e la cui messinscena risente dell’alle-stimento scenico e operistico. È il caso delle scenografie del ca-pitolo babilonese di Intolerance (1916) di David W. Griffith, che richiamano Cabiria (1914), il film storico popolare di Giovanni Pa-strone cui la mostra dedica una sala, modello di kolossal storico che ispirerà anche I dieci coman-damenti (1923) di DeMille.Di Cabiria, soprannominato negli USA “The Daddy of Spectacles”, il papà di tutti gli spettacoli, ven-gono apprezzati le didascalie, opera di Gabriele D’Annunzio, le scenografie monumentali, l’uso dei movimenti di carrello, l’ac-compagnamento dell’orchestra e coro. Soprattutto il mito di Roma, capace di attualizzare la poten-za politico-militare dell’impero, viene interpretato come una me-tafora della Nazione americana. Altri film come Gli ultimi giorni di Pompei (1913), Quo vadis? (1913) e Caius Julius Caesar (1914) espor-tano Oltreoceano i contenuti di un’antichità “immaginaria”.

latest - cinema espanso

84/85

L’apprezzamento dell’arte e della cultura italiana si scontra con il pre-giudizio della società WASP verso gli immigrati italiani colpevoli di una natura troppo istintiva, passionale e sentimentalista. Ma il fascino e lo stile italiano nella Hollywood degli Anni ’10 e inizio Anni ’20 si conso-lida grazie a quattro grandi interpreti. Per Lina Cavalieri ed Enrico Ca-ruso l’ingresso nel cinema americano è garantito dalla provenienza dal teatro operistico e dal carisma personale; per Rodolfo Valentino e Tina Modotti dalla grande sensualità fisica ed espressiva. Valentino, il più amato e il divo per eccellenza, dopo parti secondarie di “sciupafemmi-ne”, raggiunge il successo con il film I quattro dell’Apocalisse, sfruttando al meglio l’espressività del viso, del corpo, dei gesti per esprimere stati d’animo complessi. “Egli riusciva ad associare la seduzione a un’etica sentimentale da eroe romantico, mai amorale”, scrive Giuliana Muscio nel catalogo della mostra.Accanto a questi volti italiani famosi e a quelli meno conosciuti di ieri, la mostra propone 15 ritratti di protagonisti della Hollywood di oggi, fotografati da Manfredi Gioacchini: dalla costumista Milena Canone-ro al montatore Pietro Scalia, al meno conosciuto artigiano Pasquale Fabrizio, le cui calzature sono apparse in Kill Bill. Nella galleria anche il videoartista Yuri Ancarani, cui è inoltre dedicata una sala con la sua vi-deo-installazione realizzata a Zuma Beach, famosa location dove è stata girata la scena finale de Il pianeta delle scimmie.A riprova del fascino dell’arte italiana e della qualità dei nostri arti-giani, il percorso espositivo si sofferma infine sul periodo 1919/1925, quando gli americani girano in Italia una dozzina di film. Tra questi Ben-Hur di Fred Niblo (1925), che impiega le nostre maestranze per costruire nel cantiere navale di Livorno le imbarcazioni storiche. E Ro-mola di Henry King (1924), che utilizza le manifatture fiorentine nella ricostruzione e ambientazione della città quattrocentesca negli studi cinematografici della V.I.S.

latest - cinema espanso

Strizzando l’occhio, per assonanza, allo sdoganato What’s Up, ma gio-cando con il luccicante lemma universale “star”, prendendo della più famosa app di comunicazione istantanea le comuni caratteristiche di essere mondiale e abbracciare chiunque voglia farne parte in forma di “comunità”, WhataStar è un talent, il primo in assoluto che conta non solo sul popolo digitale e sul talento incanalato dalla Rete, ma anche sull’umanità e sulla competenza di giurie composte da attori, can-tanti, musicisti famosi, a loro volta iscritti alla app. Il loro voto varrà doppio, essendo un parere sicuramente più consapevole e professio-nale. Loro hanno anche una funzione di guida, ovverosia possono ca-ricare un proprio video, non per partecipare al talent ma per ispirare le promesse nascenti.

WhataStar prende spunto dai più classici show della televisione, ma con l’avanguardia reale rispetto al mezzo di comunicazione, quello più contemporaneo possibile, il digitale, quello che ancora chiamiamo – ahi noi! – “new media”, che di “nuovo” ormai poco possiede, essendo inve-ce IL medium dominante, quello della Rete e dei suoi derivati, tema che Ferzan Özpetek sembra avere ben focalizzato e messo in pratica.

WhataStar riflette talento, passione e anima: non solo una competizio-ne, quindi, ma lo specchio digitale dei milioni di persone che nel mon-do, a tutte le età e da ogni provenienza, cantano o recitano, anche sem-plicemente per il gusto di farlo, per la gioia o per il senso di comunità che questa esperienza digitale può far nascere e incrementare. “Tutta la nostra vita è sul telefono, più che un talent è un nuovo modo di comuni-care”, ha spiegato Ferzan Özpetek.

WhataStar non va mai a dormire, è sempre in onda; non ha uno studio in cui si registra, perché non ha confini: WhataStar ricerca il miglior grup-po, il miglior cantante, il miglior attore, cercando senza limiti tra tutti gli stili musicali e tutti gli stili di recitazione. Musica e recitazione per molti, anzi per tutti.

Ö Z P E T E K E L E S T E L L E D I G I TA L ICerca talenti sullo smartphone, Ferzan Özpetek con WhataStar, un talent che si mette in scena tutto esclusivamente sul device, parlando al mondo intero.

di NICOLE BIANCHI

Vuoi essere tu la prossima Star? Registra un video della tua perfor-mance. Caricalo sulla app Whata-Star. Da qui… inizia la (possibile) scalata: si viene votati e più si vie-ne votati, più si accumulano punti e si diventa virali. Inoltre, gli stessi performer votano, naturalmen-te non della propria categoria. Oppure si può scegliere di essere solamente spettatori e/o giudici. In una sezione speciale i concor-renti hanno la possibilità di cari-care spezzoni di un proprio video dietro le quinte (prove, errori esi-laranti, etc), che entra a far parte di clip mixati di tutti i backstage dei concorrenti di ogni angolo del mondo, in onda nella Rete (You-tube, etc). Il vincitore (o i vinci-tori) di ogni categoria abita sulla “copertina” digitale di Whatastar per un mese (o almeno fino alla fine della gara successiva).

86/87

Latest

P R A N D I N O , C O N T E

& R E G I S T A

di CORRADO COLOMBO

Dallo spunto di un’amicizia personale, nel nome di un omaggio al proprio maestro, l’autore di Prandino L’altro Visconti racconta la figura del nipote di Luchino.

88/89

“I registi possono morire ma i loro film no, è per questo che ho deciso di lasciarti i miei film!” Così mi disse Prandino, nel ’95, qualche mese prima di morire. Stavamo pranzando nella sua tenuta a Castellaro de’ Giorgi, in una sala dove sono esposti i quadri del Todeschini, testimo-ni inconsapevoli di questo incarico pieno di onore ma anche di oneri. Forse lui sapeva più di me quanto la mia stima e ammirazione per il suo cinema fossero esclusive e senza limiti. In effetti il Conte Eriprando Vi-sconti di Modrone Erba, ma per chi l’ha conosciuto, e gli ha voluto bene, più semplicemente Prandino, è stato per me un maestro, un mentore ma anche un amico. Da quel pomeriggio del 1977 in cui lo conobbi in via Margutta. Giovane cineamatore (avevo 21 anni), ero a Roma in cerca di conoscenze e relazioni con i miei filmini in Super8 (con piccolo proiet-tore annesso!). Dall’elenco telefonico avevo segnato i nomi dei registi presenti: Bellocchio, Comencini, Lizzani e altri fino a Visconti (Eripran-do perché Luchino non c’era) in ordine alfabetico. Tutti furono molto gentili e disponibili ma con Eriprando successe qualcosa di speciale, lui vide i miei filmini e si appassionò, si divertì… gli entrai in simpatia. Un’amicizia durata 18 anni, dal ‘77 fino al ‘95, anno della sua scomparsa. Un rapporto che si è trasformato nel corso degli anni, da allievo - perché lui mi ha insegnato il mestiere del regista sul set di Malamore (1982) - a “prezioso consulente” quando feci il distributore di film di qualità (e mi presentò uffici stampa, distributori, ecc), a padre putativo, prodigo di consigli sia nel lavoro che nella vita privata. Quando morì, da subito mi occupai del “Suo Cinema”, come aveva scritto nel testamento, e andai a recuperare le nove pellicole 35 mm dei suoi film e due scatoloni di sce-neggiature e materiale cartaceo e fotografico. Pensai “se i film devono vivere, per prima cosa devono essere visti”, e quindi contattai la Cine-teca di Milano - allora il direttore era Gianni Comencini (il fratello di Luigi, il regista) - e diedi in deposito le pellicole. Nel novembre del 2001 lo Spazio Oberdan gli dedicò una personale e una prima serata con Una storia milanese. C’era la sala stracolma, spettatori di ogni età ma soprat-tutto giovani. La mia missione si stava compiendo, allora pensai che for-se dovevo dedicargli un libro ma non riuscivo a trovare la chiave giusta, un equilibrio tra il ricordo affettuoso e un’analisi del suo cinema. Anche perché essendo Prandino nipote di Luchino Visconti il confronto sulla loro opera era inevitabile, ma anche impari.Avere avuto uno zio così importante lo ha sicuramente favorito all’inizio di carriera ma poi lo ha marchiato per sempre come il Visconti minore, in una gerarchia assurda e incomprensibile perché i loro film sono mol-to diversi, e non solo produttivamente, ma lontani per ispirazione e stile e soprattutto l’aria del tempo: Luchino ha raccontato sostanzialmente l’Ottocento, Eriprando il Novecento. La critica dell’epoca lo ha sempre penalizzato, affrontando i suoi film con poca attenzione, rimproveran-dogli di fare film facili e commerciali. Se si esclude il suo film d’esordio, Una storia milanese, un premio alla Mostra di Venezia, un articolo su “L’Espresso” firmato Alberto Moravia e un passaggio in Rai in prima se-rata presentato da Gian Luigi Rondi, quasi sempre i suoi film sono stati bistrattati dalla critica ufficiale, il consenso era altrove. Come, nell’arti-colo sulla Monaca di Monza (1969) scritto dal critico d’arte e poeta Fran-cesco Arcangeli e pubblicato nella terza pagina del “Corriere della Sera”. Un articolo dal titolo inequivocabile: “Mi sembra un Capolavoro!”Mentre io cercavo l’ispirazione sul libro da fare, i suoi film continuavano a vivere. Nel 2004 la rivista “Nocturno” dedica un dossier a tre registi milanesi: Cesare Canevari, Alberto Cavallone ed Eriprando Visconti. Una piccola goccia che crea interesse per i film di Eriprando. Si ritor-na a parlare di lui, giovani critici e cinefili stimolati da questo dossier riscrivono criticamente il suo cinema per arrivare al 2010 con la pub-blicazione in DVD di suoi quattro film: La orca, Oedipus Orca, Una spi-rale di nebbia, Malamore. Mi si chiede di realizzare gli extra. Coinvolgo la famiglia, gli amici e collaboratori. Oltre ai suoi film, nelle interviste

della moglie Patrizia, dei figli Edo-ardo e Ortensia, del cugino Marco Gastel, del suo sceneggiatore di fiducia Roberto Gandus, rivive anche lui. Nel 2012 Michael Gia-calone del Dipartimento Cultura Italiana a Washington organizza all’Università di Pittsburgh un weekend cinematografico “Vi-sconti’s Family”: film di Luchino ed Eriprando a confronto e La orca turba più de L’innocente, Una spirale di nebbia coinvolge più di Gruppo di famiglia in un interno. Questi sono segnali che qualco-sa sta cambiando verso il cinema di Eriprando Visconti, il tempo ha forse restituito ai film il loro valore artistico primario. Grazie al montaggio di Kim Arcalli, alla fotografia di Blasco Giurato e ai i costumi di Clelia Gonzales, i film sembrano girati oggi. Quando nel gennaio del 2017 incontro Mario Gerosa, di cui avevo appena letto la bellissima biografia su Anton Giulio Majano, parliamo quasi ca-sualmente del cinema di Eripran-do Visconti. Anche Mario voleva fare un libro su Prandino. Così abbiamo cominciato a mettere in-sieme idee, tematiche e siamo di-ventati subito operativi: una parte riguardante la sua vita e una parte di analisi dei suoi film coinvol-gendo giovani critici, giornalisti e scrittori, impegnati ad affrontare la sua opera a 360 gradi, dai temi principali come: la Trasgressione, la Storia, il Paesaggio, agli elemen-ti fondanti del lavoro di un regista, come la scelta e il lavoro con gli attori, l’uso della musica, ecc. Nel febbraio 2018 esce, grazie alla casa editrice Il Foglio di Gordiano Lupi, Prandino L’altro Visconti– Vita e Film di Eriprando Visconti, regista milanese. Ora che il libro c’è, e i primi dati di vendita sono più che confortanti, la figura di Eriprando è meno oscurata, ac-quistando una dignità autoriale che in vita non ha mai avuto. Mi piace considerarlo un atto d’amo-re, amore per il cinema: per chi lo ha fatto, per chi sogna di farlo… soprattutto per chi crede ancora nella forza, energia e magia che i film racchiudono.

Geografico e antropologico come pochi, il cinema di Federico Fellini a volte disorienta, alla lettera. Un esempio? Il passaggio notturno del Rex al largo di Rimini in Amarcord (1973) chiude una sequenza iniziatasi in pieno giorno. È un’epifania “adriatica” concepita sulla sponda del Tir-reno. Raccontò il direttore della fotografia del film, Giuseppe Rotunno: “La scena fu girata dentro le piscine di Cinecittà. Invece l’imbarco per la serata del passaggio del Rex l’abbiamo realizzato a Fiumicino, stavamo girando un tramonto e gli ho detto: ‘Federico, abbiamo il sole dalla parte sbagliata! A Rimini non tramonta in mare’ – ‘Sto qui per quello!’, mi ha risposto”. Già, l’Adriatico si presta a tale ambivalenza non solo simbo-lica: orienta e disorienta, appunto. Mare “chiuso” e verticale fino all’O-tranto dirimpettaia delle montagne albanesi, fu propaggine lagunare della Serenissima che per molti secoli lo dominò e ribattezzò “golfo di Venezia” o “nostro canal”. Ma l’ipoteca linguistica non è certo bastata a farne limaccio per gondolieri e se la Venezia dell’Era postmoderna ap-

di OSCAR IARUSSI

L ’ A D R I AT I C O D I F E L L I N IL ’ A D R I AT I C O D I F E L L I N I

I luoghi del maestro riminese, con il mare (reale o artificiale)a farla padrone.

geografie

latest - geografie

pare a Régis Debray come una lu-gubre Disneyland ridotta a esibire il declino (una libido al crepusco-lo che del resto è lo stigma del Casanova di Federico Fellini, 1976), l’Adriatico resta pur sempre un mare di storie vivide, tramandate nel congedo del ‘900 e oltre. La dimensione equorea non fa spet-tacolo della realtà, è una realtà spettacolare. Così, per esempio, nel Breviario mediterraneo di Pre-drag Matvejevic, nelle raccolte di Sergio Anselmi, in taluni saggi me-ridiani di Franco Cassano e nei re-portage di Alessandro Leogrande: pagine variamente in debito con Albert Camus, per il quale perder-si significa ritrovarsi.Non v’è portolano che tenga per racchiudere l’Adriatico fra margi-ni sicuri o segni tranquillizzanti. Da ultimo, persino le marine an-siolitiche formato famiglia e i ba-gni romagnoli cari alla Gradisca o alla Saraghina sono punteggiati di caratteri in cirillico per i russi del-la classe media (laddove i ricchi moscoviti prediligono Forte dei Marmi), trasportati con i charter nell’aeroporto intestato a Fellini, al pari delle pizzerie e degli hotel nella sua città natale. E Rimini in vista del centenario felliniano del 2020 allestisce un museo diffuso tra il Castel Sismondo e il Palazzo Valloni del rinato Cinema Fulgor. La lingua slava, apparentemente paradossale alla foce del Marec-chia, è una conferma “turistica” dell’Adriatico quale nostro “Muro di Berlino”: una barriera fluttuan-te e invisibile che, senza la fatica di crollare, fluidificò frontiere e confuse mondi laddove la geopo-litica non aveva neppure immagi-nato potessero lambirsi, come in un film... Fu lo stesso Matvejevic,

L ’ A D R I AT I C O D I F E L L I N I

“filologo del mare”, secondo una magnifica locuzione di Claudio Magris, a testimoniare in un altro suo libro, Mondo ex, dello spae-samento che assale il reduce e il transfuga delle ideologie dopo l’89 europeo. L’esodo cominciò proprio in Adriatico con l’arrivo a Bari della “Vlora” nel 1991, La nave dolce con la prora verso Lamerica dei film di Vicari e Amelio, pre-ludio del Mediterraneo quale via di fuga e incerto approdo, esilio e speranza. Un mare di storie che imporrebbe un bagno di umiltà a tutti noi, sapendo che il sole tra-monta lì dove sorge. Per il giovane Fellini che si raccon-terà ne I vitelloni (1953), l’Adriati-co è un vacuum, è il filo dell’oriz-zonte vuoto e uggioso scrutato dai pontili d’inverno, è una geografia quasi quasi “alla Antonioni” (l’e-sordiente Federico fu additato di... “incomunicabilità” dal criti-co Guido Aristarco), è il “cinema naturale” dei paesaggi poi evocati da Gianni Celati e Luigi Ghirri, è una “carta bianca” da istoriare con sogni e bisogni, a partire dalla necessità di... partire. Ed è subito Roma. La pineta di Fregene in cui dondola Alberto Sordi /sceicco bianco (il parco dal 2014 è intito-lato a Fellini) e la Foce del Rio Tre Denari a Passoscuro nel finale de La dolce vita, la Fontana di Tre-vi e Piazza del Popolo entrambe

“deserte” nelle sequenze clou del capolavoro con Marcello Mastro-ianni e Anita Ekberg, come d’al-tronde l’EUR di Le tentazioni del dottor Antonio, episodio felliniano di Boccaccio ’70.... È un Fellini me-tafisico, mai così limpido e acuto come in Roma (1972): oltre un var-co appena aperto, in una camera stagna si palesano dei magnifici affreschi che subito dopo svani-scono al contatto con l’aria, nello stupore impotente degli esplora-tori. L’archeologia felliniana è una metafora della sparizione che ri-guarda la storia, l’arte e la bellezza, non meno dei sentimenti. I fanta-smi dei genitori parlano a Marcel-lo Mastroianni in 8½ aggirandosi fra i resti dell’acquedotto romano sull’Appia antica (le stesse rovi-ne del Dopostoria di Pasolini e, in seguito, di La grande bellezza di Sorrentino), ma della rivelazione presto non resta che nulla: solo le pietre del tempo, mute. Roma di Fellini non è fiction e non è documentario, è un giornale in-timo che prende le mosse nella Rimini degli Anni ‘30, donde un ragazzo di nome Federico (Peter Gonzales) parte per la Capitale nel 1939: “Sono nato, sono venuto a Roma, mi sono sposato e sono

entrato a Cinecittà. Non c’è al-tro”. L’epilogo del film è affidato al disincanto di Anna Magnani, nella sua ultima apparizione sul-lo schermo: “A Federi’, vattene a dormi’”. Lui insiste: “Ti posso fare una domanda?”. E Nannarella: “No, non mi fido. Buonanotte”. È l’horror pleni il basso continuo delle geografie felliniane, dalla spiaggia di Gelsomina a La voce della Luna (1990), dove Fellini torna con i semplici e i pazzi nel-le campagne dell’infanzia, negli stessi borghi di 8½ e Amarcord, ormai irrimediabilmente trasfi-gurati, e affida a Roberto Benigni l’invocazione testamentale (e forse testamentaria): “Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa po-tremmo capire”. O vedere, final-mente... Dal buio, luce. Dal vuoto, meraviglia. L’unica vera geografia è bambina, là, in riva all’Adriatico, sotto quei cieli struggenti di nuvo-le e di desideri.

90/91

ricorrenze

Un padre, un bambino e una bicicletta, a Roma, nell’anno 1948: l’entrata in vigore della Costituzione, la sanguinosa povertà postbellica del po-polo, l’attentato a Palmiro Togliatti e la speranza su due ruote, quelle che Gino Bartali pedalava per le vie del Tour de France, spronato per via telefonica dall’allora presidente del Consiglio De Gasperi, che confida nella fuga atletico-eroica, metafora di speranza per il Paese. Quella stes-sa due ruote che anche Vittorio De Sica-regista rende protagonista di un capolavoro immortale, Ladri di biciclette, pellicola di quello stesso anno, nata da Cesare Zavattini, che un giorno gli disse: “È uscito un libro di Lu-igi Bertolini, leggilo, c’è da prendere il titolo e lo spunto. Quel soggetto mi appassiona profondissimamente. Solo in due altri soggetti ho credu-to con uguale fermezza, Sciuscià e Umberto D.” (Vittorio De Sica ne Gli anni più belli della mia vita, “Il Tempo”, 16 dicembre 1954). C’è un debito e una gratitudine da parte di tutto il cinema mondiale nei confronti di Ladri di biciclette, anche premio Oscar come Miglior Film Straniero nel 1950 (e nomination per la Miglior Sceneggiatura non origi-nale per Cesare Zavattini), che quest’anno compie 7 decadi, mantenen-do integra una sintassi universale, in cui il cinema tutto si salda in una visione compatta, umana. Un’opera basilare, influente, esemplare per l’essenzialità di un racconto individuale, in cui brilla una forza narrativa contagiosa. Nel nome di tutto questo, il laboratorio L’immagine Ritro-vata di Bologna, la Cineteca di Bologna, Compass Film, Arthur Cohn, Euro Immobilfin, Artedis, con il sostegno di Istituto Luce Cinecittà, hanno curato il restauro del film, che è stato presentato lo scorso mag-

Il capolavoro di Vittorio De Sica, Ladri di biciclette, restaurato in occasione dei 70 anni, a cura de L’immagine Ritrovata di Bologna, la Cineteca di Bologna e, tra gli altri, con il sostegno di Istituto Luce Cinecittà.

di NICOLE BIANCHI

U N A B I C I C L E T T A P E R L ’ I T A L I A D E L ’ 4 8

latest - compleanni

gio a Cannes Classics 2018. Così, un titolo icona del Neorealismo, affi-dato ad interpreti non professionisti, quello che secondo André Bazin è: “il centro ideale attorno al quale orbitano le opere degli altri grandi regi-sti del Neorealismo”, è tornato a risplendere sul grande schermo, come accadde nella sua epifania, quando: “Gli uomini coraggiosi al punto di finanziare il film li trovai tra amici: Ercole Graziadei, Sergio Berardi e il conte Cicogna di Milano. Gli interpreti li trovammo in un modo avven-turoso. Il grande problema fu il bambino. Me ne portarono a centinaia: o erano bellini, romantici, lisciati, o erano incapaci”, ha continuato De Sica nel suo racconto del ‘54. Quel bambino - Enzo Stajola, trovato da De Sica nel quartiere popolare romano della Garbatella, scelto tra tanti per il suo modo di camminare, così come suo padre, l’operaio della Breda Lamberto Maggiorani, che ha recitato il ruolo che sarebbe potuto essere di Cary Grant, se il regista avesse accettato il denaro delle produzioni statunitensi, e la loro ricerca cristologica di una bicicletta per le strade di una Roma postbellica tra la borgata Val Melaina e il centro storico, sono i pilastri di questo film che, sì, compie 70 anni, ma il cui cuore artistico s’affranca all’età eterna dell’universo, impresso sugli occhi, prima e come sull’anima, anche gra-zie alla sua locandina, una piccola opera d’arte del pittore cartellonista Ercole Brini, capace con acquerello e tempere di dare una forma dise-gnata al Neorealismo italiano.

92/93

ricordi

Roma, 1961. Mentre gira L’oro di Roma di Carlo Lizzani, un attore fran-cese neanche trentenne e decisamente affascinante incontra un’attrice italiana neanche trentenne, deliziosamente femminile e già affermata. Lui è ancora poco conosciuto, charmant e nobile per aristocratica di-scendenza. Lei è una piccola diva della porta accanto, lanciata anche a teatro, reduce da qualche anno d’amore con Vittorio Gassman, che ha conosciuto in attesa di divorzio da Shelley Winters. È il colpo di fulmi-ne e la signorina Anna Maria Guerra in arte Ferrero (in omaggio allo zio Willy, musicista, unico che in famiglia aveva creduto nel suo talento) da una quindicina d’anni sulla cresta dell’onda tra cinema e teatro, ne-anche un anno dopo lo sposa. La storia d’amore tra Jean de Combault marchese di Roquebrune, in arte Jean Sorel e Anna Maria Ferrero non si è mai fermata: solo la scomparsa di lei, il 21 maggio scorso a Parigi, dopo una malattia inesorabile, ha chiuso un’intesa inossidabile per ol-tre mezzo secolo, siglata, da parte di lei, da una incredibile dedizione sentimentale. Basta con lo spettacolo, già nel ’63 decide di far la moglie felicemente nell’ombra, pur di vivere in pieno un’unione in cui la star, per ben 33 film girati in Italia - una ventina dei quali solo negli Anni ‘60 - è solo lui, l’unico bello d’Oltralpe capace di contendere il titolo ad Alain Delon, perfino accanto a Luchino Visconti. E dire che la piccola Ferrero aveva cominciato con una grinta da vende-re: ricordarla oggi vuol dire infatti ripescare innanzitutto i sui esordi, da quindicenne, fermata per strada da Claudio Gora che la trova perfetta per il suo Il cielo è rosso. È il 1949 e la sua grazia conquista il cinema al pun-to che inizia per Anna Maria una galleria di interpretazioni sul tono mélo

Anna Maria Ferrero (1934-2018)

V I A D A L C I N E M A P E R A M O R Edi LAURA DELLI COLLI

del Neorealismo rosa: Domani è un altro giorno nel 1951 poi Cronache di poveri amanti (1954), Totò e Carolina (1955) diretta da Mario Monicelli, con un grande Totò agente obbligato a prendersi cura di una ragazza in-cinta e senza famiglia. Con Gassman Amleto (1954) e Otello (1957). Poi nel 1958 Irma la dolce, nell’omonimo musical di cui il grande Vittorio cura la regia.

Della sua filmografia resta indelebile anche La notte brava di Mauro Bo-lognini (1959) ispirato a Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini. Poi il silen-zio. Ettore Scola nel 1985 prova ad offrirle un ruolo in Maccheroni. “Mi ha tentato” diceva, “ma poi ho rinunciato”. E infatti è rimasta lontana dal cinema fino ai suoi ultimi giorni. Felicemente.

PS se posso aggiungere una nota personale: tornando dal mio primo junket internazionale, in un inverno del 1976, mi trovo per caso a tavola a Parigi con due amici di una persona di famiglia molto lontana, peraltro, dagli am-bienti dello spettacolo. Non sapevo fossero due attori ma riconosco subito, già giovanissima precaria del giornalismo cinematografico, proprio loro: Sorel e Ferrero. Ammetto di aver provato un attimo di emozione davanti a una tartare, in un semplicissimo bistrot, ma chiedo timidamente notizie dei loro progetti. Sorridendo mi risponde: “Non lavorare mai più, occuparmi di un marito come Jean e lasciargli fare quello che vuole”. Sull’onda del ‘68, una bella provocazione. Ma, chapeau, la piccola grande Ferrero non ha mai cambiato idea…

latest - ricordi

Carlo Vanzina avrebbe voluto fare il critico prima ancora che il regista. Da bambino pensava che fosse un modo per andare sempre al cinema gratis, mi confessò in uno dei primi incontri per un’ampia intervista sulla carriera dei “famigerati” fratelli Vanzina. Perché, altrimenti, con la sua bulimia spettatoriale, sarebbe costato parecchio. Mi piace pen-sare che già s’intravedesse allora il regista amato dai produttori perché attentissimo al budget, capace di girare con precisione millimetrica il film montato in testa fin dal set. “Con Carlo, girare ai Caraibi costava quanto girare a Manziana”, chiosa il fratello Enrico, l’altra metà della coppia, non semplicemente la parola, ma anche l’occhio accanto e in più (in post-produzione, e oltre). Giovanissimo, Carlo andava pazzo per i film americani (e non solo), non ne aveva mai abbastanza, viveva in sala, organizzava con gli amici cineforum improvvisati in scantinati e simili, riempiva da autentico grafomane pagine e pagine di quaderni e quaderni di notazioni sui film, non solo recensioni, soprattutto nomi, spunti, curiosità tecniche. Sono convinto che oggi ci potremmo trovare prodromi e incunaboli di tanti film realizzati anni dopo: la passione per quell’attore, l’amore per quel film, il gusto per quel tipo di storia. Perché Carlo Vanzina era un vero cinefilo, di quelli che sanno recitare a me-moria intere filmografie e muoversi con sicurezza nei generi comples-si della Hollywood classica, il noir, il gangster, il western (che avrebbe voluto sempre fare, che è riuscito a girare solo come parodia). Un po’ come Alberto Tarallo, che per tutti, se va bene, è il produttore delle fi-ction con Gabriel Garko, seppur tra i massimi cultori italiani del melò hollywoodiano, alla faccia di tanti tromboni. Con Carlo, che conosceva bene, quando s’incontravano doveva essere uno spettacolo assistere a una loro conversazione sui film amati. Questa cinefilia emergeva nei film dei fratelli Vanzina, nei luoghi più impensati: dietro un Proietti am-nesiaco fanno capolino Capra e Lady for a Day, il bastone con lama re-trattile del villain di Gilda ispira l’analoga arma di un poliziotto corrotto in uno dei (rari) thriller, Il padre della sposa, fa da quinta a Brignano co-stretto a cenare con la figlia racchia del capo. E poi, tanto Ritorno al futu-

Carlo Vanzina (1951-2018)

I L C R I T I C O ( G E N T I L E )C H E N O N C ’ È S T A T Odi ROCCO MOCCAGATTA

ro (questo è facile da scoprire), parecchio Weekend con il morto (questo è un po’ meno facile), un pizzico di New Hollywood, soprattutto agli inizi (questo è difficile). E, ça va sans dire, la commedia dei padri e dei mae-stri, Risi, Monicelli, Scola, che, ora l’uno ora l’altro, hanno dovuto rico-noscere che sono stati proprio i Vanzina a portare avanti la loro tradizio-ne, Carlo anche nello stile, nella velocità, d’ispirazione e d’esecuzione, nell’invisibilità discreta dietro la mdp. Però, quella cinefilia bisognava anche un po’ saperla cogliere, e qui, spiace dirlo, i critici veri, suoi col-leghi mancati, non hanno mai troppo brillato. Era più bravo Carlo, che i critici li leggeva (anche quando non parlavano di lui) e spesso i film li capiva meglio di tanti di loro. Che preferivano buttarla sui Cinepanet-toni, su “Iside, famme ‘na pompa!”, su Boldi e le sue avventure scato-logiche. Anche qui, tirando una riga sopra una genealogia abbastanza illuminante, ché Carlo (come Enrico) era figlio di Steno, e dietro Steno, di quella cafe society degli Anni’50 e ’60, Via Veneto e dintorni, che ci ha lasciato tanto come impronta culturale, non solo qualche bella battu-ta da riciclare sui social per sembrare più intelligenti. Così come Carlo ci lascia 60 film, di commedia (con qualche sorpresa), diverse fiction, qualche sceneggiatura scritta per altri, tutto o quasi in tandem con Enri-co, un lascito prezioso, una filmografia d’altri tempi, come quella di uno Steno appunto, partita a ridosso dell’attualità e poi svaporata con grazia in una dimensione fuori dal tempo, che si potrebbe avere la tentazione di attribuire a un classico. “È meglio dei film che fa”, concedeva più d’u-no, magari senza prendersi la briga di vederli davvero. Pazienza, l’hanno capito meglio i tantissimi attori, italiani e stranieri, che l’hanno molto amato, per il garbo gentile che sempre si accompagna alla capacità au-tentica. “Io senza cinema morirei. È la mia vita!”: è stata una delle poche volte che ho intravisto in lui una serietà non temperata dalla leggerezza di una battuta a smorzare il pathos, come sempre. In uno degli ultimi sms che mi ha scritto c’è tutto Carlo Vanzina spettatore appassionato, critico innamorato del cinema fino alla fine: “Stasera ho visto Colpo da otto e due giorni fa Lettera al Kremlino!” Ciao Carlo!

94/95

La rottura messa in atto dal Festival di Cannes e l’apertura della Mo-stra di Venezia. Sono i due poli della complicata risposta europea a Netflix, la società fondata da Reed Hastings per la trasmissione in streaming di serie Tv e film. “Bestia digitale” che fin dai suoi esordi ha spiazzato equilibri consolidati nell’industria dell’entertainment provocando nuovi assetti nella tv, nel cinema, nelle telecomunicazio-ni. “Nemico pubblico numero uno”, la chiamano a Hollywood stan-do al “Wall Street Journal”. “Il posto dove i film vanno a morire” l’ha definita il vecchio Rupert Murdoch che di business se ne intende. La “bestia digitale” farà bene o male alla fabbrica dell’immaginario? Che strumenti ha a disposizione per farci i conti? Le risposte stanno forse tra i due poli: tra la decisione “protezionistica” di Cannes che ha esclu-so dal concorso i film destinati solo all’online e non alla sala (dunque quelli di Netflix) e l’ “apertura” della Biennale di Venezia che lancia un ponte al futuro anche se pieno di insidie: strategie complesse, per-ché il gioco si è fatto duro nel giro di pochissimo tempo. Ma un passo in questo senso lo sta compiendo l’Europa con una maxi-riforma del sistema audiovisivo, soluzione compromesso tra le richieste di Paesi “falchi” e “colombe” ai giganti USA dello streaming.

Al centro della tensione tre fattori esplosivi: i numeri in vertiginosa cre-scita, l’attacco alla sala cinematografica come pilastro della strategia di sviluppo, un modello di distribuzione che basa la sua potenza sull’uti-lizzo dei dati digitali.

Tra gennaio e marzo di quest’anno Netflix ha registrato 7,4 milioni di nuovi abbonati: ora sono 117 milioni in tutto il mondo tranne Cina, Cri-mea, Corea del Nord e Siria. Il fatturato è cresciuto del 43% nell’ultimo anno a 3,7 miliardi di dollari. Quest’anno investirà 8 miliardi di dollari in 800 titoli tra serie e film – più del doppio di qualunque Studios. Niente break even in vista, per ora, ma una folle corsa all’espansione.

Il secondo dato allarmante è contenuto nelle parole usate dal numero uno dei contenuti, Ted Sarandos, contro il “sistema sala”. Conviene leg-gerle con attenzione: “In sala vedo sedie scomode, gente che chiacchie-ra e guarda il telefonino, pavimenti sporchi e schermi piccoli. Eppure, le windows non sono ancora state toccate dall’avvento di Internet: non so per quanto ancora le cose rimarranno così. Non è un buon affare impe-dire alle persone di fare quello che vogliono…”.

L’attacco alle “finestre” è esattamente il pezzo forte dei piani di espan-sione della società. Dice Emilio Pucci, direttore di E-Media Institute, so-cietà di analisi con sede a Londra: “Dopo aver eroso il terreno dell’Ho-me Video fisico, avviato ormai al declino, Netflix punta alla sala che mantiene il controllo della prima finestra di sfruttamento del film”.

In questo senso la guerra ingaggiata dal direttore di Cannes ha un forte senso politico e strategico: niente Festival se fai della guerra alla sala la tua fortuna.

FALCHI E COLOMBE CONTRO NETFLIX & CO.

Come l’Europa stabilisce le prime regole: dalla rottura di Cannes all’apertura di Venezia.

di ROBERTA CHITI

innovazioni

latest - innovazioni

96/97

Il tutto all’ombra di un modello di distribuzione che fa per-no sulla forza “disruptive” tipica del mondo digitale:

grazie a una complessa architettura di algoritmi (si chiama Netflix Recommender System) la piattaforma prende costantemente il polso dell’abbonato registrando cosa vede, quando,

su che dispositivo, a che ora del giorno, in quale giorno della settimana, con che intensità. “Il recommender

system – dice Augusto Preta, direttore generale di ITMedia Consulting - deve produrre suggerimenti tali che sia altamente probabile, o meglio ancora certo, che l’utente trovi un contenuto di interesse”. In questo senso Netflix è un perfetto player dell’industria tech: come Facebook, costruisce una “bolla” che rappresenta l’alter ego digitale dell’abbonato costruito sulle sue preferenze.

Certo è difficile scendere a patti con la “disruption”, ma ne va della sopravvivenza di intere industrie: al di là dei singoli accordi stretti da Netflix con player locali, sta prendendo forma a livello europeo una strategia che punta a trovare aree di collaborazione con le nuove piat-taforme digitali a sostegno delle cinematografie, è quanto prevede la Audiovisual Media Service Directive che vincola Netflix, Amazon e le altre piattaforme streaming a proporre in catalogo più film europei: il 30%. Ma anche l’obbligo di investimento nelle produzioni naziona-li sia attraverso la modalità “diretta” che “indiretta”, a un fondo na-zionale ad hoc. L’Italia si è mossa per tempo: il Decreto Franceschini prevede già una serie di operazioni nella stessa direzione. “Tra le due modalità, l’investimento diretto mi sembra di gran lunga più rispetto-so della libertà editoriale ed economica degli operatori – dice Ernesto Apa, socio dello studio legale Portolano Cavallo -, libertà che già su-bisce una severa compressione nei Paesi che, come Francia e Italia, si sono avvalsi della facoltà di introdurre obblighi più stringenti rispetto a quelli previsti dalla direttiva”.

Il primo passo è stato fatto, resta da vedere su quale punto di equilibrio si attesteranno le forze in campo. I due poli tracciati da Cannes e Vene-zia stanno mettendo in luce prospettive nuove.

FALCHI E COLOMBE CONTRO NETFLIX & CO.

Il cinema e tutte le sue derivate, siano esse televisive, web, pubblicitarie, corporate e altre, sono la forma di narrazione ormai più diffusa. Ha una capacità di attrazio-ne che nessun’altra forma narrativa riesce ad esprimere. Il motivo sta nel fatto che il cinema è la forma dei nostri sogni, della nostra immaginazione, dei nostri pensieri.Come ogni altra forma di narrazione, si regge su un impian-to economico, finanziario, industriale e tecnologico. Lo stesso avviene per l’editoria, l’architettura, il fashion, il de-sign, ormai applicato in pressoché tutti i settori industriali. Creatività, arte, immaginazione sono da sempre connesse a forme e variabili imprenditoriali, societarie, di organizzazio-ne della produzione, della distribuzione e delle pratiche di consumo.

Il cinema e le sue tante forme derivate audiovisive han-no invaso e spesso cannibalizzato i modi precedenti di consumo e spazi di tempo dell’uomo. Oppure si sono reciprocamente “contaminate”. È il caso ormai consolidato della pubblicità, che può essere consi-derata, al di là del fine economico, una forma di espressio-ne che assume qualità cinematografica e che, nello stesso tempo, contamina il cinema. Avviene con la stampa, quella quotidiana o periodica, le cui derivate Internet si avvalgono

L E T R E E R E S I E D E L C I N E M A

L’autore di Economia, Management e Finanza dell’Impresa Cinematografica ed Audiovisiva anticipa i punti cardine del volume, che analizza le connessioni tra immagini e altre forme di narrazione anche dal punto di vista industriale e finanziario.

di GIANNI CELATA

latest - innovazioni

dalle altre, nella misura in cui si fonda, il che potrebbe apparire un ossi-moro, su tre eresie economiche. La prima eresia economica riguarda proprio il rapporto tra costi del pro-dotto cinematografico e i mezzi propri della società di produzione. La produzione di un film assume, infatti, la forma di un quasi spin off attor-no al quale si raccolgono altri finanziatori in termini di equity, softmoney e presales.La seconda eresia consiste nella sfasatura tra il tempo in cui maturano i costi per la realizzazione di un film e i tempi di acquisizione del contri-buto finanziario dei vari altri partecipanti alla copertura del suo costo.La terza eresia riguarda la sfasatura tra i tempi di maturazione dei costi per la produzione di un film e i tempi del recupero economico del film che parte dal theatrical, prosegue con l’home entertainment e si dipana nelle varie forme di televisione e quindi nelle fruizioni ancillari.La società di produzione cinematografica affronta, per ogni singolo film, queste tre eresie economico-finanziarie di non poco conto, pressoché sempre con affanni e ansietà ricorrenti. Che fare per aiutare la produzio-ne? C’è bisogno dell’introduzione nel nostro Paese di strumenti come il bridge e il gap financing che oggi ci sono, ma in forme criptiche e non chiarificate. Oltre a questo, produrre in un’ottica internazionale diventa ormai un prerequisito obbligatorio per la diversificazione del rischio e per affrontare gli alti costi che richiedono la confezione creativa e indu-striale del prodotto in un mercato ormai molto concorrenziale.

Industria che sta affrontando una sfida ancora più esaltante di altri settori nella misura in cui il suo prodotto è completamente digitabile e quindi distribuibile con il Protocollo Internet. Questa circostanza ha ampliato la platea dei protagonisti: OTT e Telcoms in pri-mo luogo. A questa invasione i protagonisti di sempre stanno reagendo. La sala cinematografica spostandosi verso la multiprogrammazione, che sta esplorando anche format nuovi come i cosiddetti contenuti complementari e andando verso la ricerca di modi con cui aumentare la user experience dello spettatore. I broadcaster, sia terrestri sia satelli-tari, a creare branch OTT per i propri contenuti. In questa fase, dopo un primo approccio guidato dalla diffidenza e for-temente concorrenziale, si sta assistendo a forme di collaborazione, tra vecchi e nuovi protagonisti, che portano ad allargare ancor più lo spazio di tempo in cui lo spettatore può fruire del contenuto filmico. C’è stata quindi una comprensione dell’importanza di come la fruizione consu-mi, come per gli altri prodotti media, ma come non avviene per nessun altro prodotto industriale, il tempo del consumatore finale. L’arric-chimento dei modi di godimento, anche in nomadismo o/e mobilità, si-gnifica allargamento del mercato anche per prodotti, come i documen-tari, che stentavano ad averlo.Il testo Economia, Management e Finanza dell’Impresa Cinematografica ed Audiovisiva (https://stores.streetlib.com/it/giandomenico-celata-e-ros-sella-gaudio/economiamanagement-e-finanza-dellimpresa-cinemato-grafica-ed-audiovisiva/) prova a raccontare tutto ciò.

in maniera sempre più determi-nante di supporti audiovisivi. Si conferma con la narrativa, che da sempre si contamina vicendevol-mente con il cinema e tende a usa-re i booktrailer per promuoversi. E infine la contaminazione si “esal-ta” con i cartoon e i videogiochi.

Non c’è ormai forma di narra-zione che si svolga senza l’e-spressione audiovisiva e quin-di della sua matrice originaria: il cinema.Caso a parte da sottolineare è il rapporto tra musica e cine-ma. La musica indica la strada che seguiranno poi gli altri media, in termini di modalità di distribu-zione e di consumo. Avviene dal ‘600 quando Mozart, costretto dalle sue vicende professionali ed economiche, inventò, grazie ad un mercante parigino, la commer-cializzazione degli spartiti musi-cali, al secolo attuale quando con Internet precedette tutti gli altri, cinema incluso, nella distribuzio-ne digitale. Non solo, scendendo nei particolari, detta il pricing del-la distribuzione digitale e, nello stesso tempo, e paradossalmente, la rivalutazione espressiva ed eco-nomica di una delle forme più an-tiche di narrazione: lo spettacolo dal vivo. La crescita del consumo digitale di musica si accompagna infatti con la rivalutazione dei concerti dal vivo. Lo stesso vale per le performance teatrali che vedono sempre più la presenza attoriale del cinema. Quasi come se attori e attrici, che conoscono una vita principale nei film, sen-tissero il bisogno di risciacquare i panni in Arno.

Il cinema come industria ha un alto coefficiente di rischio, sia per il produttore sia per il consuma-tore. Questo l’ha portato ad assu-mere paradigmi economici-socie-tari-finanziari diversi, secondo le caratteristiche dei singoli mercati nazionali nativi. Mercati peraltro resi sempre più internazionali e di easy approch, dalle tecnologie digitali e Internet e di applicazio-ne ai cosiddetti mobile device: pc, tablet, smartphone, videogame.Un’industria, quella del cinema, che si caratterizza diversamente

98/99

“Amici miei, mi rivolgo a voi per ciò che davvero siete: illusionisti, sirene, viaggiatori, avventurieri e maghi. Venite a sognare con me”. Parlava così al suo pubblico incan-tato il regista e illusionista francese Georges Méliès quando, agli al-bori della cinematografia, amava sperimentare ogni sorta di effetti speciali alla ricerca di vivaci e sem-pre più prodigiose soluzioni tecni-che e narrative capaci di spalanca-re le porte verso il mondo dei sogni

È dedicato al pioniere degli effetti speciali Georges Méliès il primo Doodle in realtà virtuale,

Ritorno alla Luna. Un filmato interattivo e liberamente navigabile dallo spettatore il quale può scegliere dove guardare e come muoversi. Ma non è l’unica

incursione nelle narrazioni immersive a opera di Google, che ha lanciato le Spotlight Stories realizzate

appositamente per mobile e disponibili sull’omonima app.

DI CARMEN DIOTAIUTI

e dell’immaginazione. Un pioniere degli effetti speciali rivoluziona-rio e visionario, a cui Google ha dedicato il suo primo, altrettanto visionario, Doodle interattivo, Ritorno alla Luna, diretto da Fx Goby ed Hélène Leroux e realiz-zato con la tecnologia della realtà virtuale (VR). Un corto animato che, come di consueto, può esse-re lanciato dalla variante illustrata del logo di Google che appare sulla home page di ricerca in occasione

di eventi da celebrare. Un filmato in VR, interattivo e liberamente navigabile dallo spettatore a 360°, che può scegliere dove guardare e come muoversi, diventando così, nella pratica, macchina da presa e insieme autore del montaggio del film cui assiste. Pubblicato onli-ne lo scorso maggio, in occasione dell’anniversario di Alla conquista del Polo - capolavoro di Méliès del 1912 nel quale offriva una diver-tita e fantasiosa interpretazione

R I T O R N O A L L A L U N A , D A M É L I È S

A L L A R E A L T À V I R T U A L E

latest - internet e nuovi consumi

internet e nuovi consumi

100/101

delle allora recenti esplorazioni di Amundsen nelle Regioni polari - Ritorno alla Luna è un racconto coinvolgente capace di trasportare lo spettatore in un mondo intriso di magia, navigabile attraverso un visore tridimensionale, le cui se-quenze hanno una peculiare do-minante cromatica per richiamare all’uso del regista di dipingere i singoli fotogrammi delle pellicole per dar loro colore. Nel racconto un affascinante illusionista, un’av-venturosa regina di cuori e un dia-volo malvagio celebrano la vivace fantasia del regista e prestigiatore francese con un viaggio tra i pri-mi esperimenti del cinema, e non può che terminare con l’iconica immagine del razzo nell’occhio della luna. La storia mette in rilie-vo alcuni dei trucchi illusionisti-ci ideati da Méliès per dar vita ai suoi mondi magici pieni di effetti teatrali e pirotecnici, precursori degli odierni effetti speciali: dalle sparizioni in mezzo a fiamme, gas e vapori, ottenute interrompendo le riprese e facendo uscire di scena il personaggio, alla fantasmagorica moltiplicazione dei protagonisti in scena, creata tramite sovrimpres-sione sulla pellicola, riprendendo più volte uno stesso protagonista in posizioni differenti.

Il Doodle, prodotto da Nexus Stu-dios, è stato realizzato da Google Doodle, Google Spotlight Stories, Google Arts & Culture in collabo-razione con la Cinémathèque Française, il cui direttore del Pa-

trimonio, Laurent Mannoni, ci tiene a sottolineare come Méliès fosse affascinato dalle nuove tec-nologie alla continua ricerca di invenzioni originali: “Immagino che sarebbe stato molto contento di vivere nella nostra epoca, così ricca di esperienze cinematogra-fiche immersive, effetti digitali e immagini spettacolari sugli scher-mi. Si sarebbe indubbiamente sentito lusingato di trovarsi sotto i riflettori grazie al primo Doodle di Google in assoluto fruibile tra-mite video a 360° o realtà virtuale, portato sotto i riflettori in tutto il mondo grazie a un nuovo sistema dagli sconfinati poteri magici”. Del resto per Méliès la pellicola e la ci-nepresa non erano semplici stru-menti per catturare le immagini, ma piuttosto mezzi per trasportare e far immergere completamente le persone all’interno di una storia, come sottolinea la scenografa del Doodle, Hélène Leroux: “Méliès ha portato la magia nel mondo del cinema grazie a un ampio ventaglio di trucchi e illusioni. E noi voglia-mo rendergli omaggio utilizzando uno degli strumenti più innovativi e coinvolgenti di cui disponiamo al giorno d’oggi per raccontare una storia: la realtà virtuale”

Ritorno alla Luna non è, però, sol-tanto un innovativo Doodle, ma anche una delle Spotlight Stories lanciate da Google e disponibili attraverso l’omonima app: una for-ma di narrazione immersiva e inte-rattiva, realizzata appositamente per dispositivi mobili e VR che di-ventano la finestra attraverso cui lo spettatore può osservare la storia. Muovendo il telefono durante la visione si sposta la videocamera

all’interno del mondo virtuale, ed oltre che spostare lo sguardo per esplorare gli scenari da angolazio-ni diverse è anche possibile sbloc-care micro-narrazioni all’interno della storia. Tra i video disponibili un inedito dietro le quinte in VR del film di animazione in stop-mo-tion di Wes Anderson L’isola dei cani, in cui è possibile incontrare parte del cast canino alle prese con una sessione di interviste sul set; il filmato interattivo Il pianeta dei divani, realizzato dal team creatore dei Simpson per celebrare il seicen-tesimo episodio della serie; il bel corto Pearl, racconto di un padre e di una figlia che attraversano l’A-merica per inseguire i propri sogni a bordo di un’auto, che è la loro casa, realizzato da Patrick Osbor-ne e vincitore nel 2017 di un Emmy e candidato, prima volta per un VR, agli Oscar come miglior corto.

L ’ A N N O D E R C A N A R O

Suscita curiosità vedere distribuiti nello stesso periodo due film sul medesimo argomento (un efferato fatto di cronaca degli Anni ’80). Entrambi validi prodotti per il loro genere, il Dogman di Garrone e il Rabbia furiosa di Stivaletti, con la loro uscita ravvicinata, ci ricordano di quando il cinema italiano cavalcava l’onda dei grandi successi richiamandone il titolo o l’atmosfera…

di ANDREA GUGLIELMINO

latest - marketing del cinema italiano

marketing del cinema italiano

Ad aprile dello scorso anno, Mat-teo Garrone annunciava di aver momentaneamente abbandonato il suo progetto di trasporre Pinoc-chio per il cinema per dedicarsi a tutt’altro tema: il suo successivo film, Dogman, sarebbe stato infatti ispirato a uno dei più atroci delitti della cronaca nera degli Anni ’80, conosciuto come l’omicidio “der canaro”, fattaccio verificatosi alla periferia di Roma dove un mite toelettatore di animali seviziò per ore e infine uccise il pugile che lo tormentava fisicamente e psico-logicamente da mesi. Il risultato ora è sotto gli occhi di tutti, il film

maestria del regista poche decine di comparse truccate sembrano diventare centinaia di morti vi-venti all’attacco del ponte di Bro-oklyn – ambientati a New York. Funzionò: la pellicola incassò in totale 1.502.251.238 di lire, classi-ficandosi al 57° posto della clas-sifica annuale e suscitò un certo clamore. Complessivamente, nel mondo, guadagnò circa 30 milioni di dollari, secondo molte fonti ri-scuotendo un successo superiore a Zombi. A Romero e Dario Argen-to, che aveva di fatto co-prodot-to Zombi (insieme a suo fratello Claudio) e curato il montaggio dell’edizione, la cosa non piacque, e in particolare non venne apprez-zata la frase di lancio: “...quando i morti usciranno dalla tomba, i vivi saranno il loro sangue...”, che rie-cheggiava la frase promozionale del film di Romero, “Quando non ci sarà più posto all’inferno, i mor-ti cammineranno sulla Terra”, così tra i due autori si venne a cre-are un divertente battibecco che in realtà aiutò entrambe le pelli-cole, e quella di Fulci venne pure rivalutata dalla critica negli Anni ’90 e 2000. “Nocturno” lo defini-sce “un’opera rivoluzionaria, dal punto di vista estetico e tecnico, rispetto alla tradizione horror, e non solo italiana” nel dossier n.3. L’opera al nero. Il cinema di Lu-cio Fulci del 2003. Altro celebre esempio è l’Alien 2 – Sulla Terra di Ciro Ippolito, girato in grande economia alle grotte di Frasassi per cavalcare il successo del capostipite di Ridley Scott, ma ricordiamo anche il Terminator 2 di Bruno Mattei (1990), uscito due anni prima del seguito uffi-ciale di James Cameron. Casi in cui il tempismo e il marketing diventavano decisamente più im-portanti del valore stesso del film. Inutile dire che negli altri Paesi queste pellicole sono uscite tutte con titoli differenti, ma non sono solo i registi e i distributori italiani ad aver furbescamente sfruttato in distribuzione un titolo celebre. Ad esempio, in Giappone, Pro-fondo rosso di Argento è stato di-stribuito tardivamente col titolo di Suspiria 2, dato il successo del film argentiano sulle streghe nella terra del Sol Levante.

zando un prodotto a buon mer-cato che puntasse solo sul “gore” per agganciarsi all’annunciato successo del “rivale” autoriale. In verità, Stivaletti si è distinto per aver realizzato un film con una struttura solida e profon-da, tutt’altro, insomma, che un “fratello minore”, sebbene negli ultimi dieci minuti (sconsiglia-tissimi alle anime candide) non lesini di raccontare la tortura nel dettaglio come il suo pubblico si sarebbe aspettato da lui. “Quel brutto fatto – ci ha tenuto a pre-cisare Stivaletti presentando il film Rabbia furiosa: er canaro alla stampa – a noi romani è rimasto dentro, ho sempre immaginato di poterci lavorare. Avevo la sce-neggiatura pronta già da tempo e rispetto a Garrone ero più avanti, ma non trovavo un produttore. Ho capito che dovevo essere io a mettermi direttamente in campo e forse l’annuncio del film di Mat-teo mi ha stimolato, le cose si sono messe per il verso giusto”. Sembra proprio “l’anno der canaro”, dato che il misfatto, avvenuto trent’anni fa, è al centro anche di un romanzo scritto da Antonio Del Greco e Massimo Lugli, oltre che del rac-conto contenuto nel volume Fat-tacci di Cerami, che è del 2014). Il film di Garrone è certamente più simbolico e intimista, non mostra la violenza ma la suggerisce, diven-tando una parabola universale, ma non è tanto il confronto tra le due pellicole che ci interessa in questa sede, quanto l’abile strategia di far-le uscire quasi in contemporanea. Non che ci sia niente di male e non è nemmeno una cosa nuova nell’ambito del cinema di genere italiano, solo che i memorabili precedenti si mettevano più al rapporto con le pellicole USA, come il leggendario Zombi 2 di Lucio Fulci, con un richiamo nel titolo allo Zombi di Romero che però, nella sua terra d’origine, si chiamava Dawn of the Dead ed era a sua volta un “capitolo 2”, per la precisione de La notte dei morti viventi. La storia non c’entrava assolutamente niente e riportava la figura dello zombie alle sue ori-gini esotiche e all’ambientazione caraibica, se si escludono un pro-logo e un finale – dove grazie alla

è passato a Cannes ed è valso a Marcello Fonte il premio per la Miglior Interpretazione Maschi-le, rivelandosi un successo di cri-tica e di pubblico. Ad agosto del 2017, però, anche qualcun altro annunciava di star lavorando allo stesso tema: era Sergio Stivalet-ti, mago dell’effettistica speciale tradizionale – conosciuto per il suo lavoro soprattutto in ambito horror con Argento, Bava e Soavi – e poi regista per MDC- Maschera di cera (1997) e I tre volti del terro-re (2004). Era facile pensare che si trattasse del classico tentativo di cavalcare l’onda, magari realiz-

102/103

biografie

latest - biografie

CORRADO COLOMBO

SILVIO DANESE

ROBERTA TORRE

CLAVER SALIZZATO

CARLO CRESTO-DINA

Inizia giovanissimo a girare film in Super8, diviene poi assistente di Eriprando Visconti per Malamore (1982). Nello stesso periodo fonda una società di produzione e distribu-zione. Nel 1998 realizza il cortometraggio Nulla da dichiarare. Nel 1999-2000, per il Giubileo e la Regione Lazio, cura 6 episodi sulla vita di sei sante (Maria Goretti ottiene il Premio della Giuria al Festival del Cinema di Salerno). Nel 2000 realizza il film La donna del delitto, nel 2001 Con gli occhi dell’assassino, nel 2002 Encantado. Nel 2018 ha curato, con Mario Gerosa, il libro collettivo Prandino. L’altro Visconti.

Silvio Danese è giornalista e critico cinema-tografico per QN (Il Giorno, La Nazione, Il Resto del Carlino). È stato consulente della Mostra di Venezia e curatore di rassegne. Tra le sue pubblicazioni “Abel Ferrara, l’anar-chico e il cattolico” (Le Mani, 1998), “Anni fuggenti - Il romanzo del cinema italiano” (Bompiani, 2003), “Il suono della neve” (Bompiani, 2009). Vive e lavora a Milano.

Nata a Milano, ha scritto e diretto lungometraggi presentati a Cannes, Venezia e al Sundance, vincitori di David di Donatello e Nastri D’Argento: Tano da morire (1997), Sud Side Stori (2000), Angela (2002), Mare Nero (2006), I baci mai dati (2012), Riccardo va all’inferno (2017). Ha messo in scena spettacoli al Teatro Greco di Siracusa, a Taormina Arte, al Piccolo Teatro di Milano, al Teatro Biondo Stabile di Palermo. Tiene masterclass e corsi con universi-tà americane, è stata artist in residence al Mills College in California. Ha pubblicato il romanzo Il colore è una variabile dell’infinito e il li-bro a fumetti Il giocatore, illustrato da Gianni Allegra.

Claver Salizzato, storico e critico del cinema, è stato, nella seconda metà degli anni ’80, collaboratore della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, diretta da Lino Miccichè e Bruno Torri. Come saggista ha pubblicato monografie su Robert Aldrich e John Schlesinger (Castoro Cinema), ol-tre che su Marlon Brando, il musical americano ed il cine-ma italiano dell’ultimo decennio. Come sceneggiatore ha firmato i copioni dei film Io e il Re di Lucio Gaudino, Tra due mondi di Fabio Conversi, I giorni dell’amore e dell’odio e I fiori del male (questi ultimi anche diretti).

Carlo Cresto-Dina, produttore e fondatore di Tempesta nel 2009, casa che produce film di autori europei e progetti crossmediali pensati per la distribuzione internazionale. Tra i titoli più significativi L’intervallo e L’intrusa di Leonardo Di Costanzo; Corpo Celeste, Le meraviglie e il re-cente Lazzaro Felice, premio Miglior Sceneggiatura al Festival di Cannes, tutti film per la regia di Alice Rohrwacher.