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Per piacere Letture per il modulo di Storia della filosofia Master’s in Culture moderne comparate a.a. 2006-7 Richard Davies

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Per piacere

Letture per il modulo di

Storia della filosofia

Master’s in

Culture moderne comparate

a.a. 2006-7

Richard Davies

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Indice dei testi in ordine cronologico

Democrito di Abdera (frr. 191, 210, 235) p. 5

Platone di Atene Fedone (59-60) p. 7

Protagora (351-9) p. 9

Gorgia (490-7) p. 18

Filebo (31-2 e 42-4) p. 28

Repubblica (schema del Lib. VIII) p. 33

Aristotele di Stagira Movimenti degli animali (capp. vi e vii) p. 34

Etica Nicomachea (I, i-v e xii-xiii) p. 36

(II, i-iii) p. 44

(III, x-xii) p. 49

(VII) p. 56

(X) p. 78

(schema comparativo di VII e X) p. 93

Politica (I, ix) p. 95

Metafisica (XII, vii-ix) p. 98

Epicuro da Samo Lettera a Meneceo p. 106

Massime capitali p. 110

Crisippo da Soli Frammenti etici (frr. 154-8 e 178-82) p. 114

Filostrato Vite dei sofisti (I, 1) p. 117

Diogene Laerzio Vite dei filosofi (VIII, viii) p. 118

Thomas Hobbes Leviatano (I, vi) p. 120

John Locke Saggio sull’intendimento umano (II, xx) p. 126

David Hume Ricerca sui princìpi della morale (Appendice I) p. 130

Pietro Verri Sull’indole del piacere (cap. ii) p. 138

Edmund Burke Inchiesta sul bello e il sublime (I, i-vii) p. 143

Jeremy Bentham Princìpi della morale e della legislazione(I, iv) p. 149

John Stuart Mill Utilitarismo (capp. ii e iv) p. 152

Gilbert Ryle ‘Il piacere’ p. 162

Robert Nozick da Anarchia, Stato e Utopia p. 174

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Proposta di articolazione dei temi trattati

Data Argomento Letture

15/1 Edonismo e utilitarismo: dottrine malfamate ma persistenti

La figura di Eudosso di Cnido, il più influente pensatore della

tradizione occidentale

Il ragionamento del Testimone

– il ‘cognome di famiglia’

– chi è ‘l’amante del piacere’?

Diogene Laerzio,

Vite, VIII, viii

Filostrato, Vite, I, i

Aristotele, EN, X, ii

Aristotele, EN, VII,

xiii

22/1 La figura di Callicle: crescere i desideri

– l’anaplerosi del caradrio e del cinedo

– i piaceri turpi piacciono solo ai corrotti

– i piaceri del ventre

– i piaceri ‘cinetici’ e ‘catastematici’

– i piaceri ‘naturali e necessari’

– i piaceri ‘alti’ e ‘bassi’

Platone, Gorgia 490-

7

Aristotele, EN, X, v

Democrito, frr.

Epicuro, Men, 127-8

Mill Utilitarismo,

cap iv

23/1 Il ragionamento della Misura

– piacere un male (Speusippo)

– piacere un indifferente

– la presunta futilità del piacere

– gli usi educativi del piacere

– che vantaggio c’è nel ‘buon gusto’?

– il piacere del ‘sublime’

Aristotele, EN, I, xii

SVF, III, 154-8

Aristotele, EN, X, i

Burke, Inchiesta

24/1 Il ragionamento della Culla

– l’inaffidabilità dei bambini

– la culla vuota di Epicuro

– i desideri di Mill

– voglie, appetiti e l’intenzionalità delle preferenze espresse

Aristotele, EN, X, ii

SVF, III, 178-82,

Utilitarismo cap ii

25/1 Una preferenza per il dolce

– edonismo etico e edonismo psicologico

– la non-contingenza dell’inclinazione verso il piacere

– moti naturali e il piacere divino

– La realtà degli oggetti del piacere

Hobbes, Leviatano,

vi

Locke, Saggio, II, xx

Aristotele, Metaf XII

Nozick, ‘Macchina’

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30/1 Il ragionamento del Fine

– un motivo per agire

– l’archittetonica di mezzi e fini

– ‘farlo per i soldi’: mezzi puri

– il regresso dei fini

– piacere e ‘exaptation’

– evitare dolore per raggiungere aponia

Aristotele, EN, I, xii;

X, ii

Aristotele, EN I, i-iii

Aristotele, Pol, I, ix

Hume, Seconda

Ricerca, appendice I

Epicuro, Mass. cap.

31/1 Il ragionamento degli Opposti

– Socrate e le catene

– gli orci forati e i compiti delle Danaide

– piaceri impuri e falsi

– monotrofi e la generazione del piacere ‘morale’

– la base neurofisiologica: il nucleus acumbens, sistemi del

piacere, dopamina e gli endorfini

Aristotele, EN, VII,

xiii; X, ii

Platone, Fedone,

Platone, Gorgia

Platone, Filebo

Verri, Indole

1/2 Deontologia e assiologia

– le dimensioni utilitaristiche

– l’utile è dilettevole: quanti ‘hedon’ e ‘qualy’

– la commensurabilità dei piaceri

– perché calcolare sul lungo andare se, sul lungo andare,

siamo tutti morti?

– mettere i piaceri nella bilancia

– temperanza, continenza e akrasia

– il sillogismo pratico

Bentham, Princìpi,

iv

Epicuro, Men

Platone, Prot. 354-7

Aristotele, Mov. an.,

vi-vii; EN VII, i-vi

6/2 Distribuzioni del piacere

– ‘la maggiore felicità per il maggior numero’

– l’imparzialità temporale e personale

– costi e benefici nelle scelte pubbliche

– atto e omissione, e la tesi dell’equivalenza

Bentham, Princìpi,

iv

7/2 Il ragionamento dell’Energia

– la dottrina dell’eudemonismo

– piacere, attenzione e sensazione

– ragione, passioni e l’armonia dell’anima

– come assicurarsi 729 volte più piacere

Aristotele, EN, X, iv

Aristotele, EN, II, iii

Ryle, Dilemmi, IV

Platone, Rep, VIII

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Democrito di Abdera (c. 500-c. 410 a.C.)

Frammenti dei presocratici

(a cura di H. Diels e W. Kranz, 1903 ecc.)

traduzione Matteo Andolfo

DK 68B191 (Stobeo, Antologia, III, 1, 210), Sentenza di Democrito: ‘La buona disposizione

dell’animo di ingenera negli uomini, dalla misura imposta al godimento e dall’armonia di vita:

l’eccesso e il difetto, invece, amano l’instabilità e inducono grandi turbamenti nell’anima. Le

anime perturbate dall’alterno prevalere di stati fra loro grandemente opposti non possono essere

né equilibrate e stabili né ben disposte. Pertanto, si deve indirizzare la propria attenzione alle

cose possibili e ci si deve accontentare di ciò che è alla propria portata, dandosi poco pensiero

per gli uomini che vengono invidiati e ammirati e tantomeno ossessionandosi per la loro

condizione. Al contrario, si deve osservare la vita di chi è afflitto da tribolazioni, riflettendo a

lungo su ciò che questo patisce, in modo che ti sembrino grandi e invidiabili le cose che sono alla

tua portata e che possiedi, e in modo che non ti accada di soffrire nell’anima, desiderandone di

ulteriori. Infatti, chi ammira i facoltosi e le persone ritenute felici dagli altri uomini e si dà

costantemente pensiero per loro sarà necessariamente spinto a intraprendere imprese sempre

nuove, non escluso l’essere indotto dal desiderio a compiere azioni irreparabili e vietate dalla

legge. Allore, è opportuno non bramare di conseguire qualunque cosa bensì ben disporsi

nell’animo accontendandosi di ciò che si possiede, confrontando la propria vita con quella di chi

ha una sorte peggiore, ritenendosi felici in rapporto ai patimenti sofferti da costoro e constatando

quanto sia migliore la vita che si conduce. Divenendto consapevole di tutto questo, trascorrerai la

vita con animo disposto in modo ancora più buono e respingerai non poche cause di rovina della

vita, quali l’invidia, la malevolenza e l’animosità’.

DK 68B207 (Stobeo, Antologia, III, 5, 22) Sentenza di Democrito: ‘Si devono scegliere non tutti

i piaceri, ma solo quelli connessi al bello’.

DK 68B235 (Stobeo, Antologia, III, 17, 35) Sentenza di Democrito: ‘A coloro che si volgono ai

piaceri del ventre, avendo superato la misura conveniente sia nei cibi sia nelle bevande sia nei

piaceri erotici, i piaceri divengono decurtati in intensità e di breve durata, nel senso che durano

solo finché banchettano e bevono, mentre i dolori sono molti. Infatti, il desiderio di tali cose

permane sempre e anche quando ottengono ciò che desiderano il piacere s’invola velocemente e

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Democrito: frammenti

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non reca loro alcun giovamento, anzi, il godimento si abbrevia e hanno di nuovo spasmodico

bisogno di quegli oggetti di piacere.’

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Platone (c. 428-347 a.C.) Fedone

traduzione Emidio Martini

Stephanus vol I p. 59

[Fedone narra all’amico Echecrate l’ultimo giorno della vita di Socrate] Ora cercherò di raccontarti tutto dal principio. Sempre, nei giorni che precedettero la morte, io e

gli altri eravamo soliti incontrarci con Socrate. Ci riunivamo al mattino, appena faceva chiaro,

nel tribunale dove venne fatto il processo, che era vicino al carcere e lì, chiacchierando,

aspettavamo che ci venisse aperta la prigione. A volte si aspettava anche un bel po’; ma quando

ci aprivano, correvamo da Socrate e restavamo con lui anche tutta la giornata.

Quella mattina, poi, giungemmo molto presto perché la sera prima, lasciando il carcere,

sentimmo dire che era tornata la nave da Delo e così fummo d’accordo di vederci il giorno dopo

al solito posto, al più presto possibile.

Quando giungemmo, il custode, che ci aveva sempre fatti passare, venne fuori e ci disse di

attendere e di non entrare fino a quando non ce lo avesse detto lui, perché gli Undici proprio in

quel momento stavano togliendo le catene a Socrate e comunicandogli che quello era il giorno

della sua morte. Dopo un po’ tornò e ci disse che potevamo entrare e noi, infatti, [pag. 60]

trovammo Socrate libero dai ceppi e Santippe – tu la conosci, no? –, che con il bambino più

piccolo in braccio, gli stava vicino. Appena quella ci vide, cominciò a strillare e a dire le solite

cose che dicono le donne:

‘Ahimè, Socrate, ecco che è l’ultima volta che i tuoi amici parlano con te e tu con loro.’

E Socrate, rivolgendosi a Critone:

‘Che qualcuno me la levi di torno e la riporti a casa’.

Alcuni servi di Critone, così, la condussero via, mentre lei continuava a smaniare e a battersi

il petto. Socrate, intanto, che s’era seduto sul letto, piegando una gamba, cominciò a grattarsela a

lungo:

‘Che strana cosa, amici, sembra quella che gli uomini chiamano piacere. E che straordinario

rapporto tra questo e il suo contrario, cioè il dolore. E pensare che essi convivono nell’uomo e

pur si respingono sempre e chi cerca e riesce a cogliere l’uno, si vede costretto, sempre, a

sobbarcarsi anche l’altro come se, pur essendo due, fossero attaccati entrambi a uno stesso capo’.

‘Credo,’ soggiunse, ‘che se Esopo ci avesse pensato su ne avrebbe fatto una favola presso a

poco così: ‹Dio, volendo riconciliare questi due, sempre in guerra tra loro e non riuscendovi, li

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Platone Fedone

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legò insieme per la testa così che dove va l’uno va anche l’altro.› È quello che è capitato a me:

per la catena, qui, alla gamba, poco fa, io sentivo dolore; ed ecco che ora sento piacere.’

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Platone (c. 428-347 a.C.)

Protagora

traduzione Giovanni Reale

[Stephanus pagina 351C]

[È Socrate che narra la discussione con Protagora intorno alla tesi che la scienza sia il

fondamento ed essenza della virtù]

La vita morale si fonda sulla conoscenza del bene de del male

‘Che dici, Protagora? Anche tu, come molti, consideri cattive alcune cose piacevoli e buone

alcune cose dolorose? Io dico: le cose, in base al fatto che sono piacevoli, non sono forse anche

buone, indipendentemente da quello che ne potrà derivare? E a loro volta ugualmente le cose

dolorose, nella misura in cui sono dolorose, non sono anche cattive?’

‘Non so, Socrate, se devo risponderti così su due piedi, in base a come poni la domanda, che

le cose piacevoli sono tutte buone e le cose dolorose sono tutte cattive. Mi sembra però che, non

solo in relazione all’attuale risposta, ma anche in relazione a tutta la mia vita, sia più prudente

per me dire che alcune cose piacevoli non sono buone e che alcune cose dolorose non sono

cattive, mentre altre lo sono; in terzo luogo alcune cose non sono né l’uno né l’altro, né buone né

cattive’.

‘Non chiami forse piacevoli quelle che partecipano del piacere e che lo procurano?’

‘Senza dubbio’.

‘Questo dunque intendo dire: in quanto piacevoli non sono forse anche buone? E il piacere in

sé non è forse un bene?’

‘Come tu dici ogni volta, Socrate, «esaminiamo la questione»: se la ricerca avrà lo stesso esito

del nostro ragionamento e bene e piacere ci sembreranno la stessa cosa, ne converremo insieme;

se no, allora ne discuteremo’.

‘Vuoi condurre tu la ricerca o devo condurla io?’

‘E’ giusto che conduca tu; tu infatti hai iniziato il discorso’.

[pag. 352] ‘Forse possiamo chiarire la questione in questo modo. Ad esempio, se qualcuno

vuole esaminare una persona in base all’aspetto esteriore e vuole giudicarne lo stato di salute o

qualche altra qualità del corpo, dopo aver guardato il volto e le mani dice: «Su, spogliati e

mostrami il petto e la schiena, perché io possa esaminarti con più accuratezza». Io voglio fare la

stessa cosa per questa ricerca: vedendoti così disposto in relazione al bene e al piacere, come tu

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Platone Protagora

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affermi, devo dirti: «Su, Protagora, svelami anche questo aspetto del tuo pensiero: che cosa ne

pensi della scienza? La pensi come la maggior parte degli uomini o in un altro modo? Ai più la

scienza sembra una cosa né forte né adatta a guidare né idonea a comandare; non solo le

attribuiscono una natura tale, ma ritengono che spesso la scienza, pur essendo presente in un

uomo, non riesca a guidarlo, ma che altre cose prendano il sopravvento: l’ira, il piacere, il dolore,

l’amore, spesso la paura. La scienza è per i più come uno schiavo, trascinata qua e là da tutto il

resto.

‘Anche per te è così o pensi che la scienza sia qualcosa di bello, che sia capace di guidare

l’uomo, e che, se uno conosce il bene e il male, non sia trascinato da niente altro e agisca solo

come ordina la scienza? Credi che l’intelletto sia sufficiente a portare aiuto all’uomo?’

‘Sembra che sia come tu dici, Socrate. Se è vergognoso per altri, figurati quanto lo è per me

affermare che la sapienza e la scienza non sono le più potenti fra tutte le cose umane!’

L’opinione della gente ritiene che il piacere e le passioni vincano la conoscenza del bene

‘Parli bene e dici la verità. Sai però che la maggior parte degli uomini non crede né a me né a te:

dicono che molti, anche se conoscono il bene, non vogliono metterlo in pratica, pur essendo

possibile per loro, ma preferiscono agire secondo altri princìpi. Se io chiedo quale sia la causa di

questo comportamento, rispondono che quelli che agiscono così lo fanno o perché vinti dal

piacere o dal dolore o perché dominati da qualcuna delle passioni di cui parlavo poco fa’.

‘Socrate, credo che anche in molte altre questioni gli uomini si sbaglino’.

[pag. 353] ‘Allora, preparati a convincere gli uomini insieme a me e a insegnare che cosa

accade loro quando affermano di essere vinti dai piaceri e di non praticare per questo motivo il

bene, benché lo conoscano. Se infatti noi dicessimo: ‘Non sono giuste le cose che dite, vi

sbagliate’ ci chiederebbero: ‘Protagora e Socrate, se quello che ci accade non è essere vinti dal

piacere, allora che cosa è mai e che cosa pensate che sia? Ditecelo!»’

‘Che bisogno c’è, Socrate, di esaminare l’opinione della massa, che parla a vanvera?’

‘Credo che la ricerca consista nello scoprire in quale relazione si trovi il coraggio con le altre

parti della virtù. Se dunque la pensi ancora come prima, cioè che sia io a condurre la ricerca

come penso sia meglio, seguimi; se non vuoi, se lo desideri, lascerò stare’.

‘Va bene; continua come hai cominciato’.

Il problema sollevato dall’affermazione ‘lasciarsi vincere dai piaceri’

‘Se ancora una volta ci chiedessero: «Che cosa pensate che sia quello che per noi è essere vinti

dai piaceri?» Io risponderei: «Ascoltate: io e Protagora tenteremo di spiegarvelo. Non vi accade

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Platone Protagora

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forse la stessa cosa quando siete trascinati dai cibi, dalle bevande e dagli amori, che sono

piacevoli, e, pur sapendo che sono cose cattive, tuttavia cedete?»’

‘Direbbero di sì’.

‘E allora potremmo chiedere ancora: «In che senso affermate che sono cose cattive? Forse

perché sul momento procurano piacere e perché ciascuna di loro è piacevole, o perché poi

provocano malattie e povertà e molte altre cose simili? Oppure, anche se in futuro non procurano

nessuna di queste cose, ma solo godimento, sarebbero pur sempre cattive, poiché, non importa in

che modo, fanno godere chi le prova?» . Io credo, Protagora, che risponderebbero che queste

cose non sono cattive in base al fatto che procurano piacere sul momento, ma per ciò che segue,

le malattie e il resto’.

‘Penso che molti risponderebbero così’.

‘Essendo causa di malattie e di povertà non sono forse anche causa di dolori? Sarebbero

d’accordo, mi pare’.

Protagora disse di sì.

‘«Allora, in base al ragionamento mio e di Protagora, vi sembra che queste cose siano cattive

per qualche altro motivo se non perché procurano dolori e ci privano di altri piaceri?’. Sarebbero

d’accordo?».

[pag. 354] Eravamo entrambi della stessa opinione.

‘Poi se domandassimo loro il contrario: «Quando affermate che ci sono alcune cose buone che

sono anche dolorose, forse intendete gli esercizi ginnici, le campagne militari, le cure mediche,

con le loro cauterizzazioni, tagli, medicamenti, diete, che sono tutte cose buone, ma dolorose?»

Risponderebbero di sì?’.

Era d’accordo.

‘«Forse allora definite buone queste cose perché sul momento procurano estreme sofferenze e

dolori o perché in un momento successivo derivano da loro salute, benessere fisico, salvezza

degli stati, dominio su altri e ricchezza?»

Sceglierebbero la seconda ipotesi, mi pare’.

Era d’accordo.

‘«E queste cose sono buone per qualche altra ragione se non perché procurano piaceri e ci

separano e ci allontanano dai dolori? O avete un altro criterio, in base al quale le considerate

buone, che non siano i piaceri (che procurano) e i dolori (che allontanano)?» Direbbero di no, mi

sembra’.

‘Anche secondo me direbbero di no’.

‘«Perciò inseguite il piacere come un bene e fuggite il dolore come un male?»’

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Platone Protagora

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Protagora era d’accordo.

‘«Ritenete dunque che il dolore sia un male e che il piacere sia un bene. Inoltre considerate un

male la stessa gioia intensa, se ci priva di piaceri più grandi di quelli che esso stesso procura o ci

causa dolori più grandi dei piaceri che contiene. Se la considerate un male per qualche altro

motivo e in virtù di un altro criterio, dovreste dirlo anche a noi, ma non vi sarà possibile’’.

‘Neppure secondo me è possibile’.

‘«Non possiamo fare le stesse considerazioni anche sulla sofferenza? Non considerate forse

un bene la

sofferenza, se allontana dolori più grandi di quelli che contiene o procura piaceri più grandi

dei dolori? Se però, considerando la sofferenza un bene, avete presente un criterio diverso da

quello che dico, dovete dircelo; ma non potrete»’.

‘Dici la verità’.

‘«E ancora, se voi mi chiedeste: ‘Perché la fai tanto lunga?’ ‘Perdonatemi’- direi. Infatti non è

facile dimostrare che cosa sia mai quello che voi definite ‘essere vinti dai piaceri’; da questa

derivano poi tutte le altre dimostrazioni». [pag. 355] Potete ancora cambiare opinione, se siete

capaci di sostenere che il bene sia una cosa diversa dal piacere, o che il male sia una cosa diversa

dal dolore; oppure a voi basta vivere felicemente la vita senza dolori? Se vi basta e se per voi

bene e male non sono altro che ciò che conduce al piacere o al dolore, ascoltate cosa ne

consegue. Infatti vi dico che, se le cose stanno così, il ragionamento diventa ridicolo. Voi

affermate che spesso l’uomo, pur sapendo che il male è male, tuttavia lo fa, pur essendo possibile

non farlo, trascinato e sconvolto dai piaceri; poi dite che l’uomo, pur conoscendo il bene, non

vuole farlo, vinto dai piaceri del momento’.

Il ‘lasciarsi vincere dai piaceri’ implica sempre un errore di calcolo e quindi ignoranza su

ciò che si ritiene bene

‘Che tutto questo sia ridicolo, sarà evidente se non useremo molti nomi contemporaneamente,

‘piacere’, ‘dolore’, ‘bene’ e ‘male’: poiché sembra che si tratti di due cose, chiamiamole con due

nomi, in primo luogo ‘bene’ e ‘male’ e poi ‘piacere’ e ‘dolore’. Stabilito questo, diciamo: l’uomo

pur sapendo che il male è male, tuttavia lo fa. Se qualcuno ci chiedesse: «Perché?» «Perché è

vinto» diremmo; «Da cosa?» quello ci domanderà; per noi non sarà più possibile dire «dal

piacere», poiché adesso il piacere ha cambiato nome e si chiama ‘bene’. Allora gli risponderemo

e diremo: «Perché è vinto»; «Da cosa?» dirà; «Dal bene, per Zeus!» diremo. Se il nostro

interlocutore è un po' arrogante, riderà e dirà: «È davvero ridicolo quello che dite, se affermate

che qualcuno fa il male, pur sapendo che è male e pur non essendo lecito farlo, perché è vinto dal

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Platone Protagora

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bene. Per voi il bene può o non può vincere il male?». E’ evidente che dovremmo rispondere che

non può, se che chi è vinto dai piaceri compie il male. «In che cosa - dirà forse - i beni sono

inferiori ai mali e i mali ai beni? Forse in base al fatto che gli uni sono più grandi, gli altri più

piccoli? O che gli uni sono di più e gli altri di meno?» Non potremmo che essere d’accordo. «E’

evidente dunque - dirà - che per voi ‘essere vinti’ significa scegliere mali maggiori in cambio di

beni minori». Su questo siamo d’accordo. Attribuiamo ancora una volta i nomi di ‘piacere’ e

‘dolore’ a queste stesse cose e diciamo: l’uomo fa cose dolorose - prima dicevamo ‘cose cattive’

- pur sapendo

che sono dolorose, vinto dai piaceri, che evidentemente non sono in grado di prevalere.

[pag. 356] E in cosa altro il piacere è inferiore rispetto al dolore, se non per l’eccesso o per il

difetto dell’uno rispetto all’altro? Piaceri e dolori possono essere reciprocamente più grandi o più

piccoli e più o meno numerosi, in maggiore e in minore intensità. Se poi qualcuno dicesse: «C’è

però molta differenza, Socrate, fra il piacere del momento e il dolore o il piacere futuri!’ «E

questa differenza consiste in qualcos’altro se non nel piacere e nel dolore? No di certo. Tu, come

un bravo pesatore, dopo aver raccolto il piacere e il dolore e aver aggiunto sul piatto della

bilancia la vicinanza e la lontananza nel tempo, dimmi quale dei due piatti è più pesante. Se

infatti poni a confronto i piaceri con i piaceri, devi

sempre scegliere i più grandi e i più numerosi; se invece poni a confronto i dolori con i dolori,

devi scegliere i meno numerosi e i più piccoli. Se poi poni a confronto piaceri e dolori, nel caso

in cui i dolori siano superati dai piaceri, e se i dolori vicini sono superati dai piaceri lontani e i

dolori lontani sono superati dai piaceri vicini, devi orientare la scelta laddove c’è l’eccedenza;

qualora invece i piaceri siano superati dai dolori, bisogna rinunciarvi. Le cose stanno così o in un

altro modo?». So che non potrebbero rispondere diversamente’.

Anche lui era d’accordo.

‘«Poiché le cose stanno così, rispondetemi a questa domanda: una stessa grandezza vi appare

maggiore da vicino e minore da lontano, o no?»’

‘Diranno di sì’.

‘«E lo stesso accade per il volume e la quantità? E voci di uguale intensità non sono forse più

forti da vicino, più deboli da lontano?»’

‘Direbbero di sì’.

‘«Se dunque per noi questo fosse l’agire bene, fare e scegliere le cose grandi, fuggire e non

fare

le cose piccole, quale vi sembrerebbe la salvezza della vita? L’arte della misura o il potere

dell’apparenza? L’apparenza forse ci ingannerebbe e ci farebbe spesso prendere e lasciare senza

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Platone Protagora

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criterio le stesse cose e pentirci, sia quando agiamo, sia quando scegliamo le cose grandi e

piccole. L’arte della misura, invece, renderebbe vana l’illusione dell’apparenza e, dopo aver

mostrato la verità, farebbe in modo che l’anima, accanto alla verità, fosse tranquilla e ci

salverebbe la vita’. Gli uomini sarebbero d’accordo sul fatto che l’arte della misura ci potrebbe

salvare oppure affermerebbero che è un’altra arte a salvarci?’.

‘Direbbero che è l’arte della misura’.

‘«Cosa accadrebbe se la salvezza della vita per noi dipendesse dalla scelta tra il pari e il

dispari (che consiste poi nel capire quando sia giusto scegliere il più e quando il meno, o preso

per sé o in relazione ad altro, sia che sia vicino, sia che sia lontano)? Che cosa ci salverebbe la

vita? Non sarebbe forse la scienza? [pag. 357] E non sarebbe proprio la scienza della misura,

poiché è un’arte che riguarda l’eccesso e il difetto? E la scienza del pari e del dispari non è forse

l’aritmetica?»Tutti sarebbero d’accordo con noi, o no?’. Anche a Protagora sembrava che

sarebbero stati d’accordo.

‘«Bene; poiché ci è sembrato che la salvezza della vita risieda nella giusta scelta fra piacere e

dolore - fra il più numeroso e il meno numeroso, fra il più grande e il più piccolo, fra il più

lontano e il più vicino - questa non è forse una forma di misura, poiché è una ricerca dell’eccesso

e del difetto e della reciproca uguaglianza fra piaceri e dolori?»’

‘Necessariamente’.

‘Poiché è una misura, deve essere anche un’arte e una scienza’.

‘Saranno d’accordo’.

‘«Esamineremo in un secondo momento di quale arte e di quale scienza si tratti; per la

risposta mia e di Protagora alla vostra domanda basta sapere che è una scienza. Se ricordate,

avete iniziato a farci domande quando io e Protagora abbiamo concordato che nulla è più forte

della scienza e che questa domina tutto, dovunque sia, il piacere e tutte le altre cose; voi, invece,

affermavate che spesso il piacere ha in suo potere anche l’uomo sapiente. Poiché noi non

eravamo d’accordo con voi, ci avete chiesto: ‘Protagora e Socrate, se ciò che accade in questi

casi non è essere vinti dal piacere, che cosa è mai e che cosa voi dite che sia? Ditecelo!’. Se

subito vi avessimo risposto ‘l’ignoranza’ avreste riso di noi; ora invece, se rideste di noi,

ridereste anche di voi stessi. Infatti voi avete ammesso che chi sbaglia nella scelta fra i piaceri e i

dolori - cioè fra il bene e il male - sbaglia per mancanza di scienza, e non solo di scienza in

generale, ma anche di quella che abbiamo chiamato arte della misura: un’azione sbagliata per

mancanza di scienza sapete forse anche voi che avviene per ignoranza. Dunque ‘essere vinti dal

piacere’ non è altro che la più grande ignoranza, di cui Protagora, qui presente, dice di essere

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Platone Protagora

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medico, come pure Prodico e Ippia; voi però, poiché credete che non si tratti di ignoranza, né

andate voi stessi

né mandate i vostri figli dai maestri di queste cose, dai sofisti, come se l'arte di cui parlavamo

non fosse insegnabile. Preoccupandovi solo dei vostri soldi e non dandoli a questi maestri, agite

male sia nel vostro interesse che in quello della città». [pag. 358]

Questo avremmo potuto rispondere ai più; ora insieme a Protagora chiedo a voi, Ippia e

Prodico (infatti il discorso è rivolto anche a voi), se vi sembra che io dica la verità o che sbagli’.

Straordinariamente a tutti sembrava che le cose dette fossero vere.

‘Anche per voi dunque, il piacere è bene, il dolore è male. Tralascio la sottile distinzione di

nomi che fa Prodico: sia infatti che tu lo chiami piacere, diletto, gioia intensa, o come a te piace,

caro Prodico, rispondimi a tono’.

Dopo aver riso Prodico fu d’accordo e anche gli altri.

‘E che pensate allora di questa affermazione: tutte le azioni che tendono a una vita senza

dolore e piacevole, non sono forse belle? E un’azione bella non è forse buona e utile?’

Erano d’accordo.

‘Se dunque il piacere è bene, nessuno farebbe le cose che fa se sapesse e credesse che esistano

altre cose migliori che sarebbe possibile fare; e essere vinti da se stessi non è altro che ignoranza,

mentre dominare se stessi non è altro che sapienza’.

Tutti erano d’accordo.

‘E poi? L’ignoranza non consiste forse nell’avere una falsa opinione e ingannarsi su questioni

importanti?’

Anche su questo tutti erano d’accordo.

‘Non è forse così? Nessuno volontariamente tende al male né a ciò che ritiene essere male, e

non è nella natura umana, mi pare, andare volontariamente verso ciò che si ritiene male, invece

del bene. Quando infatti si è costretti a scegliere uno fra due mali, qualcuno sceglierà forse il più

grande, pur essendo possibile scegliere il più piccolo?’

Su tutte queste cose eravamo d’accordo.

‘Che cosa sono per voi timore e paura? Quello che sono per me? Mi rivolgo a te, Prodico. Per

me timore e paura - usate il nome che preferite - consistono in una indefinibile attesa del male’.

A Protagora e a Ippia sembrava che il timore e la paura fossero questo, a Prodico invece

sembrava che il timore fosse questo, ma la paura no.

‘Prodico, non c’è alcuna differenza! Ecco la cosa importante: se le affermazioni di prima sono

vere, forse qualcuno si dirigerà volontariamente verso le cose che teme, pur essendo possibile

andare in un'altra direzione? Oppure questo è impossibile, se è vero quello che abbiamo detto

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Platone Protagora

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prima? Infatti abbiamo concordato che ciò che si teme rappresenta un male e che nessuno

volontariamente va verso il male né lo sceglie’.

[pag. 359] Anche su queste cose tutti erano d’accordo.

‘Stabilito ciò, Prodico e Ippia, Protagora ci giustifichi come le risposte di prima possano

essere giuste secondo lui. Non mi riferisco alle prime risposte che ha dato; infatti in un primo

momento aveva detto che, delle cinque parti della virtù, nessuna è simile all’altra, ma che

ognuna ha una sua funzione. Non mi riferisco a questa affermazione, ma a ciò che ha detto in

seguito. Infatti poi ha detto che quattro parti della virtù sono abbastanza simili fra loro, mentre

una, il coraggio, si differenzia molto e ha aggiunto che io avrei potuto capirlo da questa

dimostrazione: «Infatti, Socrate, troverai uomini che sono in tutto empi, ingiusti, sregolati e

ignoranti, ma molto coraggiosi; da ciò riconoscerai che il coraggio è molto diverso dalle altre

parti della virtù». E io subito mi meravigliai della risposta, e ancor più dopo che abbiamo

discusso queste cose con voi. Di seguito gli domandavo se ritenesse audaci i coraggiosi; e quello:

«Sì, e anche temerari». Ricordi, Protagora, di aver risposto così?’

Disse di sì.

‘Su, spiegaci: di fronte a cosa i coraggiosi sono temerari? Alle stesse cose di fronte a cui i vili

sono vili?’

‘No’.

‘Allora di fronte a cose diverse?’

‘Sì’.

‘I vili si dedicano a imprese sicure, mentre i coraggiosi a quelle pericolose?’

‘Socrate, così affermano i più’.

‘È vero, ma non è questo che mi interessa. Di fronte a cosa tu affermi che i coraggiosi sono

temerari? Di fronte alle imprese pericolose, sapendo che sono pericolose, o di fronte a quelle che

non lo sono?’

‘In base ai nostri ragionamenti è stato dimostrato che la prima ipotesi è impossibile’.

‘Anche questo è vero; infatti, se quello che abbiamo detto è giusto, nessuno va verso un

pericolo che conosce, poiché è stato dimostrato che essere vinti da se stessi è ignoranza’.

Protagora era d’accordo.

‘Invece tutti scelgono le cose in cui si sentono sicuri, sia i vili che i coraggiosi, così che sotto

questo aspetto i vili e i coraggiosi si orientano verso le stesse cose’.

‘Però, Socrate, le cose verso cui si volgono i vili e i coraggiosi sono sotto molti aspetti

differenti. Per esempio i

coraggiosi vogliono andare in guerra, i vili no’.

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Platone Protagora

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‘E’ bello o no andare in guerra?’

‘E’ bello’.

‘Se dunque è bello, in base ai discorsi di prima è anche buono: infatti abbiamo convenuto che

tutte le azioni belle sono anche buone’.

‘E’ vero, e anche ora la penso così’.

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Platone (c. 428-347 a.C.)

Gorgia (il dibattito con Callicle, 490-7)

Traduzione Giovanni Reale

[Stephanus vol I p. 490]

I più intelligenti e potenti secondo Calliele sono i competenti sulle cose dello Stato e i

coraggiosi

SOCRATE: Fermati! Che cosa rispondi ora a questa domanda? Se ci trovassimo in molti riuniti

nello stesso luogo, come in questo momento, e avessimo in comune molti cibi e bevande e

fossimo uomini di costituzione diversa: alcuni forti, altri deboli e uno solo di noi si intendesse

più degli altri di queste cose, essendo medico, e questi fosse, come è naturale, più forte di alcuni

e più debole di altri: ebbene, non sarebbe forse, appunto in quanto più intelligente di noi in

materia, anche migliore e più potente in queste cose?

CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: E allora, di questi cibi egli dovrà averne più di noi, per il fatto che è migliore?

Oppure, proprio per il fatto che egli comanda, deve distribuire tutto, e nel consumare e nel

prendere questi cibi per il proprio corpo non deve prenderne più degli altri, se non vuole averne

danno, ma deve prenderne un po’ più di alcuni e un po’ meno di altri? E se per caso costui fosse

il più debole di tutti, non dovrebbe prenderne, lui che è il migliore, meno di tutti, Callicle? Non è

così, carissimo?

CALLICLE: Tu parli di cibi, di bevande, di medici e di altre sciocchezze; ma io non parlo di

queste cose!

SOCRATE: Non dici che chi è più intelligente è migliore? Lo affermi o no?

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: E non dici che il migliore deve avere di più?

CALLICLE: Non certo di cibi e neppure di bevande.

SOCRATE: Capisco. Ma forse di vestiti: e il tessitore più esperto dovrà avere il mantello più

grande e dovrà andare in giro con molti e bellissimi vestiti?

CALLICLE: Ma quali vestiti?

SOCRATE: Ma per quanto concerne le scarpe, è chiaro che dovrà averne più di tutti chi più di

tutti si intende di esse ed è quindi migliore. Il calzolaio, allora, dovrà passeggiare calzando

scarpe grandissime e numerosissime.

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Platone Gorgia

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CALLICLE: Ma che cosa c’entrano le scarpe? Continui a dire sciocchezze!

SOCRATE ~ Ma se non a questo, forse ti riferisci a quest’altro: l’agricoltore, per esempio,

quello veramente intelligente e capace, dovrà forse avere più semi degli altri, e per i suoi campi

dovrà adoperarne in maggior quantità possibile?

CALLICLE: Continui a dire le medesime cose, Socrate!

SOCRATE: Non solo dico le medesime cose, Callicle, ma le dico anche intorno alle medesime

cose.

[pag. 491] CALLICLE: Per gli dèi! Continui a parlare proprio di calzolai, di cardatori, di cuochi,

di medici, come se il nostro ragionamento riguardasse costoro!

SOCRATE: Allora mi dirai intorno a quali cose il più potente e il più intelligente potrà possedere

più degli altri giustamente? Oppure non accetterai che lo suggerisca io, e neppure vorrai dirmelo

tu?

CALLICLE: Ma te lo dico già da un pezzo! In primo luogo, per «più potenti» io non intendo né i

calzolai né i cuochi, ma coloro che sono intelligenti negli affari che riguardano la Città, ossia

coloro che meglio sanno in quale modo possa essere bene amministrata, e che, anzi, non solo

sono intelligenti in materia, ma sono anche coraggiosi, cioè capaci di realizzare ciò che pensano,

e che non desistono per debolezza d’animo.

SOCRATE: Vedi, ottimo Callicle, che le accuse che tu mi muovi sono diverse da quelle che ti

muovo io? Tu, infatti, affermi che io dico sempre le stesse cose e mi rimproveri; invece io di te

affermo l’opposto, ossia che non affermi mai le stesse cose circa i medesimi oggetti: prima

definivi i migliori e i più potenti come i più forti, poi, a loro volta, come i più intelligenti, e

adesso salti fuori con un’altra definizione ancora, e dici che i più potenti e i migliori sono i più

coraggiosi. Ma deciditi una buona volta, caro, e dicci chi pensi che siano i migliori e i più potenti

e rispetto a che cosa.

CALLICLE: Ma io l’ho già detto: sono coloro che sono intelligenti sulle cose che riguardano la

Città e che sono coraggiosi. A costoro, infatti, spetta dominare le Città, e questa è la giustizia:

che costoro abbiano più degli altri, cioè quelli che dominano più di quelli che sono dominati.

I più potenti secondo Callicle sono coloro che dominano gli altri e non se medesimi

SOCRATE: E allora? Rispetto a se medesimi, caro amico, che cosa saranno? Domineranno o

saranno dominati?

CALLICLE: Come dici?

SOCRATE: Intendo dire questo: ciascuno di essi ha dominio di se stesso, oppure non è per nulla

necessario che uno domini se stesso, e importa solamente che domini gli altri?

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Platone Gorgia

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CALLICLE: Come intendi «avere dominio di se stessi»?

SOCRATE: Nulla di complicato, ma come tutti lo intendono: essere temperante e padrone di sé,

saper dominare i piaceri e le passioni che si hanno dentro di sé.

CALLICLE: Quanto sei soave! Tu chiami temperanti gli stolti!

SOCRATE: E perché? Non c’è nessuno che non capisca che io non dico affatto questo.

CALLICLE: Proprio questo, Socrate! Infatti, come potrebbe essere felice un uomo, servendo a

chicchessia? E, invece, il bello e il giusto secondo natura è questo che io ora ti dico con i tutta

schiettezza: chi vuole vivere rettamente deve lasciar crescere i propri desideri il più possibile e

non deve affatto reprimerli [pag. 492]; e invece, quando siano cresciuti al massimo, deve saperli

assecondare con coraggio e con avvedutezza e deve essere in grado di togliersi il gusto di tutto

ciò di cui continuamente gli possa venir voglia.

Ma questo, com’è ovvio, non è possibile ai più. Perciò i più biasimano quelli che possono,

perché si vergognano di non potere anch’essi e, per nascondere la propria impotenza, sostengono

che la dissolutezza è cosa turpe, come già dicevo in precedenza, cercando, così, di sottomettere

gli uomini che per natura sono migliori. E poiché essi non sono in grado di dare soddisfazione ai

loro piaceri, per questo esaltano la temperanza e la giustizia, non altro che a causa della propria

mancanza di virilità.

Infatti, a coloro ai quali fin da principio toccò la fortuna di essere figli di re, oppure di essere

per loro natura capaci di procacciarsi un dominio, sia una tirannia sia una signoria, che cosa, in

verità, potrebbe essere più brutto o più odioso della temperanza e della giustizia? Questi uomini,

dico, i quali, pur avendo possibilità di godersi i beni senza che nessuno glielo impedisca,

dovrebbero essi stessi imporre a se medesimi, come padroni, la legge della moltitudine degli

uomini, il loro pensiero e il loro biasimo?

E come potrebbero non essere ridotti a infelici dalla bellezza della giustizia e della

temperanza, non potendo dare ai loro amici nulla di più che ai loro nemici, pur dominando nella

propria Città?

Ma, Socrate, per quella verità che tu dici di voler persegulire, la cosa sta in questo modo: la

sfrenatezza, la dissolutezza e la libertà, se si trovano in condizioni a loro favorevoli,

costituiscono la virtù e la felicità; tutte queste altre cose non sono che orpelli, convenzioni degli

uomini contro natura, chiacchiere che non valgono assolutamente nulla.

La vita esaltata da Callicle potrebbe essere vita nella dimensione della morte e quella difesa

da Socrate vera vita

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SOCRATE: Callicle, hai affrontato questo discorso in modo veramente franco e coraggioso.

Infatti tu, ora, dici apertamente cose che gli altri certamente pensano, ma non vogliono dire.

Perciò ti prego di non desistere in alcun modo, affinché possa risultare veramente chiaro in quale

modo si debba vivere. E dimmi: tu affermi che non bisogna frenare le passioni, se si vuole essere

come si deve, ma che, lasciandole crescere quanto più è possibile, si deve dar loro soddisfazione

con ogni mezzo, e che proprio in questo consiste la virtù?

CALLICLE: Sì, affermo questo.

SOCRATE: Dunque, non è vero che quelli che non hanno bisogno di nulla sono felici!

CALLICLE: Infatti, le pietre e i morti, a questo modo, sarebbero i più felici.

SOCRATE: Però anche come sostieni tu, la vita è terribile. E non mi meraviglierei se Euripide

affermasse il vero là dove dice:

Chi può sapere se il vivere non sia morire

e se il morire non sia vivere?

[pag. 493] Anche noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho già sentito dire, infatti, anche da

sapienti, che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba, e che questa parte

dell’anima in cui si trovano le passioni è tale da cedere alle seduzioni e da mutare facilmente

direzione in su e in giù. Un uomo ingegnoso, un siculo o forse un italico, par ando per immagini,

mutando di poco il suono del nome chiamò «orcio» questa parte dell’anima perché seducibile e

credula e chiamò dissennati i non iniziati, e disse che la parte dell’anima di questi dissennati

nella quale hanno sede le passioni, la quale è senza regola e senza ritegni, è come un orcio forato,

intendendo raffigurare così la sua insaziabilità.

E, al contrario di quel che dici tu, costui, Callicle, dimostra come di coloro che sono nell’Ade

(così egli chiama l’invisibile) i più infelici siano i non iniziati e come siano costretti a portare

nell’orcio forato dell’acqua con un crivello esso pure forato. E il crivello, secondo quel saggio,

come affermava chi me lo riferi, è l’anima: ed egli paragonava l’anima degli stolti a un crivello

in quanto è come bucata, perché essa non è capace di tenere nulla per la sua incredulità e

smemoratezza.

Queste immagini sono certamente un poco strane, ma esprimono bene quello che io ti voglio

dimostrare, al fine dipersuaderti, posto che ne sia capace, a cambiar parere e a scegliere, invece

della vita intemperante e sfrenata, la vita beneordinata, che è paga e soddisfatta di quello che si

trova adavere. Ma riuscirò a persuaderti, in qualche modo, a cambiareparere e a farti credere che

sono più felici gli uomini ordinatiche non gli uomini dissoluti, oppure, se anche ti narrassi molti

altri miti simili a questo, non muteresti tuttavia parere?

CALLICLE: Questa tua ultima affermazione, Socrate, è quella vera.

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Ulteriori chiarificazioni delle implicanze della vita dissoluta difesa da Cafficle

SOCRATE: Ebbene, io ti voglio riferire un’altra immagine, proveniente dalla stessa scuola di

quella di prima. Prova a riflettere sull’uno e sull’altro tipo di vita, ossia su quella del temperante

e su quella del dissoluto, se ti pare di potere paragonarle alle condizioni di due uomini, ciascuno

dei quali abbia molti orci, e l’uno di essi li abbia sani e pieni, rispettivamente, alcuni di vino, altri

di miele, altri di latte e molti altri di molti altri liquidi, e che i liquidi contenuti in ciascuno di

questi orci siano tutti preziosi e difficili da trovare. Ebbene, costui, una volta riempitili, non

avrebbe più bisogno di versarvi altro liquido né di darsene cura, ma potrebbe starsene tranquillo.

Immagina, invece, che il secondo possa, sì, procurarsi i liquidi, ma sempre con difficoltà, e

che, per di più, abbia i vasi bucati e consumati e che sia costretto a riempirli continuamente

giorno e notte, per evitare le più gravi sofferenze.

[pag 494] Ebbene, tale essendo la vita di ciascuno di questi, dirai che è più felice la vita dello

sregolato o che è, invece, più felice la vita del temperante?

Dicendo queste cose ti persuado ad ammettere che la vita ordinata è migliore di quella

dissoluta, oppure non ti persuado?

CALLICLE: Non mi persuadi, Socrate. Infatti, colui che ha tutti i vasi pieni non prova più alcun

piacere, e si riduce, come poco fa dicevo, a vivere come una pietra, e dopo che ha riempito i suoi

vasi non ha più né dolore né piacere. Ma il piacere della vita consiste in questo: nel versare

quanto più è possibile nei vasi!

SOCRATE: Ma, allora, non è necessario che, se molto si versa, molto sia anche ciò che viene

perduto e che grandi siano i buchi per l’uscita?

CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: Tu parli di una vita che è come quella del caradrio, ben altra da quella di un morto

o di una pietra! E dimmi. La vita di cui parli è di questo genere: aver fame, poniamo, e quando si

ha fame mangiare?

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: E aver sete e bere quando si ha sete?

CALUCLE: Sì, dico questo: in breve, dico che il vivere felice consiste nefl’avere tutte le altre

passioni e nel soddisfarle piacevolmente.

Secondo Calliele il vero bene per l’uomo è il piacere in tutti i sensi

SOCRATE: Bene, carissimo: continua cosi come hai incominciato e cerca di non avere ritegni. E

a quanto pare bisogna che non ne abbia neppure io. Dimmi, innanzi tutto: se uno avesse la

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scabbia e il prurito e potesse grattarsi come vuole, passando tutta la vita a grattarsi, questa è per

lui una vita felice?

CALLICLE: Sei ben stravagante, Socrate, e parli proprio come un oratore da plebe!

SOCRATE ~ Appunto per questo, Callicle, ho turbato gia Gorgia e Polo; ma tu non turbarti e

non lasciarti venire scrupoli, coraggioso come sei! Devi solo rispondermi.

CALLICLE: Allora ti dico che anche colui che si gratta, dovrebbe vivere in modo piacevole.

SOCRATE: E se in modo piacevole, anche felice?

CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: Forse se ha prurito solo alla testa... o ti devo fare ancora delle altre domande?

Guarda, Callicle, che cosa potresti rispondere se qualcuno ti rivolgesse, una dopo l’altra, tutte le

altre domande, per tutte le restanti parti del corpo! Stando così le cose, in conclusione, la vita

degli impudichi (ho ton kinaidon bios) non è forse spaventosamente turpe e sciagurata? O avrai

la sfrontatezza di affermare che costoro sono felici, purché abbiano in abbondanza ciò che

occorre loro per soddisfare i loro bisogni?

CALLICLE: Non ti vergogni, Socrate, di portare il discorso su cose di questo genere?

SOCRATE: Sono io che li porto su queste cose, nobile uomo, o è invece colui che afferma senza

alcun ritegno che sono [pag 495] felici coloro che godono e in qualunque modo godano, e non

precisa quali piaceri siano buoni e quali cattivi? Ma dimmi ancora: affermi tu che piacere e bene

sono la stessa cosa, o che c’è qualche piacere che non è buono?

CALLICLE: Dico che sono la stessa cosa, perché, se lo negassi, il mio discorso risulterebbe

incoerente.

SOCRATE: Tu distruggi, Callicle, i discorsi che abbiamo fatto prima e non potrai più esaminare

con me le cose come si conviene, se dici cose contrarie alle tue convinzioni.

CALLICLE: E anche tu, Socrate!

SOCRATE: Se facessi questo, non farei bene neppure io cosi come non fai bene tu. Ma,

carissimo, sta’ bene attento che il bene non consista nel godere in qualsiasi modo. Infatti, se così

fosse, quelle brutte cose di cui si è fatto cenno, evidentemente ne deriverebbero di conseguenza,

e con esse molte altre.

CALLICLIE: Al modo in cui pensi tu, Socrate.

SOCRATE: Ma tu, Callicle, sostieni veramente questo?

CALLICLE: Io sì.

SOCRATE: Vogliamo dunque metterci a ragionare, ammettendo che tu parli sul serio?

CALLICLE: Ma certamente.

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Dimostrazione della tesi che bene non può essere il piacere e male il dolore

SOCRATE: E allora, dal momento che così ti sembra, precisami quanto segue. C’è qualche cosa

che tu chiami scienza?

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: E non dicevi poco fa che c’è anche un corag gio che è unito alla scienza?

CALLICLE: Sì, lo dicevo.

SOCRATL: E parlavi di due cose, intendendo il coraggio come altro dalla scienza?

CALLICLE: Precisamente.

SOCRATE: E allora? Il piacere e la scienza sono la stessa cosa oppure cose diverse?

CALLICLE: Certamente diverse, sapientissimo!

SOCRATE: E anche il coraggio è diverso dal piacere?

CALLICLE: E come no?

SOCRATE: Allora cerchiamo di ricordarci di queste cose: che Callicle del demo di Acarne ha

affermato che il piacere e il bene sono la medesima cosa e che la scienza e il coraggio sono

differenti tra loro e sono differenti dal piacere.

CALLICLE: E invece Socrate del demo di Alopece non è d’accordo su queste cose. Oppure è

d’accordo?

SOCRATE: Non è d’accordo. E credo che neppure Callicle, sia d’accordo, quando avrà riflettuto

in modo corretto. Dimmi, infatti: non credi che si trovino in stati contrari coloro che stanno bene

e coloro che stanno male?

CALLICLE: Io sì.

SOCRATE: E allora, se queste cose sono tra loro contrarie, i non è necessario che ci sia fra esse

il medesimo rapporto che c’è fra la salute e la malattia? Infatti l’uomo non può certamente

essere, a un tempo, sano e ammalato; né può, a un tempo liberarsi dalla malattia e dalla salute.

CALLICLE: Come dici?

SOCRATE: Prendi per esempio una qualsiasi parte del corpo e [pag. 496] fa’ queste

considerazioni. L’uomo può avere una malattia agli occhi che si chiama oftalmia?

CALLICLE: E come no?

SOCRATE: E non potrà certo, nello stesso tempo, avere l’oftalmia e gli occhi sani!

CALLICLE: Assolutamente no.

SOCRATE: Ebbene, e quando si libera dall’oftalmia? Si libera forse, insieme, anche dalla salute

degli occhi? O alla fine si libera, insieme, dall’una e dall’altra?

CALLICLE: Niente affatto.

SOCRATE: Sarebbe, evidentemente, cosa ben strana e assurda! Non è così?

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CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: Invece l’uomo contrae l’una e perde l’altra e viceversa.

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: E non è così anche per quanto concerne la forza e la debolezza?

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: E anche per quanto concerne la velocità e la lentezza?

CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: E per quanto concerne i beni e la felicità e i loro contrari, i mali e l’infelicità?

Quando si acquistano gli uni non si perdono gli altri e viceversa?

CALLICLE: Certamente!

SOCRATE: Dunque, se troviamo delle cose che l’uomo può contemporaneamente avere e

perdere, evidentemente queste non potranno essere il bene e il male. Siamo d’accordo su questo?

Rifletti bene prima di rispondere!

CALLICLE: Sono assolutamente d’accordo.

SOCRATE: Ritorniamo, ora, su quello che prima abbiamo ammesso di comune accordo. L’aver

fame è piacevole o doloroso? Intendo l’avere fame di per sé considerato.

CALLICLE: lo dico che è doloroso. Mentre l’avere fame e mangiare è piacevole.

SOCRATE: Capisco. Ma, allora, l’avere fame, di per sé, è doloroso. O no?

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: E, dunque, anche l’avere sete?

CALLICLE: Certamente.

SOCRATE: Ti devo fare ancora ulteriori domande, oppure sei d’accordo che ogni bisogno e

ogni desiderio sono dolorosi?

CALLICLE: Sono d’accordo e non c’è bisogno che tu mi faccia altre domande.

SOCRATE: Ebbene, bere quando si ha sete, affermi tu che sia piacevole?

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: Ma questa espressione «quando si ha sete» equivale a quest’altra «quando si ha

dolore».

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: E il bere non è la soddisfazione di un bisogno e un piacere?

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: Dunque, nel bere tu dici che c’è un piacere?

CALLICLE: Precisamente.

SOCRATE: Però, quando si ha sete.

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Platone Gorgia

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CALLICLE: Sì.

S(X-RATE: E, quindi, quando si ha dolore?

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: E ti accorgi della conseguenza che ne deriva? Quando dici che uno beve avendo

sete, tu dici che prova piacere e dolore insieme. O non avviene questo, insieme, nello stesso

tempo e nello stesso luogo dell’anima o del corpo? Non credo, infatti, che ci sia alcuna

differenza. È così o no?

CALLICLE: È così.

SOCRATE: Però tu dici che è impossibile [pag. 497] che uno stia bene e stia male a un tempo.

CALLICLE: Sì. Lo dico.

SOCRATE: E, invece, hai ammesso che è possibile che uno provi piacere essendo sofferente.

CALLICLE: Pare.

SOCRATE: Dunque, il godere non è stare bene né il soffrire è stare male, di modo che il piacere

è diverso dal bene.

CALLICLE: Non capisco queste tue sottigliezze, Socrate.

SOCRATE: Le capisci, Callicle, ma fai finta di non capire. Procediamo ulteriormente, in modo

che possa sapere quanto sei saggio nell’ammonirmi. Ciascuno di noi, quando beve, non cessa

forse d’aver sete e nello stesso tempo di godere?

CALLICLE: Non capisco quello che dici.

GORGIA: Non fare così, Callicle, rispondi, nel nostro interesse, affinché il nostro ragionamento

possa giungere a una conclusione.

CALLICLE: Ma Socrate è sempre così, Gorgia: egli domanda e ribatte sempre su cose da nulla e

che non hanno la minima importanza.

GORGIA: Che te ne importa? Non è certo colpa tua, Callicle. Lascia che Socrate ribatta come

vuole.

CALLICLE: Allora domandami pure queste tue piccolezze, t queste tue meschinità, dal

momento che Gorgia così desidera.

SOCRATE: Sei fortunato, Callicle, perché sei stato iniziato ai grandi misteri, prima che ai

piccoli: io non credevo che fosse possibile. Rispondi dunque dal punto in cui hai interrotto il

discorso: se cioè ciascuno di noi non cessi, a un tempo, di avere sete e di godere.

CALLICLE: Lo affermo.

SOCRATE: E non cessa, allora, a un tempo, anche dall’avere fame e dagli altri desideri e

piaceri?

CALLICLE: È così.

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Platone Gorgia

27

SOCRATE: E allora non cessa, insieme, dai piaceri e dai dolori?

CALLICLE: Sì.

SOCRATE: Però non cessa, insieme, dai beni e dai mali, come tu hai ammesso. Non lo ammetti

più ora?

CALLICLE: Sì. E allora?

SOCRATE: Allora non sono più, caro, la medesima cosa i beni e i piaceri e neppure i mali e i

dolori. Infatti piaceri e dolori cessano nello stesso momento; i beni e i mali, invece, no, perché

sono appunto diversi. E come potrebbero essere la stessa cosa i piaceri e i beni e i dolori e i

mali?

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Platone (c. 428-347 a.C.)

Filebo

traduzione A. Zadro

[Stephanus vol II, p. 31]

L’origine fisiologica del piacere

SOCRATE: Dopo di ciò allora noi dobbiamo vedere dove risieda ciascuno di essi due [sc.

piacere e dolore] e, quando si generano, per quale affezione si generino. Prima il piacere: così

come per primo abbiamo vagliato il genere al quale il piacere appartiene diamo ancora la

precedenza al piacere in questa ricerca. Io penso d’altra parte cheo noi non potremmo condurre

un esame soddisfacente sul piacere prescindendo dal dolore.

PROTARCO: Se dunque bisogna passare di qui, passiamoci senz’altro.

SOCRATE: E tu sei del mio stesso parere sull’origine di questi due, piacere e dolore?

PROTARCO: Quale parere?

SOCRATE: A me pare che secondo natura l’origine del dolore e insieme anche quella del

piacere appartengano al genere della congiunzione.

PROTARCO: Caro Socrato, richiama un po’ alla nostra memoria quale mai delle cose di cui s’è

parlato prima tu vuoi indicare con il termine ‘congiunzione’.

SOCRATE: Ciò sarà fatto nei limiti delle mie possibilità, straordinario amico.

PROTARCO: Dici bene.

SOCRATE: Noi dunque dobbiamo intendere per genere della congiunzione quel genere che

ponevamo terzo dei quattro.

PROTARCO: Quello che nominavi dopo l’infinito e il finito, quello in cui ponevi anche la salute

e mi pare anche l’armonia?

SOCRATE: Benissimo. Ed ormai prestami attenzione quanto più ti è possibile.

PROTARCO: Non hai che a parlare.

SOCRATE Io dico dunque cito quando si dissolve l’armonia ch’è in noi, negli animali viventi,

subito allora, proprio nello stesso momento, si dissolve l’organisino naturale ed hanno la loro

origine i dolori.

PROTARCO. Quanto dici è del tutto verosimile.

SOCRATE: E invece quando l’armonia si ricompone e ritorna al suo ordine naturale, noi

dobbiamo dire che è allora che nasce il piacere; diremo cosi, se è lecito in breve e

rapidissimamente trattare di cose di importanza grandissima.

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Platone Filebo

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PROTARCO. lo penso che tu hai ragione, Socrate, ma proviamo ad enunciare queste stesso cose

in modo ancora più chiaro.

SOCRATE: Non è più facile assolutamente comprendere ciò che in qualche modo è di pubblico

dominio e di comune evidenza?

PROTARCO. Che cosa, cioè?

SOCRATE. La fame non è forse dissoluzione di noi stessi e dolore?

PROTARCO. Certo.

SOCRATE: E il mangiare, poiché è un ritorno alla completezza, non è piacere?

PROTARCO. Sì.

SOCRATE: Anche la sete d’altra parte è similmente dissoluzione e dolore, ed è invece piacere la

potenza dell’umido in quanto ridà completezza a ciò che s’era disseccato. [pag. 32] E ancora

quella disgregazione e dissoluzione contro natura che è causata dal calore è dolore, invece è

piacere la restituzione allo stato naturale ed il raffreddamento in tal caso.

PROTARCO. Senza alcun dubbio.

SOCRATE: E dolore è il congelamento innaturale dell’umidità animale causato dal freddo,

mentre è piacere il processo opposto verso il normale stato di natura, processo che avviene

quando si scioglie ciò che era congelato e torna al medesimo stato primitivo. E in una parola vedi

tu se ti par giusto dire che per quella specie dei genere misto cui appartiene ciò che nasce

animato dalla congiunzione secondo natura di infinito e finito, così dicevo anche prima, per essa,

quando si corrompe la corruzione è dolore, mentre il processo che la riporta al suo essere, questo

ritorno, è per tutti piacere.

PROTARCO: Sia così. Mi pare infatti che questo discorso può valere almeno come una

delineazione generale della cosa.

SOCRATE. Dobbiamo porre allora un’unica specie di piacere e un’unica specie di dolore in

relazione all’una ed all’altra delle suddette affezioni?

PROTARCO. Sì, così.

--––ooOoo––--

[Stephanus p. 42]

Il corpo non è mai in uno stato neutro

SOCRATE: Si è in qualche modo più volto detto che i dolori, le sofferenze, le pene, tutto ciò che

si comprende sotto simili denominazioni, avvengono a causa di una corruzione della natura di

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Platone Filebo

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ciascuno, sia per associazione che per dissoluzione, per pienezza e per difetto, per certi

accrescimenti e certe diminuzioni.

PROTARCO: È vero, ciò è stato detto più volte.

SOCRATE. Quando invece d’altra parte ciascuno si ricostituisce entro i limiti segnati dalla sua

natura, questo ricostituirsi abbiamo ammesso da parte nostra elle è il piacere.

PROTARCO. Giusto.

SOCRATE: Che avviene allora quando nel nostro corpo non si verifica nessuna di queste due

condizioni?

PROTARCO. E potrebbe mai accadere ciò, Socrate?

SOCRATE. Protarco, la domanda che tu ora hai fatto non ha nessun senso per il nostro discorso.

PROTARCO. E perché?

SOCRATE. Perché non impedisci che io interroghi te di nuovo con la mia interrogazione.

PROTARCO. Quale?

SOCRATE. Io dirò: ‘Protarco, se dunque non accadesse ciò di cui parlavo, quale mai ne sarebbe

la conseguenza necessaria per noi?’

PROTARCO. Volevi dire che il corpo non si muove in nessuno dei due sensi?

SOCRATE: Appunto.

PROTARCO: Allora è chiaro, Socrate, almeno questo, che né da esso nascerebbe, piacere mai e

neppure un dolore qualsiasi.

[pag. 43] SOCRATE: Hai risposto benissimo. Ala lo credo tu voglia dire che sempre una

qualsiasi di quelle due condizioni necessariamente si verifica in noi, come dicono i sapienti; tutte

le cose infatti sempre scorrono dall’alto in basso e viceversa.

PROTARCO: Dicono così infatti e mi pare almeno che non dicano cosa stolta.

SOCRATE:. E come potrebbero dire cosa stolta se stolti almeno non sono? E infatti voglio

ritirarmi di fronte a questo discorso che ci assale. Ora io penso di fuggire di qui, e fuggi tu pure

con me.

PROTARCO: Dimmi per dove.

SOCRATE. Diciamo allora a questi sapienti: ‘Stiano queste cose come dite voi’. Tu rispondi a

me se tutto le cose sempre, tutto le cose che subisce uno qualsiasi degli esseri animati, tutte le

sente chi le subisce in modo che a noi non sfugge né il nostro crescere né per nulla alcun altro

fatto simile di cui siamo oggetto, o se è vero tutto l’opposto.

PROTARCO: È vero senza dubbio tutto l’opposto. Quasi tutte almeno questo cose infatti

sfuggono a noi.

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Platone Filebo

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SOCRATE: Allora noi non abbiamo detto bene ciò che dicemmo poco fa, che i mutamenti che

avvengono all’insù e all’ingiù producono dolori e piaceri.

PROTARCO. Certo.

SOCRATE. Sarà dunque cosa migliore e più resistente ad ogni attacco dire così.

PROTARCO. Come?

SOCRATE: Che i grandi movimenti di trasformazione producono in noi dolori e piaceri, quelli

d’altra parte moderati e piccoli invece non fanno né l’una né l’altra di questo cose,

assolutamente.

PROTARCO: Questo è più giusto di quell’altro discorso, Socrate.

Il piacere non è cessazione di dolore

SOCRATE. Se le cose stanno così allora, ritornerà davanti a uni la vita di cui prima parlammo.

PROTARCO. Quale?

SOCRATE. Quella elle dicemmo essere senza dolore e scalza diletti.

PROTARCO. Verissimo.

SOCRATE: Da tutto ciò dunque poniamo tre tipi di vita possibili a noi, uno piacevole, uno

doloroso, uno né piai cevole né doloroso. Oppure come diresti tu sa ciò?

PROTARCO: Non diversamente da così, direi io almeno; sono tre i tipi di vita.

SOCRATE: Ma non sarà certo cosa identica al godimento il non aver mai dolore, non è vero?

PROTARCO. E come potrebbe infatti?

SOCRATE: E così quando tu senti dire che cosa sommamente piacevole sopra tutte è condurre

sempre una vita priva di dolori, che cosa pensi tu allora che voglia dire chi dice così?

PROTARCO. Chi parla cosI mi pare almeno che intenda per piacere il non aver dolore.

SOCRATE. E allora supponiamo di avere tre cose, quelle che vuoi, e poni (per usare nomi più

belli) che la prima sia oro, la seconda argento, la terza sia ciò che non è né l’uno né l’altro di

questi due.

PROTARCO. Sta bene.

SOCRATE. Quella dunque che non è né l’uno né l’altro di quei due è possibile che ci risulti

l’uno o l’altro dei due, oro o argento cioè?

PROTARCO. E come?

SOCRATE. Neppure quindi la vita intermedia sarebbe oggetto di un discorso giusto se fosse

detta piacevole o dolorosa né mai opinerebbe bene uno se opinasse così e neppure direbbe

correttamente se così dicesse, almeno secondo quanto vuole il discorso corretto.

PROTARCO. E Come infatti?

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Platone Filebo

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[pag. 44] SOCRATE: Però, amico mio, noi abbiamo esperienza di gente che dice e opina così.

PROTARCO. È proprio vero.

SOCRATE: Ma ritengono essi anche di godere quando non soffrono.

PROTARCO. Lo dicono, almeno.

SOCRATE. E allora pensano di godere in tale circostanza; infatti non lo direbbero, penso.

PROTARCO. Può darsi.

SOCRATE. E certo essi opinano il falso in relazione al godere, se è vero che è reciprocamente

indipendente la natura di ciascuno dei due, dico del non soffrire e del godere.

PROTARCO: Ed è vero che sono indipendenti, così noi abbiamo ormai già affermato.

SOCRATE. Dobbiamo scegliere allora di dire che per noi vi sono tre condizioni di vita possibili,

come prima dicemmo, oppure solo due, il dolore che è un male per gli uomini e la liberazione

dal dolore, che come tale è un bene, e dobbiarno questa chiamarla piacere?

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Le analogie tra stato e anima in Platone (Repubblica VIII)

Componente dell’essere umano(l’animale triplice: 588Bss.)

Parte dell’anima Classe sociale al potere

Tipo di stato

‘L’uomo interiore’ ragione (logistikovn)

custodi/guardiani1 (fuvlakoi, filovsofoi)

aristocrazia2

Il leone emulazione, bramosia, coraggio (qu~mo", filoneikiva)

soldati3 cretese/spartano4

timocrazia5

oligarchia6

La bestia multiforme appetito (ejpiqu~miva)

artigiani7 democrazia8

tirannia9

1 La classe la cui educazione è oggetto principale dei libri centrali della Repubblica (III-VII). 2 Questa è, secondo Platone, la società giusta in cui le persone più adatte ai compiti di

proteggere il bene di tutti hanno quel ruolo. 3 Nelle forme corrotte, la casta militare diventano come cortegiani (i ‘bravi’ di manzoniana

memoria) e, poi, come dei mafiosi. 4 In cui l’onore e il coraggio marziale sono i valori più alti (545-6). 5 In cui i cittadini concorrono per eccellere nella stima degli altri (546-8). 6 In cui i cittadini concorrono per eccellere nel possesso dei soldi e nella liberalità (550-5). 7 Secondo Platone (370-1), questa classe si suddivide ulteriormente in artigiani, contadini e

mercanti, e poi a secondo i vari tipi di lavoro in cui si specializzano per fornire i vari beni materiali di cui la società ha bisogno; nello schema rappresentano la scelta di chiunque per posizioni di potere a prescindere dalla loro preparazione o prontezza per il ruolo (‘qualunquismo’).

8 In cui i cittadini non sanno cosa fare con una sfrenata libertà (557-8); è la forma più variegata di declinazioni dallo stato ideale (557), in cui prevalgono i desideri irreali e non-necessari (558-9); tra gli esiti della democrazia è l’anarchia, che Platone nega sia uno stato politico (562-3)

9 In cui il popolo è simultaneamente vittima ed artefice (568-9) di uno stato di disordine sempre crescente e fuori controllo di sospetti e incertezza (565-7); la descrizione dell’uomo tirannico continua anche nella prima metà del libro IX.

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Aristotele (384-322 a.C)

Il movimento degli animali (traduzione Richard Davies)

[Bekker pag.700b]

Capitolo vi

Abbiamo già discusso nella nostra opera sull’anima se l’anima viene mossa e, se lo è, come

viene mossa. Poiché tutte le cose senza vita vengono mosse da altro, e visto che abbiamo

spiegato nella nostra opera sulla prima filosofia come il primo ed eterno motore viene mosso e

come il primo motore impartisce movimento, dobbiamo ora indagare come l’anima muove il

corpo e l’origine del movimento degli animali. Perché, escludendo il movimento dell’universo,

le creature viventi sono responsabili del movimento di tutte le altre cose, tranne quelle che

vengono mosse dall’impatto tra di loro. Perciò tutti i loro movimento hanno un limite, e lo hanno

anche i movimenti delle creature viventi. Dunque tutti gli animali sia impartiscono movimento

sia vengono mossi in vista di qualcosa ed è questo il limite del loro movimento: la cosa in-vista-

di-cui.

Ora vediamo che i motori degli animali sono ragionamento e fantasia e scelta e desiderio e

appetito. E tutti questi si riducono a pensiero e desiderio. Perché sia fantasia che percezione

occupano lo stesso posto del pensiero, in quanto vertono sul distinguere una cosa dall’altra –

anche se sono diversi in modi che abbiamo spiegato altrove. Voglia, spirito e appetito sono tutti

desiderio, e scelta partecipa non solo di desiderio ma anche di pensiero. In questo modo, il primo

motore è l’oggetto del desiderio e anche del pensiero; comunque, non tutti gli oggetti del

pensiero, ma il fine nella sfera delle cose fattibili. Quindi è un bene di questo genere che

impartisce movimento, non tutte le cose nobili. Perché, nella misura in cui una cosa viene fatta

per questo e nella misura in cui è un fine delle cose che sono fatte in vista di altro, in quella

misura questo impartisce movimento. E dobbiamo supporre che un bene apparente conti come

un bene, e così anche il piacevole in quanto bene apparente.

È dunque chiaro che il movimento dell’eternamente mosso ad opera dell’eterno motore è in un

senso simile a quello di qualsiasi animale, ma in un altro senso è diverso, in quanto il primo è

mosso eternamente mentre quello degli animali ha un limite. Ma l’eternamente nobile e ciò che è

veramente e in senso primario bene, e non solo bene in un momento e non in un altro, è troppo

divino e troppo alto per essere relativo ad altro. Il primo motore, allora, impartisce moviemento

senza venire mosso, e desiderio e la facoltà desiderante impartiscono movimento nello stesso

tempo di essere mossi. [pag. 701a] Ma non è necessario per l’ultima delle cose che vengono

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Aristotele, Movimento degli animali

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mosse di muovere altro. E da qui è anche ovvio che il movimento locale è l’ultimo dei

movimenti nelle cose soggette al cambiamento. Perché l’animale si muove e progredisce in forza

del desiderio o della scelta, quando avviene qualche alterazione per quanto riguarda la

percezione o la fantasia

Capitolo vii

Ma come può succedere che talvolta il pensiero viene accompagnato dall’azione e talvolta no,

talvolta dal movimento e talvolta no? Sembra che la stessa cosa avvenga quando ragioniamo o

desumiamo intorno agli oggetti eterni; ma in quel caso, il fine è una proposizione speculativa

(perché quando pensiamo alle due premesse, pensiamo e mettiamo insieme la conclusione); però

qui la conclusione che segue dalle premesse è l’azione.

Ad esempio, se qualcuno pensa che tutti gli uomini debbano fare una passeggiata, e che lui

stesso sia un uomo, subito va a fare una passeggiata. O se pensa che nessun uomo debba fare una

passeggiata, e che lui stesso sia un uomo, subito resta fermo. E fa entrambe queste cose se niente

lo costringe e niente lo impedisce. Devo fare una cosa buona, una casa è una cosa buona. Subito

fa una casa. Ho bisogno di una copertura; un mantello è una copertura; ho bisogno di un

mantello. Ciò di cui ho bisogno devo farlo; ho bisogno di un mantello; devo fare un mantello. E

la conclusione ‘devo fare un mantello’ è un’azione. L’uomo agisce a partire da un punto di

partenza. Se ci sarà un mantello, deve necessariamente esserci prima questo, e se questo, quello.

E subito fa quello. Ora è ovvio che la conclusione è un’azione. E, per quanto riguarda le

premesse dell’azione, esse sono di due tipi: rispetto al bene e rispetto al possibile.

Ma, come talvolta avviene quando facciamo domande dialettiche, così anche qui la ragione

non si ferma a considerare la seconda delle due premesse, quella ovvia. Ad esempio, se fare

passeggiate fa bene all’uomo, egli non spreca tempo a considerare il proprio essere un uomo.

Perciò tutto ciò che facciamo senza calcolare, lo facciamo velocemente. Perché se una creatura

sta effettivamente utilizzando la percezione o la fantasia o il pensiero riguardo alla cosa in-vista-

di-cui, fa senz’altro ciò che desidera. Perché l’attività del desiderio sostituisce il porsi domande e

il ragionamento. ‘Devo bere’ dice l’appetito. ‘Ecco da bere’ dice la percezione o fantasia o

pensiero. E subito beve.

È così, allora, che gli animali vengono mossi e fatti agire: la ragione prossima del movimento

è il desiderio e questo avviene o attraverso la percezione o attraverso fantasia e pensiero. Con le

creature che desiderano agire, è talvolta dall’appetito o dallo spirito e talvolta dalla voglia che

fanno o agiscono.

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Aristotele di Stagira (384-322 a.C)

Etica nicomachea

Per motivi di copyright, il presente testo è desunto dalle diverse traduzioni di A. Plebe (Laterza, 1957), di M. Zanatta (Rizzoli, 1986) e di C. Mazzarelli (Bompiani, 2000). I rimandi alla paginazione Bekker (Berlino, 1831), inseriti in neretto nel testo, sono quelli adottati da tutta la critica moderna. La suddivisione in capitoli e i loro titoli, nonché i sommari delle parti non riportate, sono in corsivo tra parentesi e basati su quelli di Ross (Oxford, 1925).

LIBRO PRIMO: IL BENE PER L’UOMO

[Bekker pag. 1094a]

A. L’argomento della nostra indagine

Captolo i. (Tutte le attività umane mirano a qualche bene; alcuni beni sono subordinati ad altri)

Ogni arte e ogni ricerca, e similmente ogni azione e ogni proposito sembrano mirare a qualche

bene; perciò a ragione definirono il bene: ciò a cui ogni cosa tende. Tuttavia sembra esservi una

differenza tra i fini: talora infatti essi sono attività, talora invece, oltre ad esse, opere definite.

Quando vi sono dei fini definiti nelle azioni, allora le opere sono più importanti delle attività.

E poiché vi sono molte azioni e arti e scienze, vi sono anche molti fini: infatti il fine della

medicina è la salute, quello della costruzione navale il navigare, quello della strategia la vittoria,

quello dell’economia la ricchezza.

Quante ve ne son di tal genere, tutte sono subordinate ad una sola capacità: come la

fabbricazione delle briglie all’ippica e cosi pure tutto ciò che concerne l’equipaggiamento del

cavaliere; la stessa azione militare è subordinata alla strategia; e nello stesso modo le altre sono

rispettivamente subordinate ad un’altra capacità.

Ma, in tutte, i fini delle scienze architettoniche sono più importanti dei fini di quelle

subordinate. Infatti solo in funzione di quelli si seguono anche questi. Non ha alcuna importanza

poi che i fini delle azioni siano le stesse attivitá oppure qualcosa d’altro oltre a esse, come nelle

scienze suddette.

Capitolo ii (La scienza del bene per l’uomo è la politica)

Se poi vi è un fine delle nostre azioni che noi vogliamo di per se stesso, mentre gli altri li

vogliamo solo in vista di quello, e non desideriamo ogni cosa in vista di un’altra cosa singola

(così infatti s’andrebbe all’infinito, cosicché la nostra tendenza sarebbe vuota e inutile), in tal

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Aristotele, Etica nicomachea I

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caso è chiaro che questo dev’essere il bene e il bene supremo. E non è forse vero che per la vita

la conoscenza del bene ha una grande importanza e che possedendola, come gli arcieri che sanno

il loro scopo, meglio possiamo scoprire ciò che si deve?

Se è così, occorre cercare di precisare anche sommariamente che cosa mai esso sia e a quale

delle scienze o delle capacità appartenga. Sembrerebbe che debba appartenere alla più

importante e alla più architettoníca. Questa sembra essere la politica. Essa determina quali

scienze sono necessarie nelle città [pag. 1094b] e quali ciascuno deve apprendere e fino a che

punto. Vediamo infatti che anche le scienze più onorate si trovano sotto di essa, come la

strategia, l’economia e la retorica. Dal momento che essa si serve delle altre scienze pratiche, e

inoltre stabilisce che cosa bisogna fare e che cosa evitare, il suo fine potrebbe comprendere

quello delle altre, cosicché esso sarebbe il bene umano. Se infatti identico è il bene per il singolo

e per la città, sembra più importante e più perfetto scegliere e difendere quello della città; certo

esso è desiderabile anche quando riguarda una sola persona, ma è più bello e più divino se

riguarda un popolo e le città.

B. La natura della scienza di cui si tratta

Capitolo iii (Due limiti metodologici: la politica non ammette di un alto grado di precisione; e

lo studente deve aver raggiunto una certa esperienza del mondo)

A queste cose mira dunque il nostro trattato, che è un trattato di politica; sarà sufficiente che esso

tratti chiaramente intorno alla materia proposta. Infatti non bisogna cercare in tutti i trattati una

egual precisione come neppure nelle professioni manuali. Infatti il bello e il giusto, a cui si

rivolge la scienza politica, presentano tali divergenze e possibilità d’errore che sembrano esser

solo in virtù della legge, non per natura. Una tale possibilità d’errore posseggono anche i

differenti beni per il fatto che a molte persone derivano danni da essi: infatti alcuni furono

rovinati per la ricchezza, altri per il coraggio.

Ci si deve accontentare quindi che coloro che parlano di queste cose e da esse argomentano

mostrino la verità in maniera sommaria e approssimativa, e che quelli che parlano di cose

generali e da esse argomentano ne traggano conclusioni pure generali. Allo stesso procedimento

occorre che si attenga anche ciascuna delle cose che diciamo; infatti è proprio dell’uomo colto

richiedere in ciascun genere di ricerca tanta esattezza, quanta ne permette la natura

dell’argomento: e sarebbe lo stesso lodare un matematico perché è persuasivo e richiedere

dall’oratore delle dimostrazioni.

[pag. 1095a] Ciascuno giudica bene ciò che conosce, e solo di ciò che conosce è quindi buon

giudice. Nelle questioni particolari dunque giudica bene chi è competente in esse, in quelle

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Aristotele, Etica nicomachea I

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generali chi ha una cultura generale. Perciò della scienza politica il giovane non è un discepolo

adatto; giacché egli è inesperto della vita pratica, mentre la nostra ricerca muove da essa e tratta

di essa. Inoltre, essendo incline alle passioni, ascolterà invano e inutilmente, poiché lo scopo

della politica non è la teoria ma l’azione. Non v’è alcuna differenza s’egli è giovane di età

oppure di carattere; poiché questa mancanza non dipende dal tempo, ma dal vivere seguendo le

passioni e dal seguire ciascuna di esse. Per tali persone la conoscenza è inutile, come pure a chi è

intemperante; per coloro invece che regolano i loro desideri e le loro azioni razionalmente, la

conoscenza di questi argomenti sarebbe assai giovevole.

C. Qual’ è il bene per l’uomo?

Capitolo iv (Anche se si concorda che la felicità sia il bene, ci sono divergenze sulla sua natura.

Ciò che ci vuole è un punto di partenza basato sull’educazione)

Per quanto dunque riguarda l’ascoltatore, il come intendiamo dimostrare e che cosa ci

proponiamo, basti ciò che s’è detto; riprendiamo invece la questione, poiché ogni conoscenza e

ogni decisione mira a un qualche bene, quale sia il fine che stabiliamo che la politica debba

seguire e quale il sommo dei beni nell’azione.

Quanto al nome d’esso, la maggior parte è pressoché d’accordo: felicità lo chiamano sia la

moltitudine sia le persone raffinate, le quali suppongono che l’esser felici consista nel viver bene

e nell’aver successo: ma intorno all’essenza della felicità, sono in discordia e qui la moltitudine

giudica non nella stessa maniera che i saggi. Gli uni la ritengono una cosa visibile e che appaia

esteriormente, come il piacere o la ricchezza o l’onore, altri un’altra cosa, e spesso anche la

stessa persona ritiene che sia ora una cosa ora un’altra (ad esempio quand’è malato la salute,

quand’è povero la ricchezza), chi invece è conscio della propria ignoranza ascolta con meraviglia

chi dice tali cose grandi e superiori a lui; alcuni invece pensano che accanto a questi molti beni

ve ne sia uno che esiste per sé, il quale è pure per tutti i beni la causa stessa che li fa esser beni.

Esaminare dunque tutte queste opinioni sarebbe evidentemente piuttosto inutile, sarà invece

sufficiente studiare quelle che più di tutte son diffuse o sembrano aver qualche fondamento

razionale. Non ci sfugga la differenza tra i ragionamenti che muovono dai princìpi e quelli

invece che ai princìpi risalgono. Anche Platone fu in imbarazzo su questa questione, e

giustamente, e cercava di stabilire se la via da seguire fosse il muovere dai princìpi, oppure il

giungere ad essi, come nello stadio se si corra dai seggi dei giudici di gara alla meta oppure

viceversa.

[pag. 1095b] Bisogna certamente cominciare dalle cose conosciute: queste possono esserlo in

due modi: ciò che è noto a noi e ciò che è noto in generale. Cominceremo dunque dalle cose note

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a noi. Perciò occorre possedere già una buona formazione morale se si vuol ascoltare con profitto

intorno al bello, al giusto, insomma alla politica. (Giacché si parte dal fatto: e se questo appare

sufficientemente spiegato, non avremo più bisogno del perché.) Chi è già così educato, o

possiede già i principi o li può acquistare facilmente. Chi invece non ha alcuna di queste doti

ascolti le parole di Esiodo:

Di tutti è il migliore chi tutto sappia,

buono è pur quello che ascolta il maestro

ma chi non è in grado di pensare da sé, né ciò che sente da un altro

sa accogliere, è un buono a nulla

Capitolo v (Discussione delle opinioni popolari secondo cui il bene sia identico al piacere,

all’onore o alla ricchezza; un quarto tipo di vita, quello della contemplazione, sarà

discusso nel libro X)

Discutiamo dunque la questione donde siamo partiti. Non a torto gli uomini sembrano concepire

il bene e la felicità a seconda del loro genere di vita. La massa e le persone più rozze li trovano

nel piacere: perciò essi prediligono una vita di godimento.

Tre infatti sono i generi di vita più notevoli: quello suddetto, quello che mira alla vita politica,

infine quello contemplativo. I più evidentemente appaiono simili agli schiavi, scegliendosi

un’esistenza degna delle bestie, e trovano una giustificazione nel fatto che molte persone potenti

hanno gli stessi gusti di un Sardanapalo.

Le persone evolute e attive ripongono invece il bene nell’onore. Questo infatti è all’incirca il

fine della vita politica. Ma questo fine sembra esser cosa più superficiale di quel che cerchiamo.

Esso infatti sembra dipendere più da chi conferisce l’onore che da chi è onorato: noi invece

riteniamo che il bene sia qualcosa di individuale e di inalienabile. Inoltre gli uomini sembrano

ricercare l’onore per convincersi di essere buoni: essi infatti aspirano a essere onorati da chi è

assennato, e da chi li conosce, e riguardo alla loro virtù; è evidente dunque che, almeno di fronte

a queste persone, la virtù è un bene superiore. Senz’altro si potrebbe dunque ritenere che essa sia

il fine della vita politica. Ma anch’essa risulta insufficiente: sembra infatti potersi dare il caso

che uno, pur possedendo la virtù, dorma e resti inattivo nel corso della a sua vita, [pag. 1096a] e

che inoltre sopporti nella più gran misura mali e sfortune; ma una persona che vive in tal

maniera, nessuno la riterrebbe felice, se non per amore di tesi. E intorno a quest’argomento basti

ciò (infatti a sufficienza parlai di queste cose nei libri per il grande pubblico).

Il terzo genere di vita è quello contemplativo, intorno al quale dirigeremo la nostra indagine

nelle pagine seguenti. La vita invece dedita al commercio è qualcosa di contro natura, ed è

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evidente che la ricchezza non è il bene che ricerchiamo; infatti essa è solo in vista del guadagno

ed è un mezzo per qualcosa d altro. Tanto più dunque si dovrebbero preferire i fini prima

elencati: essi infatti sono desiderati di per se stessi. Ma o è evidente che neppure quelli son

sufficienti: benché molte teorie sian già state esposte su di essi.

Capitolo vi (Discussione dell’opinione platonica dell’Idea del Bene)

Capitolo vii (Il bene deve essere finale e autosufficiente. Definizione della felicità basata sulla

funzione caratteristica dell’uomo)

Capitolo viii (Questa definizione è confermata dalle opinioni popolare)

Capitolo ix (Come si acquisisce la felicità: mediante lo studio o per consuetudine; è un dono

divino o un prodotto del caso?)

Capitolo x (Si può chiamare un uomo felice mentre è ancora in vita?)

Capitolo xi (Può la fortuna dei viventi influire quella dei morti?)

[Bekker pag. 1101b]

Capitolo xii (La virtù è lodata, ma la felicità è al di sopra delle lodi)

Definito questo, volgiamoci ad esaminare, a proposito della felicità, se essa appartenga alle cose

che sono degne di lode o piuttosto a quelle che meritano onore, poiché è evidente che non rientra

certo tra le semplici potenzialità.

Ogni cosa degna di lode, manfestamente, viene lodata per il fatto di avere una certa qualità o

per essere in un determinato rapporto con qualcosa. Infatti noi lodiamo l’uomo giusto, il

coraggioso e, in generale, l’uomo buono e la virtù per le azioni e le opere, mentre lodiamo

l’uomo forte, il corridore, e così via, per il fatto che per natura possiedono una certa qualità e

perché sono in un determinato rapporto con qualcosa che è buono e di valore. Questo risulta

chiaro anche delle lodi rivolte agli dèi: esse infatti si rivelano ridicole perché si determinano in

rapporto a noi uomini, e questo succede per il fatto che le lodi si basano su un rapporto con

qualcos’altro, come abbiamo detto. Se la lode si riferisce a ciò che è relativo, è chiaro che dei

beni assoluti non vi può essere lode, ma qualcosa di più grande e migliore, come anche risulta

con evidenza: infatti ciò che facciamo è di proclamare beati e felici gli dèi ed i più simili agli dèi

tra gli uomini.

Lo stesso vale per i beni: nessuno infatti loda la felicità come la giustizia, ma lo proclama

beata, in quanto è qualcosa di più divino e più nobile. Anche Eudosso, sembra, ha ragionato bene

in difesa del primo premio da assegnarsi al piacere: egli pensava che il fatto che esso non viene

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lodato, pur essendo uno dei beni, significa che è superiore a ciò che è degno meramente di lode,

e che tali sono il divino e il bene, giacché è a loro che vengono rapportate tutte le altre cose.

La lode, infatti, spetta alla virtù, giacché è da essa che riceviamo la capacità di compiere le

azioni moralmente belle; gli encomi invece sono appropriati alle opere, sia del corpo sia

dell’anima, ugualmente. Ma distinguere con precisione questi generi è certo più tipico di coloro

che si occupano di encomi; per noi è chiaro da quanto si è detto [pag. 1102a] che la felicità

rientra tra le cose degne di onore e perfette. Sembra che sia così anche per il fatto che essa è un

principio; è in vista di essa, infatti, che tutti noi facciamo tutto il resto, e il principio e la causa

dei beni noi riteniamo che sia una cosa degna di onore e divina.

D. Tipi di virtù

Capitolo xiii (La divisione delle facoltà e conseguente distinzione delle virtù etiche e

intellettuali)

Poiché la felicità è una attività dell’anima secondo perfetta virtù, dobbiamo prendere in esame la

virtù, giacché così, forse, potremo venire in chiaro anche di quanto riguarda la felicità. Si ritiene

anche, poi, che l’uomo politico autentico debba aver dedicato ad essa moltissime delle sue

fatiche: egli infatti vuole rendere i cittadini buoni e ossequienti alle leggi. Come esempio di

uomini politici autentici abbiamo i legislatori di Creta e di Sparta, e quanti altri ce ne possono

essere stati del medesimo tipo. Se poi tale indagine è propria della scienza politica, è chiaro che

la ricerca si potrà svolgere conformemente alla nostra intenzione iniziale.

La virtù su cui si deve indagare, è chiaro, è la virtù umana, giacché è il bene umano e la

felicità umana che stiamo cercando. Intendiamo poi per virtù umana non quella del corpo, bensì

quella dell’anima: anche la felicità la definiamo attività dell’anima. Se le cose stanno così, è

chiaro che l’uomo politico deve conoscere in qualche modo ciò che riguarda l’anima, come

anche chi intende curare gli occhi deve conoscere anche tutto il corpo, e tanto più in quanto la

politica è più degna di onore e più nobile della medicina: i più valenti dei medici si danno molto

da fare per conoscere il corpo. Anche l’uomo politico dunque deve cercar di conoscere l’anima,

e cercare di conoscerla per le ragioni dette, e nella misura sufficiente per quello che stiamo

cercando, giacché indagare con maggior precisione è forse fatica sproporzionata a quanto ci

siamo proposti. Si fanno alcune affermazioni sull’anima anche negli scritti essoterici in misura

sufficiente, e possiamo servirci di quelli: per esempio, vi si dice che una parte di essa è

irrazionale, e l’altra è fornita di ragione. Se esse poi siano distinte come le parti del corpo e come

tutto ciò che è divisibile in parti, o se invece le parti sono due solo ideal.mente, mentre per

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natura sono inseparabili, come nella circonferenza la parte convessa e la parte concava, non fa

differenza per la presente argomentazione.

Di quella irrazionale, poi, una parte sembra essere comune anche ai vegetali (intendo quella

che è causa della nutrizione e dell’accrescimento), giacché tale facoltà dell’anima [pag. 1102b]

si può ammettere in tutti gli esseri che si nutrono, sia negli embrioni, sia, tal quale, negli esseri

completamente sviluppati: è infatti più probabile che sia la stessa piuttosto che un’altra. Dunque

la virtù di questa facoltà è, manifestamente, una virtù comune, e non propria dell’uomo: si ritiene

infatti che questa parte, cioè questa facoltà, sia attiva soprattutto durante il sonno, e il buono ed il

cattivo si differenziano molto poco nel sonno (ragion per cui dicono che per metà della vita gli

uomini felici non differiscono in nulla dagli infelici; che questo accada è naturale: il sonno è

inattività dell’anima, per quella parte secondo cui essa può dirsi di valore o miserabile), a meno

che, debolmente, pur le giungano alcuni movimenti, e che sia per questo che i sogni degli uomini

per bene sono migliori di quelli degli uomini qualsiasi. Ma di queste cose basta; e si può

tralasciare la facoltà nutritiva, poiché per sua natura non ha alcuna partecipazione alla virtù

umana. Sembra poi che ci sia anche un’altra facoltà naturale dell’anima, irrazionale, ma tuttavia

in qualche modo partecipe di ragione. Infatti, noi lodiamo, sia dell’uomo continente sia di quello

incontinente, la ragione, cioè la parte razionale dell’anima, giacché è essa che li esorta alle azioni

più nobili. E manifesto poi in essi anche un altro elemento, che, per natura, è estraneo alla

ragione, e combatte e contrasta la ragione. Proprio come le membra paralizzate: quando uno si

propone di muoverle a destra, si volgono, al contrario, a sinistra; così avviene anche per l’anima:

le inclinazioni degli incontinenti, infatti, si volgono in direzioni contrarie. Ma mentre nei corpi

vediamo l’elemento deviante, nell’anima non lo vediamo. Nondimeno, certo, dobbiamo pensare

che nell’anima ci sia qualcosa di estraneo alla ragione, che ad essa si oppone e resiste. In che

senso sia estraneo alla ragione non ha importanza. Anche questo elemento, poi, partecipa

manifestamente della ragione, come abbiamo detto: nell’uomo continente ubbidisce di certo alla

ragione, e forse è ancor più docile nell’uomo temperante ed in quello coraggioso, giacché in essi

tutto è in armonia con la ragione. Dunque, è manifesto che anche l’elemento irrazionale è

duplice. La parte vegetativa non partecipa per niente della ragione, mentre la facoltà del

desiderio e, in generale, degli appetiti, ne partecipa in qualche modo, in quanto le dà ascolto e le

ubbidisce. E questo nel senso in cui anche diciamo “accettare la ragione” del padre e degli amici,

e non nel senso in cui diciamo “comprendere la ragione” delle dimostrazioni matematiche. E che

l’elemento irrazionale in qualche modo si lasci determinare dalla ragione, lo mostrano gli

ammonimenti, i rimproveri e tutti i tipi di esortazione. [pag. 1103a] Ma se è necessario dire che

anche questo elemento partecipa della ragione, allora anche la parte che possiede la ragione sarà

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duplice: l’una la possederà in senso proprio e in se stessa, l’altra nel senso che le dà ascolto come

ad un padre.

Anche la virtù, poi, si divide conformemente a questa divisione dell’anima. Infatti alcune le

chiamiamo virtù dianoetiche altre virtù etiche: dianoetiche sapienza, giudizio e saggezza, etiche

invece liberalità e temperanza. Infatti, quando parliamo del carattere di un uomo non diciamo

che egli è sapiente o giudizioso, ma che è mite o temperante; però lodiamo anche il sapiente per

la sua disposizione: e le disposizioni che meritano lode le chiamiamo virtù.

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LIBRI SECONDO-QUINTO: LE VIRTÙ MORALI

II.i–III.v Quadro generale

Libro II

[Bekker pag. 1103a]

A. La virtù morale, come si produce,

in che materiali e come si esibisce

Capitolo i (Come le arti, si acquisisce tramite la ripetizione degli atti corrispondenti)

Poiché la virtù è di due specie, la virtù dianoetica e la virtù etica, quella dianoetica ha per la

maggior parte’ dall’insegnamento sia la sua origine che il suo potenziamento; per cui ha bisogno

di esperienza e di tempo. La virtù etica nasce invece dall’abitudine, donde ha tratto anche il

nome, per una piccola modificazione da «abitudine» (éthos).

Dal che è pure evidente che nessuna delle virtù etiche sorge in noi per natura. Nessuna infatti

delle cose che esistono per natura riceve un’abitudine in senso diverso: ad esempio la pietra che

per natura si porta verso il basso non riceverà l’abitudine a portarsi verso l’alto, neppure se si

compissero migliaia di tentativi per abituarla, lanciandola in alto; né il fuoco riceverà l’abitudine

a portarsi verso il basso, né nessun’altra delle cose che per natura sono in certo modo riceverà

un’abitudine in senso diverso6. Non è dunque né per natura né contro natura che sorgono le

virtù, ma esse sorgono in noi che per natura siamo atti a riceverle e siamo portati a compimento

in quest’attitudine naturale mediante l’abitudine.

Inoltre di tutt le cose che sopraggiungono in noi per natura, prima portiamo in noi le potenze

ed in un secondo tempo esercitiamo le attività (il che risulta evidente nel caso delle facoltà

sensibili: infatti non è dall’aver visto molte volte o dall’aver ascoltato molte volte che noi

acquistiamo questi sensi, ma all’opposto li usiamo se già li possediamo, e non è perché li

esercitiamo che li possediamo). Invece acquistiamo le virtù se le abbiamo prima esercitate, come

anche nel caso delle altre arti: infatti le cose che non si possono compiere senza averle prima

imparate, queste è col compierle che impariamo: ad esempio si diventa costruttori di case col

costruire case e citaredi col suonare la cetra. Così pertanto è anche compiendo azioni giuste che

diventiamo giusti, e compiendo azioni moderate che diventiamo moderati, ed azioni coraggiose,

coraggiosi.

[pag. 1103b] Lo testimonia anche ciò che avviene nelle città: infatti i legislatori rendono

buoni i cittadini facendo loro acquisire delle abitudini; ed è questo il desiderio di ogni legislatore,

e quelli che non lo realizzano bene falliscono nel loro compito, ed in questo una buona

costituzione si distingue da una costituzione cattiva .

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Inoltre dalle medesime azioni e per mezzo delle medesime azioni ogni virtù e nasce e si

corrompe, e parimenti anche ogni arte: infatti è dal suonare la cetra che si diventa e buoni e

cattivi citaredi. Analogo rilievo vale sia per i costruttori di case che per tutti gli altri artigiani:

infatti è dal costruire bene le case che saranno buoni costruttori e dal costruirle male costruttori

cattivi. Ché, se non fosse così, non si avrebbe nessun bisogno di chi insegna, ma tutti sarebbero

dalla nascita buoni o cattivi artigiani.

Così pertanto stanno le cose anche nel caso delle virtù: giacché è compiendo certe azioni nei

rapporti commerciali con gli uomini che diventiamo gli uni giusti, gli altri ingiusti; compiendo

certe azioni nei pericoli ed abituandoci ad avere paura o ad essere intrepidi che diventiamo gli

uni coraggiosi, gli altri vili. E parimenti stanno le cose e per quel che concerne le brame e per

quel che concerne i moti di collera: gli uni infatti diventano moderati e miti, gli altri intemperanti

e collerici: i primi dal comportarsi nelle medesime circostanze in questo determinato modo, i

secondi dal comportarsi in quest’altro.

Insomma, in una parola, le disposizioni nascono dalle attività che sono loro simili. Per questo

le attività che si esercitano devono essere di una certa qualità’: perché conformemente alle

differenze di queste attività seguono le disposizioni. Quindi non è di poca importanza contrarre

questa o quella abitudine subito fin da giovani, ma è d’importanza capitale, o -meglio - è il punto

decisivo.

Capitolo ii (Non si possono prescrivere esattamente quali siano questi atti, ma bisogna evitare

eccesso e difetto)

Poiché dunque il presente studio non ha per fine una conoscenza pura come gli altri (infatti non

intraprendiamo questa ricerca per conoscere che cos’è la virtù, ma per diventare buoni, giacché

altrimenti nulla sarebbe la sua utilità), è necessario esaminare ciò che concerne le azioni per

sapere come bisogna compierle. Esse infatti costituiscono l’elemento da cui dipende anche il

fatto che le disposizioni siano di una certa qualità, come abbiamo detto.

Ora, il principio «agire secondo la retta regola» è un principio riconosciuto valido, e sia il

punto di partenza della nostra trattazione - si dirà in seguito di esso, e che cos’è la retta regola e

come si rapporta alle altre virtù.

Prima però ci si accordi su questo punto, che tutta la trattazione, la quale verte intorno alle

azioni che bisogna compiere [pag. 1104a], dev’essere condotta per linee generali e senza entrare

nei dettagli, come anche all’inizio abbiamo detto che è in modo conforme alla materia che

devono richiedersi le argomentazioni. E nel campo delle azioni e dell’utile non vi è nulla di

stabile, come non ve n’è neppure in materia di salute.

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Ma se di questa natura è la trattazione generale, a maggior ragione non possiede la minuzia

dei dettagli la trattazione che ha per oggetto le diverse specie di casi particolari: giacché essi non

cadono sotto nessun’arte né sotto nessuna regola professionale, ma è necessario che siano

sempre quelli stessi che agiscono a scorgere le cose che la circostanza richiede, come avviene

anche nel caso della medicina e dell’arte del pilotare la nave

Ma tuttavia, pur essendo questa la natura della presente trattazione, bisogna sforzarsi di

apportare qualche risultato utile.

Anzitutto bisogna dunque considerare che le cose di questo genere sono per loro natura

rovinate dal difetto e dall’eccesso (infatti intorno agli argomenti che sono oscuri si devono usare

prove che siano manifeste), come vediamo nel caso del vigore fisico e della salute. Infatti gli

esercizi ginnici eccessivi e gli esercizi ginnici scarsi rovinano il vigore fisico, e similmente anche

le bevande ed i cibi che sono sovrabbondanti ed insufficienti rovinano la salute, mentre quelli

dosati in quantità giusta e la producono e l’aumentano e la conservano. Così dunque stanno le

cose anche nel caso della moderazione e del coraggio e delle altre virtù. Infatti come chi fugge

ogni cosa ed ha paura di tutto e non affronta niente a piè fermo diviene vile, chi invece non teme

assolutamente nulla ma va incontro ad ogni cosa diviene temerario; e parimenti anche chi trae

godimento da ogni piacere e non si astiene da nessuno diventa incontinente; chi invece rifugge

da tutti, come le persone rozze, diventa un insensibile. Pertanto la moderazione ed il coraggio

sono rovinate dall’eccesso e dal difetto, mentre sono salvaguardate dalla via di mezzo.

Ma non soltanto l’origine e l’aumento <delle virtù> derivano dalle stesse azioni e sono opera

delle stesse azioni dalle quali deriva ed opera delle quali è pure la loro dissoluzione; ma anche le

loro attività si dispiegheranno nelle medesime azioni. Infatti avviene così anche nel caso delle

altre disposizioni più manifeste delle virtù: ad esempio nel caso del vigore fisico. Esso deriva

infatti dal prendere abbondante nutrimento e dal sopportare molte fatiche, e chi è forte sarà

massimamente in grado di fare queste cose. La situazione è la stessa anche nel caso delle virtù.

Infatti è dall’astenerci dai piaceri che diventiamo moderati e, una volta diventati, siamo

massimamente capaci di astenerci da essi. [pag. 1104b] Similmente è anche nel caso del

coraggio: abituandoci infatti a disprezzare le cose temibili e a far loro fronte diventiamo

coraggiosi e, quando lo siamo diventati, saremo massimamente capaci di far fronte alle cose

temibili.

Capitolo iii (Il piacere di agire in modo virtuoso è segno della disposizione acquisita; ci sono

molti motivi per associare dolore e piacere con la virtù morale)

Come segno delle disposizioni morali dobbiamo assumere il piacere e il dolore per le opere.

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Infatti chi si astiene dai piaceri fisici e gioisce di questa stessa astensione è moderato, chi invece

se ne cruccia è incontinente; e chi affronta le cose terribili e ne gioisce, o per lo meno non se ne

duole, è coraggioso, chi invece se ne duole è vile.

Infatti sono i piaceri e i dolori l’ambito nel quale gravita la virtù etica: giacché è a causa del

piacere che compiamo le cose cattive ed è a causa del dolore che ci asteniamo dalle cose

moralmente belle. Per questo si deve esser in qualche modo guidati subito da giovani, come dice

Platone, a rallegrarsi e a dolersi delle cose di cui si deve: questa è infatti la retta educazione.

Inoltre, se le virtù hanno per oggetto le azioni e le passioni, e ad ogni passione e ad ogni

azione segue piacere e dolore, anche per questo la virtù avrà a che fare con piaceri e dolori.

Lo provano anche le punizioni che si infliggono mediante questi sentimenti. Esse infatti sono

come delle cure mediche: e le cure mediche, per loro natura, procedono per mezzo dei contrari.

Di più, come anche precedentemente abbiamo detto, ogni disposizione dell’anima esprime la

sua natura in rapporto e nell’ambito di quelle cose ad opera delle quali può diventare peggiore o

migliore. Ma è a causa dei piaceri e dei dolori che gli uomini diventano cattivi, col perseguirli e

col fuggirli: o col perseguire e col fuggire quelli che non si devono o come non si deve o in

quanti altri modi tali circostanze sono determinate dalla regola. Per questo definiscono anche le

virtù come degli stati di impassibilità e di riposo. Non bene, però, perché parlano in termini

assoluti, senza aggiungere come si deve e come non si deve e quando e tutte le altre precisazioni.

Resti dunque acquisito come punto basilare che la virtù è tale da far compiere le cose migliori

nell’ambito dei piaceri e dei dolori, e che il vizio è l’opposto.

Ma anche da queste considerazioni ci può essere chiaro che la virtù e il vizio vertono intorno

ai piaceri e ai dolori. Infatti, essendo tre i fattori che decidono le scelte e tre quelli che decidono

le repulsioni, il bello, l’utile ed il piacevole e i loro contrari, il turpe, il dannoso ed il doloroso,

nell’ambito di tutti questi l’uomo virtuoso è capace di agire rettamente, il malvagio in modo

peccaminoso; e soprattutto nell’ambito del piacere: giacché questo è comune all’uomo e agli

animali e segue tutto ciò che deriva dalla scelta deliberata. [pag. 1105a] Infatti anche il bello e

l’utile appaiono come una cosa piacevole.

Inoltre il piacere fin dall’infanzia cresce con tutti noi: perciò è difficile sbarazzarsi di questo

sentimento che ha le sue radici nel fatto di essere al mondo.

Di più, noi valutiamo anche le azioni, chi più chi meno, col metro del piacere e del dolore: per

questo dunque è necessario che tutta la trattazione verta intorno a queste determinazioni: infatti

non è cosa da poco per le azioni gioire e provar dolore in modo buono o cattivo.

Aggiungiamo infine che è più difficile combattere contro il piacere che contro la collera,

come dice Eraclito, e sia l’arte che la virtù sorgono sempre intorno a ciò che è più difficile;

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infatti in quest’ambito il bene è di natura ancora superiore. Di conseguenza, anche per questo

motivo tutta la trattazione ha per oggetto i piaceri ed i dolori: sia per la virtù che per la politica.

Infatti chi ne fa buon uso sarà buono e chi ne fa un uso cattivo sarà cattivo.

Che dunque la virtù ha per dominio i piaceri e i dolori; e che dalle azioni da cui nasce, da

queste è sia aumentata che rovinata, a seconda del modo in cui si compiono; e che verte ed

esercita la sua attività intorno agli atti dai quali è sorta, resti detto.

Capitolo iv (Le azioni che producono virtù morale non sono buone nello stesso senso in cui lo

sono quelle che sono prodotte da essa)

B. Definizione della virtù morale

Capitolo v (Il suo genere: una disposizione e non una passione né una facoltà)

Capitolo vi (La sua differenza: una disposizione per scegliere il mezzo)

Capitolo vii (Illustrazione di questa definizione in rapporto alle virtù particolari)

C. Caratteristiche delle disposizioni estreme e medie: conseguenze pratiche

Capitolo viii (Gli estremi sono opposti tra loro e anche al mezzo)

Capitolo ix (È difficile arrivare al mezzo, e questo si fa mediante la percezione e non il

raziocinio)

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Libro III

[Bekker pag. 1109b]

D. Il lato interno delle virtù morali: le condizioni di responsabilità per le azioni

Capitolo i (La valutazione morale verte sulle azioni volontarie, che non si compiono quando

non si è costretti e quando si ha conoscenza delle circostanze)

Capitolo ii (Virtù morale implica che l’azione viene compiuta in base ad una scelta; la scelta è

il risultato di deliberazione)

Capitolo iii (La natura della deliberazione e dei suoi oggetti: la scelta è un desiderio deliberato

delle cose nel nostro potere)

Capitolo iv (L’oggetto di un appetito razionale è il fine: il bene, vero o apparente che sia)

III.vi-V.xi Le virtù e i vizi particolari

A. Il coraggio

Capitolo vi (Il coraggio ha a che fare con sentimenti di paura e fiducia, e nello specifico con la

paura di morire in battaglia)

Capitolo vii (Il motivo del coraggio è il senso dell’onore: le caratteristiche dei vizi opposti:

codardia e sventatezza)

Capitolo viii (Cinque tipi di coraggio che non meritano il nome)

Capitolo ix (Il rapporto tra il coraggio e il sacrificio della vita)

B. La temperanza

Capitolo x (La temperanza si limita a certi piaceri del senso di tatto)

Dopo aver parlato del coraggio parliamo della temperanza, perché si ritiene che queste due siano

le virtù delle parti irrazionali dell’anima. Che, dunque, la temperanza è una medietà relativa ai

piaceri l’abbiamo già detto; essa, infatti, riguarda i dolori in misura minore ed in maniera

diversa; nel medesimo campo si manifesta che l’intemperanza. Quali piaceri, dunque, esse

riguardino, lo determineremo ora.

Distinguiamo, dunque, i piaceri dell’anima da quelli dei corpo. Esempio dei primi, l’amore

degli onori e l’amore del sapere: in ciascuno di questi casi, infatti, si gode di ciò che si ama,

senza che il corpo provi nulla, ma è piuttosto la mente che prova piacere. Ma gli uomini che

ricercano tali piaceri non sono chiamati né temperanti né intemperanti. Similmente non sono

chiamati così neppure quelli che ricercano i piaceri che non sono del corpo: infatti quelli che

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amano ascoltare o raccontare favole e che passano le loro giornate a parlare di quel che capita,

non li chiamiamo intemperanti, ma chiacchieroni; neppure chiamiamo intemperanti coloro che

soffrono per questioni di denaro o di amicizia.

[pag. 1118a] La temperanza dovrebbe, dunque, riguardare i piaceri del corpo, e neppure tutti

questi: coloro, infatti, che godono di ciò che percepiamo mediante la vista (per esempio, dei

colori e dei disegni, cioè della pittura), non vengono chiamati né temperanti né intemperanti.

Eppure si riconoscerà che anche di queste cose si può godere come si deve, ma anche in eccesso

e in difetto.

Lo stesso avviene anche nel campo dell’udito: quelli che esagerano nel godere della musica o

del teatro nessuno li chiama intemperanti, né si chiamano temperanti quelli che godono come si

deve.

Né si danno questi nomi a chi ama i piaceri dell’odorato, se non per accidente: non

chiamiamo intemperanti coloro che godono degli odori delle mele o delle rose o dei profumi, ma

piuttosto coloro che si dilettano degli odori degli unguenti o dei cibi raffinati. Gli intemperanti,

infatti, godono di questi odori, perché fanno loro ricordare gli oggetti desiderati. Si può osservare

che anche gli altri uomini, quando hanno fame, godono degli odori dei cibi; ma godere proprio

degli odori è tipico dell’intemperante, giacché per lui questi sono per se stessi oggetti di

desiderio.

Ma neppure gli altri animali possono, se non per accidente, ricavare un piacere da queste

sensazioni. Infatti, ai cani non è l’odore delle lepri che piace, bensì il mangiarle, e l’odorato

gliene produce la sensazione. Né al leone piace il muggito del bue, ma gli piace divorano:

sembra che goda, invece, del muggito, perché è attraverso il muggito che ha percepito che il bue

è vicino. Similmente non gode perché vede «un cervo o una capra selvatica», ma perché l’avrà

come pasto.

La temperanza e l’intemperanza riguardano, dunque, i piaceri di natura tale che anche gli altri

animali ne partecipano, ragion per cui si rivelano piaceri servili e bestiali. E questi sono il tatto e

il gusto.

Ma anche del gusto, manifestamente, essi fanno poco o nessun uso, giacché compito del gusto

è quello di discernere i sapori, cosa che fanno gli assaggiatori di vini e quelli che condiscono cibi

raffinati ma non è assaggiare e condire che a loro piace, almeno non agli intemperanti, bensì

ricavarne il godimento che deriva loro dal tatto, sia nei cibi sia nelle bevande, sia nei rapporti

cosiddetti afrodisiaci. Perciò un tale, che era un ghiottone, pregava che la sua gola divenisse più

lunga di quella di una gru, mostrando che il godimento gli derivava dal tatto. [pag. 1118b]

Dunque, è il più comune dei sensi quello con cui e connessa l’intemperanza: ed essa sarà

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Aristotele, Etica nicomachea III

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giustamente ritenuta il più biasimevole dei vizi, perché ci riguarda non in quanto siamo uomini,

ma in quanto animali.

Godere dunque di simili sensazioni ed amarle al di sopra di tutto è bestiale. E infatti ne

restano esclusi, tra i piaceri derivati dal tatto, quelli più degni di uomini liberi, come, per

esempio, quelli che nei ginnasi vengono prodotti dal massaggio e dal conseguente riscaldamento,

perché il piacere tattile dell’intemperante non riguarda l’intero corpo, ma solo alcune parti di

esso.

Capitolo xi (Le caratteristiche della termperanza e i suoi opposti, l’intemperanza e

l’insensibilità)

Si ritiene comunemente che alcuni dei desideri siano comuni a tutti, e che altri, invece, siano

propri dell’individuo e avventizi. Per esempio, il desiderio del nutrimento è naturale: chiunque

ne abbia bisogno, infatti, desidera nutrimento solido o liquido, e talora entrambi, e chi è giovane

e nel pieno delle forze, come dice Omero, desidera i piaceri del letto.

Però, desiderare questo o quel piacere determinato non è più cosa di tutti, né ciascuno

desidera sempre le stesse cose. Perciò è qualcosa di individuale. Tuttavia la preferenza

individuale ha almeno qualcosa anche di naturale: infatti, per alcuni sono piacevoli certe cose,

per altri altre, ed alcune cose sono per tutti più piacevoli di altre cose qualsiasi. Nei desideri

naturali, dunque, sono pochi gli uomini che errano e in una sola direzione, in quella dell’eccesso:

infatti, mangiare o bere tutto quello che capita fino ad essere troppo pieni significa superare in

quantità la soddisfazione richiesta dalla natura, giacché il desiderio naturale è il mezzo per

riempire il vuoto del bisogno. Perciò costoro sono chiamati golosi, perché riempiono il ventre

più del conveniente: e tali diventano quelli che hanno un temperamento troppo da schiavi.

Invece, riguardo ai piaceri particolari all’individuo molti, e spesso, errano. Gli amatori di

questa o quella cosa determinata sono così chiamati per il fatto che godono delle cose di cui non

devono godere, o perché ne provano piacere più di quanto generalmente si faccia, o perché non

lo fanno come si deve. Gli intemperanti, invece, eccedono in tutti questi modi insieme: godono,

infatti, di alcune cose delle quali non si deve (perché sono odiose), e se godono di alcune di

quelle di cui si deve godere, lo fanno più di quanto si deve e di quanto non faccia la maggior

parte della gente. È dunque evidente che l’eccesso nei piaceri è intemperanza e cosa biasimevole.

Quanto ai dolori, d’altra parte, non è come nel caso del coraggio che si è chiamati temperanti

per il fatto di sopportarli o intemperanti per il fatto di non sopportarli, ma l’intemperante è

chiamato così perché si addolora più del dovuto per il fatto di non riuscire ad ottenere i piaceri

desiderati (così il piacere che all’intemperante causa dolore), mentre il temperante viene

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Aristotele, Etica nicomachea III

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chiamato così per il fatto che non soffre per l’assenza di ciò che è piacevole e per il doversene

astenere.

[pag. 1119a] L’intemperante, dunque, desidera le cose piacevoli, tutte, o quelle che lo sono in

massimo grado, ed è trascinato dal desiderio a scegliere queste in cambio di tutte le altre: perciò

soffre sia quando non le ottiene, sia quando le desidera (il desiderio, infatti, è accompagnato dal

dolore, benché sembri assurdo provar dolore a causa del piacere).

Di uomini che peccano per difetto in ciò che riguarda i piaceri o che godono meno di quanto

non sia conveniente, non ce ne sono molti: non è umana una simile insensibilità. Anche tutti gli

altri animali, infatti, distinguono i cibi, e di alcuni godono e di altri no. Se per un uomo non ci

fosse nulla di piacevole né alcuna differenza tra una cosa e l’altra, quell’uomo sarebbe molto

lontano dall’essere veramente uomo: un tipo simile non ha neppure ricevuto un nome, per il fatto

che non capita quasi mai.

L’uomo temperante, invece, in queste cose si tiene nel mezzo. Infatti, non gode delle cose di

cui soprattutto gode l’intemperante, ma piuttosto le detesta, né in genere di quelle di cui non si

deve; non gode eccessivamente di alcunché di simile, e quando queste cose non ci sono non

prova dolore o desiderio, oppure lo fa con misura; non gode più di quanto si deve, né quando non

si deve, né, in generale, fa niente di simile. Tutto ciò che è piacevole e favorevole alla salute ed

al benessere fisico, egli lo desidera con misura e come si deve; e così le altre cose piacevoli,

purché non siano d’ostacolo alle prime, o contrarie al bello, o superiori ai suoi mezzi economici.

Chi si comporta così, infatti, ama simili piaceri più di quanto meritino. L’uomo temperante,

invece, non è di questo tipo, ma si comporta come prescrive la retta ragione.

Capitolo xii (L’intemperanza è più volontaria della codardia: l’uomo intemperante paragonato

al bambino viziato)

L’intemperanza è simile ad un atto volontario più che non la viltà. L’una, infatti, è causata dal

piacere, l’altra dal dolore, sentimenti dei quali l’uno è da preferire, l’altro da evitare; e mentre il

dolore sconvolge e corrompe la natura di chi lo prova, il piacere non fa niente di simile. Per

conseguenza, l’intemperanza è più volontaria, e perciò più riprovevole. Infatti è più facile

abituarvisi, giacché molte sona le situazioni di questo genere nella vita, e chi vi si abitua non

corre rischi, ma nel caso delle cose che suscitano paura è tutto il contrario.

Si riterrà che la viltà non sia volontaria allo stesso modo nei singoli casi particolari: essa,

infatti, di per sé non fa soffrire, ma i casi particolari, a causa del dolore, sconvolgono, tanto da

far gettare le armi e da far compiere tutte le altre azioni vergognose: perciò si ritiene che siano

atti forzati. Per l’intemperante invece, gli atti particolari sono volontari (poiché egli li desidera e

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Aristotele, Etica nicomachea III

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li brama), ma il suo vizio in generale è meno volontario, perché nessuno desidera essere

intemperante.

Il nome di “intemperanza” l’attribuiamo, per metafora, anche agli errori infantili, poiché

hanno una certa somiglianza con quelli degli adulti. [pag. 1119b] Quale delle due cose prenda il

nome dall’altra non ha alcuna importanza per il problema presente, ma è chiaro che la seconda

l’ha preso dalla prima. E non sembra una cattiva metafora. Infatti, deve essere disciplinato

l’essere che desidera cose brutte e che ha grandi capacità di sviluppo; e di tal natura sono

soprattutto il desiderio e il fanciullo: infatti, anche i fanciulli vivono assecondando il desiderio, e

soprattutto in essi vi è il desiderio di ciò che è piacevole. Se, dunque, il fanciullo non sarà docile

e sottomesso all’autorità, il suo desiderio avanzerà di molto, giacché nell’essere irragionevole il

desiderio del piacere è insaziabile e riceve stimoli da tutte le parti, e l’esercizio del desiderio ne

accresce la forza naturale, e se i desideri sono grandi ed intensi giungono a cacciar via la capacità

di ragionare. Perciò essi devono essere misurati e pochi, e non devono essere affatto in

contraddizione con la ragione, ed è questo che chiamiamo essere “docile” e “disciplinato”. Come

bisogna che il fanciullo viva conformandosi ai precetti del suo pedagogo, così anche la facoltà

del desiderio deve conformarsi alla ragione.

Perciò bisogna che la facoltà del desiderio dell’uomo temperante sia in armonia con la

ragione: infatti, lo scopo di entrambe è il bello, e l’uomo temperante desidera ciò che si deve e

come e quando si deve. Così ordina anche la ragione. Questa, dunque, è la nostra dottrina della

temperanza.

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Libro IV

[Bekker pag. 1119b]

C. Le virtù connesse ai soldi

Capitolo i (La liberalità, la prodigalità e l’avarizia)

Capitolo ii (La magnificenza, l’ostentazione volgare e la meschinità)

D. Le virtù connesse all’onore

Capitolo iii (L’autostima, la vanità e l’umiltà)

Capitolo iv (L’eccessiva ambizione, la mancanza di aspirazione e il mezzo tra loro: il giusto

amore per gli onori)

E. Le virtù connesse ai rapporti sociali

Capitolo v (La bonarietà, l’irascibilità e l’insensibilità alla giusta ira)

Capitolo vi (L’affabilità, la compiacenza e la scorbuticità)

Capitolo vii (La sincerità, la vanagloria e la falsa modestia)

Capitolo viii (Il garbo, la buffoneria e la rozzezza)

Capitolo ix ( Una pseudo-virtù: il pudore, la vergogna e la sfrontatezza)

Libro V

[Bekker pag. 1129a]

F. La giustizia

I. La sua sfera di applicabilità e la sua natura esterna: in che senso la giustizia è un

mezzo

Capitolo i (Il giusto come il legale[giustizia universale] e il giusto come l’equo [giustizia

particolare]: considerazioni sul primo)

Capitolo ii (Considerazione del giusto come equo: divisione in giustizia distributiva e giustizia

correttiva)

Capitolo iii (La giustizia distributiva si determina con la proporzione geometrica)

Capitolo iv (La giustizia correttiva si determina con la progressione aritmetica)

Capitolo v (La giustizia nello scambio si determina con la reciprocità della proporzioni)

Capitolo vi (La giustizia politica e i generi analoghi di giustizia)

Capitolo vii (La giustizia naturale e legale)

II. La sua natura interiore in connessione alla scelta

Capitolo viii (La scala di gravità della responsabilità: errore, disgrazia e ingiustizia)

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Aristotele, Etica nicomachea IV-VI

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Capitolo ix (Può un uomo venir trattato ingiustamente volontariamente? Chi è la parte

colpevole nella ingiustizia distributiva? Giustizia richiede una disposizione interiore)

Capitolo x (L’equità come correttiva della giustizia legale)

Capitolo xi (Può un uomo trattare se stesso in modo ingiusto?)

Libro VI

Le virtù intelletuali [Bekker pag. 1138b]

A: Introduzione

Capitolo i (Ragioni per studiare la virtù intellettuale: l’intelletto si divide in contemplativo e

calcolativo)

Capitolo ii (L’oggetto dell’intelletto contemplativo è la verità; quello dell’intelletto calcolativo è

la verità congiunta a desiderio retto)

B: Le virtù intellettuali primarie

Capitolo iii (La scienza: la conoscenza dimostrativa di ciò che è necessario ed eterno)

Capitolo iv (La tecnica: la capacità di costruire le cose)

Capitolo v (La saggezza pratica: il sapere assicurare i fini della vita umana)

Capitolo vi (La ragione intuitiva: la conoscenza dei princìpi da cui discendono le scienze)

Capitolo vii (La saggezza filosofica: l’unione di ragione intuitiva e scienza)

Capitolo viii (I rapporti tra saggezza pratica e scienza politica)

C: Le virtù intellettuali minori connesse al comportamento

Capitolo ix (Come la deliberazione retta si rapporta alla saggezza pratica)

Capitolo x (La perspicacia come la qualità determinante nel rispondere all’istanza della

saggezza pratica)

Capitolo xi (Il giudizio nel determinare l’equo: il posto della perspicacia nell’etica)

D: I rapporti tra saggezza filosofica e saggezza pratica

Capitolo xii (Riduzione dell’intendimento, del buon senso e dell’intelligenza pratica alla

saggezza)

Capitolo xiii (I rapporti tra saggezza pratica e virtù naturale, virtù morale e retta ragione)

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Libro VII CONTINENZA E PIACERE

A: Continenza e incontinenza

[Bekker pag. 1145a]

Capitolo i (Sei varietà di carattere; osservazioni metodologiche: le opinioni più accreditate )

Dopo di ciò, prendendo le mosse da un altro principio, occorre dire che tre sono le specie di ciò

che è da evitarsi riguardo ai costumi: il vizio, l’incontinenza, la bestialità. Dei loro contrari, due

sono evidenti (infatti li chiamiamo l’uno virtù, l’altro continenza): in opposizione alla bestialità

s’adatterebbe opporre la virtù sovrumana, quella certa virtù eroica e divina, secondo cui Omero

fa dire a Priamo di Ettore ch’egli era eccezionalmente valoroso:

Né sembrava d’un mortale figlio, bensì d’un dio.

Cosicché se, come dicono, si diventa dèi per eccesso di virtù, è chiaro che di tal natura

dev’essere la disposizione che si contrappone alla bestialità; infatti come di una bestia non v’è né

vizio, né virtù, cosi è d’un dio, bensì la disposizione di questo sarà qualcosa di più prezioso della

virtù, quella della bestia sarà di genere diverso del vizio. E giacché è cosa rara l’essere un uomo

divino, come sogliono affermare gli Spartani, quando ammirano grandemente qualcuno (‘omo

divino’ dicono nel loro dialetto), così anche l’uomo bestiale è raro tra gli uomini. Soprattutto lo

s’incontra tra i barbari; alcuni esseri poi lo diventano a causa di malattie e di lesioni; inoltre

sogliamo infamare con questo nome quegli uomini che eccedono per vizio. Ma di questa

maniera d’essere si farà menzione in seguito, mentre del vizio s’è già detto prima.

Ora dobbiamo invece trattare dell’incontinenza, della mollezza ed effemminatezza, e

altrettanto della continenza e della fermezza. [pag. 1145b] Infatti né si può considerare ciascuna

di esse come se fossero le disposizioni stesse della virtù e del vizio, né come se fossero d’altra

specie. Occorre poi, come anche in altri casi, che, proponendoci i fenomeni quali appaiono e

anzitutto esponendo i dubbi, mostriamo il più possibile ogni opinione che si ha intorno a queste

passioni, o almeno le principali e le più fondamentali; se infatti si risolvono le difficoltà e si

possono ammettere le opinioni comuni, si è con ciò dimostrato sufficientemente.

Sembra che la continenza e la fermezza appartengano alle cose virtuose e lodevoli, mentre

l’incontinenza e la mollezza appartengano a quelle cattive e biasimevoli. E sembra che l’uomo

continente s’identifichi con chi è perseverante nel suo ragionamento, mentre l’uomo incontinente

con chi è portato a ribellarsi al ragionamento. E l’incontinente, pur sapendo di compiere azioni

cattive, le compie per la passione, mentre il continente, sapendo che i suoi desideri sono cattivi

non li segue, per effetto della ragione. E sembra che l’uomo moderato sia continente e fermo,

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Aristotele, Etica nicomachea VII

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mentre poi chi sia continente e fermo alcuni dicono che debba esser sempre moderato, altri no; e

sembra che l’incontinente sia intemperante e alcuni non distinguono l’incontinente

dall’intemperante, altri invece dicono che sono diversi. E talora si af ferma che l’uomo saggio

non può essere incontinente, talora in: vece che vi sono alcune persone sagge e accorte, che sono

pure incontinenti. Inoltre si dice che si è incontinenti riguardo all’animosità, all’onore e al

guadagno.

Capitolo ii (I paradossi che sorgono dalle cose dette)

Così sono dunque le opinioni comuni. Ma qualcuno potrebbe sollevare la questione come mai

qualcuno che intende rettamente, si comporti poi da incontinente. Alcuni dunque dicono che un

uomo dotato di conoscenza non possa far ciò. È strano infatti, come pensava Socrate, che, dove

v’è scienza, regni qualcosa di diverso e soggioghi l’uomo come uno schiavo. Socrate1 infatti

combatteva del tutto quest’idea, come se, secondo lui, non esistesse l’incontinenza; egli pensava

infatti che nessuno possa agire consciamente contro ciò che è meglio, bensì possa farlo soltanto

per ignoranza.

Questo ragionamento dunque contraddice i fatti come appaiono chiaramente, mentre si deve

ricercare intorno questa passione, se essa sorga per ignoranza e di qual sorta di ignoranza si tratti

(è evidente infatti che l’uomo incontinente pensa di non doverlo essere prima di essere nella

passione). Vi sono alcuni, poi, che in parte concordano con questa teoria, in parte no. Essi da un

lato riconoscono che nulla sia più potente della scienza, dall’altro però non sono d’accordo con

l’affermazione che nessuno agisca contrariamente a ciò che gli sembra migliore per opinione;

quindi essi dicono che l’incontinente è dominato dai piaceri, perché non ha scienza, ma solo

opinione. D’altra parte, se ciò che lo guida è l’opinione e non la scienza, e se ciò che contrasta

alla passione è un intendere non sicuro, ma debole, [pag. 1146a] come in coloro che sono incerti,

è logico perdonare a chi non rimane saldo in ciò di fronte a forti desideri; mentre non vi può

essere perdono per la perversità, né per nessun altro atto biasimevole. Potrebbe essere allora la

saggezza ciò che si oppone alle passioni; essa infatti è la più forte. Ma è assurdo: vi sarebbe

infatti uno stesso uomo saggio e incontinente, e. nessuno direbbe che sia proprio del saggio il

fare volentieri le cose più cattive. Inoltre è stato prima mostrato che l’uomo saggio è capace

nell’agire (la saggezza riguarda infatti i termini <della deliberazione>); e possiede le altre virtù.

Inoltre se chi è continente deve, per esser tale, provare desideri forti e cattivi, l’uomo

moderato non sarà continente, né il continente moderato. Infatti l’eccesso, come il possedere

1 Vedi il testo nella dispensa tratto dal Protagora. (nota di Davies)

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Aristotele, Etica nicomachea VII

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cattivi desideri, non è proprio dell’uomo moderato. E, secondo questa ipotesi, dovrebbe essere

così. Se infatti i desideri sono buoni, cattiva è la disposizione che c’impedisce di seguirli,

cosicché non ogni continenza sarà virtuosa; se poi sono deboli e non cattivi, il continente non

avrà alcuna gloria, mentre se sono cattivi e deboli, non avrà alcuna grandezza. E inoltre, se la

continenza rende perseveranti in ogni opinione, è cattiva, se fa così anche con una opinione falsa;

e se l’incontinenza rende propensi al ribellarsi a ogni propria opinione, vi sarà un’incontinenza

virtuosa, come quella del Neottolemo di Sofocle nel Filottete. Costui infatti è lodevole per non

aver perseverato nell’opinione inculcatagli da Odisseo, giacché gli dispiaceva la menzogna.

Inoltre il ragionamento sofistico, quello menzognero crea un’altra difficoltà: infatti per voler

mostrare dei paradossi, per sembrare accorti quando vi riescano, il sillogismo che ne risulta crea

un imbarazzo, la razionalità dell’ascoltatore rimane infatti come legata: in quanto non vuol

rimanere alla conclusione, perché non le piace, ma non può andarne oltre, per non poter

confutare il ragionamento. In seguito a un ragionamento del genere può risultare che la

mancanza di riflessione, congiunta all’incontinenza, sia una virtù; infatti, a causa

dell’incontinenza, compie cose bensì contrarie a ciò che giudica, ma giudica che i beni siano

mali e che non si debbano compiere, cosicché compie il bene e non il male. Inoltre chi compie e

persegue le cose piacevoli per esserne convinto e per proponimento, può sembrare migliore di

chi fa ciò non per ragionamento, ma per incontinenza. Infatti costui è più facilmente guaribile col

fargli cambiare opinione; all’incontinente invece può adattarsi il proverbio per cui diciamo:

‘quando l’acqua soffoca, che bisogno c’è di berne ancora?’. Se infatti agisse per convinzione,

cesserebbe col cambiare opinione; [pag. 1146b] in questo caso invece, anche se persuaso d’una

cosa, non di meno agisce in modo diverso. Infine, se l’incontinenza e la continenza riguardano

tutte le cose, qual è l’uomo assolutamente incontinente ? Nessuno infatti possiede tutte le

incontinenze, mentre però diciamo che vi sono alcuni assolutamente incontinenti.

Queste sono dunque press’a poco le difficoltà che ci si presentano; di esse alcune occorre

risolverle, altre eliminarle; infatti la soluzione di una difficoltà è già scoperta di verità.

Capitolo iii (La soluzione del problema: in che senso l’uomo incontinente agisce contro la

propria conoscenza)

Dobbiamo anzitutto indagare se gli incontinenti sono consapevoli oppure no, e in che modo sono

consapevoli; quindi intrno a quali cose si debbano stabilire l’incontinenza e la continenza, cioè se

intorno a ogni piacere e a ogni dolore, oppure se riguardo ad alcuni di essi determinati: e se

l’aver continenza e l’aver fermezza sono la stessa cosa o cose diverse; e similmente indagheremo

intorno a tutto ciò che ha relazione con questa ricerca.

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Aristotele, Etica nicomachea VII

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Cominciamo la nostra indagine considerando se il continente e l’incontinente si differenzino

per ciò che compiono o per il modo in cui lo compiono, cioè se l’incontinente è tale solo per

questa o quella cosa, oppure non per essa, bensì per il modo d’agire, oppure non per questo, ma

per entrambi; inoltre se l’incontinenza e la continenza si applicano a tutte le cose oppure no.

Infatti neppure chi è assolutamente incontinente lo è riguardo a tutte le cose, bensì solo su quelle

in cui si manifesta l’intemperanza; né è incontinente per essere semplicemente disposto verso di

esse (in tal caso infatti l’incontinenza sarebbe la stessa cosa che l’intemperanza), ma per esserlo

in un modo particolare. L’intemperante infatti si muove con proposito, pensando che si debba

sempre perseguire il piacere presente; l’incontinente invece non pensa che si debba farlo, ma lo

persegue.

Per il nostro ragionamento non importa nulla se sia una opinione giusta anziché la scienza ciò

a dispetto di cui si è incontinenti (giacché alcuni di coloro che opinano non sono affatto incerti,

bensì pensano di sapere esattamente; se quindi solo per essere convinti debolmente quelli che

opinano agiranno contro il loro giudizio più che non quelli dotati di scienza, non vi sarà alcuna

differenza tra la scienza e l’opinione; alcuni infatti credono in ciò di cui hanno opinione non

meno di quanto altri credano in ciò di cui hanno scienza: ce lo mostra Eraclito). Ma invece,

poiché noi parliamo di avere scienza in due maniere differenti (si dice infatti che ha scienza sia

colui che la possiede ma non se ne serve, sia chi invece se ne serve), vi sarà differenza tra chi,

avendo scienza, non bada a ciò che deve fare, e chi invece, avendo scienza, bada anche a ciò. In

quest’ultimo caso l’essere incontinenti sembra cosa sorprendente, non lo è invece se uno non

bada a ciò che deve fare.

Inoltre, poiché vi sono due sorta di premesse [pag. 1147a], nulla impedisce che, per quanto in

possesso di entrambe, tuttavia si agisca contrariamente alla scienza, servendosi della premessa

universale e non di quella particolare: infatti ciò che è nell’ambito dell’azione è particolare. Ma

anche l’universale presenta delle differenze . Talora infatti esso è tale solo per sé, talora invece in

relazione alla cosa. Può essere ad esempio siffatto:

a ogni uomo giova l’asciutto e questo è un uomo...,

oppure invece:

ciò che è secco ha tal natura,

ma non sa o non mette in atto il fatto che questa cosa sia tale. Enorme è la differenza tra questi

due casi, tanto che l’incontinenza se uno sa nell’una maniera non è cosa per nulla assurda,

nell’altra è cosa degna di meraviglia.

Inoltre gli uomini possono avere la scienza in un altro modo da quelli suddetti: vediamo

infatti che è una disposizione differente l’aver la scienza e non servirsene, si da averla in certo

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modo senza averla, come chi dorme o è impazzito o è ubriaco. E in questo stato appunto sono

quelli che si trovano nelle passioni; infatti le impetuosità, i desideri erotici e alcune di siffatte

cose evidentemente mutano anche il corpo e talune producono anche follie. È chiaro dunque che

si deve dire che gli incontinenti sono nella stessa situazione di costoro. Infatti che essi facciano

discorsi provenienti dalla scienza non significa nulla: infatti anche quelli che si trovano nelle

passioni pronunziano i ragionamenti e i versi di Empedocle; e alcuni che sono agli inizi degli

studi intrecciano bensì ragionamenti, ma non ne sono consapevoli: occorre infatti che siano a

loro connaturati, e per questo ci vuol tempo; cosicché si può ritenere che gli incontinenti recitano

come degli attori di teatro.

La causa di questo fatto si potrebbe considerare anche naturalmente nel seguente modo. <Di

ciò che determina l’agire> v’è un’opinione universale, e un’altra intorno ai particolari, che

cadono sotto il dominio del senso; quando esse si sintetizzano in una sola, è necessario che

l’animo ne tragga la conclusione, e se si tratta di fare, agisca subito; ad esempio se si deve

gustare ogni cosa dolce, e se questa, in quanto cosa particolare, è cosa dolce, è necessario che chi

può e non ne sia impedito, faccia subito ciò. Quando dunque vi sia un’opinione universale che

vieta di gustare, un’altra invece che afferma che ogni cosa dolce è piacevole, il fatto che questa

cosa sia dolce muove l’azione; e se si trova ad esserci desiderio, mentre quell’opinione prescrive

di fuggire ciò, il desiderio invece trascina (esso infatti può muovere ogni parte dell’anima);

cosicché accade di essere incontinenti in certo modo per un ragionamento e un’opinione, che si

oppone alla retta ragione non di per sé, [pag. 1147b] ma per una circostanza accidentale (è infatti

il desiderio che le si oppone, non l’opinione).

Cosicché anche per questo le bestie non sono incontinenti, perché non hanno la concezione

dell’universale, bensì soltanto la rappresentazione e la memoria delle cose particolari. Come poi

si dissipi l’ignoranza e l’incontinente ridiventi consapevole, lo si spiega nello stesso modo che a

proposito dell’ubriaco e di chi dorme e non è cosa propria di questa passione, ma piuttosto

bisogna ascoltarne la spiegazione dai fisiologi. E poiché l’ultima premessa è una opinione

dell’ambito del sensibile e determinatrice delle azioni, chi è in stato di passione o non la

possiede, o la possiede in modo tale che l’averla non è un sapere, ma un semplice recitare, come

s’è detto, come l’ubriaco recita i versi di Empedocle. E ciò accade perché il termine ultimo [della

deliberazione] sembra non esser universale, né scientífico al modo dell’universale e sembra

verificarsi ciò che Socrate affermava nella sua indagine. Infatti la passione non sorge se è

presente quella che sembra essere la scienza propriamente detta, né questa è trascinata dalla

passione, bensì quando è presente solo l’opinione sensibile.

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Aristotele, Etica nicomachea VII

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Capitolo iv (La soluzione del problema: la sfera dell’incontinenza e la distinzione tra il senso

proprio e il senso esteso)

Ciò sia detto intorno alla questione sull’esser incontinenti consapevolmente oppure no, e in che

modo sia possibile esserlo consapevolmente.

Bisogna ora proseguire dicendo se esiste qualcuno incontinente in senso assoluto, oppure se

tutti lo sono solo in cose particolari e, nel primo caso, riguardo a quali cose si è incontinenti. Che

dunque sia quelli dotati di continenza e di fermezza, sia gli uomini incontinenti e molli, siano tali

riguardo ai piaceri e ai dolori, è evidente. Poiché dunque delle cose che producono piacere

alcune sono necessarie, altre sono tali da esser scelte per se stesse, ma ammettono un eccesso,

necessarie sono quelle che riguardano il corpo (e ritengo tali quelle che riguardano il cibo e l’uso

dei piaceri venerei e in genere quelle cose riguardanti il corpo, intorno alle quali facemmo

consistere la intemperanza e la moderazione), altre invece non sono necessarie, ma tali da esser

scelte per se stesse (intendo dire, ad esempio, la vittoria, l’onore, la ricchezza e le cose buone e

piacevoli di tal genere); coloro dunque che in tali cose eccedono oltre la retta ragione relativa a

esse non li chiamiamo incontinenti in senso assoluto, ma precìsiamo che sono incontinenti

riguardo alle ricchezze, ai guadagni, all’onore, all’impetuosità; ma non li chiamiamo incontinenti

in senso assoluto, in quanto non sono tali, ma sono detti così solo per analogia, così come si suol

chiama e ‘Uomo’ colui che ha vinto ai giochi olimpici: [pag. 1148a] in questo caso la

denominazione comune differisce di poco da quella che dev’essere la denominazione propria, ma

tuttavia è diversa (ne è prova il fatto che la vera incontinenza, sia totale sia parziale, viene

bìasimata non solo come errore, ma anche come un vizio, mentre nessuno dei sopraddetti ha

questo biasimo).

Di coloro invece che peccano riguardo ai godimenti corporei, rispetto ai quali definiamo il

moderato e l’intemperante, colui che non per proponimento persegue l’eccesso dei piaceri e

fugge esageratamente i dolori, cioè fame, sete, caldo e freddo e insomma quanto concerne il tatto

e il gusto, ma contro il suo proponimento e la sua razionalità, costui è detto incontinente, ma non

con l’aggiunta di esserlo riguardo a una data cosa, ad esempio riguardo all’ira, bensi soltanto

incontinente in senso assoluto. Prova ne è che le persone che peccano in tali cose sono dette

molli, mentre nessuna di quelle che peccano intorno a quelle altre cose è detta tale. E per questo

noi mettiamo sullo stesso piano l’incontinente e l’intemperante, il continente e il moderato, ma

non facciamo così per nessuno di quelli detti prima; ciò perché l’incontinente e l’intemperante

sono tali in certo modo rispetto agli stessi piaceri e agli stessi dolori; senonché, pur essendo tali,

non lo sono nella stessa maniera, bensi gl’intemperanti se lo propongono, gl’incontinenti no.

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Aristotele, Etica nicomachea VII

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Perciò possiamo definire intemperante piuttosto colui che, non spinto dal desiderio, o con

debole desiderio, persegue gli eccessi <dei piaceri> e fugge i dolori misurati, che non chi fa ciò a

causa di un forte desiderio. Che cosa mai farebbe infatti quel primo se gli venisse per giunta un

desiderio giovanile e un forte dolore per la mancanza del necessario? Ammettiamo quindi che

dei desideri e dei dolori alcuni appartengono a quelli che sono, per il loro genere, belli e onesti

(infatti delle cose piacevoli alcune sono per natura tali da potersi scegliere, altre sono l’opposto

di queste; altre poi sono qualcosa di mezzo, come abbiamo distinto prima sia la ricchezza, sia il

guadagno, sia la vittoria, sia gli onori; e riguardo a tutte quelle di questa specie e a quelle della

specie di mezzo si rivolge biasimo non al provarle e al desiderarle, bensi al modo con cui si

desiderano e all’eccesso).

Dunque, se alcuni, non rispettando i dettami della ragione, ottengono o perseguono qualcuna

delle cose che per natura sono in certo modo belle, come coloro che s’affannano più di quanto si

deve per l’onore, o per i figli, o per i genitori (queste infatti appartengono alle cose buone e sono

lodati coloro che si affannano per esse, tuttavia vi è un eccesso anche in esse, ad esempio se

qualcuno, come Niobe, volesse gareggiare anche con gli dèi, oppure fare come Satiro, che fu

detto ‘filopatore’ per l’amore verso il padre; troppo infatti sembrava esser pazzo per lui) in, tal

caso dunque, secondo quanto s’è detto, non v’è alcuna malvagità, poiché ciascuna di queste cose

di per se stessa appartiene a quelle per natura tali da potersi scegliere, mentre gli eccessi di esse

sono cattivi e da evitarsi. E in questo caso non vi è neppure incontinenza (l’incontinenza infatti

non solo è da evitarsi, ma appartiene anche alle cose da biasimarsi), bensì solo per analogia con

tale passione noi definiamo costoro attribuendo a ciascuno di essi il titolo di incontinente, e così

come parliamo di un cattivo medico e di un cattivo attore, i quali in senso proprio non potrebbero

esser detti cattivi. Come dunque in tali casi non definiamo così perché quella di ciascuno sia

cattiveria, bensì perché è simile e analoga ad essa, così è chiaro che anche nel nostro problema si

deve intendere per incontinenza e per continenza solo quelle che riguardano gli stessi oggetti

della moderazione e della temperanza, mentre solo per analogia parliamo di esse a proposito

dell’impetuosità. Perciò in tali casi ne parliamo aggiungendo però la specificazione: incontinente

nell’ira, oppure nell’onore, o nel guadagno.

Capitolo v (L’incontinenza in senso esteso include forme bestiali e morbose)

Ora, poiché alcune cose sono piacevoli per natura, e di queste alcune lo sono in senso assoluto,

altre a seconda dei tipi sia degli animali sia degli uomini, mentre altre cose non lo sono, ma lo

diventano o per difetti di crescita o per abitudini acquisite, altre ancora per depravazione della

natura, è possibile vedere anche di ciascun tipo di queste le disposizioni corrispondenti. Intendo

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per disposizioni bestiali, per esempio, quella della donna che, dicono, sventrava le donne incinte

e ne divorava i feti, o quelle di cui provano piacere, dicono, certi selvaggi delle coste del Ponto,

alcuni dei quali mangiano carni crude, altri carni umane, altri ancora si scambiano

reciprocamente i figli per farne lauto pasto, o quello che si racconta di Falaride.

Questi sono comportamenti bestiali; ma certi sono provocati da malattia (anche da follia per

alcuni, come quel tale che offrì sua madre in sacrificio e la divorò, o quello schiavo che si

mangiò il fegato del suo compagno), altri sono stati morbosi derivati da un’abitudine, come, per

esempio, lo strapparsi i capelli e il mangiare le unghie, e anche carbone e terra; ed inoltre, fare

all’amore tra maschi; ad alcuni questo succede per natura, ad altri in forza di un’abitudine, come

a quelli che sono stati violentati da bambini.

Nessuno dunque può dire incontinenti tutti coloro la cui depravazione è causata dalla natura,

come non si possono chiamare incontinenti le donne, dal momento che nella copulazione non

sono attive ma passive. Altrettanto si dee dire di coloro che hanno disposizioni morbose a causa

di un’abitudine. Quindi il possesso di ciascuno di questi tipi di disposizione [pag. 1149a] è al di

fuori dei confini del vizio, come lo è la bestialità; per l’uomo che le possiede, dominarle o

esserne dominato non costituisce continenza o incontinenza pure e semplici, ma solo per

analogia, come chi è in questa situazione per i suoi scoppi di impulsisvità non si deve chiamare

semplicemente incontinente, ma incontinente in questa passione. Infatti, ogni volta che arrivano

all’eccesso, la stoltezza la viltà, l’intemperanza, il cattivo carattere sono o bestiali o morbosi.

L’uomo infatti che per natura è di indole tale da avere paura di tutto, anche dello strepito di un

topo, è vile di una viltà bestiale, mentre chi ha paura di una donnola è determinato da una

malattia. E degli stolti, alcuni sono privi di ragione per natura e, poiché vivono soltanto col

senso, sono bestiali, come certe razze di barbari lontani; altri, invece, che sono privi di ragione a

causa di una malattia come l’epilessia o la follia, sono morbosi.

Ora di queste disposizioni uno può possederne qualcuna soltanto qualche volta, senza esserne

dominato: intendo, per esempio, il caso in cui Falaride si fosse contentato quando desiderava

divorare un fanciullo o quando desiderava procurarsi piacere sessuale contro natura. Ma è

possibile anche essere completamente dominati da quest passioni, e non soltanto possederle.

Orbene, come anche nel caso della perversità, quella a livello umano è chiamata perversità

semplicemente, mentre quella con una determinazione aggiuntiva si chiama perversità bestiale o

morbosa e non semplicemente perversità, nello stesso modo è chiaro che anche l’incontinenza è

ora bestiale ora morbosa, mentre è puramente e semplicemente incontinenza solo quella

corrispondente all’intemperanza umana.

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È dunque chiaro che incontinenza e continenza hanno per oeggtto solo quelli

dell’intemperanza e della temperanza, e che riguardo agli altri oggetti c’è una specie di

incontinenza, chiamata così per metafora e non in senso assoluto.

Capitolo vi (L’incontinenza riguardo alla rabbia meno vergognosa dell’incontinenza in senso

stretto)

Ora vedremo che l’incontinenza dell’impulsività è meno vergognosa di quella dei desideri.

Sembra infatti, che l’impulsività dia ascolto in qualcosa alla ragione, ma la fraintenda, come i

servi frettolosi che escono di corsa prima di aver sentito tutto quello che viene loro detto, e poi

sbagliano l’esecuzione dell’ordine, e come i cani che, prima di aver visto se si tratta di un amico,

si mettono ad abbaiare appena si batte ad una porta. Così l’impulsività, per il calore e la vivacità

della sua natura, sente, sì, ma non ascolta l’ordine e si precipita alla vendetta. Infatti, la

riflessione o l’immaginazione si limitano a mostrare che c’è stata insolenza o disprezzo,

l’impulsività, invece, come se giungesse con un ragionamento alla conclusione che bisogna

combattere contro un simile trattamento, si eccita, per conseguenza, subito: il desiderio, poi, se

solo la riflessione o la sensazione dicono che questa cosa è dolce, si precipita a trarne godimento.

[pag. 1149b] Cosicché l’impulsività segue in qualche modo la ragione, mentre il desiderio no.

Dunque, l’incontinenza dei desideri è più vergognosa: l’incontinente nell’impulsività, infatti,

soggiace in qualche modo alla ragione, mentre l’altro soggiace al desiderio e non alla ragione.

Inoltre, si perdona di più il fatto di seguire i desideri naturali, poiché anche quando si tratta di

desideri si perdona di più a quelli comuni a tutti gli uomini, e nella misura in cui sono comuni.

Ora, l’impulsività e il cattivo carattere sono più naturali che non i desideri di ciò che è eccessivo

e non necessario. Come quel tale che, accusato di picchiare il proprio padre, si difese dicendo:

‘Ma anche lui picchiava il suo’, e, additando il figlioletto, disse: ‘Anche lui picchierà me, quando

sarà un uomo: è un’abitudine di famiglia, per noi!’. E quell’altro che, mentre era trascinato fuori

dal figlio, gli ordinò di fermarsi alla porta, perché lui stesso aveva trascinato suo padre solo fin

là.

Inoltre, sono più ingiusti quelli che sono più subdoli. Orbene, l’impulsivo non è subdolo, e

neppure l’impulsività, ma è limpido; il desiderio, invece, è quello che si dice di Afrodite

‘tessitrice d’inganni, nata a Cipro’, e, come dice Omero a proposito del suo cinto trapunto:

‘la seduzione che ruba il senno anche ai saggi ‘.

Per conseguenza, se è vero che quella incontinenza è più ingiusta di questa relativa

all’impulsività, e anche più vergognosa, anzi essa è incontinenza in senso assoluto e vizio, in

qualche modo.

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Inoltre, nessuno commette oltraggio soffrendo; ora, chiunque agisce in preda all’ira agisce

soffrendo, mentre colui che oltraggia lo fa con piacere. Se, dunque, le cose più ingiuste sono

quelle contro cui si ha perfettamente diritto di adirarsi, anche l’incontinenza causata dal desiderio

sarà più ingiusta di quella causata dall’impulsività, giacché nell’impulsività non c’è intenzione

oltraggiosa. Che, dunque, l’incontinenza relativa al desiderio è più vergognosa di quella relativa

all’impulsività, e che la continenza e l’incontinenza si riferiscono ai desideri ed ai piaceri del

corpo, è chiaro.

Ma tra questi stessi piaceri si devono cogliere delle differenze. Come infatti si è detto

all’inizio, alcuni sono umani e naturali, sia per genere sia per intensità, altri bestiali, altri, infine

sono dovuti a difetti di crescita e stati morbosi. Ora, solo con i primi di questi hanno relazione la

temperanza e l’intemperanza: perciò non diciamo temperanti né intemperanti anche le bestie, se

non per metafora, cioè nel caso in cui qualche specie di animali, comparata nel suo insieme alle

altre, si distingue per lascivia, istinto distruttivo e voracità: le bestie, infatti, non hanno né

possibilità di scelta né capacità di ragionamento, ma sono fuori dai confini della loro natura,

come, [pag. 1150a] tra gli uomini, i dementi. La bestialità è un male minore del vizio, ma più

temibile; infatti, nel caso delle bestie non è che ci sia stata corruzione della parte migliore, come

nell’uomo, ma è che esse non ce l’hanno. Dunque, è lo stesso che mettere a confronto un essere

privo di anima con uno che ne è fornito, e chiedersi quale è più cattivo: infatti, la malvagità di

un essere che non ha in sé il principio dell’azione è, sempre, più inoffensiva, e, d’altra parte,

principio è l’intelletto. Quindi, è proprio come confrontare l’ingiustizia con un uomo ingiusto.

Ciascuno dei due, infatti, è peggiore dell’altro, a suo modo, giacché un uomo cattivo farà

infinitamente più male che una bestia.

Capitolo vii (Mollezza e perseveranza: due forme di incontinenza: la debolezza e l’impetuosità)

Per quanto, poi, riguarda i piaceri e i dolori, i desideri e le repulsioni derivati dal tatto e dal

gusto, che abbiamo precedentemente definiti come oggetti dell’intemperanza e della temperanza,

è possibile, da una parte, trovarsi nella situazione di essere sconfitti anche da quelli che i più

dominano, e, dall’altra, riuscire a dominare anche quelli a cui i più soggiacciono: di questi due

tipi di uomini, se si tratta di piaceri, il primo è incontinente e il secondo continente; se si tratta di

dolori, il primo è molle e il secondo è forte.

Nel mezzo sta la disposizione della maggior parte degli uomini, anche se essi inclinano di più

verso quelle peggiori. Poiché alcuni dei piaceri sono necessari e altri no, e poiché i primi sono

necessari fino ad un certo punto, mentre non lo sono i loro eccessi, né i loro difetti (e lo stesso

vale anche dei desideri e dei dolori), chi persegue gli eccessi nelle cose piacevoli o le cose

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Aristotele, Etica nicomachea VII

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necessarie in misura eccessiva, e lo fa per sua scelta, e le persegue per se stesse e per nient’altro

che possa derivarne, è intemperante: necessariamente, infatti, questo tipo di uomo non è capace

di pentimento, cosicché è incorreggibile, poiché chi è incapace di pentimento è incorreggibile.

Chi è in difetto nella ricerca del piacere è il contrario del precedente, mentre chi sta nel mezzo

è temperante. Lo stesso si dica anche di chi fugge i dolori corporei non perché ne è sconfitto, ma

per una scelta. Di coloro, invece, che non agiscono in base ad una scelta, alcuni si lasciano

trascinare dal piacere, altri dall’inclinazione ad evitare la sofferenza chederiva dal desiderio:

perciò sono diversi gli uni dagli altri. Ognuno, però, riterrà che, se uno compie un’azione

vergognosa senza alcun desiderio oppure con un desiderio debole, è peggiore di chi compia la

stessa azione spinto da un desiderio violento, e che, se uno colpisce senza essere in preda all’ira,

è peggiore di chi colpisca in preda all’ira: che cosa farebbe, infatti, se fosse in balia della

passione? È per questo che l’uomo intemperante è peggiore dell’incontinente.

Delle disposizioni descritte, dunque, una è piuttosto una specie di mollezza; l’altro tipo di

uomo, invece, è l’intemperante. Ora, all’incontinente si contrappone l’uomo continente, all’uomo

molle il forte: l’esser forte, infatti, sta nel saper resistere, mentre la continenza consiste nel

dominare, e ‘resistere’ e ‘dominare’ sono cose diverse, come anche ‘non lasciarsi sconfiggere’ e

‘vincere’: per questo la continenza è preferibile [pag. 1150b] alla semplice forza d’animo. Chi

manca di resistenza in quelle situazioni di fronte alle quali la maggior parte degli uomini resiste e

ha la forza di resistere, è un uomo molle e sensuale (in effetti, la sensualità è una specie di

mollezza): come chi trascina il mantello per non far la fatica e darsi la pena di sollevarlo, e come

chi, quando fa l’ammalato, non capisce di essere davvero un disgraziato, se si fa simile ad un

disgraziato. Lo stesso vale anche nel caso della continenza e dell’incontinenza. Infatti, se uno

rimane sconfitto da piaceri o dolori violenti ed eccessivi, non c’è da meravigliarsi, ma ciò è

perdonabile se uno cerca di resistere, come il Filottete di Teodette morso dalla vipera, o il

Cercione nell’Alope di Carcino, e come quelli che, mentre si sforzano di trattenere il riso,

scoppiano a ridere d’un tratto, come capitò a Senofanto; ma è da meravigliarsi se uno, in

situazioni di fronte alle quali la maggior parte degli uomini è capace di resistere, si lascia vincere

e non riesce ad opporre resistenza, e ciò non per cause di natura ereditaria o per malattia: per

esempio, tra i re degli Sciti la mollezza è ereditaria, e come la femmina è per natura differente

dal maschio.

Comunemente si ritiene che anche il tipo giocherellone sia un intemperante: in realtà è un

uomo molle. Infatti, il gioco è un rilassamento, se è vero che è uno stato di riposo`̀’. Il

giocherellone appartiene alla classe di coloro che eccedono nel concedersi riposo.

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Aristotele, Etica nicomachea VII

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Dell’incontinenza, poi, ci sono due forme: la precipitazione e la debolezza. Gli uni, dopo aver

preso una deliberazione non perseverano in ciò che hanno deliberato, a causa della passione; gli

altri si lasciano trascinare dalla passione per il fatto di non aver preso una deliberazione. Alcuni,

infatti (come quelli che, avendo sofferto il solletico in precedenza, non lo soffrono più, se hanno

presentito e previsto e se hanno risvegliato se stessi e la propria capacità di ragionare), non si

lasciano vincere dalla passione, né nel caso che sia piacevole né nel caso che sia dolorosa.

Soprattutto gli uomini vivaci ed eccitabili sono incontinenti per precipitazione: e gli uni per la

fretta, gli altri per la violenza della passione non stanno ad aspettare la conclusione del

ragionamento, per il fatto che sono inclini a seguire l’immaginazione.

Capitolo viii (L’intemperanza è peggio dell’incontinenza)

L’intemperante, come s’è detto, non è capace di pentimento, giacché persiste nella sua scelta;

ogni tipo di incontinente, invece, è capace di pentimento. Perciò le cose non stanno come le

abbiamo formulate nel problema, ma l’intemperante è incorreggibile, mentre l’incontinente è

correggibile. Infatti, la perversità è simile a malattie come l’idropisia e la tisi, mentre

l’incontinenza assomiglia ad attacchi di epilessia, giacché la prima è un male continuo, la

seconda è intermittente. E incontinenza e vizio appartengono a generi completamente differenti:

infatti, il vizio rimane nascosto al soggetto, l’incontinenza, invece, no.

[pag. 1151a] Degli incontinenti stessi, poi, quelli che sono come fuori di sé sono migliori di

quelli che la ragione ce l’hanno, ma non rimangono nei limiti di essa: questi ultimi, infatti, si

lasciano sconfiggere da una passione più debole, e non senza aver prima preso una deliberazione,

come, invece, fanno gli altri. Infatti, l’incontinente è simile a quelli che si ubriacano rapidamente

e con poco vino, anzi con una quantità minore che la maggior parte degli uomini.

Orbene, che l’incontinenza non è un vizio è manifesto (ma forse per qualche aspetto lo è):

l’incontinenza, infatti, è al di là della scelta, mentre il vizio deriva dalla scelta; ma, tuttavia, una

somiglianza c’è dal punto di vista delle azioni, come diceva Demodoco ai Milesi: ‘Milesi non

sono stupidi, ma si comportano come stupidi’; anche gli incontinenti non sono ingiusti, ma

commettono ingiustizie. Ora, l’incontinente persegue i piaceri corporali eccessivi e contrari alla

retta ragione, perché lui è fatto così e non perché sia convinto che sia bene, mentre

l’intemperante ha la convinzione che sia bene proprio perché lui è fatto in modo tale da

perseguire quei piaceri: perciò, il primo può facilmente essere persuaso a cambiare, il secondo

no. Infatti, la virtù salva il principio, il vizio, invece, lo distrugge, e nelle azioni il principio è il

fine, come le ipotesi in matematica. Orbene, né lì né qui è il ragionamento che ci insegna i

principi, ma qui è la virtù, sia naturale sia acquisita con l’abitudine, che ci insegna ad avere

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opinioni corrette sul principio. Dunque, chi è fatto così è temperante, e l’intemperante è il suo

contrario.

Ma c’è chi, a causa della passione, esce fuori di sé, in contrasto con la retta ragione, uomo che

la passione domina in modo da non permettergli di agire secondo la retta ragione, ma non fino al

punto da renderlo capace di lasciarsi persuadere di dover perseguire tali piaceri senza ritegno.

Questo è l’incontinente, migliore dell’intemperante, e non puramente e semplicemente malvagio:

qui, infatti, si salva la cosa migliore, il principio. Ma contrario a questo c’è un altro tipo di uomo,

quello che resta in sé e non esce fuori di sé, per lo meno non a causa della passione.

Da queste considerazioni, dunque, risulta manifesto che l’ultima è una disposizione virtuosa,

l’altra è cattiva.

Capitolo ix (Rapporti tra la continenza e l’ostinazione, l’incontinenza, l’insensibilità e la

temperanza)

È continente, dunque, colui che persiste in una ragione qualsiasi ed in una qualsiasi scelta

oppure colui che persiste nella retta scelta? E, viceversa, è incontinente colui che non persiste in

una scelta qualsiasi e in una ragione qualsiasi, oppure colui che non persiste nella ragione non

falsa e nella retta scelta? Questo è il problema come l’abbiamo posto prima. Non dobbiamo forse

dire che l’uno persiste, l’altro non persiste in una scelta qualsiasi per accidente, di per sé, invece,

nella ragione vera e nella scelta retta? Se, infatti, uno [pag. 1151b] sceglie o persegue questa

cosa in vista di quest’altra, per sé persegue e sceglie quest’ultima, per accidente, invece, la

prima. Ma con ‘per sé’ intendiamo dire ‘in senso assoluto’. Per conseguenza, è un’opinione

qualsiasi quella in cui l’uno persiste e da cui l’altro si distacca, ma in senso assoluto è l’opinione

vera.

Ci sono, poi, di quelli che sono perseveranti nella loro opinione, e li chiamiamo ostinati, i

quali sono difficili da persuadere, cioè non è facile persuaderli a cambiare. Essi hanno qualcosa

di simile all’uomo incontinente, come il prodigo al liberale e il temerario al coraggioso, ma sono

diversi per molti aspetti. L’uno, infatti, il continente, non cambia opinione solo per una passione

o per un desiderio, ché anzi, all’occasione, l’uomo continente si lascerà facilmente persuadere;

gli altri, invece, gli ostinati, non si lasciano guidare dalla ragione, perché, se non altro, accolgono

in sé desideri, e molti di loro si lasciano trascinare dai piaceri. Ed ostinati sono i testardi, gli

ignoranti e i rustici; i testardi lo sono a causa del piacere e del dolore: essi, infatti, sono contenti

della loro vittoria quando non si sono lasciati indurre a mutare opinione, e soffrono quando le

loro decisioni restano come decreti senza autorità. Per conseguenza, assomigliano di più

all’incontinente che al continente. Ci sono alcuni, poi, che non persistono nelle loro opinioni, ma

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non per incontinenza, come, per esempio, Neottolemo nel Filottete di Sofocle. Certo, fu a causa

di un piacere che egli non persistette, ma di un piacere bello; infatti, dire la verità per lui era una

cosa bella, ma fu persuaso a mentire da Ulisse. Infatti, non è che chiunque faccia qualcosa per

piacere sia intemperante o perverso o incontinente, ma chi lo fa per un piacere vergognoso.

C’è, poi, anche chi è tale da godere dei piaceri corporali meno di quanto si deve, e che perciò

non persiste nella ragione: è tra questo e l’incontinente che sta in mezzo l’uomo continente;

infatti, l’incontinente non persiste nella ragione per eccesso, quest’ultimo, invece, per difetto;

l’uomo continente, al contrario, persiste e non cambia per nessuno dei due motivi. Se è vero che

la continenza è virtuosa, bisogna che entrambe le disposizioni contrarie siano cattive, come pure

risulta manifesto: ma poiché una di esse si manifesta in pochi uomini e poche volte, come si

ritiene comunemente che la temperanza è contraria soltanto all’intemperanza, così si deve

ritenere anche che la continenza è contraria soltanto all’incontinenza.

Poiché molte espressioni si usano per analogia, ne è derivato, per conseguenza, che si parla

per analogia anche della continenza dell’uomo temperante: infatti, il continente è uomo che non

fa nulla contro la ragione a causa dei piaceri del corpo, [pag. 1152a] come pure il temperante,

ma uno possiede cattivi desideri, l’altro, invece, no, e l’uno è tale da non godere in contrasto con

la ragione, mentre l’altro è tale da godere, ma non da lasciarsi trascinare. E, pur essendo diversi,

l’incontinente e l’intemperante sono d’altra parte simili: entrambi perseguono i piaceri del

corpo, ma l’uno pensa di doverlo fare, l’altro, invece, non lo pensa.

Capitolo x (L’incontinenza è incompatibile con la saggezza pratica ma compatibile con la

destrezza)

La stessa persona non può essere insieme saggia e incontinente, giacché si è dimostrato che il

saggio è insieme uomo di valore anche nel comportamento. Inoltre, uno è saggio non solo per il

fatto di possedere un sapere teorico, ma anche per l’essere capace di metterlo in pratica: ma

l’incontinente non è capace di metterlo in pratica. Nulla, invece, impedisce che l’uomo abile sia

incontinente, ed è per questo che talora alcuni sono ritenuti saggi ma incontinenti, perché

l’abilità differisce dalla saggezza nel modo esposto nei nostri primi ragionamenti, nel senso che

sono vicini secondo la definizione, ma differiscono per via della scelta.

L’incontinente, quindi, non è come quello che conosce e contempla, ma come colui che

dorme o è ubriaco. E agisce volontariamente (infatti, sa in qualche modo che cosa sta facendo ed

in vista di che cosa lo fa), ma non è cattivo: la scelta, infatti, è buona; per conseguenza, è cattivo

a metà. E non è ingiusto, giacché non è subdolo. Infatti, dei due tipi di incontinenti, l’uno non

persiste in ciò che ha deliberato, mentre l’altro, il tipo eccitabile, non delibera affatto. E così

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l’uomo incontinente assomiglia ad una città che decreta tutto ciò che si deve ed ha buone leggi,

ma non le applica per niente, come diceva, scherzando, Anassandride:

‘Lo voleva la città, cui non importa nulla delle leggi’.

L’uomo cattivo, invece, assomiglia ad una città che applica le leggi, ma ne applica di cattive.

L’incontinenza e la continenza riguardano ciò che costituisce un eccesso rispetto alla

disposizione di carattere della massa: il continente, infatti, persevera di più, l’incontinente di

meno di quanto sia nella possibilità della maggioranza degli uomini.

Dei due tipi di incontinenza, quello da cui sono affetti gli uomini eccitabili è più facilmente

correggibile che non quello di coloro che, sì, deliberano, ma non perseverano, e gli incontinenti

per abitudine sono più facilmente correggibili di quelli che lo sono per natura. Infatti, è più facile

cambiare un’abitudine che non la natura: è proprio per questo che anche l’abitudine è difficile da

cambiare, perché assomiglia alla natura, come dice anche Eveno:

‘Affermo che l’abitudine è un lungo esercizio, o amico, e che, dunque, questo finisce con

l’essere per gli uomini come una natura’.

S’è detto, dunque, che cosa siano continenza e incontinenza, forza di carattere e mollezza, ed

in che rapporto stiano fra di loro queste disposizioni.

B: Il piacere(cfr. anche X i-v e lo schema comparativo)

Capitolo xi (Tre ragionamenti contrari al piacere come un bene)

[pag. 1152b] Studiare piacere e dolore è di competenza del filosofo politico: è lui, infatti,

l’architetto che determina il fine, guardando al quale noi chiamiamo ciascuna cosa buona o

cattiva in senso assoluto’’’. Inoltre, l’indagine su questi oggetti è necessaria, giacché abbiamo

posto che la virtù ed il vizio morale hanno per oggetto dolore e piacere, e la stragrande

maggioranza degli uomini afferma che la felicità implica il piacere: per questo hanno dato

all’uomo ‘beato’ una denominazione che deriva da ‘bearsi’. (1) Alcuni, dunque, ritengono che

nessun piacere sia un bene, né per sé né per accidente, giacché, dicono, bene e piacere non sono

la stessa cosa. (2) Altri ritengono, sì, che alcuni piaceri sono buoni, ma che per la maggior parte

sono cattivi. (3) Infine, una terza categoria di persone ritiene che, anche ammesso che tutti i

piaceri siano un bene, non è possibile che il sommo bene sia un piacere.

(1) Dunque, il piacere, nel complesso, non è un bene, a) perché ogni piacere è un divenire,

percepito dal soggetto, che conduce ad uno stato naturale, e, d’altra parte, nessun divenire

appartiene allo stesso genere del suo fine: per esempio, il processo di costruzione di una casa non

appartiene allo stesso genere della casa. b) Inoltre, l’uomo temperante fugge i piaceri. c) Inoltre,

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il saggio persegue ciò che non provoca dolore, non ciò che è piacevole. d) Inoltre, i piaceri sono

un ostacolo alla riflessione morale, e tanto più quanto più intenso è il godimento come nel

piacere sessuale: nessuno infatti potrebbe pensare alcunché mentre lo prova. e) Inoltre, non c’è

alcuna arte del piacere: eppure ogni bene è opera di un’arte. f) Inoltre, bambini e bestie

perseguono i piaceri. (2) Dall’affermazione che non tutti i piaceri sono buoni il motivo addotto è

a) che ce ne sono di vergognosi e biasimevoli, e b) che ce ne sono di dannosi, giacché alcune

delle cose piacevoli producono malattie. (3) Infine, il motivo per cui il piacere non è il sommo

bene è che non è un fine ma un divenire. Questo è, pressappoco, quello che si dice.

Capitolo xii (Discussione della tesi secondo cui il piacere non è un bene)

Che poi da queste considerazioni non risulti che il piacere non è un bene né il sommo bene, è

chiaro da quanto segue.

(A) Innanzi tutto, poiché il termine ‘bene’ ha due sensi (l’uno assoluto, l’altro relativo), anche

le nature e le disposizioni avranno per conseguenza due sensi, e così anche i movimenti e le

generazioni: e di quelli che sono ritenuti cattivi alcuni lo sono, sì, in generale, ma per qualche

individuo no, anzi per costui sono desiderabili; alcuni, poi, non sono desiderabili neppure per una

persona determinata, se non qualche volta e per poco tempo, ma non sempre; altri, poi, non sono

neppure piaceri, ma ne hanno solo l’apparenza: sono quelli accompagnati da dolore e che hanno

come scopo, per esempio nel caso degli ammalati, la guarigione.

(B) Inoltre, poiché una specie del bene è attività, mentre l’altra è disposizione, i processi che

ci riportano nella disposizione naturale sono piacevoli solo per accidente; ma l’attività che si

realizza nei desideri è quella della disposizione naturale residua, poiché ci sono piaceri anche

senza dolore e desiderio (come, per esempio, [pag. 1153a] quelli della contemplazione), quando

la natura non manca di nulla. Ne è prova il fatto che gli uomini non godono del medesimo

oggetto quando la loro natura si va ricostituendo e quando è ricostituita, ma, quando la natura è

ricostituita, essi godono degli oggetti piacevoli in senso assoluto; quando, invece, si sta

ricostituendo, godono anche dei loro contrari; infatti, in questo caso, godono anche di sostanze

aspre ed amare, nessuna delle quali è piacevole per natura o in senso assoluto. Per conseguenza,

non lo sono neppure i piaceri, giacché la stessa differenza che c’è tra gli oggetti piacevoli, c’è

pure tra i piaceri che ne derivano.

(C) Inoltre, non è necessario che ci sia qualcosa di diverso, migliore del piacere, come alcuni

dicono che il fine sia rispetto al processo generativo: i piaceri, infatti, non sono dei processi né

sono tutti accompagnati da un processo, ma sono attività, cioè un fine: noi li proviamo non

perché diventiamo qualcosa ma perché esercitiamo qualche facoltà; e non di tutte le attività il

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fine è qualcosa di diverse da loro stesse, ma solo di quelle che conducono alla perfezione della

natura. Perciò non va neanche bene dire che il piacere è un divenire percepito dal soggetto, ma

bisogna piuttosto dire che esso è attività della disposizione secondo natura, e al posto di

‘percepito’ bisogna dire ‘non impedito’. Alcuni ritengono che il piacere sia un divenire, perché

per loro è un bene in senso proprio; infatti, pensano che l’attività sia un divenire, mentre essa è

un’altra cosa.

Dire che ci sono piaceri cattivi perché alcune cose piacevoli sono causa di malattia, è lo stesso

che dire che alcune cose che sono utili alla salute sono cattive dal punto di vista economico.

Dunque, entrambe le cose sono cattive in questo senso, ma non lo sono per questo solo, poiché

anche il contemplare qualche volta danneggia la salute.

Il piacere che deriva da ciascuna facoltà non ostacola né l’esercizio della saggezza né alcuna

disposizione, ma sono i piaceri estranei che sono d’ostacolo, perché quelli che derivano dalla

contemplazione e dall’apprendimento faranno sì che noi contempliamo e apprendiamo sempre di

più.

Che nessun piacere sia opera di un’arte è una cosa che accade logicamente: l’arte, infatti, non

ha per oggetto alcun’altra attività, ma solo la potenza: eppure l’arte del profumiere e quella del

cuoco si ritiene che abbiano per oggetto il piacere.

Il fatto che l’uomo temperante fugga i piaceri ed il saggio persegua la vita priva di dolore, e

che i bambini e le bestie perseguano il piacere, tutte queste difficoltà sono risolte dal medesimo

ragionamento. Poiché, infatti, si è detto in che senso i piaceri sono buoni in senso assoluto ed in

che senso non sono tutti buoni: le bestie ed i bambini perseguono quelli che non sono buoni in

senso assoluto, e il saggio persegue la mancanza di dolore derivante dall’assenza di questi, dei

piaceri accompagnati da desiderio e da dolore, cioè quelli del corpo (ché questi sono di quel tipo)

ed i loro eccessi, secondo cui l’intemperante è intemperante. E per questo che l’uomo temperante

fugge questi piaceri, giacché ci sono dei piaceri anche dell’uomo temperante.

Capitolo xiii (Discussione della tesi secondo cui il piacere non è il bene principale)

[pag. 1153b] Ma anche che il dolore è un male e che deve essere fuggito è ammesso

concordemente: infatti, da una parte c’è il dolore che è un male in senso assoluto, e dall’altra il

dolore che è male per il fatto che in qualche modo è per noi un ostacolo. Ma il contrario di una

cosa che si deve fuggire proprio in quanto è qualcosa da fuggire, cioè un male, è un bene.

Dunque è necessario che il piacere sia un bene.

Speusippo, infatti, cercava di risolvere il problema dicendo che il più è contrario sia al meno

sia all’uguale, ma la sua soluzione non regge: non si potrà dire che il piacere è per essenza un

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male. Niente impedisce che il sommo bene sia un piacere determinato, anche ammettendo che

alcuni piaceri siano cattivi, come pure una scienza determinata, anche nell’ipotesi che alcune

scienze siano cattive.

(A) Certo, poi, se è vero che di ciascuna disposizione ci sono attività il cui esercizio non ha

ostacoli, è anche necessario che la felicità sia l’attività di tutte quante le disposizioni o di una

sola di esse, purché sia senza ostacoli, e che questa attività sia la più degna di essere scelta: ma

questo è un piacere. Per conseguenza, il sommo bene potrebbe essere un determinato piacere,

anche ammettendo che la maggior parte dei piaceri sia cattiva, magari in senso assoluto. E per

questo tutti pensano che la vita felice sia una vita piacevole, e contessono il piacere con la

felicità, a buon diritto. Infatti, nessuna attività è perfetta quando è ostacolata, e, d’altra parte, la

felicità appartiene al genere delle cose perfette. E per questo che l’uomo felice ha bisogno anche

dei beni del corpo, dei beni esteriori e di quelli della fortuna, per non essere ostacolato dalla loro

mancanza. Coloro, poi, che affermano che anche l’uomo messo al supplizio della ruota o

precipitato in grandi disgrazie è felice, purché sia buono, dicono, volontariamente o non, una

cosa priva di senso. Per il fatto, poi, che si ha bisogno anche della fortuna, alcuni ritengono che

la buona fortuna sia la stessa cosa che la felicità, mentre non lo è, perché anch’essa, quando è

eccessiva, è d’ostacolo, e forse allora non è più giusto chiamarla buona fortuna: infatti, la sua

definizione è relativa alla felicità.

(B) Il fatto, poi, che tutti, bestie e uomini, perseguano il piacere è segno che esso è in qualche

modo il sommo bene:

‘La fama non si spegne mai del tutto,

quando molta gente <la diffonde intorno>...’.

Ma poiché non è la stessa natura né la stessa disposizione che è o si ritiene che sia la migliore,

non è neppure lo stesso il piacere che tutti perseguono; eppure tutti perseguono un piacere. Forse

anche non perseguono il piacere che credono o quello che direbbero di perseguire, ma pur

sempre un piacere. Tutti gli esseri, infatti, hanno in sé qualcosa di divino. Ma i piaceri corporali

si sono appropriati di tutta l’eredità del nome, per il fatto che il più delle volte è ad essi che ci

accostiamo e che tutti ne partecipano: poiché, dunque, sono i soli ad essere noti, si pensa che

siano i soli ad esistere.

[pag. 1154a] (C) È poi chiaro anche che, se il piacere non è un bene né un’attività, l’uomo

felice non potrà vivere piacevolmente: infatti, a che scopo avrebbe bisogno del piacere, se esso

non è un bene, ma è anzi possibile vivere anche soffrendo? Allora, il dolore non è né un male né

un bene, se neppure il piacere lo è: ma, allora, perché fuggire il dolore? In conclusione, neppure

la vita dell’uomo virtuoso sarà più piacevole, se non lo sono anche le sue attività.

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Capitolo xiv (Discussione della tesi secondo cui la maggior parte dei piaceri è cattiva, e della

tendenza ad identificare i piaceri corporei con il piacere in generale)

Per quanto riguarda, poi, in conclusione, i piaceri del corpo, coloro che dicono che almeno alcuni

piaceri sono molto desiderabili, per esempio quelli moralmente belli, ma non i piaceri del corpo,

cioè quelli che sono oggetto dell’intemperante, devono cercar di vedere perché, allora, i dolori

contrari sono cattivi: infatti, il contrario di un male è un bene. Non bisognerà forse dire che sono

buoni i piaceri necessari, nel senso che anche il non male è bene? O forse va detto che sono

buoni fino ad un certo punto?

Infatti, delle disposizioni e dei conseguenti movimenti di cui non è possibile un eccesso che

superi il meglio, non è possibile neppure un eccesso del piacere; di quelli, invece, di cui è

possibile un eccesso, è possibile anche l’eccesso del piacere. Ma dei beni corporali è possibile un

eccesso, e l’uomo vizioso è tale perché persegue l’eccesso, non perché persegue i piaceri

necessari: tutti, infatti, godono in qualche modo dei cibi, dei vini, degli atti sessuali, ma non tutti

come si deve. Il contrario succede nel caso del dolore: infatti, il vizioso non ne fugge solo

l’eccesso, ma fugge il dolore in generale, giacché non c’è un dolore contrario all’eccesso di

piacere se non per colui che questo eccesso persegue.

Ora, poiché bisogna dire non solo la verità ma anche la causa dell’errore (giacché questo

contribuisce a rafforzare la convinzione: quando, infatti, viene reso evidente e plausibile il

motivo per cui qualcosa appare come vero, pur non essendo vero, ciò fa aumentare la

convinzione della verità), bisogna, per conseguenza, dire perché i piaceri del corpo appaiono più

desiderabili.

Innanzi tutto, dunque, perché il piacere del corpo caccia il dolore: e a causa degli eccessi del

dolore, pensando che ne sia rimedio, gli uomini perseguono il piacere eccessivo, cioè, in

generale, il piacere del corpo. Questi rimedi, d’altra parte, sono molto efficaci, ed è per questo

che sono ricercati, perché si manifestano in contrasto con il loro contrario. Per conseguenza, il

piacere non è ritenuto buono per queste due ragioni, come s’è detto: da una parte, alcuni piaceri

sono azioni di una cattiva natura (sia per nascita, come quelle di una bestia, sia per abitudine,

come quelle degli uomini viziosi), altri sono, invece, dei rimedi di una natura difettosa, ed è

meglio essere sani che essere sulla via di diventarlo: [pag. 1154b] ma questi ultimi sono

caratteristici di coloro il cui stato perfetto è in corso di ricostituzione; dunque, sono buoni solo

accidentalmente.

Inoltre, i piaceri del corpo sono perseguiti, per il fatto di essere intensi, da parte di coloro che

non sono capaci di godere di altri piaceri: ci sono addirittura di quelli che si provocano da sé la

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Aristotele, Etica nicomachea VII

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sete. Quando questi piaceri non sono nocivi, non c’è da biasimarli; ma quando sono dannosi, è

male. Questi uomini, infatti, non hanno altre cose di cui godere, e lo stato neutro per molti è

doloroso, a causa della loro natura. Infatti, la natura animale è sempre sotto sforzo, come

testimoniano anche i naturalisti, quando dicono che vedere e udire implicano pena: ma ormai

siamo abituati, come dicono loro.

Parimenti, poi, durante la giovinezza, per il fatto che si sta crescendo, ci si comporta come

uomini pieni di vino, e la giovinezza è piacevole; d’altra parte, gli uomini di natura eccitabile

hanno sempre bisogno di cura. Il loro corpo, infatti, a causa della loro composizione biologica,

vive continuamente come in una morsa dolorosa, ed essi si trovano perennemente in uno stato di

violento desiderio: ora, il piacere caccia il dolore, sia il piacere specificamente contrario, sia un

piacere qualsiasi, purché sia molto intenso: e per queste ragioni essi diventano intemperanti e

perversi.

Ma i piaceri non accompagnati da dolore non comportano eccesso: e questi piaceri derivano

dalle cose piacevoli per natura e non per accidente. Intendo, poi, con ‘piacevoli per accidente’ le

cose che piacciono in quanto curano: perché, infatti, accade di essere curati grazie al fatto che ciò

che in noi rimane sano compie una determinata attività, ed è per questo che il rimedio è ritenuto

piacevole.

Chiamo invece ‘piacevoli per natura’ le cose che producono l’azione di una natura sana.

Nessuna cosa, poi, rimane per noi sempre piacevole, per il fatto che la nostra natura non è

semplice, ma c’è in noi anche un altro elemento (per il quale siamo corruttibili), cosicché se uno

dei due elementi fa qualcosa, questo è, per l’altra natura, contro natura, ma quando i due

elementi si uguagliano, ciò che essi fanno non è né doloroso né piacevole: poiché, se la natura di

un essere fosse semplice, sarebbe sempre la stessa azione ad essere la più piacevole per lui. È per

questo che Dio gode sempre di un piacere unico e semplice Infatti, non c’è solo un’attività del

movimento, ma c’è anche un’attività dell’immobilità, e il piacere sta più nella quiete che nel

movimento. Ma ‘il cambiamento, in tutte le cose, è dolce’, come dice il poeta, a causa di una

cattiva indole: infatti, come l’uomo cattivo è un uomo che cambia facilmente, così è cattiva

anche la natura che ha bisogno di cambiamento: non è, infatti, né semplice né buona.

Dunque, abbiamo detto della continenza e della incontinenza del piacere e del dolore, e qual è

la natura di ciascuno di essi e in che senso si tratta in un caso di cose buone e nell’altro di cattive.

Ci resta da parlare anche dell’amicizia.

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LIBRI OTTAVO E NONO: L’AMICIZIA

Libro VIII

[Bekker pag. 1155a]

A: I generi dell’amicizia

Capitolo i (L’amicizia è necessaria e nobile: le questioni principali a riguardo)

Capitolo ii (I tre oggetti dell’amore: le conseguenze dell’amicizia)

Capitolo iii (I tre generi corrispettivi di amicizia: la superiorità dell’amicizia indirizzata al

bene)

Capitolo iv (Il contrasto tra il genere migliore e quello peggiore)

Capitolo v (La disposizione di amicizia distinta dalla sua attività; L’intimità)

Capitolo vi (I rapporti tra i vari generi di amicizia)

B: La reciprocità dell’amicizia

Capitolo vii (In amicizie asimmetriche, bisogna mantenere la proporzione)

Capitolo viii (Amare è più essenziale nell’amicizia che l’essere amati)

C: Il rapporto della reciprocità nell’amicizia paragonato

a quello coinvolto in altre forme di vita comune

Capitolo ix (Analogia tra amicizia e giustizia: lo stato le comunità minori)

Capitolo x (Tassonomia delle costituzioni: analogie con i rapporti famigliari)

Capitolo xi (Forme parallele di amicizia e di giustizia)

Capitolo xii (I rapporti di amicizia tra parenti)

D: La casistica dell’amicizia

Capitolo xiii (I princìpi di scambio (a) in amicizia tra uguali)

Capitolo xiv (I princìpi di scambio (b) in amicizia tra disuguali)

Libro IX

[Bekker pag. 1163b]

Capitolo i (I princìpi di scambio (c) in amicizia in cui i motivi delle parti sono diversi)

Capitolo ii (Conflitto tra gli obblighi)

Capitolo iii (I motivi per rompere un’amicizia)

E. La natura interna dell’amicizia

Capitolo iv (Amicizia basata sull’amore proprio)

Capitolo v (Il rapporto tra l’amicizia e la benevolenza)

Capitolo vi (Il rapporto tra l’amicizia e la concordia)

Capitolo vii (Il piacere della beneficienza)

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Aristotele, Etica nicomachea VIII-IX

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Capitolo viii (La natura del giusto amore per se stessi)

F: La necessità dell’amicizia

Capitolo ix (Perché l’uomo felice ha bisogno di amici)

Capitolo x (Il limite al numero degli amici)

Capitolo xi (Abbiamo più bisogno di amici nella buona sorte o nella mala sorte?)

Capitolo xii (L’essenza dell’amicizia consiste nella comunione di vita)

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LIBRO DECIMO: PIACERE E FELICITÀ

[Bekker pag. 1172a]

A: Il piacere(cfr. anche lib VII xi-xiv e lo schema comparativo)

Capitolo i (Due posizioni opposte riguardo al piacere)

Ciò basti intorno all’amicizia [; seguirebbe ora di trattare intorno al piacere]. Segue dunque,

dopo di ciò, che trattiamo del piacere. Esso infatti sembra più di ogni altra cosa strettamente

connaturato al nostro genere, per cui quelli che educano i giovani li dirigono col piacere e col

dolore; e sembra che sia importantissimo per la virtù etica il godere di ciò che si deve e il

dispiacersi di ciò che si deve. Infatti il piacere e il dolore si estendono per tutta la durata della

vita, avendo forza e potenza rispetto alla virtù e alla vita felice. Infatti gli uomini si propongono

le cose piacevoli e fuggono quelle dolorose. Tali questioni quindi minimamente sembrerebbe di

poterle passare sotto silenzio, soprattutto in quanto presentano molte discussioni.

Alcuni infatti identificano il piacere coi bene, altri al contrario sostengono ch’esso è

assolutamente cattivo, e di questi alcuni forse convinti che sia davvero cosi, altri invece

ritenendo che sia meglio per la nostra vita il mostrare il piacere come cosa cattiva, anche se non

lo è; giacché i più sono inclini ad esso e schiavi dei piaceri, perciò occorre portarli al lato

opposto, affinché così giungano nel giusto mezzo.

Ma è probabile che questo ragionamento non sia giusto. Infatti, per quanto riguarda le

passioni e le azioni, i discorsi sono meno persuasivi delle opere; perciò, quando essi discordino

da ciò di cui si ha sensazione, sono disprezzati e traggono in discredito anche la verità; infatti se

viene visto una volta ricercare il piacere colui che lo biasima, sembrerà ch’egli sia inclinato a

questo piacere come a qualunque altro; infatti il distinguere non è proprio della maggioranza.

Sembra dunque che la verità dei ragionamenti non solo sia utilissima al conoscere, ma anche alla

vita; [pagina 1172b] infatti, se essi concordano con le opere sono creduti, e perciò incitano

coloro che li comprendono a vivere seguendoli. Ma di ciò basta: veniamo invece alle opinioni

che furono espresse intomo al piacere.

Capitolo ii (Discussione della tesi secondo cui il piacere è il bene)

Eudosso, dunque, identificava il piacere col bene, giacché vedeva che tutti gli esseri aspirano ad

esso, sia quelli dotati di ragione sia quelli privi di essa. E diceva che tutti scelgono ciò che è

conveniente e ciò che è soprattutto migliore; e che il fatto che tutti siano portati alla stessa cosa

significa che essa è il sommo bene per tutti (ciascuno infatti ricerca ciò che è bene per lui, come

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Aristotele, Etica nicomachea X

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accade anche per il nutrimento), e che quindi ciò che è buono per tutti e a cui tutti aspirano, è il

bene. Questi suoi ragionamenti erano creduti più per la virtù del suo costume che per il loro

valore. Infatti egli sembrava essere straordinariamente moderato; e quindi sembrava ch’egli non

dicesse queste cose perché era amico del piacere, bensi che così fosse in verità.

Ed egli riteneva che ciò risultasse non meno evidente dal ragionamento contrario: infatti il

dolore di per sé è cosa da fuggirsi per chiunque, e quindi similmente dev’essere desiderabile il

contrario. E diceva che è da scegliersi soprattutto ciò che scegliamo non a causa -di altro o in

vista di altro; e che una tal cosa, per consenso di tutti, è il piacere; e che a nessuno si chiede per

quale fine egli gode, in quanto il piacere è desiderabile di per sé. Inoltre se esso si aggiunge a

qualcuno dei beni, lo rende ancora più desiderabile, come ad esempio se s’aggiunge all’agire con

giustizia e all’esser moderato; e il bene può accrescersi solo col bene.

Sembra invero che quest’argomento mostri che il piacere è uno dei beni, non però ch’esso sia

maggiormente bene di un altro bene; infatti ogni bene è più desiderabile se congiunto a un altro

bene che non se è isolato. Anzi da quest’argomento Platone ricava che il piacere non è un bene;

infatti egli dice che la vita piacevole è più desiderabile unita alla saggezza che separata da essa; e

se questo composto è migliore, allora il piacere non s’identifica col bene; infatti il bene non può

diventare più desiderabile perché gli si aggiunge qualche cosa. Ed è evidente che nessun altro di

quelli che sono beni per sé sarebbe il bene, se congiunto con un altro divenisse più desiderabile.

Che cos’è dunque questo bene, di cui noi siamo partecipi? Giacché è un tale bene che noi

andiamo cercando.

È probabile che quelli che si rifiutano di ammettere che sia un bene ciò a cui tutti gli esseri

aspirano, non dicano una cosa sensata. [pag. 1173a] Noi infatti ammettiamo che le cose siano

come tutti credono; e chi elimini una tal fiducia non dirà affatto alcunché di più credibile. Se

infatti soltanto ali esseri privi di ragione desiderassero il piacere, avrebbe senso questo

ragionamento, ma dal momento che lo desiderano anche gli esseri dotati di ragione, che valore

esso può avere? Anzi forse anche negli esseri inferiori v’è un impulso naturale al bene più forte

della loro stessa natura, che aspira al bene che è a loro proprio.

Ma non sembra che costoro ragionino bene neppure a proposito dell’argomento contrario.

Essi infatti dicono che, se pur il dolore è un male, non ne consegue che il piacere sia un bene;

dicono infatti che un male può anche opporsi a un altro male ed entrambi a qualcosa che non sia

né un bene, né un male; e non hanno torto dicendo così, tuttavia non sono nel vero nel problema

proposto. Infatti se entrambi, sia il piacere che il dolore, fossero mali, allora dovrebbero essere

entrambi da fuggirsi; e se non lo fossero entrambi non si dovrebbe fuggire né l’uno né l’altro, o

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Aristotele, Etica nicomachea X

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comunque si dovrebbe farlo in misura eguale; ora invece è evidente che noi fuggiamo l’uno

come un male e scegliamo l’altro come un bene; in questo modo dunque essi sono opposti.

Capitolo iii (Discussione della tesi secondo cui il piacere è interamente male)

E neppure per il fatto che non è una delle qualità il piacere non è un bene: infatti non sono

qualità né le attività della virtù, né la felicità. Dicono ancora che il bene è determinato, mentre il

piacere è indeterminato, in quanto ammette un più e un meno. Ma se giudicano così dalle

differenze del godere, la stessa cosa sarà anche per la giustizia e per le altre virtù, a proposito

delle quali si dice esplicitamente che gli uomini sono più o meno di qualità virtuosa e che

<agiscono> più o meno secondo le virtù (è infatti possibile esser più giusti e più coraggiosi di

altri, ed è possibile agire con maggiore o minore giustizia e con maggiore o minore

moderazione); e se osservano ciò nei piaceri, tuttavia non ne indicano la causa, giacché alcuni

dei piaceri sono puri, altri sono misti. E che cosa impedisce che, come la salute, pur essendo

determinata, ammette un più e un meno, così sia anche del piacere? Infatti non vi è in tutti lo

stesso equilibrio, anzi non ve n’è neppure uno identico nella stessa persona; bensi esso si

mantiene pur allentandosi sino a un dato grado e differendo per il più e per il meno. È dunque

possibile che una tal cosa accada anche per il piacere.

Inoltre costoro, ponendo il bene come una cosa perfetta e i movimenti e le generazioni come

cose imperfette, cercano di dimostrare che il piacere è movimento e cosa che si genera. Ma non

sembra che dicano giustamente, né che il piacere sia movimento. Sembra infatti che siano

proprie di ogni movimento la velocità e la lentezza: e ciò, se non per se stesso, com’è il caso del

mondo, almeno rispetto ad altro; nel piacere invece non si trova né l’una né l’altra cosa. [pag.

1173b] Infatti è pur possibile giungere a rallegrarsi, come ad adirarsi, rapidamente; ma non è

possibile il provar piacere rapidamente, neppure rispetto ad altro, come accade per il camminare,

il crescere e tutte le cose simili. l~ possibile dunque rivolgersi al piacere rapidamente o

lentamente, ma l’attività in sé dei piacere, cioè il godere non può essere veloce.

D’altra parte come potrebbe il piacere essere un processo di generazione? Sembra infatti che

non da qualsiasi cosa si generi qualsiasi cosa, bensi che ciò da cui essa si genera sia ciò in cui

essa poi si dissolve; ma ciò da cui si genererebbe il piacere avrebbe come sua dissoluzione il

dolore. Dicono anche che il dolore sia la mancanza di qualcosa richiesto dalla natura e che il

piacere sia la sua soddisfazione. Ma queste sono affezioni del corpo. Se dunque il piacere è la

soddisfazione di qualcosa richiesto dalla natura, ciò in cui avviene il soddisfacimento, questo

dovrebbe i provar piacere: cioè il corpo. Ma non sembra che sia così. Dunque il piacere non è

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neppure soddisfazione, bensi si prova piacere dell’avvenuta soddisfazione, ‘cosi come invece si

prova dolore quando ci si taglia.

L’opinione suddetta sembra essere sorta in base ai dolori e ai piaceri riguardanti il nutrimento:

infatti quando i si è stati privi di nutrimento e se ne è provato dolore, si gode di venire

soddisfatti. Ma ciò non accade per tutti i piaceri; infatti i piaceri che derivano dall’apprendere e,

tra quelli derivati dalla sensazione, quelli che sorgono per l’odorato, e il vedere e spesso l’udire, i

ricordi e le speranze sono piaceri privi di dolore. Quale sarebbe dunque l’origine della loro

generazione? Qui infatti non sorge mancanza di nulla di cui possa sorgere l’appagamento.

A coloro che pongono innanzi i piaceri più turpi si può rispondere che essi non sono neppure

piacevoli; infatti, se pure sono piacevoli a coloro che hanno cattive disposizioni, non bisogna per

questo ritenere che essi siano piacevoli ad altri che non siano costoro, come neppure debbono

considerarsi sane o dolci o amare le cose che sembrano tali a chi è ammalato, né considerarsi

bianche quelle che sembrano tali ai malati di occhi. Oppure si può rispondere che i piaceri sono

bensi desiderabili, ma non quelli che sono desiderati da costoro; ad esempio desiderabile è

l’arricchirsi, ma non l’arricchirsi di un traditore, e desiderabile è l’aver cura della salute, ma non

mangiando qualsiasi cosa. Oppure si può rispondere che i piaceri differiscono a seconda della

specie.

Infatti i piaceri che provengono dalle cose decorose sono diversi da quelli che provengono

dalle cose turpi e non è possibile che chi non è giusto goda del piacere della giustizia, né che chi

non è musico goda del piacere della musica, e altrettando dicasi degli altri casi. Anche il fatto

che l’amico sia differente dall’adulatore sembra mostrare che il piacere non sia un bene, o che vi

sono piaceri di diversa specie; infatti l’amico sembra frequentarci mirando al bene, l’adulatore

invece mirando al piacere e, mentre costui è biasimato, quello è lodato in quanto ci frequenta per

scopi diversi.

[pag. 1174a] Inoltre nessuno sceglierebbe di vivere mantenendo per tutta la vita la mentalità

di un fanciullo, godendo di ciò che godono soprattutto i fanciulli; né di godere compiendo

qualche azione turpissima, anche se non debba derivargliene dolore. Anzi noi possiamo porre

ogni cura in molte cose, anche se non ci apportano alcun piacere: ad esempio il vedere, il

ricordare, il conoscere, l’avere le virtù. E non c’importa per nulla che a tali cose conseguano

necessariamente dei piaceri; noi infatti le scegliererebbero anche se non ci derivasse piacere da

esse.

Che dunque il piacere non sia il bene e che non tutti i piaceri siano desiderabili, sembra che

sia chiaro; e così che ve ne sono alcuni desiderabili di per se stessi, i quali differiscono dagli altri

per specie e per provenienza.

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Capitolo iv (Definizione del piacere)

Basti dunque quanto s’è detto sulle opinioni intorno al piacere e al dolore; quali siano

invece la natura e il carattere del piacere, può divenir più evidente se riprendiamo da capo la

questione.

L’atto del vedere, come sembra, è perfetto in ogni momento (infatti esso non manca di

nulla che gli si aggiunga in più per rendere perfetta la sua forma): tale sembra essere anche il

piacere. Esso infatti è una totalità intera e in nessun periodo di tempo si potrebbe trovare

un piacere, la cui forma diventi più perfetta se se ne prolunga il tempo. Perciò il piacere non è

neppure movimento. Infatti ogni movimento, come ad esempio la costruzione di una casa, si

svolge nel tempo e in vista di un dato fine cd è perfetto quando abbia compiuto ciò a cui

mira o nell’intero suo periodo dr-tempo o nel momento finale; i movimenti parziali invece

nei loro singoli momenti sono tutti imperfetti e sono diversi dal movimento completo e diversi

tra di loro. Ad esempio la sistemazione delle pietre è cosa diversa dalla scanalatura delle

colonne, ed entrambe le cose sono diverse dall’intera costruzione del tempio; e la

costruzione del tempio è cosa perfetta (infatti in essa non manca nulla per lo scopo

proposto), invece quella del piedistallo e quella del triglifo è imperfetta (entrambe infatti sono

costruzioni di parti). Esse dunque differiscono per la specie e non è possibile in un qualsiasi

momento del movimento cogliere il movimento perfetto, bensì, se mai, nell’intero

movimento. Altrettanto è anche del camminare e degli altri movimenti. Se infatti la

traslazione è un movimento da un luogo a un altro, anche di essa vi sono però differenze a

seconda delle sue specie, quali il volare, il camminare, il saltare e simili; e non solo vi

sono queste differenze, ma ve ne sono anche nello stesso camminare. [pag. 1174b] Infatti il

movimento da un luogo a un altro non è lo stesso per lo stadio e per una parte di esso, e non è

lo stesso in una parte e nell’altra, né è lo stesso l’attraversare questa linea oppure quella. Infatti

non si tratta solo di attraversare una linea, bensì anche una linea che si trova in un dato luogo,

il quale è diverso da quello di un’altra. Ma del movimento si è trattato con esattezza altrove; ed

è evidente che esso non è perfetto in ogni momento, bensì numerosi movimenti sono

imperfetti e differiscono per specie, se pur l’andare da un luogo a un altro ha una sua

specie particolare. Invece la forma del piacere è perfetta in qualsiasi momento. È, evidente

dunque che movimento e piacere devono essere cose diverse tra loro e che il piacere appartiene

alle cose complete e perfette.

Ciò può risultare anche dal fatto che non è possibile muoversi se non in un certo periodo di

tempo, mentre così non è del piacere: infatti esso si sente tutto intero già in un solo istante. Da

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ciò è evidente anche che non giustamente dicono che il piacere è movimento o cosa che si

genera. Infatti il movimento e la generazione non si possono attribuire a tutte le cose, bensì

solo a quelle divisibili in parti e non intere; infatti neppure dell’atto del vedere, né del

punto, né della monade v’è generazione, né alcuna di queste cose è movimento o

generazione; quindi altrettanto è del piacere, in quanto è qualcosa di completo.

Siccome ogni sensazione esercita la sua attività rispetto a un oggetto sensibile, essa si attuerà

perfettamente quando è in buona disposizione rispetto al più eccellente degli oggetti che

cadono sotto la sensazione; tale sembra essere soprattutto l’attività perfetta (e non si faccia

alcuna differenza tra il dire che la sensazione è in attività o che lo è ciò in cui essa si trova); in

ogni cosa dunque l’attività migliore sarà quella che si esplica quando si ha la miglior

disposizione verso ciò che è l’oggetto migliore che cade sotto di essa: questa sarà dunque la

migliore e la più piacevole. Infatti vi è piacere in rapporto a ogni sensazione e altrettanto in

rapporto a ogni razionalità e contemplazione; e l’attività più piacevole è la più perfetta, e la

più perfetta è quella di chi è ben disposto rispetto all’oggetto più eccellente che cade sotto

quell’attività.

Il piacere inoltre rende perfetto l’atto; e lo rende perfetto non nello stesso modo suddetto in

cui lo rendono perfetto l’oggetto sensibile e la sensazione, quando sono eccellenti; così

come neppure la salute e il medico sono nello stesso modo causa dell’esser sani. È quindi chiaro

che in corrispondenza di ogni sensazione sorge il piacere; infatti diciamo che il vedere e

l’ascoltare sono cose piacevoli. Ma è chiaro anche che sono sommamente piacevoli

allorché la sensazione è la migliore e si attua sull’oggetto migliore; quando il senziente e il

sentito sono tali, vi sarà sempre piacere, essendo presenti sia chi lo deve produrre sia chi lo deve

provare.

Il piacere poi perfeziona l’attività non come una disposizione conseguita, bensì come un

perfezionamento che vi si aggiunge, come ad esempio la bellezza per quelli che sono nel

fiore della giovinezza; vi sarà dunque piacere nell’attività finché sia l’oggetto pensabile o

sensibile sia ciò che discerne o contempla siano come devono essere; [pag. 1175a] infatti sorgerà

lo stesso risultato finché rimarranno uguali e si comporteranno nello stesso modo sia l’essere che

prova il piacere che quello che lo provoca.

Perché dunque nessuno prova piacere di continuo? forse perché si stanca ? Infatti tutto ciò che è

umano non può esercitare un’attività di continuo. E neppure ciò può essere del piacere: esso infatti

segue all’attività. Alcune cose ci fanno piacere perché sono nuove, ma, proprio per questo, in

seguito non ci fanno più altrettanto piacere; infatti da principio la razionalità è eccitata da esse ed

esercita in- tensamente la sua attività intorno ad esse, come, per quanto riguarda la vista, coloro

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che guardano con attenzione; poi invece l’attività non resta la stessa, bensì si attenua, e per questo

anche il piacere si dilegua.

Si potrebbe credere che tutti desiderano il piacere perché tutti mirano a vivere e la vita e, in

certo modo, un’attività e ciascuno è attivo riguardo a quelle cose e con quelle facoltà, ch’egli

soprattutto preferisce; ad esempio il musico è attivo con l’udito riguardo alle melodie, l’amante

del sapere è attivo con la razionalità intorno alle cose speculative, e così anche ciascun altro nelle

altre cose. E il piacere perfeziona le attività e quindi quel modo di vita a cui ciascuno aspira.

Logicamente dunque si aspira al piacere: esso infatti perfeziona a ciascuno la vita, il che è cosa

desiderabile.

Tralasciamo poi per ora la questione se noi scegliamo di vivere per il piacere o scegliamo il

pia- cere per il vivere. Infatti il piacere e la vita appaiono collegati e non è possibile separarli;

infatti senza attività non sorge il pia- cere e il piacere perfeziona ogni attività.

Capitolo v (I piaceri differiscono a seconda le attività che accompagnano: criterio del valore

dei piaceri)

Sembra perciò anche che i piaceri differiscano per la specie. Infatti noi riteniamo che cose

diverse per la specie siano perfezionate da cose diverse.

Ciò appare infatti sia nelle cose naturali sia nei prodotti dell’arte: ad esempio sia negli esseri

viventi e negli alberi, sia nelle pitture, nelle statue, nelle case e nelle suppellettili. E similmente

sembra che anche le attività differenti per specie siano perfezionate da cose differenti

per specie. E le attività della razionalità differiscono da quelle proprie della sensazione e

differiscono tra loro per la specie: quindi differiscono anche i piaceri che le

perfezionano.

Ciò può risultare anche dal fatto che ciascun piacere è connaturato all’attività che

esso perfeziona. Infatti l’attività è accresciuta dal piacere che le è proprio, giacché chi

agisce con piacere giudica meglio e compie con più precisione ciascuna cosa; ad

esempio quelli che trovano piacere nella geometria divengono geometri e meglio

comprendono ciascuna parte di essa; similmente anche degli amanti della musica e

dell’architettura e delle altre arti ciascuno progredisce nella sua propria opera quando

prova piacere in essa. Infatti il piacere s’accresce con l’attività e le cose che

s’accrescono insieme sono connaturate. [pag. 1175b] E alle cose diverse poi debbono

essere connaturate cose diverse per specie.

Ciò può apparire ancor più chiaro dal fatto che le attività sono ostacolate dai

piaceri che derivano da attività diverse: infatti gli amanti del flauto sono

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impossibilitati di prestare attenzione ai ragionamenti, se odono qualcuno che suona il

flauto, giacché godono di più del suono del flauto che dell’attività di:tui si occupavano;

perciò il piacere relativo al suono del flauto danneggia l’attività relativa al

ragionamento. Similmente ciò accade anche negli altri casi, quando si sia

contemporaneamente in attività rispetto a due cose diverse; infatti l’attività delle cose

più piacevoli distrae dall’altra e ciò tanto più quanto più le dne attività differiscano

nel piacere, cosicché si giunge a non agire più nell’altra attività. Perciò, se godiamo

intensamente di una cosa, non facciamo più altro, quando invece un’occupazione ci

piace scarsamente ci mettiamo a fare altro; come ad esempio quelli che in teatro

mangiano dolciumi fanno ciò soprattutto quando gli attori recitano male. E, poiché

ciascuna attività è resa più precisa, più duratura e migliore dal piacere che le è proprio,

mentre i piaceri ad essa estranei la danneggiano, è evidente che tra i piaceri v’è molta

differenza. I piaceri estranei a una attività, infatti, producono quasi lo stesso risultato che i dolori

che le sono propri, giacché i dolori propri danneggiano le attività, come ad esempio se a

qualcuno è spiacevole o fastidioso lo scrivere o il far conti: uno infatti non scrive, un altro non fa

conti se quest’attività gli è fastidiosa. Risultano quindi effetti opposti per le attività dai piaceri e

dai dolori che sono loro propri; e sono propri quelli che sorgono nell’attività per essa stessa.

Invece s’è detto che i piaceri estranei producono press’a poco l’effetto del dolore; essi infatti

danneggiano, per quanto non nella stessa maniera.

Poiché poi le attività differiscono per la loro convenienza o sconvenienza morale e poiché

alcune di esse sono da scegliersi, altre sono da fuggirsi, altre né da scegliersi né da fuggirsi,

similmente accade anche dei piaceri; infatti a ogni attività buona corrisponde un piacere per bene,

a ogni attività cattiva un piacere perverso; infatti i desideri delle cose belle sono degni di lode,

quelli delle cose turpi degni di biasimo.

I piaceri propri delle singole attività sono però ad esse più connaturati che gli appetiti; infatti

gli appetiti sono separati sia per il tempo sia per la loro natura, i piaceri invece sono intimamente

uniti alle attività e non separabili da esse, cosicché vi è persino dubbio se l’attività sia la stessa

cosa che il piacere. Invero il piacere non è né razionalità né sensazione (ciò infatti sarebbe

assurdo), ma poiché i piaceri non possono essere separati da ciò, ad alcuni sembrano la stessa

cosa. Come dunque le attività sono differenti, così lo sono anche i piaceri. [pag. 1176a] La vista

differisce per purezza dal tatto; e così l’udito e l’odorato differiscono dal gusto; similmente

differiscono anche i piaceri corrispondenti: e da questi piaceri si differenziano i piaceri della

razionalità, e in ciascuna categoria, i piaceri si differenziano tra loro.

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E sembra anche che per ciascun essere vivente ci sia un piacere a lui proprio, come v’è pure

una funzione a lui propria: essa infatti è in rapporto alla sua attività. E ciò può apparire evidente

a chi esamina ciascun essere: infatti diverso è il piacere del cavallo da quello del cane e da quello

dell’uomo; così come giustamente Eraclito dice che un asino preferirebbe della paglia

piuttosto che dell’oro; infatti per gli asini il cibo è più piacevole dell’oro.

Dunque i piaceri degli esseri di specie differente differiscono per specie e sembrerebbe

logico che quelli della stessa specie siano identici. Invece per ciò che riguarda gli

uomini, i piaceri differiscono non poco. Infatti le stesse cose dilettano gli uni e

addolorano gli altri e ad alcuni sono dolorose e odiose le cose che ad altri sono piacevoli

e amabili. Ciò accade anche per le cose dolci: infatti esse non sembrano le stesse a chi

ha la febbre e a chi è sano, né il caldo appare lo stesso a chi è debole e a chi è sano. E

similmente ciò accade anche per gli altri casi. In tutti questi casi sembra che la cosa

sia come appare all’uomo virtuoso. Se è giusto dir così, come sembra, allora la

misura di ciascuna cosa saranno la virtù e l’uomo buono in quanto tale, e veri

piaceri saranno quelli che a lui sembrano tali e piacevoli le cose di cui egli gode. E

uno non deve per nulla meravigliarsi se a qualcuno sembrano piacevoli le cose che a

lui sono disgustose; infatti negli uomini sorgono molte corruzioni e impurità; e queste

cose non sono veramente piacevoli, bensì lo sono solo a costoro e a quelli che hanno tale

disposizione.

I piaceri dunque che concordemente sono ritenuti turpi è chiaro che non bisogna

neppure definirli piaceri, se non per chi è corrotto. Ma tra i piaceri che sembrano

essere moralmente convenienti quale e di qual natura diremo che è quello dell’uomo?

Non è forse evidentemente quello che deriva dalle sue attività? Ad esse infatti

conseguono i piaceri.

Sia dunque che vi sia una sola attività dell’uomo perfetto e beato, sia che ve ne

siano parecchie, si potranno dire propriamente piaceri dell’uomo quelli che

perfezionano queste attività; gli altri invece saranno piaceri solo in via secondaria e

del tutto accessoriamente, come pure le attività ad essi corrispondenti.

B: La felicità

Capitolo vi (La felicità è attività buona, non divertimento)

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Avendo dunque trattato delle virtù, delle amicizie e dei piaceri, resta che parliamo in

abbozzo generale della felicità, giacché la consideriamo come il fine delle azioni umane. E se

ci riferiamo a ciò che s’è detto prima, il nostro ragionamento potrà essere più breve.

Abbiamo detto che essa non è una disposizione: in tal caso infatti essa si troverebbe

anche in chi dormisse tutta la vita, vivendo così una vita puramente vegetativa e in chi

subisse le più grandi disgrazie. [pag. 1176b] Se dunque questo non può ammettersi, bensì

piuttosto dobbiamo porre la felicità in un’attività, come s’è detto precedentemente, e se

delle attività alcune sono necessarie ed eleggibili in vista d’altro, altre invece sono scelte per

se stesse, è evidente che bisogna porre la felicità tra le attività scelte per esse stesse e non tra

quelle scelte in vista di altro; infatti la felicità non è manchevole di null’altro, bensì è

autosufficiente.

Sono eleggibili per se stesse quelle attività dalle quali non ci si attende altro all’infuori

dell’attività stessa. Tali sembrano essere le azioni conformi a virtù; infatti il compiere cose

belle e virtuose è proprio delle azioni eleggibili di per se stesse. Tali sono anche i divertimenti

piacevoli: essi infatti non sono scelti in vista di altro; infatti da essi si riceve danno piuttosto che

utilità, in quanto si trascurano per essi il nostro corpo e le nostre sostanze. E la maggior parte

degli uomini ritenuti felici ricorre a tali trattenimenti; per questo hanno favore presso i

tiranni le persone che sono facete in tali trattenimenti; queste infatti si mostrano piacevoli

ad essi nelle cose a cui essi aspirano, giacché è di ciò che i ti- ranni hanno bisogno. E

queste cose si credono quindi capaci di far felici, giacché i potenti passano il tempo appunto in

esse.

Ma tuttavia tali persone non costituiscono una prova; infatti né la virtù né l’intelletto

consistono nell’esser potenti: ed è da ciò che derivano le attività virtuose; e se questi,

essendo privi del gusto del piacere puro e degno d’un uomo libero, ricorrono ai piaceri

del corpo, non per questo bisogna ritenere che questi siano più desiderabili; infatti anche i

fanciulli credono che siano le migliori le cose che essi apprezzano. Anzi è logico che, come

diverse sono le cose che sembrano preziose ai fanciulli e agli uomini, altrettanto

diverse lo siano per gli uomini cattivi e per quelli per bene.

Come dunque spesso s’è detto, sono preziose e piacevoli le cose che sembrano tali

all’uomo virtuoso; e per ciascuno l’attività più desiderabile è quella che è

conforme alla sua disposizione, quindi per l’uomo virtuoso la più desiderabile è

l’attività conforme a virtù. Dunque la felicità non consiste nel divertimento. E infatti

sarebbe assurdo che il fine fosse il divertimento e che ci si affaticasse e ci si affannasse per

tutta la vita solo allo scopo di divertirsi. Tutte le cose infatti, per così dire, le scegliamo in vista

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di altro, eccetto la felicità; essa infatti è il fine. Invece l’agir seriamente e l’affaticarsi a

scopo di divertimento sembra cosa sciocca e troppo puerile; mentre invece lo scherzare al

fine di agire seriamente, secondo il detto di Anacarsi, sembra essere giusto. Infatti il

divertimento sembra un riposo, giacché gli uomini, non potendo agire continuamente, hanno

bisogno di riposo. [pag. 1177a] Ma il fine non è il riposo: esso infatti sorge solo in vista

dell’attività.

Felice invece sembra essere la vita secondo virtù: essa infatti si svolge con serietà e non

consiste nel divertimento. E noi diciamo che le cose serie sono migliori di quelle comiche

e divertenti e chiamiamo più seria l’attività della parte migliore dell’uomo; e l’attività

della parte migliore è appunto la più preziosa e la più capace di darci felicità. E dei piaceri

del corpo potrà godere un qualsiasi uomo e uno schiavo non meno dell’uomo migliore; ma

nessuno potrebbe render partecipe uno schiavo della felicità, a meno che lo renda partecipe

anche della vita di un uomo libero. Infatti la felicità non risiede in questi trattenimenti,

bensì nelle attività conformi a virtù, come s’è detto anche prima.

Capitolo vii (La felicità nel senso più alto è la vita contemplativa)

Se dunque la felicità è un’attività conforme a virtù, logicamente essa sarà conforme alla

virtù superiore; e questa sarà la virtù della parte migliore dell’anima. Sia dunque essa

l’intelletto oppure qualcosa d’altro, che per natura appaia capace di comandare e guidare e

avere nozione delle cose belle e divine o perché esso stesso divino o perché è la parte più

divina di ciò che è in noi, comunque la felicità perfetta sarà l’attività di questa parte, conforme

alla virtù che le è propria.

Che essa sia l’attività contemplativa è stato detto. E ciò apparirà concordare sia con ciò

che s’è detto prima sia con la verità. Quest’attività è infatti la più alta; infatti l’intelletto è tra

le cose che sono in noi quella superiore, e tra le cose conoscibili le più alte sono quelle a cui

si riferisce il pensiero.

Ed è anche l’attività più continua; noi infatti possiamo contemplare più di

continuo di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa. Pensiamo poi che alla felicità debba

essere congiunto il piacere e si conviene che la migliore delle attività conformi a virtù è

quella relativa alla sapienza; sembra invero che la filosofia apporti piaceri meravigliosi

per la loro purezza e solidità; ed è logico che il corso della vita sia più piacevole per chi

conosce che non per chi ancora ricerca il vero.

E l’autosufficienza di cui abbiamo parlato si troverà soprattutto nell’attività

contemplativa. Infatti è pur vero che dei mezzi necessari al vivere hanno bisogno sia il

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sapiente, sia il giusto, sia gli altri uomini; tuttavia, una volta che siano stati provvisti

sufficientemente di essi, il giusto ha ancora bisogno di persone ch’egli possa trattare

giustamente e con le quali esser giusto, similmente anche l’uomo moderato e il coraggioso e

ciascuno degli altri uomini virtuosi; l’uomo sapiente, invece, anche da se stesso potrà

contemplare, e ciò tanto più, quanto più è sapiente; forse è meglio se ha dei collaboratori,

ma tuttavia egli è del tutto autosufficiente.

[pag. 1177b] Inoltre sembra che l’attività contemplativa sia la sola ad essere amata per

se stessa; infatti da essa non deriva alcun altro risultato all’infuori del contemplare, mentre

dalle attività pratiche ricaviamo sempre qualcosa, più o meno importante, oltre all’azione

stessa. Sembra poi che la felicità risieda nell’agiatezza; infatti noi affrontiamo i disagi

per esser poi in agiatezza, e facciamo guerra per essere poi in pace. Ordunque, le attività

delle virtù pratiche si esplicano nelle cose politiche e di guerra; ma le azioni relative a tali cose,

specialmente quelle di guerra, sono evidentemente prive di agio; e infatti nessuno sceglie

di far guerra, né prepara la guerra al solo scopo di guerra, giacché sembrerebbe un vero

sanguinario che si rendesse nemici gli amici per far sorgere battaglie e uccisioni. Ma

anche l’attività dell’uomo politico è disagiata e, oltre all’occuparsi di politica, deve

preoccuparsi di procurarsi potere e onori e procurare a sé e ai cittadini quella felicità che è

diversa dalla politica e che noi ricerchiamo evidentemente come diversa da essa.

Se dunque tra le azioni conformi alle virtù quelle politiche e quelle di guerra eccellono per

bellezza e per grandezza, ma sono disagiate e mirano a un altro fine e non sono scelte per

se stesse, se invece l’attività dell’intelletto, essendo contemplativa, sembra eccellere per

dignità e non mirare a nessun altro fine all’infuori di se stessa e ad avere un proprio piacere

perfetto (che accresce l’attività) ed essere autosufficiente, agevole, ininterrotta per quanto è

possibile all’uomo e sembra che in tale attività si trovino tutte le qualità che si attribuiscono

all’uomo beato: allora questa sarà la felicità perfetta dell’uomo, se avrà la durata intera della

vita. Infatti in ciò che riguarda la felicità non può esservi nulla di incompiuto.

Ma una tale vita sarà superiore alla natura dell’uomo; infatti non in quanto uomo egli

vivrà in tal maniera, bensì in quanto in lui v’è qualcosa di divino; e di quanto esso eccelle

sulla struttura composta dell’uomo, di tanto eccelle anche la sua attività su quella conforme alle

altre virtù. Se dunque in confronto alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino,

anche la vita conforme a esso sarà divina in confronto alla vita umana.

Non bisogna però seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose

umane ed, essendo mortali, a cose mortali, bensì, per quanto è possibile, bisogna farsi

immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più elevata di quelle che sono in noi; se pur

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infatti essa è piccola per estensione, [pag. 1178a] tuttavia eccelle di molto su tutte le altre

per potenza e valore. E se essa è la parte dominante e migliore, sembrerebbe che ciascuno di noi

consista proprio in essa; sarebbe quindi assurdo se l’uomo scegliesse non la vita a lui

propria, bensì quella propria di altri. E ciò che prima s’è detto s’accorda con ciò che ora

diciamo: cioè quello che a ciascuno è proprio per natura è la cosa per lui migliore e più

piacevole. E per l’uomo ciò è la vita conforme all’intelletto, se pur in ciò consiste soprattutto

l’uomo. E questo modo di vita sarà dunque anche il più felice.

Capitolo viii (Ulteriori considerazioni sulla vita contemplativa)

Al secondo posto sta la vita conforme alla virtù etica; infatti le attività a essa conformi sono

quelle umane; infatti tra di noi esercitiamo le azioni giuste, quelle coraggiose e quelle conformi 1

alle altre virtù sia nei contratti, sia nei rapporti sociali, sia nelle azioni di ogni genere e nelle

passioni, avendo cura di rispettare ciò che compete a ciascuno: e tutte queste appaiono

essere cose umane. Sembra anche che in alcune cose la virtù etica proceda dal corpo e che

in molti casi essa sia intimamente congiunta con le passioni. Anche la saggezza è unita alla

virtù morale e questa è unita alla saggezza, in quanto i principi della saggezza sono

conformi alle virtù etiche e la rettitudine delle virtù etiche è conforme alla saggezza. E le

virtù, che sono così connesse anche alle passioni, saranno proprie della struttura composta

dell’uomo; e le virtù di questa struttura composta sono umane. E altrettanto lo sono la

vita e la felicità a esse conformi. Invece la vita del pensiero è separata. Ma su di essa

basti ciò che s’è detto; infatti il determinarla più esattamente andrebbe oltre il nostro

compito.

Sembrerebbe anche che la vita contemplativa abbia poco bisogno dei beni esteriori, o ne

abbia meno bisogno della virtù etica. E se pur a entrambe s’ammette che vi sia un pari

bisogno delle cose necessarie (per quanto l’uomo politico si affanni di più intorno alle cose del

corpo e a quelle del genere; ciò infatti può avere poca importanza), tuttavia vi sarà molta

differenza quanto alle attività. Infatti l’uomo generoso avrà bisogno di ricchezze per poter

compiere le azioni genérose, l’uomo giusto ne avrà bisogno per contraccambiare i benefici

(infatti la volontà non è visibile e anche quelli che non sono giusti fingono di voler compiere

azioni giuste), l’uomo coraggioso avrà bisogno di potenza, se vorrà compiere qualcuna delle

azioni conformi alla [propria] virtù, l’uomo moderato avrà bisogno di libertà. Altrimenti

come sarebbe manifesto se il carattere dell’uomo virtuoso è questo o un altro?

Sorge poi la questione se per la virtù sia più importante il proponimento o invece lo siano le

azioni, giacché essa può trovarsi in entrambe le cose [pag. 1178b]; ma evidentemente la

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Aristotele, Etica nicomachea X

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perfezione risiederà in entrambe; comunque per le azioni v’è bisogno di molte cose e di

cose tanto più numerose, quanto più le azioni sono importanti e belle. Invece chi contempla

non ha bisogno di nessuna di queste cose per la sua attività, ma anzi, per così dire, esse sono

d’impedimento alla speculazione; in quanto però egli è uomo e convive con molti uomini, egli

deve scegliere di compiere le cose conformi a virtù; e quindi per vivere da uomo avrà bisogno di

tali cose. Che poi la felicità perfetta risieda in un’attività contemplativa può risultare anche dal

fatto seguente.

Noi cioè immaginiamo che gli dèi siano sommamente beati e felici: quali azioni dunque

si devono attribuire ad essi? Forse quelle giuste? Ma non sembreranno forse ridicoli,

qualora facciano contratti, si restituiscano depositi e facciano simili cose? Oppure le azioni

coraggiose, immaginando che compiano cose paurose e che corrano pericolo perché è

decoroso ? Oppure le azioni generose? Ma a chi doneranno? Ma sarà assurdo che essi abbiano

monete o cose simili. E le loro azioni moderate quali 1 sarebbero? Non sarebbe forse cosa

grossolana il lodarli perché non hanno cattivi desideri?

Se si considera tutto ciò che riguarda le azioni, ci apparirà sempre piccolo e indegno degli

dèi. Eppure tutti ritengono che essi vivano e che quindi siano in attività, non che dormano come

Endimione. Se dunque a chi vive si toglie l’agire, e ancor più il creare, che cosa resta se

non la contemplazione? Cosicché l’attività del dio, che eccelle per beatitudine, sarà

contemplativa. Quindi anche tra le attività umane quella che è più congenere a questa,

sarà quella più capace di render felici. Prova di ciò è anche il fatto che gli altri esseri viventi

non partecipano della felicità, poiché sono completamente privi di questa attività. Invece

per gli dèi tutta la vita è beata, e per gli uomini lo è in quanto vi è in essi un’attività simile

a quella; ma nessuno degli altri esseri viventi è felice, perché non partecipa per nulla alla

speculazione.

Per quanto dunque s’estende la speculazione, di tanto s’estende anche la felicità, e in quelli

in cui si trova maggiore speculazione v’è anche maggiore felicità: e ciò accade non per

caso, ma per via della speculazione: essa infatti ha valore di per se stessa. Così la felicità è

una specie di speculazione.

Essendo uomini, però, si avrà bisogno anche della prosperità esteriore; infatti la natura non è

sufficiente per l’attività contemplativa, bensì occorre che anche il corpo sia sano e si abbiano

il cibo e le altre risorse. [pag. 1179a] Tuttavia non si deve pensare che per essere felice

occorrano molte e grandi cose, se pur non è possibile esser beato senza i beni esteriori; infatti

l’autosufficienza e l’azione non consistono nell’eccesso dei beni; ed è possibile compiere le

azioni decorose anche se non si comanda in terra e in mare; infatti anche sulla base di beni

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Aristotele, Etica nicomachea X

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moderati si potrà agire secondo la virtù. È possibile vedere ciò chiaramente, giacché i privati

sembrano compiere le azioni convenienti non meno dei potenti, ma anzi anche di più. È

sufficiente avere quanto si è detto; infatti felice sarà la vita di chi svolge la sua attività

secondo la virtù.

Solone definì probabilmente bene gli uomini felici, dicendo che sono coloro che sono

stati forniti mediocremente dei beni esteriori, ma che hanno compiuto le azioni più belle,

com’egli pensava, e che hanno vissuto secondo moderazione; è infatti possibile che coloro che

posseggono beni misurati compiano ciò che si deve. E sembra che anche Anassagora abbia

sostenuto che l’uomo felice non s’identifichi col ricco né col potente, dicendo ch’egli non si

sarebbe meravigliato se un uomo felice fosse sembrato uno spostato ai più; essi infatti

giudicano dai beni esteriori, accorgendosi soltanto di questi. Anche le opinioni dei sapienti

sembrano dunque concordare coi nostri ragionamenti, e anche tali opinioni hanno un valore

di credibilità; però nelle cose riguardanti azioni la verità si giudica dalle opere e dalla vita: in

esse infatti sta l’essenziale.Perciò bisogna esaminare le cose dette precedentemente riferendole

alle opere e alla vita, e se concordano con le opere accoglierle, se invece discordano, ritenerle

soltanto parole.

L’uomo che esplica la sua attività secondo l’intelletto e ha cura di esso sembra sia essere

disposto ottimamente, sia essere carissimo agli dèi; se infatti da parte degli dèi vi è, come

sembra, qualche cura delle cose umane, sarà logico che essi godano di ciò che è migliore ed è più

affine a loro (e questo sarà l’intelletto), e sarà logico che essi ricompensino chi ama e onora

soprattutto ciò, in quanto costoro si danno cura delle cose a loro care e agiscono bene. E

che tutte queste cose si trovino soprattutto nel sapiente, è chiaro. Quindi egli è carissimo agli dèi.

Ed è naturale che costui sia anche il più felice; cosicché anche per questo il sapiente è

sommamente felice.

Capitolo ix (La legislazione è necessaria per arrivare al fine: transizione alla Politica)

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Aristotele, Etica nicomachea X

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I due trattamenti del piacere nell’Etica nicomachea

Libro VII 1152b1 - 1154b34

Libro X 1172a16 - 1176a29

2b1-7

(1) Introduzione Dobbiamo discutere il piacere per il suo rapporto con il fine; la virtù morale si sviluppa attraverso il piacere e il dolore; la maggior parte della gente associa il piacere al vivere bene

2a16-27

(1) Introduzione L’importanza del piacere deriva dal suo ruolo nell’educazione morale; la virtù morale consiste nell’odiare e amare le cose appropriate; il piacere ci attira durante tutta la nostra vita

2b2-8

(2) Varie tesi (i) Nessun piacere è bene (ii) Alcuni piaceri sono buoni, ma per lo più sono cattivi (iii) Anche se tutti i piaceri sono buoni, il bene non è (un) piacere

2a28-b8

(2) Varie tesi (i) Il piacere s’identifica con il bene (tesi di Eudosso) (ii) Il piacere è vergognoso

2b12-24

(3) Ragionamenti a sostegno di (2) (i)-(iii) (i) (a) piacere sembra un cambiamento (genesis), ma nessun cambiamento è un fine (b) i temperati fuggono dal piacere

(c) i saggi cercano l’assenza di dolore (d) il piacere ostacola il pensiero (e) non c’è arte del piacere (f) bambini e animali cerrcano il piacere

(ii) Alcuni piaceri sono vergognosi, dannosi o malati

(iii) Il piacere è un cambiamento e non un fine

2b9-25

(3) Ragionamenti a sostegno di (2) (i) (a) tutti gli esseri scelgono il piacere; ciò che è

scelto per se stesso è il bene (b) Eudosso lo dice nonostante la sua

temperanza (c) il dolore, che è l’opposto del piacere, è un

male e sempre da fuggire (d) il piacere migliora altri beni

2b25- 3a35

(4) I ragionamenti di Aristotele Contro (i) e (ii): molti piaceri sono buoni al

momento giusto; piaceri turpi non sono veramente piaceri

Contro (i) (a) e (iii): non tutti i piaceri sono cambiamenti; alcuni sono perfetti/completi; il piacere è un’attualizzazione

Contro (ii): alcuni dei piaceri cattivi lo sono solo in senso relativo

Contro (i) (d), (e), (b-c), (f): è l’eccesso che rende i piaceri cattivi

2b26-4a12

(4) Ragionamenti contro (2) (i) (a) l’intelligenza aggiunta al piacere lo

migliora (Platone) (b) non è vero che ciò che tutti desiderano è il

bene (c) il dolore ha due opposti: il piacere e il

bene, quindi questi non sono identici (Speusippo)

(d) il piacere non è una qualità (e) il piacere è indeterminato, mentre il bene è

determinato (Platone e i pitagorici) (f) il piacere è un movimento (genesis) (g) alcuni piaceri sono vergognosi (h) gli amici non sono lusighieri perché

vogliono il nostro bene e non solo il nostro piacere

(i) ci sono cose che dobbiamo volere anche senza piacere

3b1- 4a7

(5) La posizione di Aristotele Il piacere è l’opposto del dolore e del male; il ragionamento di Speusippo sugli opposti non regge; quindi il bene potrebb’essere (un) piacere, visto che il piacere è un’attualizzazione senza ostacoli. Che tutti gli esseri cercano il piacere è pacifico La gente s’inganna nel pensare che tutti i piaceri sono piaceri del corpo

4a13-5a3

(5) La posizione di Aristotele Il piacere è come la percezione: è completo in ogni momento. È una perfezione aggiunta all’attualizzazione: ‘come la bellezza per quelli che sono nel fiore della giovinezza’

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Aristotele, Etica nicomachea X

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4a8-b34

(6) Il bene dei piaceri del corpo Seguire i piaceri eccessivi fa male; ma il piacere rimpiazza il dolore; i piaceri che non presuppongono un dolore antecedente non possono incorrere nell’eccesso; la natura composta dell’uomo spiega perché non può godere senza interruzione: solo Dio può aver un semplice piacere perpetuamente

5a3-6a29

(6) Risoluzione di alcuni problemi Perché nessuno gode senza interruzione Perché ha senso dire che tutti cercano il

piacere e la connessione tra piacere e attualizzazione

Perché i piaceri sono di tipi diversi Perché il piacere migliora le prestazioni Perché un piacere in un’attualizzazione può

essere cattivo: perché lo è l’attualizzazione Ogni tipo di creatura ha i propri piaceri, e il

buon esempio della specie determina il criterio del piacere verace per la specie

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Aristotele (384-322 a.C) Politica,

(traduzione R. Laurenti) Libro I Capitolo ix.

[Bekker pag. 1256b] [Aristotele ha appena discusso l’arte di acquisizione naturale per amministratori della casa e

dello stato] C’è un’altra forma d’acquisizione che in modo particolare chiamano, ed è giusto chiamare,

crematistica, a causa della quale sembra non esista limite alcuno di ricchezza e di proprietà [pag. 1257a]: molti ritengono che sia una sola e identica con quella predetta per la sua affinità, mentre non è identica a quella citata e neppure molto diversa. Il vero è che delle due una è per natura, l’altra non è per natura e deriva piuttosto da una forma di abilità e di tecnica.

Per trattarne prendiamo l’inizio di qui. Ogni oggetto di proprietà ha due usi: tutt’e due

appartengono all’oggetto per se, ma non allo stesso modo per sé: l’uno è proprio, l’altro non è

proprio dell’oggetto: ad es. la scarpa può usarsi come calzatura e come mezzo di scambio.

Entrambi sono modi di usare la scarpa: così chi baratta un paio di scarpe con chi ne ha bisogno in

cambio di denaro o di cibo, usa la scarpa in quanto scarpa, ma non secondo l’uso proprio, perché

la scarpa non è fatta per lo scambio. Lo stesso vale per gli altri oggetti di proprietà. In realtà di

tutto si può fare scambio: esso trae la prima origine da un fatto naturale, che cioè gli uomini

hanno di alcune cose più del necessario, di altre meno (per cui è anche chiaro che il piccolo

commercio non fa parte per natura della crematistica, ché allora avrebbero dovuto fare lo

scambìo ìn rapporto a quanto ad essi bastava).

Nella prima forma di comunità, e cioè la famiglia, è evidente che lo scambio non ha alcuna

funzione: esso sorge quando la comunità è già più numerosa. I membri della famiglia avevano in

comune le stesse cose, tutte; una volta separati, ne ebbero in comune molte, e anche diverse – e

di queste dovettero fare lo scambio secondo i bisogni, come ancora fanno molti dei popoli

barbari, ricorrendo al baratto. Essi infatti scambiano oggetti utili contro oggetti utili ma non

vanno al di là di questo, dando per es. o prendendo vino contro grano, e così via per ogni altro

genere di tali prodotti. Un siffatto scambio non è contro natura e neppure è una forma di

crematistica (giacché tendeva a completare l’autosufficienza voluta da natura): da questa, però, è

sorta logicamente quella.

Perché quando l’aiuto cominciò a venire da terre più lontane, mediante l’importazione di ciò

di cui avevano bisogno e l’esportazione di ciò che avevano in abbondanza, s’introdusse di

necessità l’uso della moneta. Infatti non si può trasportare facilmente tutto ciò che serve alle

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Aristotele, Politica

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necessità naturali e quindi per effettuare il baratto si misero d’accordo di dare e prendere tra loro

qualcosa che, essendo di per sé utile, fosse facile a usarsi nei bisogni della vita, come il ferro,

l’argento e altri metalli del genere, definito dapprima alla buona mediante grandezza e peso

mentre più tardi ci impressero anche uno stampo per evitare di misurarlo – e lo stampo fu

impresso come segno della quantità.

[pag. 1257b] Dunque, una volta trovata la moneta in seguito alla necessità dello scambio,

sorse l’altra forma di crematistica, il commercio al minuto, esercitato dapprima probabilmente in

forma semplice, ma che in seguito, grazie all’esperienza, divenne sempre più organizzato,

cercando ormai le fonti e il modo di ricavare i più grossi profitti mediante lo scambio. Per

questo, quindi, pare che la crematistica abbia da fare principalmente col denaro e che la sua

funzione sia di riuscire a scorgere donde tragga quattrini in grande quantità, perché essa produce

ricchezza e quattrini.

Se spesso si ritiene che la ricchezza consista nel possedere molti denari è proprìo perché a

questo tendono la crematistica e il commercio al minuto. Al contrario taluni ritengono la moneta

un non senso, una semplice convenzione legale, senz’alcun fondamento in natura, perché,

cambiato l’accordo tra quelli che se ne servono, non ha più valore alcuno e non è più utile per

alcuna delle necessità della vita, e un uomo ricco di denari può spesso mancare del cibo

necessario: certo, strana davvero sarebbe tale ricchezza, che, pur se posseduta in abbondanza,

lascia morire di fame, come appunto il mito tramanda di quel famoso Mida, il quale, per il voto

suggerito dalla sua insaziabilità, trasformava in oro tutto quanto gli si presentava.

Per ciò cercano una ricchezza e una crematistica che sia qualcosa di diverso, ed è ricerca

giusta: in realtà la crematistica e la ricchezza naturale sono diverse perché l’una rientra

nell’amministrazione della casa, l’altra nel commercio e produce ricchezza, ma non comunque,

bensì mediante lo scambio di beni: ed è questa che, come sembra, ha da fare col denaro perché il

denaro è principio e fine dello scambio. Ora, questa ricchezza, derivante da tale forma di

crematistica, non ha limiti e, invero, come la medicina è senza limiti nel guarire, e le singole arti

sono senza limiti nel produrre il loro fine, (perché è proprio questo che vogliono raggiungere

soprattutto) mentre non sono senza limiti riguardo ai mezzi per raggiungerlo (perché il fine

costituisce per tutte il limite), allo stesso modo questa forma di crematistica non ha limiti rispetto

al fine e il fine è precisamente la ricchezza di tal genere e l’acquisto dei beni.

Ma della crematistica che rientra nell’amministrazione della casa, si dà un limite giacché non

è compito dell’amministrazione della casa quel genere di ricchezze. Sicché da questo punto di

vista appare necessario che ci sia un limite a ogni ricchezza, mentre vediamo che nella realtà

avviene il contrario: infatti tutti quelli che esercitano la crematistica accrescono illimitatamente il

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Aristotele, Politica

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denaro. Il motivo di questo è la stretta affinità tra le due forme di crematistica: e infatti l’uso che

esse fanno della stessa cosa le confonde l’una con l’altra. In entrambe si fa uso degli stessi beni,

ma non allo stesso modo, ché l’una tende a un altro fine, l’altra all’accrescimento.

Di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione dell’amministrazione

domestica e vivono continuamente nell’idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza

in denaro all’infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di

vivere bene [pag. 1258a], e siccome i loro desideri si stendono all’infinito, pure all’infinito

bramano mezzi per appagarli. Quanti poi tendono a vivere bene, cercano quel che contribuisce ai

godimenti del corpo e poiché anche questo pare che dipenda dal possesso di proprietà, tutta la

loro energia si spende nel procurarsi ricchezze, ed è per tale motivo che è sorta la seconda forma

di crematistica. Ora, siccome per loro il godimento consiste nell’eccesso, essi cercano l’arte che

produce quell’eccesso di godimento e se non riescono a procurarselo con la crematistica ci

provano per altra via, sfruttando ciascuna facoltà in maniera non naturale. Così non s’addice al

coraggio produrre ricchezze ma ispirare fiducia, e neppure s’addice all’arte dello stratego o del

medico, ché proprio della prima è procurare la vittoria, dell’altra la salute. Eppure essi fanno di

tutte queste facoltà mezzi per procurarsi ricchezze, nella convinzione che sia questo il fine e che

a questo fine deve convergere ogni cosa.

Si è detto a proposito della crematistica non necessaria qual è e per quale motivo ne abbiamo

bisogno, e a proposito di quella necessaria che è differente dall’altra, è parte

dell’amministrazione della casa, è secondo natura, essa che bada ai mezzi di sostentamento, e

non è, come l’altra, senza limiti, ma ha dei confini precisi.

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Aristotele (384-322 a.C)

Metafisica

traduzione Antonio Russo

[Bekker pag. 1072a]

Libro XII (Lambda)

Capitolo vii (Dio, atto puro, pensiero di pensiero)

Poiché è possibile che le cose stiano nel modo da noi prospettato – del resto, se si respinge

questa nostra spiegazione, tutte le cose deriverebbero dalla notte o dal ‘tutto-insieme’ o dal non-

essere –, si possono ritenere risolte le precedenti aporie; esiste, quindi, qualcosa che è sempre

mossa secondo un moto incessante, e questo moto è la conversione circolare (e ciò risulta con

evidenza non solo in virtù di un ragionamento, ma in base ai fatti), e di conseguenza si deve

ammettere l’eternità del primo cielo. Ed esiste, pertanto, anche qualcosa che provoca il moto del

primo cielo. Ma poiché ciò che subisce e provoca il movimento è un intermedio, c’è, tuttavia, un

qualcosa che provoca il movimento senza essere mosso, un qualcosa di eterno che è, insieme,

sostanza e atto.

Un movimento di tal genere è provocato sia da ciò che è oggetto di desiderio sia da ciò che è

oggetto di pensiero. Ma questi due oggetti, se vengono intesi nella loro accezione più elevata,

sono tra loro identici. Infatti, è oggetto del nostro desiderio il bello nel suo manifestarsi, mentre è

oggetto principale della nostra volontà il bello nella sua autenticità; ed è più esatto ritenere che

noi desideriamo una cosa perché ci si mostra bella, anziché ritenere che essa ci sembri bella per

il solo fatto che noi la desideriamo: principio è, infatti, il pensiero. Ma il pensiero è mosso

dall’intellegibile, e una delle due serie di contrari è intellegibile per propria essenza, e il primo

posto di questa serie è riservato alla sostanza, e, nell’ambito di questa, occupa i primoposto

quella sostanza che è semplice ed è in-atto (e l’uno e il semplice non sono la medesima cosa,

giacché, il terrine ‘uno’ sta ad indicare che un dato oggetto è misura di qualche altro, mentre il

termine ‘semplice’ sta ad indicare che l’oggetto stesso è in un determinato stato). Ma tanto il

bello quanto ciò che per la sua essenza è desiderabile rientrano nella medesima categoria di

contrari; e ciò che occupa il primo posto della serie è sempre ottimo o analogo all’ottimo.

La presenza di una causa finale negli esseri immobili è provata dall’esame diairetico del

termine [pag. 1072b]: infatti, la causa finale non è solo in vista di qualcosa, ma è anche proprietà

di qualcosa, e, mentre nella prima accezione non può avere esistenza tra gli esseri immobili,

nella seconda accezione può esistere tra essi. Ed essa produce il movimento come fa un oggetto

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Aristotele, Metafisica

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amato, mentre le altre cose producono il movimento perché sono esse stesse mosse. Pertanto, una

cosa che è mossa può essere anche altrimenti da come essa è, e di conseguenza il primo mobile,

quantunque sia in atto, può — limitatamente al luogo, anche se non alla sostanza — trovarsi in

uno stato diverso, in virtù del solo fatto che è mosso; ma, poiché c’è qualcosa che produce il

movimento senza essere, esso stesso, mosso ed essendo in-atto, non è possibile che questo

qualcosa sia mai altrimenti da come è. Infatti, il primo dei cangiamenti è il moto locale, e,

nell’ambito di questo, ha il primato la conversione circolare, e il moto di quest’ultima è prodotto

dal primo motore.

Il primo motore, dunque, è un essere necessariamente esistente e in quanto la sua esistenza è

necessaria, si identifica col bene e, sotto questo profilo, è principio. Il termine ‘necessario’,

infatti, si usa nelle tre accezioni seguenti: come ciò che è per violenz perché si oppone

all’impulso naturale, come ciò senza di cui noi può esistere il bene e, infine, come ciò che non

può essere altrimenti da come è, ma solo in un unico e semplice modo.

È questo, dunque, il principio da cui dipendono il cielo e la natura. Ed esso è una vita simile a

quella che, per breve tempo, è per noi la migliore. Esso è, invero, eternamente in questo stato

(cosa impossibile per noi!), poiché il suo atto è anche piacere (e per questo motivo il ridestarsi, il

provare una sensazione, il pensare sono atti molto piacevoli, e in grazia di questi atti anche

speranze e ricordi arrecano piacere). E il pensiero nella sua essenza ha per oggetto ciò che, nella

propria essenza, è ottimo, e quanto più esso è autenticamente se stesso, tanto più ha come suo

oggetto ciò che è ottimo nel modo più autentico.

L’intelletto pensa se stesso per partecipazione dell’intellegibile, giacché esso stesso diventa

intellegibile venendo a contatto col suo oggetto e pensandolo, di modo che intelletto e

intellegibile vengono ad identificarsi. È, infatti, l’intelletto il ricettacolo dell’intellegibile, ossia

dell’essenza, e l’intelletto, nel momento in cui ha il possesso del suo oggetto, è in-atto, e di

conseguenza l’atto, piuttosto che la potenza, è ciò che di divino l’intelletto sembra possedere, e

l’atto della contemplazione è cosa piacevole e buona al massimo grado.

Se, pertanto, Dio è sempre in quello stato di beatitudine in cui noi veniamo a trovarci solo

talvolta, un tale stato è meravii glioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore, essa è

oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio è, appunto, in tale stato! Ed è sua proprietà la

vita, perché l’atto dell’intelletto è vita, ed egli è appunto quest’atto, e l’atto divino, nella sua

essenza, è vita ottima ed eterna. Noi affermiamo, allora, che Dio è un essere vivente, sicché a

Dio appartengono vita e durata continua ed eterna: tutto questo, appunto, è Dio!

Ci sono, però, alcuni che, come i Pitagorici e Speusippo, ritengono che il bello e il bene, nel

loro sommo grado, non risiedano nel principio, perché, a loro avviso, i principi delle piante e

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Aristotele, Metafisica

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degli animali sono cause, mentre la bellezza e la perfezione risiedono soltanto in ciò che dai

principi viene prodotto. Ma siffatte credenze sono errate. In realtà, il seme proviene da altri

esseri anteriori che sono già perfetti, e la prima cosa non è affatto seme,i a ma ciò che è già

perfetto [pag. 1073a]; così, ad esempio, si può dire che anteriore al seme è l’uomo, non, però,

quello che proviene dal seme, bensì un altro da cui il seme stesso proviene.

Da quanto abbiamo detto risulta, quindi, con evidenza che esiste una sostanza eterna e

immobile e separata dagli esseri sen sibili, e noi abbiamo anche dimostrato che questa sostanza

non può avere grandezza alcuna, ma è priva di parti e indivisibile (essa, infatti, produce il

movimento per tutta l’infinità del tempo, mentre nessuna cosa che sia finita possiede un potere

infinito, e perciò, dato che ogni grandezza non potrebbe essere se non o infinita o finita, questa

sostanza non potrebbe possedere una grandezza finita; ma, d’altra parte, non potrebbe avere

neppure una grandezza infinita, perché non esiste assolutamente alcuna grandezza che

siainfinita); ma noi abbiamo anche dimostrato che una tale sostanza non è soggetta a passione e

ad alterazione, giacché tutti gli altri movimenti sono posteriori a quello locale.

Ecco le ragioni che ci spiegano con chiarezza perché siano queste le proprietà della sostanza

divina.

Capitolo viii (Le sfere celesti)

Non deve sfuggire alla nostra attenzione la questione se dobbiamo ritenere che esista una sola

sostanza di tal genere oppure ne esistano di più e, in questo secondo caso, quante esse siano, ma

dobbiamo anche richiamare alla memoria quanto hanno dichiarato gli altri filosofi e far presente

che, per quanto concerne il numero delle sostanze, essi non hanno detto nulla che si possa

ritenere formulato con chiarezza.

La dottrina delle idee non presenta, da parte sua, alcuna indagine che riguardi peculiarmente

questo problema (difatti gli idealisti sostengono che le idee sono numeri, e talora parlano dei

numeri come se questi fossero infiniti, talora, invece, come se fossero limitati alla dècade, ma

quale sia il motivo per cui debbano essere proprio tanti essi non lo dicono affatto con una

dimostrazione rigorosa). A noi, invece, spetta il compito di parlarne in base alle assunzioni e alle

distinzioni che abbiamo fatte precedentemente.

Il primo principio, il primo fra tutti gli esseri, è immobile, sia i per essenza sia per accidente,

ed infonde il primo movimento che è eterno ed uniforme; ma, poiché necessariamente ciò che è

mosso è mosso da qualcosa, e il primo motore è immobile per essenza, e il movimento eterno è

provocato da qualcosa di eterno, e quello unico da qualcosa di unico, e poiché, d’altra parte, noi

vediamo che, oltre la semplice traslazione dell’universo — traslazione che noi affermiamo essere

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Aristotele, Metafisica

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provocata dalla sostanza prima ed immobile —, si verificano anche altre traslazioni, ossia quelle

degli astri, che sono anch’esse eterne (infatti, quel corpo che compie un moto circolare è eterno e

non si può mai fermare; e di ciò abbiamo dato dimostrazione nella Fisica), allora è

indispensabile che anche ciascuna di queste traslazioni venga provocata da una sostanza che sia

essenzialmente immobile ed eterna. Infatti, la natura degli astri è eterna, essendo una specie

determinata di sostanza, e il loro motore è eterno ed anteriore a ciò che è mosso, e ciò che è

anteriore ad una sostanza deve essere necessariamente una sostanza. Risulta evidente, pertanto,

che vi deve essere un ugual numero di sostanze che siano eterne per loro natura ed immobili per

essenza, oltre che prive di grandezza per il motivo precedentemente rilevato.

[pag. 1073b] Resta chiarito, allora, che i motori sono sostanze e che occupano un primo e un

secondo posto secondo lo stesso ordine della traslazione degli astri; ma, a questo punto, lo studio

del numero delle traslazioni deve essere rinviato a quella che, fra le scienze matematiche, si

approssima di più alla filosofia, ossia all’astronomia: questa, infatti, ha come oggetto delle sue

indagini una sostanza che è sensibile ma eterna, mentre le altre scienze matematiche — quali, ad

esempio, l’aritmetica e la geometria — non hanno a che fare con alcuna sostanza. Ma che il

numero dei movimenti di traslazione superi quello dei corpi che si spostano localmente, è una

cosa evidente anche a chi abbia una modesta competenza in questo campo di studi (infatti,

ciascuno degli ast non fissi compie più di uno spostamento); comunque, per quani concerne il

numero di queste traslazioni, noi ora, tanto per darne un’idea, intendiamo riportare le teorie di

alcuni matematici, affinché si offra al pensiero la possibilità di concepirne un numero più o meno

determinato; quanto al resto, in parte dobbiamo ind: gare noi stessi, in parte dobbiamo affidarci

alle indagini degli specialisti, e qualora i competenti in questo campo giungano a qualche

conclusione che differisca da quelle ora esposte da noi, dobbiamo nutrire affettuoso rispetto per

gli opposti punti di vista, ma dobbiamo seguire quelli che sono più esatti.

Eudosso sostiene che il movimento di traslazione tanto do sole quanto della luna si compie

nell’ambito di tre sfere, la pi esterna delle quali, secondo lui, è quella delle stelle fisse; la

seconda è quella che si muove nel cerchio che biseziona longitudinalmente lo zodiaco; la terza è

quella che si muove in un cerchio che è inclinato attraverso la latitudine dello zodiaco (ma il

cerchio secondo cui si sposta la luna è inclinato secondo un angolo che è maggiore rispetto a

quello del cerchio secondo cui sposta il sole); il moto di traslazione di ciascun pianeta si attua

mediante quattro sfere, e le prime due di queste sono identiche alle prime due del sole e della

luna (infatti, la sfera delle stelle fisse è quella che imprime il movimento a tutte quante le altre

sfere, quella che è disposta in ordine dopo di essa e che compie la propria traslazione nel cerchio

che biseziona lo zodiaco, è comune a tutti i pianeti); invece la terza sfera di tutti i pianeti ha i

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Aristotele, Metafisica

102

suoi poli nel cerchio che biseziona lo zodiaco, e, infine, la quarta sfera compie la traslazione

lungo un cerchio che è inclinato in rapporto al l’equatore della terza; a proposito, poi, della terza

sfera, menta ciascuno degli altri pianeti ha poli propri, Afrodite ed Erme: hanno entrambi i

medesimi poli.

Callippo era d’accordo con Eudosso circa la posizione delle sfere [ossia circa l’ordine delle

loro distanze]; ma, per quanto concerne il numero delle sfere, mentre assegnava a Zeus e a

Cronos lo stesso numero già assegnato da Eudosso, era, invece, del parere che, perché si potesse

dare un conto preciso dei fenomeni, si dovessero aggiungere ancora due sfere sia al sole sia alla

luna e una sola sfera a ciascuno degli altri pianeti.

Ma, perché si possa dare veramente il conto preciso dei fenomeni mediante la combinazione di

tutte le sfere [pag. 1074a], ci devono essere, per ciascuno dei pianeti, ancora altre sfere che,

rispetto a quelle sopra accennate, siano di ugual numero meno uno, e devono girare in senso

inverso rispetto a quelle e riportare alla medesima posizione la prima sfera dell’astro che, in ogni

caso, è disposto in ordine al di sotto di un altro; in questo modo soltanto, la combinazione di tutte

le sfere può effettuare la traslazione dei pianeti. Poiché, pertanto, le sfere in cui si compiono

queste traslazioni sono otto per Zeus e Cronos e venticinque per gli altri pianeti, e poiché tra

queste sfere le uniche a non dover girare in senso inverso sono quelle in cui si compie la

traslazione dell’astro disposto al di sotto, allora ci saranno sei sfere che faranno girare in senso

inverso i due primi pianeti, e sedici che faranno girare gli altri quattro; e il numero di tutte le

sfere che provocano sia la traslazione diretta sia quella inversa è cinquantacinque. Qualora, però,

alla luna e al sole non si aggiungano quei movimenti di cui abbiamo parlato, le sfere saranno in

tutto quarantasette.

Ammettiamo, intanto, che tale sia il numero delle sfere; di conseguenza, è conforme a ragione

supporre che siano di uguale numero anche le sostanze e i principi immobili [e quelli sensibili]

(lasciamo a quelli che sono più competenti di noi il compito di spiegare perché ciò sia

necessario); comunque, se non è possibile che esista alcun moto locale il quale non si riconduca

alla traslazione di un astro, e se, inoltre, ogni entità naturale ed ogni sostanza la quale non sia

soggetta a passione e abbia di per sé conseguito il bene nel grado più alto, si deve concepire

come fine, allora non potrà esistere al di fuori di queste nessun’altra entità naturale, ma

necessariamente il numero delle sostanze è quello che abbiamo detto. Se, infatti, ci fossero altre

sostanze, queste dovrebbero produrre un movimento, dal momento che esse sarebbero il fine del

moto di traslazione; ma è impossibile che esistano altri moti di traslazione oltre quelli da noi

rilevati. Ed è conforme a ragione fare una tale supposizione in base ai corpi che si muovono

localmente.

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Aristotele, Metafisica

103

Se, infatti, tutto ciò che provoca uno spostamento esiste naturalmente in vista dell’oggetto

che viene spostato, e se ogni spostamento è proprietà di un qualcosa che viene spostato, non può

riscontrarsi alcuno spostamento che abbia come fine se stesso o un altro spostamento, ma tutti gli

altri spostamenti che esistono hanno gli astri come loro causa finale. Se, infatti, ci fosse una

traslazione, allora sarebbe indispensabile che anche quest’altra avesse come fine un’altra cosa; e,

quindi, poiché non è possibile procedere all’infinito, verrà ad essere fine di ogni traslazione

qualcuno dei corpi divini che si spostano attraverso il cielo.

Che, poi, esista un solo universo è cosa evidente. Se, infatti,esistesse una pluralità di universi,

così come esiste una pluralità di uomini, il principio di ciascuno di essi sarebbe uno solo per

specie, ma per numero ve ne sarebbero molti. Ma tutte le cose che sono molte per numero non

sono prive di materia (una sola medesima definizione, infatti, — come, ad esempio, quella di

uomo — va applicata ad una pluralità di cose; Socrate, invero, è uno solo); invece, l’essenza,

quella originaria, non ha materia, perché è entelechia. Ecco perché uno solo per concetto e per

numero è il primo motore che è immobile; e di conseguenza è anche uno solo quello che è mosso

eternamente e in modo continuo: epperò c’è un unico e solo universo!

[pag. 1074b] Da parte di antichi pensatori, vissuti in remotissime età, è stato tramandato ai

posteri sotto forme mitiche che questi corpi celesti sono dèi e che la divinità contiene in sé

l’intera natura. E le altre cose sono state aggiunte in tempi posteriori sempre informa mitica per

suscitar persuasione nelle masse e per indurleal rispetto delle leggi e delle comuni utilità; e così

si dice che gli dèi hanno forma umana e che sono simili a certi altri animali, e a queste

caratteristiche se ne sono andate aggiungendo altre che sono il sèguito di quelle precedenti e

sono simili ad esse. Ma se si assumesse, separandola da tutto il resto, soltanto la concezione

originaria, ossia la credenza secondo cui le prime sostanze sono divinità, si potrebbe reputare che

gli antichi parlarono in modo divino e che, mentre verosimilmente ogni arte ed ogni filosofia si è

più volte perfezionata fino ai limiti del possibile e poi di nuovo è andata perduta, quelle loro

opinioni, invece, sono state conservate fino ai nostri giorni come reliquie! Entro questi limiti

soltanto ci riesce chiaramente comprensibile la mentalità dei nostri padri e dei pensatori più

antichi.

Capitolo ix (Natura del divino Intelletto)

Alcune difficoltà, però, si presentano per quanto concerne la natura dell’Intelletto; sembra,

infatti, che esso sia il più divinodei fenomeni; ma, quando si voglia spiegare questo suo modo di

essere, si incontrano alcuni ostacoli. Infatti, se esso non pensa nulla, in nulla verrebbe a risiedere

la sua dignità, ma esso si troverebbe nello stato di un uomo addormentato; se, invece, esso pensa

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Aristotele, Metafisica

104

ma pensa qualcosa che sia diversa da se stesso, allora il suo pensiero viene a dipendere da

qualche altra cosa, e in tal caso — poiché ciò che costituisce la sostanza dell’Intelletto non è

pensiero in atto, ma potenza di pensiero — esso non potrà essere la migliore di tutte le sostanze,

giacché la sua assoluta superiorità è sua proprietà solo in virtù del pensare. Inoltre, tanto nel caso

che la sua sostanza si identifichi con l’Intelletto quanto nel caso che si identifichi col pensiero,

qual è l’oggetto del pensiero?

Questo o pensa se stesso o pensa qualche altra cosa; e, se pensa qualche altra tosa, o pensa

sempre la stessa cosa o pensa cose che sono diverse di volta in volta. E, allora, c’è o non c’è

qualche differenza se esso pensi ciò che è bello oppure ciò che si presenta fortuitamente? O non

è piuttosto assurdo credere che certe cose siano l’oggetto del suo pensiero? È chiaro, quindi, che

esso pensa la cosa più divina e veneranda, e che non muta mai il suo oggetto, perché, se questo

mutasse, si avrebbe il cangiamento verso il peggio, oltre al fatto che una cosa di tal genere

implicherebbe già un movimento.

In primo luogo, pertanto, se l’Intelletto non è pensiero ma è potenza, allora è giusto reputare

che la continuità del pensiero gli procura fatica; in secondo luogo, poi, è ovvio che ci sarà un’al

tra cosa la quale è più veneranda dell’Intelletto, e questa cosa sarà l’oggetto stesso del suo

pensiero. E, invero, il pensare e l’atto del pensiero possono essere proprietà anche di chi pensa il

peggio, e di conseguenza, se quest’ultima alternativa va evitata (ché ci son cose che è meglio non

vedere anziché vedere!), il pensiero non potrà essere il bene supremo.

Epperò l’Intelletto pensa se stesso, se è vero che esso è il bene supremo, e il suo pensiero è

pensiero-di-pensiero.

Sembra che la scienza e la sensazione e l’opinione e il pensiero discorsivo abbiano come loro

oggetto una cosa che è ognora diversa da loro, ed abbiano solo incidentalmente come oggetto se

stessi. Inoltre, se il pensare e l’essere-pensato fossero cose tra loro differenti, in virtù di quale di

queste due cose il bene è proprietà del pensiero? Infatti, non c’è identità di essenza tra pensiero e

oggetto pensato. Ma è piuttosto vero che, in alcuni casi, la scienza si identifica col suo oggetto

[pag. 1075a]; e così, nel campo delle scienze produttive, qualora noi prescindiamo dalla materia,

sono oggetto della scienza la sostanza e l’essenza, mentre, d’altra parte, nel campo delle scienze

contemplative l’oggetto si identifica col concetto e col pensiero. Poiché, pertanto, quando si tratti

di cose immateriali, non sono cose diverse tra loro l’oggetto del pensiero e il pensiero, questi

ultimi verranno ad identificarsi tra loro, e così il pensiero sarà uno con l’oggetto pensato.

Resta, però, ancora da discutere la questione se l’oggetto pensato sia composto: se così

fosse, infatti, il pensiero cangerebbe nel passare da una parte all’altra dell’intero. Ma la risposta è

che tutto ciò che è immateriale è indivisibile — come l’intelletto umano, o, per meglio dire,

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Aristotele, Metafisica

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quello degli esseri composti, viene a trovarsi in un certo tempo (infatti esso non possiede il bene

in un dato momento oppure in un altro, ma nell’intera totalità di un attimo indivisibile attinge il

bene supremo, che è pur diverso da esso) —e che, d’altra parte, il pensiero-che-pensa-se-stesso è

appunto in questo stato per tutta quanta l’eternità.

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Epicuro da Samo (c. 341-270 a.C.)

Lettera a Meneceo

(riportato in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X, 122-35)

traduzione di Marcello Gigante

Epicuro saluta Meneceo.

[122] Nessuno che sia giovine indugi a filosofare, né divenuto vecchio si stanchi di filosofare:

perché l’età di ognuno non è mai immatura né troppo matura per la salute dell’anima. E chi

affermi che l’ora di filosofare non è ancora giunta oppure che è già passata è come se dicesse che

l’ora della felicità non è giunta o è già passata, sì che bisogna filosofare in gioventù e in

vecchiaia, perché mentre invecchiamo continuiamo la giovinezza nei beni per il grato ricordo del

passato e perché ancor giovini siamo ad un tempo già antichi per l’impavida sicurezza di fronte

al futuro. Dobbiamo dunque meditare su tutto ciò che ci possa procurare la felicità, perché, se

l’abbiamo, noi tutto abbiamo, se non l’abbiamo, noi tutto facciamo per averla.

[123] I precetti che ininterrottamente ti diedi poni in atto e medita, con la chiara

consapevolezza che essi sono gli elementi fondamentali di una vita bella. In primo luogo

considera la divinità un essere vivente immortale e beato – così come viene indicato dalla

comune nozione della divinità quasi impressa in noi dalla natura – e non attribuirle nulla che sia

allotrio alla sua immortalità o incompatibile con la sua beatitudine. Ma tieni ben fermo che ad

essa s’addice tutto ciò che può confermare e non eliminare la sua beatitudine e la sua

immortalità. Gli dèi infatti esistono. Evidente è la loro conoscenza. Ma non esistono quali il

volgo crede, perché ritenendo che siano tali quali crede, non li salva, ma li elimina. Empio non è

chi elimina gli dèi del volgo, ma chi applica agli dèi le opinioni’ dei volgo. [124] Perché le

affermazioni del volgo sugli dèi non sono prolessi o vere prenozioni o anticipazioni, bensì

ipolessi o false supposizioni. A causa di tali false supposizioni si fanno derivare da parte degli

dèi grandissimi danni e benefìci. Ma coloro che hanno una perenne familiarità con le proprie

virtù accolgono un’immagine coerente degli dèi e respingono come ad essi allotrio tutto ciò che

non si conforma alla loro natura.

Abbi sempre a te consueto il pensiero che nulla è per noi la morte. Ogni bene infatti ed ogni

male è nella sensazione, e la morte è privazione della sensazione. Onde la retta conoscenza che

nulla è per noi la morte rende godibile la mortalità della vita, non perché vi aggiunga un tempo

interminato, ma perché elimina il desiderio dell’immortalità.

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Epicuro, A Meneceo

107

[125] Ché nulla di terribile vi è nel vivere per chi abbia la schietta consapevolezza che nulla

di terribile vi è nel non vivere. Sì che vaneggia chi dice di temere la morte non perché presente

possa arrecarci dolore, ma perché imminente ci addolora. Ciò infatti che presente non ci turba,

quando è atteso arreca un dolore inconsistente. Dunque il più rabbrividente dei mali, la morte,

nulla! è per noi, perché, quando noi siamo, la morte non è presente, e quando è presente la

morte, allora noi non siamo. Nulla è dunque la morte per i vivi, nulla è per i morti perché negli

uni essa non è, gli altri non sono più. Ma il volgo ora fugge la morte come il più grande dei mali

ora <la cerca> come cessazione <dei mali> della vita.

[126] <Ma il sapiente né rinunzia al vivere> né ha paura del non vivere; ché il vivere non gli

arreca tedio né egli crede che sia un male il non vivere. E come non sceglie alla rinfusa il più

gran numero di cibi, ma solo i più soavi così anche non del tempo più lungo, ma dei più soave

coglie il frutto. Chi poi ammonisce il giovine a ben vivere, il vecchio a ben morire, è stolto, non

solo per quel che di attraente ha la vita, ma anche perché la meditazione su una vita bella

coincide con la meditazione su una morte bella. Ma ancor peggio è chi dice «bello non esser

nati, ma, nati, al più presto varcare le porte dell’Ade».

[127] Ché se è convinto di quel che dice, perché mai non si allontana dalla vita ? Gli sarebbe

stato molto facile, se il suo convincimento fosse stato saldo. Ma se lo dice per celia, vaneggia in

argomenti che ripugnano al vaneggiamento.

Dobbiamo ricordare che il futuro non è nostro né è del tutto non nostro, sì che né in ogni

modo ci attendiamo che si realizzerà né disperiarno che non si realizzerà in nessun modo.

Dobbiamo anche riflettere che dei desideri alcuni sono naturali, altri inconsistenti. E dei

naturali alcuni sono necessari, altri solo naturali; dei necessari alcuni sono necessari alla felici

altri all’imperturbata tranquillità del corpo, altri al vivere stesso. [128] Ché una corretta

intelligenza di questa teoria sa dirigere ogni scelta e avversione alla salute del corpo e alla

perfetta tranquillità dell’anima, perché questo è il compimento supremo della vita beata. E a

questo fine indirizziamo ogni nostra azione, perché il corpo non soffra né l’anima si sgomenti, e,

una volta che ciò abbiamo ottenuto, si dissolve tutta la tempesta dell’anima, poiché l’essere

vivente non ha da procedere ad altro come a cosa di cui abbia bisogno né da cercare altro con cui

si possa realizzare il bene dell’anima e dei corpo. Ché allora noi abbiamo bisogno dei piacere

quando soffriamo nella carne per l’assenza dei piacere; ma quando non soffriamo nella carne,

non abbiamo più bisogno dei piacere. E per questo noi affermiamo che il piacere è principio e

fine della vita beata. [129] Perché, come abbiamo riconosciuto, esso è il nostro primo e

congenito bene e da esso moviamo per ogni scelta e avversione e ad esso torniamo usando come

criterio discriminante di ogni bene il sentimento dei piacere e del dolore. E poiché il piacere è il

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Epicuro, A Meneceo

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nostro primo e congenito bene, anche per questo non scegliamo ogni piacere, ma talvolta

passiamo sopra a molti piaceri, quando ne consegua a noi maggior molestia; e molti dolori

consideriamo superiori ai piaceri, quando a noi consegua maggior piacere dall’averli per molto

tempo sopportati. Ogni piacere dunque, per avere una natura a noi conforme, è un bene, ma non

per questo i ogni piacere è da scegliersi, così come anche ogni dolore è un male, ma non ogni

dolore è sempre, per sua natura, da fuggirsi. [130] Conviene dunque discriminare tutte queste

cose col calcolo di ciò che è utile e la considerazione di ciò che è dannoso perché certe volte il

bene è per noi un male, altre volte il male è per noi un bene.

Anche l’autarchia o il bastare a se stessi noi consideriamo un grande bene, non perché in ogni

modo dobbiamo contentarci del poco, ma perché se non abbiamo il molto ci contentiamo del

poco, schiettamente persuasi che tanto più soavemente si gode l’abbondanza quanto meno se ne

ha bisogno, e che ogni desiderio conforme alla natura si può agevolmente soddisfare, ogni

desiderio vano è di difficile attuazione. Infatti un vile sapore apporta un piacere pari a quello di

una mensa sontuosa, una volta eliminata la sofferenza provocata dal bisogno. [131] E pane

ed acqua danno il supremo piacere quando li riceve chi ne ha un effettivo bisogno. Avere la

consuetudine di cibarsi semplicemente e non sontuosamente non solo ci garantisce la buona

salute e fa sì che l’uomo affronti senza indugio le inevitabili occupazioni della vita, ma anche ci

dispone meglio a gustare le mense sontuose che di quando in quando ci sopraggiungono e ci

rende impavidi dinanzi alla sorte.

Quando dunque noi diciamo che il piacere è il compimento supremo della felicità, non

intendiamo riferirci alle voluttà dei dissoluti ed ai godimenti sensuali, come pur vogliono alcuni

per ignoranza o dissenso o fraintendimento, intendiamo bensì l’assenza di sofferenza fisica e

l’imperturbata tranquillità dell’anima.

[132] Perché né un’ininterrotta serie di simposi e di festini né il godimento di fanciulli e di

donne né il gustare pesci e quante altre leccornie offra una tavola sontuosa producono la soave

vita, ma un sobrio calcolo che ricerchi le cause di ogni scelta e di ogni avversione e bandisca le

vane opinioni per opera delle quali un intenso tumulto s’impadronisce delle anime. Principio di

tutte queste cose e il più grande bene è la prudenza: perciò possesso più piezioso della filosofia è

la prudenza, da cui si originano naturalmente tutte le rimanenti virtù. Essa insegna che non può

esservi vita soave senza vivere con prudenza, moderazione e giustizia né può esservi vita

prudente moderata e giusta senza vivere soavemente. Perché le virtù sono connaturate alla vita

soave, e la vita soave ne è inseparabile.

[133] Credi pure che nessuno è superiore a un tale uomo. Egli ha una santa opinione intorno

agli dèi ed è perennemente impavido dinanzi alla morte. Riflette intensamente sul fine della

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Epicuro, A Meneceo

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natura ed ha chiara coscienza che il limite dei beni si può agevolmente realizzare ed

agevolmente ottenere e che il limite dei mali ha tempi e pene brevi. Egli infine proclama che <il

fato> introdotto da alcuni come signore di tutte le cose <è vana credenza ... ed afferma che

alcune cose accadono per necessità> altre per sorte, e che altre ancora sono in nostro potere,

perché è per lui evidente che la necessità è irresponsabile, la sorte è incostante e quel che è in

nostro potere è libero da ogni signoria e ad esso naturalmente s’accompagnano il biasimo e la

lode.

[134]Ché meglio sarebbe aderire ai miti sugli dèi che asservirsi al fato dei filosofi

naturalistici, perché i miti hanno quasi impressa in sé la speranza che gli dèi possano cedere alla

preghiera e agli onori che ad essi vengono tributati, il fato dei filosofi naturalistici ha invece una

necessità inflessibile. Né un tale uomo suppone che la sorte sia una divinità, come il volgo crede

– nessuna opera è compiuta da un dio disordinatamente –, e neppure un’instabile causa <di tutti i

beni e i mali degli uomini> – pensa infatti che essa non largisca agli uomini alcun bene o male

per la vita beata, benché fornisca l’avvio a grandi beni o mali –. [135] Egli crede che è meglio

cadere nell’avversa sorte ed essersi comportati assennatamente che godere i favori della sorte ed

essersi comportati sconsideratamente. Perché è preferibile che un’azione condotta con retto

criterio <allisca, anzi che un’azione condotta senza criterio> sia raddrizzata dalla sorte.

Questi precetti, dunque, ed altri a questi affini, giorno e notte, medita per te stesso e per essere

uguale a te stesso, né mai, né in veglia né in sogno, sarai turbato, ma vivrai come un dio tra gli

uomini, ché in nulla è simile a creatura mortale l’uomo che vive tra immortali beni.

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Epicuro di Samo (c. 341-270 a.C.)

Massime Capitali (riportate in Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, X, 139-54)

traduzione di Diego Fusaro 1. L'essere beato e immortale non ha affanni, ne ad altri ne arreca; è quindi immune da ira e da

benevolenza, perché simili cose sono proprie di un essere debole.

2. La morte non è niente per noi. Ciò che si dissolve non ha più sensibilità, e ciò che non ha

sensibilità non è niente per noi.

3. Il limite estremo della grandezza dei piaceri è la rimozione di tutto il dolore. Dove sia il

piacere, e per tutto il tempo che vi sia, non vi è posto per dolore fisico, o dell'anima, o per l'uno e

l'altro insieme.

4. Non dura ininterrottamente il dolore della carne; il suo culmine dura anzi un tempo

brevissimo; e ciò che di esso appena oltrepassa il piacere non si protrae molti giorni nella nostra

carne. Le lunghe malattie poi arrecano alla carne più piacere che dolore.

5. Non è possibile vivere felicemente senza anche vivere saggiamente, bene e giustamente, né

saggiamente e bene e giustamente senza anche vivere felicemente. A chi manchi ciò da cui

deriva la possibilità di vivere saggiamente, bene, giustamente, manca anche la possibilità di una

vita felice.

6. Al fine di procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini, anche i beni del comando e del

regno sono beni secondo natura in quanto con tali mezzi si sia capaci di procurarsela.

7. Alcuni vollero divenire famosi e rinomati ritenendo così di procurarsi sicurezza nei riguardi

degli altri uomini. Ammesso che in tal modo la loro vita sia diventata veramente sicura, essi

hanno acquistato un bene secondo natura; ma se la loro vita non lo è divenuta, non hanno

raggiunto quel bene secondo natura sotto il cui impulso hanno agito fin dall'inizio.

8. Nessun piacere è di per se stesso un male: però i mezzi per procurarsi certi piaceri arrecano

molti più tormenti che piaceri.

9. Se ogni piacere si intensificasse nel suo luogo e nella sua durata, e pervadesse tutto il nostro

composto o le parti più importanti del nostro essere, allora i piaceri non differirebbero gli uni

dagli altri.

10. Se le cose che danno luogo ai piaceri propri dei dissoluti fossero anche tali da liberarci dai

timori dell' animo circa i fenomeni celesti, la morte, il dolore, e ci insegnassero quale sia il limite

dei desideri, non avremmo niente da rimproverare a quelli: essi sarebbero infatti ricolmi di ogni

piacere e non avrebbero mai da soffrire fisicamente o da affliggersi, nel che consiste appunto il

male.

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Epicuro, Massime capitali

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11. Se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della morte, ch'essa possa essere

qualcosa che ci tocchi da vicino, e il non conoscere il confine dei piaceri e dei dolori, non

avremmo bisogno della scienza della natura.

12. Non sarebbe possibile dissolvere ogni timore intorno alle cose di maggior importanza se non

si sapesse quale sia la natura dell'universo, ma si vivesse in sospettoso timore delle cose che ci

raccontano i miti; non sarebbe possibile cogliere i piaceri nella loro purezza senza la scienza

della natura.

13. Non gioverebbe a niente il procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini finche si

continuasse a nutrire timore riguardo a ciò che sta sopra di noi, o sottoterra, o in generale

nell'infinito.

14. Se la sicurezza nei riguardi degli altri uomini deriva fino a un certo punto da una ben fondata

situazione di potenza e ricchezza, la sicurezza più pura proviene dalla vita serena e dall'appartarsi

dalla folla.

15. La ricchezza secondo natura ha confini ben precisi ed è facile a procacciarsi, quella secondo

le vane opinioni cade in un processo all'infinito.

16. Poca importanza ha la sorte per il saggio, perché le cose più grandi e importanti sono

governate dalla ragione, e cosi continuano e continueranno ad essere per tutto il corso del tempo.

17. Il giusto è privo in assoluto di turbamento, mentre l'ingiusto è ricolmo del turbamento più

grande.

18. Non cresce il piacere della carne, ma solo subisce variazione, una volta che sia rimossa tutta

la sofferenza che viene dal bisogno. Il limite dei piaceri che la ragione ci prescrive è prodotto dal

calcolo razionale di questi stessi e di tutte le affezioni dello stesso tipo, che procurano all'anima i

più grandi timori.

19. Un tempo illimitato contiene la stessa quantità di piacere che uno limitato, quando i confini

dei piaceri si valutino con retto calcolo.

20. La carne non ammette limiti nel piacere, e il tempo che serve a procurarle tale piacere è

anch'esso senza limiti. Ma il pensiero che ha appreso a ragionare intorno al fine e al limite di ciò

ch'è pertinente alla carne, e che ha soppresso il timore dell'eternità, ci rende possibile una vita

perfetta, per cui non sentiamo più l'esigenza di un tempo infinito: esso non rifugge dal piacere

ne, quando le circostanze ci portano al momento di uscire dalla vita, può dire di andarsene

avendo tralasciato qualcosa di ciò che rende questa ottima.

21. Chi conosce i limiti della vita, sa che è facile rimuovere il dolore che proviene dal bisogno e

ottenere ciò che rende la vita perfetta; sì che non ha affatto bisogno di tendere a cose che

comportino lotta.

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Epicuro, Massime capitali

112

22. Bisogna ben valutare il fine che ci è dato, e far sì di riportare tutte le nostre opinioni a una

certezza evidente; o tutto quanto sarà pieno di insicurezza di giudizio e di turbamento.

23. Se ti opporrai a tutte le sensazioni, non avrai più nemmeno criteri cui riferirti e perciò

neanche modo di giudicare quelle che tu dici essere errate.

24. Se rifiuterai una sensazione senza ben distinguere fra ciò ch'è dovuto a opinione, ciò che

attende conferma, ciò ch'è presente con evidenza in base a sensazione o ad affezione o a un

qualunque atto di intuizione rappresentativa della mente, finirai col confondere anche le altre

sensazioni con opinione vana, e non riuscirai più ad usare alcun criterio di giudizio. E se nelle

nozioni fondate sull'opinione tu farai valere ugualmente sia ciò che attende conferma sia ciò che

non riceve conferma, non potrai sfuggire all'errore, perché non ti sarai liberato assolutamente

dall'ambiguità nel giudizio circa la verità o falsità di una conoscenza.

25. Se in ogni circostanza non rapporterai la tua azione al fine secondo natura, ma, nella scelta o

nel rifiuto, ti indirizzerai ad altro fine, le tue azioni non saranno in coerenza con le tue parole.

26. Tutti quei desideri che, se non esauditi, non arrecano vera sofferenza non sono necessari: il

loro stimolo è tale da potersi annientare facilmente quando appaiano indirizzati a cose difficili a

ottenersi, o siano tali da recare danno.

27. Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è

l'acquisto dell'amicizia.

28. La medesima persuasione che ci incoraggiò a credere che nessun male è eterno o lungamente

duraturo ci fa anche ritenere che la sicurezza più grande che si attui nelle cose finite è quella

dell'amicizia.

29. Dei desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali e non necessari, altri ne naturali ne

necessari, ma nati solo da vana opinione.

30. Fra i desideri naturali che, se non vengono soddisfatti, non danno luogo a vera sofferenza, ve

ne sono di quelli in cui sussiste una forte tensione; e questi hanno origine da vana opinione: e ci è

difficile dissiparli non per la loro propria natura, ma per le stolte credenze degli uomini.

31. Il giusto fondato sulla natura è l'espressione dell'utilità che consiste nel non recare ne ricevere

reciprocamente danno.

32. Per tutti quegli esseri viventi che non ebbero la capacità di stringere patti reciproci circa il

non recare ne ricevere danno, non esiste ne il giusto ne l'ingiusto; e altrettanto si deve dire per

quei popoli che non poterono o non vollero stringere patti per non recare e non ricevere danno.

33. La giustizia non esiste di per se, ma solo nei rapporti reciproci, e in quei luoghi nei quali si

sia stretto un patto circa il non recare ne ricevere danno.

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Epicuro, Massime capitali

113

34. L'ingiustizia non è di per se un male, ma consiste nel timore che sorge dal sospetto di non

poter sfuggire a coloro che sono stati preposti a punirlo.

35. Colui che fa qualcosa di nascosto contro i patti stipulati reciprocamente circa il non recare ne

ricevere danno non può confidare di non essere scoperto, anche se per il presente ciò gli riesce

infinite volte: non può mai sapere se riuscirà a non farsi scoprire fino alla sua morte.

36. In senso generale il giusto è uguale per tutti, in quanto è un accordo di utilità reciproca nella

vita sociale; ma a seconda della particolarità dei luoghi e delle condizioni risulta che non per tutti

il giusto è lo stesso.

37. Fra le cose che la legge prescrive come giuste, quella che è comprovata come utile dalle

necessità dei rapporti sociali reciproci deve esser considerata come avente il requisito del giusto,

sia essa la stessa per tutti o no; ma se si ponga una legge che non risulti coerente all'utilità nei

rapporti reciproci, essa non possiede la natura del giusto. Se poi ciò che era utile secondo

giustizia viene a decadere, pur avendo per un certo tempo corrisposto alla prenozione del giusto,

ciò non vuol dire che non lo fosse durante quel tempo, se non ci si vuole turbare per vane

chiacchiere ma guardare sostanzialmente ai fatti.

38. Quando, senza che siano sopravvenute nuove circostanze, le cose sancite dalla legge come

giuste si rivelano nella pratica non corrispondenti alla prenozione del giusto, vuol dire che in

realtà non erano giuste. M a quando, essendo sopravvenute nuove circostanze, quelle cose che

erano prescritte come giuste non sono più utili, allora bisogna dire che esse sono state giuste fino

a che sono state utili per la vita in comune dei cittadini, e che in seguito, quando non sono state

più; utili, non sono state più nemmeno giuste.

39. Si è disposto nella maniera migliore contro il turbamento che proviene dall'esterno colui che

si è reso affini le cose possibili e non del tutto estranee le impossibili. Quanto a quelle cose

riguardo a cui non ha avuto nemmeno tale potere, se ne è astenuto del tutto, fondandosi su tutto

ciò che è utile a tale scopo.

40. Tutti coloro che hanno avuto la possibilità di godere della massima sicurezza nei riguardi di

coloro che li circondavano, vivono in comunità gli uni con gli altri nel modo più piacevole e

nella più sicura fiducia; e, pur nutrendo fra loro i più stretti legami, non piangono la dipartita di

quelli di loro che muoiono prematuramente, come se questi fossero da compiangere.

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114

Crisippo da Soli (c.280-207 a.C)

Frammenti etici

(Stoicorum Veterum Fragmenta vol III, a cura di H. von Arnim, 1903-5)

traduzione Roberto Radice

Sul giusto modo di valutare ciascun indifferente

154 (Cicerone Sul fine, III, 17) Gli Stoici per lo più non ritengono che il piacere sia da porsi fra i

principi naturali.

155 (Sesto Empirico, Contro i matematici, XI, 73) Ad esempio, se Epicuro sostiene che il

piacere è un bene, lui afferma che è un male; dice infatti: «meglio impazzire che godere». Gli

Stoici poi considerano il piacere come un indifferente non preferito; Cleante nega addirittura che

sia conforme a natura – sarebbe conforme a natura né più né meno di un ninnolo – e che abbia

valore nella vita. Per Archedemo sarebbe secondo natura come i peli delle ascelle, dunque non

avrebbe alcun valore. Infine, Panezio ritiene che alcuni tipi di piacere sono conformi a natura e

altri invece sono contrari.

156 (Diogene Laerzio, Vite, VII, 103) Che il piacere non sia un bene lo afferma sia Ecatone nel

IX libro de I beni, sia Crisippo nei suoi trattati sul piacere. Ci sono infatti piaceri immorali, e

nessun bene può essere immorale.

157 (Plutarco, Sulle contraddizioni degli stoici, xv) Nei libri dedicati a Platone (ad esempio La

giustizia) polemizza con lui perché ha ritenuto di includere fra i beni la salute. In tal caso,

osserva:

«se noi lasciassimo fra i beni il piacere o la salute o qualche altra cosa che non sia il bene,

non solo andrà persa la giustizia, ma anche la magnanimità, la saggezza e ogni altra virtù».

158 (Cicerone Sul fine, I, 11, 39) Sentivo raccontare da mio padre, il quale, scherzando, si

prendeva argutamente gioco degli Stoici, che anche ad Atene nel Ceramico si trova una statua di

Crisippo seduto con la mano tesa. E la posizione di questa mano starebbe ad indicare che egli si

compiaceva di porre questa semplice domanda: «Forse che la tua mano, atteggiata com’è ora,

desidera qualcosa? Un bel niente. Ma se il piacere fosse un bene non dovrebbe forse desiderarlo?

Direi di sì. Dunque il piacere non è un bene»... Prima, caro Crisippo, ti abbiamo concesso che la

mano, nella posizione in cui era, non avesse alcun desiderio, e questo era giusto; non era giusto

invece l’altra tesi che abbiamo ammesso, e cioè che se il piacere fosse un bene sarebbe oggetto

di desiderio.

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Crisippo, frammenti

115

Sul primo impulso e le cose che si sentono proprie

178 (Diogene Laerzio, Vite, VII, 85) Sostengono che il primo impulso dell’animale è quello di

aver cura di se stesso, in quanto la natura fin dall’inizio lo porta ad appropriarsi di sé stesso; così

dice Crisippo nel primo libro de I fini, quando sostiene che le cose che ogni essere vivente sente

più proprie sono la sua costituzione e la coscienza che ne ha. Né avrebbe alcun senso che un

animale andasse contro se stesso, oppure né avversi né senta come proprio quello che l’ha creato.

Resta solo la tesi che la natura che l’ha creato lo porti ad appropriarsi di se stesso: in tal modo

infatti riesce ad evitare le cose che nuocciono e a perseguire quelle che giovano. Gli Stoici

smentiscono quelli che sostengono che il primo impulso degli animali è verso il piacere. A loro

avviso, il piacere, se mai esiste, nasce dopo che la natura ha ottenuto i mezzi adatti per la sua

sussistenza di cui era in cerca: è questo appunto che fa godere gli animali e fiorire le piante.

Effettivamente, dicono gli Stoici, non c’è differenza fra la natura vegetale e quella animale e la

natura riesce a governare le piante anche senza l’apporto dell’impulso e della sensazione, e

d’altra parte, addirittura in noi uomini alcune parti mantengono i caratteri delle piante. Gli

animali poi hanno in più l’impulso, del quale si servono per procurarsi quel che è utile: dunque,

per questi esseri vivere secondo natura corrisponde a farsi guidare dall’impulso. Agli esseri

razionali la ragione è stata data come coronamento in una posizione eminente: ecco, dunque, che

per questi esseri il vivere conforme a ragione corrisponde esattamente al vivere conforme a

natura, dato poi che la ragione sovrintende all’impulso.

179 (Plutarco, Sulle contraddizioni degli stoici, xii) Per qual motivo Crisippo non smette di

angustiarci scrivendo in ogni libro di fisica e, per Zeus, anche di etica che «fin dalla nascita ci

appropriamo di noi stessi, delle parti del nostro corpo e dei nostri figli»?

180 (Alessandro di Afrodisia, Sull’anima) La natura che ci ha dotato di anima, ci ha fornito

anche un corpo e ci ha predisposto alla perfezione di ambedue e alla loro perfetta forma. In tal

modo, chi mancasse della naturale perfezione dell’uno o dell’altro non potrebbe vivere secondo

natura, intendendo con questa espressione, vivere secondo la volontà della natura: e se questa

vita è impossibile, anche la felicità è impossibile.

181 (Aulo Gellio, Notti attiche, 5,7) La natura universale, che è nostra madre, fin dalla nascita ci

ha inculcato e ha fatto crescere con noi l’amore e l’affetto per noi stessi, di modo che a ciascuno

di noi assolutamente nulla fosse più caro di se stesso; inoltre <tale medesima natura> ha stabilito

che proprio in questo si trovasse il principio di conservazione della specie umana: cioè nel fatto

che ognuno, non appena vede la luce abbia cognizione e provi attrazione per quelle realtà che gli

antichi pensatori chiamavano ‘prime per natura’ le quali consistono nel godere di tutto ciò che

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Crisippo, frammenti

116

giova al corpo e di rifuggire da tutto ciò che nuoce. In seguito, col passare del tempo dai suoi

semi si è sviluppata la ragione, il discernimento nell’uso dell’intelletto, e la cognizione di ciò che

è morale e veramente utile, nonché una più acuta e motivata capacità di scelta fra ciò che giova e

ciò che non giova. Al seguito di tale esame emerse in tutto il suo splendore la dignità del bene

morale, al punto da ritenere che, se pure un qualche impedimento esterno fosse sorto ad

ostacolarne la conquista o la conservazione, di questo neppure si dovesse tener conto. Si pensò

quindi che null’altro fosse bene se non la dirittura morale, e null’altro male se non ciò che è

moralmente spregevole. Stabilirono, di conseguenza, che quelle realtà intermedie fra queste due

non fossero né beni né mali. Inoltre, quegli effetti e quelle relazioni che loro stessi chiamano

preferiti e respinti sono stati distinti e separati in ragione del loro valore, sicché, il piacere e il

dolore, per quanto concerne la loro incidenza sul fine in quanto tale –ossia sulla vita buona e

beata –, furono relegati fra le realtà intermedie e giudicati né beni né mali.

182 (Cicerone Sul fine, III, 5, 16) Sono convinti... che appena un essere vivente nasce (sta qui il

punto di partenza) tenda a conciliarsi con se stesso, e si impegni a salvare sé e il proprio essere,

perseguendo quelle cose che contribuiscono a tutelare il proprio essere, e ad allontanare la

propria fine e tutto ciò che sembra avvicinarla. Prova di ciò è il fatto che i piccoli, prima ancora

d’aver fatto esperienza del dolore e del piacere, cercano quel che giova alla loro salute e

rifuggono dalle cose opposte E ciò non potrebbe darsi se essi non amassero il proprio essere, e

non temessero la morte. Né d’altra parte potrebbero essere mossi da alcun desiderio se non

fossero dotati di una coscienza di sé e animati dall’amore di sé. Se ne deduce che il principio

primo viene dalla predilezione che ciascuno ha per sé.

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Flavio Filostrato (c. 165-c.245 d.C)

Vite dei Sofisti

traduzione di Maurizio Civiletti; note di Richard Davies

Libro I cap i Eudosso di Cnido, pur essendosi dedicato con discreto successo agli studi filosofici1

nell’Accademia2, fu tuttavia incluso tra i sofisti3 per l’eleganza di eloquio e per la buona capacità

d’improvvisare; fu ritenuto degno del nome di sofista nell’Ellesponto, nella Propontide4, a Menfi

e nella parte d’Egitto al di là di Menfi, confinante con l’Etiopia e con la terra dei saggi chiamati

Gimnosofisti5.

1 O ‘alle scienze’, ‘le cose della ragione’ (‘logous’). 2 La scuola fondata da Platone ad Atene. 3 Per molti commentatori, la designazione ‘sofista’ è spregiativa; per Filostrato non è così. 4 L’Elllesponto e il Propontide si trovano oggi in Turchia 5 La terrra è l’India, e i Gimnosofisti erano asceti nudisti e vegetariani.

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Diogene Laerzio (III sec. d.C.)

Vite dei filosofi

tr. it. a cura di Marcello Gigante Libro VIII, cap viii [86] Eudosso, figlio di Eschine, nacque a Cnido, astronomo, geometra, medico, legislatore. Egli

apprese la geometria da Archita, la medicina da Filistione il siciliano, come attesta Callimaco nei

suoi Quadri. Sozione nelle Successioni dei filosofi dice che fu uditore anche di Platone. Aveva

circa ventitre anni e versava in angustie economiche quando, attrratto dalla fame dei socratitic,

fece vela verso Atene con il medico Teomedonte, da cui fu mantenuto (secondo altri, fu il suo

amante).Sbarcato al Pireo ogni giorno saliva ad Atene e, dopo aver ascoltato i sofisti, di nuovo

faceva ritorno.

[87] Dopo una permanenza di due mesi, ritornò in patria e, soccorso da contribuzioni degli

amici, salpò in Egitto col medico Crisippo, portand una lettera di raccomandazione da parte di

Agesilao a Nettanabi, il quale lo raccomandò ai sacerdoti. Si trattenne lì un anno e quattro mesi,

si rase barba e sopracciglia e, secondo alcuni, compose la Ottaeteride. Di lì fu a Cizico e nella

Propontide a tenere scuola, ma dopo giunse alla corte di Mausolo. Da lì fece ritorno ad Atene,

portando con se moltissimi discepoli, come dicono alcuni per fare dispetto a Platone, il quale

all’inizio l’aveva rifiutato come discepolo.

[88] Alcuni riferiscono che, in occasione di un convito di Platone, poiché il numero degli ospiti

era grande, introdusse l’ordine dei posti in forma semicircolare. Nicomaco, figlio di Aristotele,

dice che per Eudosso il piacere è il bene. Fu accolto in patria con grande onore, come testimonia

il decreto appositamente fatto per lui. Ma divenne anche famosissimo presso i greci, perché

scrisse per i suoi cittadinai le leggi, come dice Ermippo nel quarto libro Dei sette sapienti, e

perché compose opere di astronomia e geometria ed altre degne di nota. Ebbe anche tre figlie,

Actide, Filtide, Delfide.

[89] Eratostene, nei libri diretti a Batone, dice che Eudosse compose anche Dialoghi di cani; altri

dicono che gli egizi li scrissero nella loro lingua e che egli li tradusse e pubblicò in Grecia.

Crisippo, figlio di Erineo, di Cnido, fu suo discepolo per la teologia, la cosmologia e la

meteorologia, mentre per la medicina fu discepolo di Filistione il siciliano. Lasciò anche dei

bellissimi trattati. Di lui fu figlio Aristagora e, di questo, Crisippo, discepolo di Aetlio, a cui si

attribuisce un’opera sulla cura degli occhi, poiché sottopose al vaglio della ragione le sue

speculazioni naturalistiche.

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Diogene Laerzio, Vita di Eudosso

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[90] […] Lo stesso Apollodoro dice che Eudosso di Cnido ebbe la sua acme nella 103 Olimpiade

e scoprì la teoria delle linee curve. Morì a cinquantre anni. Quando era in Egitto insieme con

Conufide di Eliopoli, Api lambì il suo mantello. Per questo i sacerdoti dissero che egli sarebbe

stato famoso ma di vita breve, come riferisce Favorino nelle Memorie.

[91] Vi è anche un nostro carme dedicato a lui:

In Menfi è fama che un giorno abbia appreso il proprio destino Eudosso da un toro dalle

belle corna. Nulla esso disse: come, infatti, potrebbe un bue parlare? Natura non diede

bocca loquace al bue Api! Ma stando di fianco a lui gli lambì la veste con evidente

monito: ‘tra breve finirai la vita’. Perciò a lui venne presto fato di morte: cinquantatre

anni avva contemplato le Pleiadi.

Per lo splendore della fama lo chiamavano ‘Endosso’ anziché ‘Eudosso’. Passati in rassegna i

Pitagorici illustri, resta ormati da dire intorno ai filosofi cosiddetti ‘sporadici’. In primo luogo

Eraclito.

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Thomas Hobbes (1588-1679)

Leviatano (1651)

traduzione Gianni Micheli

Libro I

Capitolo VI: DEGLI INIZI INTERNI DEI MOVIMENTI VOLONTARI CHIAMATI

COMUNEMENTE PASSIONI, E DELLE PAROLE CON CUI SONO ESPRESSE

Vi sono negli animali due specie di movimenti ad essi peculiari. L’uno chiamato vitale che

comincia nella generazione e continua senza interruzione per tutta la vita, come il corso del

sangue, il polso, il respiro, la concozione, la nutrizione, l’escrezione ecc.; per questi movimenti

non occorre l’aiuto dell’immaginazione. L’altro è il movimento animale, chiamato altrimenti

movimento volontario, come l’andare, il parlare, il muovere qualche membro, nella maniera

determinata prima nella nostra mente dalla fantasia. Che il senso sia un movimento negli organi

e nelle parti interne del corpo umano, causato dall’azione delle cose che vediamo, udiamo ecc.; e

che la fantasia non sia che il residuo dello stesso movimento che rimane dopo il senso, è già stato

detto nel primo e nel secondo capitolo. E poiché andare, parlare, e simili movimenti volontari,

dipendono sempre da un precedente pensiero del dove, del per quale via, del che cosa, è evidente

che l’immaginazione è il primo inizio interno di ogni movimento volontario. E benché gli uomini

incolti non concepiscano affatto che ci sia un qualunque movimento, dove la cosa mossa è

invisibile, o lo spazio in cui si muove (per la sua strettezza) è insensibile, pure ciò non impedisce

che ci siano tali movimenti. Infatti, per quanto uno spazio sia piccolo, quel che si muove su di

uno spazio più grande, di cui quello piccolo è una parte, deve prima muoversi su quello. Questi

piccoli inizi di movimento entro il corpo umano, prima che appaiano nel camminare, nel parlare,

nel percuotere, e in altre azioni visibili, dono comunemente chiamati SFORZO.

Questo sforzo, quando è volto verso qualcosa che lo causa si chiama APPETITO o

DESIDERIO; quest’ultimo è il nome generale e l’altro è spesso ristretto a significare il desiderio

del cibo, cioè la fame e la sete. Quando lo sforzo è per tenersi lontano da qualcosa, si chiama

generalmente AVVERSIONE. Questi vocaboli, appetito e avversione, che noi abbiamo dai latini,

significano entrambi dei movimenti, l’uno quello di avvicinarsi, l’altro quello di ritirarsi. Cosi

pure in greco, per lo stesso significato, si hanno i vocaboli horme e aforme. La natura stessa

infatti spinge spesso gli uomini verso quelle verità, in cui in seguito essi inciampano, quando

cercano qualcosa al di fuori della natura. Le scuole infatti non trovano affatto nel mero appetito

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Hobbes, Leviatano, I, vi

121

di andare, o di muoversi alcun movimento attuale; ma, poiché debbono riconoscere qualche

movimento, lo chiamano movimento metaforico, e ciò non è che un parlare assurdo, perché se i

vocaboli si possono chiamare metaforici, non così si può dire dei corpi e dei movimenti.

Ciò che gli uomini desiderano si dice anche che l’AMINO o che ODINO quelle cose per le

quali hanno avversione. Cosicché desiderio e amore sono la stessa cosa, se si eccettua il fatto che

con desiderio noi significhiamo sempre l’assenza dell’oggetto, con amore, più comunemente la

presenza di esso. Così pure con avversione, noi significhiamo l’assenza e con odio la presenza

dell’oggetto.

Alcuni degli appetiti e delle avversioni nascono con noi, come l’appetito del cibo, quello

dell’escrezione e dello scaricare il corpo (che si possono anche, e più propriamente, chiamare

avversioni da qualcosa che si sente nel corpo) ed alcuni altri appetiti, non molti. Gli altri, che

sono appetiti di cose particolari, procedono dall’esperienza e dal saggio dei loro effetti su di sé o

sugli altri. Infatti delle cose che non conosciamo per nulla o che crediamo non ci siano, non

possiamo avere alcun desiderio oltre a quello di gustarle e saggiarle. Abbiamo invece avversione

non solo per le cose che sappiamo ci hanno nuociuto, ma anche per quelle che non sappiamo se

ci nuoceranno o no.

Quelle cose che non desideriamo, né odiamo si dice che le dispregiamo, dato che il

DISPREGIO è nient’altro che una immobilità, o contumacia del cuore nel resistere all’azione di

certe cose, e procede dal fatto che il cuore è già mosso altrimenti da altri più potenti oggetti, o

dalla mancanza di esperienza di essi.

E per il fatto che la costituzione del corpo umano è in continuo mutamento, è impossibile che

tutte le stesse cose causino sempre nell’uomo gli stessi appetiti e avversioni; molto meno tutti gli

uomini possono consentire nel desiderio di un solo e medesimo oggetto, quale che sia, o quasi.

Ma, qualunque esso sia, l’oggetto dell’appetito o del desiderio di un uomo è ciò che egli, per

parte sua, chiama buono; l’oggetto del suo odio e della sua avversione cattivo e del suo

dispregio, vile e trascurabile. Infatti queste parole, buono, cattivo, e spregevole, sono sempre

usate n relazione alla persona che le usa, dato che non c’è nulla che sia tale semplicemente e

assolutamente, e non c’è alcuna regola comune di ciò che è buono e cattivo che sia derivata dalla

natura degli oggetti stessi; essa deriva invece dalla persona (dove non c’è lo stato) o (in uno

stato) dalla persona che lo rappresenta, oppure da un arbitro o giudice, che le persone in

disaccordo istituiranno per comune consenso e della cui sentenza faranno la regola.

La lingua latina ha due vocaboli, i cui significati si avvicinano a quelli di buono e cattivo, ma

non sono precisamente la stessa cosa; essi sono pulchrum e turpe. Il primo significa quel che, per

alcuni segni apparenti, promette qualcosa di buono, e l’altro quel che promette qualcosa di

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Hobbes, Leviatano, I, vi

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cattivo. Nella nostra lingua non abbiamo però nomi così generali con i quali esprimerli, ma per

pulchrum diciamo in alcuni casi fayre, in altri beautiful, o handsome, o gallant, o honourable, o

comely, o amiable; e per turpe, foule, deformed, ugly, base, nauseous e simili come richiederà il

soggetto; tutti questi vocaboli, al loro posto proprio, non significano altro che l’aria o l’aspetto

che promette qualcosa di buono o di cattivo. Cosicché vi sono tre generi di buono; il buono nella

promessa, cioè pulchrum; il buono nell’effetto, come fine desiderato, che viene chiamato

jucundum, dilettevole, e il buono come mezzo che viene chiamato utile, giovevole; e altrettanti

generi di cattivo, poiché il cattivo nella promessa è quello che si chiama turpe, cattivo

nell’effetto e nel fine molestum, spiacevole, fastidioso; il cattivo nei mezzi, inutile, non

giovevole, nocivo.

Così, nel senso, quel che è realmente entro di noi, come ho detto prima, è solo movimento

causato dall’azione degli oggetti esterni, ma in apparenza per la vista è luce e colore, per

l’orecchio suono, per le narici odore ecc.; così quando l’azione dello stesso oggetto si continua

dagli occhi, dalle orecchie, dagli altri organi al cuore, l’effetto reale lì non è altro che movimento

o sforzo, consistente in un appetito verso l’oggetto moventein una avversione da esso. Ma

l’apparenza o senso di quell movimento è ciò che chiamiamo DILETTO oppure DISTURBO

DELLA MENTE.

Questo movimento, che viene chiamato appetito e, per la sua apparenza, diletto e piacere,

sembra sia una corroborazione e un aiuto del movimento vitale. Perciò le cose che causano

diletto furono chiamate non impropriamente jucunda (a juvando) dal fatto che aiutano o

fortificano; e le contrarie molesta, offensive dal fatto che ostacolano e disturbano il movimento

vitale.

Perciò il piacere (o diletto) è l’apparenza o il senso di ciò che è buono; e la molestia o

dispiacere, l’apparenza o il senso di ciò che è cattivo. Di conseguenza ogni appetito, desiderio e

amore, è accompagnato da qualche diletto, maggiore o minore, e ogni odio e avversione da

maggiore o minore dispiacere e offesa.

Alcuni dei piaceri o diletti sorgono dal senso di un oggetto presente; essi si possono chiamare

piaceri del senso (dato che non c’è posto finché non ci sono le leggi, per il vocabolo sensuale, in

quanto è usato solamente da quelli che li condannano). Di questo genere sono tutti gli atti con cui

il corpo si carica e si scarica, come pure tutto quel che è piacevole alla vista, all’udito,

all’odorato, al gusto, o al tatto. Altri sorgono dall’ aspettativa che procede dalla previsione del

fine o della conseguenza di certe cose, sia che queste cose siano piacevoli o spiacevoli al senso.

Sono questi i piaceri della mente per colui che trae quelle conseguenze e vengono generalmente

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Hobbes, Leviatano, I, vi

123

chiamati GIOIA. Similmente alcuni dispiaceri sono nel senso e vengono chiamati PENA altri,

nell’aspettativa delle conseguenze, e vengono chiamati AFFLIZIONE.

Queste semplici passioni chiamate appetito, desiderio, amore, avversione, odio, gioia e

afflizione, hanno i loro nomi diversificati per diverse considerazioni. In primo luogo, quando si

succedono l’un l’altra, vengono chiamate diversamente sulla base dell’opinione che gli uomini

hanno della probabilità di raggiungere ciò che desiderano: in secondo luogo, sulla base

dell’oggetto amato o odiato; in terzo luogo, sulla base della considerazione di parecchie insieme;

in quarto luogo, sulla base dell’alterazione o successione stessa.

[Hobbes dedica poi diverse pagine alla definizioni di varie passioni in base agli elementi

stabiliti (intromissione di Davies)]

Quando nella mente di un uomo gli appetiti, le avversioni, le speranze, i timori, riferentisi ad

una stessa cosa, sorgono alternativamente, e diverse conseguenze, buone e cattive, derivanti dal

fare o dall’omettere di fare la cosa che ci si era proposta, vengono successivamente al nostro

pensiero, per modo che abbiamo per essa talvolta un appetito, tal altra un’avversione, talvolta

abbiamo speranza di essere in grado di farla, tal altra disperiamo o temiamo di tentare di farla;

l’intera somma dei desideri, delle avversioni, delle speranze e dei timori, che si protraggono fino

a quando la cosa non viene fatta, oppure si pensa che é impossibile, è quel che chiamiamo

DELIBERAZIONE.

Perciò sulle cose passate non c’è deliberazione, perché è manifestamente impossibile che

siano cambiate, né sulle cose che sappiamo essere impossibili o che pensiamo siano tali, perché

si sa o si pensa che una tale deliberazione sia vana. Ma sulle cose impossibili che pensiamo siano

possibili possiamo deliberare, dato che non sappiamo che è cosa vana. Ed è chiamata

deliberazione, perché è un porre fine alla libertà che avevamo di fare o di omettere di fare,

secondo il nostro appetito o la nostra avversione.

Questa alterna successione di appetiti, avversioni, speranze e timori, si ha nelle altre creature

viventi non meno che nell’uomo e perciò anche le bestie deliberano.

Si dice che ogni deliberazione termina, quando quello su cui si delibera è fatto o si pensa che

sia impossibile, perché fino allora noi conserviamo la libertà di fare o di omettere di fare,

secondo il nostro appetito o la nostra avversione.

Nella delibrazione, l’ultimo appetito, o l’ultima avversione, immediatamente aderente

all’azione o alla sua omissione è quel che chiamiamo VOLONTÀ, l’atto, (non la facoltà) del

volere. E le bestie che hanno deliberazione, devono avere necessariamente anche la volontà. La

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Hobbes, Leviatano, I, vi

124

definizione della volontà come un appetito razionale, che si dà comunemente nelle scuole, non è

buona, perché, se cosi fosse, non ci potrebbe essere atto volontario contro ragione; un atto

volontario, infatti, è quello che procede dalla volontà e niente altro. Ma, se invece di appetito

razionale, noi diremo appetito risultante da una precedente deliberazione, allora la definizione è

la stessa di quella che io ho dato qui. La volontà è perciò l’ultimo appetito nel deliberare. Benché

diaicamo nel discorrere commune che un uomo ha avuto una volta la volontà di fare una cosa,

che tuttavia si è astenuto dal fare, tuttavia quella, propriamente, è solo un’inclinazione che non

rende volontaria alcuna azione, perché l’azione non dipende da essa ma dall’ultima inclinazione

o appetito. Infatti se gli appetiti che si presentano rendessero volontaria una qualunque azione,

allora, per la stessa ragione tutte le avversioni che si presentano, renderebbero involontaria la

medesima azione; così la stessa azione sarebbe ad un tempo volontaria e involontaria.

Da ciò è manifesto che non solo le azioni che hanno il loro inizio nella bramosia,

nell’ambizione, nella concupiscenza o negli altri appetiti per la cosa che ci si era proposta, ma

anche quelle che hanno il loro inizio nell’avversione o nel timore di quelle conseguenze che

seguono l’omissione, sono azioni volontarie.

Le forme di parlare con cui vengono espresse le passioni, sono in parte le stesse e in parte

differenti da quelle con cui noi esprimiamo i nostri pensieri. In primo luogo tutte le passioni si

possono generalmente esprimere in modo indicativo, come amo, temo, gioisco, delibero, voglio,

comando; ma alcune di esse hanno espressioni a loro particolari, le quali nondimento non sono

affermazioni, se non quando servono per fare altre inferenze; oltre a quelle della passione da cui

procedono. La deliberazione è espressa in modo soggiuntivo, che è un parlare particolarmente

atto a significare le supposizioni con le loro conseguenze, come: ‘se è fatto questo, allora seguirà

quest’altro’, e non differisce dal linguaggio del ragionamento, tranne per il fatto che nel

ragionamento si hanno vocaboli generali; la deliberazione, invece, per lo più, verte su casi

particolari. Il linguaggio del desiderio e dell’avversione, è imperativo, come: ‘fa questo’,

‘astienti da quello’; esso, quando la persona è obbligata a fare o ad astenersi, è un comando,

altrimenti è una preghiera, o ancora un consiglio. Il linguaggio della vana gloria, della

indignazione, della pietà, dello spirito di vendetta, è ottativo: ma del desiderio di conoscere v’è

una particolare espressione, chiamata interrogativa, come; ‘che cos’è?’, ‘quando sarà?’, ‘come è

fatto?’ e ‘perché così?’ Non trovo alcun altro linguaggio per le passioni, perché imprecare,

giurare, insultare e simili, non hanno significato come parole, ma come azioni di una lingua

abituata ad essi.

Queste forme di parlare, dico che sono espressioni, o significazioni volontarie delle nostre

passioni, ma non ne sono segni certi, perché possono essere usate arbitrariamente, sia che chi le

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Hobbes, Leviatano, I, vi

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usa abbia tali passioni o no. I segni migliori della presenza delle passioni, si hanno o nell’aspetto,

nei movimenti del corpo, nelle azioni, nei fini, oppure negli intenti, che sappiamo per altra via

essere presenti nell’uomo.

E per il fatto che nella deliberazione, gli appetiti e le avversioni sono fatti sorgere dalla

previsione delle conseguenze e sequele buone o cattive dell’azione su cui deliberiamo, il buono o

cattivo effetto della stessa dipende dalla previsione di una lunga catena di conseguenze, della

quale molto raramente si è in grado di vedere la fine. Ma se il bene, per quanto lontano si veda,

in quelle conseguenze è più grande del male, l’intera catena è ciò che gli scrittori chiamano

apparenza o sembianza di bene, e al contrario, quando il male eccede il bene apparenza o

sembianza di male. Cosicché colui che ha per esperienza o per ragionamento il maggiore e più

sicuro prospetto delle conseguenze, delibera meglio per sé ed è in grado, quando vuole, di dare i

migliori consigli agli altri.

Un continuo successo nell’ottenere quelle cose che volta a volta si desiderano, vale a dire, una

continua prosperità, è ciò che gli uomini chiamano FELICITÀ, voglio dire la felicità di questa

vita. Infatti, finché viviamo qui, non c’è una cosa come la perpetua tranquillità della mente,

poiché la vita in sé non è che movimento, e non può essere mai senza desiderio, né senza timore,

non più di quanto possa essere senza il senso. Quale genere di felicità Dio abbia ordinato per chi

lo onora devotamente non lo si conoscerà prima di gioirne, dato che quelle gioie ora sono tanto

incomprensibili quanto è inintelligibile l’espressione scolastica visione beatifica.

La forma di parlare con cui gli uomini significano la loro opinione sulla bontà di qualcosa e’l

LODE, quella con cui significano la potenza e la grandezza di qualcosa è la

MAGNIFICAZIONE, e quella con cui significano l’opinione che hanno della felicità umana è

dai Greci chiamata makarismos per la quale non abbiamo un nome corrispondente nella nostra

lingua. Quello che si è detto delle PASSIONI è sufficiente per il presente scopo.

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John Locke (1632-1704)

Saggio sull’intendimento umano (1690)

traduzione Camillo Pellizzi

Libro II, capitolo xx

DEI MODI DEL PIACERE E DEL DOLORE

1. Fra le idee semplici che noi riceviamo dalla sensazione e dalla riflessione, il dolore e il

piacere sono molto importanti. Poiché, come il corpo può avere una sensazione pura e semplice,

o accompagnata da dolore o piacere, così il pensiero, ossia la percezione della mente, può essere

semplicemente tale, oppure anche essa accompagnata da piacere o dolore, diletto o tormento, o

come altrimenti vorrete dire. Queste, come altre idee semplici, non possono venir descritte, né si

possono definire i loro nomi; possono venir conosciute soltanto con l’esperienza, come accade

per le idee semplici dei sensi. Poiché, se le definissimo dalla presenza del bene o del male,

questo non servirebbe altrimenti a farcele conoscere, se non facendoci riflettere su ciò che

proviamo in noi stessi in seguito alle molte e varie operazioni del bene e del male sulla nostra

mente, in quanto esse diversamente agiscono sopra di noi o sono da noi considerate.

2. Dunque, le cose sono buone o cattive solo in rapporto al piacere o al dolore. Chiamiamo

bene ciò che è atto a produrre o accrescere qualunque dolore, o a diminuire la pena, oppure a

procurarci o conservare per noi il possesso di un qualunque altro bene o l’assenza di qualunque

male. E, al contrario, chiamiamo male ciò che è atto a produrre o accrescere qualunque dolore, o

a diminuire in noi il piacere, oppure a procurarci un male o a privarci di un bene. Bisogna

intendere che parlo di piacere e dolore in rapporto al corpo e alla mente, secondo che essi

vengono comunemente distinti; benché, in verità, si tratti soltanto di differenti stati della mente,

talvolta causati da un disordine del corpo, e talvolta dai pensieri della mente.

3. Il piacere e il dolore e ciò che li determina, cioè il bene cd il male, sono i cardini sui quali

girano le nostre passioni. E se riflettiamo intorno a noi stessi, e osserviamo in qual modo tali

cose agiscano, per diversi rispetti, sopra di noi, quali modificazioni o disposizioni della mente

producano in noi, e quali sensazioni interne (se così posso chiamarle), da tutto ciò potremo

formarci le idee delle nostre passioni.

4. Così, chiunque rifletta su ciò che egli pensa del diletto che può produrre in lui qualunque

cosa presente o assente, avrà l’idea di ciò che chiamiamo amore. Poiché, quando uno dichiara in

autunno, quando la sta mangiando, o in primavera, quando non ve n’è, che gli piace l’uva, questo

vuol dire nient’altro se non che il sapore dell’uva gli dà diletto; ma se un’alterazione della salute

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Locke, Saggio, II, xx

127

o della sua costituzione venga a distruggere il diletto che prova nell’assaporarla, allora si potrà

dire che l’uva non gli piace più.

5. Al contrario, il pensiero del dolore che può produrre in noi una qualunque cosa presente o

assente, è ciò che chiamiamo odio. Se fosse affar mio qui portare la mia ricerca un poco oltre le

pure idee delle nostre passioni, in quanto dipendono da modificazioni diverse del piacere e della

pena osserverei che il nostro amore e odio per gli esseri insensibili e inanimati si fonda

comunemente sul piacere o sul dolore che riceviamo dal loro uso e dall’applicazione di essi, in

qualunque modo, ai nostri sensi, anche se ciò comporti la loro distruzione; ma l’amore o l’odio

che portiamo ad esseri capaci di felicità o infelicità consiste spesso nel turbamento o nel diletto

che troviamo in noi stessi, e clic sorge dalla considerazione del fatto stesso del loro esistere o del

loro esser felici. Così, l’esistenza e il benessere dei bambini o degli amici di una persona

producendo in lei un costante diletto, si può dire che ella li ama costantemente. Ma basti

osservare che le nostre idee dell’amore e dell’odio non sono che le disposizioni della mente

relative al piacere e al dolore in generale, comunque siano prodotti in noi.

6. Il disagio che un uomo avverte in sé per l’assenza di una cosa qualunque la cui presenza

attuale porta con sé l’idea del piacere, è ciò che chiamiamo desiderio: che è più o meno grande

secondo che quel disagio è più o meno veemente. E qui non sarà forse inutile osservare di

passata che lo sprone principale, se non unico, dell’industria e dell’attività umana è quel disagio.

Poiché, quale che sia il bene proposto, se la sua assenza non porta con sé dispiacere o pena, se

l’uomo sia contento e a suo agio senza di esso, non vi sarà il desiderio di quella cosa, né lo

sforzo per ottenerla; non vi sarà nient’altro che una pura velleità, termine usato a significare il

grado più basso del desiderio, quella clic è più vicina al non esistere affatto: quando è così

piccolo il disagio per l’assenza di una qualche cosa, che non induce l’uomo ad altro se non ad

augurarsela fiaccamente, senza fare alcun uso più efficace o vigoroso dei mezzi con cui

ottenerla. Il desiderio è anche spento o attenuato dalla convinzione dell’impossibilità o

irraggiungibilità del bene voluto, per quel tanto che il nostro disagio è guarito, o attenuato, da

tale considerazione. Questo potrebbe condurre più oltre i nostri pensieri, se ne fosse qui il luogo.

7. La gioia è un diletto della mente, e sorge dal possesso presente di un bene, o dalla sicurezza

di stare per averlo; e siamo in possesso di qualunque bene quando esso è talmente in nostro

potere che possiamo usarlo quando ci piaccia. Così, un uomo quasi morto di fame sente gioia per

l’arrivo dei soccorsi, anche prima di provare il piacere di utilizzarli; e un padre, cui lo stesso

benessere dei figli è causa di diletto, è sempre in possesso di questo bene, fintanto che i suoi

figliuoli si trovino in tale stato, poiché gli basta riflettervi per avere quel piacere.

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Locke, Saggio, II, xx

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8. La pena è disagio o turbamento della mente al pensiero di un bene perduto, di cui si sarebbe

potuto godere più a lungo; oppure il senso di un male presente.

9. La speranza è quel piacere che prova nella mente chiunque pensi al futuro probabile

godimento di una cosa atta a dargli piacere.

10. Il timore è un malessere della mente al pensiero di un male futuro che ci può capitare.

11. La disperazione è il pensiero della irraggiungibilità di un qualunque bene, ed opera

differentemente nella mente degli uomini, talvolta producendo turbamento o pena, talvolta

immobilità e indolenza.

12. La collera è quel disturbo o disordine della mente che proviamo dopo aver ricevuto un

qualche danno, e s’accompagna al desiderio presente di vendicarsi.

13. L’invidia è un disturbo della mente causato dal fatto clic un bene che noi desideriamo è

stato ottenuto da qualcuno che pensiamo non avrebbe dovuto averlo invece di noi.

14. Queste due ultime passioni, dell’invidia e della collera, non essendo causate

semplicemente dal dolore e dal piacere di per se stessi, ma contenendo una certa mescolanza di

considerazioni relative a noi stessi e ad altri, non si troveranno perciò in tutti, poiché in taluni

mancheranno quelle altre condizioni di esse che consistono in una certa valutazione dei propri

meriti o nel proposito della vendetta. Ma tutte le altre, che hanno semplicemente per termini il

dolore e il piacere, ritengo si trovino in tutti. Poiché, in definitiva, amiamo, desideriamo, ci

rallegriamo e speriamo solo in rapporto al piacere; odiamo, temiamo e ci rattristiamo solo in

rapporto al dolore. Insomma, tutte queste passioni sono prodotte dalle cose solo in quanto queste

appaiono come le cause del piacere e della pena, o il piacere o la pena vadano loro connessi in un

modo o in un altro. Così, estendiamo di solito il nostro odio sull’oggetto (per lo meno, se è un

agente sensibile o volontario) che ha prodotto in noi un dolore, poiché il timore che esso lascia in

noi è una pena costante; ma non con altrettanta costanza amiamo quello che ci ha fatto del bene,

perché il piacere non opera così fortemente sopra di noi come il dolore, e perché non siamo così

portati a sperare che anche in avvenire ci darà quel piacere. Ma questo sia detto di passata.

15. Come ho già indicato sopra, sarà sempre da ricordare che con piacere e dolore, diletto e

disagio, intendo sempre significare, non soltanto il piacere e il dolore corporei, ma qualunque

diletto o disagio sia da noi sentito, sia che nasca da una sensazione o da una riflessione grata

oppure sgradevole.

16. Bisogna ancora considerare che, nei riguardi delle passioni, l’eliminazione o diminuzione

di un dolore è considerata come un piacere, ed opera come tale; e la perdita o diminuzione di un

piacere, come una pena.

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Locke, Saggio, II, xx

129

17. Le passioni hanno anche, per lo più, e nel maggior numero delle persone, degli effetti sul

corpo, e vi producono vari cambiamenti; ma poiché questi non sono sempre sensibili, non

costituiscono parte necessaria dell’idea di ciascuna passione. Poiché la vergogna, che è un

malessere della mente al pensiero di aver commesso qualcosa di indecente, o che possa

diminuire la stima che gli altri hanno di noi, non è sempre accompagnata dal rossore.

18. Non vorrei che qui mi si fraintendesse, come se avessi voluto dare a questo punto un

trattato delle passioni: ve ne sono molte più di quelle che ho qui nominate, e ciascuna di quelle di

cui ho parlato richiederebbe un discorso molto più ampio e accurato. Ho fatto parola qui di

queste passioni come di altrettanti esempi di modi del piacere e della pena che derivano nella

nostra mente da varie considerazioni del bene e del male. Forse avrei potuto trovare esempi in

altri modi del piacere e del dolore, più semplici di questi, come il dolore dovuto alla fame e alla

sete, e il piacere di mangiare e bere per liberarsi da quello; il fastidio di quando si sentono segare

i denti; il piacere della musica; il fastidio che procura chi disputa con noi in modo capzioso e

senza insegnarci nulla, e il piacere di una conversazione razionale con un amico, o di uno studio

ben diretto per la ricerca e la scoperta della verità. Ma poiché le passioni ci interessano molto di

più, ho preferito scegliere i miei esempi fra di esse, per far vedere come le idee che ne abbiamo

derivino dalla sensazione o dalla riflessione.

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130

David Hume (1711-76)

Ricerca sui princìpi della morale (1751)

traduzione Mario Dal Pra

APPENDICE PRIMA

SUL SENTIMENTO MORALE

Se si accettasse l’ipotesi precedente, ora ci sarebbe facile risolvere la questione posta prima

intorno ai princìpi generali della morale; e sebbene noi si sia rinviata la risoluzione della

questione per timore che essa ci involgesse in speculazioni intricate che non sono adatte per

discorsi morali, possiamo adesso riassumere la questione e vedere fino a qual punto ragione e

sentimento entrino in tutte le determinazioni che hanno riguardo alla lode ed al biasimo.

Poiché abbiamo supposto che un fondamento principale della lode morale consista nell’utilità

d’una qualità o azione qualsiasi, è evidente che la ragione deve entrare per una parte

considerevole in tutte le decisioni di questo genere; infatti soltanto la facoltà della ragione ci può

istruire intorno alla tendenza di qualità e di azioni e può indicare le loro conseguenze benefiche

nei riguardi della società e di coloro stessi che le possiedono. In molti casi, si tratta di una

questione soggetta a grande controversia; possono sorgere dubbi; possono incontrarsi interessi

opposti; e si deve accordare la preferenza ad una delle parti in contrasto in base a prospettive

molto sottili ed in base ad una minima preponderanza di utilità. Ciò si può particolarmente

rilevare in questioni che riguardano la giustizia, com’è naturale supporre, in verità, in base alla

specie di utilità che accompagna questa virtù. Se ogni singolo caso di giustizia fosse, come

avviene per la benevolenza, utile alla società, la questione sarebbe molto più semplice e

raramente darebbe luogo a grande controversia. Ma poiché singoli casi di giustizia sono spesso

dannosi nelle loro prime ed immediate conseguenze, e poiché il vantaggio deriva alla società

soltanto dall’osservanza della regola generale e dall’incontro combinato di più persone nella

stessa condotta di equità, la questione diventa qui più intricata e involuta. Le varie circostanze

attinenti alla società, le varie conseguenze d’una azione; i vari interessi che si possono proporre,

tutto ciò, in molte occasioni, fa nascere dubbi e dà luogo a grande discussione ed a ricerca.

L’oggetto delle leggi municipali è di regolare tutte le questioni che riguardano la giustizia: i

dibattiti dei civilisti, le considerazioni dei politici, i precedenti storici e la tradizione pubblica

sono tutti diretti allo stesso scopo. Ed una ragione o giudizio molto accurati sono spesso

necessari per giungere alla vera risoluzione, in mezzo a dubbi tanto intricati che scaturiscono da

utilità non ben determinate od opposte.

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Hume, Appendice alla seconda Ricerca

131

Ma per quanto la ragione, se pienamente sviluppata, sia sufficiente per istruirci delle tendenze

dannose od utili di qualità ed azioni; essa non basta da sola a produrre qualche biasimo o qualche

approvazione morali. L’utilità è soltanto una tendenza ad un certo fine; e se il fine ci fosse del

tutto indifferente, noi proveremmo la stessa indifferenza nei riguardi dei mezzi per conseguirlo.

Qui occorre che si affermi un sentimento, affinché si dia una preferenza alle tendenze utili

rispetto a quelle dannose. Questo sentimento non può essere che una sensibilità per la felicità

degli uomini ed un risentimento nei confronti della loro infelicità, giacché questi sono i diversi

fini che la virtù ed il vizio tendono a promuovere. Qui dunque la ragione ci insegna a che cosa

tendono le azioni e il senso di umanità opera una distinzione in favore di quelle che sono utili e

benefiche.

Questa divisione fra le facoltà dell’intelletto e del sentimento, in tutte le deliberazioni morali,

appare chiara in base all’ipotesi precedente. Ma supponiamo che quest’ipotesi sia falsa; sarà

allora necessario guardare verso qualche altra teoria che possa essere soddisfacente; ed io oso

affermare che non se ne troverà mai alcuna finché si supporrà che la ragione sia l’unica fonte

della morale. Per provare ciò, sarà bene considerare i cinque punti seguenti.

I. È facile che un’ipotesi falsa conservi qualche apparenza di verità, finché si tiene soltanto

sulle generali, fa uso di termini non definiti ed adopera paragoni, anziché indicare casi. La cosa

si può particolarmente notare in quella filosofia che attribuisce alla ragione soltanto, senza alcun

concorso del sentimento, il discernimento di tutte le distinzioni morali. È impossibile che, in

qualche caso particolare, questa ipotesi riesca a rendersi intelligibile, per quanto speciosa figura

essa possa fare in declamazioni e in discorsi generici. Esaminate, per esempio, il delitto di

ingratitudine; esso ha luogo ovunque noi osserviamo da una parte benevolenza espressa e ben

nota, unitamente alla prestazione di buoni servigi, e dall’altra la restituzione di malvolere o

indifferenza, con prestazione di cattivi servigi o con trascuratezza; analizzate tutte queste

circostanze ed esaminate, soltanto colla vostra ragione, in che consista il demerito o biasimo.

Non giungerete mai a qualche risultato o conclusione.

La ragione giudica o intorno a dato di fatto o intorno a relazioni. Cercate dunque, prima,

dov’è la materia di fatto che qui chiamiamo delitto; indicatelo; determinate il tempo della sua

esistenza; descrivetene l’essenza o natura; indicate il senso o la facoltà cui esso si manifesta.

Esso risiede nella mente della persona che è ingrata. La persona deve, perciò, sentirlo ed esserne

consapevole. Ma in essa non c’è nulla, all’infuori della passione del malvolere o della assoluta

indifferenza. Voi non potete dire che queste passioni, per se stesse, sempre ed in tutte le

circostanze, siano delitti. No, esse sono delitto solo quando sono rivolte contro persone che per

l’innanzi hanno espresso ed esplicato la loro benevolenza nei nostri riguardi. Per conseguenza

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Hume, Appendice alla seconda Ricerca

132

possiamo inferire che il delitto di ingratitudine non è qualche fatto particolare dell’individuo, ma

nasce da una complicazione di circostanze le quali, quando si presentano ad uno che le consideri,

eccitano il sentimento di biasimo, in base alla particolare struttura della sua niente.

Questa rappresentazione, voi dite, è falsa. Il delitto, in verità, non consiste in un fatto

particolare, della cui realtà noi ci si possa accertare a mezzo della ragione; ma esso consiste in

certe relazioni morali, che noi scopriamo per mezzo della ragione, al modo stesso in cui

scopriamo a mezzo della ragione le verità della geometria o dell’algebra. Ma quali sono,

domando, le relazioni di cui parlate? Nel caso indicato sopra, vedo dapprima benevolenza e

buoni uffici in una persona, poi malevolenza e cattivi servigi nell’altra. Fra queste, v’è una

relazione di contrarietà. Consiste forse il delitto in questa relazione? Ma supponete che una

persona mostri malevolenza nei miei riguardi e mi presti cattivi servigi; e che io, di rimando, mi

mantenga indifferente nei suoi riguardi o le rechi addirittura buoni servigi. Qui c’è la stessa

relazione di contrarietà; e tuttavia la mia condotta viene spesso altamente lodata. Voltate e

rivoltate questa questione quanto volete, non potrete mai fondare la moralità sulla relazione; ma

dovrete far ricorso alle decisioni del sentimento.

Quando si afferma che due più tre fa la metà di dieci, io comprendo perfettamente questa

relazione di eguaglianza. Comprendo che se dieci fosse diviso in due parti, di cui l’una avesse

tante unità quante l’altra, e se una di queste parti fosse messa a confronto con due più tre,

conterrebbe tante unità quante ne contiene quel numero composto. Ma quando voi traete di qui

un paragone colle relazioni morali, confesso che sono del tutto incapace di comprendervi. Una

azione morale, un delitto, come l’ingratitudine, sono oggetti complicati. Consisterebbe forse la

moralità nella relazione delle varie parti di questi oggetti l’una rispetto all’altra? Come? In qual

modo? Specificate la relazione; siate più determinati ed espliciti nelle vostre affermazioni e ne

vedrete facilmente la falsità.

No, voi dite, la moralità consiste nella relazione che le azioni hanno colla regola del giusto; ed

esse si chiamano buone o cattive a seconda che si accordano o no con essa. Quale è allora questa

regola del giusto? In che cosa consiste? Come viene determinata? Per mezzo della ragione, voi

dite, la quale esamina le relazioni morali delle azioni. Cosicché le relazioni morali sono

determinate dal paragone di un’azione con una regola; e questa regola è determinata dalla

considerazione delle relazioni morali degli oggetti. Non è questo forse un ragionare sottile?

Tutto questo è metafisica, voi esclamate. E basta questo e non c’è bisogno d’altro per darci

una forte presunzione di falsità. Sì, rispondo, qui c’è certamente della metafisica; ma essa sta

tutta dalla vostra parte, di voi che mettete avanti un’ipotesi astrusa che non può mai diventare

intelligibile né concordare con qualche esempio o caso particolare. La ipotesi che noi

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Hume, Appendice alla seconda Ricerca

133

abbracciamo è semplice e sostiene che la moralità è determinata dal sentimento; essa definisce

virtù qualunque azione o qualità mentale la quale dia a chi la considera il sentimento piacevole

dell’approvazione; il vizio è il contrario. Noi allora siamo in grado di esaminare una semplice

questione di fatto, cioè quali azioni producono tale risultato. Consideriamo tutte le circostanze,

nelle quali queste azioni concordano e di qui ci sforziamo di estrarre qualche osservazione

generale con riguardo a questi sentimenti. Se voi chiamate questa metafisica, e vi trovate

qualcosa di astruso, non avete che da concludere che la vostra mente non è affatto adatta alle

scienze morali.

II. Quando una persona, in un momento qualsiasi, decide intorno alla propria condotta (per

esempio, se farebbe meglio, in una determinata circostanza, ad assistere un fratello o un

benefattore) deve considerare queste distinte relazioni con tutte le circostanze e le condizioni

delle persone, per determinare quale sia il dovere e l’obbligo che ha maggiore importanza; e per

determinare la proporzione dei lati di un triangolo, è necessario esaminare la natura di questa

figura e la relazione che le sue diverse parti hanno l’una rispetto all’altra. Ma, nonostante

quest’apparente somiglianza nei due casi, v’è, in fondo, una profonda differenza fra di essi. Uno

che ragioni speculativamente intorno a triangoli o a ciroli, considera le varie relazioni note e date

fra le varie parti di queste figure e di qui inferisce qualche relazione che prima non era nota e che

dipende da quelle note. Ma nelle decisioni morali dobbiamo avere conoscenza in anticipo di tutti

gli oggetti e di tutte le relazioni che essi hanno l’uno rispetto all’altro, ed in base ad un paragone

del tutto, fissiamo la nostra scelta o approvazione. Non c’è alcun fatto nuovo da accertare,

nessuna relazione nuova da scoprire. Tutte le circostanze del caso si suppone che siano poste

davanti a noi prima che noi si possa prendere qualche decisione di biasimo o di approvazione. Se

qualche circostanza importante fosse tuttavia sconosciuta o dubbiosa, dovremmo prima fare una

ricerca o impiegare le nostre capacità intellettive per assicurarci di essa; e dovremmo sospendere

per il momento qualsiasi decisione o sentimento morale. Finché non sappiamo se uno ha

aggredito o no, come possiamo stabilire se la persona che l’ha ucciso ha commesso un delitto o è

innocente? Ma una volta che siano messe in chiaro tutte le circostanze e tutte le relazioni, non

v’è più posto per l’intelletto né v’è oggetto alcuno al quale esso si possa applicare.

L’approvazione o il biasimo che allora seguono, non possono esser opera del giudizio, ma del

cuore; e non si tratta più d’una proposizione o affermazione speculativa, bensì d’una sensazione

attiva o sentimento. Nelle discussioni in cui entra l’intelletto, in base a circostanze e a relazioni

note, arriviamo ad altre nuove e prima non note. Nelle decisioni morali, tutte le circostanze e

tutte le relazioni devono essere note prima e la mente, in base alla considerazione dell’insieme,

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Hume, Appendice alla seconda Ricerca

134

prova qualche nuova impressione di affetto o di disgusto, di stima o di disprezzo, d’approvazione

o di biasimo.

Di qui la grande differenza fra un errore di fatto ed uno di diritto; e di qui la ragione per cui

l’uno è di solito delittuoso e l’altro no. Quando Edipo uccise Laio, ignorava la relazione che

aveva con lui ed in base a date circostanze, essendo innocente e senza volerlo, si formò delle

opinioni erronee intorno all’azione che stava per commettere. Ma quando Nerone uccise

Agrippina, tutte le sue relazioni con lei e tutte le circostanze del fatto gli erano già note; ma il

movente della vendetta, o della paura o dell’interesse ebbe, nel suo cuore selvaggio, il

sopravvento sui sentimenti del dovere e dell’umanità. E quando noi esprimiamo quella

detestazione nei suoi riguardi alla quale egli divenne, in breve tempo, insensibile non è che noi

vediamo delle relazioni che egli non conosceva; ma per la rettitudine delle nostre disposizioni,

noi proviamo dei sentimenti rispetto ai quali egli risultava indurito dall’adulazione e da una

lunga perseveranza nei crimini più atroci. ]n questi sentimenti allora, non nella scoperta di

relazioni di qualsiasi sorta, consistono tutte le decisioni morali. Prima d’aver la pretesa di

prendere una decisione qualsiasi di carattere morale, dobbiamo prendere conoscenza ed

accertarci di tutto quanto riguarda l’oggetto o l’azione. Non resta altro che provare, da parte

nostra, qualche sentimento di biasimo o di approvazione; su questa base affermiamo che l’azione

è delittuosa o virtuosa.

III. Questa dottrina diventerà ancor più evidente, se paragoniamo la bellezza morale con

quella naturale, colla quale in molti particolari si trova ad avere così stretta somiglianza. È dalla

proporzione, relazione e posizione delle parti che dipende per intero la bellezza di natura; ma

sarebbe assurdo inferire da ciò che la percezione della bellezza, come quella della verità nei

problemi di geometria, consiste interamente nella percezione di relazioni, nonché inferire che

tale percezione sia opera interamente dell’intelletto o delle facoltà intellettive. In tutte le scienze,

la nostra niente muovendo dalle relazioni note cerca quelle non ancora note. Ma in tutte le

decisioni di gusto o in quelle che riguardano la bellezza esterna, tutte le relazioni stanno davanti

ai nostri occhi in anticipo; e partendo di qui noi proviamo un sentimento di compiacenza o di

disgusto, in relazione colla natura dell’oggetto e colla disposizione dei nostri organi di senso.

Euclide ha spiegato esaurientemente tutte le qualità del circolo; ma non ha detto una sola

parola, in qualcuna delle sue proposizioni, intorno alla bellezza del circolo. La ragione di ciò è

evidente. La bellezza non è una qualità del circolo. Essa non si trova in qualche parte della linea i

cui punti sono egualmente distanti da un centro comune. Essa è soltanto l’effetto che questa

figura produce sulla mente, che una particolare struttura rende capace di avvertire tali sentimenti.

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Hume, Appendice alla seconda Ricerca

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Invano andreste in cerca di essa nel circolo o la cerchereste, sia per mezzo dei sensi che per

mezzo di ragionamenti matematici, in tutte le proprietà di questa figura.

Prestate attenzione a Palladio ed a Perrault quando spiegano tutte le parti e tutte le proporzioni

d’una colonna. Essi parlano della cornice, del fregio, della base, del cornicione, del fusto e

dell’architrave; e fanno la descrizione ed indicano la posizione di ciascuna di queste parti. Ma se

chiedeste la descrizione e la posizione della loro bellezza, prontamente vi risponderebbero che la

bellezza non sta in qualcuna delle parti d’una colonna, ma risulta dall’insieme quando quella

figura viene presentata in tutta la sua complessità ad una mente intelligente, capace d’avvertire

queste sottili sensazioni. Finché non si abbia uno spettatore di tal fatta, non si ha che una figura

di quelle determinate proporzioni e dimensioni; soltanto dai sentimenti di quella persona trae

origine l’eleganza e la bellezza della colonna.

Ancora: ascoltate Cicerone quando dipinge i delitti di un Verre o di un Catilina. Dovete

riconoscere che la turpitudine morale risulta, allo stesso modo, dalla considerazione dell’insieme,

quando questi si presenti ad un essere i cui organi abbiano una struttura ed una formazione

determinate. L’oratore può dipingere da una parte la rabbia, l’insolenza e la barbarie, dall’altra la

rassegnazione, la sofferenza, l’affanno, l’innocenza. Ma se non sentite sorgere in voi

indignazione o compassione da questa complessità di circostanze, gli chiedereste invano in che

cosa consista il delitto o malvagità, contro la quale si scaglia con tanta veemenza. In quale tempo

e in quale soggetto, delitto o malvagità hanno dapprima incominciato ad esistere? E che cosa è

accaduto di essi pochi mesi dopo, quando ogni disposizione e pensiero di tutte le persone

implicate si son trovati ad essere completamente modificati o del tutto annullati? Nessuna

risposta soddisfacente si può trovare per una qualsiasi di queste questioni, sulla base dell’astratta

ipotesi della morale; e dobbiamo alla fine riconoscere che il delitto o immoralità non è un fatto o

una relazione particolare che possa essere oggetto dell’intelletto, ma ha origine interamente dal

sentimento di disapprovazione che, in forza della struttura della natura umana, noi

inevitabilmente proviamo quando veniamo a conoscenza di episodi di barbarie e di tradimento.

IV. Gli oggetti inanimati possono avere l’uno rispetto all’altro tutte le stesse relazioni che noi

osserviamo negli agenti morali; sebbene i primi non possano mai essere oggetto d’amore o di

odio, e non siano per conseguenza suscettibili di merito o di colpa. Una giovane pianta che

soverchi e distrugga la pianta dal cui seme è germogliata si trova nei suoi riguardi del tutto nelle

stesse relazioni in cui si trovava Nerone quando uccise Agrippina; e se la moralità consistesse

soltanto in relazioni, la pianta sarebbe indubbiamente tanto colpevole quanto Nerone.

V. E evidente che dei fini ultimi delle azioni umane non si può mai, in alcun caso, render

conto per mezzo della ragione; essi si raccomandano interamente ai sentimenti ed agli affetti

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Hume, Appendice alla seconda Ricerca

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dell’umanità, senza dipendenza alcuna dalle facoltà intellettive. Domandate ad una persona

perché è solita fare degli esercizi fisici; essa vi risponderà di farlo, perché desidera mantenersi

in salute. Se voi allora domandate perché desidera la salute, vi risponderà prontamente: perché

la malattia è dolorosa. Se voi spingete più in là le vostre ricerche e desiderate conoscere la

ragione per cui la persona in questione odia il dolore, è impossibile che essa vi dia mai qualche

risposta. Questo è un fine ultimo che non si riferisce mai ad alcun altro oggetto.

Forse alla vostra seconda domanda: perché desidera la salute, la persona in questione può

anche rispondere che essa è necessaria per l’esercizio della professione. Se le domandate perché

si preoccupa di questo punto, vi risponderà che lo fa perché desidera guadagnare. Se domandate

ancora perché, essa vi risponderà che il danaro è lo strumento del piacere. Al di là di questo, è

assurdo chiedere una ragione. È impossibile che vi possa essere un progresso in infinitum; e che

vi debba sempre essere una cosa come ragione del perché un’altra viene desiderata. Qualche cosa

si deve desiderare per se stessa ed in ragione del suo immediato accordo col sentimento e con

l’affetto degli uomini.

Ora poiché la virtù è un fine, ed è desiderabile per se stessa, senza ricompensa e

rimunerazione, soltanto per la soddisfazione immediata che reca, è necessario che ci sia qualche

sentimento che la raggiunga, qualche gusto o sensazione interna, o come altro vi piaccia

chiamarlo, che distingua il bene ed il male morali e che abbracci l’uno e respinga l’altro. Così

risultano facilmente accertati i confini precisi ed i compiti della ragione e del gusto. La prima ci

dà la conoscenza del vero e del falso; il secondo ci dà il sentimento del bello e del brutto, del

vizio e della virtù. La prima scopre gli oggetti come realmente sono in natura, senza aggiungere

o togliere nulla; l’altro ha una capacità produttiva e rendendo belli o brutti tutti gli oggetti della

natura coi colori presi a prestito dal sentimento interno, mette capo, in certo modo, ad una nuova

creazione. La ragione, essendo fredda ed indifferente, non è movente per l’azione e dirige

soltanto l’impulso che riceve dall’appetito o inclinazione mostrandoci i mezzi per conseguire la

felicità o per evitare l’infelicità. Il gusto, poiché dà piacere o dolore, e fonda così la felicità o

l’infelicità, diviene un movente per l’azione ed è la fonte prima o il primo impulso a desiderare

ed, a ivolete. Muovendo da circostanze e da relazioni, note o supposte, la ragione ci conduce alla

scoperta di altre circostanze e relazioni nascoste e sconosciute; una volta che tutte le circostanze

e tutte le relazioni sono chiare davanti a noi, il gusto ci fa provare, muovendo da quest’insieme,

un nuovo sentimentodi biasimo o di approvazione. Il criterio della ragione, essendo fondato sulla

natura delle cose, è eterno ed inflessibile, perfino da parte della volontà dell’Essere supremo; il

criterio del gusto che nasce dall’eterna struttura e costituzione degli animali, deriva in ultimo da

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Hume, Appendice alla seconda Ricerca

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quella suprema Volontà che fornì ad ogni essere la sua particolare natura e ordinò le varie classi

e i vari piani di esistenza.

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Pietro Verri (1728-97) Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773)

II. - Dei piaceri e dei dolori fisici e morali

Tutte le nostre sensazioni si dividono i due classi, e le chiamerò sensazioni fisiche e sensazioni

morali. Chiamo sensazione fisica quella, l’origine di cui si vede cagionata da una immediata

azione sulla nostra macchina. Chiamo sensazione morale ogni altra, in cui questa immediata

azione non si conosca.

Il dolore che nasce da una lacerazione o irritazione violenta del corpo nostro si chiama un

dolor fisico; una forte percossa, un taglio, un abbruciamento cagionano un dolore fisico. Quando

per lo contrario si calma la irritazione, nascono i piaceri fisici; cosí, dopo un disastroso viaggio

d’inverno un letto tepido e molle, dopo una sobria ed affannosa caccia una mensa delicata, sono

piaceri fisici: dolori e piaceri cagionati da un’immediata azione sulla nostra macchina.

L’annunzio della morte d’una persona che ci è cara, l’annunzio della rovina della fortuna

nostra e de’ beni nostri ci tormentano dolorissimamente. Qual è la cagione di questo dolore? Noi

non ne vediamo l’azione immediata sugli organi nostri, perciò si ripongono nella classe de’

dolori morali. Medesimamente la notizia d’una inaspettata eredità, d’una carica luminosa, d’una

amicizia acquistata e desiderata da noi, ci risveglia un piacere vivissimo, senza che compaia

alcun oggetto applicato agli organi della nostra sensibilità; quindi vengono chiamati piaceri

morali.

Ai piaceri e dolori fisici ogni uomo anche rozzo e selvaggio è sensibile; ai piaceri e dolori

morali tanto piú l’uomo è sensibile, quanto è piú dirozzato dall’educazione, cioé quanto è

maggiore la folla delle idee che ha aggiunte alla propria esistenza. Noi osserviamo anche nelle

intere nazioni della diversità su tal proposito; i popoli piú inciviliti sono piú sensibili alla gloria e

al disprezzo; i popoli ancora piú rozzi lo sono alle percosse e alla mercede. I piaceri e i dolori

morali sono tanto maggiori, quanto maggiore è il numero dei bisogni e delle relazioni che un

uomo sente d’avere cogli altri.

Per conoscere questa verità esamino attentamente me stesso. Se nel momento in cui mi si

annunzia la morte di un mio dolcissimo amico, io potessi essere certo che dopo brevi istanti la di

lui memoria non esisterà piú nel mio animo, né piú mi risovverrò di averlo conosciuto; se avessi,

dico, questa certezza, il mio dolore sarebbe semplicemente la compassione del male altrui;

sentimento il quale preso isolato fors’anco non consiste che nel fremito di alcune parti unisone

della nostra sensibilità. Quel che cagiona la desolazione e lo squallore ov’io piombo, si è che in

quel momento prevedo quante volte avrò davanti agli occhi l’immagine della perdita fatta; sento

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Verri, Discorso sul piacere, ii

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in quel momento la trista solitudine che mi si apre davanti, e il paragone che ne farò col bene

avuto: nelle mie afflizioni non avrò piú un fedele compagno, a cui senza timore manifestarmi, e

riceverne consiglio e assistenza; negli avvenimenti felici non vedrò piú quella gioia dell’amicizia

che moltiplica la felicità, comunicandola. Dove trovare chi s’interessi meco ne’ deliri della mia

immaginazione, e che per uniformità di genio avendo meco comune la curiosità di scoprire il

vero mi accompagni? Dove troverò piú un essere tanto grato, tanto sensibile, che mi consolava

ad ogni atto di amicizia che io usassi seco, dolce di carattere, robustissimo nella onestà, attivo,

discreto, nobile? Cosí mi vado col pensiero spignendo sulla serie delle dolorose sensazioni che

mi aspettano, e su quel primo momento contemporaneamente pesando tutti i momenti del dolor

preveduto, resto immerso nella piú crudele amarezza. Questo dolor morale nasce dalla riunione

de’ fantasmi che occupano la mia mente, onde la parte piú nobile di me stesso appoggiando sul

passato, e sull’avvenire piú che sul momento attuale, e paragonando i due modi di esistere, tutta

inviluppata nel timore dei mali preveduti s’immerge in un dolore morale.

Mi ripongo in una opposta situazione. Mi figuro che mi venga l’annunzio d’una luminosa

carica ottenuta. Se io potessi dimenticarmi del passato, se io non mi slanciassi nell’avvenire, la

novella recatami riuscirebbe insipida, e il mio animo non sentirebbe niuna sensazione piacevole.

Ma si affacciano alla mia mente le ingiustizie, l’orgoglio, la fredda indifferenza, che hanno

mostrato per me alcuni uomini insolenti per la loro carica sin tanto che restai disarmato e senza

potere, mi spingo nell’avvenire, e li prevedo cambiati; mi trovava nell’impossibilità di

acquistarmi l’opinione pubblica, eccomi il campo aperto per guadagnarmela; ho in faccia degli

amici che potrò coi benefici rendere agiati, e sempre piú ben affetti; gli emuli, o riconciliati o

ridotti all’impotenza di nuocere; tutto questo ridente spettacolo mi si spalanca allo sguardo; tutte

le sensazioni, alle quali vado incontro, già in parte mormorano nel mio interno; il giubilo, la

consolazione invadono tutta la mia sensibilità; sono immerso in un voluttuosissimo piacer

morale, perché, poco o nulla pesando sul momento presente, tutto mi appoggio sul passato e

sull’avvenire.

Questi due esempi generalmente convengono a tutti i dolori morali, a tutti i piaceri morali.

Essi non si risentono se non inquel momento, in cui l’animo dimentico quasi del presente si

risovviene e prevede; e a misura che o teme, o spera, sente o dolore, o piacere. Se questo è vero,

ne scaturisce un teorema generalissimo. Tutte le sensazioni nostre piacevoli o dolorose,

dipendono da tre soli principî azione immediata sugli organi, speranza e timore. Il primo

principio cagiona tutte le sensazioni fisiche; gli altri due le sensazioni morali.

Scelgasi un piacere morale ancora piú nobile e puro; figuriamoci un geometra nel momento in

cui per un fortunato accozzamento di idee ha carpito lo scioglimento d’un problema arduissimo e

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Verri, Discorso sul piacere, ii

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importantissimo. Qual sarebbe la gioia di quel geometra, se egli vivesse in un’isola disabitata,

sicuro che nessun uomo potrà mai sapere la scoperta da lui fatta? A me pare che poca, o nessuna

consolazione ne proverebbe; o se qualche ombra ne risentisse, ciò verrebbe perché da quella

verità ne sperasse di cavarne o un uso pratico per viverne piú agiatamente, ovvero maggiore

attuazione a svilupparne in seguito una catena di altre curiose verità, e guadagnare cosí una

occupazione che lo sottragga alla inazione insipida della sua vita solitaria. Il piacere adunque del

matematico, quello che lo fa nudo balzare dal bagno, e scorrere pieno di entusiasmo per la città,

si è la speranza de’ piaceri che in avvenire aspetta e dalla stima degli uomini, e dai benefici che

dovrà riceverne. Perciò dico che tutti i piaceri morali, come tutti i dolori morali, altro non sono

che un impulso del nostro animo nell’avvenire: cioé timore e speranza.

Un dolore morale dei piú sublimi nella sfera degli umani, sarà quello che sente un cuor nobile

e generoso, qualora per disgrazia o acciecato da una violenta passione, ovvero per inavvertenza

abbia mancato di gratitudine a un virtuoso suo benefattore. Analizziamo i sentimenti dolorosi

che lo affliggono. Egli teme il disprezzo, o almeno la diminuzione di stima degli uomini, e

confusamente nell’avvenire scorrendo, se ne anticipa i mali; egli diffida di sé medesimo, e sente

la probabilità accresciuta di poter di nuovo in avvenire coprirsi di simili macchie, e sempre piú

veder diminuita l’opinione dei buoni; ei prevede che per quanto sia generoso il suo benefattore,

non potrà in avvenire stare in sua presenza cosí tranquillo e sereno come vi stava in prima. Tutta

questa nebbia gli offusca la serie delle sensazioni che si vede avanti, e quand’anche sul momento

non le analizzi a sé medesimo, ma confusamente col solo vocabolo di rimorso annunzi il dolor

che soffre, quest’è pure un semplice timore delle sensazioni avvenire.

Tutte le applicazioni che ho fatte di questo principio, le quali se avessi a riferirle darebbero

troppa uniformità e tedio, ricadono costantemente al medesimo risultato, che tutti i piaceri e

dolori morali nascono dalla speranza e dal timore.

Tutti i piaceri morali che nascono dalla stessa umana virtú, altro non sono che uno

spignimento dell’animo nostro nell’avvenire, antivedendo le sensazioni piacevoli che aspettiamo.

Abbiamo un illustre cittadino in Italia, il quale essendo sovrano tranquillo della sua patria,

preferí la raffinata ambizione di vivere immortale nella gratitudine e memoria de’ suoi, alla

volgare di comandare agli uomini nel corso della sua vita; rinunziò alla sovranità, ristabilí la

repubblica, si fece suddito delle leggi, subordinato ai giudici. Quale azione piú grande, piú

virtuosa, piú disinteressata! Silla l’aveva già fatta in prima, ma Silla grondante di sangue

romano, usurpatore violento d’un potere arbitrario, Silla, di cui la tirannia fra gli sgherri e le

stragi aveva immolate tante vittime, non poteva sperare che venisse mai guardato come un atto di

virtú il momento, in cui per lassitudine terminava la orribile serie de’ suoi delitti. L’immortale

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Verri, Discorso sul piacere, ii

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autore che lo fa parlare con Eucrate, innalza quel feroce al livello della sua grand’anima; ma la

storia di quegli orrori non lascia luogo a immaginarselo somigliante al ritratto. Andrea Doria per

grandezza d’animo, per vera elevazione di genio, virtuoso, pieno di gloria, nel punto in cui

abdicando la sovranità diventò cittadino, e molto piú ne’ momenti in cui prevedendo quest’atto

vi si andava disponendo, ha provato certamente i piaceri morali piú sereni ed energici. Si

slanciava egli nell’avvenire, e diceva a sé stesso: sulla faccia de’ miei concittadini leggerò scritta

la riverenza e la gratitudine unita alla meraviglia; attraverso del timido rispetto, che i sudditi

presentano al sovrano, rare volte traspirano i veri sentimenti del cuore; toglierò quest’ostacolo, e

goderò dei sentimenti spontanei. Non sarà certamente minore la mia influenza negli affari

pubblici dopo una sí generosa abdicazione, ed ogni adesione sarà per me cosí dolce, come se

ogni volta mi proclamassero sovrano. Regnando anche felicemente, potrebbe essere eclissata la

mia gloria da altri piú felici successori; ma osando render forti al par di me i cittadini, e

stabilendo una repubblica, rimarrà isolata la mia gloria, e s’innalzerà alla veduta ne’ secoli piú

remoti. L’affetto, la spontanea sommessione, l’ammirazione, la fama, tutti i beni che queste seco

portano li sperava, e li vedeva di fronte quando si apparecchiava all’atto generoso, e cosí la

speranza era la sorgente di tutti quei piaceri morali.

L’uomo fedele alle sue promesse, grato ai benefici, attivo nel consolare e aiutare gli uomini,

disinteressato, nobile, guardingo a non nuocere sia coi fatti sia colle parole piú trascorrevoli, e

talvolta piú fatali, ogni volta che un nuovo atto rinfianca i suoi principî, prevede di rendere sé

stesso sempre piú forte coll’abitudine al bene, e di confermare e cementare sempre piú la

opinione pubblica, e singolarmente la stima degli uomini buoni. Quindi in ogni atto virtuoso che

fa, sente diminuito un grado alla possibilità di perdere questi beni, e accresciuto un grado alla

speranza delle sensazioni piacevoli che se gli affacciano. Il piacere morale di lui sarà sempre piú

forte, quanto piú diffiderà della perseveranza, e quanto sarà piú incerto e timoroso sulla opinione

altrui.

O io m’inganno, oppure questa teoria è costante, siccome ho detto, che tutti i piaceri

egualmente come tutti i dolori morali nascono dal timore e dalla speranza, in guisa tale che, se

potesse darsi un uomo incapace di temere o di sperare, questi non potrebbe avere che soli piaceri

e dolori fisici; come vediamo appunto accader ne’ bambini, i quali sprovveduti d’idee, e altro

non avendo che gli organi disposti a ricevere le impressioni, tanto meno corredati di memoria,

quanto piú è vicino il momento in cui cominciarono ad essere, incapaci di grandi paragoni o

numerose combinazioni, non sentendo né speranza né timore, unicamente in preda ai dolori e ai

piaceri fisici, non cominciano a gustare i morali se non a misura che gli anni e l’esperienza

insegnano loro l’arte di sentire per antivedenza. Il senso morale che si acquista se non

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Verri, Discorso sul piacere, ii

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allorquando, col séguito d’una lunga serie di sensazioni, accumulatasi una folla di idee, giugne

l’uomo a conoscere la successione di diversi modi di esistere, onde si sviluppano nell’animo i

due risultati speranza e timore. Sinché ciò non si è fatto coll’opera del tempo, l’uomo altre

sensazioni non potrà avere, come dissi, se non le fisiche, le quali sono modi di esistere isolati,

prodotti dalla momentanea passività degli organi, bastante ad eccitare il movimento dell’animo.

Infatti, se attentamente esamineremo lo sviluppamento che per gradi fa l’animo di un

fanciullo, vedremo che la vergogna, la compassione, il pentimento, come l’ambizione, l’invidia,

l’avidità, l’entusiasmo, i germi insomma delle virtú e dei vizi, col lungo tratto di tempo soltanto,

e dopo aver fatto un grande ammasso d’idee, si vedono schiudere e sviluppare. Di che il

profondo Giovanni Locke trovò già una felice dimostrazione.

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Edmund Burke (1729-97)

Inchiesta sul Bello e il Sublime (1751 ecc.)

traduzione Giuseppe Sertoli e Goffredo Miglietta

Parte prima

I - La novità

La prima e la piú semplice emozione che scopriamo nell’anima nostra è la curiosità. Per curiosità

intendo qualunque desiderio abbiamo per ciò che è nuovo, o qualunque piacere troviamo in esso.

Vediamo che i bambini corrono continuamente da un posto all’altro per scoprire qualcosa di

nuovo; afferrano con grande slancio e senza esitare nella scelta tutto ciò che cade dinnanzi ai

loro occhi; la loro attenzione è attratta da qualunque cosa, poiché ogni cosa ha, in questo periodo

della vita, il fascino della novità. Ma poiché quelle cose che ci attirano soltanto per la loro novità

non possono dominarci per molto tempo, la curiosità è la piú superficiale di tutte le affezioni, e

muta continuamente oggetto; la sua avidità è molto viva, ma assai facilmente soddisfatta, e

presenta sempre un aspetto di vertigine, di irrequiettezza e di ansietà. La curiosità è per sua

natura una fonte attivissima: scorre con rapidità su gran parte dei suoi oggetti e subito esaurisce

la varietà che generalmente si riscontra nella natura; le stesse cose frequentemente ritornano, e

ritornano con un effetto sempre meno gradevole. In breve, i casi della vita, dal tempo in cui ha

inizio la nostra conoscenza, non sarebbero in grado di colpire la nostra mente con altre

sensazioni che quelle di disgusto e di noia, se molte cose non fossero atte a colpire l’animo

mediante altri poteri che non il potere della novità, e risvegliando altre passioni oltre quella della

curiosità. Questi poteri e queste passioni saranno considerati al momento opportuno. Ma di

qualunque natura siano questi elementi o in base a qualunque principio colpiscano la mente, è

assolutamente necessario che essi non vengano applicati a quelle cose che l’uso quotidiano ha

invilito e reso familiari e banali. Un certo grado di novità è uno degli elementi indispensabili di

ciò che agisce, e la curiosità si unisce piú o meno a tutte le nostre passioni.

II - Dolore e piacere

Sembra quindi necessario che, per eccitare le passioni delle persone già adulte, gli oggetti

destinati a tale scopo, oltre ad essere in certo grado nuovi, debbano essere capaci di suscitare

dolore o piacere per altre cause. Il dolore e il piacere sono idee semplici, non suscettibili di

definizione. La gente non è soggetta a sbagliarsi nei suoi sentimenti, ma sbaglia molto spesso nei

nomi che dà loro e nel ragionare intorno ad essi. Molti sono dell’opinione che il dolore nasca di

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Burke, Inchiesta sul bello e il sublime

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necessità dall’allontanamento di un piacere, poiché ritengono che il piacere sorga dalla

cessazione o diminuzione di un dolore. Da parte mia, sono piuttosto propenso a ritenere che il

dolore e il piacere, nel loro piú semplice e naturale modo di impressionare, abbiano ciascuno una

natura positiva, e non debbano affatto dipendere l’uno dall’altro. La mente umana è spesso, e

credo che lo sia per la maggior parte del tempo, in uno stato non di dolore e non di piacere, che

chiamo stato di indifferenza. Quando passo da questo stato di indifferenza a uno stato di piacere

effettivo, non sembra necessario che debba passare attraverso uno stato intermedio di dolore. Se

in tale stato di indifferenza, di quiete, di tranquillità, chiamatela come volete, voi doveste essere

improvvisamente rallegrati da un concerto di musica, o supponiamo che un oggetto di belle

forme o di colori vivamente brillanti dovesse apparire dinnanzi a voi, o immaginate che il vostro

odorato fosse deliziato dalla fragranza di una rosa, o che, senza aver sete, voi doveste assaggiare

un buon vino, o gustare dei dolci senza essere affamati, in tutti i diversi sensi dell’udito,

dell’odorato e del gusto senza dubbio trovereste un piacere. Pure se indagassi in che stato fosse

la vostra mente prima di questi piaceri, ben difficilmente mi direste che si trovava in uno stato di

dolore; o, dopo aver soddisfatto questi diversi sensi con diversi piaceri, direste che sia poi

subentrato un dolore, sebbene il piacere sia del tutto finito? Supponete d’altro lato che qualcuno,

che si trovi in questo stato di indifferenza, riceva un colpo violento o beva una bevanda amara o

che il suo orecchio venga colpito da un suono aspro e stridente; in tutti questi casi non v’è una

scomparsa di piacere, eppure si avverte, in ogni senso colpito, un dolore molto ben riconoscibile.

Si potrebbe forse dire che il dolore in tal caso traeva la sua origine dalla scomparsa del piacere,

di cui prima si godeva, sebbene questo piacere fosse cosí poco vivo da essere percepito solo nel

momento in cui è scomparso. Ma tale sottigliezza non mi sembra riscontrabile in natura. Poiché

se prima del dolore io non sento alcun piacere effettivo, non ho ragione di ritenere che tale

piacere esista, dal momento che il piacere è tale solo quando è percepito. Analogamente, e con

ragione, si può dire avvenga del dolore. Non posso convincermi che piacere e dolore siano

semplici relazioni che possono esistere solo come contrari, ma ritengo di poter chiaramente

distinguere l’esistenza di dolori e piaceri positivi, del tutto indipendenti l’uno dall’altro. Nessuna

percezione è per me piú certa di questa. Non vi è nulla che appaia al mio pensiero piú chiaro dei

tre stati di indifferenza, di piacere e di dolore. Posso percepirne ciascuno senza avere alcuna idea

della sua relazione con gli altri due. Se uno, dolorante per una colica, per cui prova un dolore

reale, viene steso sulla ruota di tortura, sentirà un dolore molto maggiore; ma questo dolore

determinato dalla ruota deriva forse dalla scomparsa di un piacere? L’attacco di colica può essere

un piacere o un dolore, a seconda di come ci piace considerarlo?

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III - Differenza fra la scomparsa del dolore e piacere positivo

Porteremo il problema ancora un passo piú in là e cercheremo di stabilire che il dolore e il

piacere non soltanto non sono dipendenti necessariamente dalla loro reciproca diminuzione o

scomparsa, ma che in realtà la diminuzione o la cessazione del piacere non agisce come un

dolore positivo, e che Ia scomparsa o la diminuzione del dolore, nei suoi effetti, ha pochissima

rassomiglianza col piacere positivo.

La prima di queste affermazioni sarà, credo, molto piú facilmente accettata, perché è ben

evidente che il piacere, quando ha compiuto il suo corso, ci lascia nello stato in cui ci ha trovato.

Il piacere d’ogni genere soddisfa prontamente, e quando è finito, ricadiamo nell’indifferenza, o

piuttosto in una dolce tranquillità, che ha in sé il gradevole colore della sensazione precedente.

Ammetto che a prima vista non sia cosi evidente che la cessazione di un grande dolore non

assomigli a un piacere positivo; ma ricordiamoci della condizione in cui si trovava la nostra

mente nello sfuggire a un pericolo imminente o nel momento in cui ci liberavamo dalla crudezza

di un atroce dolore. In tali occasioni abbiamo trovato, se non mi sbaglio, l’animo nostro ben

lontano dal piacere effettivo; ossia in uno stato di grande sobrietà, improntata a un senso di

terrore, in una specie di tranquillità adombrata dall’orrore. In tali occasioni il contegno e

l’atteggiamento della persona sono cosí corrispondenti a questo stato d’animo, che chiunque,

ignaro del motivo che influisce sul nostro aspetto, ci giudicherebbe piuttosto in preda a

costernazione che intenti al godimento di un piacere positivo.

Come quando un grave fallo ha travolto colui che, Omicida in patria, giunge presso un popolo straniero, Alla casa di un ricco: lo stupore assale chiunque lo veda1

Questa sorprendente manifestazione dell’uomo che Omero suppone sia appena sfuggito a un

pericolo sovrastante, quella specie di passione mista di terrore e di sorpresa, che egli attribuisce

agli spettatori, dipinge a tinte molto forti il modo in cui ci troviamo colpiti in occasioni

comunque simili. Poiché, quando abbiamo sofferto una violenta emozione, la mente

naturalmente permane nella stessa condizione, dopo che la causa, che prima l’ha prodotta, ha

cessato di agire. L’agitazione del mare rimane anche dopo la tempesta, e quando questo residuo

di orrore è del tutto cessato, le passioni che il caso aveva destato scompaiono con esso, e la

mente ritorna nel suo abituale stato di indifferenza. In breve il piacere (intendo dire qualunque

cosa che, o nella sensazione interna o nella manifestazione esterna, sia simile al piacere derivante

da una causa reale) non ha mai, ritengo, la sua origine nella scomparsa del dolore o del pericolo.

1 Burke cita Omero (Iliade XXIV, 480-2) in originale e nella traduzione-parafrasi di Pope (nota di Davies)

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Burke, Inchiesta sul bello e il sublime

146

IV - Diletto e piacere come opposti l’uno all’altro

Ma diremo allora che la scomparsa del dolore o la sua diminuzione sia sempre semplicemente

dolorosa? O affermeremo che la cessazione o la diminuzione del piacere sia sempre

accompagnata da un piacere? Niente affatto. Ciò che intendo stabilire non è altro che questo: in

primo luogo, che vi sono piaceri e dolori di una natura positiva e indipendente; in secondo

luogo, che il sentimento che proviene dalla cessazione o diminuzione del dolore non rassomiglia

a un piacere_positivo abbastanza da essere considerato della medesima natura o indicato col

medesimo nome; in terzo luogo, che in base allo stesso principio la scomparsa o l’interruzione di

un piacere non ha somiglianza alcuna con un dolore positivo. È certo che la prima sensazione (la

scomparsa o la diminuzione del dolore) ha in sé qualcosa che è lontano dall’essere penoso o

sgradevole per sua natura. Questa sensazione, sovente cosí diversa da un piacere positivo, non ha

nome, ch’io sappia; ma ciò non vieta che sia veramente reale e molto diversa da tutte le altre. È

certo che ogni specie di soddisfazione o di piacere, per quanto diversi siano nel loro modo di

impressionare, è di natura positiva nell’animo di chi la prova. L’affezione è senza dubbio

positiva; ma la causa può essere, come in questo caso è senz’altro, una specie di Privazione. Ed è

logico che distinguiamo con termini diversi due cose cosí distinte in natura, come un piacere sia

semplicemente tale, senza relazione alcuna, e quel piacere che non può esistere senza una

relazione, e, tanto piú, senza la relazione col dolore. Sarebbe molto strano che queste

impressioni, cosí diverse nelle loro cause e nei loro effetti, dovessero essere confuse l’una con

l’altra, perché l’uso comune le ha riunite sotto la stessa denominazione generica. Ogni volta che

ho occasione di parlare di questa specie di piacere relativo, lo chiamo Diletto (Delight); e

cercherò con la massima attenzione di non—usare questa parola in altri significati. Riconosco

che tale parola non è comunemente usata in questo senso; ma ho ritenuto preferibile adottare una

parola ben nota e limitare il suo significato piuttosto che introdurne una nuova, che forse non

potrebbe entrare con altrettanta facilità nella lingua. Non avrei mai osato fare la benché minima

alterazione nelle nostre parole, se la natura della lingua, creata per l’uso degli affari piuttosto che

per l’uso della filosofia, e la natura del mio soggetto, che mi trae fuori dalla comune direttiva del

discorso, non mi vi obbligasse, in un certo senso. Farò uso di questa libertà con la massima

prudenza possibile. Come uso la parola Diletto per esprimere la sensazione che accompagna la

scomparsa del dolore o del pericolo, cosí quando parlerò di un piacere positivo lo chiamerò per

lo piú semplicemente Piacere.

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Burke, Inchiesta sul bello e il sublime

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V - Gioia e afflizione

Si deve osservare che la cessazione del piacere colpisce la mente in tre modi. Se finisce

semplicemente, dopo esser continuato per un certo tempo, l’effetto è l’indifferenza; se si

interrompe bruscamente, ne deriva un senso di disagio, che viene chiamato disappunto; se

l’oggetto è cosí totalmente perduto, che non rimane possibilità alcuna di goderlo ancora, nasce

nell’anima una passione che si chiama afflizione. Ora nessuno di questi sentimenti, neppure

l’afflizione che è il piú violento, io ritengo abbia somiglianza alcuna con un dolore positivo. Una

persona afflitta lascia che la sua passione aumenti; vi indulge e l’ama; ma questo non capita mai

nel caso di un reale dolore, che nessun uomo mai sopportò volentieri per un tempo prolungato.

Che l’afflizione possa esser volentieri sopportata, sebbene sia lontana da una semplice

sensazione piacevole, non è tanto difficile a comprendersi. È proprio dell’afflizione il tenere il

suo oggetto sempre dinnanzi agli occhi, presentarlo nei suoi aspetti piú piacevoli, ricordare tutte

le circostanze che lo riguardano, fino ai minimi particolari, riassaporare ogni singolo godimento,

soffermarsi su ognuno e scoprire in tutti infinite nuove perfezioni, che prima non erano state

abbastanza notate; nell’afflizione il piacere è ancora predominante e la pena che sopportiamo

non ha somiglianza col vero dolore, che e sempre odioso e che cerchiamo di allontanare il piú

presto possibile. L’Odissea di Omero, che abbonda di tante immagini naturali e commoventi,

non ne ha nessuna piú efficace di quelle che Menelao evoca riguardo al triste destino dei suoi

compagni e al suo modo di sentirlo. Egli invero ammette di concedersi spesso una sosta nel corso

di tali riflessioni malinconiche, ma osserva anche che, per quanto malinconiche, esse gli fanno

piacere.

Ma rimpiangendoli tutti e lamnentandoli sovente Assiso nelle mie stanze, mi ristoro ora col pianto, ora interrompo, Poiché stanchezza segue ben presto al gelido pianto2

D’altro lato, quando riacquistiamo la salute o quando ci sottraiamo a un pericolo sovrastante, è

dalla gioia che siamo colpiti? In tal caso l’impressione è ben lungi dalla morbida e voluttuosa

soddisfazione che concede la prospettiva certa di un piacere. Il diletto che nasce dalla

modificazione di un dolore rivela la propria origine per la sua natura solida, forte e severa.

2 Omero Odissea, IV, 100-3; nella versione di Pope riportata da Burke troviamo gli ossimori ‘pleasing woe’ (‘lutto

piacevole’) e ‘’grateful tear’ (‘gradita lacrima’) (nota di Davies)

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Burke, Inchiesta sul bello e il sublime

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VI - Le passioni che appartengono all’autopreservazione

La maggior parte delle idee capaci di produrre una forte impressione sulla mente, siano

semplicemente idee di Dolore o di Piacere, o idee delle modificazioni di questi; può essere

ridotta con una certa approssimazione a questi due punti principali, l’autopreservazione e la

società; ai fini dell’una o dell’altra delle quali si calcola rispondano tutte le nostre passioni. Le

passioni che riguardano l’autopreservazione si riferiscono per lo piú al dolore o al pericolo. Le

idee di dolore, malattia e morte riempiono li mente di forti emozioni di orrore; ma le idee di vita

e di salute, sebbene ci mettano in grado di provare piacere, non producono col semplice

godimento altrettanta impressione_Le passioni quindi che riguardano la preservazione si

riferiscono principalmente al dolore o al pericolo e sono le più forti di tutte le passioni.

VII - Il sublime

Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso

terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del

sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace disentire. Dico

l’emozione più forte, perché sono convinto che le idee di dolore sono molto piú forti di quelle

che riguardano il piacere. Senza dubbio i tormenti che siamo capaci di sopportare sono molto piú

forti, nei loro effetti sul corpo e sulla mente, che non qualsiasi piacere che il piú raffinato

epicureo possa suggerire, o che la piú viva immaginazione e il corpo piú sano e piú

squisitamente sensibile possa godere. Anzi, io dubito assai che si possa trovare un uomo disposto

ad accettare una vita piena di ogni soddisfazione al prezzo di terminarla poi nei tormenti che la

giustizia inflisse in poche ore all’ultimo sfortunato regicida in Francia. Ma come il dolore, nella

sua azione, è piú forte del piacere, cosí la morte è in generale un’idea molto piú impressionante

del dolore; poiché vi sono pochissimi dolori, per quanto intensi, che non siano preferibili alla

morte; anzi ciò che rende lo stesso dolore piú doloroso, se cosí posso esprimermi, è il fatto che

esso venga considerato come un emissario di questa regina dei terrori. Quando il pericolo o il

dolore incalzano troppo da vicino, non sono in grado di offrire alcun diletto e sono soltanto

terribili; ma considerati a una certa distanza, e con alcune modificazioni, possono essere e sono

dilettevoli, come ogni giorno riscontriamo. In seguito mi proverò a ricercare la causa di tale

fatto.

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Jeremy Bentham (1748-832)

I princìpi della morale e della legislazione (1789)

traduzione Richard Davies

CAPITOLO IV

COME MISURARE IL VALORE DI UNA CERTA QUANTITA DI PIACERE O DI DOLORE

1. Quindi i piaceri, e l’evitare i dolori, sono i fini che il legislatore ha in vista. Compete a lui,

perciò, comprendere il loro valore. I piaceri e i dolori sono gli strumenti con cui deve lavorare,

perciò è per lui doveroso comprendere la loro forza, cioè, di nuovo, da una altro punto di vista, il

loro valore.

2. Per una persona considerata per se stessa, il valore di un piacere o di un dolore considerato

per se stesso, sarà maggiore o minore, secondo le quattro seguenti circostanze:

1. La sua intensità.

2. La sua durata.

3. La sua certezza o incertezza.

4. La sua vicinanza o lontananza.

Queste circostanze sono state denominate fino a questo punto elementi o dimensioni di valore in

un piacere o dolore.

3. Queste sono le circostanze da considerare quando si calcola un piacere o un dolore

considerati, ciascuno di essi, per se stesso. Ci sono altre due caratteristiche di cui tenere conto.

Esse sono:

5. La sua fecondità, vale a dire la probabilità che ha seguito da sensazioni dello stesso

tipo: piaceri, se si tratta di uni piacere; dolori, se si tratta di un dolore.

6. La sua purezza, vale a dire la probabilità che ha di noni essere seguito da sensazioni

del tipo opposto: dolori, se si tratta di un piacere; piaceri, se si tratta di un dolore.

Queste ultime due circostanze, tuttavia, possono a malapena essere considerate in senso stretto

proprietà del piacere o del dolore in se stesso, perciò in senso stretto non vanno messe nel conto

del valore di quel piacere o di quel dolore. In senso stretto vanno considerate esclusivamente

come proprietà dell’atto, o altro evento, da cui tale piacere o dolore è stato prodotto. Di

conseguenza, vanno messe solo nel conto della tendenza di tale atto o tale evento.

4. Per una molteplicità di persone, in riferimento a ciascuna delle quali viene considerato il

valore di un piacere o di un dolore, esso sarà più o meno grande secondo sette circostanze, cioè

le sei precedenti, vale a dire:

1 . La sua intensità.

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Bentham, Princìpi, I, iv

150

2. La sua durata.

3. La sua certezza o incertezza.

4. La sua vicinanza o lontananza.

5. La sua fecondità.

6. La sua purezza. in più un’altra, cioè:

7. La sua estensione, vale a dire il numero delle persone a cui i e esteso, o, in altre

parole, il numero delle persone che ne sono colpite.

Non molto dopo la pubblicazione della prima edizione, furono composti i seguenti versi

mnemonici, allo scopo di far entrare meglio nella memoria questi punti, sui quali, come ci si può

rendere conto, poggia l’intero edificio della morale e della legislazione:

Intenso, lungo, certo, rapido, fecondo, puro, tali segni durano nei piaceri e nei dolori.

Cerca tali piaceri se il tuo fine è privato; se è pubblico, fa’ che si estendano

ampiamente. Evita tali dolori, qualunque sia la tua mira, e se i dolori devono venire, che

si estendano a pochi.

5. Per fare un conto esatto della generale tendenza di un atto, che colpisce gli interessi di una

comunità, si proceda come in- s dicato di seguito. Cominciate da una qualsiasi persona tra quelle

maggiormente colpite nei propri interessi da quell’atto, e tenete conto:

1. Del valore di ciascun distinguibile piacere che sembra da esso prodotto in prima

istanza.

2. Del valore di ciascun dolore che sembra da esso prodotto in prima istanza.

3. Del valore di ciascun piacere che sembra da esso prodotto dopo il primo. In questo

consiste la fecondità del primo piacere e l’impurità del primo dolore.

4. Del valore di ciascun dolore che sembra da esso prodotto in un secondo momento. In

questo consiste la fecondità del primo dolore, e l’impurità del primo piacere.

5. Fate la somma dei valori di tutti i piaceri da un lato, e di tutti i dolori’ dall’altro. Se la

bilancia pende dalla parte dei piaceri, la tendenza dell’atto risulterà complessivamente

buona, rispetto agli interessi di quella persona individuale; se dalla parte dei dolori, la

tendenza dell’atto risulterà complessivamente cattiva.

6. Contate il numero delle persone i cui interessi sembrano l’li gioco, e ripetete i

passaggi precedenti riguardo ad esse. Sommate i numeri che esprimono i gradi di

tendenza buona dell’atto rispetto a ciascun individuo, per il quale la tendenza dell’atto è

complessivamente buona. Fate questa somma per ciascun individuo per il quale la

tendenza dell’atto è complessivamente buona, e poi ancora per ciascun individuo per il

quale la tendenza dell’atto è complessivamente cattiva. Se la bilancia pende dalla parte

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Bentham, Princìpi, I, iv

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dei piaceri, la tendenza generale dell’atto risulterà buona, rispetto al numero totale, o

comunità, degli individui interessati; se dalla parte dei dolori, la tendenza generale

dell’atto risulterà cattiva rispetto alla medesima comunità.

6. Non ci si deve aspettare che questo procedimento sia scrupolosamente seguito prima di

ogni giudizio morale, o di ogni provvedimento legislativo o giudiziario. Tuttavia, si può sempre

tenerlo presente, e più il procedimento realmente seguito in tali occasioni gli si avvicinerà, più

quel procedimento reale si avvicinerà all’esattezza.

7. Lo stesso procedimento è allo stesso modo applicabile a qualsiasi forma in cui il piacere e il

dolore si presentano, e quale al che sia il termine con cui vengono distinti: per il piacere, sia che

venga chiamato bene che è propriamente la causa o lo strumento del piacere), profitto (che è un

piacere remoto, o la causa o strumento di un piacere remoto), oppure convenienza vantaggio,

beneficio, remunerazione, felicità, e così via. Per il dolore, sia che venga chiamato male (che è

relativo a bene), o danno, inconventente, svantaggio, perdita, o infelicità, e così via.

8. Questa teoria non è insolita e íngiustificata, come non è inutile. In essa non c’è altro che ciò

a cui è perfettamente conformabile la prassi degli uomini, in tutti i casi in cui essi hanno una

visione chiara dei loro interessi. In base a cosa viene valutata una proprietà, per esempio una

tenuta? In base ai piaceri di ogni tipo che consente di produrre, e, che è lo stesso, in base ai

dolori di ogni tipo che consente di allontanare. Ma è riconosciuto universalmente che il valore di

tale proprietà cresce o i scende a seconda della sua durata, della certezza o incertezza

dell’entrarne in possesso, e del tempo in cui se ne entra in possesso. Per quel che riguarda

l’intensità dei piaceri che ne derivano per un uomo, non ci si pensa mai, perché dipende dall’uso

che ogni persona particolare può farne, cosa che non può essere stimata finché non vengono in

luce i particolari piaceri che egli ne può trarre, e i particolari dolori che per suo mezzo può

allontanare. Per la stessa ragione, non si pensa nemmeno alla fecondità o alla purezza di quel

piaceri.

Questo per quel che riguarda il piacere e il dolore, la felicità e l’infelicità, in generale.

Andiamo ora a prendere in considerazione i vari particolari tipi di dolore e piacere.

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John Stuart Mill (1806-73)

Utilitarismo (1861)

traduzione M. Baccanini (cap 2) e E. Musacchio (cap 4)

Capitolo 2

CHE COS’È L’UTILITARISMO

Una considerazione incidentale merita il grossolano errore di coloro i quali ritengono che i

seguaci dell’utilitarismo, inteso quale criterio del lecito e dell’illecito, usino il termine nel senso

ristretto e colloquiale in cui l’utilità è contrapposta al piacere. Con questo, non intendo

minimamente confondere i teorici dell’antiutilitarismo con i sostenitori di una tale

interpretazione la quale è tanto più assurda in quanto una delle accuse più frequenti rivolte

all’utilitarismo è proprio quella di ricondurre ogni cosa al piacere nella forma più volgare. Come

è stato acutamente osservato da un sottile scrittore, una stessa categoria di persone, e spesso le

stesse persone, denunciano la teoria «come arida e inattuabile quando la parola utilità precede la

parola piacere, e troppo voluttuosamente attuabile quando la parola piacere precede la parola

utilità». Chi conosca minimamente il problema sa che i sostenitori dell’utilitarismo, da Epicuro a

Bentham, intendono per utilità non qualche cosa di distinto dal piacere, ma il piacere stesso unito

all’assenza di dolore; e, invece di opporre l’utile al piacevole o al dilettevole, hanno sempre

sostenuto che l’utile è qualche cosa di piacevole. Non di meno, la gente comune, non esclusi

quelli che scrivono su giornali e periodici, come pure gli autori di libri di un certo valore, cade

continuamente in questo grossolano errore. Quando impiegano la parola utilitarismo, di cui

spesso non comprendono che il suono, esprimono di solito con essa il rifiuto o la negazione del

piacere, sia sotto la forma della bellezza, sia sotto quella della gioia o del diletto. Il termine non è

sempre applicato a titolo di spregio: contrapposto alla frivolezza e ai meri piaceri momentanei

trova, a volte, un significato positivo. E questo senso distorto è il solo in cui la parola viene

accolta e diffusa dalla nuova generazione. Sarebbe opportuno che coloro i quali hanno introdotto

il termine e che, per molti anni,, lo hanno adoperato in una imprecisa accezione lo riassumessero

nel suo vero significato, con la speranza di sottrarlo a questo uso alquanto degradante.

La dottrina che accetta come fondamento della morale l’utilità, o il principio della massima

felicità, sostiene che le azioni sono lecite in quanto tendono a promuovere la felicità, e illecite se

tendono a generare il suo opposto. Per felicità si intende piacere e assenza di dolore: per

infelicità dolore e privazione del piacere. Per fornire una nozione esatta del criterio morale

stabilito da tale teoria sono necessarie ulteriori precisazioni: che cosa si intenda, in particolare,

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Mill, Utilitarismo

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per dolore e per piacere e in quale misura questa sia rimasta una questione aperta. Ma tali

ulteriori spiegazioni non influenzano la concezione della vita su cui si fonda questa dottrina per

la quale il piacere e la liberazione dal dolore sono le sole cose desiderabili come scopi; e tutte le

cose desiderabili (che nella concezione utiliaristica sono tanto numerose quanto in ogni altro

sistema) lo sono per il loro piacere intrinseco o quali mezzi per promuovere il piacere e prevenire

il dolore.

Una simile concezione della vita suscita in molti spiriti, e soprattutto fra chi nutre i più elevati

sentimenti, un’inveterata avversione. Non avendo l’esistenza uno scopo più alto del piacere, né

fine migliore e più nobile della sua ricerca, la dottrina utilitaristica è considerata spregevole e

abietta, degna solo dei maiali ai quali i discepoli di Epicuro furono, nell’antichità, paragonati con

disprezzo; e i moderni sostenitori della teoria utilitaristica sono oggetto di paragoni altrettanto

sprezzanti da parte dei suoi critici tedeschi, francesi, inglesi.

Di fronte a questi attacchi, gli epicurei hanno sempre risposto che non essi, ma i loro

accusatori, rappresentano la natura umana in una luce degradante: poiché l’accusa presume che

gli esseri umani siano capaci soltanto di piaceri simili a quelli dei maiali. Se questa supposizione

fosse vera, l’accusa non potrebbe essere confutata, ma non sarebbe più una imputazione giacché,

se le fonti del piacere fossero le stesse, sia per l’uomo che per i maiali, le norme di vita adatte al

primo lo sarebbero anche per i secondi. Paragonare la concezione epicurea dell’esistenza alla

vita degli animali è una degradazione, poiché i piaceri degli animali, in realtà, non soddisfano le

concezioni della felicità di un essere umano. Le facoltà dell’uomo sono più elevate degli appetiti

animali, e, quand’egli ne sia conscio, si riterrà felice solo se potrà appagarle. Non ritengo che gli

epicurei siano stati del tutto esenti da difetti nel trarre le loro conseguenze dal principio

utilitaristico. Per arrivare a farlo in misura sufficiente c’è voluto l’apporto di molti elementi

dottrinali stoici non meno che cristiani. Ma non c’è alcuna concezione epicurea della vita che

non assegni ai piaceri dell’intelletto, dei sentimenti, dell’immaginazione e della rettitudine

un’importanza molto più elevata di quelli dei sensi. Si deve ammettere, tuttavia, che gli

utilitaristi hanno in genere collocato i piaceri dello spirito su un piano superiore a quelli del

corpo, soprattutto in considerazione della maggiore stabilità, sicurezza e gratuità dei primi,

sottolineandone più i vantaggi che la loro intrinseca natura. Tutto ciò depone a favore degli

utilitaristi i quali avrebbero anche potuto usufruire, in modo affatto coerente, di più efficaci

strumenti di difesa. t dei tutto compatibile con il principio dell’utilità che alcuni tipi di piaceri

siano più desiderabili e apprezzabili di altri. Sarebbe assurdo che, mentre nello stimare tutte le

altre cose la qualità viene presa in considerazione allo stesso modo che la quantità, la stima dei

piaceri dovesse dipendere unicamente dalla quantità.

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Mill, Utilitarismo

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Alla domanda che cosa io intenda per differenza di qualità nei piaceri, o che cosa renda un

piacere, in quanto tale, più valido di un altro, a parte la sua maggiore quantità, non c’è, che una

risposta possibile: di due piaceri, quello verso cui tendono, indipendentemente da ogni

sentimento di obbligazione morale, tutti o quasi tutti coloro che hanno esperienza di entrambi è il

piacere più desiderabile. Se l’uno dei due è considerato, da coloro che hanno sufficiente

esperienza di entrambi, decisamente superiore all’altro, anche se il procurarselo costa, pena e

non si è disposti a rinunciarvi in cambio di alcuna quantità dell’altro, allora è lecito attribuire al

piacere preferito una qualità superiore, che oltrepassa in misura tale la quantità da rendere

questa, a paragone, di poco conto.

È incontestabile che coloro i quali hanno sufficiente coscienza di essi e sono in grado di

apprezzarli realmente e di godere di entrambi propendono per un sistema di vita che soddisfi le

loro facoltà più elevate. Pochi acconsentirebbero a essere mutati in animali in cambio dei pieno

godimento dei loro piaceri bestiali. Nessun essere umano intelligente desidererebbe essere un

folle, nessuna persona istruita vorrebbe essere un ignorante, nessun individuo di retto e onesto

intendimento gradirebbe essere egoista o abietto, anche se fossero persuasi che il folle,

l’ignorante o il furfante siano più felici di loro per questo destino. Nessuno vorrebbe rinunciare a

quanto possiede più di loro, anche in cambio della più completa soddisfazione di tutti i desideri

che ha con essi in comune. Acconsentirebbe a questa rinuncia solo nei casi di estrema infelicità,

per cui si è pronti a barattare la propria sorte con un’altra per quanto indesiderabile ai propri

occhi. Un uomo di elevate facoltà richiede di più per esgere felice, e ha, probabilmente, una

maggiore sensibilità e capacità di sopportazione delle sofferenze, rispetto a un individuo

inferiore; ma, nonostante queste predisposizioni, non si lascerà mai sommergere da un sistema di

vita degradante. Di questa avversione, possiamo dare la spiegazione che più ci piace: possiamo

attribuirla all’orgoglio, un nome, questo, che è dato indiscriminatamente ai più nobili come ai

meno rispettabili sentimenti di cui l’uomo è capace; possiamo ricondurla all’amore per la libertà

e per l’indipendenza personale, l’appello alle quali era per gli stoici uno dei mezzi più efficaci

per inculcarla, all’amore per il potere o al desiderio di ebbrezza, che in pari grado contribuiscono

ad alimentarla. Ma il suo nome più appropriato è quel senso di dignità che tutti gli uomini

possiedono in una forma o in un’altra, e non sempre in misura esattamente proporzionale alle

loro facoltà più elevate; e che è così essenziale alla felicità di coloro nei quali è radicata, che

nulla di quanto vi si oppone potrebbe stimolarli ad accondiscendervi se non momentaneamente.

Chiunque supponga che questa preferenza costituisce un sacrificio di felicità, e che l’essere

superiore, in uguali circostanze, non è più felice dell’inferiore, confonde due idee molto diverse

di felicità e di soddisfazione. E indiscutibile che l’individuo, le cui capacità di godimento sono

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Mill, Utilitarismo

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limitate, ha le maggiori probabilità di poterle completamente soddisfare; laddove invece un

individuo altamente dotato sentirà che qualsiasi felicità cui possa inirare sarà sempre imperfetta

nel mondo così come è. Ma potrà imparare a sopportame le imperfezioni se sono tollerabili; e se

proverà un sentimento di invidia verso chi non è in grado di accorgersi di esse è perché colui che

a queste soggiace non soffre della carenza di bene dovuta a quelle imperfezioni. t meglio essere

un uomo insoddisfatto che un maiale soddisfatto: è meglio essere un Socrate insoddisfatto che

uno stolto felice. E se lo stolto o il maiale non la pensano così, è perché essi non vedono che il

loro lato della questione. Gli altri ne conoscono tutti gli aspetti.

Si può obiettare che molti di coloro i quali sono capaci dei più elevati piaceri, talvolta, sotto

l’influenza della tentazione, pospongono quelli ai più bassi. Ma ciò è perfettamente compatibile

con il pieno apprezzamento dell’intrinseca superiorità del piacere più nobile. Gli uomini, spesso,

per debolezza di carattere, propendono per il piacere di più facile soddisfazione, anche se sanno

che è il meno apprezzabile: così nella scelta tra due piaceri materiali, come tra un piacere

materiale e un piacere intellettuale. Perseguono i piaceri sensuali a danno della salute, pur se

perfettamente consci che la salute è un bene maggiore. Si può, inoltre, obiettare che molti, i quali

si lasciano prendere con entusiasmo giovanile da ogni nobile ideale, avanzando negli anni

cadono nell’indolenza e nell’egoismo. Ma io non credo che chi sperimenta questo comune

mutamento scelga volontariamente i piaceri grossolani in luogo di quelli più elevati. Credo che,

prima di dedicarsi esclusivamente ai primi, siano già diventati incapaci di soddisfare i secondi. In

molte nature la capacità di sentimenti più nobili è paragonabile ad una pianta molto delicata,

facilmente deperibile non solo per opera di influenze ostili, ma anche per insufficienza di

sostentamento: nella maggior parte dei giovani questi sentimenti si spengono rapidamente, se le

occupazioni cui si sono dedicati nella vita e la società nella quale vivono non sono favorevoli a

mantenere in esercizio queste capacità superiori. Gli uomini smarriscono le loro alte aspirazioni

così come perdono i loro gusti intellettuali, poiché non hanno tempo da dedicarvi; e si adagiano

nei piaceri inferiori non perché deliberatamente li preferiscano, ma perché sono gli unici ai quali

abbiano accesso, o i soli che siano ancora in grado di godere. E discutibile che un individuo,

rimasto ugualmente sensibile ai due generi di piaceri, coscientemente e ponderatamente

preferisca quello più vile; sebbene molti, in tutti i tempi, si siano affaticati in un vano tentativo di

contemperarli.

[…]

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Capitolo 4

SU QUALE SIA IL GENERE DI PROVA COMPATIBILE CON IL PRINCIPIO DI UTILITÀ

È stato fatto osservare che le questioni riguardanti i fini ultimi non comportano prove nel senso

ordinario della parola. Il fatto di non poter essere dimostrati mediante ragionamenti è cosa

comune a tutti i primi principi, tanto alle premesse più elementari della conoscenza, quanto a

quelle della nostra condotta. Ma per le prime, in quanto sono dati di fatto, ci si può appellare

direttamente alle facoltà che giudicano i fatti, cioè a dire ai sensi e alla coscienza interna. Ci si

può appellare alla stessa facoltà per questioni di fini pratici? Oppure mediante quale altra facoltà

se ne può prendere atto?

I problemi che riguardano i fini sono, per dirla in altre parole, problemi su che cosa sia

desiderabile. La dottrina utilitarista afferma che la felicità è desiderabile, anzi che è la sola cosa

desiderabile come fine, mentre tutte le altre cose possono essere desiderabili soltanto come

mezzo per raggiungere quel fine. Che cosa si deve pretendere da questa dottrina — quali sono le

condizioni che è necessario che la dottrina soddisfi — se si vuole che questa ipotesi sia accettata

come valida?

L’unica prova che si può dare del fatto che un oggetto è visibile, è che in effetti lo si vede.

L’unica prova del fatto che un suono è udibile è che lo si ode; e così via per le altre fonti

dell’esperienza. E similmente, secondo le mie conclusioni, la sola prova è che sia possibile

offrire per il fatto che qualcosa è desiderabile, è che in effetti lo si desidera. Se il fine che la

dottrina utilitarista si ripromette non fosse riconosciuto come tale, sia in teoria che in pratica, non

c’è cosa al mondo che potrebbe convincere chicchessia di ciò. Non si può dare alcuna ragione

del perché la felicità generale sia desiderabile, se non questa: che ognuno, nella misura in cui

ritiene che essa sia raggiungibile, desidera la propria felicità. E tuttavia, dato che questo è un

fatto, non soltanto abbiamo la sola prova che sia possibile avere in questo caso, bensì tutte le

prove che è possibile richiedere del fatto che la felicità è un bene, e cioè che la felicità di ogni

persona è un bene per quella persona e che la felicità generale dunque è un bene per l’insieme di

tutte le persone. La felicità ha fatto valere il suo diritto ad essere considerata uno dei fini della

condotta e di conseguenza uno dei criteri della morale. Ma non ha provato, con ciò stesso, di

essere l’unico criterio. Perché ciò avvenga sembra necessario, in virtù della stessa regola,

dimostrare non soltanto che si desidera la felicità, ma che non si desidera mai nient’altro che la

felicità. Si può invece toccar con mano che si desiderano cose che nel linguaggio normale

vengono decisamente distinte dalla felicità. Per esempio, si desidera la virtù e l’assenza di vizi

non meno realmente di quanto non si desideri la felicità e l’assenza della sofferenza. Il desiderio

della virtù non è altrettanto universale, ma è un dato di fatto altrettanto autentico quanto il

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desiderio della felicità, e pertanto coloro che si oppongono alla norma utilitaristica ritengono di

avere il diritto di concludere che oltre alla felicità ci sono altri fini per l’azione umana e che la

felicità non è dunque il criterio per l’approvazione e per la disapprovazione.

Ma la dottrina utilitarista nega forse che la virtù venga desiderata, o sostiene che non debba

essere desiderata? Tutto al contrario. Non soltanto sostiene che si deve desiderare la virtù, ma

anzi che la si deve desiderare disinteressatamente e di per se stessa. Qualunque sia l’opinione dei

moralisti utilitaristi sulle condizioni originarie mercé le quali la virtù diviene virtù; comunque

avvenga che essi credano (come in effetti credono) che le azioni e le inclinazioni siano virtuose

solo perché promuovono un fine che non è la virtù stessa; anche quando tutto questo è concesso,

e dopoché è stato deciso in base a considerazioni di questa natura che cosa è virtuoso, essi non

solo mettono la virtù in cima alla lista delle cose che sono buone in quanto mezzi per il fine

ultimo, ma riconoscono altresì come un dato di fatto psicologico la possibilità che essa

costituisca per l’individuo un bene in se stesso, anche a prescindere da ogni altro fine, e

sostengono che la mente non è nelle sue condizioni giuste, non è in uno stato in cui sia conforme

all’utilità, non nello stato più atto a produrre la felicità generale, se non ama la virtù in tale modo

— come cosa desiderabile di per se stessa, anche se nel caso particolare non produrrà quelle altre

conseguenze desiderabili che tende a produrre e in ragione delle quali è considerata una virtù.

Questa opinione non rappresenta in alcun modo una deviazione dal principio della felicità. Gli

ingredienti della felicità sono svariati ed ognuno è desiderabile in se stesso e non semplicemente

in quanto contribuisce ad aumentare un tutto. Il Principio dell’Utilità non vuol dire che un

qualsiasi piacere dato, come la musica, per esempio, o che una qualsiasi eliminazione della

sofferenza, come per esempio la salute, debbano essere considerati come mezzi per un qualche

cosa di collettivo chiamato felicità, e debbano essere desiderati in ragione di ciò. Essi sono

desiderati e sono desiderabili in se stessi e per se stessi; oltre ad essere mezzi essi costituiscono

anche una parte del fine. Secondo la dottrina utilitarista, la virtù non è parte del fine per natura e

all’origine, ma è in grado tuttavia di diventarlo; e lo è diventata in coloro che la amano

disinteressatamente, e da costoro è desiderata ed apprezzata non come mezzo per la felicità ma

come parte della loro felicità.

Per chiarire ulteriormente ciò, possiamo rammentare che il caso della virtù non è unico in

questo, cioè nel fatto di essere originariamente un mezzo, e che se non fosse un mezzo per

qualche cosa di altro rimarrebbe cosa senza importanza, ma associandosi con ciò per cui è un

mezzo viene ad essere desiderata di per se stessa ed anzi con la più grande intensità. Che diremo,

per esempio, dell’amore del denaro? All’origine il denaro non è in alcun modo più desiderabile

di quanto lo sia un mucchietto di ciottoli scintillanti. Il suo valore consiste unicamente nelle cose

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che può comprare, nei desideri indirizzati verso altri oggetti che esso può servire a soddisfare. E

tuttavia l’amore del denaro non è soltanto una delle più forti fra le forze motrici della vita umana,

ma addirittura il denaro in molti casi è desiderato in se stesso e per se stesso: il desiderio di

possederlo è sovente più forte del desiderio di impiegarlo, e cresce anche quando vengono meno

i desideri al cui appagamento era indirizzato e che esso voleva raggiungere. In questo caso si può

ben dire che il denaro non è desiderato in vista di un fine, ma come parte di quello stesso fine.

Da semplice mezzo per la felicità, che era, è diventato esso stesso uno degli ingredienti principali

dell’idea di felicità per l’individuo. E si può dire la stessa cosa per la maggior parte degli scopi

più importanti della vita umana — il potete, per esempio, o la gloria, eccettoché a questi ultimi

scopi è unita una certa dose di piacere immediato, piacere che, per lo meno all’apparenza, è

inerente per natura ad essi; cosa che invece non si può dire del denaro. E tuttavia l’attrattiva

naturale più forte che sentiamo sia nel potere che nella fama è costituita dall’enorme contributo

che queste due cose danno all’appagamento dei nostri desideri; ed è la saldezza dell’associazione

che in tal modo viene a formarsi tra di essi, da una parte, e tutti gli oggetti dei nostri desideri,

dall’altra, che dà al desiderio diretto che si prova per queste cose quell’intensità che sovente esso

assume, tale, nel carattere di certune persone, da sorpassare, quanto a forza, tutti gli altri desideri.

In questi casi i mezzi sono diventati parte dei fini e una parte ancora più rilevante di quanto non

lo sia una qualsiasi delle cose in vista delle quali sono un mezzo. Quello che era prima desiderato

come strumento per il raggiungimento della felicità, ha finito per essere desiderato di per se

stesso. Nell’essere desiderato per se stesso, tuttavia, è desiderato come parte della felicità. Si è

felici, o si crede di essere felici, se lo si possiede e si è infelici se non si riesce a possederlo. Il

desiderio di ciò non è cosa differente dal desiderio della felicità così come non ne sono differenti

l’amore della musica o il desiderio della salute. Sono inclusi nella felicità. Sono alcuni degli

elementi che costituiscono insieme il desiderio della felicità. La felicità non è un’idea astratta,

ma un insieme concreto, e queste sono alcune delle sue parti. E il criterio utilitarista sanzione e

approva che sia così. La vita sarebbe una misera cosa estremamente sprovvista di fonti di felicità,

se la natura non avesse provveduto a far sì che cose le quali all’inizio erano indifferenti, ma tali

da condurre alla soddisfazione dei nostri desideri più elementari, o altrimenti associate ad essi,

diventassero in se stesse fonti di un piacere di valore ancora più grande che quegli stessi piaceri

elementari, per la loro durata e per lo spazio di esistenza umana che sono in grado di interessare,

e persino per l’intensità. La virtù, secondo la concezione utilitarista, è un bene di tal sorta.

All’origine la virtù non era desiderata e non fungeva da movente se non in quanto conduceva al

piacere e specialmente proteggeva dalla sofferenza. Ma mediante l’associazione che si è venuta

formando in tal modo, può venir sentita come un bene in se stessa e desiderata in quanto tale con

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un’intensità tanto grande quanto quella con cui è desiderato un qualsiasi altro bene; con questa

differenza, tra il desiderio della virtù e l’amore del denaro o del potere o della gloria, che questi

ultimi possono rendere, e sovente rendono, l’individuo nocivo agli altri membri della società a

cui egli appartiene, laddove il coltivare in se stessi l’amore disinteressato della virtù riesce

meglio di qualsiasi altra cosa a fare di un individuo una benedizione per gli altri. E di

conseguenza la norma utilitarista, mentre tollera ed approva quegli altri desideri acquisiti, fino al

punto oltre al quale, invece di promuovere la felicità generale, le nuocerebbero, prescrive e

richiede invece che si coltivi l’amore della virtù fino al punto massimo di intensità, in quanto è

determinante per la felicità generale più di qualsiasi altra cosa.

Dalle considerazioni precedenti deriva che non vi è in realtà nulla che sia desiderato eccetto la

felicità. Tutto ciò che è desiderato non come mezzo indirizzato ad un fine ulteriore ed in ultima

analisi alla felicità, è desiderato in quanto esso stesso parte dalla felicità, e non è desiderato di

per se stesso fino al momento in cui lo diventa. Coloro che desiderano la virtù per se stessa, la

desiderano sia perché la consapevolezza di possederla è un piacere, sia perché la consapevolezza

di esserne privi è una sofferenza, oppure per queste due ragioni insieme; poiché in verità piacere

e dolore raramente esistono disgiunti e sono invece quasi sempre congiunti, in quanto la stessa

persona prova piacere per il grado di virtù raggiunto e dolore per non essere ancora andato oltre.

Se una di queste ragioni non gli desse piacere e l’altra non gli desse dolore, non amerebbe o non

desidererebbe la virtù, o la desidererebbe soltanto per i vantaggi che essa può apportare a lui

stesso o a coloro che gli stanno a cuore.

Abbiamo dunque ora una risposta alla domanda su quale sia il genere di prova che è

compatibile con il principio utilitarista. Se l’opinione che ho ora esposto è psicologicamente

vera, e cioè se la natura umana è costituita in modo tale da non desiderare nulla che non sia né

parte della felicità né un mezzo per la felicità, non ci è possibile avere altra prova e non

necessitiamo di altra prova del fatto che questa è l’unica cosa desiderabile. E se le cose stanno

così, la felicità è l’unico fine dell’azione umana, e il fatto di promuovere la felicità è l’unico

metodo mediante il quale si può giudicare ogni aspetto della condotta umana. Donde ne

consegue necessariamente che deve trattarsi del criterio della moralità, dato che la parte è inclusa

nel tutto.

Dobbiamo ora decidere se le cose stanno veramente così, se l’umanità non desidera nient’altro

di per se stesso eccetto ciò che procura piacere e la cui assenza procura dolore. Ci troviamo

evidentemente davanti ad una questione di fatto e d’esperienza che dipende, come tutte le

questioni analoghe, da quello che risulta dai fatti. Può essere determinata soltanto dalla pratica

della autocoscienza e della autosservazione, aiutate dall’osservazione degli altri. Ritengo che da

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queste fonti di informazione, consultate in uno spirito di imparzialità, risulterà che desiderare una

cosa e trovarla piacevole, sentire avversione per una cosa e trovarla dolorosa sono fenomeni

assolutamente inseparabili, o meglio ancora sono due aspetti dello stesso fenomeno; per dirla con

parole più precise, sono due modi diversi di designare lo stesso fatto psicologico: che pensare ad

un oggetto come desiderabile (eccettoché in vista delle sue conseguenze) e pensare ad esso come

piacevole sono l’identica cosa. E che desiderare qualche cosa, eccettoché nella misura in cui

l’idea di essa è piacevole, è cosa impossibile sia fisicamente che metafisicamente.

Tutto ciò mi sembra così ovvio che non ritengo darà luogo a discussioni. L’obiezione che

verrà fatta non è che il desiderio in ultima analisi possa avere la più remota possibilità di

indirizzarsi ad altro che al piacere e all’eliminazione della sofferenza, ma piuttosto che il volere

non è la stessa cosa che il piacere; che una persona di provata virtù, anzi una persona qualsiasi

che proponga a se stessa progetti ben determinati, porta a termine questi suoi progetti senza

pensare al piacere ottenuto al momento di concepirli o che si attende quando saranno messi in

atto. E persiste ad agire in conformità con essi anche qualora questo piacere sia grandemente

diminuito, sia a causa di modificazioni nel suo carattere, sia per l’indebolirsi della sua sensibilità

ricettiva, o anche qualora quel piacere sia più che controbilanciato dalle sofferenze che la

prosecuzione dei progetti potrebbero arrecargli. Tutto questo io lo ammetto pienamente, e l’ho

dichiarato altrove tanto apertamente e tanto categoricamente quanto chiunque altro. La volontà,

in quanto fenomeno attivo, è cosa diversa dal desiderio, che è uno stato di sensibilità passiva, e

sebbene in origine germogli da esso, può in seguito prender radice e staccarsi dal tronco madre; a

tal punto che nel caso di uno scopo abituale, invece di volere una cosa perché la desideriamo,

sovente la desideriamo solamente perché la vogliamo. Questo tuttavia non è che un esempio di

quel comune fenomeno che è la forza dell’abitudine, e non è in alcun modo limitato al caso delle

azioni virtuose. Sono molte le cose di non grande importanza che mentre venivano fatte in

origine per un certo motivo, si continuano poi ad eseguire per abitudine. A volte le si esegue

inconsapevolmente, e la consapevolezza sopravviene solo dopo l’azione; altre volte le si esegue

per un atto di volizione cosciente, ma una volizione che è divenuta abituale e che è messa in

moto dalla forza dell’abitudine, forse in contrasto con una preferenza deliberata, come succede

spesso a coloro che hanno contratto abitudini di indulgenza viziosa e nociva. Il terzo ed ultimo

caso è quello in cui l’atto abituale della volontà, nel caso individuale, non è in contraddizione

con l’intenzione generale che prevale in altri momenti, anzi ne rappresenta il compimento; come

nel caso di una persona di provata virtù o nel caso di tutti coloro che perseguono in modo

deliberato e coerente un fine determinato. La distinzione tra volontà e desiderio, intesa in tal

modo, è un fatto psicologico autentico e di grande importanza; ma il fatto consiste solo in questo,

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che la volontà, così come tutte le altre parti costitutive della nostra natura, può essere soggetta

all’abitudine, e che possiamo volere dunque per abitudine quello che non desideriamo più di per

se stesso o che desideriamo unicamente perché lo vogliamo. Ma non è per questo meno vero che

la volontà è in origine prodotta interamente dal desiderio; includendo nel termine sia l’influenza

della repulsione esercitata dal dolore, sia quella dell’attrazione esercitata dal piacere. Prendiamo

ora in considerazione non più la persona che ha una salda volontà di agire rettamente, ma colui la

cui volontà virtuosa è ancora debole, tale da poter soccombere alla tentazione e sulla quale non si

può fare completamente affidamento. Con quali mezzi la si potrà irrobustire? Come si potrà

inculcare o risvegliare la volontà di essere virtuosi là dove essa esiste con una forza non

sufficiente? Soltanto se si fa sì che la persona desideri la virtù — facendole apparire la virtù in

una luce piacevole o l’assenza della virtù in una luce spiacevole. È associando il comportarsi

rettamente con il piacere e il comportarsi male con il dolore, oppure facendo sorgere e

stampando nella mente e introducendo nell’esperienza individuale il piacere che naturalmente

accompagna un tipo di comportamento e il dolore che accompagna l’altro, che è possibile far

avanzare quella volontà di essere virtuoso che agisce, una volta confermatasi, senza più pensiero

del piacere e del dolore. La volontà è figlia del desiderio, e non si sottrae alla soggezione di tale

padre che per soggiacere a quella dell’abitudine. Non è da presumere che ciò che è il risultato

dell’abitudine sia per ciò stesso intrinsecamente buono, e non ci sarebbe ragione di desiderare

che il fine della virtù finisse per rendersi indipendente dal piacere e dal dolore, se non fosse per il

fatto che, quanto a costante infallibilità nell’azione, è impossibile fare assegnamento sulle

influenze esercitate dalle associazioni piacevoli e spiacevoli che inducono alla virtù, fino a tanto

che quell’influenza non abbia acquistato il sostegno dell’abitudine. Sia per i sentimenti che per la

condotta, l’abitudine è la sola cosa che offra certezza, ed è proprio perché è talmente importante,

così per gli altri come per noi stessi, il poter fare assoluto assegnamento sui nostri sentimenti e

sul nostro comportamento, che la volontà di agire rettamente dovrebbe essere coltivata come

abitudine indipendente. In altre parole, questa condizione della volontà è un mezzo verso un

bene e non intrinsecamente un bene; e non contraddice la dottrina secondo la quale nulla è un

bene per gli esseri umani eccettoché nella misura in cui o esso stesso è piacevole, o è un mezzo

per raggiungere il piacere e per evitare il dolore.

Se questa dottrina è vera, il principio dell’utilità è provato. E dobbiamo lasciare ora alla

ponderata riflessione del lettore la conclusione se lo sia o non lo sia.

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Gilbert Ryle (1900-76)

‘Il piacere’

(da Dilemmi, 1954)

traduzione Enrico Mistretta

I due esempi di conflitti logici che abbiamo finora considerato nei particolari, vale a dire

l’argomento fatalista e l’argomento di Zenone, sono stati, in un certo senso, dilemmi accademici.

Essi sono stati per noi oggetto di quasi deliberata preoccupazione proprio perché li abbiamo

trovati interessanti dal punto di vista intellettuale. Sotto un certo rispetto, essi assomigliano a

quegli indovinelli ai quali vorremmo dare risposta unicamente perché trovare una risposta è un

buon esercizio. Ora invece io vorrei discutere talune argomentazioni che sono più che meri

indovinelli; argomentazioni, vale a dire, che ci interessano perché sono preoccuppanti davvero;

non puri e semplici esercizi intellettuali, bensì vivi problemi intellettuali. Vi è poi un ulteriore

carattere di quelle due argomentazioni che mancherà a queste che stiamo per affrontare; quelle

finiscono per arrivare entrambe ad una punta acuminata ed estremamente tagliente. Alcune cose

accadono per colpa nostra, o nulla accade per colpa nostra? Possono alcune cose essere sventate,

o nulla può essere sventato? Raggiungerà Achille la tartaruga al termine del secondo miglio,

oppure dovrà inseguirla asintoticamente per tutta l’eternità? D’ora in avanti, invece, noi ci

troveremo di rado, o mai, nella semplice, anche se incomoda posizione di chi sia tirato

contemporaneamente da parti opposte; ci troveremo nella posizione ben più complicata e

incomoda di citi venga tirato da più direzioni contemporaneamente.

In questo capitolo intendo discutere una piccola ed arbitraria selezione di problemi intorno

alla nozione o concetto di piacere. Ma spero che il lettore comprenderà fin dall’inizio che questi

problemi implicheranno necessariamente un cerchio più vasto di altri concetti. Proprio come il

portiere di cricket non può adempiere il suo ruolo senza che gli altri giocatori svolgano anch’essi

la loro funzione, così i compiti di termini quali ‘godimento’, ‘gradimento’, ‘piacere’ si

frammischiano ex officio con quelli multiformi di altri innumerevoli termini.

Sebbene il particolare tema che sto per porre in discussione esemplifichi alcuni autentici

dilemmi, Io scopo della mia discussione non è solo quello di richiamare l’attenzione su ulteriori

esemplari di dilemmi. A titolo introduttivo di alcune questioni di cui ci occuperemo in seguito,

vorrei mostrare un tipo di sorgente da cui i dilemmi appunto possono scaturire. Vorrei cioè

mostrare come, non appena raggiunto un livello di pensiero nel quale dobbiamo pensare non

soltanto mediante, ma anche intorno a una quantità di concetti generali o famiglie di concetti, sia

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Ryle, ‘Il piacere’

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naturale e addirittura inevitabile che noi cominciamo col tentare di assoggettarli ad un codice o

ad una regola, con cui sappiamo come operare altrove. I dilemmi insorgono quando la condotta

di un nuovo coscritto diverga dalla disciplina imposta. Il più sperimentato dei sistemi di controllo

non riesce a controllarlo. Un bambino che senta dire che un ispettore del Ministero

dell’Agricoltura e Foreste è un ufficiale governativo, potrebbe aspettarsi che questi fosse una

sorta di poliziotto. Il bambino conosce abbastanza bene alcune delle funzioni più ovvie di un

poliziotto; soltanto dopo aver scoperto che egli non fa ciò che viceversa il poliziotto fa, e che fa

ciò che il poliziotto non fa, e così via, si convincerà che gli ispettori del Ministero

dell’Agricoltura e Foreste non sono poliziotti, né ufficiali postali, né guardiacoste, né

centralinisti dei telefoni. In modo più o meno analogo noi, ad un più alto livello di astrazione,

possiamo arrivare a situare correttamente un concetto o una famiglia di concetti soltanto dopo

aver tentato, senza riuscirvi, di sistemarli in una qualche già nota intelaiatura di idee, di stiparli,

per così dire, in un cassettone che solitamente usiamo, o di ficcarli in una qualche credenza dove

generalmente conserviamo tazze e bicchieri.

Le nozioni di godimento e di disgusto non sono nozioni tecniche. Noi tutti le usiamo, e non

c’è cricca di esperti che, a forza di allenamento ed esercizio professionale, divengano la suprema

autorità quanto all’uso da farne. Noi ben sappiamo, in genere, pur senza servirci di alcuno

specifico metodo di ricerca, se qualcosa potrebbe farci piacere o no questa mattina, e persino, in

via più generale, se preferiamo il cricket al calcio. Né insorge alcuna difficoltà logica quando

utilizziamo quotidianamente, a livello elementare, queste nostre nozioni così familiari, e cioè, in

parole povere, quando parliamo non già del piacere, bensì di partite, di vittorie o di scherzi che ci

siano o non ci siano piaciuti. Secondo un certo uso della preposizione ‘di’, chi dicesse che un

tempo si divertiva più a leggere Dickens che non Jane Austen, ma che adesso preferisce questa a

quello, potrebbe a buon diritto negare di star parlando ‘del’ piacere; egli stava parlando dei due

narratori, infatti. Potrebbe sostenere che lui non sta parlando del piacere finché non comincia a

discutere questioni di carattere generale, come quella se la gente debba sempre porre il dovere

prima del piacere, o se il fatto che i più gustino maggiormente i racconti di Marie Corelli di

quanto non gustano quelli di Jane Austeri dimostri che i primi sono migliori dei secondi. Qui

certamente egli parlerebbe del piacere, e precisamente: nel primo caso, di una questione di

carattere morale relativa alla relazione fra piacere e dovere; nel secondo, di una questione di

critica letteraria concernente la relazione fra godimento e gusto letterario.

Vi sono parecchie zone sovrapponentisi del discorso, nelle quali, molto prima che si cominci

a filosofare, saltano fuori questioni di ordine generale intorno al piacere da agitare e dibattere.

L’educatore morale che inculca regole di comportamento, lo psicologo che tenta di classificare le

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Ryle, ‘Il piacere’

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fonti dell’agire umano, l’economista che collega le differenze di prezzo con i diversi indici di

preferenza dei consumatori, il critico d’arte che confronta la capacità di attrazione di diverse

opere artistiche, tutti costoro debbono esprimersi in termini generali a proposito, fra molte altre

cose, del piacere che gli esseri umani provano o dovrebbero provare per cose diverse. È soltanto

dall’interferenza di queste e altre generalizzazioni siffatte, sulla cui verità, ove le si consideri

separatamente, non abbiamo dubbi, che insorgono i nostri caratteristici problemi.

Prenderò le mosse dall’equipaggiamento teoretico di cui alcuni pionieri della teoria

psicologica, con naturale eccesso di fiducia, tentarono di dotare la nozione di piacere. Convinti

che la loro missione scientifica consistesse nel riprodurre, nel mondo della mente, quel che i

fisici avevano fatto per il mondo della materia, si misero a cercare dei corrispondenti mentali

delle forze in base alle quali la dinamica aveva fornito spiegazione del moto dei corpi. Quali

fenomeni individuabili per introspezione giocavano nell’intenzionalità della condotta umana il

ruolo che la pressione, l’urto, l’attrito, l’attrazione avevano nella accelerazione e decelerazione

degli oggetti fisici? Desiderio e piacere, avversione e pena sembravano mirabilmente qualificati

ad interpretare appunto le parti richieste; tanto più, poi, perché tutti sanno che di norma la gente

desidera ciò del cui possesso godrebbe, se lo raggiungesse; è di solito lieta di avere ciò che aveva

desiderato avere; e quando sceglie fra una cosa ed un’altra preferisce quella che sceglie a quella

che respinge. Questi stati della mente sono convenevolmente variabili sia quanto al grado, sia

quanto alla durata. Ci si poteva aspettare di poter applicare ai nostri gusti e disgusti concorrenti e

cooperanti, ai nostri desideri e alle nostre avversioni, qualcosa di analogo al parallelogramma

delle forze.

Sembrò così ragionevole fissare, come assiomi della dinamica umana, proposizioni

abbastanza plausibili, e tuttavia anche implausibili, del tipo: tutti i desideri sono desideri del

piacere; tutte le azioni intenzionali sono motivate dal desiderio di un netto incremento

quantitativo del piacere provato dall’individuo agente, ovvero di una netta diminuzione

quantitativa del dolore; e: l’efficacia dinamica di un piacere differisce da quella di un altro

soltanto se il primo è più grande del secondo, cioè più intenso o più prolungato, o entrambe le

cose insieme. Partendo da questi assiomi, sembrò pertanto ovvio, per quanto sgradevole, dedurre

che l’altruista differisce dall’egoista soltanto nel fatto che l’autosoddisfacimento dell’altruista è

tale da incrementare il piacere altrui; che soltanto perché è per lui fonte di piacere produrre

piacere negli altri che noi diciamo, in modo non corretto, che le sue azioni sono dettate da spirito

di sacrificio; solo la prospettiva del proprio piacere può muoverlo ad agire come agisce.

Una siffatta rappresentazione dei piaceri come effetti di atti, ove il desiderio di quei piaceri si

pone come la causa di quegli atti, sembrò accordarsi a perfezione con il già prevalente criterio di

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Ryle, ‘Il piacere’

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aggruppamento di piacere e dolore. Come le punture di vespa ci fanno male, e come la paura di

queste punture è ciò che di solito ci spinge a schivare le vespe, così allo stesso modo, ma in

senso opposto, i piaceri erano interpretati come sensazioni prodotte da azioni e da altri eventi; e

il desiderio di provare di queste sensazioni era interpretato come quel che ci spinge a compiere o

a garantirci quelle cose che le producono; e come i dolori hanno diversa durata e intensità e sono

tanto peggiori quanto più sono prolungati ed intensi, così allo stesso modo, stando a questa teoria

dinamica, i piaceri dovevano essere sentimenti o sensazioni analoghe, capaci di analoghe

variazioni quantitative. Invero, si assumeva comunemente che i piaceri stessero ai dolori come il

caldo al freddo, o il veloce al lento, e cioè che gli uni e gli altri occupassero gli estremi opposti

della medesima scala; onde la misurazione e il calcolo delle quantità di piacere doveva essere

esattamente l’inverso della misurazione e del calcolo delle quantità di dolore: quantità maggiori

dell’uno equivalevano a quantità minori dell’altro.

Ora, per quanto in effetti teorie di questo genere ci dicano che il ruolo del concetto di piacere

è l’esatto corrispettivo di quello del concetto di dolore, allo stesso modo in cui nord è il

corrispettivo di sud, tuttavia vi sono obbiezioni insuperabili a questa loro rappresentazione come

opposti diretti. Noi siamo pronti a riconoscere che alcune cose ci fan male, mentre altre ci

allietano o ci deliziano; e siamo pronti a riconoscere che alcune cose ci procurano dolore e altre

piacere. Ma rifuggiamo, per esempio, dal dire che due minuti fa ho provato dolore e un minuto fa

ho provato piacere; o che mentre il mio mal di capo era l’effetto di un affaticamento della vista,

il mio piacere era l’effetto di uno scherzo o del profumo di una rosa. Noi possiamo spiegare al

medico dove avvertiamo dolore e se si tratta di un dolore lancinante, pungente, o bruciante; ma

non possiamo spiegargli, né egli ce lo domanderebbe, dove proviamo piacere, o se si tratti di una

piacere intermittente o stabile. La maggior parte delle domande che si possono fare sui nostri

malesseri fisici, sui nostri fastidi e altre sensazioni o sentimenti, non si possono fare sui nostri

gusti e disgusti, sui nostri godimenti e le nostre avversioni. In una parola, il piacere non è affatto

una sensazione, e tanto meno una sensazione sulla stessa scala con i malesseri o i disturbi fisici.

Altre considerazioni confermano il nostro assunto. Alcune sensazioni, come certe

stimolazioni, sono piacevoli; altre, come certe altre stimolazioni, sono spiacevoli. Una certa

sensazione di calore può essere penosa, mentre un’altra sensazione di calore egualmente acuta,

come quella, per esempio, prodotta da un sorso di tè caldo, può essere piacevole. In qualche rara

occasione noi siamo persino disposti a dire che qualcosa ci fa male, ma che ciò nonostante ci

piace, o quanto meno ci è indifferente. Se fosse giusto classificare il piacere come una

sensazione, dovremmo aspettarci che fosse anche possibile descrivere quindi alcune di queste

sensazioni come piacevoli, altre come neutre, ed altre ancora come sgradevoli, cosa che invece è

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Ryle, ‘Il piacere’

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chiaramente impossibile: le ultime due sarebbero contraddizioni, la prima una ridondanza, o

peggio. Se io mi sono divertito ad un gioco, non c’è alcun bisogno che vi sia stato qualcosa, oltre

il gioco stesso, che mi sia dispiaciuto o piaciuto, vale a dire una qualche speciale sensazione o un

qualche particolare sentimento suscitato in me da quel gioco.

Una persona che abbia un piede dolorante per una scarpa stretta, o un dito solleticato da una

farfalla, può badare al dolore o al solletico senza pensare affatto alla causa di quella sensazione;

oppure può pensare alla scarpa o alla farfalla senza prestare alcuna attenzione al dolore o al

solletico. Anzi, non soltanto qualcosa può farci male o solleticarci senza che noi sappiamo che

cosa, appunto sia, ma addirittura possiamo essere talmente assorti in tutt’altra cosa, che per un

certo tempo possiamo completamente ignorare sia il dolore o il solletico, sia le loro cause. Ma il

godimento e il disgusto sono connessi all’attenzione e alla consapevolezza in un modo del tutto

differente. È impossibile, non solo psicologicamente, ma anche logicamente, che una persona

goda di una musica senza prestarle la minima attenzione o detesti il vento e la grandine mentre è

tutta presa da una discussione con un amico. Vi è una sorta di contraddizione nel descrivere

qualcuno come mentalmente assente da qualcosa che tuttavia sta gustando o detestando.

E neppure egli può ragionevolmente pretendere che gli si dica cos’è che sta gustando o

detestando, a parte il fatto che potrebbe essere contento se qualcuno riuscisse ad individuare il

delizioso odore che sentiva, o se qualcuno gli descrivesse cos’era che non gli piaceva nel tono di

voce della ragazza con cui parlava. Il piacere e il disgusto non richiedono diagnosi, mentre

possono benissimo richiederne le sensazioni. Il fatto che a me piacciono certe cose e non certe

altre ha una spiegazione precisa, della quale posso essere al corrente o no; ma quando io mi sia

divertito ascoltando una barzelletta, la domanda: “Che cosa mi ha procurato quel piacere?” non

può attendere risposta poiché io so già, naturalmente, che è stata quella barzelletta, se era stata

quella barzelletta ad avermi divertito.

Mentre una sensazione o un sentimento sono un antecedente, un concomitante o, un

susseguente di altri accadimenti, il piacere non è un antecedente, concomitante o susseguente di

alcunché. Il piede può dolermi, continuamente o a tratti, sia quando calzo la scarpa sia dopo che

l’ho tolta. La pressione sul dito dolorante e il dolore provocato possono essere cronometrati

separatamente. Ma quando io mi diverto o mi annoio ad una conversazione non vi è, oltre i

segmenti facilmente cronometrabili della conversazione stessa, qualche altra cosa, i cui segmenti

possano essere separatamente cronometrati, un qualche fenomeno, cioè, individuabile

introspettivamente, continuo o intermittente, che sia per me la piacevolezza o la spiacevolezza

della conversazione. Io potrei invero gustare i primi cinque e gli ultimi tre minuti della

conversazione, detestarne una delle fasi intermedie ed esser in un modo o nell’altro indifferente

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Ryle, ‘Il piacere’

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ad un’altra fase. Ma se poi mi si chiedesse di paragonare in retrospettiva la durata del mio

godimento e quella del mio disappunto con la durata dei segmenti della conversazione che mi ha

divertito o annoiato, non riuscirei a pensare a due cose diverse di cui poter paragonare la durata.

Né potrebbe il mio piacere nel contribuire alla conversazione o nell’ascoltarla porsi come una

qualche attività o esperienza collaterale che potesse ragionevolmente pretendere ad una parte del

mio interesse o della mia attenzione, nel modo in cui il solletico potrebbe distrarre la mia

attenzione dalla farfalla.

È molto più corretto dire che il mio gradimento o non gradimento non sono dei particolari

oggetti di un possibile secondario interesse introspettivo, bensì piuttosto particolari qualità del

mio interesse effettivo alla conversazione; e che questo interesse, a sua volta, non è un

concomitante del mio conversare in modo attivo e ricettivo, ma la particolare qualità di quel

conversare.

Si potrebbe pensare che, dopo tutto, sia un peccato veniale e irrilevante quello di classificare

erroneamente il piacere insieme alle sensazioni. Non si fa gran danno, in circostanze ordinarie, se

classifichiamo erroneamente i conigli come una specie di topi o i piselli dolci come una specie di

ombrellifere. Ma il nostro è un tipo differente di classificazione erronea; nel nostro caso noi non

tentiamo già di pescare un salmone concettuale con una concettuale canna da trote anziché con la

corretta canna da salmone; ma cerchiamo di pescare un salmone concettuale con una mazza da

cricket o con un asso di picche.

Ne seguono conseguenze ben più importanti. L’assimilazione del gradimento e

dell’avversione alle sensazioni era soltanto una parte del programma generale teso alla

costruzione di una teoria dinamica della condotta umana, nella quale teoria cose come i desideri

e i piaceri dovevano fornire i corrispettivi mentali della pressione, dell’urto, dell’attrito e

dell’attrazione propri della teoria meccanica. I moti psichici sarebbero diventati calcolabili

quando la durata e l’intensità dei desideri e dei piaceri fossero diventate misurabili o valutabili e

quando la composizione dei composti di queste forze fosse stata analizzabile nei suoi

componenti. Un piacere sarebbe stato così un qualcosa dotato di una determinata grandezza,

almeno quanto alla durata e all’intensità; sarebbe stato un processo, esattamente sullo stesso

piano del processo di una cosa che fa attrito con un’altra. Ma le nostre obbiezioni a classificare il

piacere insieme alle sensazioni, sé non vado errato, avevano l’effetto generale di mostrare che il

piacere non è affatto un processo. Il concetto di godimento non passa attraverso il cerchio logico

dei processi. I processi sono caratterizzabili come relativamente veloci o lenti, ma, come vide

Aristotele, io non posso godere di qualcosa in modo lento o rapido. Quale che possa essere il

posto, ed è certamente un posto importante, delle nozioni di gradimento e di avversione nella

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Ryle, ‘Il piacere’

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descrizione della condotta umana, non è certamente il posto richiesto per esse dalla progettata

teoria dinamica. Non serve a nulla dire che questo puledro dovrebbe andar bene per questi

finimenti o deve essere adattato in modo da andar bene; quelli non erano i finimenti giusti, e

dovevano essere buttati o usati altrove.

Si può adesso fissare un punto ben più generale. I dolori sono l’effetto di cose come la

pressione di una scarpa su un dito del piede, e la causa di cose come gesti agitati di insofferenza.

L’idea della progettata teoria dinamica della condotta umana consisteva in questo: che il piacere

dovesse in qualche modo essere la causa di certe cose, cioè di azioni umane, ed essere l’effetto di

altre cose, talché potesse esservi una regolarità causale secondo i modelli: “Ogni volta che così e

così, allora un piacere” e “Ogni volta che un piacere, allora così e così” (la goffaggine stessa di

una siffatta enunciazione è il segno di un qualche pasticcio logico).

Un piacere, si assumeva, deve essere un accadimento registrabile, allo stesso modo in cui lo

sono il lampo di un fulmine o il fragore di un tuono, se le proposizioni della desiderata scienza

della natura umana debbono avere una forma ufficialmente prescritta. Non abbiamo qui bisogno

di soffermarci a discutere le credenziali di questa dottrina secondo cui tutte le proposizioni

scientifiche, o almeno le migliori, sono della venerata forma ‘lampo-tuono’. Vorremmo solo che

si riconoscesse che le proposizioni sui nostri godimenti e sulle nostre avversioni non si potranno

trasformare in giudizi della forma lampo-tuono senza violenza logica. Mentre possiamo chiedere

quanto fosse lungo l’intervallo fra il lampo e il tuono, non possiamo chiedere quanto fosse lungo

l’intervallo fra l’afferrare lo spirito di una barzelletta e il goderne, e non già perché, come un

tuono che venga udito nello stesso istante in cui si scorge il lampo, il capire una barzelletta e il

goderne erano eventi simultanei, bensì perché non si trattava affatto di due eventi che potessero

essere sincroni o distinti. Il lampo e il tuono sono fenomeni discernibili, sincroni o no che siano.

Ma il piacere e l’afferrare lo spirito di una barzelletta non sono fenomeni differenti fra loro come

il lampo e il tuono, anche se altre cose, oltre alle barzellette, ci possono divertire e anche se

alcune barzellette si capiscono ma non ci divertono. Per quanto i tuoni non scoppino mai in

assenza di lampi, potremmo pensare che lo facessero, ma non possiamo concepire piaceri che

abbiano luogo di per sé. Non si può considerare sensata la semplice affermazione che qualcuno

ha provato piacere, non più di quanto si possa ritenere sensata l’affermazione che egli era

meramente e semplice-niente interessato o assorto. Il verbo ‘godere’ è un verbo transitivo,

laddove non lo sono i verbi ‘tuonare’ e ‘rombare’.

Chi conosca un po’ la storia delle teorie psicologiche edonistiche e delle teorie etiche

edonistiche e utilitaristiche, saprà anche come su tutto il loro fronte siano scoppiati conflitti

locali fra i campioni di dette teorie e coloro che, con o senza altre teorie o dogmi d’appoggio, si

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Ryle, ‘Il piacere’

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opponevano, in nome di differenti corollari e clausole a queste dottrine generali. Costoro

sentivano nel proprio intimo che una cosa era dire, come tutti dicono, che, a parte certe

circostanze particolari, ciò che facciamo di proposito siamo lieti di farlo, e non dispiaciuti, e che

ci piace più che non dispiaccia l’averlo fatto; e una cosa del tutto diversa è dire che in tutte le

azioni volontarie noi deliberatamente tentiamo di garantirci la massima quantità di piacere. La

prima asserzione è un truismo innocuo, la seconda suona come una scoperta scientifica, e per

giunta di un tipo assai inquietante. Ancora, è un truismo innocuo dire che gente disinteressata e

affettuosa gode nel procurare piacere e gioia ad altri; ma sembra un paradosso demoralizzante

asserire che una condotta disinteressata sia soltanto un tipo di condotta egoistica, o che persone

affettuose siano soltanto persone il cui calcolo dei piaceri richieda come condizione che altri

godano in pari misura.

Non è tuttavia necessario conoscere la storia delle teorie edonistiche e utilitaristiche per poter

vedere i tipi di antagonismo che esse provocano; noi stessi abbiamo avuto infatti i nostri

momenti edonistici ed utilitaristici e ne siamo rimasti insoddisfatti. Abbiamo sentito noi stessi,

anche se in modo abbastanza confuso, che le nozioni fondamentali di gradimento e avversione,

che pervadono di sé così profondamente e tuttavia così poco tendenziosamente le nostre

riflessioni quotidiane autobiografiche e biografiche, hanno subito delle sottili e sospette

trasformazioni allorché sono state presentate come le forze di base che spiegano tutte le nostre

scelte ed intenzioni. D’altra parte, non abbiamo soltanto imparato a pensare in termini di schiere

di generalizzazioni proverbiali, pedagogiche, giuridiche e omiletiche a proposito delle preferenze

e delle avversioni della gente, ma abbiamo avvertito la necessità di organizzare insieme queste

generalizzazioni stesse in concerto con altre generalizzazioni collegate, magari in qualcosa di

simile ad un codice etico o forse in qualcosa di simile ad una teoria psicologica esplicativa, o

forse ancora in qualcosa di simile ad uno schema religioso o teologico o, più verosimilmente, in

una vaga associazione di tutte queste cose insieme. Per bene che si sappia come fare

considerazioni di carattere autobiografico e biografico intorno ai godimenti e alle avversioni

della gente, non per questo sappiamo con chiarezza come connettere quelle generalizzazioni di

dette considerazioni in codici, teorie o schemi. Non possediamo, pertanto, per cominciare,

strumenti o competenze con cui correggere o rifiutare, per esempio, una psicologia dinamica che

ci venga suggerita, la quale segua un esempio così illustre come quello della fisica del secolo

XIX. Noi siamo piuttosto mezzo persuasi fin dall’inizio che ciò che si dichiara nel gergo di una

teoria scientifica debba a sua volta essere una teoria scientifica.

Potrei esprimere la stessa cosa dicendo, con una deliberata esagerazione, che naturalmente noi

tutti ben sappiamo come condurre i nostri quotidiani affari informativi e argomentativi con i

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Ryle, ‘Il piacere’

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verbi ‘apprezzare’, ‘detestare’, ‘dolere’; ma che tuttavia non sappiamo come cavarcela con nomi

astratti come ‘piacere’, ‘avversione’ e ‘dolore’, perchè tutte le generalizzazioni espresse con

l’aiuto di questi incomodi nomi astratti non possono essere null’altro che distillazioni, di questo

o quel tipo, di ciò che si comunica con l’ausilio di quei comodi verbi. Sappiamo cosa si può e

cosa non si può dire sulle preferenze e le avversioni della gente; ma non perciò sappiamo anche

necessariamente cosa si può e cosa non si può dire sul piacere. Noi non usiamo costruzioni del

tipo lampo-tuono quando parliamo delle preferenze e delle avversioni della gente: ma questo non

ci impedisce di lasciarci persuadere dai teorici che dicono, in termini generali e con tono di voce

scientifico, che il piacere sta a ciò che lo produce come il tuono sta al lampo o come il dolore sta

all’ustione; una cosa è infatti usare un concetto in modo adeguato, e una cosa completamente

diversa è descrivere questo uso stesso; proprio come una cosa è fare un uso corretto nel

commercio, di monete e banconote, e una cosa del tutto differente è parlare di contabilità o di

economia. L’efficienza nell’un compito è compatibile con l’incompetenza nell’altro, ed una

persona che non si lascia facilmente imbrogliare quando fa acquisti o quando le danno il resto,

può facilmente farsi ingannare dalle più stravaganti teorie sui valori di scambio.

Vorrei ora brevemente accennare a un altro modo in cui si è tentato di fissare il ruolo della

nozione di ‘piacere’ nella descrizione della vita e della condotta umane. Questo secondo

tentativo nel lavorio concettuale, così come io lo descrivo, avrà probabilmente per il lettore un

aspetto arcaico, prescientifico. In parte è per questo che io ho deciso di prenderlo in esame, dal

momento che non tutti gli schemi intellettuali sono o pretendono di essere teorie scientifiche. Ma

io ho deciso di prenderlo in esame anche per un’altra ragione, perché questo arcaico apparato

concettuale conserva tuttavia una sua attrattiva. Persino gente sofisticata come noi ricade

nell’usarne e gli dà una certa fiducia.

Si pensò in una certa epoca che il problema di stabilire in qual tipo di terminologia la natura

umana dovesse essere descritta fosse risolubile o almeno semirisolubile mutuando

deliberatamente il linguaggio della politica. Le istituzioni, i costumi e le classi di una comunità

politica così evoluta come quella greca o quella romana, erano cose necessariamente suscettibili

di descrizione, poiché i suoi statisti, i suoi giudici, i suoi avvocati, i suoi diplomatici, i suoi

funzionari dovevano comunicare al pubblico direttive, regolamenti, informazioni e deliberazioni

intorno appunto a quelle questioni. Il linguaggio della politica è assai articolato e gran parte di

esso, se non tutto, entra a far parte del linguaggio di quasi tutti i cittadini della comunità. Non è il

codice privato di una cricca privilegiata. Ora, può essere conveniente e giovevole, per una

quantità di ragioni, parlare della costituzione dell’essere umano in linguaggio politico. Come

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Ryle, ‘Il piacere’

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l’assemblea o il parlamento di una comunità delibera, discute e decide, così pure ciascuno di noi

delibera, discute e decide. Come si possono violare le leggi, e come le pubbliche deliberazioni

possono essere impedite o degenerare in alterchi tra fazioni, così pure noi individui alberghiamo

i nostri privati violatori di leggi e le nostre giunte private. Alla folla sregolata di uno stato,

corrispondono in noi potenziali elementi sovversivi, che sempre richiedono disciplina e talvolta

repressione. L’autocontrollo qui è ciò che lì è il governo dei governati. In particolare, sembra

corretto assimilare cose come terrore, collera, ingordigia, indolenza ed invidia ai riottosi, ai

ribelli e alla canaille di una società. Chi sia sotto il giogo di siffatte passioni è simile ad una

comunità nella quale la legge e l’ordine siano scomparsi. Un uomo furibondo o in preda al

panico non può ascoltare la voce della ragione; non può pensare rettamente o tener conto dei

consigli di chi lo può. La passione domina. Il governo ha ceduto ai moti della folla; l’uomo,

come uno stato, è in lotta con se stesso.

Questo confronto ci appare oggi non più che una suggestiva e pittoresca metafora.

Proveremmo una certa sorpresa nel sentirlo abbozzare e sviluppare in una predica, ma rimarremo

certamente assai stupiti di trovarlo usato, come filo conduttore teorico di un manuale di

psicologia; non per nulla abbiamo avuto un paio di secoli di teorie psicologiche, le cui strutture

sono state prese a prestito dalla meccanica, dalla chimica e, più di recente, dalla biologia; e

abbiamo anche avuto circa un paio di secoli di schemi di idee religiose e teologiche, le cui

strutture teoretiche, non certo riprese da una scienza, non furono ricavate neppure da alcun

gruppo di idee politiche e legali della Grecia o di Roma.

Nondimeno, noi continuiamo ad avere i nostri momenti platonici — momenti invero nei quali

sembra assai meno eccessivamente ricercato descrivere un uomo, la cui collera abbia infranto

ogni controllo, per analogia con una émeute in uno stato, che non per analogia con, diciamo, un

non-equilibrio fra due forze. In particolare le nostre opinioni morali meglio si adattano

all’inclinazione di voce dell’orazione politica che non a quella della spiegazione meccanica.

Non dobbiamo preoccuparci qui di cercare parafrasi grossolane per rappresentare il controllo

e la perdita di controllo della collera e del terrore in termini di mantenimento e rottura della legge

e dell’ordine. Il mio assunto immediato è che questa rappresentazione stessa è stata incapace di

fornire un domicilio politico acconcio al piacere. Se, per resuscitare una parola ormai antiquata,

noi attribuiamo il nome di ‘passioni’ agli agenti potenzialmente sovversivi di

un uomo, e cioè, precisamente il terrore, la collera, l’allegria, l’odio, il disgusto, la

disperazione e l’esultanza, allora godere o detestare qualcosa non vuol dire essere vittime di una

passione. Terrore, collera ed allegria possono essere parossismi o frenesie. Una persona in tale

stato, per tutto il tempo in cui vi si trova, perde la testa o le viene a mancare il terreno sotto i

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Ryle, ‘Il piacere’

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piedi. Se una persona è perfettamente padrona di sé nelle sue deliberazioni e azioni, non può

(non può, dico, logicamente) essere descritta come in collera, agitata o in preda al panico. Certi

gradi di pazzia temporanea sono, per definizione implicita, un aspetto intrinseco alle passioni, in

questo senso di ‘passione’. Ma nessuna di simili connotazioni si addice al piacere — per quanto

esse, naturalmente, si addicano a condizioni come trasalimenti, estasi, raptus e convulsioni. Chi

prende parte attiva a una conversazione o a un gioco provandone grande diletto, non per questo

perde completamente il ben dell’intelletto. Altrimenti, quanto più una persona fosse appassionata

per il gioco del golf o per il violino, tanto meno sarebbe capace di giocare a golf o di suonare il

violino in modo intelligente. Se godere di qualcosa con una certa intensità equivalesse ad esser

fuori di sé in pari misura, si dovrebbe essere dissennati per tutto il tempo dedicato alle proprie

occupazioni preferite. Lasciarsi completamente assorbire da qualcosa implicherebbe la completa

incapacità di pensare a ciò che si sta facendo; e questo è assurdo. Una calma completa non

esclude un grande piacere. Il concetto di godimento rifiuta di passare attraverso lo stesso cerchio

logico in cui passano la collera, la disperazione, il panico o il giubilo. Non è neppure un placido

abbandono, poiché non è affatto un abbandono. Il godimento non è qualcosa che noi reprimiamo

o non riusciamo a reprimere, che soffochiamo o non riusciamo a soffocare, che controlliamo o

non riusciamo a controllare. Se ci proviamo con tutte le forze, o persino blandamente, ad

esprimere la costituzione del microcosmo umano sullo sfondo delle lettere, ben più grandi, del

macrocosmo politico, forse riusciremo a leggere alcune delle relazioni fra governanti e governati

in alcune delle relazioni fra le deliberazioni di un individuo e le sue passioni. Ma le preferenze e

le avversioni di un individuo non sono delle repliche in miniatura di elementi di quella struttura

politica. Il nostro puledro concettuale mal si adatta a questi finimenti presi in prestito proprio

come mal si adattava a quelli della dinamica psicologica del XIX secolo.

Ma non dobbiamo mostrarci ingrati all’una o all’altra di queste gualdrappe prese in prestito.

Noi impariamo a conoscere le capacità di uno strumento preso in prestito proprio mentre

impariamo a conoscere i suoi limiti e scopriamo le proprietà di un determinato materiale sia

quando scopriamo come e perché lo strumento preso in prestito non ha efficacia su di esso, sia

quando viceversa scopriamo come e perché ne ha. Alla fine siamo in grado di progettare lo

strumento appropriato a quel materiale — alla fine, ma mai al principio. Al principio dobbiamo

ancora scoprire le primissime cose sui modi in cui si può o no utilizzare quel materiale; e

facciamo questa esplorazione servendoci di arnesi con i quali abbiamo già appreso a lavorare

altri materiali. Non v’è altro modo di cominciare.

La nozione di piacere ha smesso ai nostri giorni di essere tema di controversie brucianti;

anche se, a mio avviso, non per la ragione che filosofi, predicatori, psicologi, economisti ed

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Ryle, ‘Il piacere’

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educatori si siano alla fine messi d’accordo sul suo ruolo logico. Essi hanno, mi sembra, lasciato

cadere l’argomento, perché i pensatori del XIX secolo lo hanno seppellito. Esso fu impiegato

come la loro cameriera tuttofare, che sempre rovinò i compiti per i quali i dottrinari dichiararono

che avesse qualificazione adeguata.

Per riprendere un filo che ho lasciato andare in un passo precedente, possiamo dire che i

concetti di godimento e disgusto sono stati erroneamente presentati come appartenenti alla stessa

categoria del dolore fisico; alla stessa categoria di quel genere di accadimenti che vengono

classificati come cause ed effetti di altri accadimenti; e alla stessa categoria di passioni come

terrore, disappunto, avversione o giubilo. Dire questo è quanto dare la promessa generale che si

troveranno dei modi nei quali i concetti di godimento e avversione opporranno resistenza a ogni

tentativo di attribuire loro anche soltanto una rozza parità di manipolazione discorsiva con i

concetti di queste altre famiglie. Le discipline logiche che controllano queste ultime, non sono in

grado di controllare quelli. I dilemmi derivano dall’attribuzione erronea di analogie di

ragionamento. La maggior parte degli interrogativi concernenti una persona che potrebbero

ricevere risposta, vera o falsa, da enunciati intorno alle sue sensazioni, oppure, il che è del tutto

diverso, da enunciati intorno alle sue estasi, ai suoi accessi di collera o alle sue esplosioni, non

potrebbero ricevere risposta, né falsa né vera, da enunciati intorno alle sue preferenze e alle sue

avversioni; e viceversa. Il portiere di cricket non fa una ‘renonce’, né ‘risponde al colore’; egli

non compra né vende, non dichiara nessuno colpevole, né dimette dietro cauzione; si trova

proprio in tutt’altro piano di affari.

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Robert Nozick (1938-2003)

Anarchia, Stato e Utopia (1974)

Traduzione Elena e Gaspare Bona

Cap. 3 § 6 (La macchina dell’esperienza)

Ci sono anche enigmi sostanziali quanto ci chiediamo che altro importi se non il modo in cui le

persone sentono ‘da dentro’ le esperienze. Si supponga che ci sia una macchina dell’esperienza

che ci procuri qualunque esperienza desideriamo. I neuropsicologi eccezionali potrebbero

stimolarci il cervello in modo che pensiamo e sentiamo di scrivere un grande romanzo, o

stringere un’amicizia, o leggere un libro interessante. Per tutto il tempo galleggeremmo in una

vasca, con elettrodi attaccati al cervello. Ci collegheremmo a questa macchina per tutta la vita,

programmandone in anticipo le esperienze? Se ci crucciamo perché non riusciamo ad avere

esperienze desiderabili, si può supporre che imprese commerciali abbiano indagato

esaurientemente la vita di molti altri. Possiamo scegliere con cura nella loro vasta biblioteca su

tali esperienze, selezionando le esperienze della nostra vita per, diciamo, due anni. Passati due

anni, staremo dieci minuti o dieci ore fuori della vasca, per selezionare le esperienze dei nostri

prossimi due anni. Naturalmente, mentre siamo nella vasca, non sappiamo d’essere lì: penseremo

che tutto stia realmente accadendo. Anche altri possono collegarsi per avere le esperienze che

desiderano, quindi non è necessario che stacchiamo il nostro collegamento per permettere loro di

servirsene. (Non chiedetevi chi farà funzionare le macchine se tutti si collegano). Vi

colleghereste a quella macchina? Che altro può importarci, se non come sentiamo la nostra vita

dall’interno? E non dobbiamo certo rinunciare a causa dei pochi attimi di sconforto tra il

momento in cui ci risolviamo e il momento in cui ci colleghiamo. Che cosa sono pochi attimi di

sconforto in confronto a una vita intera di beatitudine (se è questa che scegliamo), e perché poi

dovremmo provare sconforto se la nostra decisione è la migliore?

Che cosa ci importa oltre alle nostre esperienze? In primo luogo, desideriamo fare certe cose,

e non soltanto avere l’esperienza di farle. Nel caso di certe esperienze, è soltanto perché

vogliamo prima di tutto compiere le azioni, che desideriamo le esperienze di farle o di pensare di

averle fatte. (Ma perché desideriamo svolgere le attività invece di sperimentarle

semplicemente?). Un secondo motivo per non collegarci è il fatto che desideriamo essere in un

certo modo, essere un certo tipo di persona. Uno che galleggia in una vasca è un’inezia

insignificante. Non si può rispondere alla domanda su come sia una persona che è stata a lungo

nella vasca. È coraggiosa, gentile, intelligente, spiritosa, affettuosa? Non è solamente. difficile

dirlo, quella persona non è niente. Collegarsi alla macchina è una specie di suicidio. Ad alcuni,

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Nozick, ‘La macchina dell’esperienza’

175

vittime di un’immagine, sembrerà che non possa avere importanza quel che siamo, tranne in

quanto si riflette nelle nostre esperienze. Ma sorprenderebbe che quel che siamo sia per noi

importante? Perché dovrebbe interessarci soltanto come riempiamo il nostro tempo, e non quel

che siamo?

In terzo luogo, il collegamento a una macchina delle esperienze ci limita a una realtà fatta

dall’uomo, a un mondo non più profondo e non più importante di quello che possiamo costruire1.

Non c’è vero contatto con una qualsiasi realtà più profonda, benché si possa simularne

l’esperienza. Molte persone desiderano essere disponibili a tale contatto e a scendere nel

profondo*. Questo chiarisce l’intensità dei contrasti circa i farmaci psicoattivi, che secondo

alcuni non sono che macchine locali dell’esperienza, e secondo altri sono una via verso una

realtà più profonda: quel che, a parere di qualcuno, equivale ad arrendersi alla macchina

dell’esperienza, per altri insegue una delle ragioni di non arrendersi!

Impariamo che, oltre all’esperienza, qualche cosa d’altro ha importanza per noi,

immaginando una macchina dell’esperienza e poi accorgendoci che non la useremmo. Possiamo

continuare a immaginare una serie di macchine, ciascuna ideata in modo da riempire le lacune

scoperte nelle macchine precedenti. Per esempio, dal momento che la macchina dell’esperienza

non soddisfa il nostro desiderio di essere in un certo modo, immaginate una macchina di

trasformazione, che ci trasformi in qualunque tipo di persona ci piaccia essere (compatibilmente

con il rimanere noi stessi). Sicuramente non useremmo la macchina di trasformazione allo scopo

di diventare come desideriamo, e per poi collegarci alla macchina dell’esperienza**! Quindi c’è

1 Questo punto mi fu suggerito da Mr. Thom Krystofiak (nota dell’autore).

* Le dottrine religiose tradizionali differiscono sul punto di contatto con una realtà trascendente. Alcune dicono che

il contatto produce eterna beatitudine o Nirvana, ma non l’hanno distinto sufficientemente da un semplice

periodo molto lungo nella macchina dell’esperienza. Altre dottrine pensano che sia intrinsecamente desiderabile

fare la volontà di un essere superiore che ci ha creati tutti, quantunque, presumibilmente, nessuno lo penserebbe

se scoprissimo di essere stati creati come oggetto di divertimento da qualche fanciullo ultrapotente proveniente

da un’altra galassia o da un’altra dimensione. Altre ancora immaginano un confondersi finale in una realtà

superiore, lasciando poco chiara la sua desiderabilità, o dove ci lasci tale fusione (nota dell’autore).

** Qualcuno non userebbe affatto la macchina della trasformazione: gli sembrerebbe d’imbrogliare. Ma l’uso per

una sola volta della macchina della trasformazione non eliminerebbe tutte le discussioni; il nuovo noi avrebbe

ancora da superare ostacoli, ci sarebbe un nuovo livello da cui impegnarsi a salire ancora. E questo livello è

forse guadagnato o meritato meno di quello cui contribuiscono il corredo genetico e l’ambiente della prima

infanzia? Ma se la macchina della trasformazione potesse essere usata spesso e a tempo indeterminato, in modo

che fosse possibile compiere qualsiasi cosa, premendo un bottone e trasformandoci in qualcuno che la

Page 176: Per piacere dispensa - UniBG piacere dispensa.pdf · Indice dei testi in ordine cronologico Democrito di Abdera (frr. 191, 210, 235) p. 5 Platone di Atene ... Gilbert Ryle ‘Il piacere’

Nozick, ‘La macchina dell’esperienza’

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qualcosa che ha importanza, oltre alle proprie esperienze e a come si è. E questo non solo per il

motivo che le proprie esperienze non sono collegate a come si è. Infatti la macchina

dell’esperienza potrebbe essere ridotta a provvedere soltanto esperienze possibili al tipo di

persona che vi è collegata. Desideriamo forse rendere diverso il mondo? Si consideri allora la

macchina del risultato, che produce nel mondo qualunque risultato vogliamo produrre e inserisce

il nostro vettore degli input in ogni attività collettiva. Non ci addentreremo qui negli affascinanti

particolari di queste o di altre macchine. Ciò che più ci disturba in queste macchine è il fatto che

vivano per noi la nostra vita. E’ sbagliato cercare particolari funzioni supplementari che vadano

oltre la competenza delle macchine ad agire per noi? Forse desideriamo proprio vivere (verbo

attivo) noi stessi, in contatto con la realtà. (E questo le macchine non possono farlo per noi).

Senza elaborare ciò che questo implica, che secondo me ha sorprendenti collegamenti con le

questioni del libero arbitrio e le spiegazioni causali della conoscenza, occorre soltanto che

notiamo la complessità del problema di che cosa abbia importanza per le persone oltre le loro

esperienze. Finché non si scopre una risposta soddisfacente, e non si determina che questa

risposta non si applica anche agli animali, non si può ragionevolmente pretendere che soltanto le

esperienze sentite dagli animali limitino quel che possiamo fare loro.

compirebbe facilmente, non rimarrebbero limiti che ci occorra oltrepassare o tentare di superare. Ci rimarrebbe

qualcosa da fare? Forse alcune dottrine teologiche mettono Dio fuori del tempo perché un essere onnisciente e

onnipotente non saprebbe come riempire le sue giornate (nota dell’autore).