Per i trent'anni de "Il nome della rosa"

5
Il nome della rosa compie trent’anni. Come sta? Marco Trainito Mosso da un’idea seminale, quella di avvelenare un monaco, come egli stesso ha raccontato, Umberto Eco cominciò a scrivere Il nome della rosa nel marzo del 1978. La premessa al romanzo, il cui titolo di lavoro era L’Abbazia del delitto, porta in calce la data del 5 gennaio 1980, che è il giorno del suo 48esimo compleanno. Vista la fortuna planetaria che arrise alla sua prima opera narrativa, uscita poco dopo, Eco sviluppò una sorta di rito superstizioso che lo portava a imporsi di terminare la stesura definitiva di quasi tutti i suoi romanzi successivi il giorno del suo compleanno. Il nome della rosa, dunque, sta per compiere trent’anni e vale la pena fargli un piccolo check-up per appurare il suo stato di salute. Per fare ciò, partirei dalla definizione di “effetto poetico” che Eco stesso fornisce nelle “Postille” del 1983: esso è «la capacità, che un testo esibisce, di generare letture sempre diverse, senza consumarsi mai del tutto» (p. 510). Ebbene, se ci basiamo su questo criterio, non c’è dubbio che l’effetto poetico del romanzo sia fortissimo, ovvero che il suo stato di salute, oggi, sia ottimo. Riletto oggi, il romanzo impressiona non solo per la sua freschezza, ma anche per la sua capacità di aprirsi a interpretazioni nuove e impensabili sia per i lettori dei primi anni Ottanta sia per lo stesso autore. Dal punto di vista della costruzione, il romanzo non ha perso il suo smalto e continua a far impallidire per ingegnosità, compattezza, disegno e bellezza qualsiasi altro best-seller successivo e ad esso in qualche modo assimilabile per genere. Ma è il suo valore simbolico di architettura segnica che sta per qualcos’altro, qualcosa di esterno al testo e aderente alla realtà dell’azione umana storica, che lascia sbigottiti: il romanzo riesce a parlare in modo penetrante del mondo di oggi malgrado questo sia abissalmente distante dal mondo come si presentava all’autore alla fine degli anni Settanta. Nel penultimo capoverso della premessa, Eco ironizzava sul fatto che, tramontata la prescrizione per gli scrittori dell’impegno a tutti i costi, tipica della fine degli anni Sessanta, poteva finalmente raccontare una storia

description

Una rilettura attualizzata del "Nome della rosa" per i trent'anni dalla pubblicazione.

Transcript of Per i trent'anni de "Il nome della rosa"

Page 1: Per i trent'anni de "Il nome della rosa"

Il nome della rosa compie trent’anni. Come sta?

Marco Trainito

Mosso da un’idea seminale, quella di avvelenare un monaco, come egli stesso ha raccontato, Umberto Eco cominciò a scrivere Il nome della rosa nel marzo del 1978. La premessa al romanzo, il cui titolo di lavoro era L’Abbazia del delitto, porta in calce la data del 5 gennaio 1980, che è il giorno del suo 48esimo compleanno. Vista la fortuna planetaria che arrise alla sua prima opera narrativa, uscita poco dopo, Eco sviluppò una sorta di rito superstizioso che lo portava a imporsi di terminare la stesura definitiva di quasi tutti i suoi romanzi successivi il giorno del suo compleanno. Il nome della rosa, dunque, sta per compiere trent’anni e vale la pena fargli un piccolo check-up per appurare il suo stato di salute.

Per fare ciò, partirei dalla definizione di “effetto poetico” che Eco stesso fornisce nelle “Postille” del 1983: esso è «la capacità, che un testo esibisce, di generare letture sempre diverse, senza consumarsi mai del tutto» (p. 510). Ebbene, se ci basiamo su questo criterio, non c’è dubbio che l’effetto poetico del romanzo sia fortissimo, ovvero che il suo stato di salute, oggi, sia ottimo. Riletto oggi, il romanzo impressiona non solo per la sua freschezza, ma anche per la sua capacità di aprirsi a interpretazioni nuove e impensabili sia per i lettori dei primi anni Ottanta sia per lo stesso autore. Dal punto di vista della costruzione, il romanzo non ha perso il suo smalto e continua a far impallidire per ingegnosità, compattezza, disegno e bellezza qualsiasi altro best-seller successivo e ad esso in qualche modo assimilabile per genere. Ma è il suo valore simbolico di architettura segnica che sta per qualcos’altro, qualcosa di esterno al testo e aderente alla realtà dell’azione umana storica, che lascia sbigottiti: il romanzo riesce a parlare in modo penetrante del mondo di oggi malgrado questo sia abissalmente distante dal mondo come si presentava all’autore alla fine degli anni Settanta. Nel penultimo capoverso della premessa, Eco ironizzava sul fatto che, tramontata la prescrizione per gli scrittori dell’impegno a tutti i costi, tipica della fine degli anni Sessanta, poteva finalmente raccontare una storia “gloriosamente priva di rapporto coi tempi nostri”, ora che il risveglio della ragione aveva scacciato i mostri generati dal suo sonno. In realtà era esattamente il contrario, perché il lettore soprattutto italiano che aveva vissuto gli anni di piombo era autorizzato a leggere in molte parti del romanzo, e in special modo in quelle in cui si parla del “gran fiume ereticale”, precisissimi riferimenti all’esperienza dolorosa del terrorismo e delle sue babeliche guise e sigle. Tanto per dire, il lettore informato che leggeva allora delle imprese a suon di stragi e saccheggi di fra Dolcino e dei suoi “apostoli”, nel momento in cui veniva a sapere che la donna dell’eretico assassino si chiamava Margherita, era autorizzatissimo a riflettere sull’omonimia con Margherita Cagol, la compagna di Renato Curcio morta il 5 giugno del 1975 in uno scontro a fuoco con i carabinieri nella provincia di Alessandria, che è anche la terra d’origine di Eco (su questo riferimento lecito a certa drammatica attualità dell’epoca, si veda il saggio “Borges e la mia angoscia dell’influenza”, in Eco, Sulla letteratura, Bompiani 2002, in particolare p. 137). Ma cosa accade al lettore di oggi, che o non è più in grado di cogliere simili riferimenti all’attualità di allora o non può più viverli con lo stesso coinvolgimento emotivo e grado di interesse? Ecco, al lettore di oggi accade che può benissimo effettuare una lettura più sprovincializzata del romanzo e cogliervi per speculum et in aenigmate segni che rimandano al ben più complesso contesto storico di oggi. In un’opera in cui un’abbazia ruota attorno a una Biblioteca che è un labirinto e che denota questo mondo rispecchiandone addirittura la geografia, non c’è dubbio che la globalizzazione, l’Imperialismo americano, il terrorismo internazionale, lo scontro di civiltà con il mondo islamico,

Page 2: Per i trent'anni de "Il nome della rosa"

le guerre di aggressione per l’occupazione delle fonti energetiche spacciate per crociate a favore della democrazia e non ultima la sempre crescente ingerenza temporalista della Chiesa in tutti i paesi cattolici, per non parlare della madre di tutti i labirinti, cioè la rete web, costituiscono “modelli” per l’ordine segnico del testo, ovvero domini per interpretazioni come minimo plausibili, ancorché sempre provvisorie. Si pensi alle pagine in cui Adso si smarrisce nella selva dei movimenti ereticali e chiede delucidazioni che gli permettano di distinguere le varie eresie tra loro (catari, valdesi, bogomili, fraticelli, apostoli, dolciniani, ecc.) e tutte le eresie dai movimenti e dalle posizioni che eresie non sono (o non sono ancora, fino a decisione contraria da parte del simoniaco ed epicureo papa avignonese Giovanni XXII); e si confronti tutto ciò con le interminabili discussioni degli anni scorsi sulle varie componenti del terrorismo internazionale, nonché sulla definizione di “Stato canaglia” o di “mercenario” o di “terrorista islamico” o di “combattente” o di “resistente” o di “ribelle” o di “patriota” (come si definisce un kamikaze iracheno o afghano che si fa esplodere a Baghdad o a Kabul davanti a un convoglio di militari stranieri?). Lo stesso Eco, in alcuni degli interventi raccolti in A passo di gambero, ha molto insistito su questi problemi di definizione, che non sono oziose questioni nominalistiche, perché da esse dipendono guerre e crociate, e quindi vite umane (nel Medioevo come oggi). E di fronte allo spettacolo desolante dei capi di tutti i tipi (dai capi di Stato fanaticamente convinti di avere un dio dalla loro parte ai capi spirituali che addestrano terroristi e kamikaze), vale ancora e sempre il meraviglioso monito di Guglielmo rivolto alla fine del romanzo ad Adso: «Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro». In quel contesto ci si riferiva letteralmente al vecchio cieco Jorge da Burgos, che non aveva esitato ad avvelenare l’unica copia superstite del secondo libro della Poetica di Aristotele pur di impedire ai curiosi di leggerla ed evitare che si diffondesse l’idea devastante che è possibile ridere del creato, e quindi anche di Dio; ma il lettore del tempo era autorizzato a pensare anche a certi teorici della rivoluzione dai cui puri principi malati di fretta gli sconsiderati ricavavano inesorabilmente il sillogismo della pratica della lotta armata. Oggi, invece, il labirinto del mondo diventato villaggio globale immediatamente accessibile in tutti i suoi punti grazie alla rivoluzione informatica e alle nuove tecnologie della comunicazione, ci consente di rileggere quelle parole pensando allo scenario internazionale, che dopo l’11 settembre 2001 si è trasformato in uno sconfinato campo di forze costellato da guerre locali, ora sante, ora preventive, ora imperialiste, alla periferia dell’impero.

Venendo all’Italia in particolare, certe pagine del romanzo risultano più attuali oggi che quando furono scritte. Alla fine degli anni Settanta l’Italia usciva da una stagione di grandi conquiste laiche in materia di diritti civili (si pensi all’aborto e al divorzio) e quindi certi passi anticlericali del romanzo potevano benissimo essere letti come esclusivamente circoscritti allo stesso dibattito medievale. Si consideri, per esempio, il seguente passo, in cui Guglielmo, un francescano inglese amico di Marsilio da Padova e Guglielmo di Occam, cioè due acerrimi nemici delle pretese temporaliste della Chiesa, critica quella che Gramsci chiamava la religiosità “lazzaronesca” del cattolicesimo all'italiana (cfr. Quaderni, Einaudi 1975, vol. II, p. 1086): «Io non vorrei essere ingiusto con la gente di questo paese in cui vivo da alcuni anni, ma mi sembra che sia tipico della poca virtù delle popolazioni italiane non peccare per paura di qualche idolo, per quanto lo chiamino col nome di un santo. Hanno più paura di san Sebastiano o sant’Antonio che di Cristo. Se uno vuol conservare pulito un posto, qui, perché non ci si pisci, come fanno gli italiani alla maniera dei cani, ci dipingi sopra un’immagine di sant’Antonio con la punta di legno, e questa scaccerà quelli che stan per pisciare. Così gli italiani, e per opera dei loro predicatori, rischiano di

Page 3: Per i trent'anni de "Il nome della rosa"

tornare alle antiche superstizioni e non credono più alla resurrezione della carne, hanno solo una gran paura delle ferite corporali e delle disgrazie, e perciò han più paura di sant’Antonio che di Cristo» (p. 127). Ebbene, oggi un passo del genere produce tutto un altro effetto di senso in un Paese regredito a forme di culto idolatriche e miracolistiche (si pensi al successo di Padre Pio, per non parlare della suscettibilità nei confronti della statuetta del crocifisso, anche quando la sua onnipresenza nei luoghi pubblici è censurata pure dalla Corte europea di Strasburgo per i diritti dell’uomo) e tenuto sotto libertà vigilata da una classe politica che prende ordini dal Capo di una teocrazia estera e dalla Cei e di conseguenza si guarda bene dal varare leggi sgradite alle fobie paranoiche degli anziani custodi platonici del Vaticano.

Per finire, pensiamo alla rete, che all’epoca dell’uscita del romanzo era immaginabile con lo stesso grado di plausibilità dell’impero galattico sognato da Asimov. Ebbene, la biblioteca è inizialmente definita dall’abate Abbone con queste parole: «La biblioteca si difende da sola, insondabile come la verità che ospita, ingannevole come la menzogna che custodisce. Labirinto spirituale, è anche labirinto terreno» (p. 46); più avanti Jorge aggiunge: «La biblioteca è testimonianza della verità e dell’errore» (p. 136), finché Guglielmo, di fronte alla sua ecpirosi, lamenta: «Era la più grande biblioteca della cristianità» (p. 494). La biblioteca-labirinto, dunque, è il mondo, ovvero la lista infinita e ricorsiva di tutte sue trame, il modello di tutto il suo sapere, il ricettacolo di tutte le informazioni che lo descrivono, vere o false che siano. E di cosa è oggi segno, simbolo, metafora perfetta, con la sua insostenibile fragilità e vulnerabilità? Leggiamo come lo stesso Eco ha recentemente descritto la rete alla fine del diciottesimo capitolo del suo Vertigine della lista: «ecco finalmente la Gran Madre di tutte le Liste, infinita per definizione perché in continuo sviluppo, il World Wide Web, che è appunto ragnatela e labirinto, non albero ordinato, e che di tutte le vertigini ci promette la più mistica, quella totalmente virtuale, e davvero ci offre un catalogo d’informazioni che ci fa sentire facoltosi e onnipotenti, a prezzo di non sapere quale dei suoi elementi si riferisca a dati del mondo reale e quale no, senza più distinzioni tra verità ed errore» (Bompiani 2009, p. 360). E non sarà superfluo ricordare che Adso definisce il suo manoscritto “elenco di fatti” (p. 26), “centone”, “carme a figura”, “immenso acrostico” (p. 503), e a un certo punto osserva: «nulla vi è di più meraviglioso dell’elenco, strumento di mirabili ipotiposi» (p. 81), a riprova che lo stesso Eco più recente è impegnato a sviluppare intuizioni semiotico-cosmologiche presenti in nuce nel suo insuperato capolavoro di trent'anni fa.

3 novembre 2009