Pennetta.Flavia: Dritto.al.Cuore

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libro scritto dalla tennista italiana Flavia Pennetta

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Il libro

“La linea di fondocampo è il posto più dimenticato del tennis. Lì posso dire e fare di tutto: il mondo mi guarda, ma nessuno mi raggiunge.”

Il tennis è lo sport più individuale di tutti e chi vuole emergere deve diventare una macchina fredda, egoista, sola contro il resto del mondo. Bisogna avere costanza nell’allenarsi,sapere rinunciare alle tentazioni, girare il mondo come una trottola, sopportare che chiunque si senta in diritto di esprimere giudizi su di te, anche a sproposito. È una vita di cui sivedono solo le luci, che invece ha anche moltissime ombre.Flavia Pennetta è una delle migliori tenniste del circuito, ma è rimasta una ragazza semplice, allegra, con una gran voglia di vivere. La prima professionista italiana a entrare nellatop ten, la numero uno del doppio, con tre Fed Cup vinte, non ha mai smarrito la coscienza di sé e delle sue origini.In Dritto al cuore la Pennetta racconta la sua favola sportiva e personale. È la storia di una ragazzina che nasce in una bella famiglia del Sud con il tennis nel sangue, diun’adolescente che si diverte a fare il maschiaccio ma è molto sensibile all’amore, di un’aspirante tennista alta quanto la rete che affronta l’età del cambiamento lontana da casa,di una giocatrice che combatte su ogni palla e raggiunge i suoi obiettivi, di una donna che vuole vincere tutto, nello sport e nella vita privata. E che oggi si ritrova a un solo punto dalmatch.

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L’autore

Flavia Pennetta (Brindisi, 25 febbraio 1982) è la prima tennista azzurra a entrare nella top ten della classifica mondiale. Ha vinto 23 titoli WTA e 16 titoli ITF fra tornei singoli e doppi,oltre a 3 Fed Cup con la Nazionale italiana.

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Flavia Pennetta

DRITTO AL CUORE

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Dritto al cuore

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Introduzione

Lei è enorme: 73 chili per 1.85, quasi tutti di gambe. Se alza il braccio, con la racchetta sfiora i tre metri. Non siamo in tante a conosceredirettamente i danni che può fare una pallina sparata a duecento chilometri orari da quell’altezza.

Lei è una leggenda: è Venus Williams, ed è oltre la rete che sto guardando.Mi danno per spacciata.Venus mi ha massacrata la settimana scorsa in semifinale a Seul, 6-2, 6-2, ed è andata a vincere il torneo come le persone normali vanno, che

so, a prendersi un gelato.Sono tredici centimetri più bassa di lei e recentemente ho perso dieci chili. Sembro una ballerina classica, ho raccolto i capelli in uno chignon e

sono tutta vestita di bianco, con il gonnellino al posto del tutù, ci casco come una bimba nelle scarpe con il tacco della sua mamma.Ma sono una donna.È sorprendente come crescere sia, in fondo, una questione di prese di coscienza. Non cambia nulla, apparentemente, eppure tu vedi le cose in

modo diverso. Eppure tu ti vedi in modo diverso. Io oggi, 13 ottobre 2007, sono una donna, una giocatrice di tennis, e sono brava.Questo torneo è una delle mie prese di coscienza. Questa partita lo è.Se batto Venus in semifinale vincerò il torneo. Lo so. Lo sento. Posso farcela.Lei è immobile a fondo campo, le basta allungare il braccio per colpire qualsiasi palla. Patapìm, patapòm, patapìm, patapòm: sembra una

macchina lanciapalle da quanto è precisa, chirurgica, costante e potente.Io, però, lo sono di più: io corro, sono veloce, scattante, agile. Sono più piccola, e si vede.Venus batte uno smash imprendibile: corro all’indietro e glielo rispedisco. Lei lo ribatte ancora più forte, ancora più fulmineo. Ritorno oltre la riga

di fondo campo saltellando, per poco non cado ma ci riesco: lo riprendo.La volta dopo è volée, avanti tutta, ci arrivo per un soffio.Spedisco la palla in rete, lei lo fa qualche volta più di me.Si sta innervosendo.Vinco il primo set 6-4.Pausa. Torniamo alle nostre panchine. Mi asciugo via il sudore, guardo la racchetta e sistemo le corde: è la mia difesa da sempre.

Ho dodici anni e il tennis è ancora un gioco, ma per poco. Sono in un campo di terra rossa di fronte ad Anna Floris. Non vedo nemmeno lagraziosa bambina con la coda e un completino rosa, vedo solo la giocatrice: mancina, aggressiva, alla ricerca del colpo vincente da fondo campo.Anna è il mio incubo: contro di lei ho sempre perso. Durante le sette ore di macchina da Brindisi a Modena, in parte notturne, papà e la nonnarispettano il sonno e la fragile concentrazione della bimba caricata sui sedili di dietro. Penso a una sola cosa: “Speriamo che non mi tocchi AnnaFloris”.

Quando arriviamo, tutte le altre concorrenti si stanno già riscaldando. Io non voglio entrare in campo con loro prima del tempo. Trovo un muronascosto e mi metto lì, da sola, a sfogare l’ansia e il nervosismo e a cercare di non far tremare il braccio con la racchetta: sette ore di paura eadesso è ora. Il sorteggio è implacabile: mi tocca Anna Floris.

Papà deve ripartire, gira la macchina e mi lascia con la nonna. La nonna che sa di cosa si tratta, è sempre al mio fianco. Guarda da lontanomentre costruisco la mia difesa da sola. Se batto il muro batto Anna.

Batto il muro, batto Anna 6-2, 6-2 e la nonna telefona a papà: «La palla è impazzita, la Floris non l’ha nemmeno vista!». Ha già fatto trecentochilometri ma non ci può credere e valuta seriamente l’ipotesi di tornare indietro per vedere con i suoi occhi la vittoria di sua figlia contro la paura.

L’inizio del secondo set porta via tutto. Venus commette qualche errore gratuito, fatica a far entrare le prime di battuta. È uno spiraglio: neapprofitto. Mi sento forte, sicura. Non ho paura e voglio che lei lo veda. Sono solida, un muro. Invece di rimanere a fondo campo a farmi dominaree infilzare dai suoi lungolinea corro da tutte le parti, vado a rete, torno indietro, ribatto le palle più imprendibili, la costringo a cambiare gioco.

Con un ace arraffo il 2-2 e tengo il servizio.Venus va alla battuta: doppio fallo. Si arrabbia e imposta il gioco su un livello spaventosamente alto, mi supera con un diritto prima e una volée

poi. Ma sbaglia ancora. Di nuovo doppio fallo. L’ultimo scambio dura un’eternità. Finisce con un break.Gabriel Urpi, il mio coach, è seduto al mio angolo e si stringe nelle spalle. Teme di crederci.Una delle regole fondamentali del tennis è non pensare mai al risultato finale. Mai. Soprattutto quando manca un soffio. Potrebbe ribaltarsi tutto,

potresti perdere la concentrazione.Venus, infatti, arriva in un baleno a 40-0. Ma io non voglio rinunciare al mio vantaggio. Le annullo tutti i break point e torno in panchina con il mio

game.Sul 4-2 Venus risale rapidamente e tiene il servizio. La palla torna a me: comincio ad accusare un po’ di stanchezza ma non mollo. Venus mi

urla contro la palla più che colpirla e vola in parità: 4-4. Al game successivo rimandarle due smash che sembravano vincenti non basta: siavvantaggia 4-5. Porto a casa il game successivo, Venus quello dopo: 5-6.

Vado a servire ripetendomi che non devo, non devo, non devo mollare. Venus probabilmente fa la stessa cosa, perché pareggiare 6-6 mi costacorrere come una dannata, arrivare a prendere qualche diritto imprendibile e inventarmi un paio di colpi che abitualmente non sono nel mio carnet.

Tie-break. I rigori del tennis.Serve Venus e io, letteralmente, stecco: sento la palla fare “stoc” sull’intelaiatura della racchetta e rimango per due secondi incantata nel vederla

volare via nella direzione sbagliata.Al terzo riprendo il controllo, mi incazzo e mando la palla in rete. Venus anche, poi fuori. Sbagliamo a turno finché non mi trovo in vantaggio: 5-6.

Per me è match point. Serve Venus: una cannonata. Rispondo troppo bassa, troppo lenta, troppo fiacca. Rete.Cambiamo campo.Sono esausta. Uno scambio lungo e un paio di errori mi portano a un secondo match point. Una grazia che non posso sprecare. Ho scherzato

col fuoco una volta, vorrei evitare di ricascarci. Me lo sto ancora ripetendo mentre rispondo al servizio di Venus e vedo la palla finire, di nuovo, inrete.

Mi scappa un sorriso tirato. Odio la rete, odio la palla, odio Venus che è una statua – non solo fisicamente ma psicologicamente: non perde laconcentrazione, non cede, non si piega, nemmeno ha paura. Non avrò paura di vincere io, vero? Se vinco diventa vero: sono una donna, unagiocatrice di tennis, sono brava. E sono sola. Se vinco diventa vero e un po’ difficile da gestire.

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Perdere e tornare a crogiolarmi nel mio dolore è quasi una tentazione, ma scelgo di non farlo.Quella persona non sono io.Io sono quella che guarda Venus sbagliare, quella che serve per il match, quella che si avvicina alla rete verso l’avversaria con il più luminoso

dei sorrisi, che stringe la mano a lei e all’arbitro e, poi, si porta al centro del campo per prendersi gli applausi. Io sono quella che va in finale.

Sulla carta Yung-Jan Chan è più scarsa di me. Pensarci, però, fa solo male: crea aspettative. E di aspettative ne ho fin troppe: a Bangkok sonoarrivata dopo aver giocato i quarti di finale a Kolkata contro Maria Kirilenko, una russa fortissima che incidentalmente assomiglia a unafotomodella, le semifinali a Seul e a Tokyo. Ho perso entrambe, le prime contro Venus, le seconde con Virginie Razzano, francese dal fenomenalerovescio a due mani.

Arrivare così in alto e non arraffare mai il primo premio porta a chiedersi quando toccherà a noi.Forse adesso: al primo turno batto senza problemi Noppawan Lertcheewakan, una thailandese di quindici anni; al secondo mi trovo di fronte

Casey Dellacqua, una mancina australiana che gioca benino. Ci prendiamo a randellate per un tempo infinito nel campo più piccolo del Circolo,lontane da tutto e da tutti: gioco malino ma lotto. In gergo si dice “remare”: voglio vincere, così corro e salto e corro ancora e vinco, sfinita, al terzoset. Il giorno dopo, ricaricata da una seduta di massaggi thai, gioco benissimo contro la numero 15 al mondo: l’israeliana Shahar Peer. Vinco alterzo set, super-gasata perché avrei potuto prendermi la rivincita con Venus. La supero ed è finale.

Scendo in campo nervosissima.Contro Venus non avevo avuto nemmeno il tempo per riscaldarmi causa acquazzone thailandese: due diritti, due rovesci, due volée e due

servizi con Gabi dall’altra parte e via a giocare. Nonostante tutto, però, non ero così nervosa. Non mi è mai capitato di provare fastidio per unbambino che piange in tribuna. Oggi sì.

Chan, però, è più nervosa di me. È giovane e ha visto come ho giocato finora. Incasso il suo rispetto dal primo scambio: gioca malino, io laaggredisco e chiudiamo la partita in due set, 6-1, 6-3. Bel tentativo, peccato che fosse il mio turno. Esce su tutti i giornali. “L’impresa”, “la rimonta”,“la vittoria”. Mi sento brava e viva. Mi sento nel posto giusto, dove dovrei essere, a fare quello che dovrei fare. Peccato non avere nessuno con cuicondividere questa gioia.

Vinco il quarto torneo della mia vita e non ho un amore a cui raccontarlo. Le amiche mi telefonano urlando e io piango. È commozione onostalgia? Non lo so.

Gabi, il mio allenatore, mi guarda sorridere con gli occhi tristi e mi chiede se sono contenta: «Sì...» sussurro.Contenta lo sono per davvero. O meglio, soddisfatta: ho battuto i miei fantasmi e in meno di un anno ho guadagnato quaranta posizioni nel

ranking mondiale. Non riesco a esprimerlo, però.Mi sento come il sole quando piove: sono vittoriosa e sconfitta al contempo, e non so scegliere tra le due sensazioni, la superpotenza e la

malinconia. Superpotente perché tutti i miei sforzi, la mia fatica, il mio sudore, la mia costanza e la tenacia e tutto il lavoro fatto da quando hocinque anni a oggi trovano un senso. Terribilmente sola e fragile ed esposta da quando i giornali scavano nella mia vita privata e scandaglianopalmo a palmo il mio volto in cerca di un segno di dolore per quel tradimento che non sopporto.

Secondo la medicina tradizionale cinese le emozioni si annullano l’un l’altra, a coppie di due: l’angoscia e la gioia si equilibrano. È il mio stato.Sono felice e inquieta, il che forse significa che non provo niente, che mi sento semplicemente vuota.

Volo a Zurigo senza passare a Maiorca né a Brindisi, gioco il doppio con Anabel Medina Garrigues ma ci fermiamo ai quarti. La settimanadopo a Linz perdo al primo turno, sia in doppio che in singolo. L’Austria, è evidente, mi porta male.

Poi, finalmente, il 2007 finisce.Avevo cominciato l’anno con il polso sinistro sfasciato, ero precipitata oltre la novantesima posizione del ranking. Ora sono la numero 40, sono

una donna, una giocatrice di tennis, sono brava e lo so. La differenza è tutta lì.

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Flavia Pennetta, born to run in Brindisi nel 1982, anno in cui Martina Navrátilová e Chris Evert-Lloyd vincono due slam a testa.Mia madre ha ventisette anni e io sono la sua seconda figlia. È così giovane che suo padre si rifiuta di farsi chiamare “nonno”, dice che non è

pronto, così per me lui è “babbo”.Bellissima, ha sposato l’uomo che ama e, naturalmente, è un talento del tennis, gioca in serie C.In casa mia solo il gatto non gioca a tennis. Mio padre, ex seconda categoria, presiede il Circolo della città; mia sorella, Giorgia, è una

promessa assillata dai miei genitori; la zia, la sorella di mamma, è Elvy Intiglietta, della quale si ricordano due vittorie strepitose: una contro MariaFiume, l’altra che le valse i tricolori Under 18. Oggi insegna, guarda caso, tennis.

Prima che faccia in tempo a rendermene conto, mio padre mi ha già messo una racchetta in mano: la sua. Ho cinque anni e frequento già ilCircolo. Faccio il tifo per la mamma e per Giorgia, sono una specie di mascotte.

L’anno dopo sono con tutta la famiglia a Roma per gli Internazionali. Abbiamo comprato i biglietti da un bagarino, piove e siamo tutti ghiacciatisotto gli ombrelloni, dai quali mia madre scatta fulminea appena vede passare qualche giocatore interessante: si lancia e chiede l’autografo. Nonè possibile: mia madre per me è una campionessa, mio padre un idolo, mia sorella un mostro sacro, mia zia una leggenda. Sono stanca einfreddolita e non mi sembra giusto che noi dobbiamo stare lì a congelarci.

«Un giorno verremo come protagonisti» dico.

Senza la mia famiglia sarei tutta un’altra cosa.Siamo tanti e rumorosi e mangioni: fino a non troppo tempo fa, a Natale, ci siamo ritrovati tutti nella taverna dei miei, una trentina di persone

almeno, con mamme e nonne e zie mescolate che cucinavano quantità impressionanti di cibo, mentre la pasta la si faceva sul momento. Qualcunosi vestiva da Babbo Natale e noi bambini tremavamo di meraviglia e credevamo che la vita fosse una magia in grado di sorprenderci ogni giorno.

Il mio Sud è caldo e accogliente e mi regala la libertà sin da piccolissima. Di pomeriggio scappo fuori e mi lancio in ogni genere di avventuracon Alberto, il figlio dei vicini. Il cortile è il nostro regno: giochiamo a palla, a basket, a pallavolo, andiamo in skate, ci arrampichiamo sugli alberi, cispiaccichiamo a terra e ci sbucciamo le ginocchia, ci rialziamo senza piangere granché e ricominciamo. Sono un maschiaccio e me ne vanto: piùpiccola di Alberto di un anno e un palmo, gareggio con lui alla pari in tutti gli sport. Insieme stracciamo senza nessuna pietà Luca, un altro bambinodel quartiere, buono e timido e terrorizzato quando sua madre gli dice amorevole: «Vai Luca, esci a giocare con Flavia e Alberto!».

Il quartiere è vicino al mare, fuori dal centro e dalla confusione. È una specie di Wisteria Lane, con la differenza che al posto delle ville di granlusso ci sono poche casette tutte simili, a tre piani.

Ci si possono fare cose che, altrove, non sarebbero permesse, come il grande falò il giorno dell’Epifania: si brucia l’albero di Natale e, con lui,gli spiriti dell’anno vecchio, dando il benvenuto a quello nuovo. Oggi credo che gli alberi siano di plastica.

Ci siamo trasferiti lì quando avevo una settimana, fresca di ospedale. Per combinazione la sera stessa è saltata la luce, i miei sono andati achiedere delle candele ai vicini, i genitori di Alberto. Era il suo compleanno, stava spegnendo la prima candelina.

Cresco in una comunità di bambini che con la scuola ha poco a che fare: c’è Alberto, ci sono Fiorella e Greta, le mie cugine. Fiorella assomigliaa me: ama lo sport, ama correre, non ha paura di niente. Greta è più timida, meno avventata. In compenso è furba: quando ne fa una, la nonna midà automaticamente la colpa e lei tace. Io le prendo dalla nonna, Greta le prende da me: non fa una piega.

Siamo bambini casinisti in una famiglia che d’inverno si mette in colonna e occupa un’intera corsia d’autostrada dalla Puglia all’Austria perandare tutti insieme a sciare. Altrove si direbbe “unita”.

Da parte di mamma siamo pochi: zia Elvy e due figlie, la nonna e “babbo”. È da parte di papà che i Pennetta s’allargano a dismisura: Oronzo,detto Ronzino, è il primo di otto tra fratelli e sorelle. La leggenda vuole che le donne Pennetta siano più forti degli uomini, ma che loro siano deipersonaggi. Tutti e quattro i figli maschi sono la copia esatta di mio nonno, scarsi di capelli e ricchi di spirito. Il nonno, amatissimo da tutta Brindisi,aveva un’impresa di rifornimenti per le navi, Pennetta Petroli.

La nonna è morta di tristezza un anno prima che nascessi. Una delle sue figlie se n’era andata a soli diciassette anni. Si chiamava Fiorella, miacugina porta il suo nome. Era rimasta incinta e aveva paura. Non disse niente a nessuno e andò da una mammana. Tornò a casa che stava male,la febbre non passava, nessuno in casa capiva, nessuno in casa sapeva. Fecero tutto quello che potevano, poi la portarono all’ospedale.Emorragia interna. Mio padre stava tornando in macchina da un torneo con la mia mamma e sentì per radio un annuncio: cercavano sangue di uncerto gruppo sanguigno per Fiorella Pennetta. Dissero il nome perché il nonno era stimatissimo, e pensavano che così sarebbe accorsa piùgente. Cosa che in effetti avvenne. Ma era troppo tardi.

Morta d’amore, o forse di paura, a diciassette anni. La nonna non se l’è mai perdonato.Il nonno resistette qualche altro anno e se ne andò prima che io ne compissi dieci. Mi credevano troppo piccola per il funerale, così che era

morto me lo disse la mia mamma, sulle scale di casa, e indicando il cielo mi spiegò che il nonno mi guardava da lassù.Mi arrabbiai tantissimo perché qualcuno mi stava rubando il tempo da passare con lui. Niente più pomeriggi in giardino a piantare pomodori e a

strappare le erbacce, a imparare le “cose da maschi”.Nessuno si aspettava che nascessi femmina. Per la forma della pancia. Ne erano così convinti del contrario che l’ecografia nemmeno la fecero.

Il ginecologo lo dava per certo, mio padre pure, mio nonno era entusiasta: finalmente avrebbe avuto un ragazzo non impressionabile da portarecon sé nelle battute di caccia, uno a cui insegnare tutto quello che sapeva degli animali, dei boschi e della vita.

Il 25 febbraio 1982, fuori dalla sala parto, mio padre cammina avanti e indietro.Spunta il ginecologo, suo amico da una vita, oggi è il presidente dello stesso Circolo tennis che presiedeva mio padre: «Oronzo, è femmina».

Allargando le braccia, come a dire: “Mi sono sbagliato, perdonami...”.E lui a imprecare: porca di qua, ne ero certo di là...

Nel tempo libero, cioè poco, seguo mia sorella come un’ombra. Giorgia, ben sei anni più di me, che a quell’età sono una distanza siderale,propenderebbe per il sorellicidio, ma in fondo vuole bene a questo botolo che smania per raccoglierle le palle e la tratta come una dea.

Non solo voglio fare le stesse cose che fa lei: io la ammiro e la amo talmente tanto che voglio proprio essere lei. Insisto per avere l’apparecchio,quello fisso, terribile: me lo mettono e non faccio che sorridere perché finalmente ho i denti come Giorgia. A quattordici anni lei riceve una Vespa,bianca, nuova fiammante, stupenda. Io ho solo nove anni ma la voglio, la voglio disperatamente e comincio a rognare. La ricevo anch’io aquattordici: è blu, Giorgia è a Parma, all’università. Ha smesso di giocare a tennis ed è una sorellona grande alla ricerca della sua dimensione.

Probabilmente è per diventare come lei che comincio a giocare a tennis. Poi diventa una passione vera. Una cosa mia.

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Passo interi pomeriggi dietro casa: io, la pallina, la racchetta e il muro. Aspetto che mio padre torni la sera per spostare i divani e fare due tiricon lui. Mia madre prima minaccia: «Se mi rompete qualcosa...», poi sta a guardare mentre papà sospira e mi fa l’occhiolino.

L’amore per il tennis supera quello per tutti gli altri sport. Così Ronzino comincia a portarmi al Circolo più spesso. Conosco lì il mio primissimo,romanticissimo amore: il figlio del maestro di tennis. Abbiamo i capelli tagliati identici, a scodella, se non palleggiamo ci teniamo per mano.

I miei sorridono e stanno attenti a non comportarsi come con Giorgia, che ha lasciato. Caratterialmente siamo molto differenti: lei è più chiusa,più meditativa, più fragile di fronte allo stress che comporta uno sport a livello agonistico. Piangeva e andava in crisi nera per ogni risultato noneccellente, o quando doveva sfidare un’amica. In campo è cattivissima, ma preferisce perdere che rischiare di compromettere un’amicizia. Ecredo non sopportasse la rigidità dei nostri genitori sugli allenamenti, gli orari, i maestri, la gestione del tempo libero, l’alimentazione... cose così.Ha fatto bene a lasciare e a riprendere quando è stata pronta. La sua dimensione l’ha trovata più avanti e altrove, è campionessa di beach tennise coordinatrice regionale.

Io sono diversa: obbedisco poco, mi ribello molto. Mi ribello per modo di dire, Agassi non chiamerebbe “ribellione” lo stare dietro casa asbattere la pallina contro il muro per delle ore invece di andare in campo ad allenarsi, io sì.

La calma intorno a me, al mio talento che cresce, in parte è stata un regalo di Giorgia, in parte me la sono conquistata con questo caratterino, inparte è dovuta al fatto che da bambina sono una sega.

Divento di interesse nazionale intorno ai tredici anni, dopo aver perso tutto il possibile nei campionati Under 12. Ad altre ragazzine è andatamolto diversamente. Ricordo Emily Stellato: una star! Osannata come prossima campionessa dall’Italia intera, parte per Bradenton. Destinazione:l’Academy di Nick Bollettieri, “scuola” per modo di dire dove si allenano talenti tennistici. Lì capisce che il mondo è parecchio più grande di comese l’è immaginato, che in Florida non aspettavano lei e che, in buona sostanza, è una delle tante. Scende dal piedistallo e torna a casa. Aquattordici anni scopre di non essere chissà chi e non sa più chi è.

Ci penso spesso: se fossi stata più brava allora forse avrei perso il senso delle cose, forse mi sarei trovata a non sapere più chi ero. Depredatadella mia identità di “vincente”, avrei dovuto costruirmene una nuova. Non facile.

Decisamente meglio essere una bambina normale, con degli amici normali, che va in una scuola normale e di pomeriggio fa le cose normali.Con la differenza che ogni domenica papà mi porta a Bari dal maestro Dell’Edera. È stato un professionista, oggi allena promesse comeresponsabile regionale del settore tecnico: raccoglie ragazzini da tutta la Puglia. La mattina alle sette e un quarto siamo già fuori per il risvegliomuscolare, poi colazione bilanciata e via in campo. È piuttosto severo, ma la sua inflessibilità su cibo, orari da dedicare al riposo e al gioco è utile.Le regole sono fondamentali, e assaggiare quelle con cui si avrà a che fare se si sceglie il tennis è di grande aiuto.

Io non ascolto sempre, però.Non ascolto il maestro Dell’Edera quando si tratta di non baciare in pullman il mio primo fidanzatino, un tennista di Barletta conosciuto giusto ai

suoi raduni. Non si cresce solo tennisticamente, quindi per me e Michele ogni coppa o torneo fuori porta è un’occasione irripetibile. Dell’Edera ciguarda dallo specchietto e tuona: «Basta! Dovete smetterla voi due, è pazzesco!». Noi lo guardiamo di sottecchi e ricominciamo a darci i baci.

Non ascolto nessuno quando arriva la prima tuta della Nazionale: l’attesa è l’entusiasmo più puro, la totale soddisfazione, un folle desiderio difarmi vedere. Io invece no, non ne voglio sapere e frustro ogni aspettativa ripiegandola e mettendola in un cassetto. Mi mette ansia, assolutamentenon voglio sfoggiarla al Circolo. So che posso giocare per Flavia, non sono certa di poter giocare per la Nazionale. Il tennis è ancora un giocoquando si è in Nazionale, o è qualche cosa d’altro? Prima di capire cosa ci posso fare scappo a gambe levate. Nascondo la tuta e nascondo mestessa da tutte le responsabilità che rappresenta.

Ho quattordici anni quando mi chiedono per la prima volta di andare a Roma al Centro federale. Mia mamma mi guarda e mi chiede: «Tu come lavedi?». So già che lei pensa: “Non se ne parla neanche”, ma non c’è problema: lo sto pensando anch’io. Anzi, io per l’esattezza penso: “Io da quanon mi muovo proprio. Punto”.

Bugia. L’anno dopo sono all’Acqua Acetosa.Mio padre consuma vari treni di gomme di una Croma bordeaux sulla A14 (Bari-Roma), per venire a trovare me. Poi prosegue sulla A1 verso

Giorgia, che studia Economia a Parma. La mamma si è trovata da sola in una casa enorme, l’unica salvezza per mio padre è portarla a trovarci,altrimenti non farebbe altro che occuparsi di lui.

Insieme a me ci sono Francesca Schiavone, Roberta Vinci, Maria Elena Camerin. Siamo allenate da un terzetto di allenatori, uno dei quali èanche preparatore fisico.

I maschi dormono da un’altra parte ma di giorno stiamo sempre insieme. Divento inseparabile da Federico Luzzi, Potito Starace e FlorianAllgauer: i miei nuovi compagni di zingarate.

Al mattino alle otto siamo in classe, studiamo qualche ora e poi ci alleniamo, ci alleniamo, ci alleniamo. Gli allenamenti non finiscono mai e,soprattutto, non si interrompono mai, nemmeno d’estate.

La scuola nel giro di due anni si trasforma in un tormento. Il primo anno frequento il liceo scientifico a Brindisi, il secondo sono a Roma e seguolezioni da privatista. Passo un luglio d’inferno insieme ad Antonella Serra Zanetti tra tornei, allenamenti e studio: siamo le uniche due dell’interoCentro federale a dover dare gli esami per venire ammesse all’anno successivo. Mentre palleggiamo ripetiamo le lezioni. La realtà è che abbiamoperso rapidissimamente l’abitudine allo studio e abbiamo la testa da un’altra parte. Il tennis richiede concentrazione, come lo studio, ma unaconcentrazione diversa. A sedici anni so mantenere i nervi saldi durante una partita, per lunga che sia, ma non so più rimanere presente mentrepreparo per un pomeriggio l’interrogazione di storia.

Così, dal terzo anno di scientifico, al quale mi ammettono, passo a ragioneria: apriti cielo. Francese, non so una parola. Ragioneria, cos’è?Me la cavo per i due anni successivi, mentre la maturità è una vera resa dei conti. È una lotta titanica tra il mondo dello sport e le sue regole e

quello della scuola: a diciannove anni viaggio spessissimo, partecipo a tornei di alto livello, sono molto più affaticata e ho meno tempo datrascorrere sui libri. I professori sono disperati e comprensivi.

Mi salvo dopo una performance straziante condivisa con la Camerin, nel frattempo diventata semplicemente “la Came”, e Roberta “Robertina”Vinci. Prima di produrci in raffinate disquisizioni all’orale nonché nelle tre prove scritte, passiamo varie settimane ad alternare agli allenamentisedute con manualetti Bignami di tutte le materie, sulla base di un programma serratissimo che prevede la suddivisione degli argomenti. Leggi:ciascuno studia qualcosa e poi lo ripete agli altri, nella vana speranza che sentendolo dire a voce alta e sforzandoci di stare attente qualcosa cirimanga attaccato. La lettura individuale, infatti, ha su di noi un tragico effetto soporifero al quale non riusciamo a resistere: separate nelle nostrestanze, ciascuna di noi passa dalla fatica sovraumana data dallo svolgere il compito per il bene della collettività al sonno più profondo.

Il vero dramma, però, sono le lingue: il francese continuo a non saperlo, l’inglese lo conosco per modo di dire. Lo parlo perché è la lingua delcircuito, ma non l’ho mai studiato. O, meglio, l’ho studiato come un’invasata alle medie, perché volevo comunicare con le tenniste chepartecipavano al torneo di Brindisi: voler chiedere loro di palleggiare e non avere le parole per farlo mi sembrava un’oscenità. In prima mediacantavo a memoria le varie units del libro. La prof, però, prese a farmi pagare le assenze causa torneo, interrogandomi a bruciapelo il giorno

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immediatamente successivo, trovando il modo per darmi 4 e spiegarmi che «lo sport e la scuola non vanno di pari passo, devi fare una scelta: lascuola...». Qualche mese e smisi di studiare l’inglese e di farmi interrogare: non mi alzavo nemmeno per andare alla lavagna. Per mia fortuna sonouna specie di MacGyver delle lingue: mi arrangio, sbaglio ma non me ne vergogno e tiro dritto, anche a costo di mescolare parole di lingue diversenella stessa frase. La gente mi guarda un po’ stupita ma di solito risponde.

Nel giro di una settimana bene o male mettiamo insieme quattro nozioni e varie cartucciere di bigliettini da portare agli scritti. Un paio difondamentali colpi di fortuna e il gioco è fatto.

Salva. E tragicamente consapevole di tutta la mia ignoranza. Oggi quando mi capita di avere qualche giorno di vacanza organizzo tour neiluoghi della storia, così do una ripassata. Questa è una delle cose che voglio fare quando smetterò di giocare: imparare la storia, le lingue, lageografia di tutti i posti nei quali sono stata e che non ho mai visto.

Ho girato il mondo e ho visto solo dei circoli tennis. Non è possibile.

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Gli anni al Centro federale sono la mia adolescenza: cresco e mi abituo a ritmi diversi da quelli degli altri ragazzini – quelli che vanno a scuola,hanno i pomeriggi liberi, praticano uno sport per hobby – ma mi va bene così. Mi piace.

So di aver fatto una scelta importante, una scelta che segna, ma anche che posso tornare indietro in qualsiasi momento, così come possodecidere la direzione da percorrere per andare avanti.

Mia madre e mio padre sono solidali con me e mi appoggiano quando rifiuto di andare in America e rimango a Roma. Sì, potrei forseprogredire molto velocemente, ma significherebbe anche mollare gli ormeggi e lasciare del tutto la mia casa. Dall’America non potrei essere aBrindisi in due ore. E i difetti tecnici me li correggono egregiamente Claudio Galoppini e Vittorio Magnelli: per esempio, ho smesso di “volare” ecammino, ho imparato cosa significa avere un equilibrio psicofisico e a rispettare le regole (quasi tutte).

Per esempio, bisognerebbe uscire poco e tornare presto. Lo faccio finché non arriva Francesca Schiavone, l’amica perfetta con cui divertirmi.Roberta Vinci e Antonella Serra Zanetti sono ragazze deliziose ma brave e ubbidienti, non tipe da scappare la sera per andare in discoteca.Franci sì.

Quando la vedo arrivare al Centro so già chi è, lo sanno tutti: è la più forte. Ha qualche anno più di me, è stimolante averla vicino e una gioiapercepirla come una sorella maggiore. Sono convinta che senza di lei non sarei arrivata dove sono, non avrei vissuto così come li ho vissuti leFederation Cup, le Olimpiadi, i tornei. Francesca mi ha trascinata, con la forza della sua passione e della sua personalità.

Appena conosciuta ne sono intimorita: non mi azzardo a dirle niente. A lei va bene così: è una persona riservata, in fondo, e io sto alle sueregole.

Poi ci scopriamo. Siamo diverse in tutto, dal carattere alla fisicità, due poli opposti che si attraggono. Scopro che possiamo andare a cenainsieme dopo esserci mandate a quel paese. Scopro che le piace ballare. Anzi, è una vera dancing queen. Il sabato sera usciamo di nascostodall’Acqua Acetosa per andare al Gilda, in minigonna, canottierina e con le scarpe con i tacchi in mano. Il terzo sabato di fila conosciamo ilproprietario, i dee-jay ci fanno lasciare i giubbotti dietro la consolle e il buttafuori ci fa saltare la fila. Siamo come a casa nostra.

Dopo un anno al Centro comincio a vincere.Palermo, campionati Under 16. È l’ultima volta che mio padre mi accompagnerà, ma non lo so ancora. So però, perfettamente, che io e lui non

siamo adatti a condividere queste situazioni.Lui è un passionale, fumantino, si arrabbia, si dimena, mi fa segni con le braccia, non riesce a stare fermo nello stesso posto per più di cinque

secondi e io non lo sopporto. Mi mette agitazione. Mi deconcentra. Dovrei pensare alla partita e invece mi ritrovo a pensare a mio padre: “Dov’è?Cosa starà facendo? Che figura sto rimediando?”.

La prima sera lo stupisco facendogli spegnere le luci alle dieci meno un quarto, «perché devo riposare». Lui è allibito, ma dato che l’unicaalternativa è cambiare stanza si rigira nel letto finché, finalmente, non si addormenta.

La mattina dopo, durante il riscaldamento, sono nervosa e lo prendo letteralmente a pallate, vaneggiando cose come “mi fai uscire di palla!”. Luicerca di trattenersi con uno sforzo titanico e, incredibilmente, ce la fa.

Finché non arrivo in semifinale.A quel punto io sono andata, bollita, distratta. Sto perdendo con Maria Paola Zavagli 4-3 quando ci fanno cambiare campo. Scivolo in silenzio,

occhi bassi, di fianco a mio padre, che mi dice: «Fla’, vuoi farmi un dispetto?».Al che esplodo: «Ma andate a cagare tu e il tennis!».Mi tira fuori una cosa che facevo da bambina: per fargli i dispetti non prendevo la pallina, neanche se mi passava a un metro di distanza.Ma questa volta è un dramma, lui non si rende conto. Finalmente ci sono, ho la mia occasione e sto perdendo. Mi viene addirittura da piangere.Poi entro in campo e vinco, 6-4, 6-0.È allora che Ronzino telefona a mia madre e le dice una frase che ama raccontare spesso: «Senti, io non la accompagno più, altrimenti la

ammazzo!».

Di motivi per ammazzarmi, volendo, ce ne sarebbe un altro. Mi sono innamorata.Lui è Florian Allgauer, ovviamente tennista.Ci incontriamo a Sestola, diciamo “per caso”: siamo entrambi convocati a un raduno estivo del Centro federale. Florian arriva per ultimo, dopo

Ferragosto. Noi comuni mortali, invece – Federico Luzzi, Nicolò Cotto, Alessandro Piccari, Roberta Vinci, Francesca Schiavone, Antonella SerraZanetti, Maria Paola Zavagli e Stefania Chieppa – siamo blindati in Appennino già da un pezzo e stiamo impazzendo di tristezza. Sestola sisviluppa attorno a una sola via, a guardare con attenzione deve vedersi ancora il nostro solco. Con noi ci sono Galoppini, che ci cazzia ogni tresecondi perché «piantatela di fare casino nelle camere», e Gianluca Pasquini.

La sera di Ferragosto i ragazzi decidono che in albergo non ci vogliono stare, così evadono alla volta della Tana, micro-discoteca nel centro delpaese. Al ritorno incontrano Pasquini che torna da una cena con la fidanzata, li illumina in pieno con i fari ma, miracolosamente, tira dritto.

Noi ragazze decidiamo di non uscire, altrimenti ci massacrano, ma di festeggiare in camera. Facciamo un po’ di rumore ma non troppo e lapassiamo liscia.

Il 16 è giorno di partenze. Io e Roberta siamo le uniche riconfermate per l’anno successivo, le due fortunate che vincono qualche altra bellagiornata di permanenza in Appennino. Veniamo convocate da Pasquini e Galoppini, che ci chiedono: «Ragazze, ieri a che ora siete andate aletto?».

Io guardo Roberta: «Undici e mezzo, mezzanotte...».Galoppini esplode, minacciando di farci fare una pessima fine, e conclude decidendo che ci dobbiamo allenare da sole in un campo sperduto.

Quindi, suprema ingiustizia, io e Roberta, racchetta in spalla, nell’unico giorno in cui avremmo dovuto riposare: «Bam! Questa è per Galoppini!» .«Bam!» Un’altra palla contro il muro. «Questa è per Pasquini!»Le tipiche cretinate da bambine.Il giorno dopo arriva Allgauer, dalla Sardegna: abbronzato, belloccio, il migliore quell’anno, l’unico in ritardo al ritiro, quindi ribellissimo per

quanto ne potevo sapere. Mai avrei pensato che si sarebbe interessato a una mocciosa più piccola di lui di tre anni.Finché, una sera, non andiamo tutti al cinema a vedere Titanic. Non c’è posto, così ci sediamo sugli scalini. Florian è dietro di me e passa tutto

il tempo a farmi i grattini sul collo. Io sono stecchita dall’imbarazzo, non so cosa dire, quindi nel dubbio rimango immobile e faccio finta di niente.Emozionatissima, non dico niente a nessuno, nemmeno il giorno dopo. Tutto finisce lì, anche perché non ho ancora un cellulare. Ci rivediamo a

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Roma, in autunno. Io nel frattempo mi sono procurata un telefonino, ci scambiamo numeri e messaggi finché lui non ritorna dai tornei che stadisputando. Allora ci mettiamo insieme.

È San Valentino quando facciamo l’amore la prima volta. Il pomeriggio lo passiamo in piazza di Spagna a comprarci dei regalini: una fedinad’argento, i Baci Perugina... Cose romantiche, come aspettare per mesi e nel frattempo darsi tanti baci.

Rimaniamo insieme tre anni, durante i quali Florian mi mette non so quante corna, ma veramente un sacco. Lì per lì sono talmente presa da luiche non ci faccio nemmeno caso. Gli amici, stupefatti, me lo dicono cercando di aprirmi gli occhi, ma io li ignoro, così lui fa tutto quello che vuole,soprattutto quando si trasferisce a vivere a Firenze.

In quel periodo comincio un tour de force che solo a pensarci mi stanco: il mercoledì pomeriggio non mi alleno, così Federico mi accompagna instazione, prendo il treno, ceno a Firenze con Florian, la mattina alle sei riprendo il treno, Federico viene a riprendermi e andiamo direttamente adallenarci. Con il rischio che ogni volta ci scoprano: un ritardo e potrebbero sbattermi fuori, visto che i nostri allenatori – Galoppini e Magnelli perme, Barazzutti per lui – sono tutti abbastanza severi.

Per questo facciamo tutto di nascosto. Subito funziona, tant’è che Galoppini, non sospettando niente, torna a casa per i weekend e affida noiragazze ai “grandi”, Florian e Federico. «Guardatemele voi, mi raccomando...». Cerrrto, come no?

Man mano che passa il tempo, però, finisco per espormi.Cominciamo a fare una cosa vietatissima: quando Florian è ancora all’Acqua Acetosa, io alle dieci e mezzo scappo dalla mia stanza per

addormentarmi abbracciata a lui. La mattina mi sveglio prestissimo, torno in camera e alle 8 entro bella come il sole nella sala per le lezioni.Niente di male, una cosa romantica, però non si potrebbe: come in una gita di classe, maschi e femmine devono dormire separati. Punto.

Un giorno la sveglia non suona. Sto ancora dormendo quando sento bussare alla porta come se dovessero buttarla giù. Guardo l’ora: 8.05.«Aiuto, sono finita.» Tempo di pensarlo e realizzo che non posso fare niente, nemmeno calarmi dalla grondaia perché non ci sono le finestre ma ivasistas. Panico: «Vai tu».

Florian si avvicina terrorizzato alla porta: «Chi è?».Dall’altra parte un sussurro: «Sono la Robby, Flavia dov’è?!».Esco in volata, iniziamo a correre e ci buttiamo in aula. Due minuti e passa Galoppini per verificare che siamo tutte in classe.Mi beccano nel 1999, a Cagliari. Vinco il torneo, che è maschile e femminile. Io e Florian dovremmo dormire in due hotel diversi ma,

pensandomi furba, spedisco Roberta al piano di sopra con un’altra giocatrice che è in camera da sola e tengo Florian con me, come unclandestino nell’harem. Due settimane dopo Pasquini, Galoppini e Magnelli mi convocano serissimi e mi dicono: «Flavia, ci è stato detto che tu eAllgauer state insieme, che a Cagliari vi hanno visto molto vicini...».

Nego fino alla fine. Una volta fuori mi viene da piangere per la paura che mi mandino via. È la prima volta che mi trovo davanti a un possibilebivio: Florian o il tennis, e non so cosa scegliere. Ho diciotto anni e voglio tutto. Voglio rimanere al Centro, lasciare il segno, ma voglio ancheFlorian, voglio l’amore, voglio il sogno.

Mio padre mi prende in giro dicendo che sono nata fidanzata. Più o meno è vero, da quando gioco a tennis un fidanzato, più o meno “ino”, ce l’hosempre avuto. E più le cotte diventano incandescenti, meno mi riesce facile conciliare le due dimensioni della mia vita. Men che meno a diciottoanni, tutta istinto.

Lascio la Federazione. Il maestro Galoppini – che per ragioni di età è praticamente un fratello maggiore – va in tilt di fronte alla mia storia conFlorian, io impazzisco perché cerco di difendere la mia vita privata, rivendico il mio diritto a farmi gli affaracci miei e lo faccio nel modo peggiore:come quando non prendevo le palline per fare i dispetti a mio padre.

Sono arrabbiata con il mondo e non è colpa di nessuno, nemmeno mia.Muore Maria Antonietta. Era mia zia, ed era il sole. Era malata, ma nessuno pensa mai che il sole possa spegnersi davvero. Il sole tramonta ma

risorge il giorno dopo: così vanno le cose. Invece lei ha compiuto quarant’anni, ha fatto una bella festa con tutta la famiglia e la mattina dopo ci hapiantati lì, con ancora il sorriso per il giorno prima, la speranza nel cuore e il funerale già organizzato. Non sono nemmeno riuscita a piangere.Sembrava quasi naturale scegliere la sua stessa serenità. Ma non per me. Quel pianto mancato si trasforma in rabbia di nascosto da me, eassorbe nel suo buio le mie pretese di adolescente che si sente adulta.

Torno in campo e sono distratta, ho la testa altrove, disubbidisco tutte le volte che posso. Fuori sono intrattabile, non riconosco l’autorità diGaloppini e, in poche parole, divento ingestibile.

Peggio di così non potrei comportarmi, Galoppini d’altra parte non riesce ad accettare che nella mia vita non ci sia solo il tennis e che magarivoglia passare parte del mio tempo non in campo, ma altrove. In pratica non accetta che sia cresciuta.

Durante un battibecco gli esce: «Io ti mando a casa».«Non mi mandi a casa tu, me ne vado io.»Addio alla Federazione. E crisi nera con Florian. C’è sempre uno che ama di meno: in questo caso lui. Comincio ad accorgermene e sto

ancora peggio. Tragedia su tutta la linea. Il tennis mi sta rovinando la vita? O me la sto rovinando io, con le mie mani, per giocare a tennis?Torno a Brindisi distrutta, a testa bassa. Sono professionista dal 25 febbraio 2000, ma non voglio più giocare e rimango inerme sul divano per

almeno un paio di settimane.Finché mia madre, esausta, decide di fare qualcosa. Chiama Barbara Rossi, coach di stanza a Milano che mi ha seguita nei tornei Under, e le

spiega cosa mi sta succedendo. Barbara allena Giulia Casoni e Alberta Brianti ma decide che c’è posto anche per me. «Portamela su.»A Milano mi trovo subito bene. Facciamo una prova di dodici giorni durante la quale gioco benissimo. Barbara è entusiasta, mamma anche.

Rimane con me un mese, prima in una stanza del Circolo Bonacossa, poi in un appartamento nello stesso palazzo di Barbara.Quando riparte per Brindisi sono ufficialmente adulta: niente compagne di stanza, nessuno con cui mangiare la sera, nessuno che mi aspetta.

Nessuno che pulisca, si occupi della spesa, rifaccia i letti. Sola con la mia mania dell’ordine, una dieta da non poter sgarrare più di tanto e ore diallenamento faccia a faccia con Barbara.

Comincio a crescere sul serio. Accolgo nella mia vita la solitudine, ma è ancora presto per approfondire la nostra conoscenza: sono troppoimpegnata ad autogestirmi. Il Centro federale era un contesto protetto, ovattato, me ne rendo conto solo ora: non dovevo occuparmi di niente,funzionava come una foresteria nella quale, tecnicamente, gli sportivi non hanno obblighi specifici.

In casa da sola gli obblighi ce li hai per forza, se non altro quelli legati alla minima sopravvivenza.Devo maturare in fretta e imparare ad arrangiarmi nella vita quotidiana, nell’organizzazione dei viaggi, nella gestione delle mie ansie. Sono

l’unica responsabile di me stessa. Ho voluto a tutti i costi essere grande e finalmente lo sono. Mamma mi ha accompagnata fino lì, poi è come semi avesse mollato su una bicicletta senza le rotelline: queste sono le regole, le conosci, adesso vai.

Il sostegno lo cerco dentro di me, perché da fuori non me ne arriva. Amo Florian come si amano i primi amori, con inconsapevolezza eincoscienza. Non ho paura della distanza, non mi sono nemmeno posta il problema. Non sono una che ha bisogno del bacio della buonanotte, di

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una routine consolidata per sentirsi al sicuro. So che esce con altre ragazze, ma faccio finta di niente perché sono convinta di essere una costantenella sua vita, quella che alla fine sbaraglierà le avversarie e vivrà per sempre felice e contenta.

Cerco di tenere insieme questa relazione sbilanciata tra Milano e Firenze praticamente da sola. Lui non telefona, non manda messaggi, non sisposta per venire a trovarmi, non mi racconta di sé né vuole sapere. Quando lo cerco, mi sembra di disturbarlo. E sì che dovrebbe essere il miofidanzato...

Insisto più volte perché venga ad allenarsi a Milano. Al Bonacossa, Barbara Rossi allena me, mentre Maurizio Riva i ragazzi: Stefano Tarallo eMarcelo Charpentier. Per Florian sarebbe una situazione perfetta. Niente, non si muove di un millimetro.

Dopo una bella serie di urla, strepiti, capricci e scenate mi stanco e scelgo di tenermelo così com’è. Lasciarlo sarebbe impossibile: è il mioamore, non posso rinunciare. Ho bisogno dell’idea di lui, di un uomo vicino, per sentirmi a posto. Ho rinunciato al Centro federale perché nonvolevo vivere di solo tennis. Lasciare Florian sarebbe come capitare sulla casella sbagliata nel Gioco dell’oca e dover tornare al via.

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Nel 2001 continuo a partecipare a tornei IT F da 50-75.000 dollari. L’anno prima ho tentato le qualificazioni per vari tornei W T A, ma non le ho superate.Gioco un paio di tornei in gennaio, non mi sento granché bene ma penso di scontare due settimane di vacanza a Brindisi. Mi sono allenata

meno e non sono stata attenta alla dieta. Tant’è che di domenica siamo andati, come vuole la tradizione familiare, a mangiare il pesce al ristorantee appena ho visto i frutti di mare e le cruditées sono impazzita. Insieme a mio padre ho divorato un’intera scodella di “schiuma di mare”, bianchetticrudi, quei pesciolini che nel resto d’Italia si mangiano fritti.

Parto comunque per Dubai e gioco le qualificazioni di un torneo da 75.000 dollari. Sono con Marco Danelli: allenamento al mattino, spiaggia dipomeriggio. Un giorno mi addormento al sole e mi risveglio cotta, tremando di freddo. Sono cresciuta sul mare, dovrei saperlo che dormire al soleva evitato... Mi fustigo, vado a letto con i brividi e la mia insolazione. Il mattino dopo gioco la prima partita e la vinco.

Nel pomeriggio spedisco Marco in spiaggia da solo e rimango in hotel. Vengo aggredita da un gelo mai visto, così mi metto sotto le copertetutta vestita, con anche i calzini. Il giorno dopo sto meglio, torno in campo e vinco di nuovo.

Dato che ho giocato con una tuta nera sotto un sole che spacca le pietre e a stento ho sudato, vado dal medico. Che mi misura la febbre: ho37,5 e l’ipotesi che entrambi accreditiamo è che mi sia surriscaldata a causa dello sforzo in partita.

Torno in hotel e crollo: il freddo non se ne va, in compenso mi viene male ovunque, alle ossa, alla testa, alla pancia... Marco torna dalla spiaggiae mi trova in tuta tremante sotto un covone di coperte, lenzuola, asciugamani, vestiti, tappetini del bagno... Mi prova la febbre: 40,5. Sbianca: già èmagro, sembra un fantasma. Chiama aiuto e nel giro di poco la camera è completamente occupata da una delegazione dell’ IT F, giudici di gara,medici, allenatori, preparatori fisici e fisioterapisti. Nessuno capisce che cos’ho, e nel dubbio nessuno fa niente.

Il mattino dopo mi sento un po’ meglio e testona come sono vado in campo contro ogni raccomandazione. Dopo quattro game ho crampiovunque, non riesco nemmeno a stare in piedi. Mi portano negli spogliatoi a braccia. Comincio a preoccuparmi perché non ho mai sofferto dicrampi, forse li ho avuti una o due volte.

Arrivo in hotel congelata come il giorno prima. Marco prende in mano la situazione e stabilisce che dobbiamo tornare a casa. Prenota duebiglietti e affronta con me un viaggio straziante: il volo è alle due e mezzo di mattina, ogni tre minuti devo correre in bagno per vomitare. Sonoabituata a viaggiare, anche da sola, non ho paura di perdermi né di arrivare tardi, prendo bonariamente in giro chi non ha consuetudine con gliaeroporti e si presenta al check in con quattro ore di anticipo, ma questa situazione non la so gestire. Non mi è mai capitato niente di simile.

Una volta al sicuro, nel mio appartamento di Milano, chiamo Barbara Rossi, che invia un medico a visitarmi. Diagnosi: influenza. Se non mifosse passata nel giro di qualche giorno con i medicinali prescritti, sarei dovuta andare in ospedale a fare dei controlli, perché «potrebbe avercontratto qualcosa a Dubai».

Benissimo.Mia cugina Fiorella, impavida, ignora ogni pericolo di contagio e decide di prendersi cura di me.Viviamo insieme da un paio di mesi: si è trasferita a Milano per frequentare l’università e la sera lavora in un bar, per essere indipendente. Sono

felice: non amo la solitudine. È una sorella: siamo cresciute, io ho lasciato Brindisi presto, ma siamo ancora vicine. Conta molto per me. Milanoinsieme a lei diventa un posto, non il CAP in fondo all’indirizzo del Bonacossa: sa dove andare, cosa fare, cosa vedere. Io vivo nei campi del Circolo,lei vive la città. La amo perché mi riporta nel mondo. La sua vita completamente diversa, con problemi altri, aspettative e sogni che non conoscomi interessa. Lei mi interessa.

Per qualche giorno mette da parte i libri e mi sta vicino. Di mattina sto meglio, così facciamo lunghe colazioni e mi tuffo nel suo mondo. Ridiamoquando ci torna in mente che, da bambina, Fiorella era come Willy Coyote: tragicamente goffa e tenace. Un Natale, era tardi, pensavamo di aversentito Babbo Natale arrivare. La mia camera è al terzo piano: siamo scese di corsa giù per le scale, Fiorella è inciampata ed è planata sulpianerottolo come un proiettile gigantesco. Io ero muta per il terrore, poi lei si è messa rapidamente in piedi, sistemandosi la camicia da notte,affrettandosi a specificare: «Non ho niente, sono perfetta!» e ha ripreso come niente fosse, tirandosi dietro anche me.

Anch’io con la goffaggine ho avuto qualche scontro doloroso, a onor del vero, come quando mi sono spiattellata contro un palo della seggioviache mi era sfuggito mentre tentavo di roteare splendidamente sciolta sugli sci, recuperando al contempo una racchetta che mi era caduta. Troppecose in una volta...

I pomeriggi sono noiosissimi, mi aggravo, tornano il freddo, la stanchezza, il male ovunque. Continuiamo a essere convinte che si tratti diun’influenza: per quanto brutta, passerà.

Una notte mi sveglio alle tre con dei brividi incontrollabili. Fiorella costruisce un nido di coperte, asciugamani, lenzuola, cuscini dei divani,accappatoi, cappotti... Mi copre con tutto quello che trova in casa, poi chiama l’ospedale e spiega la situazione alla guardia medica. Le dicono didarmi un antibiotico e di bagnarmi i polsi e la fronte con l’acqua gelida. Nell’incoscienza immagazzino l’immagine di mia cugina con una bacinellain braccio che mi infila le mani gelate nell’acqua gelata. La mattina sono perfetta. La febbre non c’è più. Sono stanchissima, Fiorella è a pezzi. Miamadre insiste per venire a Milano, io insisto perché rimanga dov’è, cosa vuoi che sia un’influenza?

Alle quattro del pomeriggio Fiorella e Stefano Tarallo si danno il cambio. Lui fa un po’ di cabaret, qualche battuta per sdrammatizzare, apre tuttele finestre «per far uscire i germi» e alle sei e mezzo se ne va. A quel punto mi sento stanca di colpo, imprigionata sotto una coperta distanchezza. Mi dico: “Con la notte che ho passato... Ora vado a letto, dormo, domani mi sveglio e ricomincio la mia vita”.

Come mi sdraio, mi si blocca il respiro. Annaspo, mi sembra di affogare. Cerco di alzarmi ma non ci riesco, guardo intorno e tutto è lontano: iltelefono è lontano, il cellulare è lontano, la porta è lontanissima. L’aria entra nei polmoni fischiando e non mi sazia. La vista mi si offusca e penso:“È fatta”. Cado giù dal letto e la botta mi rianima. Non sono ancora morta. Striscio fino al telefono e compongo il numero di Peppino, il padre diBarbara Rossi, il mio vicino di casa. Non so come, mi riconosce dalla flebile voce che esce tra un rantolo e l’altro. Corre da me. Striscio fino allaporta per aprirgli. Mi dice che sta arrivando l’ambulanza, si china e mi prende la testa fra le braccia. Svengo ascoltando la sua voce e il suo cuoreche batte.

Dopo meno di dieci minuti i barellieri mi mettono una maschera d’ossigeno, mi caricano in sedia a rotelle e poi in ambulanza. In ospedale lafebbre cala dopo un’iniezione e ricomincio a respirare regolarmente. Sono ancora terrorizzata quando vedo arrivare mia madre.

Come diavolo ha fatto? Brindisi-Milano in dieci minuti? Mi spiega che è partita quella mattina nonostante le avessi detto di non venire. Una voltaa Milano ha telefonato a casa, siccome non ho risposto ha chiamato Barbara, che ha provato a minimizzare la situazione – con scarsi risultati – el’ha accompagnata in ospedale.

Passa mezz’ora e vedo arrivare Fiorella: cianotica, con ancora il grembiule del bar indosso, mi si getta al collo chiedendomi di scusarla,ripetendo che è colpa sua, che se fosse rimasta a casa tutto questo non sarebbe successo. Scemenze. Piuttosto, io comincio a pensare con unacerta inquietudine che potrei averle attaccato la malattia ancora ignota che ho, quindi la stacco da me e provo a tranquillizzarla da lontano,

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continuando a pentirmi di essere stata così deficiente da averla lasciata bere dalla mia bottiglia al grido di: «Voglio anch’io questo virus, non vedicome sei dimagrita?».

Mentre le donne della mia famiglia si agitano, si spalancano per me le porte del reparto Malattie infettive, sotto-reparto “isolamento per malati dimalattie ignote”, sotto-sotto-reparto “camera singola con vista fuori attraverso un vetro”. Nel disastro, mi sforzo di vedere i vantaggi: no discussioniper la televisione, bagno tutto mio, la mamma tutta la giornata insieme a me. Lei e Fiorella sono le uniche a poter entrare coperte da un camice,tutti gli altri visitatori possono solo farmi “ciao” da dietro il vetro.

Crollo in uno stato di dormiveglia che non mi abbandona più per i giorni successivi. Non riesco a dormire né a rimanere cosciente, la febbre siassesta sui 40 e non cala.

Dopo una settimana arriva la diagnosi: tifo.Da cosa l’ho preso? Dalla schiuma di mare? Da qualcosa che ho mangiato a Dubai? Non ne ho idea. Ma ce l’ho. Se non altro è curabile.Rimango in isolamento ventuno giorni, con mia madre accanto. Il ventunesimo giorno firmo per uscire. Non sono più infettiva. I medici

vorrebbero tenermi ancora in osservazione, fare qualche analisi per verificare se sono del tutto ristabilita, ma non ne posso più. Ho bisogno di unaparvenza di normalità, della mia casa, del mio letto.

Sono dimagrita undici chili, uno scheletro.Per i successivi tre mesi non posso fare sforzi, nemmeno minimi: rischio che le ulcere interne, che si stanno cicatrizzando, sanguinino e

scatenino emorragie. E in ogni caso mi sento ancora così stanca che l’ipotetico sforzo non riuscirei a compierlo nemmeno volendo: ho l’affannoanche nel fare una rampa di scale!

Mamma decide che si torna a casa, a Brindisi. Rimango ferma cinque mesi a meditare sulla mia carriera.Come tennista sono finita? O ho ancora delle possibilità? Salirò mai in classifica o sono destinata a giocare solo tornei da 75.000 dollari?È come se scoprissi che il tennis è il mio sogno e la mia passione in quel momento. Fino ad allora non ho dato il cento per cento: è una cosa

che faccio bene, la cosa che faccio meglio, e questo è tutto. Mi sono lasciata portare dagli eventi, non li ho determinati. Non sono mai stata spintadai miei genitori, non mi sono allenata tutti i giorni per ore e non ho rinunciato a niente per il tennis. Sono sempre stata una ragazza come le altre:andavo a scuola, il sabato sera uscivo con gli amici, i miei mi aspettavano al bar a mezzanotte per portarmi a casa. Sì, di pomeriggio andavo alCircolo, la domenica a Bari dal maestro Dell’Edera, ma non vivevo una vita “speciale”. I miei genitori non pensavano concretamente a fare di meuna campionessa.

Sono arrivata a questo punto quasi per caso: ho vinto il torneo di Cagliari e quello di Grado, ma non stavo seguendo un percorso stabilito.Semmai inseguivo il sogno generico di giocare un Grande Slam, ma non mi ero posta il problema di come arrivarci.

Decido che se voglio continuare a giocare deve funzionare diversamente. Decido che io devo funzionare diversamente.Mi pongo degli obiettivi: ho diciannove anni, non voglio continuare ancora a lungo con i tornei IT F. Non perché non vada bene: molte giocatrici lo

fanno, anche fino a trent’anni. Semplicemente, non è quello che voglio per me. Io credo che ciascuno di noi abbia una dote: non sfruttarla è undelitto, di qualsiasi dote si tratti. La passione è un’altra cosa. Non penso che valga la pena di soffrire e lottare per una passione quando le veredoti di cui si dispone sono altre. Se a ventun anni non avrò fatto un salto di qualità vero, se sarò ancora a quel livello smetterò di giocare daprofessionista. Farò altro. Senza drammi. Ci sarà spazio e tempo per scoprire in cosa davvero sono portata: università? Insegnamento? Chissà.

Prima, però, devo mettercela tutta e provare a farlo, quel salto di qualità. Dando il cento per cento. Mi do un anno di tempo per fare tutto quelloche è necessario per provare a migliorarmi.

Mettere ordine nella mia vita privata è una delle cose da fare. Florian doveva giocare mentre ero in ospedale, doveva allenarsi mentre ero aBrindisi, deve partire mentre io organizzo il mio ritorno a Milano. Florian non ne vuole sapere.

Leonardo invece ne vuole sapere eccome. Scopro che ci sono uomini attenti, premurosi, presenti. Che telefonano, mandano messaggi, fanno lacorte.

Parto da Brindisi in direzione Milano per rimettermi in moto. Florian sa che sono in treno da sola e che sono preoccupata: sono mesi che nongioco e ho il terrore di aver perso tutto quello che ho costruito in termini di tecnica e di agilità fino a quel momento.

Normalmente passerei il viaggio a far montare la rabbia: “Potrebbe almeno chiamare...” e, immancabilmente, finirei per cercarlo io. In fondo,sono io quella che ha bisogno... In fondo sono una donna moderna... In fondo siamo nel 2000: una ragazza può ben telefonare se vuole, no?

Questo viaggio, però, è diverso. Non ho tempo di arrabbiarmi e di darmi della stupida per aver mandato le solite montagne di SMS a Florian,perché Leonardo mi chiama: mi chiede come sto, si preoccupa che sia da sola per così tante ore, scomoda, fragile dopo la malattia. Pensa chepotrei essere ansiosa, avere paura di tornare, di ricominciare. Sa cosa sto passando perché è un tennista anche lui. Come per magia mi sentocapita, non data per scontata.

Un altro mondo è possibile, per mia fortuna, ma lascio tutto congelato fino ai campionati assoluti, che nel 2001 si tengono a Reggio Emilia. Iltorneo è maschile e femminile: vedrò Florian, lo guarderò negli occhi e deciderò cosa fare.

Pessima decisione.Al primo turno gioco con Cristina Campese, una giovane ligure, e passo senza problemi ai quarti di finale. Devo affrontare Gloria Pizzichini,

sette anni di vita e di esperienza più di me. Gloria è piccolina e mobile, grazie al suo notevole senso tattico è stata tra le prime cinquanta almondo. La sua carriera è in declino a causa di una serie di infortuni quasi impressionante, ma lei è una che cade e si rialza, e ha tutto il miorispetto. È un’avversaria che temo, Florian lo sa e dev’essere per il suo mirabile senso delle situazioni che la sera prima decide di dirmi la cosapiù brutta che si possa dire a chi ti ama: «Flavia, io ti voglio bene come a una sorella».

Bam! Una porta in faccia. So che non sarà come le altre duecento volte che mi ha lasciato ed è tornato implorandomi di riprenderlo dopo unpaio di settimane. “Ti voglio bene come a una sorella” ha un’aria vagamente definitiva. E non è un qualcosa che posso accettare, rielaborare, farsparire. Se le altre volte che mi aveva lasciato ho pianto e mi sono disperata, questa gli chiedo: «Sei sicuro?».

Lui, stupito di avere di fronte una persona così calma: «Sì...?».«Va bene, ma sappi che questa volta se torni non ci sono.»«Perché mi stai dicendo così?»«Perché dopo questa frase non puoi dirmi tra dieci giorni che mi ami e sono la donna della tua vita, non esiste. È chiaro?»«Per te va bene?» mi domanda.«Sì, per me va bene.»Rimane di sasso per la totale assenza di quelle reazioni che ho sempre avuto – grida, lacrime, strepiti... Per la verità sono stupita anch’io di me

stessa, e fiera per come ho gestito la situazione. Mi stava maltrattando, e io mi sono protetta.Il giorno dopo vinco il primo set sull’onda dell’autostima, ma il successivo sono costretta a remare come una dannata. Secondo il mio fisico

sarebbe ora che il 2001 finisse. Al terzo set sono esausta, sento piombarmi addosso tutta la stanchezza della malattia, della ripresa faticosissima,

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del fallimento con Florian. La Pizzichini si guadagna la semifinale vincendo il terzo set 6-1. Le stringo la mano pensando che voglio essere capacedi cadere e rialzarmi come lei.

Chiudo l’anno al numero 289 del ranking. È tempo di organizzare il cambiamento.Ho bisogno di un preparatore atletico privato. Se voglio crescere non posso allenarmi in gruppo, come ho sempre fatto. Il mio uomo è Claudio

Botton: viene dall’atletica, ha fatto parte della Nazionale salti. Lavoro con lui per quattro, intensissimi mesi e la mia vita milanese si trasforma inqualcosa di folle. Non vedo nessuno, non conosco nessuno, non mi concedo mezza distrazione: da un inverno così o esce una ragazzina frustratanelle sue più cinematografiche aspirazioni di gloria o un’atleta pazzesca. La mattina mi alzo, prendo il tram, il 19, vado al Duomo, cambio e salgoin metropolitana, scendo a San Donato. Alle nove ho già fatto un’ora di strada. Mi alleno per tutta la mattina con Botton, che mi strema, midefinisce e mi aiuta a diventare più flessibile e veloce. Poi riprendo la metropolitana, il tram e sbarco al Bonacossa, cioè dall’altra parte di Milano,per allenarmi in campo. La sera, a casa, finalmente crollo. Comincio anche la dieta a zona sotto controllo medico, perché a causa del tifo hovitamine e ferro bassi.

Nel gennaio 2002 provo a partecipare agli Australian Open, ma fallisco la qualificazione.Comincio a frequentare più seriamente Leonardo, che mi aspetta a braccia aperte dopo la rottura con Florian. Insieme stiamo bene, è

simpatico, ridiamo moltissimo. Ma è geloso, per sentirsi sicuro ha bisogno di avere sotto controllo coordinate fondamentali come dove sono, conchi, cosa sto facendo. Io non sono capace di dargliele, lui impazzisce, mi sento amata e oppressa allo stesso tempo. Sono distratta perchécomincio a giocare alla grande.

Vado a Ortisei, e vinco. Gioco una finale al cardiopalmo contro la tedesca Angelika Bachmann, posizionata decisamente meglio di me inclassifica. Il primo set è lottatissimo, il secondo cedo il passo, nel terzo ritrovo la concentrazione e la stendo con una serie di lungolinea.

Da Ortisei a Roma, dal sintetico alla terra rossa. Vinco. In finale mantengo la calma e massacro Alexandra Kravets 6-4, 6-0.A quel punto parto per l’Asia con mia madre. Stiamo via un mese. Ci nutriamo solo da Pizza Hut perché nessuna delle due può soffrire l’odore

di aglio e di fritto e dormiamo in camere talmente piccole che se una vuole spostarsi, l’altra deve rannicchiarsi per farla passare.Mio padre, duro maschio pugliese, telefona tutte le sere alla dolce Conchita, superando addirittura l’ostacolo di parlare in inglese con la

reception. Se rispondo io mi chiede: «Di’ alla mamma che mi manca tanto!».«Diglielo tu, scusa! Te la passo...»«No, diglielo tu. Dille che vado al Circolo a cena da solo e la gente si pensa che la mamma m’ha lasciato!»Fantastico.Capisco che devo sbrigarmi, altrimenti mio padre potrebbe morire di nostalgia. Gioco quattro tornei, tutti tra i 50.000 e i 100.000 dollari, tre sul

veloce, uno sull’erba sintetica: due volte arrivo in finale, due in semifinale.Al mio ritorno in Europa il mio ranking è notevolmente migliorato, ma non voglio cantare vittoria.Rinuncio al Roland Garros e partecipo al torneo di Fano. In finale incontro Mara Santangelo. Il match è attesissimo, due italiane in finale, una

rarità. Gli spettatori rumoreggiano, mi agito e Mara mi inchioda nel primo set a tre game. Nel secondo, però, non c’è serve and volley che tenga:vinco 6-4. A quel punto io sono gasata e Mara nervosa: la lascio a bocca asciutta e porto a casa la partita e il torneo.

Due settimane dopo sono di nuovo in finale, questa volta a Biella. Di fronte a me c’è Sandra Kleinova, una tennista che ha quattro anni e unacarrettata di esperienza più di me, ed è stata qualche decina di posizioni più in alto di me nel ranking W T A.

Non c’è sport, però, nel quale i pronostici contino meno che nel tennis: un’intera partita può capovolgersi in un secondo e per mille ragioni. Einfatti spedisco a casa la Kleinova, 6-3, 6-2.

La ringrazio per la partita, stringo la mano sua e quella dell’arbitro, e mi viene da piangere e da ridere: chiudo l’anno novantacinquesima, tra leprime cento al mondo!

Ci avrei scommesso? Forse no. Ma il tennis mi ha stupito. Io mi sono stupita. Ce l’ho fatta, mi sono guadagnata un altro anno da giocatriceprofessionista. Sono dove volevo essere, sto facendo quello che mi piace, e ho scoperto che, se mi ci metto, posso riuscire bene.

Alla fine del 2002 mi sento una vincente. Ho persino di fianco a me l’uomo che amo.L’amore mi ha preso in contropiede. Florian ha scoperto la storia con Leonardo ed è tornato all’attacco: «Non posso pensarti con un’altra

persona». Un bambino, lo so, ma mi fa sentire desiderata. Dopo anni passati a inseguirlo in tutti i modi, finalmente è lui a volere me. E io sto conun altro.

Ci sto per poco, però. Leonardo è meraviglioso ma non posso dargli quello di cui ha bisogno, cioè presenza, costanza, telefonate abituali:sicurezza, in una parola. Lui ci soffre, si sente trascurato e non amato, io mi accorgo che ha ragione: non lo amo. Non perché non gli telefono tuttele sere prima di dormire, però: perché quando sono via non farei pazzie per vederlo anche solo qualche ora.

Ci lasciamo e mi abbandono perfidamente al corteggiamento di Florian. Che è più perfido di me: mi conosce da quando ho sedici anni, sacosa dire, quali tasti toccare, quando chiamare e quando, invece, ho bisogno di stare sola. Mi fa capire in ogni modo che vuole me e soltanto me.Voglio vedere l’effetto che fa. Ed è bello. Bellissimo.

Viene a vivere e ad allenarsi a Milano. Si insedia nel mio appartamento e ci trasformiamo nella coppia ideale, quella che si muove all’unisono.Nessuno pretende nulla dall’altro e nessuno pensa solo a se stesso. Non discutiamo, ci confrontiamo. Fiorella ci osserva con gli occhi grandi chesi allargano per lo stupore.

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4

Comincio l’anno gasatissima. Ad Auckland, in Nuova Zelanda, vengo scelta come testa di serie, ai primi di gennaio volo in Australia incontro almio sogno: gli Open.

A Canberra supero Maja Matevžić e Clarisa Fernández, e mi tocca il derby con la Schiavo. Farei sinceramente a meno di giocare con una chemi conosce perfettamente, che sa quali sono i miei punti deboli e come fare per battermi, ma non posso evitarlo. Scendere in campo contro leamiche: rischio del mestiere. Richiede una certa dose di antagonismo e di autocoscienza sportiva: dall’altra parte della rete non c’è Francesca, oRoberta, o Maria Elena, c’è l’avversaria. E l’avversaria va, se possibile, sconfitta. Punto.

Ho scoperto negli anni che la parola “incontro” per definire una partita è un eufemismo. “Incontro” sottintende una comunicazione amichevole dibase, uno scambio, è una parola molto sportiva, molto corretta, molto english. In realtà contro le amiche dobbiamo imparare a giocare una partita:una vince, una perde e brucia maledettamente, però ci vogliamo ancora bene. Per fortuna la Schiavo è come me: maschiaccio al punto giustoperché l’impresa di randellarci in campo per poi andare a cena insieme la sera sia fattibile.

Francesca non è un’avversaria semplice: audace, decisa, si sposta senza difficoltà da rete a fondo campo e ritorno, ha un diritto vincente e,quando è stanca e provata, non crolla ma libera l’istinto creativo.

Scendo in campo determinata a sfoderare tutta la mia precisione e un solido gioco d’attacco. Poi trovo la Schiavo. Che angola le prime diservizio con un certo qual compiacimento: non le interessa il rischio perché è troppa la goduria quando vede la pallina rimbalzare sulla metàesterna della riga dell’area di battuta e sente “ace”! Merda. Glielo lascio fare due o tre volte, tempo di trovare una strategia efficace. La strategia è:addio solido gioco d’attacco, benvenuta difesa. Comincio a correre. Angolo destro, sinistro, fondo campo, sotto rete: sono ovunque e prendo tutto,sbagliando un po’ troppo spesso se la Schiavo riesce a portare a casa il primo set per 6-3. Nel secondo approfitto spudoratamente del bioritmodella mia avversaria: parte forte, poi rallenta e per tornare in partita le ci vuole un po’. Diventa fallosa, così la favorisco con colpi esplosivi, veloci epotenti. La faccio correre, la chiamo a rete, la sorprendo con qualche geometria che solitamente non gioco. Voglio che veda che sono cresciuta,voglio che la nostra sia una partita vera. Tutta questa convinzione mi vale un secondo set lottato, faticoso e impegnativo.

Il terzo è decisivo. Diventa chiaro, lampante, che vogliamo entrambe la stessa cosa. Sembra scontato, ma finché si rimane concentrati sulgioco, sul singolo game, sui punti, il senso generale della partita si perde. Quella partita vale un turno, la possibilità di avanzare nel torneo. O io olei.

Cerco il ritmo giusto per metterla in difficoltà, ma sono in ritardo. La Schiavo mi batte sul tempo e cambia ritmo: siamo al terzo game quando mistrappa il servizio. Mi infastidisco e a mia volta le rubo il suo. Sono in vantaggio. La Schiavo arrabbiata: una grande tennista. Gioca colpiincredibili e mi lascia letteralmente a secco, ferma al mio misero 2 mentre lei avanza implacabile verso il 6. Suo il set, sua la partita.

Tra il caldo, la stanchezza e la rabbia in spogliatoio mi sento svenire. Mi accascio su una delle panchine e faccio chiamare un fisioterapista.Sono dolorante dalla testa ai piedi, mi pare che il braccio sia altro da me e mi aspetto che da un momento all’altro si sviti dal resto del corpo perandarsene in giro per conto suo.

Non mi spiego perché la sconfitta debba fare così male. Ho vinto due partite importanti prima di quella con la Schiavo: come mai gli effetti sisono già esauriti? Tutto dimenticato nel giro di poche ore? Ebbene sì.

La Schiavo arriva con il suo carico di applausi e soddisfazioni ma è stravolta almeno quanto me. Mentre si accascia lì vicino mi sorride e midice: «Cominci a capirne, di tennis».

Se me l’avesse detto Steffi Graf mi sarei esaltata di meno.“Dai, in effetti sei arrivata ai quarti...” penso. I miei primi quarti di un torneo del World Tour, non è certo roba per signorine. Ho anch’io un buon

motivo per festeggiare, così rilancio: «Dove andiamo a cena stasera?».

La settimana dopo sono agli Australian Open. Gioco contro Silvia Farina e ho poche speranze: Silvia ha dieci anni più di me ma fisicamente èmolto preparata. È una delle migliori giocatrici italiane di tutti i tempi. Mi sembra di dover sostenere un esame e gli esami mi agitano: non tengouna palla in campo nemmeno durante il riscaldamento, figuriamoci in partita. Silvia estrae dal cilindro qualcuno dei suoi eleganti rovesci e siguadagna la possibilità di proseguire la corsa.

Esco dal campo furiosa: so di non essermi fatta valere abbastanza. Avrei dovuto essere più esplosiva, invece sono stata remissiva, sono stataal suo gioco. Arrabbiatissima, mi infilo in camera e ci rimango: non voglio parlare di tennis, non voglio vedere giocatori di tennis, allenatori,preparatori fisici, nessuno.

Rimango arrabbiata un paio di giorni, il tempo di realizzare che ho una possibilità di riscatto.Volo in India, a Hyderabad. Il Circolo è il tempio del colonialismo inglese: all’interno indiani magrissimi gironzolano in calzoncini stirati con la

piega e polo bordate d’azzurro, anch’esse perfettamente stirate nonostante i 40 gradi; fuori il caos dell’India che assomiglia a se stessa, con il suotrionfo di odori e colori. Peccato che io li veda solo dal finestrino di una macchina.

Al primo turno incontro Martina Suchá, che penso di conoscere e poter battere senza problemi, infatti mi sorprende con un gioco d’attaccoimplacabile per tutto il primo set. Sto perdendo miseramente quando realizzo che c’è qualcosa che non va. Mi ritiro in una bolla a fondo campo ecerco di capire che cos’ho. Ho che non me l’aspettavo. Pazienza. “Forza Flavia, forza Flavia, forza Flavia.”

Non c’è sport più solitario del tennis. Il fondo campo è lontano dal resto del mondo come un pianeta inesplorato. Parli e nessuno ti sente, seitalmente concentrato su te stesso e le tue sensazioni, fisiche e mentali, che l’avversario nemmeno lo vedi. È con te stesso che lotti, nel novanta percento dei casi. Non c’è nessuno a dirmelo, quindi me lo ripeto da sola: “Forza Flavia, forza Flavia, forza Flavia”.

Nel secondo set cerco di assumere il controllo e di dettare le condizioni: scatto qualche volta di troppo, ma questa volta stupisco io la Suchá earraffo game dopo game dopo game: chiudo 6-3 e sono pronta per il terzo.

Siamo in parità, ma quello che la mia avversaria non sa è quanto io voglia vincere. Anche lei certamente vuole vincere, giochiamo per questo.Io, però, ho bisogno di dimostrare a me stessa che posso migliorare. Torno nella mia bolla e mi concentro sulla palla, cercando di minimizzare imiei difetti, che comincio a conoscere bene: un servizio su cui lavorare, una muscolatura che ha ancora bisogno di essere potenziata,un’esplosività che devo imparare a dominare. Vinco il terzo set 6-2 e guadagno il confronto con Cristina Torrens Valero, spagnola inquadrata emetodica, tra le prime trenta al mondo. La temo perché rispetto l’esperienza. Probabilmente lei teme le nuove leve, o forse accusa qualcheproblema fisico, perché la liquido in poco meno di un’ora, vincendo la partita 6-2, 6-0. Non so ancora cosa mi sta aspettando.

La scelta è tra l’australiana Evie Dominikovic e Mary Pierce.Dovessi decidere io, ci metterei un secondo, peccato che decida la Pierce, battendo la Dominikovic 6-3, 6-3.Mary Pierce è una di quelle giocatrici con cui è un onore e al contempo una sfortuna colossale confrontarsi. È talmente preparata fisicamente

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che la chiamano The Body, ha vinto contro tutte le più grandi, da Jennifer Capriati a Monica Seles, da Steffi Graf a Lindsay Davenport, ha portato acasa due Slam, un Australian Open e un Roland Garros. Per di più, è una delle giocatrici che imploravo per poter palleggiare al Circolo.

Batterla è un’impresa. Non provarci un insulto.Scendo in campo con tutta la concentrazione di cui sono capace.La Pierce è possente. Non è tanto più alta di me, ma è così muscolosa che sembra Braccio di Ferro e lo rimarca a ogni colpo. Cerco di

sembrare aggressiva, o quanto meno di tener ferme le ginocchia, che avrebbero il desiderio folle di tremare e, possibilmente, uscire dal campocon me al seguito. Il risultato è un gioco piuttosto fisso, da fondo campo: più potente possibile, più lungo possibile, più sul rovescio possibile.

Man mano che i game si accumulano nel tabellone, realizzo l’impensabile: io e la Pierce ci equivaliamo, stiamo procedendo in parità. Mi esalto.Devo strapparle un break.

Mi ci vuole uno sforzo titanico per mantenere la concentrazione nonostante il caldo si divori i pensieri, le tattiche, le geometrie. La Pierce nondeve stare molto meglio, perché la treccia smette di ondeggiare e per un minuto smarrisce il comando del gioco.

È la mia occasione: mi getto a corpo morto in quello spiraglio e scaglio dall’altra parte della rete un paio di terribili rovesci che cadono dovedevono cadere. Non si sa mai, con queste cose gialle e pelose.

Ora conduco io. Merda: conduco io! Mi sento un gigante. Altro che Braccio di Ferro! Allibita almeno quanto la Pierce, perforo il suo gioco fino atrascinarla al tie-break. E lo vinco.

Torno in panchina senza fiato. Mi domando se ho le allucinazioni o se è tutto vero. Mi stroppiccio gli occhi e guardo il tabellone. Ok, è vero.I tifosi applaudono stancamente, anche loro distrutti dalla temperatura.All’inizio del secondo set ho già il fiatone. La Pierce prova a sfondare il mio campo con qualcuna delle sue delicate battute, io gliele restituisco

una per una con tutta la forza che ho in corpo, aggiungendo una direzione precisa: quella che voglio io. La palla obbedisce e piomba velocissimanell’altra metà campo, nel punto esatto che ho scelto. A forza di punti mi trovo a servire per il match. È talmente surreale che fisso l’arbitro per unminuto buono prima di decidermi a far volare quella pallina per aria. Non sono certa di colpirla con la racchetta, forse la spedisco di là con l’urloche mi esce dalla gola, consumando le ultime energie che ho a disposizione. Game, set, match. Miss Flavia Pennetta passa il turno e si guadagnala semifinale.

Tamarine Tanasugarn è trentunesima, testa di serie numero 2 del torneo. Arriva a questo incontro dopo aver sgominato, nella sua parte ditabellone, una discreta rappresentanza di giocatrici dell’Europa dell’Est: Yulian Beygelzimer, Tatiana Poutchek, Maria Kirilenko. Spero che accusila stanchezza e la aggredisco, nel giro di pochi game urliamo e sbuffiamo e imprechiamo, io in italiano, lei in thailandese. È da subito testa atesta, ciascuna cerca un’apertura per fare il break all’altra, scorgo la possibilità di compiere un secondo miracolo: far fuori una che staziona unacinquantina di posizioni sopra di me in classifica, ma non ce la faccio. È come se non finalizzassi. O semplicemente la Tanasugarn è più forte.

Perdo la mia primissima semifinale importante, ma con onore: 5-7, 4-6. Non c’è spazio per il rimpianto: ho dato tutto quello che potevo e losforzo mi vale due posizioni nel ranking.Scelgo di tentare le qualificazioni a Memphis, nella seconda metà di febbraio, saltando un paio di torneiche sarebbero sulla rotta aerea, e guadagno tre giorni da passare a Milano con Florian. Sto cominciando a viaggiare con una certa frequenza, luitiene un ritmo alto e le occasioni per vederci sono sempre meno.

Florian ormai fa parte di me. A mio padre continua a non piacere – tende a diffidare di quelli con i capelli lunghi che si sono comportati male conme anche solo mezza volta – mentre a me piace sempre di più.

Ritorno nella nostra routine come in un nido caldo: dopo tanto viaggiare da sola sono di nuovo io. Mi riconosco nella nostra vita insieme, neinostri ritmi e nei nostri sforzi per minimizzare la distanza e le frequenti separazioni.

Il fatto che anche Florian sia un tennista aiuta: sa quali sono le regole del nostro mondo, fa il tifo per me e non si aspetta che io rinunci adalcunché per lui. Non è insicuro, non ha paura del fatto che conosca tante persone, non ha bisogno che lo chiami tutte le sere alla stessa ora, chegli faccia sapere in ogni momento dove sono, cosa sto facendo e con chi. Impazzirei. È il solito Florian, che tende a farsi gli affari suoi con queldistacco da figo imprendibile. Solo che mi ama, e me lo fa capire in mille occasioni.

Parto per Bogotá pensando alla fine di marzo: sarò di nuovo a casa. Tra me e la Colombia è subito amore. Scappare dal gelo milanese infebbraio è impagabile e il Centro de Alto Rendimiento Deportivo non vede l’ora di accogliere me e circa altre tremila persone in occasione dellaCopa Colsanitas. Mi sento bene: energica, tonica, in forma. Scivolo ai quarti senza troppa fatica, battendo due giocatrici parecchio più in basso dime nel ranking. Mi piace la terra rossa, mi piacciono i suoi rumori, quando ci si striscia sopra per arrivare quel tanto più in là da prendere un colpolontanissimo, quando la palla rimbalza e il suono viene come assorbito dal campo. Mi piace il fatto che sporchi i calzini e le scarpe, che lasci il suosegno su di me e che io possa decorarla a mia volta con un reticolo di colpi.

Dall’Italia cominciano seriamente a fare il tifo per me. Gianni Clerici mi chiama “Piccola Penna”. Spero che sarà così ancora molto, molto alungo, ma non è mai detto: potrebbe finire domani. Così mi godo ogni singola riga, anche se tra altre duemila notizie di sport c’è scritto che “latennista brindisina si è arresa nei quarti di finale del torneo di Bogotá alla slovena Srebotnik con il punteggio di 7-5, 6-4”. Ok, ho perso, ma non ètutto: “La Pennetta è ormai entrata stabilmente tra le prime cento giocatrici al mondo”. Evvai! Esisto.

Da Bogotá faccio rotta su Acapulco. È la mia prima volta anche in Messico. I paesi di lingua spagnola sono i miei: intorno i colori che amo, cibieccellenti, una lingua che non parlo ma che più o meno capisco. Mi sento a mio agio.

Affronto Paula Garcia e Patricia Wartusch, guadagnandomi il passaporto per i quarti di finale contro Amanda Coetzer. La sudafricana ha più omeno una decina di anni più di me e centinaia di partite alle spalle: è professionista dal 1988, io da quanto? L’altro ieri? Sono cresciutaosservandola, ammirandone il gioco potente e preciso.

Dubito seriamente di poterla battere, ma mi piacerebbe. Una volta in campo, profondo tutte le mie energie nel primo set. E lo vinco. Per 6-4. Misento potentissima, invincibile, una macchina da guerra. Comincio a fantasticare di poter raccontare ai miei figli che la mamma ha battuto nellastessa stagione Mary Pierce e Amanda Coetzer. Poi comincia il secondo set. E la Coetzer mi dà una grande lezione: se devi giocare una partitaintera, non bruciare subito tutte le tue risorse. Mi sconfigge sonoramente, lasciandomi in totale la bellezza di tre game, due nel secondo set,addirittura tre nel terzo. Sono indecisa se esserle grata per il prezioso insegnamento o se arrabbiarmi, ma propendo per la prima. Posso sempredire ai figli che la mamma, dopo aver battuto Mary Pierce, si è valorosamente battuta contro Amanda Coetzer, e insegnare loro l’importanza diraccogliere le perle di saggezza che altri con più esperienza di noi lasciano cadere.

Dal Messico volo in California, poi a Miami, poi a Milano, poi a Casablanca e a Estoril. Da lì in Svezia, poi in Croazia, a Berlino, a Roma,Madrid, Parigi, Birmingham, ’s-Hertogenbosch, Wimbledon, Sopot, Helsinki, ancora Stati Uniti, per l’esattezza a New Haven, poi i mitici campi diFlushing Meadows, vicino a New York City. È la volta dell’Indonesia, per il torneo di Bali, cui seguono quello di Shangai e quello di Tashkent, inUzbekistan. Tempo tre giorni a Milano e sono di nuovo in volo, questa volta verso il Lussemburgo. Chiudo l’anno in Thailandia, a Pattaya. Poi,invece di gustarmi spiagge e monasteri buddisti, torno a Milano.

In totale ho visitato zero paesi, scattato zero fotografie, scoperto zero usanze. I circoli tennis sono tutti uguali, il che in qualche strano modo è

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quasi confortante. Voglio dire: potrebbe trattarsi più o meno sempre dello stesso posto se non fosse per il colore della pelle di chi ci lavora e per ilclima.

Avevo viaggiato anche gli anni scorsi, ma questo è completamente diverso. È professionismo vero. Costa non solo la fatica delle partite, degliallenamenti, degli spostamenti, ma anche quella di stressare il proprio corpo per adattarlo, almeno in linea di massima, a orari che cambiano inuna notte.

Nel giro di qualche mese divento un mostro di elasticità: dopo viaggi di ore e ore in economica, con le gambe rattrappite e un certo mal di testada aria pressurizzata, scendo dall’aereo, mi sgranchisco, vado a cena, dormo le ore che riesco e il mattino dopo sono in campo per allenarmi. Ilmio corpo ce la mette tutta per ribellarsi, fa cose come non avere fame all’orario giusto e farsi prendere da attacchi notturni di golosità chenemmeno la più capricciosa delle donne incinte, non voler dormire, essere fiacco per ripicca mentre mi devo allenare.

Ma non ha capito che non mi sono fatta tutto questo mazzo per farmi ricattare da lui: la disciplina è questione di testa. E con la testa lo piego allemie esigenze. In cambio guadagna alimentazione sana, tanto sport (ma tanto) e il maggior numero di ore di sonno possibile, anche se sparse inuna giornata ideale di, ipotizziamo, quarantotto ore.

La mia vita è nascosta tra tutti questi chilometri.A Indian Wells, in California, avanzo al secondo turno dopo aver battuto una wild card, Bethanie Mattek-Sands: è oltre la centocinquantesima

posizione nel ranking, ma mi fa sudare il turno come una dannata. Lo stesso risultato che ottengo io contro Meghann Shaughnessy, una giocatriceche assomiglia più che altro a un treno in corsa. A Miami compio la ragguardevole impresa di strappare, lasciandola ferma a due game, unsecondo set a Lindsay Davenport, la settima al mondo.

A dispetto del nome da cheer leader, Lindsay è praticamente una montagna: staziona immobile a fondo campo e gestisce il gioco in modo danon muoversi e da sfondare ogni difesa dell’altra giocatrice; trovarsela di fronte e avere il dubbio che le corde della racchetta possano cedere nelrispondere a una sua palla è tutt’uno. È fortissima, ma anche pesante e lenta. Riesco a farla correre solo nel secondo game, poi riprende la pallalei e mi massacra lasciandomi ferma a un solo game. Impacchetto l’esperienza e la etichetto, come quelle contro Coetzer e Pierce, come “coseda raccontare ai posteri”.

In aprile, nonostante due ritiri a causa di un infortunio al polso destro che mi impedisce di giocare, mi chiamano dalla Federazione: CorradoBarazzutti, coach della Nazionale, mi ha scelta per gareggiare in Fed Cup. Siamo attese il 26 e 27 aprile sui campi di Lynkoeping per sfidare laNazionale svedese. Mi commuovo quasi: la maglia azzurra, quella stessa che non sapevo come gestire. Ok, adesso sì, mi sento all’altezza.

La responsabilità mi galvanizza invece di mettermi in soggezione e porto a casa tre punti: due singoli contro Hanna Nooni e Sofia Arvidsson e ildoppio in coppia con Roberta Vinci, un elfo abilissimo nel gioco sotto rete e veramente una delle migliori doppiste che l’Italia abbia mai dato allaluce.

Siamo abituate a stare sempre sole, a pensare a noi e solo a noi. In squadra è tutto diverso: c’è un intero gruppo di persone che cerca di fare ilmassimo perché tu possa giocare bene, sentirti a tuo agio... e poi non giochi solo per te, ma per la Nazionale!

Sull’onda dell’entusiasmo tento le qualificazioni a Berlino, ma fallisco. Nel ranking sto rimontando alla grande: sono sessantatreesima quandometto piede al Roland Garros. Al primo turno supero una wild card, Amandine Dulon, e mi guadagno l’incontro con Lisa Raymond, una gigantessadel tennis. Vinco dopo un secondo set che dura una mezza eternità. Arrivo al terzo turno. Un terzo turno del Roland Garros, un Grande Slam, non èun terzo turno normale: c’è più frenesia, più attesa.

Guardo appena oltre e vedo gli ottavi di finale. Una promessa. Se fosse presente mio padre scommetterei con lui, niente è così motivante comeil desiderio nemmeno tanto recondito di fargliela. Ci scherziamo al telefono, tra un “in bocca al lupo” e l’altro. Non saprei dire chi è più agitato tra idue.

Tutta l’euforia pre-partita scema alla velocità della luce durante il rapido incontro tra me e Petra Mandula, la mia avversaria ungherese. Perdo ilprimo set in quattro e quattr’otto. Si direbbe che lo lascio andare, visto che sbatto fuori una percentuale decisamente alta delle palle che miarrivano. Il sogno si infrange al secondo set, quando la Mandula accelera il ritmo di gioco e, a tratti, mi sorprende con un’improvvisa smorzata.Imprendibile.

Sbattuta letteralmente fuori dal campo, segue un’imbarazzante conferenza stampa: non so cosa dire, non ho capito cosa è successo. Igiornalisti mi bombardano di domande tecniche, io sinceramente vorrei solo cercare di distaccarmi da quest’esperienza per pensarcipossibilmente mai più. Se proprio devo, più avanti.

Scappo da Parigi e mi tuffo nel tour, facendomi avvolgere dall’idea di me come professionista. Gioco tantissimo, vinco poco ma combatto, mifaccio le unghie come i gatti. È il mio primo anno da giocatrice con la valigia ed è una prova lunga, difficile e faticosa.

A novembre posso dirmi soddisfatta: sono la numero 69, ho guadagnato più di venti posizioni. Decido di giocare un ultimo torneo, a Pattaya, inThailandia. Perché no?

Il primo giorno mi presento in campo per gli allenamenti. Sto palleggiando quando sento il ginocchio destro cedermi, come quando mi tremanole gambe per l’emozione. Per un pelo non vado lunga per terra. Mi tiro su, ignoro la faccenda e continuo l’allenamento. Altra corsa, altra torsionedel ginocchio: bam, altro cedimento. E un male bollente che si spande dal centro del ginocchio fino su nella coscia.

Ok, ho capito. Zompetto sull’altro piede verso la panchina e mi siedo. Guardo il ginocchio: sarà dieci centimetri in più del suo gemello.Pensando ostinatamente a qualche rognosa scemenza, una qualche distorsione risolvibile a furia di massaggi, chiamo il fisioterapista e mi faccioaccompagnare negli spogliatoi. Lui analizza la situazione, mi guida nell’eseguire i vari movimenti del ginocchio, rotazione, distensione,piegamento e così via. Quando mi torce il piede verso l’interno urlo dal dolore: una scheggia mi si conficca all’esterno del ginocchio e salevelocissima fino a conquistare tutta la coscia. Ho l’impressione che la gamba ceda anche se sono sdraiata.

Il terapista mi dice di rimanere dove sono e se ne esce con la dichiarata intenzione di convocare un piccolo conciliabolo di medici. Sonoabituata a venire manipolata, massaggiata, controllata da estranei, ma non mi era mai successo di avere così paura del loro parere. Alla fine di unanno del genere, farmi male seriamente – in allenamento, peraltro – sarebbe un crimine. Un crimine contro me stessa.

L’ortopedia è un po’ come la meccanica: il risultato è quello ma tutti vogliono intervenire per dire la loro. Il consulto procede per una buonamezz’ora, con ciascuno dei gentili convenuti che allunga la sua mano, verifica con i suoi polpastrelli, torce e rigira e allunga e flette ed estende. Ladiagnosi è implacabile: lesione al menisco.

Stampelle alla mano torno in Italia per sottopormi a tutti gli esami del caso e farmi operare.Faccio stampare la risonanza magnetica in versione gigante e la appendo in casa in bella vista, a imperituro scoraggiamento per quando,

l’anno prossimo, mi sorprenderò a pensare: “Perché non giocare ancora un ultimo torneo?”.

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Mia madre è paradossalmente felice di potermi accudire per un po’ mentre sono stampellata. Credo che pronunci anche la frase “come ai vecchitempi”, ma la cancello subito dopo, perdonandole questa evidente e dolcissima sindrome del nido vuoto. Ha passato una vita ad accudire me emia sorella, scarrozzarci, nutrirci, vestirci, chiacchierare con noi, preparare da mangiare, organizzare la vita nostra e di papà, tenere insieme unsistema familiare ipertrofico, aiutarci con i compiti e a scoprire chi eravamo che da quando ce ne siamo andate, prima una e poi l’altra, una perl’università e l’altra per il tennis, ritiene che la sua vita sia praticamente vuota. Una grande menzogna: papà da accudire è peggio di un bambino dicinque anni, se lei esce per un’ora con un’amica si sente già abbandonato. Riempie talmente tanto del suo spazio, probabilmente senzaaccorgersene, che quando devo ripartire lo faccio a cuor leggero.

Una volta in piedi, torno alla mia vita milanese con Florian e Barbara. Riprendo con calma gli allenamenti, per paura di rompermi o di rimanereimmobilizzata di nuovo da quel dolore improvviso. Barbara mi incoraggia, mi consiglia, mi affianca seguendo sapientemente i tempi di ripresa delmio corpo.

Comincio la stagione una settimana in ritardo sulla tabella di marcia. Il 12 gennaio sono a Canberra.Forma fisica: scarsa.Forma mentale: debole.Temo di farmi male mentre gioco, così mi affanno a trovare il movimento perfetto tutte le volte che devo appoggiare la gamba operata, a

verificare che il ginocchio sia perfettamente in linea con il piede, che non ruoti o, se ruota, che lo faccia il minimo possibile.Sono nella stessa metà del tabellone di Tamarine Tanasugarn, colei che mi ha strappato dalle mani la vittoria a Hyderabad: voglio la rivincita.Al primo turno batto Natalia Gussoni, una ragazza argentina stabile oltre la centocinquantesima posizione del ranking. A parte un’ossessiva

ricerca della perfezione da parte mia, non incontro particolari problemi e mi guadagno la possibilità di sfidare la thailandese.Come scendo in campo, mi dimentico del ginocchio, del male che potrei sentire e dell’eventualità di rovinare il lavoro del chirurgo: vedo solo la

mia avversaria, voglio massacrarla. Attacco e lei inizialmente cede al mio gioco, rimane in difesa, respinge i miei colpi penetranti, corre a destra ea manca nel tentativo di prendere tutto il prendibile. Sembra me quando sono sotto pressione. Non mi capacito di averla osservata: siamotalmente abituati a pensare a noi stessi, le nostre sensazioni, che spesso non ci accorgiamo nemmeno di chi c’è di là e cosa sta facendo.Rimango così stupita che per un attimo mi distraggo. La Tanasugarn lo nota e si butta: mi fa break. Non doveva. La bombardo con tutta la forzache ho e porto a casa il primo set per 7-5, evitando il tie-break.

Nel secondo dovrei essere stanca, fisicamente non sono ancora in forma, ma non lo sono. Sono esaltata dalla possibilità di sconfiggerla, dalfatto di essere un passo avanti a lei. Sul 2-2 le faccio break. Poi un altro, un altro ancora. Vinco tutti i quattro game successivi, lasciandole lapossibilità di fare pochissimi punti.

La partita è mia. Scopro cosa può fare la rabbia, e cosa il down che segue una simile esplosione: il giorno dopo perdo contro Julia Vakulenko,vigorosa ucraina che avrei potuto battere se non fosse che il mio personale torneo l’avevo già vinto.

Agli Australian Open mi ricongiungo con una bella fetta di italiane che hanno partecipato al torneo di Sydney. Mi produco in performance allimite del disastroso: al primo turno del doppio, in coppia con Tathiana Garbin, vengo scavalcata dal duo Gisela Dulko/Milagros Sequera; nelsingolare perdo – lottando, ma perdo – con Antonella Serra Zanetti.

Quest’ultima è una di quelle sconfitte per le quali mi mangerei le mani. Antonella è forte ma è parecchio più indietro di me in classifica, avreidovuto passare al secondo turno senza troppi problemi. Credo di non aver ancora interiorizzato la lezione della Coetzer: partendo da una formafisica ridicola, ho dato tutto nella partita con la Tanasugarn e non mi è rimasto più nulla. Peccato che sia agli Australian Open e che mi sia giocatauna possibilità spaventosamente attraente.

Il giorno dopo, mentre sto circolando per il Melbourne Park, mi si avvicina Giorgio di Palermo, tour manager dell’AT P, che mi dice: «Flavia, non saiche ti sei persa ieri!».

Pensando che stia cercando di commentare la mia sconfitta lo mordo immediatamente: «Giorgio, guarda, non mi parlare di tennis!».«No, quale tennis! Ieri ero al casinò con Carlos Moyá, ha passato tutta la sera a chiedermi il tuo numero.»«E tu?»«Eh, non ce l’avevo con me...»«Cosa?! Ti uccido!»Moyá il Grande vuole il mio numero e Giorgio non ce l’ha. Roba da matti.La sera stessa mi vesto carina e vado al casinò in carne e ossa. Uno dei più grandi tennisti di tutti i tempi vuole conoscermi, non sarò io a

negarmi... Carlos è bello e forte, ma non mi interessa come uomo. Anche perché nel circuito è ben noto come single irriducibile: ho già spuntato lacasella “narcisista che non ti fila anche se lo ami disperatamente, ma si fa perfidamente inseguire”. E con la nuova versione di Florian sto bene.Carlos mi interessa come tennista: voglio scoprire se posso discutere con lui da pari a pari, o se devo limitarmi a chiedere anche a lui unautografo.

Se devo essere sincera con me stessa, flirtare un po’ rientra tra i miei programmi per la serata. Ho addosso quell’agitazione adolescenziale cheviene quando ottieni il pass per il backstage del tuo cantante preferito e speri che lui, al solo vederti, si innamori pazzamente di te. Il sapere chequesto non accadrà non fa che rendere il tutto meravigliosamente favolistico: un vero sogno a occhi aperti. Domani sarà tutto svanito e potròtornare alla mia vita, alle mie sicurezze, alla mia routine.

Varco la porta e scandaglio la sala tavolo per tavolo: non c’è. Meglio, molto meglio evitare la scenetta da sit-com nella quale lui si sta facendotranquillamente gli affari suoi, io lo vedo e rimango impalata sul posto come una statua di sale.

Cambio qualche dollaro e mi posiziono alla roulette, assumendo la mia miglior espressione da giocatrice incallita, quando mi sento sussurrareall’orecchio: «Stai vincendo o perdendo?».

«Sto vincendo...»Dietro di me Carlos, il suo allenatore e Giorgio di Palermo.In dieci secondi netti perdo tutto: sono così rilassata che non mi vengono nemmeno più in mente i numeri su cui puntare. Nel tentativo disperato

di non assomigliare a una fan qualunque cerco lo sguardo e l’aiuto di Giorgio di Palermo come un’ancora nella tempesta. Lui se ne esce con unmagistrale: «Giochiamo il numero di Carlos!».

«Qual è il numero di Carlos?» chiedo ingenua.«L’1. È stato il numero uno al mondo».«Sei stato il numero uno!!!»

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Aiuto, il tappo è saltato, e la dignità con lui. Carlos elegante risponde: «Sì, ma per poco...» in un misero ma apprezzabile tentativo di modestia.Punto quel poco che mi rimane sull’1, sperando di perdere e di poter uscire da lì.Chissà che fine fanno i miei pochi denari: sono troppo concentrata su Carlos. Passiamo il resto della serata a chiacchierare, anzi, a cercare di

capirci: io parlo inglese male e spagnolo zero, lui inglese poco, italiano scarso.Alla fine della serata Carlos mi chiede e-mail e numeri di telefono. Io non prendo i suoi perché so che non gli scriverò mai: è troppo per me,

troppo forte, troppo bello, troppo stronzo.Mi riprometto di parlarne a Florian non appena ci vedremo. Temo che raccontarglielo da sedicimila chilometri di distanza possa farlo sentire un

po’ insicuro, anche se si tratta di una scemenza.È l’inizio di febbraio quando rimetto piede a Milano. Ho in progetto di giocare a Memphis, ma ho davanti almeno un’intera settimana da passare

insieme a lui.Florian sta continuando ad allenarsi, ma ha un problema a una spalla che gli impedisce di rendere al massimo, quindi ha deciso, d’accordo con

Massimo Riva, di rallentare il ritmo. Ha ventiquattro anni e, nonostante sia un eccellente tennista, non è ancora riuscito a imporsi.Quando gli racconto che Moyá è brevemente sceso dal suo empireo per parlare con me e poi tornare da dove è venuto, cioè lontanissimo, si

irrigidisce di brutto. Non capisco nemmeno bene il motivo: gliene ho parlato come una ragazzina esaltata che abbia incontrato per strada JustinBieber... Ma lui insiste: «Flavia, scusa, se presentassero a me una super famosa e super bella saresti contenta?».

Sì? No? Mah? Chi se ne frega? Non so rispondere: è surreale la sola ipotesi che il mio rapporto con Moyá possa andare oltre a una superficialeconoscenza e ancora più surreale che il mio fidanzato la pensi diversamente. È stata una bella serata, ma è finita lì.

Florian rimane immusonito per tutto il giorno e per quelli successivi. C’è qualcosa che non va e capisco cosa solo quando gli chiedo diaccompagnarmi in America.

Mi guarda allargando gli occhi, con un’espressione che dice: “Come puoi chiedermi una cosa del genere?”. La risposta ufficiale, invece, è chenon se la sente. Il tour americano prevede come tappe Memphis, Bogotá, Acapulco, Indian Wells e Miami. Bogotá è un torneo solo femminile, glialtri sono misti. Se la probabilità che io giochi a Memphis è bassa, giocherò invece di certo ad Acapulco: è questo il problema. Florian non sisente di presenziare solo come “fidanzato di”, senza poter partecipare.

Lo capisco. Ma so anche di esserci stata tutte le volte che lui ha avuto bisogno di me. Questa volta ho bisogno io. E lui si sente a disagio.Il ginocchio mi fa male, sono lenta e affaticata e ho voglia di coccole, di vicinanza. Ho voglia di Florian.Il mio talento mi sta strappando via da tutti e mi sta consegnando alla solitudine. Pensavo di conoscerla, ma mi sbagliavo.Essere soli in una casa, in una città nella quale si ha una routine e qualche conoscenza è diverso dall’essere soli in albergo. In tanti alberghi di

seguito. E non per un viaggio di piacere, ma perché volare in tutto il mondo per giocare a tennis è il mio lavoro.Il mio talento ha deciso che la mia vita è diventata: aeroporto, aereo, aeroporto, albergo, Circolo tennis di giorno, ristorante di sera, albergo di

notte, ancora Circolo, ancora albergo, ancora ristorante, ancora aeroporto e ancora aereo.Più stelle hanno, più sono uguali, gli alberghi: hanno tutti lo stesso odore di deodorante per ambienti, la stessa fascetta per segnalare l’igiene

perfetta del W C, la stessa idiota mancanza di ripiani dove appoggiare le cose in bagno e di prese dove attaccare il caricatore del cellulare vicino alletto, lo stesso tipo di carineria gelida e piacevole – un cioccolatino sul cuscino la sera prima di dormire, la frutta fresca che ti aspetta in camera.

Cresco tennisticamente e una parte di me vuole rimanere piccola, piccolissima. Vuole tornare indietro, a Brindisi, a un mondo di relazioni, divoci conosciute, di persone da abbracciare in ogni momento della giornata. E di infinite possibilità. La caccio via, ma lei spunta fuori la sera,quando mi rigiro in quei letti con le lenzuola pastello che sanno di lavanderia e una coperta che non è la mia e respiro l’aria condizionata.

Allora mi alzo e svuoto la valigia. Lo faccio sempre, automaticamente. È una specie di rito: rendere casa un posto estraneo. Metto tutto in ordinenegli armadi, appendo i vestiti, piego i completi e infilo la biancheria nei cassetti. Trovo un angolo per la sacca da tennis. Srotolo un asciugamanosul bordo della vasca da bagno e sopra allineo il contenuto del beauty: prima le creme, il contorno occhi che costa una fortuna, quella protettiva perla pelle del viso e l’idratante per la notte, il tonico e il siero, poi il bagnoschiuma, lo scrub, il vaso di crema per il corpo, lo shampoo, il balsamo, laspazzola e la pochette con tutti gli accessori per i capelli, spille, elastici, forcine e mollette. Infilo lo spazzolino e il dentifricio nel bicchiere e miguardo allo specchio.

Ho messo tutto a posto. Nessuno ha messo a posto me, ma mi sento meglio. Un po’ più a casa.E domani, un momento prima di aprire gli occhi, quando mi aspetterò di vedere una cassettiera, una finestra, un comodino che non c’è, perché

è rimasto nell’albergo della settimana prima o della notte prima, in quell’istante di disorientamento prima di prendere coscienza e di capire dovesono, chi sono e cosa sto facendo, avrò il mio ordine cui attaccarmi.

Noi tennisti siamo abituati a parlare da soli. A chiacchierare con noi stessi, anche a voce alta. Se ci sentono chi se ne frega, il fondocampo è illuogo più dimenticato dal tennis. Posso dire e fare di tutto lì: il mondo mi guarda ma nessuno mi raggiunge.

Anche in camera: “Niente panico, Flavia, puoi aprire l’armadio e riconoscerti”. E il cuore si calma.

Vorrei Florian in questo viaggio lungo. Vorrei condividere le cose, non raccontargliele per telefono. Ho paura che al mio ritorno, tra un mese emezzo, tutto sarà diverso. Lui sta giocando meno, io sto giocando sempre di più. Non lo so se il nostro rapporto è elastico abbastanza dainglobare la distanza siderale che potrebbe crearsi. Se cresco e vinco. Se riesco nel mio lavoro. Non mi ero nemmeno posta il problema: quelloforte è sempre stato lui.

Mi guarda comprimere la mia casa in una sacca e una valigia e mi bacia sulla soglia. Vorrei dirgli: “Ci vediamo più tardi”, ma non è così.Salgo in macchina con Barbara e improvvisamente mi sento esausta: chi me lo fa fare? Sono malandata fisicamente ed emotivamente. Non

che possa aspettarmi chissà quali performance.Guardo Barbara e ritorno a un anno fa: quando sono entrata tra le prime cento al mondo, quando ho scoperto che tutto sarebbe stato possibile.

Credere in me significa anche credere nel mio tennis. So di poter migliorare, so di poter agguantare il mio sogno. Io sono quella Flavia che lotta,fa progetti, inventa obiettivi, trova soluzioni. Almeno a Memphis devo arrivare.

Il che è il minore dei problemi. Mi qualifico ma esco al primo turno, battuta da Tathiana Garbin, una ragazza veneta riuscita in una serie diimprese eccezionali, come battere Monica Seles. Il ginocchio mi fa male. Non riesco a correre avanti e indietro alla velocità che vorrei e muovermidi fianco mi costa dolore e fatica. Nonostante i cinque anni di differenza a mio favore non reggo il confronto e Tathiana mi batte in due set, 6-1, 6-2.

La sera sono piuttosto depressa, Barbara cerca di tirarmi su ricordandomi che l’anno prima sono arrivata ai quarti di finale sia a Bogotá che adAcapulco: sono i miei tornei, non posso perderli. Ma sono anche certa che farò pena. Fisicamente sono a pezzi, psicologicamente sto, sepossibile, anche peggio. Mi sento impotente perché sto combattendo contro un nemico imbattibile che detta le regole: il ginocchio si gonfia e ionon posso impedirglielo. Non posso nemmeno lottare come farei contro qualche giocatrice che mi bombarda vigorosamente di palle a non sonemmeno quanti chilometri orari: in quel caso posso resistere, difendermi, tentare di prendere in mano la situazione. In questa occasione no. Non

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dipende da me.Barbara insiste: «Se non ci provi non saprai mai come potrebbe andare». Inoppugnabile.Salgo sull’aereo per Bogotá carica dei peggiori presagi. Che, puntualmente, trovano riscontro nella realtà, una realtà terribile nella quale

Catalina Castaño, colombiana, mi batte al primo turno. Il primo set finisce così rapidamente che fatico a crederci. Il secondo me lo aggiudico sullaspinta di un rigurgito d’orgoglio, ma mi esaurisco e il ginocchio mi pianta in asso nel terzo. Rimango in campo fino alla fine, non voglio dargli lasoddisfazione di avermi rovinato del tutto l’incontro. Fatto sta che perdo il match. Come se non bastasse, anche in doppio esco al primo turno.

Delusa, arrabbiata, dolorante: un disastro. Mi viene un desiderio irrefrenabile: fermarmi. Ad Acapulco non ci voglio andare: il ginocchio mi famale, non riesco a giocare come voglio, continuare è inutile. Barbara però insiste: «Dai, Flavia, proviamo...».

«Barbara, se mi fermo al primo turno ad Acapulco, a Miami e Indian Wells non ci vado. Basta, sto male!»«Sì, però vediamo almeno come va, no?»Per un attimo mi sembra di stare a Brindisi: ho sei anni, è pomeriggio e la mamma mi sta accompagnando dalla zia. Prima di uscire e mi dice:

«Niente picci». Punto. Che vuol dire: non fare capricci perché vuoi restare a dormire con le cugine, perché vuoi cenare con gli zii o perché vuoi lecaramelle. È talmente decisa che nemmeno insisto, tanto non c’è speranza.

Poi si cresce e la complessità aumenta. Infatti sono dall’altra parte del mondo e sto discutendo con la mia allenatrice su come gestire il mioimmediato futuro professionale. Ci sono due scelte: una è giusta e l’altra è sbagliata. La testa mi dice una cosa, la pancia un’altra.

Sto ancora rimuginando quando mi collego a Messenger per consultarmi con le amiche e, dopo cinque minuti, ricevo un messaggio di Carlos:«Come stai? Io sono a Buenos Aires, ci vediamo la settimana prossima ad Acapulco».

Merda! Non ci posso credere, sta succedendo: Carlos vuole rivedermi.Vorrà fare quattro chiacchiere? Gli sono simpatica? Pensa che possa dargli qualche consiglio sul suo gioco? È innamorato dell’Italia e vuole

andare in vacanza a Brindisi? Aiuto. No. Gli piaccio. Merda. Florian. Merda.Rispondo neutra: «Io arrivo il 28, ci vediamo là, a presto».Accantono la chat con lui e contatto immediatamente Fiorella: a qualcuno devo pur dirlo che Carlos Moyá vuole rivedermi! Mi sta venendo la

tremarella come alle adolescenti, merda, quell’agitazione insopportabile che significa indiscutibilmente che qualcuno ti piace, anche se non te nesei nemmeno accorto. Io infatti non me ne ero accorta, merda. Ma si può, a ventun anni, non accorgersene? Evidentemente sì. Merda.

Fiorella è tra l’esaltato («Fla’, ma quant’è bello?!») e il divertito, ma tutto sommato mi assolve e io mi sento subito meglio. Il problema è che nonmi assolvo io.

Decido di andare ad Acapulco per vedere Carlos. Poi, sì, d’accordo, anche per giocare. Ma un po’ di più per rivedere lui e capire che effetto mifa. Sicuramente buono, e io sono sicuramente un mostro. Devo chiamare Florian: chi ha il coraggio?

Decollo cercando di non pensarci, ma il pensiero di Florian da solo a Milano che non sospetta niente mi perseguita. Sì, se lui fosse statoinsieme a me non sarebbe successo, ma non basta. Non regge. Sono fidanzata con lui e mi piace un altro. E che altro! Sto dando un mezzoappuntamento al più bell’ex numero 1 del circuito AT P a diecimila chilometri di distanza da Florian. Il povero, affaticato e tennisticamentefrustratissimo Florian. Sono un mostro. Un mostro. Un mostr...

Otto ore di volo mi conciliano il sonno. Per fortuna.Riprendo a torturarmi all’arrivo, poi nell’auto che mi porta all’albergo, poi mentre sistemo tutte le mie cose, poi mentre vado al ristorante. Pausa

per cena perché devo chiacchierare con altri, poi riprendo a flagellarmi nel letto. Finché non vengo colta da un’illuminazione: ma certo, possoevitarlo. Crollo sentendomi un mezzo geniaccio. E nei due giorni successivi mi salvo.

Gioco contro Samantha Reeves, un’americana dieci posizioni più in alto di me nel ranking. Data la mia forma fisica tutto meno che brillantepotrebbe mettermi in difficoltà: in effetti mettere me in difficoltà fa parte del suo lavoro e lo fa, lo fa anche bene. Vince il primo set per 6-4 con ildichiarato scopo di finirmi il prima possibile. Guardo Barbara, dice qualcosa che interpreto come “forza”. Forza, già. Peccato che con questoginocchio... Mi sembra di essere condannata: gioco, magari bene, poi invariabilmente quello si gonfia. Lo guardo: normalissimo. Controllo meglio,usando l’altro come pietra di paragone: perfetto, sciolto, flessibile. Mi alzo dalla panchina e mi piego, faccio due o tre saltelli: niente. Stabenissimo. Miracolo.

Corro in campo e lancio dall’altra parte un paio di siluri, giusto per far capire alla Reeves in che guaio si trova. La vedo rimpicciolirsi pianpianino, occupare sempre meno spazio, allargarsi sempre meno, cominciare a giocare in difesa, correre rapidamente per rispondere ai mieiattacchi. Uno pari.

Il terzo set è una passeggiata. Lascio la Reeves ferma a tre game mentre il mio punteggio sale e sale e ancora sale a 6. Match Pennetta.Il secondo turno è un massacro: sono carica di tensione come in quei momenti in cui tutto può succedere. Carlos non mi ha ancora cercata, io lo

sto evitando ma sotto sotto voglio vederlo. No, voglio evitarlo. No, voglio vederlo. Merda. Ho perennemente le farfalle nello stomaco: potrebbespuntare da un momento all’altro, ma anche no: può capitare che la mia tecnica di evitamento funzioni e che io finisca per partire per Indian Wellscon un carico extra di farfalle in via d’estinzione.

Fremo per giocare, per sfogarmi, per occupare il mio tempo con qualche cosa di costruttivo, fisico e faticoso. Mi voglio stancare. Faccio correreArantxa Parra Santonja da una parte all’altra del campo dal primo scambio, la costringo a venire a rete e a tornare immediatamente indietro,infilandola con passanti che perde la speranza di raggiungere mentre le sfilano accanto. Alla fine del primo set è talmente stanca che mi lasciavincere il secondo per 6-1.

È la sera del mio secondo giorno ad Acapulco quando ricevo una telefonata.«Pronto.»«Flavia!»Merda. È lui. Cerco di fare la disinvolta, ma mi viene malissimo. Se chiudo gli occhi da una parte vedo la faccia di Florian, dall’altra Carlos.

Merda. Dove sono le interferenze quando servono? Non sapendo cosa dire né come dirlo mi butto a piè pari sulla tipica conversazione da cocktailin un misto strano di spagnolo, che non so, e inglese: «Hi Carlos! Todo bien el viaje?», sperando di mascherare l’imbarazzo.

Lui, scioltissimo, mi chiede se voglio passare in camera sua per salutarlo.Merda. Prendo tempo. Girello un’oretta. Albergo-Circolo-albergo mio-albergo di Carlos. Toh, eccomi qua.Busso. Carlos mi apre la porta e non ho neanche il tempo di pensare a come comportarmi che mi dà un pico, un leggero bacio sulle labbra.

Perfetto! Il disastro incombe e io non ho nessuna voglia di fermarlo.Passiamo insieme tutta la settimana, abbracciati e stupidi come due adolescenti. Ci baciamo in tutti i cantoni, prima e durante e dopo la

colazione, alla sera quando ci salutiamo (Barbara mi uccide se non mi vede in camera alle undici e mezzo), prima delle partite, dopo le partite, inspiaggia, in strada, al Circolo. Sempre abbastanza nascosti dal mondo: non ne parliamo con nessuno, preferiamo non farci vedere insieme. Èeccitante e mi sento una ragazzina. È strano: ho ventun anni e sono un’adulta. Un’adulta vera, con gli orari, le responsabilità, il commercialista etutto il resto. Le mie amiche studiano e lavorano, ma si divertono, escono, flirtano, improvvisano. Io sono una tennista e alle tenniste non è

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concessa l’immaturità. Devi crescere presto e crescere inquadrata, pena il non farcela e far volare dalla finestra anni di sforzo e sudore. Non miero accorta di averne nostalgia.

Carlos mi fa sentire così leggera, così sognante, così in bilico tra la felicità più assoluta e la delusione più atroce. È tutto troppo bello: bello lui,bella la nostra storia, belle le nostre risate.

Belle le mie partite.Mi guadagno la semifinale contro Maria Sánchez-Lorenzo, la grande favorita, testa di serie numero 3, battendo abbastanza agevolmente Nicole

Vaidišová, una promessa: non ha ancora quindici anni e semina il terrore in tutti i tornei “pro” cui partecipa. Entro in campo e la stendo con unsecco 6-2, 6-3.

In finale incontro Iveta Benešová, numero 99 del ranking. Io sono la centesima. L’ho già vinta una volta, ai quarti del torneo di Orbetello, possoriuscirci di nuovo. Voglio riuscirci. Sono così determinata che le strappo il suo primo servizio. Iveta però mantiene la pazienza e si mostraaggressiva a sua volta durante i miei turni di battuta. Quando siamo 5-4 si spezza qualcosa. Sto servendo per il match, la Benešová mi fa controbreak e si aggiudica il mio servizio. Andiamo al tie-break. Il sogno è così vicino, lo voglio così tanto che perdo. Perdo il tie-break per 7-5, perdo ilsecondo set per 6-4, perdo gli Open del Messico.

Quando salgo sul secondo gradino del podio e mi consegnano una medaglia, un premio, non capisco nemmeno perché, dato che ho perso.Poi esco dal campo. Un messaggio di Carlos dice che sono stata bravissima, a Barbara brillano gli occhi. La tua prima finale. Il giorno dopo mi

informano che ho guadagnato venti posizioni nel ranking. Venti, in un colpo solo: ad Acapulco ci deve essere qualcosa di magico.La sera esco a cena con Carlos. Una volta in albergo penso a Florian, non posso non dirgli niente. È evidente: sto con un altro. Non è una storia

pubblica, ma qualcosa c’è. Devo chiamarlo e parlargli.Gli scrivo da Indian Wells: “Flo, mi dici quando sei a casa, così ti chiamo? Ti devo parlare”.Non so bene nemmeno io cosa mi stia succedendo, come faccio a trasmetterlo a lui? Ricorro alla strada che istintivamente mi corrisponde di

più: la sincerità. Gli dico che non credo che la storia con Carlos possa crescere più di tanto, ma che lui mi piace, che ho voglia di viverla.Florian ascolta in silenzio, poi comincia a parlare. Calmo di una calma invidiabile, di una calma che deriva dalla sicurezza delle proprie scelte, di

una calma che desidererei per me. Non si arrabbia, non urla, non rinfaccia. Florian mi spiega che mi vuole troppo bene per pensare che io possamandare a monte tutto per una persona con la quale è impossibile avere un futuro e mi dà tutto il tempo del mondo per riflettere e capire cosavoglio realmente. «Quando tornerai a casa ne discuteremo insieme.»

Rimango senza parole. Non so se ringraziarlo o stare zitta. Nel dubbio scelgo la seconda ipotesi. E mi prendo il tempo che mi ha concesso.Volo a Miami, mi qualifico a Key Biscayne e vado in campo contro Teryn Ashley, carica come una molla. Non basta: la Ashley si aggiudica il

primo set, io il secondo. Quando attacchiamo il terzo so che devo portarmi in vantaggio subito. Arrivo a 5-2, ma la Ashley mi annulla tutti i matchpoint, uno dopo l’altro, come un rullo compressore. Non riesco a segnare mezzo punto. Quando arriviamo al tie-break non sto giocando a modomio. Sono come imbambolata. La mia avversaria ne approfitta e un match quasi vinto mi sfugge di mano.

È la fine di marzo quando atterro a Milano. Il padre di Barbara viene a prenderci in aeroporto. Sto friggendo. Ho ancora addosso l’adrenalina delgioco e si sta aggiungendo quella del chiarimento con Florian. Al telefono è stato l’uomo che tutte le donne sognano in questi casi – comprensivo,attento e rispettoso –, un faccia a faccia è un’altra cosa. Ho paura di scoprire come si sente davvero, cosa prova. Ho paura di avergli fatto un maleche non meritava, ho paura di vedere che soffre, ho paura di capire che è lui l’uomo per me un attimo dopo averlo mandato via.

Apro la porta con il cuore in gola. Lui non c’è.Non c’è più. L’appendiabiti è vuoto, le sue chiavi non sono sulla consolle, il suo stereo e la montagna di CD sono scomparsi. Ha portato via le sue

cose.Me l’aspettavo? Sì, che fosse orgoglioso lo sapevo. Deve aver concentrato nella telefonata tutto il distacco di cui era capace, e la razionalità.

Poi se ne è andato.Appoggio i bagagli all’ingresso e mi aggiro per casa mia come se fosse una stanza d’albergo con cui fare conoscenza. Non mi ero accorta di

quanto spazio occupasse Florian nella mia vita. Era il mio nido, la nostra casa lo raccontava. Le stanze sono le stesse, il divano bianco è semprelui, anche la cucina vecchiotta e il tavolo pieno di briciole sono sempre loro. Eppure mi sono estranei, non li ho nemmeno scelti, non hanno piùsenso.

Mi siedo in cucina, dove si chiacchiera, dove si cucina e si vive.Il vuoto mi fa male. La solitudine, il silenzio: non mi piacciono. Ho bisogno di persone, di voci, di accogliere altri nei miei spazi, di poter allungare

una mano e trovare qualcuno.Il vuoto mi terrorizza.Scappo fuori, con la scusa di fare una sorpresa a Fiorella.

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6

Riparto dopo pochi giorni. Aprile mi vede a Casablanca e a Estoril, poi a Budapest.Non so neanche quanto tempo è che non passo la Pasqua come si deve, a tavola con i nonni e gli zii e le cugine. E i miei.In Portogallo, a un mese da Acapulco, ritrovo la Benešová, la bestia nera della mia stagione. Vince di nuovo e vince nello stesso modo: enorme

vantaggio mio, annullato dal suo presentarsi in partita quando i giochi sono già cominciati da un pezzo. Mi frega, la Benešová: è un diesel, nelprimo set pensi di trovarti di fronte a una giocatrice, al secondo compare al suo posto una gemella cattiva fresca come una rosa.

Mi riprometto di fare di tutto per batterla a Budapest. Lei è nella parte bassa del tabellone, io in quella alta. Se tutto va per il meglio rischiamo digiocarci un’altra finale. Invece ci fermiamo entrambe in semifinale: io sconfitta da un’invincibile Janković, lei da Martina Suchá.

Torno a Brindisi con un carico di sorprese per i miei: Giorgia sa già di Carlos, i miei genitori no. Abbiamo deciso che a Roma ci presenteremoinsieme, per finirla con la faccenda della storia “segreta”, e voglio che i miei genitori lo scoprano da me, non da una voce di corridoio. Mia madrenon dice niente per una ventina di secondi, poi mi chiede: «Sei sicura?». Al mio «Sì», spifferato da sotto un sorriso risponde: «Ora dobbiamo dirloa papà». So già cosa mi dirà, quindi non ho niente di cui preoccuparmi: è un grande giocatore (il gioco prima di tutto, ovviamente), ma non èadatto a te.

Come, d’altronde, penso anch’io. È uno sportivo di altissimo livello, è bello, ricco, stronzo come pochi, e nel circuito questo è perfettamentenoto. Ovunque vada si muove con un’aria distaccata e uno sciame di ragazze di ogni età e razza che lo segue come se fosse il pifferaio magico.

Io sono una brava tennista, una ragazza carina e simpatica, piena di valori e di ironia, ma non sono scema. Lo so che non può essere l’uomodella mia vita: io voglio una famiglia, santo cielo. Lo so che non lo potrò cambiare, lo so che non posso aspettarmi più di tanto, lo so che questalontananza è un ostacolo non da poco... so un sacco di cose, ma quando mi chiama mi si chiude lo stomaco, mi manca continuamente, farei trentaore di volo per dargli un bacio e poi tornare indietro. Sono talmente innamorata che se mio padre lo scopre mi ammazza.

A Roma ci teniamo per mano. Un incrocio tra un coming out e una scossa elettrica: finiamo (anzi, finisco: Carlos è abituato) su tutti i quotidiani, dal“Corriere” al “Messaggero”. Le cronache rosa si scatenano e mi trattano come Cenerentola: io, Flavia da Brindisi, numero 71 al mondo, conquistoCarlos Moyá, numero 9 e nell’Olimpo dei belli secondo la rivista “People”.

Vengo assalita da giornalisti che, teneramente increduli, per orgoglio patrio fanno comunque il tifo per me. E scopro una cosa utile: il mondodella stampa è un tritacarne. Rilascio dichiarazioni che vengono puntualmente riscritte, modificate, gonfiate, colorate. Gioco ma a nessunointeressa, perché la vera notizia è altrove, a bordo campo. O, meglio, sotto rete, come scrive un quotidiano.

Carlos, invece, se ne frega. Mi presenta i suoi genitori, Andreu e Pilar, con grande naturalezza. Lo spagnolo continua a essere una nota dolentecosì comunichiamo a gesti per qualche decina di minuti, durante i quali sfodero i miei migliori sorrisi. Non mi riesce difficile perché mi piace cheme li abbia presentati, mi fa sentire importante. E poi mi sento a mio agio nelle situazioni chiare, limpide, quando tutti sanno tutto e non c’èbisogno di raccontarsi bugie o di omettere particolari.

La sua presenza mi sprona a fare meglio. Ma non solo: voglio impormi in campo a ogni costo, voglio giocare partite-capolavoro.Comincia a venirmi uno strano tic alla mascella: digrigno i denti. Mai successo. Forse è perché sono felice e sorrido troppo. Forse è perché

voglio essere all’altezza di Carlos. Forse è perché ho bisogno di fargliela vedere, a chi mi considera una mezza calzetta non all’altezza.Carlos sta battendo i suoi avversari uno a uno, come se fossero birilli da bowling.Al primo turno sbaraglio Laura Granville, bionda tennista di Chicago. Scendo in campo sentendomi sobbollire dentro la stessa rabbia di

Spartaco: vinco 6-0 il primo set, nel secondo Laura tenta debolmente una rimonta ma la prendo a pallate e porto a casa una delle partite piùrapide che mi sia mai capitato di giocare.

Gioco il secondo turno al Pallacorda. Dall’altra parte della rete c’è Nadja Petrova: sesta al mondo, fortissima, che serve come un treno. IlPallacorda la aiuta, è il campo più veloce del Foro italico.

Tempo di fare quattro palleggi che la Petrova comincia il bombardamento costringendomi a correre da una parte all’altra. Alla fine del primo set– suo, ovviamente – avrò già percorso una decina di chilometri. Lei, invece, è perfetta.

Il secondo set comincia nello stesso modo. Finché, sul 3-1, non mi viene in mente una cosa: non voglio fermarmi al primo turno e l’unica personache può fare qualcosa per evitarlo sono io. Non sono in guerra, le palle della Petrova non rischiano di ammazzarmi. Posso provare a farediversamente.

Mi prendo qualche rischio e azzecco due palle consecutive, infilandole due diritti lungo linea a tre centimetri dalla riga di fuori campo.Nel tennis si dice che non è mai finita fino all’ultima palla: è vero. Risorgo.Lottiamo per una terza palla, pazzesca: lo scambio sembra non finire mai finché non la prendo in contropiede. La Petrova nemmeno si muove:

guarda sfilare il mio rovescio all’angolo opposto del campo. Dentro. Sono 4-3.Il pubblico prende vita. Non mi è mai successo di sentirmi in uno stadio: oggi sì. Il Pallacorda straborda e fanno tutti il tifo per me: applaudono,

urlano il mio nome, si alzano in piedi a ogni punto.Vinco dopo quasi due ore, chiudendo il secondo e terzo set 7-6 e 6-4.Immagazzino il ricordo di una partita che, lo so, mi sentirò addosso per anni.Dopo un’impresa del genere sarebbe bello non perdere, ma non è strettamente necessario.Ci sono sconfitte che pesano per settimane, per mesi; la vittoria, inspiegabilmente, alleggerisce per molto meno. Ma qualche giorno la

sensazione di aver conquistato il tetto del mondo, come una nuvola o un monaco tibetano, dura. E mi regala il lusso di non arrabbiarmi troppoquando perdo contro la numero 21, Anna Smashnova, che dopo due set vinti 6-2, 6-2 mi ricaccia nelle tribune ad assistere alla vittoria di Carloscontro un insicuro David Nalbandian.

Da Roma partiamo direttamente per il Roland Garros. Veniamo sconfitti entrambi, io al primo turno, Carlos al quarto. Da lì io mi sposto nei PaesiBassi, nel bel mezzo di una pianura sotto il livello del mare, precisamente a ’s-Hertogenbosch, dove si gioca nella prima metà di giugno un torneosu erba preparatorio a Wimbledon.

Sono al settimo cielo. Io e Carlos siamo una coppia. Non ci siamo detti “Da oggi stiamo insieme” ma praticamente è così. Abbiamoprogrammato di tenerci, in luglio, un po’ di tempo per noi e di passarlo tra Palma di Maiorca e Ginevra, dove Carlos vive.

Tennisticamente sono serena. Il dolore al ginocchio che l’anno scorso mi aveva bloccata è solo un ricordo, ho battuto la Petrova e ho laconvinzione che potrò fare grandi cose. Forse è la presenza di Carlos, ma comincio a credere che i sogni si avverino.

Una mezza fortuna: sono nella parte bassa del tabellone. Janković, Petrova e Pierce compaiono nella metà alta. Per sorteggio al primo turno

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devo giocare contro Arantxa Parra. Ci siamo già viste in marzo ad Acapulco: l’ho battuta al secondo turno e spero che il ricordo di quella partitaserva a metterla in soggezione adesso.

Non credo che ci sia uno sport individuale che permette di stabilire un rapporto con l’avversario esile ma stretto quanto nel tennis.In atletica gli avversari a stento si vedono, nella boxe si toccano.Nel tennis l’avversario esiste e non esiste: per il novanta per cento del tempo di una partita si gioca contro se stessi, le proprie sensazioni, le

proprie paure. Qualsiasi esse siano. I pensieri da campo sono come sogni: fuori perdono senso, ma lì, nel momento, sono la realtà. E la realtà filaperfettamente.

Per il restante dieci per cento si gioca contro qualcuno. Sì, ci sono partite difficilissime, colpi imprendibili, giocatori con tecniche superiori, manon avversari imbattibili. L’avversario costruisce il proprio gioco con la testa, quella non è imbattibile.

Per questo scendere in campo avendo vinto l’incontro precedente è un bell’aiuto.Arantxa è una combattente, ma io lo sono di più. Mi fa dannare nel secondo set, ma al tie-break finalmente riesco a chiudere e portare a casa il

punto decisivo.Mai fidarsi delle previsioni. I bookmaker danno per certa la vittoria di Emilie Loit su Barbara Schett. Emilie è mancina e ha un rovescio che per

bellezza, potenza ed eleganza non ha niente da invidiare a quello di moltissimi colleghi maschi. Invece niente: una fascite impedisce a Emilie dicontinuare a giocare, Barbara passa il turno e sarà la mia avversaria.

Ci siamo incontrate a Budapest, anche lì per un secondo turno. Ho vinto io, rapidamente per giunta, portando a casa il 6-2, 6-1 che mi hacondotto all’incontro con Sanda Mamić.

Scendere in campo avendo vinto l’incontro precedente è un vantaggio, ma non sempre. Solo quando l’avversaria non decide che tu seidiventata il suo nemico numero 1 e che batterti è per la sua identità di giocatrice questione di vita o di morte. La Schett l’ha deciso.

Combattiamo durante tutto il primo set: lei mi bombarda con una serie di prime di servizio esattamente a centro campo, io cerco di farla correree di infilarla ma non ci riesco abbastanza. Per 7-5 sale in vantaggio lei. Il secondo set è a senso unico: ciascuna tiene il suo servizio, poi Barbarami fa break e si avvantaggia. Ora serve: pochi scambi ed è in vantaggio di due. Non voglio dargliela vinta, colpisco un paio di vincenti e porto acasa il mio servizio, ma Barbara ha bisogno di questa vittoria. Io la voglio, ma diversamente: mi piacerebbe continuare il torneo, mi piacerebbearrivare ai quarti, poi in semifinale, in finale e magari vincerlo. Alla peggio c’è Wimbledon la prossima settimana. C’è Carlos a Wimbledon laprossima settimana. Ci sono giorni da passare insieme che ci aspettano.

Lei vuole battere me: Flavia Pennetta, che l’ha sconfitta sonoramente il mese scorso e ha contribuito a ricordarle che ha ventotto anni, che ilmondo fuori dal campo la chiama, che tutte noi abbiamo una data di scadenza.

È questione di testa. Infatti vince Barbara, dopo una lotta durata non so quanto. A forza di advantage e deuce ho perso il conto anche dei minuti.

Scappo dai Paesi Bassi a gambe levate. Destinazione: Wimbledon, il tempio del tennis. Carlos mi aspetta in albergo. Barbara comincia afriggere sin dall’aeroporto: è convinta che avere la testa altrove danneggi il mio gioco. A me sembra di non aver mai giocato bene comequest’anno. La sua insofferenza e il tentativo costante di dirmi cosa fare e quando cominciano a darmi sui nervi. Ripenso alla lite con Galoppini.Nonostante l’addio al Centro federale non è andata tanto male, ma sarebbe stupido fare la stessa cosa. Sono cresciuta, Barbara è statafondamentale e lo è tuttora. Non voglio rinunciare a lei perché la ribelle che è in me a forza di allenamenti, diete controllate e tornei non ha potutosfogarsi abbastanza. Vorrei riuscire a non farmi trattare come la diciassettenne sprovveduta precipitata nella grande Milano che ha conosciutoqualche anno fa. Non so ancora che strategia adottare, quindi nel frattempo litighiamo sulla sistemazione, io scappo con Carlos e ci rivediamo suicampi il giorno dopo.

Uno sfacciato colpo di fortuna mi vuole avversaria di miss Nadja Petrova, colei con la quale ho giocato un vero capolavoro non più tardi diqualche settimana fa. Dubito seriamente di poter riuscire a batterla nuovamente. Se la terra del Pallacorda mi ha permesso di intercettare le suemicidiali prime di servizio, sull’erba di Wimbledon non penso di farcela. L’erba è la superficie più veloce: imprime alla palla i rimbalzi più brevi equindi favorisce i giocatori che attaccano.

È il mio primo Wimbledon e c’è tutto quello che immaginavo: le donne con i cappelli, gli ombrelli verdi e viola che spuntano dalle tribune, unaquantità impressionante di inglesi pallidi ed educatissimi, personale pronto a soddisfare una qualsiasi delle esigenze di noi giocatori. Mi lascioincantare dal blasone e mi infilo, come da regolamento, in un completino bianco. Forse se rispetto le regole, anche quelle non scritte, anche latradizione, potrei riuscire ancora nell’impresa e guadagnarmi il secondo turno.

Nadja Petrova non è della stessa idea. Scende in campo con l’idea di farmi a pezzi e lo fa, senza troppi problemi, nel primo set. Mi arrabbio,urlo, sbaglio e urlo ancora, cazzo merda vaffanculo, tutto il repertorio non m’aiuta ad andare oltre un misero 6-3. Alla fine penso che non sonoall’altezza, non ne sono capace. Lasciatemi stare. Dura qualche minuto. Poi realizzo: se sono in campo contro di lei un po’ di talento ce l’avrò, l’hogià battuta, alla fine è solo una partita. Una partita in mezzo a centinaia.

È solo una partita. È vero. Così gioco quella: la partita, non il torneo di Wimbledon against miss Petrova.Rischio, non ho altra chance. Rischiando infilo la mia avversaria con qualche lungo linea di quelli imprendibili, rischiando mi porto a rete,

rischiando angolo il più possibile il servizio, per rafforzare un mio punto debole. Lo stupore della Petrova per il cambio di registro mi permette divincere il secondo set.

Come è noto, però, lo stupore è un’emozione che non dura a lungo: Nadja si riprende alla grande e mi manda a casa al primo turno di questoWimbledon soleggiato e inaspettatamente carico di aspettative.

Carlos perde contro Lleyton Hewitt, suo avversario per eccellenza, al limite della rivalità.Il dispiacere mi passa quando saliamo su un aereo con il muso rivolto verso Barcellona.«Mi casa es tu casa»: Carlos mi apre le porte del suo appartamento, un loft bianco e familiare, e io mi ci accomodo alla ricerca di un mio posto

nel suo mondo.La casa è solo un appoggio, in realtà, ma mi sembra di vivere in una favola: tra un torneo e l’altro trovo il tempo di imparare lo spagnolo,

scoprire la città, familiarizzare con il Circolo, fare la spesa, cucinare. Anche Carlos va e viene, e quando torna illumina la stanza, la casa, me. Amale sorprese e capita che me lo veda comparire all’improvviso quando mi aveva detto che si sarebbe dovuto fermare altrove facendomi caderetutto quello che ho in mano dalla gioia, o che si faccia ore e ore di volo per stare con me anche solo due ore.

Voglio trascorrere insieme a lui più tempo possibile, così in estate gioco tre soli tornei: Palermo, mentre lui è a Umag, in Croazia, Sopot eCincinnati in agosto, mentre lui è a Pechino. Nell’ordine, finale, vittoria, quarti di finale.

Niente male per la prima della lista delle escluse da Atene 2004. Mentre la Nazionale azzurra sfila in Grecia, io sono in Polonia, da sola, senzanemmeno l’allenatore, in una triste cameretta beige, davanti alla televisione: guardo la cerimonia d’apertura e per poco non mi scappa unalacrima.

Carlos è alle Olimpiadi mentre io batto la Koukalova in tre set, vincendo il primo e il terzo, e perdendo il secondo e qualche anno di vita. Carlos

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è alle Olimpiadi mentre vinco il mio primo torneo W T A. Mi mangio una ventina di posizioni in un sol boccone: da sessantottesima mi ritrovo numero45. Cerco istintivamente qualcuno nel mio angolo, ma è vuoto. Mi gira la testa, o forse gira il campo intorno a me. Sono piena di terra rossa finosugli occhi e sta per venirmi da piangere. Ma mi trattengo. Che maschio pugliese sarei se piangessi in pubblico? Mio padre non mi avrebbeinsegnato niente. Prima di Carlos, prima delle amiche, prima delle giocatrici con le quali ho condiviso moltissimo, prima di tutti immagino lui,papà, a chilometri e chilometri di distanza, che si è guardato la partita in streaming da solo urlando improperi irripetibili in dialetto stretto,scattando a ogni net, a ogni prima di servizio “out!”, incapace di stare fermo. Lo immagino ancora davanti allo schermo, mentre la mamma è alpiano di sopra a guardare la partita per conto suo, calma quel poco che può ma almeno seduta, senza quello gnomo impazzito che le circolaintorno.

Guarda, papà: ce l’ho fatta, ho vinto.

Tennisticamente sto crescendo, la felicità in amore cancella tutto il resto: la nostalgia dei miei, degli amici, del mio paese. Non riesco aimmaginare niente di meglio, ma mi sbaglio.

A settembre Carlos butta lì un’idea: «Potresti trasferirti in Spagna e allenarti qua». Sa che in Italia non vedo per me nessuna possibilità dimiglioramento. I tre anni con Barbara Rossi e Maurizio Riva sono stati determinanti per la mia carriera, ma per crescere ho bisogno di una svolta.Il mio tennis è progredito, mentre il rapporto con Barbara si sta logorando: mi vede ancora come la diciassettenne arrivata da Brindisi, mi imponelimiti e mi dà ordini. Non ci sopportiamo più come, a un certo punto, non si sopportano più madri e figlie quando cambiano le routine e gli equilibrisi devono adattare: lei non può tollerare la mia insofferenza, io rifiuto di farmi trattare come una bambina. Ho convissuto con lei troppo e troppo alungo per non essere sicura di questa scelta, così decido di assecondare Carlos quando mi segnala che Gabriel Urpi pare essere libero: allenavaBeto Martín, ma ha smesso dopo il Roland Garros. È noto per aver allenato anche Arantxa Sánchez, che con lui ha raggiunto, prima spagnola, ilnumero 1 del ranking.

Sono sicura di due sole cose: ho bisogno di una persona che mi marchi stretto, che si concentri completamente su di me (e in Italia, per quantone so, sono tutti impegnati); ho bisogno di un coach uomo per evitare di ripetere con qualcun altro gli stessi errori che ho commesso con Barbara.La confidenza che si crea tra donne può essere un’arma a doppio taglio, mentre con gli uomini rimane sempre un distacco di fondo, anchequando si è amicissimi.

In autunno ricomincio a giocare a un ritmo alto: Bali, Pechino, Guanzhou, Zurigo, Linz. Quando Gabriel mi chiama per una prova sonotrentanovesima. Vado a Barcellona per incontrarlo ed è amore: per la sua tecnica, il suo metodo, il suo modo di fare. Rimango. L’accademiaSánchez-Casal diventa la mia seconda casa per l’inverno.

Scopro che in Spagna è tutto diverso: il tennis è uno sport più riconosciuto rispetto all’Italia, dove è seguito con attenzione da poco. Anche quelpoco, però, può fare la differenza: non è mai troppo tardi per innescare circoli virtuosi. Più il tennis si vede, più ha appeal, più i ragazzi si iscrivonoalle scuole, più aumenta la speranza di trovare nuove leve valide. Con il nuoto è accaduto lo stesso: prima di Federica Pellegrini non richiamavatanto pubblico, ora qualcosa è cambiato. Mi dispiace che noi “non calciatori” dobbiamo fare cose eclatanti per essere visibili, ed evitare che tuttal’attenzione e il budget finiscano nel gorgo del calcio: negli altri paesi è diverso.

In Spagna gli allenatori condividono un metodo di lavoro che fa sì che tutti abbiamo le stesse basi, e che tecnicamente permette di crescere.Nell’inverno del 2004 Gabi si concentra su questo: la tecnica.

Colonizzo e adotto l’appartamento di Carlos, lui sta a Maiorca e lo raggiungo tutti i weekend: indubbiamente il periodo più lungo trascorso conun uomo.

Imparo a conoscere e ad amare la sua isola, i suoi genitori, la grande rete di cui fa parte. Scopro che, per certi versi, ci assomigliamo:condividiamo lo stesso amore per la famiglia, la dedizione alle amicizie. È un tipo tranquillo, al contrario di quello che si potrebbe pensare. Chi loincontra la prima volta è portato a identificarlo come il tipo umano che, dato che è ricco e famoso, si dà un sacco di arie e rifiuta di dareconfidenza. Se si ha la pazienza di aspettare che si sciolga, però, si viene premiati con la scoperta della persona che è, simpatico, ridanciano,con uno spirito un po’ malizioso. È uno che ama la compagnia, gli scherzi, stare con gli amici. E mangiare.

Se non avesse fatto il tennista, senza difficoltà avrebbe potuto fare carriera come assaggiatore di professione: ha buon gusto, è appassionatodi alta cucina, si intende di vini.

Mio padre accusa il colpo quando, al telefono, mi capita di dire che “vado a casa”. “Casa” non è solo un indirizzo: è famiglia, è rifugio, èsicurezza. Non si capacita che la mia sia altrove, lontano da lui e dalla mamma e da tutto il clan Pennetta. Ci mette un po’ ad accettare che nonsono semplicemente girovaga, ma che “vivo da un’altra parte”.

Io, invece, ci ho messo pochissimo: Carlos ha riempito la mia vita con una routine accogliente e, in qualche modo, familiare. Quando abbiamo lapossibilità di vederci ci piace stare insieme, rintanati in casa o in albergo, pronti a mettere il naso fuori solo per una cena in un buon ristorante o undrink con gli amici. Impacchetto e nascondo in un armadio la Flavia che va a ballare, esce e fa rumore, riempie ogni momento libero di telefonate,e-mailate, skypate e prende appuntamenti con mesi d’anticipo per poter mantenere i rapporti con il suo mondo. Mi va bene così: lo amo, civediamo poco, non voglio discutere su chi decide dove andare a cena e con chi. Chi se ne frega.

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7

Carlos è ricco, smodatamente ricco. Però non lo fa notare, e io amo questo suo atteggiamento.È generoso; non solo economicamente. È generoso di sé, di tempo, di energia, in termini di adattamento. Non vive nel lusso, non gli interessa:

ogni tanto si concede qualche sfizio – una cena galattica, una bottiglia esagerata – ma non ha la puzza sotto il naso e, se deve scegliere, rinunciavolentieri ai comfort per stare con gli amici.

Per esempio, quando mi porta in vacanza con due suoi amici e fidanzate al seguito, prenota una posada carina per tutti, nel rispetto dellerispettive possibilità. È attento nel mettere ciascuno a suo agio, a far sentire bene le persone che lo circondano, a creare un clima piacevole.

Anche con me: quando estraggo il portafoglio per pagare sorride e mi invita a rimetterlo da dove è venuto. Non riesco a offrirgli nemmeno unacolazione, un caffè, un bicchiere d’acqua. Rifiuta in modo garbato, senza ostentare le sue possibilità, forse perché anche lui ha la fortuna di avermantenuto rapporti che durano da moltissimi anni con amici che vivono totalmente al di fuori del circuito tennistico, che hanno una routinenormalissima e guadagnano in proporzione. Chiaro che si può permettere cose cui gli altri rinunciano, me compresa, come il posto in business inaereo. Ma su quello sono stata chiara sin dal primo momento: il lavoro è il lavoro, tu a modo tuo, io a modo mio. Cioè in economy. Mi offenderei sefunzionasse diversamente, lui lo sa e lo rispetta.

Sono molto fiera di mantenermi da sola. Guadagno bene, ho possibilità che alle ragazze della mia età solitamente sono negate, però è anchevero che un tennista è una piccola “industria”: deve pagare viaggi, voli, alberghi, non solo per sé ma anche per l’allenatore, che naturalmenteprende anche uno stipendio, per eventuali altri accompagnatori, poi c’è il preparatore atletico, quello mentale, il fisioterapista, il medico dellosport... Lo tengo sempre presente, come monito quando mi viene la tentazione di lasciarmi andare e comprarmi qualcosa che, in quel momento,magari sembra fondamentale e che, invece, è fondamentalmente inutile.

Mio padre dice che sono avara, sin da bambina. Io preferisco dire che ho sempre amato i piani a lunga scadenza. Delle paghette non ho maispeso nemmeno una lira per togliermi uno sfizio: mi costruivo un obiettivo e raggranellavo tutto il possibile per raggiungerlo. Oggi faccio la stessacosa, con l’aiuto di quella meravigliosa àncora che è mia mamma. Ogni tanto la chiamo e le chiedo: «Mamma, posso?». Lei non mi dice: «Certo,amore», ma «Sei sicura?». È grazie a lei e agli amici “normali” che riesco a mantenere il senso della realtà.

Più sali nel ranking, più il contesto nel quale ti muovi tende a falsare la percezione delle cose. Nei circoli tennis in giro per il mondo ci trattanocome dèi: hai bisogno di andare in farmacia? Basta dirlo: a breve comparirà un’auto con driver che ti accompagnerà ovunque tu voglia. Sei nelposto più sperduto del mondo e vuoi un’estetista a tua disposizione? Ma certo, basta chiedere e qualcuno la troverà.

Nel mondo reale questo non accade: nessuno ti dà una mano così, semplicemente perché sei bravo in quello che fai. Ho fior di amichebravissime nel loro lavoro che l’estetista se la prenotano durante la pausa caffè. Mantenere i rapporti con loro aiuta a mantenere i piedi per terra.Sapere di essere una privilegiata mi responsabilizza, nei confronti del mio paese, della mia famiglia, del mio futuro.

Da sportiva, so di avere una data di scadenza. Meglio arrivare a quel momento preparate a tornare nel mondo piuttosto che incapaci diinteragire con gli altri.

Tornare nel mondo: sono a Parigi quando comincia a sembrarmi allettante.Ho lasciato la dolce routine di Barcellona-Palma di Maiorca-qualche puntata a Brindisi per giocare in Australia; a Gold Coast mi fermo al terzo

turno, a Sydney esco al primo, agli Open perdo malissimo al primo turno con Magdalena Maleeva, quasi-trentenne che non ha nessuna intenzionedi ritirarsi: ex numero 4 al mondo, al momento numero 25, continua a lottare per migliorare e migliorarsi.

A Carlos va meglio, ma non troppo: dopo la vittoria a Chennai, esce al primo turno sia a Sydney che agli Australian Open.Nemmeno il tempo di disfare i bagagli a casa che è già ora di ripartire: io per Parigi, lui per l’Argentina.Al primo turno incontro Selima Sfar, numero 114. Io sono trentacinquesima, la mia vittoria è data per scontata. Invece perdo. Lotto, ma perdo. In

due set. 7-6, 6-4. La Sfar non è più forte di me, non ha colpi imprendibili, non vuole vincere più di me, non è fisicamente più preparata.Questa è una partita contro me stessa, e la perdo. Da una parte c’è la persona, dall’altra la giocatrice. Non c’è sport schizofrenico quanto il

tennis, e la solitudine del fondo campo non aiuta.La verità: sto bene con Carlos, sto bene a casa, sto bene nell’idea di noi due insieme, della nostra futura famiglia. Voglio sposarmi e avere dei

figli, l’ho sempre voluto. Maschiaccio sì, ma fino a un certo punto: voglio l’abito bianco, due bambini, Matteo e Zoe. Anche Carlos vuole unafamiglia, ne parliamo spesso. Non ho nemmeno ventitré anni e smetterei di giocare domani per realizzare questo sogno. Diventare madre ecercare di essere almeno simile alla mia mamma, diventare compagna per la vita e provare a costruire un rapporto che assomigli a quello tra imiei genitori. Ogni tanto mi fermo a fantasticare: noi due, insieme, in una casa bianca a Palma di Maiorca, con i figli, i cani, le famiglie, gli amici.

Uno dei problemi è che sognare è una cosa, smettere di giocare un’altra.Ho paura di una scelta così radicale: e se poi non mi basta? Sono abituata a essere indipendente, a gestirmi da sola, a fare scelte che non

riguardano altri che me. Sono disposta a fare spazio a dei figli, non vedo l’ora, ma a rinunciare a tutto per amore?E se un giorno mi svegliassi e scoprissi che non mi basta più? Ho smesso di studiare troppo presto e troppo tempo fa per poter ricostruire una

qualsiasi familiarità con i libri. Mi aspetterebbe un futuro da maestra di tennis? Mi sento soffocare solo all’idea.Mi mancherebbero il mio gioco, le sfide e gli obiettivi che mi pongo quotidianamente, il campo, gli allenamenti, il sudore e la fatica e persino il

male ai piedi. Il tennis è vita, è fermento, è tattica, è passione, abnegazione. Ho dato tutta me stessa a questo sport: mi ci sono dedicata, horinunciato a una vita normale, a ritmi socialmente accettati, a una cultura decente, alla mia comunità. Ho scelto la solitudine e il girovagare, nelquale di fascinoso c’è poco, se non una certa qual malinconia che mi pervade costantemente. Lo chiamo “il senso dell’aeroporto”: la promessa diun nuovo viaggio, il male acuto di vivere i propri affetti a intermittenza, la sicurezza di tornare un po’ diversa, la paura di non trovare più tuttoidentico, cristallizzato, allo stesso posto.

Mi riprometto di parlarne con Carlos. Ci vedremo ad Acapulco tra un paio di settimane.Nel frattempo volo a Bogotá: uno dei miei posti preferiti. Bogotá e Acapulco sono i tornei che ho nel cuore: paesi latini, sento aria di casa, con la

gente che tira tardi, mangia dal mattino alla sera e ha il coraggio di passeggiare anche nel caldo più sfacciato. A Bogotá è nato il pensiero dellastoria con Carlos, sono arrivata per la prima volta ai quarti di finale in un torneo del World Tour, ho giocato una partita memorabile contro KatarinaSrebotnik, allora trentaseiesima al mondo. Acapulco è stata la mia prima finale importante, una lotta senza esclusione di colpi con Iveta Benešová.Lei ha vinto il torneo, io la paura di perdere. E ho scoperto che, anche se la rabbia fa parte del gioco, c’è modo e modo di tornarsene a casa.Quella volta sono tornata a casa nel modo giusto.

Tutti si ricordano degli eroi, ma nelle favole i personaggi fondamentali sono molti di più. Per esempio, gli aiutanti. Cenerentola senza topolini nonavrebbe mai sposato il principe azzurro, io senza Gabi e Viloca non avrei affrontato Bogotá e Acapulco come ho fatto.

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Dicesi “Viloca” il delizioso, bello e tranquillo ai limiti dell’ingenuità Juan Alberto Viloca, allenatore in seconda. Gabi non può accompagnarmi manon mi manda sola. Mi affida a lui, e lui è talmente giovane e ansioso che non mi perde di vista un secondo. Intuendo il suo punto debole, lo faccioammattire con scherzi di ogni tipo. Guardiamo le partite insieme, saltello su e giù dalle gradinate e, improvvisamente, fingo di cadere a terraurlando: «La cavigliaaa!». Il povero Viloca sbianca a tal punto che non resisto e comincio a ridere prima che mi abbia raggiunta. Oppure, aBogotá, eludo la sua sorveglianza ed esco. Quando, al ritorno in albergo, lo trovo preoccupatissimo, lo guardo dritta negli occhi e gli racconto diessere stata a pochi metri da una retata: «Juan, non puoi immaginare, narcotrafficanti ovunque, incendi, sparatorie... La polizia che caricava!Guarda, per poco non mi colpiva una pallottola volante proprio qui» e gli indico il ginocchio. Smetto quando capisco che potrebbe non arrivare allafine di questo viaggio in mia compagnia.

A Bogotá, complice la presenza assidua di Viloca e i suggerimenti non solo tecnici di Gabi, sfodero energie che non immaginavo nemmeno dipossedere. Affronto Frederica Piedade: vinco; Ágnes Szávay: vinco; Barbora Strýcová: vinco; Clarisa Fernández: vinco. Tutte senza particolareimpegno, senza straordinari sforzi.

Sono in finale e a momenti non me ne sono neanche accorta.Mi aspetta Lourdes Domínguez Lino. Ha disperatamente bisogno di questa vittoria: un paio di anni fa è risultata positiva alla cocaina, ne sono

seguiti tre mesi di sospensione e poi la lenta risalita, nel tentativo di dimostrare di essere anche altro.Infatti non molla, Lourdes. Sotto di un set, dopo un break, non ha paura e cerca di tenere il controllo del gioco. Provo a spiazzarla cambiando

ritmo, ci casca ma si riprende rapidamente. È oltre la duecentesima posizione del ranking, ma è un’avversaria di tutto rispetto. Chiudiamo lapartita al tie-break: a ogni palla penso che non è possibile, sta succedendo a me, sto per vincere un torneo del World Tour, oddio, fino ad adessonon avevo realizzato, forse non sto realizzando, magari è pure presto per realizzare, e se adesso non vinco?, tutto può cambiare in un attimo,basta una palla fuori, basta che mi deconcentri, basta che pensi ad altro, basta che io mi perda e la Domínguez Lino intervenga, perché nessuno tiregala niente in questo sport, servo, ancora una, ancora una, ancora u... Dentro. Ho vinto. Evvai.

Salto dalla gioia, non so se volando altissimo o buttandomi a terra, non mi rendo conto. Stringo la mano della mia avversaria e, per questa volta,sono io a tornare al centro del campo, a battere la racchetta con una mano mimando l’applauso verso il pubblico, il mio pubblico.

“Flavia, ce l’hai fatta” mi dico.Ho vinto e sono la numero 30 al mondo. Ricevo telefonate da tutti: mamma, papà, amici, parenti, Carlos. Rimangono un po’ interdetti perché da

me si aspettano un’esplosione di entusiasmo mentre io, appena uscita dal campo, ho ritrovato una delle mie maschere preferite: la donna-che-esprime-emozioni-poco-per-volta.

La donna-che-esprime-emozioni-poco-per-volta è utilissima su tutti i versanti: dalla gioia al dolore, dalla commozione alla frustrazione, dallanostalgia alla tristezza. È un’arma dei tennisti importante almeno quanto la racchetta. Nella migliore tradizione wimbledoniana, infatti, non è finelasciarsi andare, mai: una bella stretta di mano e poi ciascuno nascosto nel suo spogliatoio, nella sua auto, nella sua stanza. Conta il tuo gioco,non chi sei.

Tutto questo ci aiuta a diventare egoisti, concorre alla formazione di personalità fredde perché distaccate soprattutto da se stesse. Dopoqualche anno di circuito è difficile anche riconoscersi. Vorrei evitarlo, ci provo, ma per alcuni versi fatico a vedermi quando, abituata come sono amuovermi da sola, a fare programmi autonomamente, ignoro completamente esigenze o desideri altrui.

Il tennis è uno sport individuale. “Individuale” perché si gioca per di più uno contro uno, ma anche perché induce a concentrarsi su una sola cosa:se stessi. Se stessi e il proprio gioco, il proprio ritmo, i propri colpi migliori e quelli peggiori, senti il tuo corpo, ascolta le tue sensazioni, il tuosoliloquio.

A non starci attenti si diventa dei mostri. Forse campioni, ma persone a metà, talmente concentrate sul proprio ombelico da non saper piùinteragire con il mondo.

Mi ha salvato l’essere una mezza calzetta da bambina, altrimenti anch’io, forse, sarei stata così: un esserino egoista e rompipalle che si aspettasolo riconoscimenti e non ha nemmeno un orecchio disposto ad accogliere gli altri.

Quando sono partita per il Centro federale mio padre mi ha detto: «Devi prendere quello che gli altri ti possono dare e stare attenta a non daretroppo, altrimenti rischi che se ne approfittino». Me l’ha detto per proteggermi: di carattere sono una compagnona, non fatico a fare amicizia e aentrare in confidenza, mi capita di espormi tuttora con persone che non conosco bene, figuriamoci a quindici anni! Capisco perché me l’ha detto.Però capisco anche che la sua frase – una frase di mio padre – mi ha cambiata dal di dentro, mi ha aiutata a modellarmi sulla base delle esigenzedel mio mestiere, mi ha fatto da guida quando ho dovuto prendere una qualche decisione, anche stupida, sul da farsi: ha fatto di me una tennista.Una che gioca uno sport “individuale”. E chi gioca uno sport “individuale” non deve esporsi, altrimenti gli altri si approfitteranno del suo senso disolitudine, della sua nostalgia di casa, della sua frustrazione perché ha perso male, del dolore per la morte di una zia. E sì, anche della sua gioiaperché dopo anni di sacrifici arriva un risultato che ripaga e conferma nella propria scelta. Molto meglio un sano, corazzato riserbo inglese.

Da Bogotá prendo un aereo per Acapulco. Sono felice di tornarci: è un anno da quando Carlos mi ha invitata a bussare alla sua porta, un anno daquel primissimo pico sulle labbra.

Abbiamo di che festeggiare.Carlos si ferma al secondo turno, io invece arrivo alla sera del mio compleanno con alle spalle una bella serie di vittorie contro Julia Schruff,

Mariana Díaz-Oliva, Lilia Osterloh e Antonella Serra Zanetti. Decisamente i miei genitori, che sono venuti a vedermi giocare, mi portano bene.Il giorno dopo mi aspetta la finale contro Ludmila Cervanova, tennista ceca una sessantina di posizioni più in basso di me nel ranking, ma il cui

rovescio sulla terra può risultare micidiale. Sono tesa, è la seconda finale nel giro di un mese, e nonostante Viloca cerchi di tranquillizzarmicontinuo a lottare con le aspettative. Carlos decide d’ufficio che non posso passare la sera del mio compleanno in preda alle paranoie, rimanda iltennis e tutto ciò che lo riguarda al giorno dopo e mi porta fuori a cena, noi due soli. Sfodera una delle sue maschere preferite: il giullare, quelloche fa ridere e distrae e parla continuamente e strappa sorrisi nel momento giusto. Gliene sono grata.

Il giorno dopo mi sveglio con un doloretto alla gamba sinistra che non promette niente di buono. Convoco la fisioterapista e in preda a una crisidi nervi le dico che deve fare qualcosa per riuscire a mandarmi in campo. A tutti i costi. Non posso ritirarmi: devo giocare la finale!

Si tratta degli adduttori. Mi massaggia, spalma e manipola finché non sono in grado di stare in piedi e, stringendo i denti, di correre. La gambasi fa sentire già mentre attraversiamo il corridoio che dagli spogliatoi porta in campo.

Mantengo il mio turno di battuta, la Cervanova fa lo stesso. Ok, è andata, sto giocando. Le faccio break, ma lei vince i successivi quattro game,senza che io riesca a farle nemmeno mezzo punto. Mi innervosisco. Ho passato metà del set ad ascoltare la gamba, con la paura che mi facessemale, e adesso sono in svantaggio.

Metto da parte i timori e mi lancio alla rincorsa di un recupero: conduco 2-0 quando sento una fitta alla gamba destra. Cos’è, uno scherzo?Prima la sinistra e poi la destra? Non riesco a muovermi: a destra la gamba mi fa male, la sento pulsare, forse è gonfia, a sinistra va meglio, manon così meglio.

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La Cervanova vince tutti e tre i game successivi. Dalla gamba destra il dolore si spande in alto: sale alla schiena, al braccio destro, alla mano.Mi sembra di non avere una presa sicura sulla racchetta, cerco di giocare di rovescio per rinforzare presa e colpo con il braccio sinistro ma nonposso ignorare che mi manca un colpo. Il diritto è una tortura, torcermi per imprimere forza ai colpi e piantarmi una spada nel fianco è tutt’uno.Chiedo di interrompere il match e chiamo la fisioterapista. Guardo Viloca, forse dovrei ritirarmi. Mi fa segno di aspettare e di vedere cosasuccede.

Comincio a tornare in vita dopo cinque minuti di stop. Non sento niente: né dolore né benessere. Perfetto. O almeno sufficiente per rientrare incampo. Per cedere una finale c’è sempre tempo.

Approfitto di un paio di game per testare i movimenti. Niente. Bene. Mi sembra di essere stata graziata: non so chi è stato, ma per ringraziarloho un solo modo, vincere questa partita. Metto la quinta e scateno il mio miglior tennis: la Cervanova regge fino alla fine del secondo set, quandovinco il tie-break. Mi aggiudico il match al terzo set: è il decimo di seguito.

In conferenza stampa sono ancora stupita: mi sembra impossibile arrivare a un passo dal ritiro e poi vincere. E vincere così. È la mia terzacoppa W T A. Sul volto mi si dipinge un’espressione tra lo stupefatto e il massimo della soddisfazione. Parlo poco e sorrido a tratti, naturalmente:continuo a essere la donna-che-esprime-emozioni-poco-per-volta.

All’inizio di marzo siamo a Indian Wells, da lì voliamo a Miami. I risultati non sono esaltanti: in California esco al secondo turno, a Miami AnastasiaMyskina mi batte al terzo turno. La sconfitta è così cocente che il secondo set non riesco a vincere nemmeno un game, e chiudo rovinosamente 6-0.

Mi auguro di prendermi la rivincita in Fed Cup alla fine di aprile: Barazzutti mi ha convocata contro la Russia. Sono strafelice: giochiamo aBrindisi, al Circolo dove sono letteralmente cresciuta.

Passo un paio di settimane a Barcellona con Gabi: mentre Carlos gioca a Montecarlo impariamo a stare insieme, passando con scioltezza dalcampo da tennis al tavolo di un ristorante. Scopro non solo un grande allenatore, abile nel comunicare e nel capire, ma una persona meravigliosa,sincera, coltissima. È una vera enciclopedia, piacevole a parte quando scende troppo nei dettagli: allora diventa di una noia mortale e lo devostoppare, con garbo, ma stoppare. Ha amici ovunque nel mondo e adora chiacchierare, parlerebbe anche con le piante se gli rispondessero.Andiamo molto d’accordo anche se abbiamo due età molto diverse: lui ha cinquant’anni, io qualcuno meno.

Giorno dopo giorno mi rendo conto di quanto la mia tecnica migliori con il suo aiuto e di quanto la tecnica, da sola, non basti. Gabi mi illumina,letteralmente, con un punto di vista che non avevo mai considerato: «Per vincere non devi essere perfetta». Ah, no?

No. Per vincere non è detto che tu debba per forza giocare il tennis più bello della storia: devi farti vedere solida. Passare, riuscire a fare scambilunghi, intensi, nei quali corri tu, corre l’altra... Che a un certo punto si dice: «È mezz’ora che siamo 3-2 e questa non mi ha regalato un punto...». Eva alla ricerca di qualcosa in più. E si prende dei rischi. E sbaglia. E ti regala dei punti. Gratis.

Ancora: “Farsi vedere solida” significa anche tenere il ritmo. Nel tennis le cose si capovolgono in un secondo: se stacchi la spina e abbassil’intensità del tuo gioco, l’avversario cresce. La tua palla non è più così pesante com’era un punto prima, quindi concedi all’altra la possibilità diprendere in mano le redini, perché l’altra non è lì a fare la bella statuina, l’altra attacca. Piuttosto che regalarti un punto o, peggio, una partita, voladall’altra parte della rete e ti ammazza. Devi essere sempre pronta. Se sta andando male, stai perdendo, sei sotto di un set, “breakkata” e sul 40-0stai giocando il match point altrui, stai lì: lo sai cosa può succedere? No. Infatti può succedere di tutto.

Per questo non bisogna far caso al risultato, ma al gioco: il risultato è una conseguenza. È difficilissimo, ma se ti fermi a pensare che sei vicinaal traguardo, si allontana sempre di più. Sei vicina e lasci spazio a tutte le paure, le ansie, alla possibilità di non essere pronta a una vittoria delgenere, e questo involontariamente ti ricaccia indietro, a fondo campo, irrigidita, a tirare pianino nella speranza che l’avversaria sbagli.

Quindi cosa bisogna fare? Puntare a migliorare come giocatrice. Vuoi vincere gli Australian Open? Bene, non sei l’unica. Non guardare aldesiderio di vincere, ma costruisci la strada per quella vittoria: cosa ti manca? Dove puoi fare meglio? Quali aspetti tecnici, mentali, fisici puoimettere a punto?

Manca poco alla Fed Cup quando, durante una corsa, sento mille e mille aghi che mi si piantano in un istante sotto la pianta del piede destro.Sapevo che poteva succedere, ma nessuna descrizione rende giustizia al dolore allucinante della fascite plantare. Risultato: non posso nemmenocamminare. I medici mi prescrivono riposo assoluto per un tempo troppo lungo perché possa partecipare alla Fed Cup. L’unica cosa che miconsola è il ritiro della Myskina per un problema alla spalla destra. Raggiungo comunque le ragazze, non posso giocare ma tifare sì. La Schiavotrionfa nel primo match con la Safina: promette fin troppo bene. Ci pensa la Dementieva a ristabilire i rapporti di forza, sconfiggendo TatianaGarbin e la stessa Schiavo, e spianando la strada alla Bovina contro Maria Elena Camerin. Si prendono pure il doppio, le sovietiche, e noidobbiamo dire addio al trofeo, almeno per quest’anno.

Alla fine di aprile sto meglio e parto per Estoril con Carlos. Lui perde contro Robredo, ai quarti di finale; la Savchuk invece ferma me al primoturno, una performance decisamente non entusiasmante. Ci godiamo un paio di giorni sulla costa portoghese prima di separarci di nuovo e miriprometto di fare meglio a Berlino.

Senza troppe difficoltà supero Anca Barna, una giocatrice tedesca per la quale tutto lo stadio fa il tifo. La dea bendata mi regala un secondoturno contro Jelena Janković: ventottesima al mondo, la Janković fa paura. È una macchina da guerra, non per niente ha passato l’adolescenza acolpire palle di mattino, pomeriggio e sera all’Academy di Nick Bollettieri. Per di più entra in campo perfetta – truccata, acconciata e profumata –e alla fine della partita è identica a quando ha iniziato. I casi sono due: o non suda o negli anni ha dedicato tempo a studiare una tecnica perasciugarsi senza incidere sul trucco, come quelle donne che quando piangono si tamponano le lacrime da sotto le ciglia per evitare le strisciatenere di mascara. In entrambi i casi lo trovo un dettaglio un po’ inquietante.

L’anno scorso a Budapest mi ha sonoramente battuta. Voglio la rivincita, ma so che non è facile. So che se voglio vincere devo prendermi deirischi e, alla faccia della Coetzer, mi do anima e corpo nel primo set. Sbaglio il giusto, Jelena pensava di trovarsi di fronte Biancaneve e ha trovatola strega cattiva. Si ferma un secondo e sospira. Una breve defaillance: quello che mi serve per affondarla 6-2. Quando iniziamo il secondo settemo che non avrò la forza di reggere questo ritmo fino alla fine della partita, così decido di seguire il consiglio di Gabi: solida, non perfetta, masolida. Tutto pur di non regalarle mezzo punto. La Janković è arrabbiata: se questa partita fosse in un cartone animato qualcuno le avrebbedisegnato occhi fiammeggianti. Resisto al suo attacco furibondo allungando gli scambi il più possibile. Tengo quattro game nel secondo set. Sonostanca ma talmente esagitata che mi gira quasi la testa. Funziona, è vero: lei ha le redini, ma io posso imprimere allo scambio il mio ritmo. Possometterla in difficoltà, posso combattere. “Può succedere di tutto”: è come dice Gabi.

Arriviamo al tie-break nel terzo set. La Janković si rivela spietata. Precisa, determinata, aggressiva. Gioca ogni punto come se a ciascunofosse appesa la sua vita. Con questo tipo di furore io non posso competere. Rimango ferma a 1. Gabi sorride, però, e anch’io. È stata lunga, èstata faticosissima, ma è stata una partita stupenda.

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Da Berlino volo a Roma. Carlos perde al primo turno contro Potito Starace: non so nemmeno cosa provo perché Potito, anche se ci sentiamopoco e ci vediamo meno, è un amico-fratello dai tempi del Centro federale. Una sorta di revanscismo patriottico mi fa godere come una dannatavedendo uno dei nostri tennisti maschi, così vituperati dalla stampa e dal pubblico, battere il numero 14 al mondo, anche se quel 14 è il miofidanzato. Forse lo stesso sentimento lo prova Alberto Martín, giocatore spagnolo che al secondo turno vendicherà Carlos sulla pelle del poveroPotito, sbattuto fuori dal torneo in tre set.

Io mi fermo al secondo turno dopo una lotta furibonda con la russa Evgenia Linetskaya. Lei è parecchio più indietro di me nel ranking, ibookmaker mi danno vincente ma, come dice Gabi, nel tennis non si sa mai. Entro in campo pensando: “Non posso perdere”. Errore madornale:con un’idea del genere la sconfitta è matematica.

Rimango stupefatta dal gioco della mia avversaria nel primo set: al punto che lo perdo 6-2, praticamente glielo regalo grazie a unaragguardevole lentezza nelle risposte. Mentre lei mi prende a pallate, sono imbambolata a chiedermi: “Ma com’è possibile?”. Nel secondo realizzoche se non mi muovo la mia corsa si ferma: se non altro glielo faccio sudare. Mi ci vuole il terzo per ripensare alle parole di Gabi e levarmi ilrisultato dalla testa. E il terzo è un gran bel set: lo perdo, ma 7-5. Salvo la dignità e imparo qualcosa: seguire sempre e pedissequamente i consiglidi Gabi.

A Parigi batto la polacca Domachowska per poi arrendermi, al terzo turno, a Patty Schnyder. Gli ottavi del Roland Garros rimangono nella miaimmaginazione. A Wimbledon, invece, riesco nell’impresa, ma il sogno si infrange contro le mazzate di Mary Pierce. Mi tornano in mente i versi diKipling, quelli impressi nel corridoio che porta dagli spogliatoi ai campi: If you can meet with Triumph and Disaster / and treat those twoimpostors just the same. “Se sai incontrare il Successo e la Sconfitta / e trattare questi due impostori allo stesso modo.” No, non lo so fare.L’equidistanza non è di questo mondo, o forse semplicemente non è ancora del mio.

Torno in Italia. Sull’onda della rabbia arrivo alle semifinali di Modena, dove trovo Anna Smashnova. Ci siamo incontrate quattro volte e hosempre perso: non sopporto il suo gioco lento, che mi imbriglia in una palude di attese e doppi sensi tennistici. Sono data per favorita mal’insofferenza mi mangia viva: non riuscire a capire cosa farà la mia avversaria mi stressa. Sono in vantaggio 4-3 nel primo set, quando la palladella Smashnova tocca la rete e finisce, per un millimetro, nella mia parte di campo. L’insofferenza si trasforma in fastidio, il fastidio inpremonizione, la premonizione in realtà. Mi sento segnata e lascio andare la possibilità di vincere il torneo.

La semifinale è fatale anche a Palermo, dove gioco contro una Koukalova in formissima.Sul volo per San Diego cerco di fare il punto, guardare le cose come stanno. Gabi mi dice che sto giocando bene, che sto crescendo. Prendo le

ultime settimane e le sbuccio come una cipolla: se tolgo la delusione per le sconfitte, se tolgo l’insoddisfazione per gli errori, se tolgo la rabbiaperché qualcosa in più forse lo potevo fare, se tolgo la frustrazione per non esserci riuscita, allora rimangono un terzo turno al Roland Garros, gliottavi di finale a Wimbledon, due semifinali in Italia. Togliendo anche questo, emerge un nocciolo duro di tenacia e determinazione.

Mi ci attacco e, nonostante due performance non favolose a San Diego e a Los Angeles, a Toronto agguanto i quarti, agli US Open la finale indoppio.

Arrivo a Bali quando la Schiavo è già lì da due giorni. Cerco di coinvolgerla in un giro di camere per risparmiare: se lei dorme con me e Gabista in camera sua, io pago una camera in meno. Francesca è piuttosto esigente sullo spazio – è di un disordine quasi maniacale, quindi habisogno di più metri quadri possibile per poter spargere cose e riuscire a girarci intorno – e mi dice che le camere sono piccole, quindi non se nefa niente. Ok, prendo atto e, aspettandomi una specie di tana, vado a ritirare la chiave alla reception. Al di là della mia porta una suite pazzesca! Alche la richiamo: «Senti, sono nella camera 10, passi a salutarmi?».

Quando vede la stanza non ci crede: «Io non capisco perché a te danno sempre le suite!». A quel punto si installa da me e si scatena unadinamica folle: la Schiavo abbandona abiti e oggetti in giro, io la inseguo mettendo tutto a posto, piegando gli asciugamani, sistemando i vestitinei cassetti, nascondendo le valigie in un angolo. Tutte le volte lei si finge stupita: «Scusa, ma è passata mia madre?». Poi ci facciamo una risata.

Veniamo da New York e alle sei del mattino siamo già in piedi, pronte per una bella passeggiata sulla spiaggia.Dopo aver battuto facilmente Martina Mueller mi tocca la cinese Jie Zheng, un mastino che non molla l’osso nemmeno se la si prende a

cannonate. Siccome anch’io sono così, la partita è un infernale susseguirsi di break e contro break, momenti di scoramento e rimonte. Perl’occasione compare sugli spalti mio padre, fortunatamente tenuto a bada da Maria Elena Camerin, che si sforza di placarlo mentre gesticola, urla,parla e diventa paonazzo.

Ogni due secondi le chiede: «Quanto sta?».«Oronzo, siediti qua, calmati e guarda» gli dice lei.«Non ce la faccio, non ce la faccio!»E non ce la fa davvero, tant’è che a un certo punto il giudice di linea non chiama fuori una palla, e Oronzo esplode: «Ma no, è fuori!». Lui è

esattamente in mezzo alla linea di fondo campo. Il giudice lo guarda malissimo, mio padre lo squadra e gli fa: «Cornuto!». Con anche il gesto dellecorna! Seguono imbarazzanti secondi in cui i due si fissano modello Far West, mancano solo le pistole fumanti, finché Oronzo – più Clint che John– rincara, caso mai l’altro avesse avuto qualche dubbio: «Proprio tu, cornuto!». E via di nuovo le corna.

La Camerin è piegata in due dal ridere, io non so se ridere o piangere, la Zheng non capisco cosa pensi, vai a sapere cosa significa il gestodelle corna in Cina...

Il pomeriggio Franci mi dice: «Flavi» lei mi chiama così, «ti porto in un posto bellissimo che ho scoperto qua vicino. Però devi metterti ilcappellino e guardare solo a terra, altrimenti ti perdi l’impatto favoloso della scena nel suo insieme».

Ok. Abbasso la visiera e parto agganciata alla sua mano. A un certo punto, mentre attraversiamo degli scogli, visto che devo guardare solodove metto i piedi vedo una pozzanghera. Dentro la pozzanghera, un serpente. Mi si blocca la favella: la Schiavo mi tira da una parte, io la tirodall’altra, lei non capisce, io sono terrorizzata. Andiamo avanti così qualche secondo, poi lei si innervosisce: «Oh! Muoviti!».

«Fra, guarda a terra!»Al diavolo lo scenario impattante: corriamo via urlando entrambe. Manco fossimo in una partita, Franci non demorde: ha deciso che dobbiamo

fare qualcosa quel pomeriggio e qualcosa faremo.Sostituisce prontamente la gita con un’esperienza che giura essere memorabile e per niente pericolosa a bordo di un cosiddetto fly fish: un

gigantesco aquilone su cui ci si sdraia per venire trainati da un motoscafo.«Flavi, non ti devi preoccupare, è favoloso!»Benissimo. Saliamo, ci agganciamo e partiamo, vento alle spalle. Il fly fish sobbalza sulle onde, tutùm tutùm. Fine del gioco.«Franci, ma che roba è?»«Aspetta, adesso...»Il motoscafo vira, torniamo nell’altra direzione, con il vento contro. Il fly fish si alza dall’acqua almeno dieci metri, vola! Io cerco di rimanere

attaccata e fisso l’acqua giù pensando: “Oddio sono finita, sono finita, sono finita...”.Sale e scende, battendo contro la superficie del mare, per tornare poi in alto. In uno dei voli cadiamo storte, la Schiavo penzola letteralmente giù

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dal mostro e mi implora: «Flavia, aiutooo!!!». Ci metto un po’ a capire che è veramente in difficoltà, perché non riesco a tenere gli occhi aperti dalridere. Quando la salvo prendendola per il costume lei si incazza perché dovevo salvarla prima. Continuiamo così fino a sera: io che ridosgangheratamente e lei che dice che per poco non ha rischiato di morire.

Siccome è la Schiavo, me la fa pagare in partita, vincendomi ai quarti di finale.La stagione è praticamente conclusa. Gioco un’ultima partita con la Pierce a Mosca, lei vince, io perdo, ma bilancio il secondo turno

guadagnandomi i quarti sia a Filderstadt che a Zurigo.Alla fine del 2005 ho ventitré anni e sono la ventitreesima giocatrice al mondo. Il 23 è un bel numero. Se guardo indietro a questo mio secondo

anno da professionista a 360 gradi, che gioca tutti e quattro i tornei del Grande Slam, vedo un’adulta che sta via di casa una trentina di settimanel’anno, vive lontano dai genitori, mantiene da sola la sua piccola squadra: ne sono fiera.

Sono riuscita dove volevo, sono in alto, molto in alto. E non sono da sola: Carlos mi chiede di trasferirmi a Palma di Maiorca durante la pausainvernale, per vivere insieme. Gabi è disponibile a spostarsi, così, per la seconda volta, impacchetto tutte le mie cose e le sistemo nel nostronuovo appartamento. Quando entriamo è praticamente vuoto: stupendo. Tutto da disegnare insieme. Passiamo ore a giocare con le piantine dellacasa, a cercare di incastrare mobili che abbiamo visto in giro, immaginando gli accostamenti, i colori, gli spazi.

Sono ventitreesima, ho ventitré anni e sono felice.

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8

Comincio il 2006 con il botto: arrivo in finale a Gold Coast battendo Ekaterina Bychkova, Na Li, la francese Tatiana Golovin e, soprattutto, MartinaHingis, fresca di rientro a tempo pieno sui campi. Lungo tutto il primo set non riesco a capacitarmi di chi mi trovo davanti: la ragazza prodigio, lapiù giovane numero 1 della storia.

La rispetto, per la sua storia e il suo talento. Sarebbe un bello spunto di conversazione a cena, la sera, davanti a un piatto di gamberoni freschidel Pacifico, ma siamo in campo e questo tipo di rispetto è un’arma a doppio taglio. So che per batterla devo giocare a un livello altissimo, so chenon mi regalerà mezzo punto, so che devo rischiare se voglio guadagnarmi i punti della vittoria. Tutto questo mi mette pressione, e la pressioneblocca. Martina vince tutti i suoi game, io ne tengo solo uno. Cominciamo il secondo set e mi manca l’aria.

Martina è tornata per vincere e si vede. Mette in campo tutte le sue armi migliori: acume tattico, gioco sotto rete, colpi fluidi e precisi da fondocampo. Mi spiazza il suo giocare diversamente dalle avversarie con le quali sono abituata a battermi: non punta sulla potenza, sul giocomuscolare, sulla velocità. Non mi prende a pallate: cerca di piazzare ogni singola palla nel punto più inaspettato.

Sul 6-5, Martina serve per il match, io capisco che devo giocare a scacchi. Le strappo ogni match point impedendole di farmi punto. Caricacome una molla stravinco il tie-break e mi lancio nel terzo puntando su quello che mi differenzia da lei: la preparazione fisica, la continuità nel giocoad alto livello. Martina è appena rientrata nel circuito: ha qualche problema alla gamba sinistra e non ha la mia stessa consuetudine all’agonismo.Sfruttando questi punti deboli la lascio ferma a due game nel terzo set e mi guadagno la finale con la ceca Lucie Šafařová.

La sera mi pare che il mondo sia mio. Lo scenario aiuta: grattacieli sulla spiaggia, luci accecanti, muscolosi surfisti che sfilano su decine dichilometri di onde... tutto giovane, tutto nuovo, tutto così promettente.

Il giorno dopo mi alleno con la calma di chi sa di aver dato il massimo. Sono tranquilla, vorrei vincere ma la mia finale l’ho già giocata.La Šafařová è molto diversa dalla Hingis: più giovane di me, mancina, gioca il tennis delle sorelle Williams e della Sharapova, puntando su colpi

potenti, forti, su servizi veloci e angolati. Forse sono sotto l’incantesimo di una vittoria importante, ma la Šafařová mi batte in due set, con due solibreak. Mi importa, naturalmente mi importa: avrei portato a casa il quarto trofeo della carriera. Non sono arrabbiata, però. Guardo il positivo:l’anno è cominciato alla grande, aver giocato la finale mi vale il mio best ranking, numero 20, e ho portato a casa lo scalpo della Hingis in unapartita spettacolare.

La sera esco a festeggiare comunque, con Gabi, Robertina Vinci, la Schiavo, Antonella Serra Zanetti e rispettivi allenatori e preparatori.Cerchiamo di non parlare di tennis ma finisco a scherzare con la Schiavo sul mio ingresso nella top 20. Lei è quindicesima. Sarà una di noi laprima italiana nella storia a entrare nella top ten, lo sentiamo. Quello è il sogno, ed è così vicino che se allunghiamo la mano quasi lo tocchiamo.

A Sydney, Carlos si ritira al secondo turno durante l’incontro con Blake, dopo una magnifica partita con Grosjean. Io non vado oltre il primo. Lacinese Na Li vuole la rivincita: scende in campo aggressiva e decisa. Questa ragazza ha una prima di servizio che spacca il campo esattamente ametà, non si sa con che colpo riceverla. Sfilo sulla sinistra per giocare di diritto, e regolarmente lei mi rimanda da fondo campo un passante chemi infila e va a cadere nell’ultimo centimetro di campo disponibile. Perdo la partita con un risultato secco, 6-4, 6-1, ma il tennis, se non altro,concede innumerevoli possibilità di rimonta.

Gli Australian Open aprono i battenti la settimana successiva.Parto con slancio contro Cara Black, giocatrice dello Zimbabwe, portandomi a 4-0 in soli dieci minuti di gioco. Per un eccesso di sicurezza

commetto qualche errore, la Black ne approfitta ma non riesce a portarmi via il set, che chiudo con un diritto fulminante sul 6-2. Il secondo set è undisastro: sbaglio tanto, sbaglio troppo. Rischio per chiudere velocemente i punti, i game, il set e guadagno solo una mezza dozzina di doppi falli euna quarantina di errori gratuiti. Alla Black non sembra vero: rientra in partita rapidamente e si aggiudica il set grazie a due break. Con un iniziodel genere sto perdendo. Sto perdendo male. Mi tornano in mente le parole di Gabi: “Non pensare al risultato, mai. Il risultato è una conseguenzadel tuo gioco”. Mi concentro sulla tattica, sui colpi, sui cambiamenti di ritmo e mi ritrovo. Riscopro il mio tennis. Accelero, rallento, costringo laBlack a stare al mio gioco, la faccio correre e la sorprendo con colpi potenti e precisi. Chiudo set e incontro sul 6-3, apprestandomi a sfidareMartina Suchá, numero 96 della classifica mondiale.

La tentazione di fare due conti, di affidarsi ai numeri e alle probabilità è forte. Peccato che un pensiero come “non dovrei avere problemi” sia lapremessa per una disfatta al cento per cento. Non riesco a non ripetermelo, mi do della cretina e cerco di cacciare la frase dalla testa. Appena mirilasso “non dovrei avere problemi” è ancora lì, di nuovo lì, inamovibile come non mai. Mentre attraverso il corridoio che dagli spogliatoi porta incampo dietro a Martina Suchá sto ancora cercando di cancellarlo. Non c’è niente da fare, e infatti gioco il primo set nervosa, sbagliando spesso.Solo nel secondo riesco a riprendere il controllo: divento un muro, solida e impenetrabile. Nel giro di un paio di game la Suchá non sa piùletteralmente dove mettere la palla e perde la testa. Vinco il set più veloce della storia e in meno di mezz’ora la partita è mia, e il terzo turno con lei.

Le cose si complicano: dovrò affrontare un astro nascente del tennis mondiale. Nicole Vaidišová è “astro” per il ranking (è numero 16),“nascente” per l’età, solo diciassette anni. Una bomba. Reggo per tutto il primo set, giocando una partita equilibrata fino al 4-4, poi la ceca siimpone con un break, tiene il suo servizio e conquista il primo turno. Nel secondo set praticamente non gioco: sono distratta, stupita, arrabbiata enervosa. Mi riprendo solo sul 5-0, strappandole un servizio che vale l’onore. Perdo rovinosamente ma, grazie al terzo turno, guadagno altre quattroposizioni nel ranking e mi attesto al sedicesimo posto.

Sulla strada per Parigi mi fermo a Milano per questioni legate agli sponsor.Non ho più sentito Florian da quando ci siamo lasciati. So che è ancora a Milano, che si è ritirato e poi è rientrato nel circuito, che si è dedicato

anima e corpo alla preparazione fisica ma la spalla continua a dargli problemi.Vorrei rivederlo ma non ho cuore per sentire la sua voce per telefono, così gli mando un SMS. Lo invito a prendere un caffè. Non passa neanche un

minuto che risponde: “Ok”.Fissiamo in uno dei nostri posti: un baretto non troppo vicino al Circolo e alla nostra ex casa. Ex fidanzato, ex casa, ex “nostro posto”: una scena

da film. Solo che Florian non mi corre incontro abbracciandomi come un vecchio amico, e la tensione non si scioglie in un secondo.Entro e mi siedo a un tavolino, pallida come un cadavere. Sono tesissima, ho la faccia talmente contratta che temo di non riuscire ad aprire

bocca. Vedo Florian arrivare da lontano: è identico, bello come potrei dirlo di mio fratello. Alla fine aveva ragione lui: siamo come fratello e sorella.Si siede di fronte a me senza darmi un bacio, una mano appoggiata sulla spalla, niente. Siamo lontanissimi. Non abbiamo ancora detto niente evedo Florian estrarre dalla tasca un fazzoletto per asciugarsi la fronte. Lo guardo meglio: è sudato manco avesse appena finito di giocare la finaledi Wimbledon. Non è estate, non fa caldo: suda per la tensione. Scoppio a ridere, lui di riflesso. Lo conosco da quando ho sedici anni, troppo perperdere tempo in sudarelle e paranoie.

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Comincio a parlargli della mia vita, dei miei ritmi, delle mie difficoltà. Non scendo troppo nei dettagli, non siamo in confidenza come una volta. Epoi ho paura di fargli male, non vorrei mai ferirlo, di nuovo. Lui mi racconta della sua nuova routine, della sua ricerca di nuovi punti cardinali, del suocambiamento di ruolo nel mondo del tennis. Non parla d’amore ma non mi interessa, non ora.

Scopro che l’amicizia si impara, se c’è una buona base. Io e Florian ci vogliamo bene, siamo cresciuti insieme, è stato il mio primo amore: èemozionante prendere il nostro rapporto, così delicato, e trasformarlo in qualcosa d’altro.

Il caffè diventa una merenda, poi un aperitivo. Ci sono cose da dire.Lo lascio all’ora di cena lì dove ci siamo incontrati, vicino alla macchina, al Circolo, alla nostra ex casa, al nostro ex posto. Con la speranza di

aver seminato bene: odio gli abbandoni e gli addii, vorrei che tornasse nella mia vita, un amico nuovo di zecca.

Compiere gli anni a Bogotá sta diventando un’abitudine.Essere la campionessa uscente mi dà euforia e ansia allo stesso tempo. Le mie avversarie lo avvertono: Katerina Bohmová per esempio, che

incontro al primo turno, è nettamente in soggezione. Man mano che procedo nel tabellone, però, è come se dovessi dimostrare qualcosa, sedovessi arrivare per forza alla finale e vincerla, perché è quello che tutti si aspettano da me. Tiro un sospiro di sollievo quando vedo l’ultima palla diMaria Sánchez uscire dal campo: troppo lunga, out. Sono in finale.

Per ironia della sorte chi è la mia avversaria? Lourdes Domínguez Lino. Mi chiedo se è veramente il 2006 oppure se sono la protagonistainvolontaria di un flashback: è tutto identico all’anno prima. Forse cambiano i completi che indossiamo, ma il clima è quello, il campo è lo stesso,persino il giorno, 26 febbraio, non è cambiato. Ho un anno in più, ecco una cosa decisamente diversa. Sono diciottesima al mondo, ecco un’altracosa diversa. Ok, è il 2006.

Nel primo set è evidente che la Domínguez ha preso la cosa sul personale: vuole il titolo che si è vista sfilare da sotto gli occhi l’anno scorso eper averlo batte come un treno, non sbaglia mezza volta, mi induce all’errore. Casco con tutte le scarpe nel suo gioco e lei vince con lo stessoidentico punteggio che è stato mio l’anno precedente. Non so se ridere o arrabbiarmi: avevo a portata di mano la possibilità di conseguire il mioprimo en-plein vincendo il singolo e il doppio in un torneo W T A. Sarei avanzata nel ranking invece di retrocedere di due posizioni e presentarmi adAcapulco al ventesimo posto.

Come atterro raggiungo Carlos. Nessuno dei due deve giocare il giorno dopo, nessuno dei due sa con certezza che ora sia, nessuno dei dueha la benché minima voglia di pensarci. Il giorno dopo ci svegliamo tardissimo (ora locale). Addio al buffet della colazione, benvenuto roomservice.

Tempo di ordinare che Carlos estrae dal cassetto del comodino una scatolina nera. Una piccola scatolina nera. Di velluto nero.Tuffo al cuore. Tutto il sangue mi si concentra non so dove e mi viene freddo, divento pallida e mi tremano le mani. Penso di avere un mezzo

attacco di panico. Lui mi guarda divertito: «Aprila!».La prendo tra il pollice e il medio della mano destra, lentamente, guardandola come si guardano le cose strane, fragili e inaspettate: attonita.

L’altra tremebonda mano ci mette un po’ a far saltare la chiusura, aumentando il mio senso di inadeguatezza. Per tutelarmi butto lì: «Compleanno,no?».

«Certo» fa Carlos, rassicurante «è per il compleanno, non ti preoccupare...» E ride. Ride, lui, capito? “Sì, è per il compleanno...”. Che scherzisono?

Relativamente calma, riesco ad aprire la scatola: dentro c’è una fedina d’oro bianco con dei brillantini, bellissima. Bellissima e terribile, mi hafatto venire un colpo! Carlos mi prende in giro, e ho il vago sospetto che continuerà a farlo per mesi.

Passo il resto della giornata insieme ai miei genitori. Mi hanno raggiunto per vedermi giocare e, dato che ho quasi dodici ore per me, a parte gliallenamenti, voglio passare un po’ di tempo con loro. Se devo fare altro fortunatamente non si offendono: sono abituati ad avere a che fare con icambi d’umore e le strane esigenze di una tennista sin da quando feci spegnere la luce a mio padre in albergo alle dieci meno un quarto aicampionati Under 16 a Palermo. Sanno che ho bisogno di rispettare una routine fatta di allenamenti in campo, preparazione atletica, fisioterapia econcentrazione. Capiscono e si autogestiscono: uno dei mille motivi per cui sono assolutamente grata loro. Oggi, però, sono quasi tutta per loro.

Nei giorni successivi gioco con Antonella Serra Zanetti e Tathiana Garbin: batto entrambe. Non sono partite facili, ma il match che mi strema èquello con la Sánchez: lo vinco al terzo set, dopo aver perso il primo, lottato al tie-break per il secondo e stravinto il terzo. Per fortuna in febbraio inMessico non si soffoca dal caldo, altrimenti dubito che mio padre avrebbe retto all’ansia per una partita così lunga... Dopo l’incontro con Maret Ani,una tennista estone che naviga intorno al centesimo posto della classifica, sono in finale.

La mia avversaria è la teutonica Anna-Lena Groenfeld, teutonica di nome e di fatto: viene dalla Germania ed è più alta di me di dieci centimetribuoni. Tennisticamente ha un servizio che è una bomba, e infatti le vale il primo set, vinto per 6-1.

La speranza di bissare il successo dell’anno prima incredibilmente non si spegne. Forse perché ci sono i miei, forse perché c’è Carlos. Chi losa. E poi, ha importanza? Decido di cambiare gioco: alta così, provo a farla correre. Questa volta tengo tutti i miei turni di battuta, e al nono giocole faccio break. Evvai. Il secondo set è mio.

Nel terzo sono stremata. La Groenfeld ha capito la mia tecnica e cerca di smontarla a colpi di ace. Non le riesce nemmeno troppo difficile, equesto tipo di gioco è molto meno faticoso di quello che avevo impostato io. Riesco a tenere due turni di battuta e a piazzare qualche punto bello.Salvo la dignità, conquisto tre posizioni nel ranking, mi vesto carina e me ne vado a festeggiare con Carlos e i miei.

A cena mio padre fissa insistentemente il mio piatto, e non riesco a capire perché. Forse i frutti di mare... vai a sapere. Non mi ci interrogoperché nonostante la sconfitta sono spudoratamente felice: molte delle persone che amo sono sedute a questo tavolo insieme a me.

Finché Carlos comincia a darmi di gomito: «Dai, Flavia, di’ a Ronzino perché li hai fatti venire...».Oddio: mio padre guarda la fedina, atterrito, non il piatto!Carlos, sornione, continua a torturarlo: «Dai, digli il vero motivo per cui sono qua. Sono qua perché...» e si ferma.Mio padre è sempre più bianco, mia madre comincia a deglutire con una certa frequenza, io percepisco nettamente un calore diffuso al volto:

probabilmente sono del colore che avevo dopo la finale.«No, papà... è per il compleanno, è solo un regalo...»Ride per sdrammatizzare, ma io lo conosco: lo so che adesso gli ci vogliono almeno un paio di giorni per riprendersi dallo shock.Per fortuna non devo ripartire subito, così ho il tempo che serve per fargli capire che l’eventualità di un matrimonio, parola stregata, è di là da

venire.

Continuo a mantenermi tra la ventesima e la diciassettesima posizione fino alla fine di marzo, quando sono costretta al ritiro a causa di unadistorsione alla caviglia destra. Faccio in tempo a tentare una performance piuttosto deludente ad Amelia Island, dove perdo al secondo turnocontro Elena Vesnina, prima di volare a Nantes: si gioca la Fed Cup.

La criticatissima Coppa Davis del circuito femminile io la adoro: do il meglio quando gioco non solo per me ma per una squadra. Quest’anno il

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gruppo è eccezionale: oltre a me e alla Schiavo, ne fanno parte Roberta Vinci e Mara Santangelo.Sfidiamo la Francia e Francesca vince contro Nathalie Dechy. Io scendo in campo contro Amélie Mauresmo: un massacro, 6-1, 6-1. Il mattino

dopo è la volta di altri due singolari e del doppio. Non voglio giocare, non voglio vedere nessuno né parlare di tennis. Voglio solo stare a letto ed èquello che faccio: rimanere distesa al buio. Quasi non sento Francesca quando entra in camera e mi si butta letteralmente addosso, facendomi ilsolletico e dandomi fastidio per farmi alzare. Vuole che giochi io, non qualcun altro. Scendo dal letto capricciosa e rompiballe, un incrociomostruoso tra la principessa sul pisello e i bambini quando puntano i piedi. La Schiavo non ha tanto tempo per corteggiamenti e lusinghe varie:tocca a lei giocare contro la Mauresmo. Ha deciso che vincerà e vince dopo una partita pazzesca, da guerriera. Vendetta è fatta.

Entro in campo contro la Dechy con la testa tempestata di brutti pensieri: ho ancora problemi alla caviglia, la Mauresmo mi ha stracciato, anchela Dechy mi straccerà, perderò e con me perderanno tutte, l’impresa della Schiavo sarà stata inutile, deluderò le mie compagne, deluderò il miopaese, deluderò me stessa... Tra un palleggio e l’altro guardo nel mio angolo: tutta la squadra e Corrado Barazzutti, l’allenatore, che urla: «Rema!Rema e non sbagliare!». E mi fa segno di tenere duro, con le mani chiuse a pugno.

Me lo ripeto allo sfinimento, come un mantra, e miracolosamente il “Rema e non sbagliare” del CT caccia la confusione, sconfigge le profezie chesi autoavverano e mi accompagna passin passetto alla vittoria. Grazie al mio punto ci guadagniamo le semifinali contro la Spagna.

Quelle semifinali diventano una specie di fissazione nei mesi successivi: gioco sei tornei, due del Grande Slam, e mi sembra che siano tuttepartite preparatorie a quelle che si terranno a Saragozza, in luglio.

Qualche giorno a casa, con Carlos, ed è ora di ripartire per Estoril.Batto la stessa Elena Vesnina che mi aveva fatto fuori ad Amelia Island, approfittando della mia caviglia in condizioni non ottimali. La batto in tre

set, cedendole il secondo ma recuperando alla grande nel terzo. Mi arrampico nel tabellone fino alla semifinale, dove trovo Jie Zheng, testa diserie numero 6. Niente da fare: Zheng prende ogni palla, arriva ovunque. Se la vedessi volare potrei crederci, invece corre. E per di più ha unrovescio potentissimo, a dispetto dell’altezza. Ti sorprende.

Anche Carlos esce in semifinale.Lui giocherà direttamente a Roma, io faccio il giro largo passando per Berlino dove al primo turno mi trovo nuovamente di fronte Martina Hingis.

Entro in campo pensando positivo (o almeno convinta che, remando, posso farcela). Mi piace giocare con la Hingis. È diversa da tutte le altre,sfidarla migliora il mio tennis. Perdo il primo set 7-5, dopo aver conquistato due break point, mentre nel secondo sono costretta alla resa.

Ma non dispero, e faccio bene. Ci rivediamo a Roma, la settimana successiva, ai quarti di finale. Arrivo a lei dopo le vittorie contro KaterynaBondarenko, Catalina Castaño e Anabel Medina-Garrigues: accuso una certa stanchezza ma il fisico regge, la preparazione atletica massacrantealla quale Gabi mi sottopone e gli allenamenti costanti danno i loro frutti. Ci sono, mi sento bene, so che posso farcela.

La Hingis sta bene almeno quanto me: sempre più a suo agio in campo, ha riconquistato la piena forma fisica e la consuetudine al giocoagonistico. Al terzo turno ha battuto Francesca Schiavone: esco dallo spogliatoio sognando una performance come la sua contro la spietataAmelie Mauresmo.

Gioco la mia partita migliore del torneo. Reattiva, veloce, mantengo una concentrazione ferrea finché la Hingis non conquista un break nel terzogioco. Sta cambiando qualcosa e reagisco in attacco. Intraprendenza, però, significa anche avventatezza: porto Martina a sbagliare ma commettoerrori a mia volta. La Hingis risponde con cinismo e decisione ma riesco a tenere i miei servizi. Sul 5-3 annullo un set point, poi un altro, poi unaltro ancora. La Hingis si sta innervosendo, serve decisa, rispondo con fermezza e sbaglia. Quarto set point annullato.

Nel tennis cambia tutto in un secondo. È questione di attimi, di reazioni. La Hingis potrebbe sfiduciarsi, o avere un attacco isterico, o sceglieredi giocare in difesa per non sbagliare, palle lente e da lontano, cercando di indurre me in errore. Oppure potrebbe mantenere buddhicamente lacalma e, con grande autocontrollo, scegliere la migliore tattica di gioco a seconda della situazione. Oppure, ancora, potrebbe arrabbiarsi,incanalare la rabbia in qualche colpo e prendersi il set. Non è mai detto, fino alla fine.

Si arrabbia: serve, rispondo, diritto, punto.Torniamo alle nostre panchine. Quando cambiamo campo non ci scambiamo nemmeno uno sguardo.La Hingis si porta subito 2-0. È ancora arrabbiata. Conquisto il terzo game dopo una lotta furibonda: non molla lei, è il suo servizio e non ne

vuole sapere; non mollo io, è il suo servizio e lo voglio a tutti i costi. È l’ultimo game che riesco ad arraffare.Martina vince la partita e va a prendersi il trofeo.

È di nuovo la fine di maggio. Parto con Carlos per Parigi. Vorrei tornarci per una vacanza, un weekend romantico, invece anche questa voltagiochiamo al Roland Garros. Sono abituata quasi a tutto della vita del circuito, ma non riesco a fare pace con il viaggiare per il mondo e nonvederlo. Sono stata a Parigi almeno quattro volte e non l’ho mai vista: non sono salita sulla Tour Eiffel, non ho visitato il Louvre né il Musée Rodin,Montmartre me l’hanno raccontata.

Carlos è teso: a Roma è uscito al primo turno contro Rafa Nadal, che sta giocando come un dio e prendendo tutto, ma veramente tutto. Non puònemmeno odiarlo in santa pace perché sono amici da anni, il che rende la cosa vagamente frustrante.

Io sono nella parte bassa del tabellone: la mia prima avversaria è Bethanie Mattek-Sands, statunitense. La batto senza patemi d’animo e con unsecco 6-3, 6-1 mi guadagno il secondo turno.

La mia successiva avversaria è Kirsten Flipkens, proveniente dalle qualificazioni. Se vinco contro di lei l’incontro successivo potrebbe esserecon la Schiavo: il bilancio delle nostre partite precedenti è nettamente favorevole a lei (Schiavo 2-Flavia 0), ma sono tentata. In fondo, giocare alRoland Garros con l’amica di una vita ha un suo senso, un qualcosa di avventuroso e crudele che, nel bene o nel male, mi tenta.

Sconfiggo la Flipkens, la Schiavo supera la tedesca Martina Mueller e il 2 di giugno siamo in campo. Ho passato la sera precedente a meditaresul suo gioco, sui suoi punti deboli, sul modo di aggirare i suoi improvvisi cambiamenti di ritmo, la sua rapidità di movimento e l’abilità nel giocosotto rete. Risultato: la mattina dopo sono tesa come una corda di racchetta.

Francesca è una minaccia per me: mi conosce bene, ha visto crescere me e il mio tennis, sa come gioco, quali sono i miei trucchi, quali letecniche che preferisco, come mi comporto quando sono sull’orlo della disperazione. Ed è una macchina da guerra quanto a concentrazione.

So di doverla stupire, così mi vesto di nero. Io in nero, lei in bianco: la rappresentazione mediante completini di un match fratricida. E che match:al Roland Garros, una specie di passaporto per l’immortalità, la competizione che tutte vorremmo vincere.

Francesca entra subito in partita e mi schiaccia nei primi tre game: 3-0 per lei. Non sono passati nemmeno quindici minuti, forse non me nesono neanche accorta. Guardo nel mio angolo e vedo Gabi che cerca di assomigliare a una sfinge, chissà cosa starà pensando. Forse che devomostrarmi solida, forse che sto facendo pena. Propendo per la prima. Mi torna in mente Barazzutti: “Rema e non sbagliare”. Remando e cercandodi mostrarmi solida riprendo terreno: due servizi della Franci diventano miei, due li tengo e la lascio ferma a tre game mentre la supero di uno: 4-3.Mi sembra di aver compiuto un’impresa e comincio a crederci. La Franci si arrabbia: è proprio furibonda, e quando è furibonda fa paura. In pochiminuti di gioco mi toglie il servizio. Male, malissimo: contro break, game e set. Per 6-4 porto a casa il primo set.

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Contro qualche altra tennista potrei pensare che è una mezza vittoria, “dai, ci siamo quasi”. Contro di lei no. La Schiavo è l’incarnazione dellameraviglia e della crudeltà del tennis: fino all’ultima palla, all’ultimo punto, all’ultimo rimbalzo non è mai detta. La conosco bene: seduta in panchinacerco di tirare il fiato, di respirare a fondo e di riposare per quello che posso braccia, gambe e schiena, perché devo tornare in campo e laSchiavo vuole farmi vedere chi è.

Serve lei, tiene il game. Servo io, tengo il game. Il gioco ripassa alla Franci. Imposta un gioco di movimento (mio) e di colpi d’alta classe (suoi).In meno di mezz’ora porta a casa il secondo set. Iniziamo il terzo set con la consapevolezza che o la va o la spacca. I servizi contano pochissimo,giochiamo con colpi potenti e angolati. Francesca mi fulmina un paio di volte da sotto rete, io rispondo da fondo campo, infilandola con il miglioredei miei diritti.

Sul 6-6 sono stanca: mi tremano le gambe e mi fanno male i piedi. La mano che stringe la racchetta è del colore del campo, e al Roland Garrossi gioca sulla terra rossa.

Altrove si disputerebbe il tie-break, ma qui tradizione vuole che si continui a giocare finché uno dei due contendenti non supera l’altro di duegiochi. Continuiamo.

Adoro la pressione che si trasforma in adrenalina, la rabbia che prende la forma di un colpo perfetto. Allora do il meglio.Mi porto sul 7-6: ho due match point a disposizione.La Schiavo annulla il primo. D’accordo, ne ho ancora un altro. Annullato anche l’altro.Ero così vicina. I quarti di finale erano così vicini.Non faccio in tempo a riprendermi dalla sorpresa di aver perso che la Schiavo, galvanizzata, mi manda a gambe all’aria. Porta a casa set e

partita per 9-7. Io mi carico sulle spalle il mio zainetto di rabbia e mi avvio gobba verso gli spogliatoi, a gustarmi la mia stanchezza e lafrustrazione.

Passo un giorno senza voler vedere nessuno. Mi chiedo perché la sconfitta debba essere così atroce, fare così male. Rimango a letto convintache non mi passerà mai. Le telefonate degli amici sono staffilate alla mia fragile autostima, perché un tennista che perde ragiona per aut-aut: conquella vittoria sarei stato felice, avrei vinto il Roland Garros, sarei stato strafelice, sarei entrato nella top ten, sarei stato stra-ultra-felice... Ma nonsarà mai così perché ho perso, se ho perso vuol dire che sono una mezza calzetta, quella partita e solo quella era l’occasione giusta perdimostrare quanto valevo, non l’ho fatto e quindi è evidente che...

Spirali. Le odio, le ho sempre odiate.Rispondo a mia madre nella speranza che non voglia mettere anche lei il dito nella piaga, e poi ho voglia di coccole.Annusa il mio malessere da duemila chilometri di distanza: ma come fa? Come fa a sapere esattamente di cosa ho bisogno? «Tesoro, ti ho

visto, sei stata bravissima. Ci vai domani a fare il tifo per la Franci?» Trucchi da mamme.

A ’s-Hertogenbosch mi fermo al primo turno, a Wimbledon va decisamente meglio. Arrivo ai quarti dopo una partita durissima al primo turnocontro Sandra Kloesel, un secondo turno di tutto rispetto contro Laura Granville e un colpo di fortuna: la caviglia destra di Shuai Peng, che viene dauna vittoria sulla temibile Shahar Peer, dà forfait durante il nostro incontro. La cinese, stoicamente, resta in campo ma la menomazione si fasentire, anche se cerco di non forzare il gioco.

La mia prossima avversaria è una stella, Maria Sharapova. Testa di serie numero 4, prima al mondo non più tardi di due anni fa, la Sharapovafa paura. So che questa volta remare non basta e so che, se voglio vincere, devo sfoderare il mio miglior tennis.

Il giorno prima di giocare per spezzare la tensione vado in un parco giochi. Tutto molto inglese, tranne l’autoscontro. Mi ci butto e boom! controle altre macchinine. La Camerin e il suo allenatore mi guardano soffrendo: «Questa domani deve giocare... Pensa se si fa male!». Fortunatamentenon mi spiaccico troppo e di pomeriggio sono in campo, a lavorare sul gioco a rete e sul servizio. Gabi sviscera i miei movimenti. A un certomomento, visto che non riesco a ottenere quello che vuole dal servizio, si mette alle mie spalle con un cesto di palle accanto: «Se non alzi quelgomito ti tiro una pallata». E fa roteare la pallina gialla e pelosa, lanciandola e riprendendola: sembra John Wayne quando rigira la Colt tra le mani.So che la minaccia non è reale, ma il gomito lo tiro su. È allora che sento una fitta nel fianco: bom! «Flavia, se non sto qua dietro tu sbagli!»

Lo prego di rimettersi esattamente nello stesso posto l’indomani: la Sharapova serve a più di 150 chilometri orari, il mio servizio deve essereperfetto.

Ci siamo incontrate nel 2004, a Indian Wells. Era un secondo turno, avanzò lei e perse un paio di turni dopo contro la Myskina. Giocammo treset, mi presi il secondo e cedetti il terzo. Di quella partita ricordo la lotta, la sensazione di crescere tennisticamente mentre giocavo, l’euforia chemi dava la presenza di Carlos nelle prime settimane della nostra storia. Pensavo di vincere perché lui mi stava guardando.

Prima di entrare in campo riepilogo con Gabi i fondamentali: non pensare al risultato, mostrati solida, concentrati solo sul tuo gioco, cerca diimporre tu il ritmo, corri e prendi anche l’imprendibile, vedi di non farti fregare dal suo servizio.

Il primo set è una guerra: cinque palle break per me nel quinto game, la Sharapova mi strappa il servizio subito dopo. 4-2 per lei: sembra unapartita segnata ma Maria commette due doppi falli. Non uno: due. Break assicurato. Al tie-break sono provata: la Sharapova non ha mollato unattimo, non ha dato segni di nessun tipo di cedimento qualsiasi cosa io abbia fatto. Si assesta rapidamente a 4, io prendo un misero punticino.Penso che sia fatta, finita, che devo considerare concluso il primo set e probabilmente l’incontro quando Maria sbaglia: doppio fallo, una volta, duevolte. Di nuovo. Non ci posso credere: allora è umana anche lei! Mi galvanizzo e riconquisto terreno, infilandola con un colpo imprendibile: 4-4. Orasì, ce la giochiamo. Vince lei 7-5.

È esausta, si vede e ne approfitto. Nel secondo set mi porto avanti 3-0. Serve lei e sullo 0-30 improvvisamente si riprende: ritrova il filo deldiscorso, porta a casa il game e il break in quello successivo. Da questo momento perdo tutti i game nei quali sono alla battuta e sottraggo allaSharapova tutti quelli nei quali serve lei. Sarebbe una sorta di assoluta paradossale parità, ma il vantaggio iniziale gioca a mio favore e vinco ilset, 6-3.

Praticamente si ricomincia da capo, con in più la consapevolezza che questo è il set decisivo. Questa volta è la Sharapova a portarsi avanti:subisco il break al quarto game, a causa di un doppio fallo. Mi mangerei la racchetta e le mani fino a quel maledetto gomito ma non ho tempo.Rimango ferma a 2, mentre Maria sale a 3, poi a 4, poi a 5. Annullo un primo match point e mi aggiudico il game. Ne annullo un secondo ma nonposso nulla sul terzo: Maria vince la partita.

In conferenza le chiedono cosa pensa della Dementieva, la sua prossima avversaria, a me cosa penso di aver perso la possibilità di eguagliareil record italiano appartenente a Lucia Valerio, Laura Golarsa e Silvia Farina, arrivando ai quarti di finale. Rispondo che mi dispiace e penso chedi solito non faccio i conti, non gioco pensando ai record che potrei eguagliare e perdo per strada.

Forse avrei dovuto osare di più, forse avrei dovuto rischiare e portarmi a rete, forse avrei... Odio ripensare alle partite, rimuginare su quello chenon ho fatto e avrei potuto fare. In parole povere odio le sconfitte.

In particolare odierei quelle in Fed Cup.A Saragozza, il giorno prima della partita vado a fare shopping con la Schiavo.

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Citazioni libere dal nostro dialogo. Io: «Fra, non ti preoccupare che domani ti faccio entrare sull’1 a 0». Lei: «Tranquilla, domani entri 1 a 0sopra». Miseri tentativi di darci sicurezza a vicenda.

Il giorno dopo la Schiavo batte Lourdes Domínguez Lino, io Anabel Medina.Il secondo giorno Francesca perde con la Medina, io riesco a portare il punto contro la Domínguez. Saluto il gentile pubblico pensando

parecchio intensamente al trofeo di Bogotá saldamente nelle sue mani e mi gusto la vittoria sorridendo sotto i baffi: il tennis ti dà sempre modo direcuperare, sempre.

È finale.Festeggio qualche giorno a casa con Carlos, prima di ripartire per Palermo. Perdo al primo turno. Passaggio rapido a Brindisi, una due giorni

senza sonno di mamma-papà-sorella-mare-nonna-amici-zii-cugini-parenti ed è già San Diego.Al terzo turno rivedo il mio incubo di quest’anno: Martina Hingis. Stiamo due match a uno per lei, tutti nel 2006. Al momento del nostro incontro

ho giocato una partita in più, lei ha usufruito di un bye al primo turno, quindi sono più stanca. Battere Lisa Raymond prima e Jamea Jackson poinon è stata esattamente una passeggiata.

Parto malissimo, rimanendo nettamente sotto nel primo set. Nemmeno il secondo promette bene, ma se voglio vincere almeno devo provare areagire: vinco cinque giochi di fila e dall’1-3 con il quale la Hingis si stava portando avanti passo a un più ragionevole 6-3. Il terzo set sembra unaburla: Martina mi prende letteralmente a randellate, a dispetto del suo gioco abitualmente tattico e non di potenza. Giochiamo sul cemento equesto la favorisce quanto a velocità e precisione. È troppo efficace perché io riesca a fermarla. Vinco il game dell’onore ma perdo la partita.

La settimana dopo sono a Los Angeles. Scendo in campo contro Bethanie Mattek-Sands. Quest’anno l’ho già battuta a Bogotá e al RolandGarros: non ne ho paura, so di poterla dominare.

Quello che non posso dominare è il mio polso. Comincia a farsi sentire durante l’incontro, ma non lo ascolto e vinco il secondo set. Siamo 1-1 eio sono convinta di poter vincere questa partita e poi di dedicargli tutta l’attenzione che richiede. Niente: non ha pazienza e mi costringe a rovescistentati e a lanci imprecisi alla battuta, costringendomi a cedere al gioco della statunitense.

Esco dal campo pensando a una sola cosa: la Fed Cup, non posso perdere la finale di Fed Cup.Mi butto nelle mani di dottori e fisioterapisti, che mi esaminano con cura e diagnosticano un’infiammazione ai legamenti. Guaribile.Mi imbottisco di antidolorifici e volo a Montréal. Passo il primo turno senza troppe difficoltà contro una ragazza russa, Galina Voskoboeva. La

vittoria mi vale la sfida con Marion Bartoli: decisamente una campionessa.Mi convinco che va tutto bene, il polso sta guarendo e il dolore può essere tenuto sotto controllo. Scendo in campo più aggressiva che mai e

costringo la Bartoli a sudare il primo set. Vince 7-5. Torniamo alle panchine, mi faccio spruzzare del ghiaccio secco. Il polso si fa vivo proprioadesso, che avrei bisogno di una mano in più piuttosto che di una in meno. Ritorno in campo: la Bartoli tiene il suo servizio. Tocca a me e,nonostante la fatica e il dolore, voglio provare a finire questa partita. Il game è mio. Guardo il polso: è gonfio, rosso e fa maledettamente male.Faccio finta di giocare per un altro game ma sul 2-1 sono costretta al ritiro. Troppo dolore, troppo alto il rischio di peggiorare la situazione e doversaltare la finale di Fed Cup.

Con una bella fasciatura me ne torno a Maiorca. Se sto ferma e salto tutti i tornei da adesso fino a metà settembre ce la dovrei fare.I medici la pensano diversamente: dopo un altro giro di visite il verdetto è inappellabile: bisogna operare. Io non ne voglio sapere: devo giocare

quella Fed Cup a qualsiasi costo. Barazzutti mi dà della matta ma mi sta a sentire quando gli spiego il mio piano perfetto: mi faccio fare delleinfiltrazioni di cortisone, gioco, mi opero. Strettamente in quest’ordine. Il coro di no è unanime ma non sento ragioni.

Mi faccio infiltrare il polso a Charleroi, in Belgio. L’infiltrazione è una tortura: infilano un ago lunghissimo e discretamente grosso il più vicinopossibile alla zona infiammata. Lo sento scivolare oltre la pelle, sfiorare le ossa, schivare i vasi sanguigni e attraversare lo strato sottile di carneattorno al polso, per andare a spargere il suo fuoco dove fa più male. Dura il lampo di un minuto: poi il caldo si spande, sento il nocciolo duro didolore sciogliersi nell’abbraccio del cortisone. Prendo la racchetta e faccio due palleggi in aria: Henin, aspettami.

Il pubblico italiano riempie le tribune: l’atmosfera è di attesa, speranza. Guardo la coppa insieme a Francesca, Roberta e Mara. Ci diciamo:«Non fissiamola troppo, non fissiamola troppo che porta male...».

Il primo giorno scendo in campo contro Justine Henin: perdo 6-4, 7-5, ma la soddisfazione di fargliela sudare me la tolgo. Francesca invecemassacra letteralmente Kirsten Flipkens, entrata come seconda singolarista dopo la defezione di Kim Clijsters.

Il giorno dopo il polso mi fa troppo male, non riesco nemmeno a tenere in mano una bottiglia d’acqua, figuriamoci giocare. Barazzutti decide dischierare Mara Santangelo che, dopo un inizio titubante dovuto alla pressione, massacra la Flipkens a sua volta.

La Schiavo ce la mette tutta contro la Henin, gioca benissimo però deve cedere al terzo set.Il doppio Schiavone/Vinci è una mezza sicurezza: Roberta è una grandissima in questa specialità, e con Franci gioca benissimo, credo di non

averle mai viste perdere in Federation Cup. Scendono in campo molto aggressive, finché la Henin non fa un gesto al suo allenatore, indicando ilginocchio. Noi a bordo campo facciamo gli scongiuri... Dopo due game la Henin chiama la trainer e si fa mettere un tape, dopo altri due fa cennoall’arbitro che non ce la fa. Si ferma.

Il pubblico esplode: “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio...”. Abbiamo vinto! Per tre secondi ci siamo guardate interdette: macome? Non abbiamo ancora finito di giocare! Poi ci siamo accodate al coro e alla festa. Il tricolore riempie e colora le tribune, sono tutti in piediche cantano e urlano: “Po-po-po-po-pooo”...

Barazzutti, commosso, viene lanciato in aria dai preparatori fisici, dagli allenatori della FIT, da qualcuno che passa di lì e si ferma perché èitaliano.

La coppa è nostra a trent’anni esatti dall’ultima vittoria. Come si dice? Siamo sul tetto del mondo. È vero, ci si sente così quando fior fior dicampionesse devono alzare la testa e guardare in su per vedere la squadra italiana. Una vittoria di squadra nello sport più singolare della terra:sono così felice che quasi mi viene da piangere.

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Dopo un’interruzione si ricomincia da capo, nel tennis. Proprio dall’inizio. Se ci si ferma per qualche ragione fisica bisogna imparare di nuovo amuoversi in un certo modo, a conquistare lo spazio intorno e a gestire se stessi e quell’appendice utilissima che è la racchetta. Nel mio caso sitratta del polso, quello sinistro: subito dopo l’operazione il fisioterapista mi insegna a muoverlo, come se fossi una bambina che deve fare i primipassi. Mi dà una serie di attrezzi per testare la presa della mano, verifica che esegua gli esercizi nel modo giusto e che sia in grado di controllareautonomamente quanta forza imprimere a ogni singola flessione.

Ci vogliono settimane prima che sia in grado di maneggiare la racchetta in sicurezza. Appena posso corro in campo a fare qualche palleggio.So che l’altra cosa che si perde con una lunga sosta è il feeling. È dicembre e non ho più l’abitudine alla partita, dimestichezza con il gioco “contro”qualcuno.

Ancora, ho perso il rispetto degli avversari: ero sedicesima quando mi sono dovuta fermare, sono scesa al ventottesimo posto a causa di tuttele “assenze”, anche se giustificate. In agosto la tennista che scendeva in campo contro di me sapeva di dover giocare contro una tra le prime vential mondo, ora sa di dover giocare contro una che è stata ferma, si è operata e, probabilmente, ci metterà parecchio tempo a rimettersi.

Carlos fa il possibile per sostenermi, sono io che sono insostenibile. Sono convinta di aver ancora cose da dare, possibilità concrete dimigliorare il mio gioco, ma uno stop di più di tre mesi è una batosta. Ricominciare da capo è la seconda.

Divento diligente e ubbidisco alla schiera di camici bianchi che si occupano di me tra Barcellona e Verbier. Carlos mi coccola, mamma e papàmi incoraggiano, Gabi sfodera tutto il suo senso paterno.

La mia rentrée è un vero disastro: esco al primo turno a Gold Coast, Hobart e agli Australian Open. La prima partita è una disfatta: la Kirilenko miscavalca 6-1, 6-1; le altre due, anche se perse con punteggi dignitosi, sono comunque pessimi segnali: Aiko Nakamura, che proviene dallequalificazioni, mi batte a Hobart mentre Kala Kanepi, settantasettesima al mondo, complice il caldo africano, approfitta delle mie difficoltà e passail turno.

Perdo posizioni in classifica e rimbalzo al trentottesimo posto: un anno di lavoro cancellato, scomparso, annullato. Come se niente fosse.Accuso il colpo e scelgo di tornare a casa: per un mese mi alleno con Gabi a ritmo serrato. Voglio recuperare prima che le mie avversarie

pensino che non tornerò più quella di una volta, e per farlo alla grande devo dar prova di essere la stessa del 2006.Carlos rimane al mio fianco per qualche tempo: è un regalo enorme. Dopo la finale a Sydney fa rotta verso la Spagna e possiamo fare finta che

sia vacanza, che la stagione non sia ancora iniziata, che davanti ci siano solo giorni da passare insieme. Il sogno è reale: parliamo spesso dicome sarà la nostra famiglia, delle facce dei nostri figli, della gioia dei nostri genitori nel vederli, di come gestiremo i nostri impegni, di cosafaremo una volta smesso. Non sono programmi per domani in senso letterale, ma ci sono. E sono importanti, per me, mi motivano a dare ilmassimo adesso perché i miei figli siano fieri di me, perché non voglio dover sottrarre tempo a loro e alla loro cura per rincorrere qualche sfidalasciata a metà. Mi piacerebbe assomigliare di più a mia madre che a una di quelle signore in minigonna che sentono troppo tardi il bisognoinsopprimibile di star fuori fino alle cinque del mattino perché non l’hanno fatto prima. Sarebbe un po’ la stessa cosa: essere vittima dell’illusione dipoter ancora raggiungere un obiettivo o vivere un’esperienza quando si è tragicamente fuori tempo massimo, senza nemmeno vedere l’effettoridicolo che si fa.

Mi impegno per leggere la presenza di Carlos per quello che è – un sostegno – ma non ci riesco del tutto. Una parte della mia testa dice:adesso basta, tutta questa fatica per cosa? Sei una brava tennista ma puoi essere anche altro: una compagna, una mamma, una che tesse i filidella vita. Perché insisti? Cosa vuoi dimostrare? L’altra parte di me vuole che esca dall’empasse e che mi muova, facendo le mie scelte,decidendo per me sola, in uno spazio di autonomia e indipendenza che – la parte dice – è tutto. Perso quello, persa Flavia. Non posso darle torto,a quella parte.

Per Carlos ho trascurato gli amici, la famiglia, la mia terra, il mio tempo libero, le mie serate: parecchio. Suoi gli amici, sua la famiglia vicino allaquale viviamo e che frequentiamo, sua la terra, suo il mio tempo libero, sue le scelte su come passare una serata. Se smetto di giocare a tennischi sono?

Potrei essere una compagna, una madre... potrei reinventarmi e diventare altro.

C’è una disciplina, la kinesiologia, secondo la quale il corpo dà risposte che la testa, presa com’è a discutere con se stessa, non è in grado didare.

A Bogotá è lui a lasciar andare il braccio, il polso, la mano. Il mio corpo non ha più paura del dolore. Ha preso la sua decisione e mi stadicendo: «Devi giocare, sei capace, è la tua strada».

È strano che, da rinchiusi come siamo dentro, seguire il proprio corpo faccia sentire così liberi, così in sintonia con se stessi, con i propridesideri profondi. Il mio, di desiderio profondo, è giocare, provare a migliorarmi, seguire la mia strada e mantenere uno spazio solo mio. Il miodesiderio è non perdermi.

Lascio andare il mio braccio e batto Tatjana Malek, Mariana Duque Mariño, Nathalie Vierin. Arrivo in semifinale. Ne avevo bisogno. La miaavversaria sarà Roberta Vinci. È la mia compagna di doppio in questo torneo ed è mia amica da quando, la domenica, i rispettivi genitori ciscarrozzavano a Bari dal maestro Dell’Edera. Era quell’età in cui un anno solo fa la differenza e lei per me è sempre rimasta “quella piccola”,quella da proteggere, la mia “Robertina”.

Siamo cresciute e Roberta si protegge da sola: mi aggiudico il primo set, poi è il suo turno e incamera il secondo al tie-break. Un altro terzo setalla quarta partita di seguito, più i doppi, è decisamente troppo per la mia condizione fisica e Roberta si impone nettamente, lasciandomi ferma adue game a guardarla vincere prima il nostro incontro, poi il trofeo che, due anni prima, è stato mio.

Arrivo ad Acapulco il giorno dopo il mio compleanno. Mi sento bene, matura, solida, serena.Vacillo solo quando, di fronte ai tabelloni, scopro che al primo turno dovrò affrontare Lourdes Domínguez Lino. Ci siamo combattute le finali di

Bogotá nel 2005 (mia) e nel 2006 (sua), quest’anno abbiamo perso entrambe in semifinale, entrambe contro due italiane: io Roberta e lei TatianaGarbin.

Vorrei poter evitare questa sfida perché comporta un impegno psicologico cui non desidero sottopormi e che, soprattutto, non credo di esserein grado di sostenere. So quanto la testa condizioni il mio gioco: mi piacerebbe staccarmela con tutto il suo centrifugato di pensieri, apprensioni,preoccupazioni, impressioni sbagliate e giuste e, semplicemente, giocare a tennis. Mi piace il tennis, mi stufo a rimuginare, girando in tondoattorno alle stesse quattro cose, che però lì per lì sembrano bombe pronte a esplodere non appena smetto di concentrarmici. Ultimamente stocercando di evitarla cordialmente, la mia testa. Me la porto dietro perché non posso farne a meno, ma cerco di non ascoltarla, di metterla da parte.

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Forse è questo il trucco che mi porta a stravincere contro la Domínguez Lino: due set e meno di un’ora di gioco mi bastano per spedirla a casa.Al secondo turno affronto ancora Roberta. Questa volta vinco, nettamente: 6-0, 6-2. Dopo di lei incontro Alice Cornet e poi Sara Errani: continuo

a lasciar andare il braccio, a seguire il gioco.La finale di Acapulco: è la quarta volta che mi capita, vorrei vincerla per la seconda volta.Contro Emilie Loit scelgo di partire aggressiva, sfoderando da subito i miei colpi migliori: accumulo un bel vantaggio e quando mi assesto sul 5-

2 commetto l’errore di pensare. «Ormai è fatta, dai che il primo set è chiuso...»Non dovrei darmi ascolto: la francese ritrova la concentrazione e mi infila quattro game consecutivi. Il tie-break sarebbe una concreta possibilità,

peccato che io rimanga imbambolata di fronte a cotanta ripresa per quasi tutta la sua durata.Errore mio, e un pessimo motivo per darla per persa.Cerco di cancellare il tie-break dalla memoria e passo al secondo set. Distanzio subito la Loit con un break e mi porto sul 2-0. Lei mi insegue,

conquista un break a sua volta: parità. Mi allungo nuovamente sul 4-2, ma mi sembra di giocare al tiro alla fune quando vedo il punteggio deltabellone salire lentamente verso una nuova parità: 4-4.

Mi prende l’agitazione: voglio la coppa, e se non la vinco?, e se la vinco?, e se poi andiamo al terzo set e non ce la faccio?, e se adesso il polsomi molla? A forza di “e se” commetto qualche errore gratuito di troppo. La Loit, esausta, tira comunque fuori abbastanza forze per rigirare il coltellonella piaga e vince i successivi quattro game. Tutti. Set, partita.

Lei campionessa di Acapulco, io tennista in confusione.

Comincio a giocare male. O, meglio: a non giocare abbastanza bene senza distinzione di clima, torneo, avversaria. Più passano le settimane piùaumenta la mia frustrazione: a Indian Wells, Miami e Amelia Island esco al primo turno, a Charleston subisco la seconda sconfitta consecutiva daparte della stessa giocatrice, Meilen Tu.

In alcuni casi combatto, in altri meno. Stabile, l’impressione di non essere in grado di fare abbastanza. Non a livello fisico, ma a livello mentale.È come se la testa mi abbandonasse e non fosse più in grado di seguire contemporaneamente il suo flusso di coscienza e il mio gioco.

L’unica partita che mi rende orgogliosa di me è quella contro Shuai Peng, per la Fed Cup. Giochiamo a Castellaneta Marina, provincia di Bari:genitori, amici, amici di amici, amici di genitori, tutti a vedermi. Merda. Chiudo un primo, umiliante, set a 0, nel secondo un rigurgito di orgoglio miporta a guadagnare quattro game, ma Peng è in vantaggio per cinque, e sta battendo per il match point: è 40-0. Lì capisco. Non cosa stasuccedendo, ma che se devo scegliere un’unica partita per cui lottare nella mia stagione imbarazzante deve essere questa. Con la forza delladisperazione agguanto Peng e la porto al terzo set, sfiancandola di colpi angolati. Si arrende per dolore alla coscia. Non bello, ma utile: TatianaGarbin ha vinto contro Sun Tian Tian, siamo 2-0, e il mio punto è decisivo.

Ci sarebbe di che festeggiare: la squadra procede al turno successivo. In luglio sfideremo la Francia. Purtroppo, lasciare Castellaneta coincidecon un mio ritorno a corpo morto nella spirale di insoddisfazioni che mi ha così premurosamente accompagnato da inizio anno.

A Estoril perdo contro Gisela Dulko, mia compagna di doppio, con la quale, guarda caso, ci fermiamo al primo turno. Berlino è una Caporettocontro l’ucraina Julia Vakulenko, a Roma non riesco a superare Tatiana Garbin, al Roland Garros Nicole Pratt mi ferma immediatamente.

Quando arrivo a Barcellona la sensazione è quella di essere finita, in ginocchio. La classifica lo rispecchia: sono ottantasettesima, a un passodal precipizio.

Comincio a sentirmi costantemente in bilico tra la fine e lo sforzo titanico che devo compiere per tirare avanti. La tentazione di chiudermi in casaa Maiorca a preparare manicaretti pugliesi per Carlos è forte. È una fuga? Oppure sto bene là, e allora è una mia scelta? Ci perdo il sonno. Con ilquale se ne vanno le energie, quel poco entusiasmo che mi è rimasto, una parvenza di normalità. Mi scordo le cose, ho la mente come appannata,perennemente altrove. Sento benissimo ma devo chiedere a quasi tutti quelli che mi dicono due parole di ripeterle, perché le dimentico nell’esattoistante in cui le pronunciano.

Mi ci vuole un aiuto. In fin dei conti quando ho avuto bisogno di ricostruirmi fisicamente ho chiamato Botton. Cerco un esperto di teste e di caos,un preparatore mentale, e salta fuori Guglielmo. Mi dà appuntamento nel suo studio, arrivo con cinque minuti di anticipo. Varco la porta e mi sentomorire: sono una debole. Sono una di quelle isteriche da film di Woody Allen, che vanno in analisi, sono piene di paranoie e tutto il resto. Comemetto piede nella stanza provo un’istintiva repulsione verso l’arredamento, atto a favorire un clima terapeutico efficace: la poltrona per il paziente,la sedia per il terapeuta, una scrivania con una seggiolina piccola e scomoda davanti. Mi metto lì e mi rifiuto di schiodarmi: io sulla poltronareclinata a parlare della mia infanzia non ci voglio finire.

Guglielmo mi guarda, mi studia, mi fa qualche domanda e decide che, se voglio, possiamo incontrarci altrove: in un parco, in un ristorante, perstrada e fare una passeggiata.

Ok, vada per il ristorante. Ci diamo appuntamento per il giorno dopo. Intorno a uno di quei tavolini spagnoli – quadrati, piccolissimi e carichi dipiattini di tapas – mi fa qualche domanda. Amo così tanto parlare di me, di faccende personali e dei miei pensieri intimi che la tentazione è quelladi dargli il numero di Fiorella e di dirgli: «Ecco qua, lei sa tutto, potete sbrigarvela tra di voi». Suppongo di non essere molto convinta dell’utilità diun preparatore mentale, di base, ma sto talmente male che mi sforzo. E comincio a parlare.

Apprezzo il suo modo di ascoltare, di rimandarmi i miei stessi ragionamenti così che io possa capire da sola quando sto dicendo unascemenza, quando mi sto coprendo con una scusa.

Sarà perché sono italiana, e italiana del Sud, dove la tavola è un rito e condividere il desco ha un significato. Faccio immediatamente posto aGuglielmo.

Ci sono persone che tendono a occupare troppo spazio nella vita altrui: allenatori o preparatori fisici che vogliono mantenere a tutti i costi ilcontrollo, chi se ne frega se poi la giocatrice è in loro potere e senza di loro non è in grado nemmeno di ordinare al ristorante.

Guglielmo mi piace perché non mi sta con il fiato sul collo, mi conosce, sa quando mi può punzecchiare e quando ho bisogno di stare da sola.Imposta con me un rapporto flessibile: ci vediamo fuori dallo studio, niente scadenze fisse, argomenti a scelta. Non mi dice mai cosa devo o nondevo fare, non mi dà nemmeno consigli. Mi accompagna in un percorso solo mio. Che funziona. Alla faccia dei miei dubbi.

Incidentalmente a Barcellona gioco anche a un torneo.Forse per la scossa data dal ranking, forse perché Guglielmo ha un effetto positivo dall’appuntamento numero 2, forse perché sento vicino

Carlos, forse perché sono gli ultimi spasmi di vita di una giocatrice agonizzante... fatto sta che vinco.Vinco contro Conchita Martínez, Tatjana Malek, quella stessa Emilie Loit che mi ha strappato dalle mani la vittoria ad Acapulco e mi guadagno

la semifinale contro Meghann Shaughnessy. Gabi la ritiene “superabile”. Io sono entusiasta, salto letteralmente dalla gioia: ho sconfitto il miofantasma, sono uscita dalla spirale di fallimenti. Carlos è a Maiorca e gli chiedo di venire a vedermi. Ho bisogno della sua presenza, della suaenergia, del suo sostegno.

Non è bravo a dire di no, Carlos. O io non sono particolarmente brava a sentirmi dire di no quando sono convinta che qualcosa mi spetti di diritto,

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in qualche modo. Gli sono stata vicina quando si è fatto male a una spalla, quando ha vissuto sulla sua pelle la stessa mia frustrazione degli ultimimesi, ho passato innumerevoli serate al suo fianco, ad ascoltare e a condividere dubbi e apprensioni. L’ho fatto con tutto l’amore di cui sonocapace, perché lo amo, Carlos, e voglio esserci per lui.

Mi piacerebbe che fosse lo stesso anche per lui, e non sentirmi dire che: “Tesoro, non riesco, sto preparando Wimbledon, non posso perderedue giorni di allenamenti.”

La reciprocità evidentemente manca nel nostro rapporto. Attacco il telefono giurandogli che non c’è problema perché, comunque, del nostrorapporto non posso occuparmi: faccio la tennista e i tennisti giocano.

Il campo centrale mi chiama. Esco dagli spogliatoi ancora furiosa: con la Shaughnessy perché devo giocare e se avessi già vinto o perso potreioccuparmi d’altro, con Carlos perché non è venuto, con me perché continuo a lasciare che il dilemma su cosa sia più mio, cosa conti di più traprivato e professionale non l’ho ancora risolto. La mia testa non l’ha ancora risolto.

E in campo si vede.La Shaughnessy mi prende a pallate nel primo set, lo vince 6-0 e torna alla sua panchina sorridendo. Non è un sorriso maligno, ma io di motivi

per sorridere ne ho decisamente pochi: la odio per quel suo sorriso, per la sua presenza nel gioco, per la sua concentrazione. È il mio specchio:quello che potrei essere io se... se... se...

La rabbia si trasforma in colpi vincenti. Lo stupore per trovarsi di fronte non l’ombra di me che sono stata nel primo set, ma Flavia Pennetta tuttaintera la lascia imbambolata: vinco il secondo set con un più che dignitoso 6-4 e aggredisco il terzo. La Shaughnessy si risveglia quando stoconducendo 3-1 e tira fuori le unghie: comincia a correre forsennatamente, prende tutto, dalla volée a un centimetro dalla rete al rovescio lungolinea che la ricaccia a fondo campo. Mi cascano le braccia. Letteralmente. Lasciavo andare il braccio, e vincevo, oggi lascio andare la partita. Dicolpo mi sento fragile e vittima e faccio quello che si fanno le vittime: del male, trovare motivazioni per stare ancora peggio.

La Shaughnessy vincerà il torneo, io mi produrrò in invidiabili sconfitte nella ridente cittadina di ’s-Hertogenbosch – ai quarti, controun’imbattibile Dinara Sáfina –, nella mitica Wimbledon e a Palermo.

Carlos? Parliamo per qualche minuto, gli chiedo perché, lui mi ripete quello che mi ha già detto, io faccio finta di non arrabbiarmi per la secondavolta.

Ok, mi dico, mentre preparo i bagagli per Bad Gastein, in Austria: è stato uno stronzo. Per una volta è stato uno stronzo, però ci lavoreremo su,magari quest’inverno, in vacanza, con calma. Mi vengono in mente mio padre e mia madre insieme: vorrei diventare così, ma per raggiungerequesto obiettivo – mi dico – bisogna accettare qualche compromesso. Carlos non è perfetto. Stiamo insieme da tre anni ma il tempo trascorsoinsieme è talmente poco che, forse, non me ne sono accorta. Ok, ha fatto così ma non è un dramma.

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25 luglio 2007, devo giocare contro la Cibulková. Prima della partita mando un SMS a Carlos. L’ho chiamato la sera prima ma non mi ha risposto,così gli scrivo: “Ciao amore, ti sei addormentato ieri sera? Gioco tra poco, ci sentiamo dopo la partita, un bacio”.

Risposta: “In bocca al lupo”.Oddio: è successo qualcosa. Qualcosa di grave: Carlos non mi ha mai risposto così. Provo a telefonare: niente, non risponde. Continuo a

pensare che sia successo qualcosa e che lui me lo stia tenendo nascosto.Vado in campo stressatissima, perdo il primo set, la Cibulková va in bagno e io approfitto per prendere il telefono. Lo accendo. C’è un

messaggio: “Quando hai un momento e sei sola chiamami che ti devo parlare”. Oddio. È morto uno dei cani? Sta male qualcuno? C’è stato unincidente?

Torna la Cibulková, continuiamo a giocare, non so come vinco il secondo set, poi perdo il terzo.Finalmente libera dalla partita, brandisco il telefono e mi dirigo in un fazzoletto d’erba vicino al campo. Gabi è in zona, mi guarda ma non si

avvicina. Strano.Carlos finalmente risponde. Non lo faccio nemmeno parlare: «Che è successo? È morto qualcuno? I cani come stanno?».«No, tranquilla, a casa stanno tutti bene, tranquilla.»Meno male. «Allora che cazzo è successo?»«Non ti ha detto niente nessuno, non ti ha chiamato nessuno?»«No, di che stai parlando?»«Eh, sono uscite delle foto mie su un giornale.»Mi calmo all’istante: che scemenza... Carlos in Spagna è un mito e la stampa è agguerrita, è già capitato che sia stato paparazzato.«Ok, che foto sono?»«Sono con una mia amica, una di Madrid che era qui ad Amersfoort in vacanza.»«Sì, ma state parlando? Siete abbracciati? Che foto sono?»«Ci baciamo.»Merda. Un dolore fisico, fortissimo, subito. Gabi che mi guarda da lontano: lo sa, è chiaro. Scopro dopo che Carlos l’ha chiamato al mattino

presto, chiedendogli di sequestrarmi il telefono perché non lo scoprissi prima della partita. Gabi ha cercato di spiegargli che la partita sarebbe undanno collaterale di poco conto, ma Carlos insisteva nel pensare al torneo.

Parliamo al telefono ma non si capisce niente: io piango e lui piange; io gli chiedo chi è lei, lui mi risponde con un nome che chiudo nel cassettocon l’etichetta “T V”; lui dice che è preoccupato, io che, se fosse stato così preoccupato, sarebbe venuto a dirmelo di persona, oppure non sisarebbe messo in quella situazione, dato che, essendo entrambi piuttosto famosi, c’era da aspettarselo che qualche paparazzo sarebbecomparso. Prima o poi.

Gli sbatto il telefono in faccia, corro in hotel, prendo il computer e mi piazzo nell’area W I-FI della lobby a cercare ossessivamente la foto incriminatasu Internet. Gabi cerca di strapparmi il computer di mano, ma io sarei disposta a uccidere per vedere quella foto: sono talmente arrabbiata chenon riesco nemmeno a piangere.

Ci metto un po’ ma la trovo.Lui è il solito, cappellino bianco al contrario e polo, lei è una specie di vedette bionda, capelli lunghi e fluenti. Sono ripresi di spalle, seduti

accanto: lui si gira e la bacia, con gli occhi chiusi.Spengo il computer e vado in camera. Gabi dietro, terrorizzato che possa combinare qualche scemenza. Lo chiudo fuori praticamente sulla

porta.Crollo solo lì dietro. Tre giorni prima avevo sognato di raggiungere Carlos a Umag, in Croazia, e di trovarlo a letto con un’altra. Ero stata

malissimo e mi ero svegliata alle tre del mattino senza riuscire a riaddormentarmi. L’avevo raccontato ridendo alla Camerin.È successo veramente. I dettagli sono diversi ma il succo è quello. Chiamo Maria Elena. Piango talmente tanto che non riesce a capire che

cosa sto dicendo. Cerca di decifrare se c’è un’emergenza, se mi sono fatta male, rotta qualcosa. Se piango dal dolore. Le dico di no, ma non èvero: piango di dolore.

Gabi, impalato davanti alla stanza, mi fa chiamare da Fiorella e dal preparatore fisico. Organizza un tour di telefonate perché ha paura cherimanga sola, che faccia troppo male. Un uomo che mi protegge: doveva essere Carlos, è Gabi.

Il telefono diventa rovente; mi chiamano alcuni amici di Carlos, persino Nadal, per dirmi: «Flavia, Carlos ha fatto una grande stronzata. Non soneanch’io cosa dirti perché non me l’aspettavo...». Vuole tranquillizzarmi a tutti i costi ma non c’è niente da fare. Riattacca solo quando crede diavermi calmata. E in effetti sono più calma: la calma gelida di quelli a cui hanno spezzato il cuore. Non c’è più cuore dentro di me, non c’è piùsangue.

Ho pianto per sei ore e adesso mi sono fermata, di colpo.Faccio pena. Mi butto nella doccia prima di andare a cena con Gabi e altre persone. Non ho fame, ma ho bisogno di una parvenza di normalità.

Cerco di sembrare disinvolta, ma il nodo alla gola mi sta uccidendo. Corro in bagno dopo un SMS della mamma di Carlos: “Sono senza parole”.Cosa dovrebbe dire?

Mi aggiusto la faccia alla bell’e meglio e torno a cena. Mi chiama mio padre ma mento spudoratamente, non so nemmeno perché: vuole saperese sono al corrente dell’uscita di un servizio su Carlos con una ragazza. Sdrammatizzo, dicendo che certo, lo so, papà, ma è tutta una montatura!

Non riesco a mangiare nulla. Rimando indietro i piatti che Gabi mi ha ordinato senza che dovessi dirgli nemmeno “fai tu”.Torno in camera per passare la notte sveglia, a stringere il cuscino e a fissare un soffitto che mi sembra si avvicini ogni ora.È tutto finito. Il mio mondo è imploso: tutto quello che avevo immaginato, programmato e vissuto, la vicinanza costruita giorno dopo giorno con la

sua famiglia, i rapporti con gli amici, la nostra casa arredata insieme... finito. La mia vita, i miei punti cardinali, le mie sicurezze, la mia casa: tuttoscomparso.

La fine di un amore. Non ci credevo. Quando me lo raccontavano non ci credevo. Era vero.Carlos era dentro di me, l’avevo accolto e amato come un compagno, un amante, un amico. Avevo costruito insieme a lui, avevo puntato sulla

solidità della nostra coppia, sulla nostra capacità di essere forti della nostra reciproca indipendenza, fuori dalla gabbia del bisogno di essere vicinitutti i momenti, di telefonarsi sempre a una data ora, di tenere in piedi un rapporto solo sulla base di abitudini precostituite. Eravamo diversi: sicuri,innamorati, felici di rivederci, entusiasti delle reciproche sorprese, disposti a esserci l’uno per l’altro. Eravamo noi.

Credevo. Io.

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Andandosene mi ha portato via l’orizzonte, le stelle e un pezzo di me. Mi sento monca e muta, incapace di muovermi e di parlare, di chiedere.Nulla conta più perché lui non c’è e io non so più chi sono.

Ringrazio come fosse un angelo il primo debole raggio di luce che si infila tra le tende. Ok, posso telefonare alla mia mamma e smettere dimentire. È successo: sta con un’altra. Come ha potuto e perché non lo capisco. Il giorno prima diceva di amarmi e il giorno dopo sono comparsequeste foto in cui bacia tale Carolina Cerezuela.

Piango al telefono con la mia mamma, sapendo di essere capita, che dall’altra parte c’è qualcuno che non ha paura della mia disperazione.Devo andare via, a casa. Avverto la trainer che non posso giocare il doppio e improvviso un allucinante viaggio Bad Gastein-Brindisi. Gabi,

l’adorabile Gabi, mi accompagna e rimane ad ascoltare il mio silenzio. Prendiamo un autobus fino all’aeroporto, da lì un volo, a Roma sonocostretta a noleggiare un’auto perché non ci sono aerei in partenza per Brindisi. Guido i successivi 350 chilometri stando zitta. Un’ameba. Nonmangio, non bevo, non parlo.

Gabi rimane a Brindisi un paio di giorni, tempo di capire che lì c’è gente che mi vuole bene. Mi affida a mia madre e vola a Los Angeles conSania Mirza.

Rimango cinque giorni chiusa in casa. Passo dal letto al divano, inondando tutto di lacrime: cuscini, coperte, mia madre e mia sorella. Miopadre no, mio padre è il punching ball per la rabbia. Osa smontare brutalmente tutto quello in cui ho creduto per anni: «Fla’, io mi sorprendo chenon sia successo prima! Carlos è famoso, è un bel ragazzo, un giocatore di successo, viaggia tanto, vi vedete poco, non era impensabile... Poiconsidera che uno può anche commettere un errore: non vuol dire che se l’ha fatto una volta lo rifarà...».

Più parla più lo odio. «Da che parte stai?!?» Scappo via da quella mezza verità, dal suo strano modo di consolarmi come se fossi una donnaanni Cinquanta: ma sì, è una scappatella, si può perdonare.

Perdo il sonno. Mia madre chiama il medico, che mi prescrive delle pastiglie per rilassarmi, mi raccomanda di prenderle a stomaco pieno e dibere tanta acqua. Non riesco a mangiare ma le pastiglie le prendo lo stesso e mi trasformo nella prova vivente che gli effetti collaterali esistono: misi annebbia la vista, vedo mia madre sdoppiata, perdo l’equilibrio da sdraiata.

Non mi interessa. L’unico pensiero cui do spazio è Carlos. Faccio l’autopsia della nostra storia: ho fatto qualcosa? Ho mancato in qualcosa? Èstata colpa mia? Cerco ossessivamente di darmi una spiegazione, ma non la trovo. Mi chiedo dove sia, cosa stia facendo, se sia con lei.

Mi connetto decine di volte a Internet per scoprire tutto su Carolina Cerezuela: chi è, da dove viene, la sua storia. Più fisso le sue foto piùrealizzo che è il mio opposto, ma uguale alla fidanzata che Carlos aveva avuto prima di me. Sono indistinguibili: sono io a non c’entrare. Lastampa spagnola lo fa garbatamente notare, non considerandomi nemmeno. Il grande campione si è fidanzato con la bella, punto. Prima non c’eraniente: non solo non esisto più, non sono mai esistita.

La faccia pubblica del dolore ti spella. Non puoi selezionare gli interlocutori, perché tutti sanno. Sei bombardato da richieste di interviste,fotografie, domande. I giornali vogliono sapere di più, danno per scontato che tu voglia utilizzarli come mezzo per comunicare, come strumentodella tua vendetta (perché naturalmente ci deve essere una vendetta). Tu vorresti scomparire, che il tuo ormai ex fidanzato scomparisse – con lei,senza di lei, con un’altra... non importa: basterebbe non sentirlo più, non vederlo più.

Carlos però non vuole scomparire. Mi manda degli SMS: dice che è confuso, che non sa cosa fare.“La versione di Ronzino” regge e lui, tronfio, insiste per smorzare la cosa, perché non le dia così tanta importanza. Finché, nel weekend, non mi

chiama Cristina.Cristina: una delle mie migliori amiche, meravigliosa, presente, amorevole e assolutamente contraccambiata. Bionda e bellissima come lo sono

le donne che meritano un dipinto, perché una fotografia non basta. Me lo dice piano, Cristina, perché ha paura di rompermi e che sia troppofragile: «Sono uscite delle altre foto».

Ma va’? Pensavo che fosse confuso, ritirato come uno stilita solo nel deserto a pensare al da farsi. Invece ci pensa al mare, con Carolina, al dafarsi.

Torna fuori la rabbia, e la rabbia è vita, è azione, è esplosiva, non accetta di rimanere confinata nel recinto del mio corpo sempre più piccolo.Mi incazzo. Mi incazzo proprio. E mio padre impazzisce. Perde il controllo. Urla e schiamazza su quanto sia stronzo: «Sa come stai, se ne

sbatte e va al mare? Che si affoghi!». Comincia a preparare comunicati stampa, organizzare conferenze, scrivere alle agenzie: «Lo devo dire atutti quanto è stronzo!».

Prontamente, mia madre lo ferma, dicendo che non riguarda lui, riguarda me. E se nel giro di un mese io avessi deciso di tornare insieme aCarlos, lui sarebbe stato quello che ha fatto casino. «Puoi sentirti male per lei, perché la vedi soffrire e quello che in teoria la dovrebbe proteggeresi sta facendo i fatti suoi, ma tu non devi intervenire, capito?»

Capito. Però deve sfogarsi. Così chiama Lavinia. Altra mia amica che vive a Barcellona. Che ha un padre. Che fortunatamente è lì in quelmomento. E Lavinia, una volta decifrato chi era al telefono, glielo può passare, «così da padre a padre vi capite».

Sfodero tutto il mio self control quando Carlos mi scrive chiedendomi se deve portarmi in America qualcosa da casa. Non è più il tempo dellescuse, del capo cosparso di cenere e della immaginifica creazione di un pietoso epilogo alla nostra storia. Sa perfettamente che nulla torneràcome prima, che io non farò mai marcia indietro. Avrei potuto perdonarlo nei primi minuti: tutto pur di non sentire quel dolore, così intenso, cosìfisico, così acuto. Dopo, no. Sono sola, sono io. Io con il mio male al cuore, con la mia paura di dover ricominciare tutto da capo, io con la miatesta, che deve ragionare da sola, valutare cosa era successo, capire come andare avanti. Tentare di convincermi che ha commesso l’errore diuna sera, cosa vuoi che sia?, peggiorerebbe solo le cose. Non posso crederci: troppe coincidenze in questa storia. Lui ad Amersfoort per untorneo, lei casualmente capitata là in vacanza con le amiche?

Continuo a passare al setaccio la nostra storia: forse c’erano state delle avvisaglie che non avevo notato. Forse era già successo, forse Carlosmi prendeva in giro da anni e io non me n’ero accorta. Forse quella volta che avrebbe potuto accompagnarmi al torneo e non l’ha fatto, forse quellavolta che poteva rimanere e invece è partito. Roba da impazzire.

Forse l’ho talmente idealizzato da non rendermi conto di quello che succedeva, da non volerlo semplicemente vedere. Sospetti, sospetti su tutto.Per fortuna li dirado in fretta: sì, ci vedevamo poco; sì, è bello, famoso e fortissimo; ma con me è sempre stato presente, premuroso, attento. Nonavrei avuto ragione di credere che potesse tradirmi.

Sapevo che le ragazze gli si buttavano letteralmente addosso, ma mi ero sempre divertita ad assistere a queste scene: giovani e lunghefanciulle che facevano di tutto per attirare la sua attenzione e che in discoteca magari sgomitavano per avvicinarsi a lui. Intervenivo solo se vedevoche con qualcuna parlava un po’ di più, mi presentavo, marcavo il territorio, dandogli un pizzicotto sulla gamba da farlo rigirare dal dolore, e me neandavo con grande nonchalance. Lui capiva che era il momento di mettere uno stop e la figliola veniva gentilmente invitata ad allontanarsi.

Un piano perfetto. Quasi. Una volta, una gli stava raccontando non so cosa da venti minuti, pensando di pizzicare la gamba di Carlos presiquella di un suo amico lì accanto, che saltò sulla sedia e mi disse: «Adesso ho capito come funziona!».

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I suoi amici mi adoravano per questo: le loro fidanzate rischiavano il tracollo pur di vigilarli, mentre io rimanevo solo se ne avevo voglia, se miveniva sonno me ne andavo, senza farmi troppe paranoie.

Avrei dovuto farmi più paranoie? Sì, no, forse. Chi lo sa. Non credo che sarebbero servite. Quelle paranoie. Chi ha bisogno di più spazio finisceper prenderselo, in una maniera o nell’altra. Magari avrei potuto essere un po’ più attenta, meno fiduciosa, ma non penso che sarebbe andatadiversamente.

Anche perché le cose tra noi andavano alla grande. Il giorno prima che uscissero le foto abbiamo seguito a distanza il MotoGP: tifospudoratamente Valentino Rossi e abbiamo passato un’ora al telefono a gufare Pedrosa e Stoner e, tra un giro e l’altro, a dirci smancerie.

Forse chi si è perso non è Carlos, ma io. Lui è un bastardo, niente da dire, ma io se ho commesso un errore è stato dedicarmi troppo a lui elasciar andare me stessa per fare spazio. Avevo costruito una realtà riempita totalmente di Carlos: gli amici erano quelli di Carlos, la casa eradove voleva Carlos, la famiglia che frequentavo era quella di Carlos. Persino la lingua era quella di Carlos. Carlos è agonisticamente in difficoltà?Ok, io ci sono. Carlos vuole andare a mangiare fuori? Sono stanca morta ma d’accordo, via, fuori al ristorante. Carlos sta giocando allaPlaystation e non ne vuole sapere di accompagnarmi a una partita, una cena, un aperitivo? Ok, pazienza, resto a casa.

Ho messo da parte tutto per assecondarlo. Se conto le volte che l’ho fatto, probabilmente viene fuori un numero in sé ridicolo, ma enormerispetto al tempo che abbiamo passato insieme. Pensavo che quelle poche volte che ci vedevamo fosse bello stare vicini, condividere tutto quelloche la nostra professione ci consentiva. Così avevo chiuso la porta a Flavia e aperto alla simbiosi.

Dopo tre anni così mi sentivo arrivata: una donna fatta e finita, pronta per lasciare e mettere su famiglia. Balle: ho venticinque anni e moltissimoda dare.

Per Carlos mi sono allontanata dall’Italia, dalla mia famiglia, dai miei amici. La mia passione è stata lui, mi sono data totalmente, e ho persol’equilibrio.

Devo ritrovarlo. Devo ripartire da lì.Sono senza fidanzato, senza casa, senza sogni, senza progetti.L’unica cosa certa è tutto il lavoro fatto per arrivare così in alto nel circuito. Gioco da quando ho cinque anni, me ne sono andata a quindici per

cosa? Per rimanere sul divano a soffrire per un bastardo? Mai.Finalmente, la cosa giusta. Finalmente io, finalmente il mio braccio, o quel che ne rimane, di nuovo libero di muoversi.È tempo di valigie. Vado in America a riprendermi la mia vita.

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11

È l’inizio di agosto quando atterro a Los Angeles. Al Circolo, Gabi mi individua da lontano, ma non mi riconosce. Mentre mi sto allenando, sentoaddosso uno sguardo. Mi giro e lo vedo. Vorrei andargli incontro e ringraziarlo, perché in tutto quel casino c’è stato. Vorrei dirgli che ho voglia ebisogno di riprendere a lavorare presto, e chiedergli in prestito un po’ del suo entusiasmo. Mi blocco quando capisco che non risponderà al miosorriso perché non è certo di chi io sia. Si avvicina incredulo: «Flavia, ma mangi? Quanti chili hai perso?».

«Non lo so...» Non lo so davvero. Mi guardo, dall’alto in basso, senza specchio, in campo, per la prima volta dopo che Carlos mi ha lasciata.Fa caldo, gli altri tennisti sudano anche da fermi. Io non lo sento. La pelle è miracolosamente attaccata alle ossa, ma forse sarebbe meglio dire

“appesa”. Se dovessero infiltrarmi il polso adesso dubito che potrebbero scansare l’osso: non c’è niente intorno. Niente. Mi guardo la spallaaspettandomi di vedere una curva, invece c’è uno spigolo. Non capisco come le caviglie possano reggermi: forse mi reggono le scarpe, se letolgo cado.

Peso dieci chili di meno. Sono brutta, secca, provata. Non capisco da dove prendo le forze per stare in campo.Tennisticamente devo ricominciare da capo. Di nuovo. Non ho feeling, fatico a entrare in partita, le avversarie mi vedono e non capiscono chi

hanno davanti. Potrebbe essere un punto di forza, ma sono così debole che devo puntare tutto sulla tattica: non sono in grado di giocare dipotenza. La mia esplosività, che ha fatto di me quella che sono stata – una tra le prime venti al mondo – è scomparsa.

A Los Angeles scendo in campo contro Madison Brengle, che mi supera senza fare una piega.A Toronto passo il primo turno, poi perdo malino contro Patty Schnyder.A New Haven non centro nemmeno la qualificazione. Lascio la partita a Matilde Johansson e il posto alla bulgara Olga Govortsova. In doppio

arrivo al secondo turno in coppia con Bryanne Stewart, poi cediamo il passo a Iveta Benešová e Bethanie Mattek-Sands.Mi arriva una e-mail di Carlos: “Sono confuso, non so cosa voglio” eccetera eccetera. “Vediamoci.” Cosa? Non rispondo nemmeno. La mia

analisi l’ho già fatta.Parto per gli US Open con una gioia: arriva Giorgia. La mia sorellona sta scappando da Brindisi per raggiungermi. Dice che mi porterà a fare

shopping, che ci meritiamo qualche giorno tra sorelle. Amo le persone che ti aiutano senza farti notare il perché.Carlos irrompe prepotentemente nel nostro programma women only con un SMS: “Ti prego, vediamoci, ho bisogno di parlarti”. C’è un secondo

livello di lettura, questo: non sapendo quale sarà la tua reazione nel rivedermi, temendo scenate o brutte figure al Circolo, in mezzo a tutti, vedercida soli, prima, potrebbe essere una brillante soluzione.

Farei anche a meno: rispondo che la situazione per me è molto chiara, dato che sta con un’altra. Battibecchiamo sulla sua “confusione”: per menon esiste, lui mi assicura che, invece, è molto disorientato. Ok. “Passa da me.”

Giorgia vince la straordinaria possibilità di trascorrere qualche simpatica ora tra la hall dell’albergo, Starbuck’s e le varie ways nei dintorni,mentre io, di sopra, ascolto Carlos biascicare le solite cose, anche se non c’è niente da dire: «Sono uno stronzo», «Non so cosa voglio», «Flaviatu ti meriti di meglio»... Certo. Si aspetta che pianga, che lo picchi, che faccia una scenata. Non capisce e mi guarda interrogativo: «Insultami,dimmi qualcosa!».

«Se ti insulto, ti schiaffeggio, cosa cambia? Niente cambia.»Non mi conosce abbastanza bene. Ho pianto tutti i giorni da quando mi ha lasciata, tutti. Ma per questa occasione ho raccolto ogni briciola di

energia per essere gelida, distaccata, per non tradire l’ombra di un’emozione. Per non fargli vedere quanto male mi ha fatto. Lo guardo e pensoche non è più mio, che si è trasformato: è un altro, uno che mente, uno con il quale non voglio più condividere il futuro.

È finita. Per sempre. Carlos lascia la mia stanza stravolto alle sei del mattino. Passando, finisce per svegliare Giorgia, addormentata su undivanetto della hall, e le dice, in italiano: «Tua sorella è una grande».

Agli US Open batto Shuai Peng: io ottantatreesima nel ranking, lei quarantasettesima. Cedo il primo set per poi risollevare le sorti dell’incontro epassare il primo turno.

La mia prossima avversaria è la ceca Nicole Vaidišová. Perdo, ma gioco bene: sento la partita, ritrovo il ritmo, sono presente, concentrata elucida. Sento un dolore intimo, costante, ma lo supero nel momento in cui attraverso il corridoio che dagli spogliatoi porta in campo.

Il prossimo torneo è Kolkata, a metà settembre. Giorgia mi aiuta a decidere che posso permettermi qualche giorno senza allenamenti. Facciorotta verso Milano: Florian mi ha vista in televisione magra stecchita, si è preoccupato e mi ha chiamato per dirmi: «Sono a Milano con StefanoTarallo, vieni qua due o tre giorni... Stiamo un po’ insieme, ti coccoliamo...». Mi piacerebbe. Florian e Stefano: due amici di Flavia. Prenoto ilbiglietto per l’indomani.

Sto preparando le valigie quando mi arriva un messaggio di Carlos. Un altro. “Stai per partire? Io mi sono fatto male alla caviglia, non possogiocare, potresti passare al mio hotel? Ti devo parlare.”

Penso: “Di nuovo?”. E rispondo: “Sei sicuro?”.Insiste: “Per favore, ho bisogno di parlarti”. Scelgo di andare anche se sono stufa di pensare a lui, a me e lui, a noi due insieme, a noi due

separati, alla casa che non abbiamo più... Basta. Che stanchezza.In camera incontro il suo fisioterapista, che conosco perché lavora anche con me qualche volta. Quattro chiacchiere e ci lascia soli: io seduta

sulla scrivania con i piedi ciondoloni, lui sul bordo del letto, la schiena curva e le mani incrociate.Comincia a intavolare gli stessi identici discorsi della volta scorsa, ma questa volta lo fermo: non ce la posso fare. Carlos, pietà. Così, se non

altro, arriva al punto: «Volevo sapere cosa farai, dove andrai...».Eh? Non sono più tornata a Maiorca, naturalmente, quindi tutte le mie cose sono ancora là. Decido di sfruttare questa occasione per

confrontarci su temi pratici, dal momento che non ho nessuna intenzione di tornare nella nostra ex casa.«Carlos, senti: io a Maiorca ora come ora non ci torno. Quindi possiamo fare così: preparami o fammi preparare un bel pacco e me lo

spedisci.»«No, dai aspetta... Perché devi fare così?»«Perché dovrei lasciare delle cose lì? Per favore, spediscimi tutto. Quando arrivo in Spagna o in Italia ti faccio avere l’indirizzo.»«Ma adesso dove vai, che fai?»«Non ti deve interessare, Carlos, dove vado e nemmeno cosa faccio...»«Ma io mi preoccupo...»Si preoccupa?! Soffoco una mezza risata (sarcastica) ed estraggo il mio miglior tono piccato: «Ti preoccupi adesso? E prima?».Trattengo le parole che mi scappano di bocca, perché non voglio parlare di nuovo di come sono dimagrita, della figura di merda in

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mondovisione che mi è toccata, della sofferenza che mi consuma da dentro come un’erbaccia che non so come estirpare.«Volevo dire che se hai bisogno di andare a Barcellona puoi stare nel mio appartamento...»È troppo. Mi menti, mi tradisci, mi molli, mi infliggi questa sofferenza e hai bisogno di sentirti buono e gentile e comprensivo perché hai

provveduto a me anche se non mi volevi più e mi hai piantata a metà del viaggio, lasciandomi senza amore, senza casa, senza prospettive, senzaniente? Non esiste.

«Solo come punto d’appoggio finché non ti sei organizzata.»Mi ci vuole tutto il mio self control per ricordarmi che, per quanto bastardo, non è un sadico. L’intenzione è quella di rendersi utile, di partecipare

al riordino del caos: si rende conto che per lui tutto rimane identico, mentre quella che non sa più dove vive sono io. Ma non esiste.«No Carlos, ti ripeto: tu vai a Maiorca, impacchetti le mie cose e io quando mi sono sistemata ti mando l’indirizzo al quale spedirmele.»

Due giorni dopo sono a Milano, ospite di Florian e Stefano. Hanno deciso che devo mangiare, ma non semplicemente mangiare: mangiare bene,così mi ingolosisco e mangio tanto. Hanno studiato un itinerario gastronomico ipercalorico: trascorriamo le giornate a spostarci da un ristoranteall’altro, loro due ormai obesi per darmi il buon esempio, io ancora schifiltosa e lievemente disgustata. Che amici, però: una sera mi portano inpizzeria e mi obbligano a rimanere seduti a tavola finché non finisco la margherita che ho nel piatto. Quando mi alzo barcollo: il mio stomaco non èpiù abituato a mangiare così tanto. Mi sento sazia e coccolata come una bambina piccola.

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12

Da Milano faccio rotta su Barcellona: ho bisogno di una parvenza di normalità. Mi rifugio in casa delle tre migliori amiche che possano esistere:Fiorella, mia cugina, che abita con Cristina e Lavinia. Sono i miei angeli, la mia sponda, la mia famiglia. Sono quanto di più simile a una casa ioriesca a immaginare in questo momento. Infatti è l’indirizzo della loro casa che comunico a Carlos perché mi mandi le mie cose.

Suono il campanello, Lavinia mi apre e non mi guarda nemmeno in faccia, si limita a prendermi tra le braccia. Cristina, lì accanto, fissa incredulail mio braccio e le dice: «Mamma mia, questa è solo ossa!».

«Ci pensiamo noi» decidono, scambiandosi uno sguardo d’intesa che assomiglia tanto a un abbraccio di quelli belli.Oddio, un altro tour gastronomico: aiuto. Adduco qualche scusa, «ma come, a Milano ho mangiato come un maiale», ma non c’è niente da fare.

Mi hanno preparato una camera e si sono organizzate per ingozzarmi, anche se loro lo chiamano “rimettermi in forma”.Non me lo confesso, ma ne ho parecchio bisogno.

Da Barcellona volo a Mosca, per la finale di Fed Cup. In luglio le ragazze hanno battuto di nuovo la Francia. La Schiavo è stata straordinaria: habissato la vittoria contro Amélie Mauresmo, poi è passata a Tatiana Golovin, la russa di Francia, e ha sconfitto anche lei.

Il 15 settembre all’Arena Lužniki ci danno sfavorite. Ci sta: le nostre avversarie sono la Kuznetsova, la Čhakvetadze, la Petrova e la Vesnina.Barazzutti sceglie le singolariste: Schiavone, Santangelo.Sappiamo perfettamente che molto dipende dalla prima giornata, che le prime due partite sono fondamentali per imprimere l’andamento giusto

alla finale, perciò siamo tesissime.Mi arriva un messaggio di Carlos: “Mucha suerte”. Rispondo: “Grazie”.Il giorno dopo la Schiavo non parla fino alla fine della competizione. Mara fa più o meno la stessa cosa, si concede solo qualche scongiuro.Il match con la Čhakvetadze inizia alle due, dura il tempo che la russa realizzi che la Schiavo la sta massacrando. A quel punto rimonta, rimonta

in una maniera inarrestabile, come fanno solo le giocatrici che militano in una squadra. E vince. Merda.Mara entra in campo contro la Kuznetsova e viene brutalmente presa a pallate, portando a casa un totale di tre game. Il risultato finale è 6-2, 6-1.La sera è chiaro: vinceranno loro.Il giorno dopo la Schiavo fa sudare in ogni maniera il punto alla Kuznetsova, ma non riesce comunque a fermarla.Il tabellone recita 3-0 per loro quando Mara si appresta a sfidare Elena Vesnina. Con un’invidiabile concentrazione rimane in partita per tutto il

tempo necessario, solida e tenace, ma la Vesnina ormai si sente la vittoria in tasca, sente il freddo metallo della coppa tra le mani, vuole esserelei, quest’anno, sul tetto del mondo.

Da Mosca ce ne andiamo mogie e depresse, ciascuna verso la sua prossima destinazione, senza nemmeno il tempo di rielaborare la sconfitta.Questa brucia di più, è una ferita che ci riguarda tutte, che dura un intero anno, che per essere medicata richiede innumerevoli incontri.

Non ho nessuna voglia di ripartire da me, da quella me sola e vittima che non mi abbandona e che trova ogni buona occasione per spuntare erichiedere la mia attenzione. Non ne posso più di pensare a Carlos, di ricevere telefonate di persone che mi dicono che purtroppo non vorrebbero,ma sai com’è, se poi lo scopri da qualcun altro..., e quindi sono così premurosi da avvisarmi, mentre sono letteralmente dall’altra parte del mondoa tentare in ogni modo di ignorare la questione, che Carlos è andato al mare con Carolina, a ballare in discoteca con Carolina, a fare shopping incentro con Carolina, a cena in un bel ristorante con Carolina...

A Kolkata, immersa in un caldo soffocante che toglie il respiro oltre alla voglia di compiere movimenti anche minimi, realizzo: basta. Adessobasta. Chi se ne frega di Carolina. Chi se ne frega di Carlos.

Arrivo ai quarti battendo una ragazza indiana, Tara Iyer, e l’uzbeka Agkul Amanmuradova: due vittorie pulite, semplici, sudate più per il settantaper cento d’umidità che per la tattica delle avversarie. Le ho dominate. Finalmente. Un buon motivo per essere fiera di me.

La mia prossima sfidante è Marija Kirilenko, e qua le cose si complicano. La Kirilenko è l’artefice della disfatta con la quale ho inauguratoquesto irripetibile anno a Gold Coast. Non ero granché in forma, al tempo, ma non posso non pensare che lei non abbia contribuito a lasciarmiferma a un game per set. Come tutte le russe ama il gioco di potenza, fatto di colpi veloci e ben piazzati. Il cemento è la superficie ideale perquesto.

Il giorno prima dell’incontro mi arriva un nuovo SMS di Carlos, che recita più o meno: “Sono contento che stai giocando meglio, complimenti, inbocca al lupo per domani”.

Non rispondo. Perché, mi chiedo, devi lavarti la coscienza complimentandoti per i miei risultati? Io dovrei darti corda e rinfrancarti, ringraziandotiper il gentil pensiero? Non se ne parla neanche. Sinceramente, vaffanculo. Con tutto il cuore, proprio.

Vediamo: più di quattro ore di fuso. Niente, non posso ancora chiamare Cristina per sapere se sono arrivati da Maiorca i pacchi con le miecose. Impegno la successiva mezz’ora scrivendo mail a lei, ai miei, ad altri amici. Cerco di dedicare alle persone che mi sono vicine più tempopossibile, compatibilmente con il tennis. Avevo una rete immensa formata da amicizie sostanziose, con persone che riconosci anche se le vediuna volta all’anno, alle quali hai cose da dire pur non condividendo la stessa routine. Sono stata così astuta da metterle da parte per tre anni:vedevo solo Carlos, frequentavo solo chi andava a Carlos, passavo il mio tempo libero solo con Carlos. Che cretina. E Carlos nemmeno mimanda le mie cose.

Il giorno dopo la Kirilenko mi sconfigge brutalmente: non saprei dire se più per il caldo e l’umidità, perché è una giocatrice in forma migliore dime, perché al mattino ho letto la risposta di Cristina, “no, per te non è arrivato niente”. Una volta intascato l’ennesimo 6-3, 6-1 di questo annomirabolante, posso finalmente occuparmi della mia roba.

Roba = vestiti per tutte le stagioni, borsette, scarpe, cappelli, cinture e accessori, regali ricevuti da genitori, amici e sorella per gli svariaticompleanni trascorsi a Bogotá e i Natali a Brindisi, completi da tennis, racchette, tape, nastri, corde, sacche, palline, pesetti e attrezzi da palestra,cd, qualche libro e tante guide per quando vedrò il mondo davvero, apparecchi elettronici di varia natura, oggetti d’arredamento, un’automobile, labicicletta, il computer, prodotti di bellezza, per il bagno, per i capelli, asciugamani, accappatoi, volendo anche le lenzuola che avevo scelto contanta cura, ma quelle e tutto il resto che ho comprato per la casa può pure tenerselo. Le altre cose no.

Telefono a Miguel, un amico comune che vive a Maiorca e gli chiedo una grande, enorme cortesia: «Per piacere, siccome Carlos non mi mandale mie cose, puoi farglielo presente tu? Gli ho già scritto l’indirizzo, ora lo do anche a te, così vado sul sicuro, puoi aiutarmi?».

Miguel, praticamente un santo, mi promette che assolutamente se ne occuperà lui.Perfetto.Parto per Seul un po’ più tranquilla, sapendo di essere in buone mani.Sbircio l’Asia dal finestrino dell’aereo. Rimbalzando da un Circolo di tennis all’altro non me ne ero quasi resa conto: sono veramente dall’altra

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parte del mondo. Per una volta, mi sorprendo ad amare la solitudine. È un’occasione per pensare, per ritrovare un centro di gravità. Permanente omeno, poco conta: mi basterebbe affittarne uno per qualche settimana, tempo di ritrovare un orizzonte, un sogno, un indirizzo.

Voglio prendere questa distanza e metterla tra me e Carlos, la spedizione delle cose, la nostra storia andata a rotoli, le foto sue su tutti i giornalicon l’altra ragazza. Basta così.

A Seul la decisione si rivela quella giusta: volo in semifinale.Il sorteggio mi favorisce e la mia prima avversaria è Akiko Morigami, una giocatrice giapponese che naviga attorno all’ottantesima posizione.

Considerando che avrei potuto trovarmi subito contro Venus Williams o, forse peggio, la temibile Marija Kirilenko, mi è andata bene.Battuta Akiko, scivolo senza troppi problemi oltre i successivi due turni, contro Pauline Parmentier e Ayumi Morita. In semifinale trovo Venus

Williams. Nella parte bassa del tabellone sta avanzando minacciosamente Marija Kirilenko: delle due l’una.Venus, dunque. Enorme, spaventosa, fortissima. Una leggenda. E un muro.Perdo e perdo male, incredula di fronte alla scarsità del mio gioco. Anzi: quale gioco? Venus mi bombarda di palle a duecento all’ora, sono più

quelle che non prendo di quelle che riesco a ribattere. Quando, raramente, capita, cascano spesso prima della rete o fuori dalle righe.A conclusione del disastro esco dal campo gobba per l’umiliazione. La sera controllo le e-mail di sfuggita: mamma, spam, Giorgia, Potito,

lavoro, lavoro, lavoro, spam, Florian, lavoro, lavoro, Cristina, Miguel. Clicco su “Cristina” e leggo che va tutto bene, bla bla bla, l’amore bla bla bla, illavoro bla bla bla, la palestra bla bla bla, Lavinia, Fiorella bla bla bla e bla e bla e bla e “i famosi pacchi non sono ancora arrivati, vuoi che facciaqualche cosa?”.

Mi girano le palle che non ho. Richiamo Miguel, furibonda, perché è passata più di una settimana e secondo me una settimana è sufficiente, senon per inscatolare e spedirmi i vestiti, almeno per mandare un SMS dicendo: “Me ne sto occupando. Stop. Carlos”.

Miguel alza la cornetta nella sua beata tranquillità e nel giro di pochi secondi viene catapultato nel terribile mondo di Flavia, al momentopopolato da mostri che non mollano le cose altrui, costringendo quegli stessi altri a continuare a tenere in vita un rapporto ormai defunto.

Mi spiega che ha parlato con Carlos e che gli ha fatto presente l’urgenza più di una volta. Giura che gli riparlerà e tenta una debole difesabiascicando frasi come “sai, è sempre fuori... sai come va la vita di voi tennisti...”. Benissimo. Non ho voglia di discutere intavolando una bellapolemica sul fatto che quando si vuole fare qualche cosa il tempo si trova, visto che continuano a uscire foto di loro due a destra e a manca, emollo l’innocente Miguel facendomi giurare che riferirà a Carlos che sono veramente arrabbiata e che veramente sta passando il segno.

A Tokyo comincio a vincere. Trasformo l’incazzatura in gioco, in bel gioco, e vinco.Per Ahsha Rolle non ce n’è, Abigail Spears deve fermarsi al secondo turno, contro Sania Mirza chiudo 6-4, 6-4. Sono soddisfatta: sono tutte

partite vere, partite giocate, partite che richiedono uno sforzo, movimento, sudore e fatica. Mi gratificano, il sudore e la fatica. Mi gratifica correre,studiare la tattica migliore in un secondo, inventare linee e geometrie, mantenere alta la concentrazione per ore e sentirmi esausta subito dopo. Insemifinale incontro Virginie Razzano, francese dal fenomenale rovescio a due mani. Di lei ho paura, ma anni di esperienza mi hanno insegnato lasublime arte della dissimulazione: fingo di essere sicura, colpisco la palla in modo netto e preciso. Crescono i game a mio favore e comincio asentirmi sicura di me per davvero. La Razzano, al contrario, sta cedendo a una crisi: lo capisco dal suo linguaggio corporeo. Mi lascia il primo setper riprendersi sul secondo: diventa aggressiva, cerca di dettare il ritmo e di assumere il controllo. Cedo il set alla sua prima di servizio, ma nonsenza lottare. Chiudiamo 7-5, entrambe con la consapevolezza che il terzo set, quello decisivo, sarà duro. La Razzano alza la posta: ci mette latesta, io l’esplosività. Scelta sbagliata: cado nella trappola degli errori gratuiti. Gli errori gratuiti deprimono, e fanno anche un rumore cacofonicoquando la palla rimbalza in malo modo sulla racchetta. Dopo un certo numero di “out” perdo lucidità: la Razzano vincerà. Ne sono talmente sicurache succede, e in effetti nessun altro a parte me avrebbe potuto fermarla.

Una volta negli spogliatoi ripenso alla partita e mi mangerei il cappello, come Rockerduck.Gabi mi dice che sì, ho perso, ma sono un’altra persona rispetto a inizio anno, un’altra rispetto ad agosto.Dopo la Fed Cup ho giocato tre tornei: per una volta sono arrivata ai quarti, per due in semifinale. Quando ho perso, l’ho fatto lottando, non ho

mollato il colpo lasciandomi travolgere. Sono furibonda ma non posso dargli torto. È un buon risultato. Sono stata brava.

A quanto pare anche Carlos è dello stesso parere.Mi scrive una e-mail e si complimenta per come sto giocando, dicendosi felice dei miei risultati. Si scusa tanto perché non riesce a controllare

la situazione: Carolina, lavorando in TV, è sempre al centro dell’attenzione e lui non sa come fermare i paparazzi.Povero, quasi mi commuovo.Nella riga successiva insiste sulla sua confusione, dice che non sa che fare, che tutto quello che mi ha detto a New York è vero. Infine, la mirabile

chiusura recita che vorrebbe tanto spedirmi le mie cose ma ha perso l’indirizzo, “puoi rimandarmelo?”. Poi mi chiede se possiamo sentirci perchéci sono superiori “questioni pratiche” che dovremmo sistemare. “Per favore rispondimi.”

Ma certo, una risposta non si nega a nessuno:

“Il tempo delle spiegazioni è finito. Puoi fare quello che vuoi, la vita è tua e non devi giustificarti con me per come la gestisci, quindi smettila.L’indirizzo è il seguente: Avenida... Gli aspetti pratici secondo me si riassumono nella spedizione. Se manca qualcosa te lo farò sapere.”

Mucha suerteFlavia

Schiaccio invio e mi dico: “È finita per davvero”.So già cosa sta succedendo, lo conosco: Carlos paradossalmente crede che il suo continuare a scrivermi, a complimentarsi, a essere presente

possa servirmi come “aggancio” in un momento in cui ho perso tutti i punti di riferimento. Quindi si fa vivo, credendo di fare la cosa giusta, di fare ilmeglio per me.

Peccato che io debba smettere di sentirlo per stare meglio. Ho bisogno del suo silenzio, che mi ignori e mi dimentichi, non che continui ainsistere con questa storia della confusione, con “questioni pratiche”. Basta. Non ho più riferimenti, appunto: un ottimo motivo per trovare qualchepunto fermo esterno a lui.

È ottobre quando atterro a Bangkok.La sera prima che il torneo cominci gli organizzatori tengono una festa di inaugurazione al Circolo. Queste feste, soprattutto in Asia,

assomigliano in modo inquietante ai balli della scuola così come sono ritratti nei film di infima categoria: poche ragazze stufe, che non siconoscono tra loro, un angolo con palchetto per il karaoke, un altro con band che si produce stonando in successi degli anni Ottanta. Il tavolo delbuffet non è male, ma nemmeno particolarmente invitante. Il fatto è che, se non devo compiacere nessuno, continuo a mangiare poco, cosìassaggio un po’ di frutta e mi faccio versare un bicchiere di vino.

Io non bevo alcolici di solito, nemmeno il bicchiere di rosso ai pasti, quello che fa bene alle coronarie, e men che meno mi è capitato di

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ubriacarmi. Anche perché non reggo l’alcol, e dopo due bicchieri sono già addormentata, sai che divertimento...Be’, quella sera, alle nove siamo tutte ciucche, e quella è una delle feste più belle che ci ricordiamo: rimaniamo in dodici, a notte fonda ormai

amiche per la pelle, a cantare e ballare da sole in questo salone gigante.L’ultima cosa che ricordo è uno sguardo di Gabi che mi fa sentire bene, perché è ancora lì e se c’è lui so che non mi potrà succedere niente di

male.Il giorno dopo mi sveglio con un saporaccio di marcio in bocca e lo stomaco rivoltato dal disgusto. Il mal di testa ha preso possesso della mia

calotta cranica e mi sento debole e idiota.Mi guardo intorno e non riconosco niente: né la stanza, né l’orientamento del letto, né il comodino. Niente. Ok, ci sono abituata, niente panico. Mi

giro nel letto per prendere contatto con l’ambiente, aspettandomi di riconoscere quella stanza come la mia camera d’albergo, ma vedo un’altrasagoma. C’è una persona che dorme accanto a me. Merda: che cosa ho fatto?! Chi è?! Comincio a darmi della deficiente, non si può ubriacarsi auna festa terrificante e poi finire a letto con non so chi! Il giorno prima del torneo, per giunta. Merda.

Zompo giù dal letto nel misero quanto ridicolo tentativo di non toccare quella persona nemmeno per errore, e mi rendo conto che c’è qualcosafuori posto. I miei vestiti. Sono tutti ordinatamente addosso a me, comprese le scarpe. Ok, non può essere andata così male, no? Se mi sono fattarimorchiare da uno che non so chi è in preda ai fumi dell’alcol comunque dobbiamo essere crollati una volta arrivati in camera... Il senso di colpacomincia a scemare e gli occhi sono pronti per passare dalla penombra alla luce: vado in bagno e mi ci chiudo dentro. Lascio una fessura apertaper sbirciare la persona nel letto e la riconosco. Cretina. Sei una cretina. Tanto rumore per nulla: è Arantxa Parra, la mia compagna di stanza.Sono dove dovevo essere, con chi dovevo essere.

Arantxa si sveglia solo con il rumore della doccia. Anche lei non sta benissimo...Scendiamo per colazione carrozzate come VIP in incognito: io con un cappellino calato sulla fronte, lei con gli occhiali da sole. Cerchiamo di

ripercorrere la serata, voglio capire come sono arrivata in camera, non me lo ricordo e mi vergogno come una bestia. Anzi, sto proprio male: nonmi è mai capitata una cosa del genere.

A un certo punto sento la voce di Gabi rimbombarmi nella testa: “Come stai stamattina? Era tanto che te la dovevi prendere questa sbronza...”.Mi spiega che verso le due del mattino, a festa ormai conclusa, ero ancora carichissima in mezzo alla hall a rotolarmi sul tappeto credendo di

ballare Flashdance. A un certo punto sono crollata a terra, “come morta, Fla’”, e lui pietosamente mi ha raccolto con il cucchiaino e trascinato incamera. Lungo le scale mi sono risvegliata e, nella totale incoscienza, ho biascicato frasi senza senso passando dal riso al pianto senza soluzionedi continuità. Con un particolare strano: piangevo senza lacrime, eppure Gabi era certo che quello fosse pianto. Una volta in camera mi ha infilatasotto le coperte tutta vestita.

Ringrazio Gabi, Arantxa e tutti quelli che mi hanno sopportata per lenire l’inutile senso di colpa post-sbronza, ingoio un paio di protettori gastricie mi spiaccico su un lettino a bordo piscina, dove rimango tutta la mattina a cavallo tra sonno e veglia, mangiucchiando continuamente neltentativo di averla vinta sull’acidità di stomaco.

A essere mezzi distrutti per la verità siamo in parecchi: non dico che l’unione fa la forza, ma se non altro fa sentire meno deficienti. Dipomeriggio mi alleno un’oretta nel campo dell’hotel, grata al destino che non ha voluto che dovessi giocare proprio oggi, per poi strisciare dinuovo in piscina.

Martedì entro in campo contro una giovanissima wild card, Noppawan Lertcheewakarn: vinco. Mercoledì gioco contro Casey Dellacqua: vinco.Ai quarti sfido l’israeliana Shahar Peer, praticamente una soldatessa, numero 15 al mondo: vinco. Semifinale contro Venus Williams, ottava nelranking ma vincitrice di Wimbledon, che vale ben più dei numeri: vinco. Il mio capolavoro.

Manca la finale. Mi trovo davanti Yung-Jan Chan, cinese di Taipei, non un fenomeno ma nemmeno una mezza calza, e dopo cinque ore e mezza,di cui quattro di interruzione per pioggia, vinco! Meraviglioso.

La coppa mi vale un balzo in avanti in classifica di dieci posti: sono trentanovesima.

Rieccomi. Ciao Flavia, piacere di rivederti. Questa sono io.In luglio mi sono addormentata e mi sono svegliata completamente solo ora. Sono rimasta protetta sotto una calda coperta di ottusità: giocavo

ma non ne ero del tutto consapevole, vivevo ma non mi importava più di tanto. Potevo perdere, farmi male, venire assalita da amiche amorevoli ocompagne di squadra festanti e tutto rimaneva sotto la linea della coscienza. Succedeva a me, eppure io ero altrove. Mi ero anestetizzata per nonsentire più dolore senza pensare agli effetti collaterali: ho perso la gioia, la fatica, la fame, lo sforzo.

È sorprendente come crescere sia, in fondo, una questione di prese di coscienza. Non cambia nulla, apparentemente, eppure tu vedi le cose inmodo diverso. Eppure tu ti vedi in modo diverso. Io oggi, 14 ottobre 2007, sono una donna, una giocatrice di tennis, e sono brava.

La sera stessa dall’aeroporto chiamo Arantxa, che è già partita.«Volevo dirti che ho vinto il torneo.»«No, dai, non dire cazzate, ma va’...»«Arantxa, ti giuro!»«No puede ser!»Non ci crede! Io invece sì, e parecchio.Mi sono svegliata, sono di nuovo io, spogliata di tutte le scuse: Carlos e la sua bella, il polso dolorante, il feeling... Non credevo che sarei mai

tornata a giocare al livello dell’anno precedente. Ero arrabbiata perché pensavo di essere una meteora, una che in campo lotta quanto le pare mamentalmente regge fin lì. Un’illusione. Non è così.

Volo a Zurigo senza passare a Maiorca né a Brindisi, gioco il doppio con Anabel Medina ma ci fermiamo ai quarti. La settimana dopo a Linzperdo al primo turno, sia in doppio che in singolo. L’Austria decisamente mi porta male.

Poi, finalmente, il 2007 finisce.Ero precipitata oltre la novantesima posizione del ranking. Chiudo l’anno numero 40.Sono una donna, una giocatrice di tennis, sono brava e lo so. La differenza è tutta lì.

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13

È autunno inoltrato quando decido che non comprerò un intero guardaroba invernale. Se Carlos vuole tenere in piedi una parvenza di legame tra dinoi, sarebbe bello che lo facesse in un modo diverso dal fingere di dimenticarsi delle mie cose. Chiamo l’agenzia e prenoto un biglietto perMaiorca, con l’idea di tornare a Barcellona dalle ragazze via nave, con tutto il mio carico di scatoloni e vestiti e mezzi di trasporto vari ed eventuali.

Il piano consiste in: chiedere a Miguel se passa a prendermi all’aeroporto, in alternativa prendere un taxi con destinazione casa dei genitori diCarlos nonché di Carlos stesso, salutare gentilmente la famiglia tagliando senza pietà qualsiasi conversazione imbarazzante, raccogliere tutto,stipare l’auto e sgommare verso il molo.

Fierissima, chiamo le amiche: «No!», «Cosa fai?!», «Da sola?». Decidono d’ufficio che qualcuno deve venire con me perché temono che il miofragile equilibrio appena ritrovato si possa smarrire durante le nove ore di traghetto. Nessuna può venire, io minimizzo, non sento ragioni e parto.Mi sento sicura di me, non ho paura e non intendo ubbidire ai timori altrui. L’età dell’innocenza (e dell’ubbidienza) è finita tempo fa.

Avviso la famiglia di Carlos, per sicurezza. La sorella, gentilmente, si offre per venire a prendermi all’aeroporto. Non posso rifiutare e ciimbarchiamo nel primo di una serie di incontri mortificanti per i parenti di Carlos: la sorella mi abbraccia, la madre e il padre mi sorridono tirati edispiaciuti perché, in fin dei conti, abbiamo vissuto insieme tre anni. Vengo persino invitata a rimanere per la notte ma rifiuto fermamente e, dopoaver caricato tutto quello che posso e chiamato un corriere per il resto, scompaio in casa di Miguel. Il giorno dopo sono di nuovo lì, a pranzo contutto il clan Moyá, come d’abitudine la domenica quando Carlos non c’era: i bambini mi abbracciano, i cani mi leccano, le donne portano in tavolafior fior di meraviglie. Non sono abituata a essere guardata con commiserazione, compassione, compatimento... non so nemmeno come si chiamiquella cosa lì, quando la gente ti vede e pensa: “Poverina”, quindi sdrammatizzo, rido, scherzo, faccio finta di niente. Non mi esce dalla boccamezza frecciatina.

Mi commuovo nel salutare i genitori di Carlos prima di andare: sono stati la mia famiglia per un bel tratto della mia vita, ci vogliamo bene. Gliocchi di suo padre si arrossano e me li porto nel cuore mentre mi dirigo in aeroporto a prendere Fiorella che, povera, ha annullato tutti i suoiimpegni per non farmi attraversare quella striscia di mare da sola. Penso che, in fondo, ho fatto bene a venire, avevo bisogno di salutarli perchétutto fosse in ordine, come piace a me.

Il giorno dopo riparto via nave, finalmente, grata a Fiorella per avermi costretto ad ascoltare una montagna di chiacchiere mentre ogni angolo diMaiorca mi parlava di un amore finito. Il mare, normalmente piatto, si produce in una tempesta forza 8 e passo l’intero viaggio in bagno a vomitare.

Colonizzo la casa di Fiorella&Co. con scatoloni, sacche grondanti vestiti e pacchetti. Prometto di cercare una casa, o almeno un magazzino doveparcheggiare tutte le famose cose delle quali sono trionfalmente rientrata in possesso.

Sono del tutto disabituata a stare nello stesso posto per più di una settimana, per di più senza un fidanzato che fa richieste per quanto riguarda iltempo libero, così vengo presa dalla frenesia: in casa faccio tutto io, organizzo la cena, le uscite, porto tutte in palestra, prenoto weekend, quandousciamo sono l’anima della festa. Se non ho intorno nessuno da intrattenere telefono ad altri. Italiano, spagnolo, è uguale: ormai lo spagnolo è lamia seconda lingua, la mia seconda casa, una cosa mia. L’ho imparato con le mie forze. In un’altra vita forse potrei studiare lingue. Ricucio irapporti con chi avevo perso di vista: mi faccio raccontare le loro vite, mi faccio dare della cretina da una legione di amici maschi che mi hannovista pelle e ossa in televisione o in campo subito dopo la rottura con Carlos.

A dicembre torno in Italia. A Roma partecipo alla festa della Federazione, vestita da donna. Ho la fortuna di avere un fisico che, per quantapalestra faccia, non si ingrossa più di tanto, la massa bene o male rimane la stessa, quindi se mi infilo dentro un tubino almeno non sembro unpugile vestito da signorina. Per l’occasione mi metto addirittura i tacchi, che adoro ma sui quali godo di un’autonomia minima. Li sfilo sotto iltavolo durante la cena, Federico Luzzi mi guarda tra il sarcastico e il divertito. Quando comincia a prendermi in giro capisco che è tutto comeprima: non ho perso niente, non mi sono fatta sentire per un po’ ma è tutto a posto. Così tiro fuori un vecchio gioco. Al Centro federale lui era quelloforte e quello bello, io lo massacravo dicendogli che era brutto, ma talmente brutto che neanche se fosse stato l’ultimo uomo sulla Terra... E lui:«Ma come brutto? Sei l’unica donna che mi vede brutto!».

«Fede, guarda, magari non proprio brutto... Forse non sei il mio tipo...»Potito rincara a mio sfavore, dicendo che io in realtà non sono una donna, ma un uomo: ragiono come un uomo, mi comporto come un uomo.

Una signorina perbene non toglierebbe mai le scarpe... Mi sembra di essere tornata sedicenne. Quando la Schiavo annuncia: «E adesso tutti aballare!» comincio a credere seriamente nei balzi temporali.

Usciamo di corsa, Fede mi fa: «Tu, in macchina con me». Obbedisco e monto sulla due posti dopo aver raccattato qualche vestito più adattoall’occasione. Mentre mi sto infilando i pantaloni sotto il vestito mi chiede: «Vuoi parlare?». Sottinteso: “Di Carlos”. Frase stringata, ma se nonaltro evita tutti gli epiteti poco lusinghieri che, ne sono certa, gli passano per la testa.

«No.» Tutto pur di non tornare perennemente lì, alla stessa storia.«Ok, allora parliamo d’altro.»Amo avere amici maschi anche per questo: offrono la loro disponibilità e rispettano la tua risposta, qualunque essa sia. Le cose sono come le

dici, non immaginano seicento livelli di lettura.Scesi dalla macchina, Fede guarda Potito e gli fa un segno come dire: “Tutto ok”. Quasi mi commuovo. Mi si fanno intorno, uno da una parte e

uno dall’altra e con le braccia rotonde come una teiera me li abbraccio entrambi mentre ci dirigiamo verso la discoteca.

Poi tutto continua.È di nuovo Natale (famiglia), poi gennaio (tennis). Australia, Australian Open, Asia, Sudamerica, Nordamerica, Europa, Nordafrica, Roland

Garros, Europa, Wimbledon, Italia, Stati Uniti, US Open, Indonesia, Cina, Russia, coda in Europa e, volendo, Canada. In mezzo, la Fed Cup.Uguale tutti gli anni? Più o meno.Mi annoio? No.Mi piace, mi piace da matti.Chi non vive nel circuito potrebbe pensare a una specie di girone dantesco, nel quale i dannati sono costretti a giocare a tennis continuamente,

facendo una fatica bestiale, sfidando sempre gli stessi avversari (preferibilmente le loro bestie nere, e perdendo, ovviamente), stazionando neglistessi posti fuori contesto, che dicono poco o nulla dei paesi nei quali si trovano, dormendo in alberghi asettici, tutti gli anni, per saeculasaeculorum. Amen. Un incubo.

Invece a me piace: è la mia vita, me la sono scelta, mi assomiglia.Il mio amico Alberto mi chiama “tigre”, un po’ mi prende in giro, un po’ ha ragione. In fondo, sono cresciuta con un padre che mi incoraggiava a

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essere più grintosa anche quando vincevo... L’adrenalina, l’azione, la caccia al trofeo, al punto, allo scambio bilanciato, alla vittoria e al colpoimprendibile: sono io. Mi infiammo ogni volta per il brivido che dà la sfida, per la soddisfazione che mi fa urlare da fondo campo quando vedo lapallina cadere esattamente dove volevo, anche se c’è vento o piove o la gente mormora o chissà cos’altro, per la velocità e lo sforzo fisico ementale che richiede una partita, e per l’esaurimento subito dopo, quando temo di non riuscire ad arrivare al letto perché non sento più le braccia,le gambe e figuriamoci i piedi. Ogni volta che perdo la frustrazione è talmente incombente che considero una vittoria su me stessa e il mio egoriuscire a liberarmene.

E ci sono le vittorie. I cosiddetti “risultati”, i “record”, la sequenza di numeri che tutti noi tennisti diventiamo una volta smesso di giocare. Quelloha vinto quattro Slam, quest’altra è stata l’italiana più alta in classifica, la terza è arrivata agli ottavi del tal torneo. I numeri non parlano, però. Nondicono degli applausi, dei sorrisi, della paura di lasciarsi andare, di concedersi di essere troppo felici e di perdere il controllo. L’abitudine allavittoria è un rischio, crea dipendenza, va maneggiata con cautela.

Tranne in caso di Nazionale. Allora si è in tante a reggere l’urto, questo lo posso fare. Adoro il tennis quando diventa uno sport di squadra e fa dime un soldato in mezzo a tanti, meno esposto eppure fondamentale. Mi piace nascondermi nelle pieghe della collettività, fare qualcosa che contaanche per altri: mi fa sentire bene, generosa e altruista. Anche se non gioco. Sara Errani s’è ammalata una volta: non è scesa in campo ma le èvenuto 38 di febbre per l’agitazione.

Più vado avanti più i ricordi si assottigliano. La testa affida un sacco di dettagli alla cronaca. Mi restano attaccate le partite impossibili, le vereimprese, quelle durante le quali mio padre si è prodotto in qualcuna delle sue memorabili sceneggiate, quelle nelle quali non contavo solo io.

Nel 2008 ho giocato con Venus una partita pazzesca, sul campo centrale del Roland Garros: un’ora e venticinque minuti di assoluto dominio.Sono talmente concentrata durante che non mi giro nemmeno per guardare come vanno le cose nel mio angolo.

Fuori dal campo, negli spogliatoi, mentre aspetto che il fisioterapista mi aiuti a tornare alla vita, prendo il cellulare: scoppia di messaggi. Tutti gliamici, però, non mi scrivono “Brava, hai vinto, complimenti”, no. Mi raccontano che si sono rotolati dalle risate perché la regia riprendeva il boxdove stava mio padre con gli allenatori, e tutte le volte che facevo un punto era talmente contento che si girava a urlare con quello dietro, ma dietronon c’era nessuno!

Qualche settimana prima, mentre io mi davo da fare in campo a Roma, il codazzo di amici e parenti si sollazzava giocando a “Cerca Ronzino”:vinceva chi vedeva mio padre per primo, dato che si spostava continuamente, su e già dagli spalti, e avanti e indietro sulla stessa gradinata.

Dopo Venus mi tocca la sfida con la Suárez. Perdo. E mi mangio le mani. Gli ottavi del Roland Garros: il miglior risultato allora per un’italiana altorneo. Se li avessi superati sarei entrata nella storia. Invece niente: la Suárez gioca benissimo, io rimango tesa tutto il tempo sapendo che èun’occasione buona. Voglio vincere talmente tanto che non ci riesco. Se fossi stata più tranquilla... Se mi fossi goduta di più il momento... Se, se eancora se. Detesto i congiuntivi, soprattutto quelli imperfetti.

Sono così arrabbiata che scappo. E questa è una cosa che mi ricordo bene, perché non sono scappata quasi mai.È maggio, mollo lì tutto e me ne vado quattro giorni a Formentera con Giorgia, Fiorella, Cristina e due amiche. Sei donne, una casa e due

macchine: il massimo della libertà. Il giorno uno si svolge in spiaggia, la sera siamo cotte ma non demordiamo. Il giorno due io e Cristina ciincrociamo in cucina al mattino presto. Prepariamo la colazione per tutte, diamo una sommaria pulita per tacitare la coscienza, poi saliamo inmacchina: direzione mare. Guido io. Scendo per la strada sterrata verso la spiaggia a velocità folle, facendo le curve con il freno a mano ecantando a squarciagola. Cristina è terrorizzata, poi capisce che non sta succedendo niente, in giro non c’è nessuno e la cosa peggiore che puòcapitarci è testare le sospensioni. Proprio quando si butta anche lei nel canto prendo una curva troppo larga e rischio di spiaccicare l’auto control’unico muretto nel giro di chilometri. Inchiodo e Cristina mi zompa addosso per la paura. Ripartiamo a quaranta all’ora, radio spenta e ariacircospetta: si sa mai che qualche muretto spunti all’improvviso. Il terzo giorno organizzo una gita a Espalmador, isoletta che si raggiunge a piedicon la bassa marea. Lasciamo tutto in macchina e ci lanciamo in una camminata di quarantacinque minuti sotto il sole. Con noi c’è il preparatorefisico con il quale lavoravo a Maiorca, ci ha raggiunto per salutarmi. A Espalmador ci spalmiamo di fanghi e ci sdraiamo al sole a farli asciugare,per poi buttarci in mare. È allora che comincia a piovere: il fango ci cola negli occhi, nessuno di noi vede niente. Ci sciacquiamo in mare, ma lecose per asciugarci dove sono? In macchina. Dov’è la macchina? Sull’isola di fianco. Arrivati sulle sponde del “guado” una coppia ci dice che lamarea si è alzata: siamo intrappolati. Anzi no: c’è una barchetta che trasporta dall’altra parte i ritardatari. Ma dove sono i nostri soldi? Esatto, inmacchina. Per poco non mi viene da piangere. Finché il preparatore decide: «Adesso basta, si passa». Noi zitte, con l’acqua alla gola,attraversiamo il guado in quattro minuti netti, spingendo come pazze. Ancora soli quarantacinque minuti sotto la pioggia e siamo alla macchina. Unincrocio tra Fantozzi e Indiana Jones. Peccato che nessuna abbia trovato un tesoro.

Né un amore. Alle Olimpiadi del 2008 io e Sara Errani ci innamoriamo duecento volte al giorno: passa uno, «Oddio che bello»; passa un altro,«Flavia, sto impazzendo».

Io perdo la testa per un ragazzo che intravedo alla cerimonia di apertura. Non conosco la sua nazionalità, il suo nome, niente, lo trovo bellissimoe basta. Potito e i ragazzi della Nazionale di pallanuoto cominciano a prendermi in giro: mi sembra di tornare bambina, quando i compagni diclasse venivano a dirmi: «Flavia, mi ha detto Marco che gli piaci, vuole sapere se vuoi essere la sua ragazza». Fabio Violetti decide che me lofarà conoscere lui, io mi tiro indietro al grido di “giammai una figura così!” e vado a scattargli foto di nascosto alle gare di ginnastica artistica.Quando Fabio, però, si presenta con un numero di telefono, lo prendo. Fortunatamente non sono abbastanza impavida da digitarlo: mi avevanopassato il numero di un altro pallanuotista!

Nel frattempo comincia a girare un pettegolezzo su di me e Potito: questi due sono sempre insieme, quindi hanno una storia. Come no? In veritàsiamo gli unici a dormire poco: io arrivo direttamente dall’America, con pausa di ventiquattro ore in Italia nella quale ho infilato un pranzo con igenitori a Ostia e qualche ora di sonno leggero in un albergo vicino all’aeroporto. Sono massacrata dal fuso orario. Potito dorme poco in generale,così passiamo il tempo insieme, a mangiare al ristorante aperto 24/24, o guardandoci un film. Uh, guardare un film nella stessa camera, chepeccaminoso!

Succede invece che in singolo rimediamo un disastro collettivo, mentre in doppio io e la Schiavo partiamo a scheggia e cominciamo a pensare:chi ci ferma più? Ci fermano le sorelle Bondarenko al quarto turno. Perdiamo la partita che ci sarebbe valsa la semifinale con due match point anostro favore. Annullato. Annullato. Via, a casa. Fine del sogno. Fa male ancora adesso, ad anni di distanza.

Da Pechino volo direttamente a New York. Agli US Open gioco benissimo, alla faccia delle sorelle Bondarenko, che si fermano una al primo euna al terzo turno. Io volo al quarto battendo la Vogele, la Peng, la Petrova e la Mauresmo con una partita capolavoro. Dopo un avvio equilibrato,con quattro break, capisco che posso farcela e infilo nove game consecutivi. La Mauresmo mi guarda come se avesse visto un fantasma. Non sonemmeno io da dove abbia tirato fuori quell’energia. Fatto sta che in ottantatré minuti di gioco surclasso per 6-3, 6-0 l’ex numero 1 del mondo e mipreparo a sfidare Dinara Safina. Mi agito: i quarti di finale degli US Open non sono un gioco. Cedo in due set, complice l’emozione e il diritto dellaSafina, che picchia come se volesse sfondarmi la racchetta.

Volo a Bali, poi a Tokyo. Ho qualche giorno di pausa. Chiamo la Came: ci vediamo sempre meno nel circuito e mi piacerebbe passare deltempo con lei. È a Milano per un’esibizione, se voglio c’è posto anche per me. Mi aggrego immediatamente.

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La sera prima usciamo con gli amici. Come grandissima trasgressione, decidiamo di bere una tequila. Né io né lei reggiamo l’alcol, solo chementre io, fedifraga, fingo di bere e sputo tutto in un altro bicchiere, la Came ingolla veramente il cocktail: in mezz’ora è tarantolata e non riusciamoa portarla a letto prima delle cinque. Più o meno a quell’ora si spegne, così ce la possiamo caricare finalmente in spalla e portarla in albergo.Tempo di infilarla sotto le coperte che ci addormentiamo tutti, di botto, sul lettone attorno a lei. Visti da fuori dobbiamo sembrare una stranacucciolata di adolescenti cresciutelli e troppo stanchi per stare fuori fino al mattino.

Alle nove mi sveglio, distrutta, e scivolo via in silenzio, in camera mia.Mezz’ora e mi chiama la Came. È una sorta di sussurro, il suo, ma dentro c’è del panico: «Fla’, che cazzo ho fatto?! Perché sono tutti qui?!

Oddio, Fla’, non mi ricordo niente!».«Came, guarda che io me ne sono appena andata dalla tua stanza, non hai fatto niente!»Lei sospira, io sghignazzo. Scendiamo in campo distrutte dal sonno. Ogni tanto mi capita: stare malissimo, essere sfinita, ma riuscire a

rimanere concentrata quel tanto che basta da sembrare accettabile al mondo esterno. Ecco, l’esibizione va così. La sera a letto presto e il giornodopo in aeroporto: mi aspettano Stoccarda, Mosca, Zurigo e Linz.

A Stoccarda gioco male, a Mosca batto Venus e perdo con la Janković ai quarti di finale. Il match mi scappa per tanto così, rosica anche Potito,che è venuto a vedermi. Mi propone un weekend in stile vecchi tempi, io, lui e Fede, tutti e tre insieme a Roma. Muoio dalla voglia ma devogiocare in Svizzera.

Stendo la Petrova e mi ritrovo di nuovo a giocare contro la Janković. Diciamo che i pronostici non sono a mio favore: cinque incontri, cinquesconfitte, l’ultima la settimana scorsa. Roba da piangere, ma non voglio fasciarmi la testa. Scendo in campo con la racchetta piratescamente tra identi. Ho la faccia talmente contratta che faccio fatica ad aprire la bocca. Perdo il primo set 5-7, ma qualche vincente lo affondo. La Jankovic èstanca, io sono stanca, è ottobre e non ne possiamo più. Lei ha un attimo di cedimento, me ne accorgo e mi galvanizzo. Mi infilo tra le pieghe dellasua fragilità per riemergere dopo due ore e ventisei minuti di gioco spettacolare, vittoriosa sulla numero 1 al mondo. Esaltarmi e pensare dichiamare Poto (non sono con loro ma ne valeva la pena, no?) è tutt’uno. «Grande Fla’, bravissima, sono contento! L’altra sera ci sei mancata,Fede ho dovuto trascinarlo fuori a forza, aveva mal di testa e non voleva uscire...!»

Penso che sì, avrei voluto esserci ma forse non mi sono persa la serata del secolo, e mi concentro per affrontare la Srebotnik. Sono caricacome una molla, chiudo il primo parziale con un ace, dopo aver fulminato la mia avversaria nel gioco precedente con un rovescio lungo lineaimprendibile. Il secondo set è una gioia per le mie orecchie (soprattutto quando l’arbitro dice che sono sopra di 4 giochi a 0): chiudo 6-2. Vincocontro Anabel Medina e mi guadagno senza troppi problemi la finale. Venus o Ivanović, questo è il problema. Lo risolve Venus per me: e non solol’enigma dell’avversaria, ma anche l’enigma della vincitrice del torneo. Combatto per il primo set come uno spartano alle Termopili, ma perdo per7-6. Vincendo anche il secondo lei si aggiudica la partita, io un balzo in classifica: sono quattordicesima quando parto per Linz. Esco ai quarti maguadagno tre posizioni: sono numero 11 al mondo. Gabi prende carta e penna e comincia a fare i conti: se gioco in Québec la prossimasettimana, anche una sola partita, potrò entrare come riserva al Master di Doha, il massimo dei massimi della gloria tennistica. Decidiamo dipartire e facciamo i biglietti: fino a Monaco in treno, da lì aereo fino in Canada.

Ma sì, settimana più, settimana meno. Tanto al ritorno sarà tutto lì ad aspettarmi. È la certezza dello zingaro: le cose cambiano, ma mai troppo infretta.

Poi arriva la vita.Provo a chiamare la Schiavo ma sbaglio numero: nella rubrica del telefono “Fra” è appena sotto “Fede”. Quando me ne rendo conto penso a

quanto mi prenderà in giro, ma non mi risponde. Sono le 22:02 di venerdì 24 ottobre.Il mattino dopo mi arriva un SMS di Florian: “Chiamami”.Tempo di salire in treno e lo chiamo.«Flo.»«Flavia... sta morendo.»«Chi? Cazzo dici? Chi sta morendo?»Fede. È in coma dalle dieci della sera prima. Non ci credo. Mi prende la frenesia. Telefono a Poto: non riesce a parlare, non sa cosa dire, urla e

piange. Telefono a mio padre perché contatti un medico, qualcuno che ci spieghi cosa sta succedendo. Lo dico a Gabi, glielo dico una ventina divolte, gli faccio tutte le domande che mi sto facendo, poi mi rispondo da sola. Lui rimane lì, lo specchio muto del mio dolore, della mia paura.

È passata solo un’ora quando mi arriva un altro SMS: “Fede non c’è più”.Federico Luzzi – mio amico, mio fratello – muore il 25 ottobre 2008. “Leucemia mieloide acuta”, tre di quelle parole che non impari se non sei

costretto. Perdo il controllo del volto e della voce: basta suoni, basta luce, basta tutto, perché Fede non ce li ha più.Vaffanculo il Québec. Ho bisogno di andare da Fede, a casa sua, ad Arezzo, al suo funerale, con i suoi amici, la sua famiglia. A Monaco scendo

dal treno, Gabi parte per Barcellona, io per l’unico posto dove vorrei già essere.

Davanti alla camera ardente la ragazza di Fede mi saluta e mi abbraccia, mi ringrazia per essere venuta. Ancora mi guarda negli occhi quandocomincia a piangere. Non so cosa dire, così sto zitta, come la statua nella quale mi sono trasformata.

Io non piango, io non tremo, io chissà dove sono, sotto quanti strati di pelle tesa e bianca dalla paura e dal dolore.La mamma di Fede sembra una fata, una fata buona. Fa una magia: mi vede – mi vede per come sono in quel momento – e decide di

prendermi per mano: «Vieni, ti accompagno io da lui». Io non voglio, io non ho mai visto la morte, io non voglio vederla attraverso di lui. Lui chissàdov’è ma non è di sotto, in una bara. Però lei è la sua mamma, mi ha preso la mano, la mia è fredda e piccola nella sua e così mi faccio portare,come una bambina. Mi giro e vedo gli altri in cortile, Poto e Filippo e altri amici. Ci vengono tutti dietro, in fila indiana, come alle elementari.

Per qualche ragione il corpo di Fede è lì, con la racchetta tra le mani, la sua preferita, e la giacca con lo scudetto dell’Italia, e succede cherimaniamo fino a tardi tutti intorno, tutti insieme, a scherzare con lui come se ci fosse per davvero, dandogli del grandissimo stronzo «che staràridendo di tutti noi», «che siccome monsieur doveva uscire alla grande, guardaci qua come siamo ridotti»...

La mattina mi svegliano le lacrime. Torno alla camera ardente e davanti c’è una marea di gente: decine e decine di persone, amici, conoscenti,fan, sostenitori, tutti a dirgli “ciao”. Mi infilo giù per le scale perché ho bisogno che il mio “ciao” sia da soli, io e lui, romantico e scherzoso eaffettuoso, come eravamo io e lui insieme, come quella sera a cena sui Navigli: Fede mi versava vino rosso da signori, io dicevo che non sonoun’intenditrice, lui mi prendeva in giro, io rispondevo che non era il mio tipo. Poi ci siamo presi sottobraccio e abbiamo fatto una passeggiata nelleluci della sera, in quel silenzio che si crea vicino all’acqua che scorre.

Mi avvicino e lo guardo. Mi sono portata il profumo che adorava, la sua mamma mi ha detto che posso spruzzarglielo. Ha deciso di far chiuderela bara prima della cerimonia in chiesa, cerco di rimanere fino all’ultimo ma quando arriva il momento non ce la faccio: mi viene un attacco dipanico, non riesco a respirare, non riesco a stare ferma, devo uscire. Corro su per le scale ripetendo: «Non è lui, non è lì, quello non è lui». Ho setedi aria e di luce e ho paura.

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La sera dopo sono a Milano.Passo metà del viaggio in treno al telefono con Potito: è furibondo. Per l’ingiustizia. Per il male che fa. Per il furto del suo migliore amico, del suo

coinquilino, di suo fratello. Non mangia, non dorme. Cova la sua rabbia come se fosse un tesoro prezioso, un legame con Fede.Durante i giorni successivi decide che non può più vivere ad Arezzo. Lo appoggio e gli propongo di venire ad allenarsi una settimana a

Barcellona, «stiamo un po’ insieme, parliamo». Dice «ok». Gli compro tutte le cose che so che gli piacciono: lui ha fatto mangiare me, io facciomangiare lui.

I corpi sanno cose che noi umani nemmeno immaginiamo. Insieme, al sicuro, possiamo permetterci di crollare. Dovevamo allenarci, passiamola settimana in casa: Poto con 39 di febbre, io con un ascesso.

Il 20 dicembre siamo tutti di nuovo ad Arezzo: abbiamo organizzato un torneo di beneficienza, per legare il ricordo di Fede a qualcosa dicostruttivo. Il ricavato va all’AIL, l’Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma. Durante il collegamento con “Quelli che il calcio”,Volandri, il più mediatico di noi, mi sfotte in diretta nazionale per la guancia da scoiattolo: «Flavia, dovete scusarla, ma è stata presa a botte...».Forse siamo tornati quelli che eravamo, forse non siamo cambiati, forse sì. Non lo so.

So, però, che mi sveglio. Fede ha ventotto anni quando muore, io ne ho ventisei.«Rema, Flavia, e non sbagliare.»

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Nel 2009 sono in stato di grazia. Carlos è un ricordo sfumato: riesco a girellare per il mondo senza pensare a quel cantone come al primo posto incui ci siamo baciati ad Acapulco, a quel casinò a Melbourne come al primo posto nel quale l’ho incontrato, a passeggiare per New York senzarivedere minuto per minuto tutto l’itinerario gastronomico che ha organizzato una calda estate dopo gli US Open.

So chi sono e mi piaccio. Mi sto staccando dalla me gelida che ero diventata l’anno scorso, talmente terrorizzata da farmi coinvolgere dalmondo (e ferirmi) che preferivo evitarlo del tutto. Oggi vorrei avere più tempo per me e per gli altri, vorrei una storia bella e intensa, un amore follema solido, al quale regalare la Flavia commossa che tengo nascosta quando riesco a vincere: quello che vorrebbero tutti.

Gioco come non avevo fatto mai e metto insieme una collezione di risultati che lasciano stupita persino me, tra semifinali e finali e vittorie.Il massimo, però, è la Fed Cup.In febbraio sfidiamo la Francia, che sospetto non ci voglia più vedere neanche dipinte. Giochiamo a Orléans, in territorio “nemico”. Il primo

giorno mi tocca la Mauresmo.Comincio malissimo, molto tesa, molto rigida, sicura che perderò perché è già successo. Lei, al contrario, è fresca e riposata. Bene o male

riesco a entrare in palla e nel secondo set finisco per complicarmi la vita da sola. L’arbitro è una ragazza giovane e bionda, non so quantaesperienza abbia ma poco conta: è un arbitro, io sono un giocatore e devo obbedire.

Per tutta la partita mi fa chiamate per cose assurde, addirittura un fallo di piede. Tutte le volte mi innervosisco e devo metterci del bello e delbuono per non mollare la racchetta e volarle al collo per avermi fatto perdere la concentrazione. Comunque. Al tie-break, cinque pari, alla chiusuradi uno scambio pazzesco, la Mauresmo a rete e io a fondo campo, la infilo con un rovescio lungo linea. In netto ritardo, il giudice di linea chiama“out”. Merda. Cerco affannosamente di tranquillizzarmi, isolandomi un attimo, guardando a terra. Provo a tornare sulla riga di fondo per procederecon il gioco ma è irrefrenabile: tutto il mio corpo dice “No!”. Sono talmente convinta che mi abbiano rubato il punto, che mi avvicino all’arbitro, lepunto il dito contro e le sibilo: «Te la stai facendo sotto, eh? Te la fai sotto perché siamo in Francia...». Il resto della scena lo vivo da fuori,guardandomi come in un’esperienza di pre-morte: c’è una che mi assomiglia parecchio che scandisce «hija de puta» a un arbitro biondo einesperto in un campo di Orléans.

Quando riprendo il controllo mi rendo conto di stare indietreggiando con ancora la mano per aria. “Oddio, cos’ho fatto?!”Entra il super visor, lei gli racconta cos’è successo e lui decide che dobbiamo continuare, visto che siamo al set point. Mi salvo in corner. La

Mauresmo non si è accorta di niente, non si sa come, quindi va a servire e in pochi scambi porto a casa il set. Il terzo lo vinco per 6-4. MatchPennetta.

Con contorno di insulti e senso di colpa. In conferenza stampa tutti mi chiedono cosa mi sia successo e mi rifugio nella verità: «Ho perso ilcontrollo, non era contro il pubblico». I francesi, naturalmente, si sono offesi.

Francesca gioca una partita lottatissima contro la Cornet, vinta al terzo set 8-6. La sera la vergogna vince su tutto e mi suggerisce di nonpresentarmi per cena. Non mi è mai capitato di perdere il controllo così vistosamente. Però è successo, e ci devo fare i conti.

Vado a letto senza mangiare e il giorno dopo mi consulto con Barazzutti e Gabi. Il piano è che io scenda in campo e mi comporti come se fossidentro una stanza insonorizzata: non devo sentire niente. Se sento qualcosa, devo fare finta di niente ed evitare tassativamente qualsiasi gesto,anche minimo, che possa essere frainteso come sgarbo alla Francia.

Entro in campo contro la Cornet a testa bassa, di fianco a me uno stoico Barazzutti. Veniamo ricoperti dai fischi. La Cornet arrivaaccompagnata da Escudé, il loro allenatore, che aizza il pubblico perché continui a darmi addosso.

Io, però, niente. Una sfinge. Durante la partita guardo solo la palla, nei momenti di pausa a terra. Gesti: quali gesti? Vinco a mani basse, 6-2, 6-2. Sara Errani sconfigge la Mauresmo e il giorno dopo portiamo a casa anche il doppio. Vittoria su tutta la linea. La sera gli altri festeggianofacendomi il predicozzo.

La Mauresmo è simpatica: a Wimbledon, qualche mese dopo, mi prende in giro facendomi tiè.

In aprile giochiamo le semifinali a Castellaneta, vicino a Bari, contro la Russia. Vinco la prima partita contro la Čhakvetadze, Francesca giocabenissimo contro la Kuznetsova.

Il giorno dopo però la Kuznetsova mi massacra e perdo rovinosamente, 6-0, 6-3. Francesca però vince il punto decisivo contro laPavlyuchenkova, e Sara e Roberta portano a casa il doppio.

Siamo di nuovo in finale.Sull’onda dell’esaltazione arrivo in semifinale al torneo di Stuttgart, polverizzando di nuovo la Čhakvetadze, dopo di lei la Petrova e la Janković

(non esattamente polverizzata, comunque mi guadagno il turno). Mi ferma Dinara Safina, testa di serie numero 1 del torneo.Riparto con il tour, con una specie di visione: ce la possiamo fare. O forse ci credo talmente tanto da rendere possibili alcuni eventi lungo il

percorso. Che non è facilissimo. A Madrid arrivo con il numero 14 e uno zaino pesantissimo di attese sulle spalle: ovunque mi giri, qualchegiornalista, qualche collega, qualche amico, qualcuno insomma, mi chiede: «Quando succederà? A quando l’ingresso nella top ten?». Passo unpaio di mesi a pensarci affannosamente, perché tutti se lo aspettano, perché sarebbe un sogno, perché scriverei il mio nome nella storia deltennis italiano. Perché sarei la prima, la prima del mio paese a riuscire in questa impresa. Per una sorella minore essere la prima in qualcosa nonè roba da poco. Sarebbe epico: “Flavia Pennetta da Brindisi è la prima tennista italiana a entrare nella top ten”. Me lo sento già nelle orecchie. Melo sento nelle orecchie mentre dormo, passeggio, faccio la doccia, mangio, sto al computer, mi alleno. E mentre gioco. Mannaggia.

A Madrid esco al primo turno, idem al Roland Garros. Una Glatch stratosferica mi straccia mentre io, a fondo campo, perdo tempo a pensarealla classifica. Mi do della deficiente da sola e sposo una strategia più zen: se deve accadere, accadrà sia che io ci pensi tutti i momenti sia cheignori la faccenda.

Vado a ’s-Hertogenbosch fresca come una rosa e guadagno il terzo turno, che non sarà il massimo ma senza dubbio è parecchio meglio delprimo. A Wimbledon batto Llagostera Vives e King, ma i miei sogni di gloria si infrangono miseramente contro la grinta della Mauresmo e la miaansia. Arrivo a Bastad numero 15 e volo in semifinale battendo la Schiavo al primo turno. Trovo Caroline Wozniacki e tutto quello che riesco a fareè rubarle il secondo set. Ma che set! Perdo ma sono carica, rilassata, sciolta.

Parto per gli States con cinque vittorie consecutive in tasca: un intero torneo, quello di Palermo.Mi aspetta Los Angeles e mi viene la malinconia. L’anno prima avevo visto Fede, che si era iscritto a una scuola di teatro. Ci eravamo visti un

paio di sere, non avevamo fatto niente di straordinario perché io stavo procedendo nel torneo. La sera prima di giocare la finale contro la Safinami aveva detto che era stanco, che gli faceva male tutto... si lamentava e io avevo minimizzato: «Capirai, chissà i casini che combini!». Il giornodopo ero in campo tesissima a controllare le racchette prima della partita, avvertii una presenza alle spalle. Non feci in tempo a girarmi che mi

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sentii schioccare un bacio leggero sulla nuca. Era lui, bellissimo e ambrato, come un vero californiano, che sorrideva e mi prendeva in giro perchécon il completino da tennis bianco addosso sembravo molto più scura.

Tempo di perdere la finale e fare una doccia che siamo andati a cena. Avevo voglia di festeggiare – venire sconfitte dalla prima al mondo è pursempre un onore, in fondo – e volevo offrire la cena sia a Gabi che a lui. Apriti cielo: «Una donna che mi paga la cena, mai!». Era così. Un signore.Mi faceva sentire bella come solo i fratelli sanno fare.

Passo una settimana a passeggiare in riva al mare da sola e a vestirmi e truccarmi: la sera mi guardo allo specchio e mi sembra di essere unmostro. Gabi mi studia divertito pensando che abbia qualche filarino: credo che non mi abbia mai vista così curata e femminile.

Incidentalmente gioco. E gioco bene. Le vittorie consecutive da cinque diventano sei, poi sette, poi otto e nove e dieci. L’undicesima è la finaledel torneo, contro Samantha Stosur. Chiudo 6-3 e alzo occhi e braccia al cielo: saluto Fede, gli regalo la mia vittoria e poi posso permettermi disorridere.

Arrivo a Cincinnati con il numero 11, a cento punti da Nadia Petrova. Supero senza problemi Ayumi Morita e Ágnes Szávay e ritrovo Venus, lamia avversaria preferita dall’ottobre 2007. È dura, ma vinco io, in due set. Sono ai quarti e penso: “Ce l’ho fatta, sono nella top ten”. Non sono unache fa i conti, controlla ossessivamente le classifiche e calcola le probabilità. Cedo queste piccole gioie a mio padre... Però questa volta mi dico:“Venus perde punti, io salgo, ci siamo, è ora”. Niente: sono pari punti con Ana Ivanović, io rimango inchiodata all’undicesimo posto perché Ana hagiocato meno tornei rispetto a me.

Non ci posso credere. L’undicesimo posto è una specie di maledizione: prima di me sono arrivate così in alto solo Silvia Farina e FrancescaSchiavone, ed entrambe non sono riuscite a sfondare il muro della top ten.

Il giorno dopo mi aspetta Daniela Hantuchová. Ho due possibilità: stare in albergo a rimuginare o uscire. Mi faccio preparare dei tape per ipiedi, tempestati di vesciche dopo settimane di gioco ininterrotto, e me ne vado al luna park con Francesca, Sara e il suo allenatore, PabloLozano. Cincinnati è un mezzo deserto, non c’è niente di niente, nessun posto dove andare a parte un campo da golf, un acqua park e, appunto, illuna park.

Tre bambine. Cariche come molle, io con le ciabatte perché le scarpe non riesco a portarle, ci buttiamo sulle giostre: giri della morte a go-go.Dopo qualche corsa comincio a sentirmi male: mi gira la testa, mi viene da vomitare e l’unico pensiero che mi riempie la testa è: «La Hantuchová,devi giocare con la Hantuchová!»

Raccolgo ciò che resta dei miei piedi e torno in albergo, come una brava tennista disciplinata.La sera, a cena, chi vedo arrivare? Schiavone, Errani e Lozano, tutti e tre bianchi cadaverici, con i capelli sparati in aria per il vento che hanno

preso.Contro la Hantuchová gioco bene: lei è un po’ stanca, io invece mi sento incredibilmente solida. Impiego sei match point a chiudere, infliggendo

indicibili sofferenze a Gabi e, sicuramente, anche a mio padre. Fino ad allora sono riuscita a scacciare il pensiero della classifica, nel momentodecisivo il maledetto si riaffaccia, mi fa agitare e mi tocca utilizzare delle energie per ripetermi: “Toglitelo dalla testa, toglitelo dalla testa...”.

Me lo dimentico per un attimo, chiudo e sono decima. Come fare un’iniezione. Basta non pensarci. Sospiro di sollievo; adesso se mi chiedono:“Ma quando...?” posso dire: “Adesso!”.

È il 14 agosto 2009 e io sono la prima italiana nella top ten della classifica WTA.Il peso delle aspettative, l’ansia dei numeri, il pensiero fisso, la pressione mediatica: tutto scompare. Mi sento nuda e mi riapproprio di Flavia,

quella che giocava a tennis da bambina contro il muro di casa, che faceva i dispetti a suo padre non prendendo palle facili nei tornei Under 12,che a quindici anni viveva fuori di casa e non lo diceva ma le mancava la mamma. Forse dovrei saltare dalla gioia, esaltarmi e pensare che sonouna specie di leggenda vivente del tennis italiano, assumere un maggiordomo e comprarmi un’auto decappottabile, ma noi Pennetta, si sa, siamogente semplice. Io, poi, preferisco mescolarmi agli altri al brillare da sola, sono una da gioco di squadra.

Brindo con Gabi bevendo champagne dai bicchieri di carta, poi accendo il telefono e la grandezza dell’impresa mi appare in tutta la suaimmensità. Il cellulare non riesce a registrare tutti gli SMS in arrivo, i “bip bip” si sovrappongono e vengo sommersa da una valanga di complimenti,saluti, congratulazioni.

Sono dentro il sogno, e questo mi dà una strana calma. Non ho voglia di strapparmi i capelli, di saltare, di urlare. Ce l’ho fatta, è come se avessisuperato un esame faticosissimo che ha richiesto ventidue anni di lavoro: dai cinque ai ventisette.

Gli amici come al solito si aspettano una reazione più esplosiva, e continuano a chiedermi: «Ma sei contenta?».Mi viene il dubbio di non capire esattamente cos’è successo.Lo fugo qualche settimana dopo. Continuo a giocare: da Cincinnati vado a Toronto. Vinco contro Marija Kirilenko, perdo con Virginie Razzano.

Non ho più forze e decido di farmi un regalo per essere stata brava: pomeriggio nella SPA dell’albergo. Esco rigenerata, giusto in tempo per partireper New York. L’aereo rimane inchiodato sulla pista a causa di una tempesta. Per qualche secondo mi faccio delle domande sul karma,sull’eventualità che una grande soddisfazione debba o possa venire bilanciata da una grande sfortuna. Non è così, o forse il karma considera unagrande sfortuna perdere in semifinale con la Wozniacki, chi lo sa.

Qualche giorno e sono a Flushing Meadows con Gabi, Stefano Baraldo, che mi segue nella preparazione fisica, e Max Tosello dellaFederazione.

Mi informano che devo tenere una pre-conferenza: mai successo. La sala è strapiena, i giornalisti mi bombardano di domande. Ok, mi dico,qualcosa è cambiato.

Vinco i primi tre turni – battendo la Wozniacki e cancellando per sempre ogni implicazione karmica in proposito – e mi tocca la Zvonarëva. Unapartita pazzesca: nove di sera, il centrale di Flushing Meadows. Lei è settima, io decima, teoricamente dovrei perdere. Sono sotto di un set, nelsecondo la mia avversaria ha sei match point. Li annullo tutti, uno dopo l’altro. Non riuscendo a chiudere la Zvonarëva impazzisce: grida, strilla, sistacca le fasce dalle ginocchia. Il pubblico si esalta, i giornalisti italiani si alzano in piedi sulle sedie e si danno a urla da stadio. Tengo il secondoset e il terzo è una passeggiata.

Ai quarti perdo contro Serena Williams, questione di servizio. A ogni palla mi dico: “Ce la faccio, ce la faccio, ce la faccio”. Ma non è vero,contro quelle bombe non ce la faccio. Per poco, però.

Torno in Italia con il mio bel carico di soddisfazioni. E scopro che un posto nel ranking può voler dire molto: vengo travolta dall’attenzione. Iprogrammi di intrattenimento mi vogliono, i giornalisti di sport mi vogliono, le riviste mi vogliono. Aiuto. Vorrei gridare che sono solo una che giocaa tennis, ma in fondo un po’ mi lusinga. Mi godo il mio quarto d’ora di celebrità prima di riprendere la mia vita, ringraziando di non essere diventatadecima al mondo mentre ero in Italia, dove tutto questo affetto avrebbe soffocato il mio gioco e gli avrebbe tolto qualcosa. Fuggo per una mini-vacanza con Cristina, Fiorella e Lavinia e si rivela il lato B dell’ingresso in top ten: credo di essere la numero 10 al mondo più stanca della storiadel tennis. Andiamo al mare e dovrei godermela, festeggiare, essere una molla, invece sono sfinita, esausta, kaputt. Dormo ovunque, in qualsiasiposizione e su tutte le superfici: in spiaggia, sugli scogli (tre ore al sole, schiena ustionata e faccia con lo stampo delle rocce e nemmeno me neaccorgo), in macchina, sul traghetto. Come mi fermo mi addormento, non c’è niente da fare. Le ragazze mi prendono in giro: «Un piacere venire in

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vacanza con te, sei troppo di compagnia!», però capiscono. Capiscono che ho dato tutto, ho remato remato remato e ora che il risultato è arrivato,ora che ce l’ho fatta, ora che sono numero 10, è come se fossi svuotata di ogni energia, come se la dinamo si fosse spenta.

Un po’ scombussolata raggiungo l’Asia. A Tokyo esco al primo turno, a Pechino ritrovo Vera Zvonarëva al terzo turno. Vorrebbe uccidermi conle sue mani, ma dato che il tennis è uno sport da gentlemen le tocca farlo con la racchetta. Impiega tre set ma ce la fa, con tutto il suo contorno diurla e scenate. Mi balena nella mente la faccia di Potito che dice: «Tu, Flavia, in realtà sei un uomo...».

Nemmeno fosse destino, a Mosca gioca anche lui. Lo vedo sugli spalti accanto a mio padre prima dell’inizio del match con Ágnes Szávay.Parto bene e tengo il primo set. Nel secondo, però, avverto un doloretto al ginocchio. Per non fare danni metto radici al centro del campo.

Tempo che che la Szávay si porti in vantaggio di tre set e capisco che il dolore non mi passa. Mi ritiro.Volto la testa verso mio padre e vedo Potito che si sganascia dal ridere e Oronzo distrutto. Faccio segno di raggiungermi e Poti mi racconta

che durante il primo set mio padre gli diceva: «Guarda com’è bella, eh? La vedo proprio bene, bella, con questo vestitino blu! Poi le gambe,guarda com’è tornata in forma!». Tempo qualche minuto e zac: ginocchio fulminato.

Mi sganascio anch’io e comincio a prendere in giro mio padre. Smetto quando capisco che ha paura che non lo voglia nel mio angolo durante lafinale di Fed Cup.

La giochiamo a casa: Reggio Calabria, in un Circolo bellissimo, un vero stadio del tennis, cosa non così frequente in Italia. Giocare in casa èstupendo e terribile allo stesso tempo. Da una parte ti senti padrone della situazione, dall’altra la paura di non fare bene davanti ai connazionali ètanta che spesso si rischia di non giocare benissimo.

Gli avversari sono gli Stati Uniti, il tabellone sostiene che le sorelle Williams non sono previste. Sembra un segno del destino.Sabato mattina mi sveglio all’alba per la tensione. Alle 7.30 vado a fare colazione e lentamente accolgo tutte le compagne: prima la Schiavo,

poi Sara e Roberta. Nessuna parla: fissiamo zitte le nostre tazze.Alla presentazione sono bianca cadaverica, l’ansia non mi passa. Prima della partita mi viene addirittura da piangere per la tensione. Gabi mi

guarda sconvolto: non mi ha mai vista piangere per il tennis. Mi scendono dei lacrimoni da bambina e comincio con una sequela infinita dicapricci. Il paziente Gabi sopporta e mi incoraggia: «Flavia, devi rilassarti, goderti il momento...».

«Bravo! Goditelo tu il momento!» rispondo, insieme ad altre bestialità che per mia fortuna non ricordo.Tesa come una corda, entro in campo e, non so come, vinco contro la Glatch. Franci lotta come una leonessa contro la Oudin e porta a casa il

punto. Due a zero.La mattina dopo devo giocare di nuovo per prima. A colazione c’è solo Barazzutti: le altre sono spaparanzate davanti al TG, che parla di noi.

Tutte contente, tanto gioca Flavia, no?Basta una frase: «Oh! Non leggiamo niente e concentriamoci che non è ancora finita!», e ripristino in pochi secondi l’atmosfera del giorno

prima, con la tensione che striscia e il silenzio che si fa palpabile.Al match point contro la Oudin tiro un passante, poi seguo la scena al ralenti, con ancora la racchetta per aria: “Non sbagliare, non sbagliare,

non sbagliare, non sbagliare...”. Vinco, la coppa è nostra.Mio padre sugli spalti comincia a piangere di gioia. È la seconda volta nella mia vita che lo vedo in lacrime. La donna-che-esprime-le-emozioni-

poco-per-volta è costretta a sciogliersi: lascio scendere un paio di lacrimoni prima di riprendere un perfetto autocontrollo ed esibire il miocollaudato sorriso da flash.

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Per me le stagioni non esistono proprio. Le mezze non so nemmeno più cosa sono. Me le hanno rubate insieme agli orari e al ritmo sonno/veglia.Non so più come sia passare un intero inverno in un posto dove fa freddo e un’estate a bollire sotto il sole, avvolta dall’afa, con il respiro che siblocca, senza riuscire a pensare. Mi capita indifferentemente, in ogni momento dell’anno.

Non che a Brindisi nevichi, ma ad Auckland, a gennaio, fa un caldo asfissiante. L’unica nevicata mai registrata risale al 1939.La mia “stagione” dura da gennaio a ottobre e si compone di una media di venticinque tornei. Clima variabile, precipitazioni preferibilmente

scarse, anche se in Asia non si può mai dire.Ad Auckland comincio con ancora addosso la sensazione di onnipotenza e orgoglio della vittoria della Fed Cup. Arrivo immediatamente in

finale, battendo, tra le altre, quella Cibulková contro la quale ho perso rovinosamente nel maledetto torneo di Bad Gastein, nel 2007. Vedermivincere su quella avversaria, con la quale ho incidentalmente condiviso quel momento, mi fa pensare a un nuovo inizio.

A febbraio sono a Kharkiv, ridente cittadina in mezzo ai ghiacci di impatto estetico decisamente sovietico, per la Fed Cup. L’arrivo mio, dellaSchiavo e di Gabi è funestato dalla perdita del bagaglio di Franci, che contiene, fra le altre cose, le sue racchette. Niente in confronto a Sara,Roberta e Barazzutti: il loro volo non può atterrare perché la pista è ghiacciata, quindi viene dirottato su un altro aeroporto, che si trova a sole ottoore di pullman dalla mitica Kharkiv. Quando si dice la gioia delle trasferte. Per sdrammatizzare decidiamo di farci qualche passeggiata sulghiaccio: giocatrici davanti e allenatori dietro. Barazzutti non fa in tempo a sgridarci perché rischiamo di cadere che bum! frana rovinosamente aterra.

Sulla carta per l’Ucraina non ci sono chance: i nostri ranking vanno dal numero 7 al 35, il migliore delle nostre avversarie è il 105. Eppure. AlonaBondarenko, la migliore delle ucraine, batte Francesca Schiavone, la migliore delle italiane. Io gioco malissimo ma contribuisco al recupero punti:vinciamo tutte le altre partite, doppio compreso. In fin dei conti siamo le campionesse in carica: non possiamo mollare subito.

Salto a piè pari i “miei” tornei, Bogotá e Acapulco, e volo a Dubai. Esco al terzo turno contro una agguerritissima Agnieska Radwańska, che miscavalca letteralmente e andrà a farsi schiacciare in semifinale dalla Azarenka.

Vinco, invece, il torneo di Marbella, contro una legione di russe e prendendomi l’immensa soddisfazione di sconfiggere la stessa Carla Suárezche mi ha eliminato dal Roland Garros un paio d’anni prima.

Il Roland Garros, come tutti gli Slam, è una sfida psicologica. Tutto è più lucido, più intenso, più veloce. Le vittorie hanno il sapore dellepromesse. Se le disattendono, tocca raccogliersi con il cucchiaino per raggiungere gli spogliatoi.

Nel 2010, dopo tre partite vinte – contro Anna Keothavong, Roberta Vinci e Polona Hercog – mi trovo davanti Carolina Wozniacki: un muro. Sodi dover fare il punto molte volte, uscire dai miei schemi, andare di più a rete... Facendolo allungo la partita, la allungo a dismisura: vinco ilsecondo set portandomi in parità, ma non ho più energia. Lascio andare il terzo, la Wozniacki chiude e io mi incazzo, senza giri di parole. Miincazzo come una bestia: sono convinta di aver perso un’opportunità unica, che quella non sia la volta buona per colpa di chi? Mia, ma guarda unpo’. Per giorni ripenso a come sarebbe andata se avessi vinto quel match: avrei dovuto giocare contro la Schiavo, sarebbe stata una partitatesissima, chissà come sarebbe finita.

Invece niente. Ho lasciato andare e non mi è rimasto altro che andare a tifare la Schiavo. Che ha trasformato l’ansia e la tensione in fattoripositivi, ha vinto sulla Wozniacki, la Dementieva e la Stosur ed è entrata nella storia con un largo sorriso e la coppa (lucidissima) in mano.

Gabi dice: «Tanto nuotare per arrivare sulla spiaggia e morire». È vero: corri, recuperi, lotti, sudi, per mesi, per anni, poi arrivi lì e perdi l’attimo.Allora ti incazzi, vorresti tornare indietro, ma non puoi. Puoi solo andare avanti.

Mi sento male quando penso che qualunque cosa io possa fare non è mai sufficiente. È frustrante, e lo rimane in qualunque posizione dellaclassifica. Il pensiero “faccio tutto quello che devo, sono costante, sono attenta, ma non basta mai” mi esaurisce. So che è sbagliato guardareattraverso questa lente, ma ogni tanto capita. Capita perché mi faccio un mazzo così dal mattino alla sera, ma dietro ce ne sono altre venti, eappena mi lascio minimamente andare mi volano addosso. È una rincorsa continua. Anche quando sei stanca – e da brava bestia vorresti solo unpo’ d’ombra per fare un pisolino – non puoi fermarti. Nel tennis non ci sono pause. Il tour chiama, quando il tour finisce ci sono ancora gliallenamenti per la Fed Cup – se tutto è andato bene – e le partite.

È andato tutto bene. Alla vittoria sull’Ucraina è seguita quella sulla Repubblica Ceca.Disputiamo la finale a San Diego, contro gli Stati Uniti. Un anno per uno.La nostra formazione è invariata, la loro vede Bethanie Mattek-Sands al posto di Alexa Glatch, mentre Coco Vandewenghe sostituisce Vania

King.Quando vedo l’ultima palla infilare la Vandewenghe so che abbiamo vinto. Di nuovo. L’emozione è diversa perché non siamo a casa, perché è

la terza volta, perché non dobbiamo giocare il doppio, per un sacco di ragioni. Ma comunque è una soddisfazione che mi strappa le lacrime dagliocchi, perché restituisce senso a quel lavoro che sembra sempre uguale e che faccio da ventitré anni.

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E adesso un qualcosa che non è da me, dalla Flavia che mette tutti i sentimenti più intensi al sicuro, poi li sigilla con cura e li nasconde dietro a unsorriso. Adesso un intermezzo sentimentale.

Le cose che non si riesce a fare da soli si fanno in due. E c’è anche più gusto.A fine 2009 io e Gisela Dulko ci guardiamo negli occhi e decidiamo di giocare il doppio insieme.Io e lei siamo simili come due persone molto diverse che, però, hanno fatto le stesse cose nello stesso momento: Gise più tranquilla e riflessiva,

io più esagerata e impulsiva, in campo sembriamo Lucignolo e la Fata Turchina. Io urlo, strepito, mi arrabbio, lei sorride, dice sempre la cosagiusta, mi calma con uno sguardo. Siamo sorelle nate lontane che sono state catapultate nel circuito senza avere nemmeno un’amica e si sonotrovate; siamo state lasciate a pochi mesi di distanza da due tennisti bellocci e mediatici e abbiamo sofferto in contemporanea, abbiamo parlatoper ore, vinto e perso e sudato e poi abbiamo deciso che era l’ora di ridere. Così abbiamo riso, riso fino ad avere male alla pancia e alla faccia ea non riuscire a prendere la racchetta perché avevamo le mani molli, e allora abbiamo capito che se dovevamo trovarci un compagno con cui fareil compito, be’, con chi se non insieme? Insieme siamo le numero 1!

Il che, da boutade, si è trasformato in un cartellone dove c’è scritto “Ranking Pennetta-Dulko: 1”. Abbiamo fatto la foto con il cellulare, a stentopotevamo credere che bastasse così poco – essere in campo come siamo fuori – per arrivare così in alto.

Inauguriamo il 2010 con i quarti di finale agli Australian Open: vinciamo il primo set, tempo di pensare “ce la facciamo” che Lisa Raymond eRennae Stubbs ci spediscono a casa senza nessuna pietà, stravincendo i set successivi con due secchi 6-2, 6-2. A Indian Wells giochiamo duesoli turni, poi voliamo a Miami e ci rifacciamo.

Battiamo la Kuznetsova e la Molik e ritroviamo, come in un girone infernale, la Sánchez e la Vives, che ci avevano fermate a Indian Wells.Vogliamo la rivincita, abbiamo deciso che è il nostro turno, qualcuno ci guarda da lassù... non lo so, fatto sta che dopo una sfiancante partita, con ilterzo set che dura una ventina di game, tenute in piedi solo dall’adrenalina, ci guadagniamo il turno e la partita successiva, contro la temibilecoppia Kirilenko/Radwańska. È lì, è nel torneo di Miami che io e Gise diventiamo quello che siamo oggi in campo: impariamo ad aiutarcinaturalmente l’un l’altra, senza pensare, come le due mani di una stessa persona. Vinciamo 6-3, 7-5.

Ci toccano nuovamente Raymond e Stubbs, le distruttrici del nostro inizio glorioso. Sembra un brutto film con la sceneggiatura già scritta, maper loro: la finale è nostra, e in due soli set.

Scendiamo in campo contro Nadia Petrova e Samantha Stosur. Se il doppio fosse semplicemente la somma della forza dei singoli giocatorifiniremmo rase al suolo. Ma il doppio è un’altra cosa: è responsabilità, è condivisione. In qualche modo – con Gise di sicuro – è famiglia. Inpanchina mi dà di gomito e mi dice: «Fla’, non puoi capire!».

«Cosa non posso capire?»«Quanto potremmo vincere oggi! Fla’, dai, te lo dico...»«Gise, non me lo dire che mi metti ansia!»«Ma te lo devo dire!»«Ma metti che gioco un punto cruciale e sbaglio? Sarebbe colpa tua...»Iniziamo la partita tirate come corde, non ci lasciamo scappare neanche mezzo sorriso, nemmeno quando è chiaro che il primo set è nostro.

Non è ancora finita e lo sappiamo. Infatti perdiamo il secondo set e lo perdiamo per poco, 4-6. Recuperarlo si trasforma in un’impresa:trasciniamo il terzo fino al tie-break, un supplizio e un giro alla roulette, con la partita che cambia di minuto in minuto. Non ce la facciamopraticamente più per la tensione, perché se quella palla entra allora abbiamo vinto e allora è vero, non siamo solo amiche: siamo una squadra.

Quando ci mettono in mano il trofeo, un vaso di cristallo, lo teniamo con la punta delle dita, per paura di romperlo: io in giallo e Gise inarancione, nelle foto sembriamo due ragazzine vestite da mare in preda a un attacco di ridarella.

Da quel momento chi ci ferma più? Vinciamo a Stoccarda, Roma, Bastad, Montréal e Mosca, arriviamo in finale a Madrid e Pechino, giochiamoi quarti al Roland Garros e agli US Open. Già che ci siamo scendiamo in campo anche a Cincinnati, dove ci tocca un’overdose di algide giocatricidell’Est, quelle che si sono staccate due minuti prima dalle pagine di un giornale di moda e non si capisce da dove prendano la forza, con lebraccia così sottili. Arriviamo ai quarti di finale come un tornado, e lì incontriamo una coppia fortissima: Black/Rodionova. A partita appenainiziata, nel secondo game servo – un servizio perfetto, velocissimo, potentissimo – e guadagno un punto spettacolare. Oltre la rete scatta larabbia: una delle due va dall’arbitro e comincia a fare polemica. Me ne accorgo a stento perché sono nel mio mondo, a fondo campo, aconvincermi che una vittoria è possibile, poi vedo Gise che saltella minacciosa e brandisce la racchetta come una katana, e penso: “Oddio,adesso vola di là e la uccide”. Corro a rete e cerco di calmarla: Gise non si arrabbia mai, ma quando succede è meglio essere lontani. Stocercando di recuperare dalla memoria cosa mi dice lei quando sono furibonda e butto lì un debole: «Dai, Gise, non importa...» quando vedo chel’avversaria, girandosi, mi lancia uno sguardo di fuoco e mi fa: «Fucking bitch». Mi si annebbia la ragione, nella mia testa parte una scena alrallentatore: lei che cammina verso gli spalti, io che dimentico ogni intento pacifico e, come un bullo fuori dalla scuola, mi sporgo oltre la reteurlando: «Vieni qua! Vieni qua se hai coraggio!». Gise che si volta stupefatta e mi ripete le stesse identiche parole che fino a due secondi primastavo dicendo io a lei, l’arbitro che allarga gli occhi incredulo e si trincera dietro al microfono. Non sento niente perché strillo e urlo finché nonricominciamo a giocare. Sono talmente incazzata che chiudo la partita in un baleno, vincendo 6-4, 6-4, pur di non trovarmi la sua faccia di fronte.La fatica si fa sentire il giorno dopo, quando veniamo stracciate da Azarenka/Kirilenko, dinamico duo di “fotomodelle-tenniste” tanto belle quantocrudeli, che si guadagnano la finale e il torneo.

Io, però, qualche soddisfazione me la tolgo più avanti. La vendetta è un piatto che va servito freddo, e non c’è freddo paragonabile a quello diMosca, dove le schiacciamo in semifinale, dopo un primo set al cardiopalmo.

È la fine di ottobre quando, per la prima volta nella mia vita, gioco al Master di Doha.Primo turno: vinciamo. Secondo turno: vinciamo. E diventa vero: siamo le numero 1.Non ci possiamo credere: guardiamo dall’alto in basso tutte le prime giocatrici della classifica W T A. In conferenza stampa tutti si complimentano e

poi ci chiedono qual è il nostro segreto. Eh, a saperlo. Non lo so spiegare. Non la so spiegare l’alchimia di un’amicizia come la nostra, né perchéin campo siamo così forti. Vorrei dire che è difficile nel circuito riuscire a costruire un rapporto così, nel quale lo spazio che di solito viene occupatodalla competizione è pieno di solidarietà. Vorrei dire che vinciamo perché siamo amiche, ma non mi sembra una risposta particolarmentesostanziosa dal punto di vista tecnico, così di solito taccio.

So, però, com’è raggiungere un risultato così pazzesco in due. È rievocare decine di volte lo stesso aneddoto su quel punto vincente, una robache stroncherebbe anche il più volenteroso degli ascoltatori. È sapere che c’è qualcuno che capisce perché c’era, perché fisicamente giocavainsieme a te, faceva la stessa fatica, prendeva le stesse pallate, guardava in faccia le stesse avversarie. Per una che fa fatica a raccontarsi è una

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bella fortuna, un regalo che fa felici.A fine anno entriamo a far parte dell’esclusivo club dei premiati come migliori giocatori dall’International Tennis Federation. Insieme a noi Nadal

per il singolo maschile, la Wozniacki per il singolo femminile e i gemelli Bob e Mike Bryan, doppisti maschili premiati per la settima volta, unrecord. Ritireremo il premio al Roland Garros, il 31 maggio, devo chiamare mia sorella e chiederle consiglio su cosa mettermi.

Se non fossimo tenniste potremmo pensare di aver raggiunto il massimo, invece abbiamo i sensi e l’ambizione deformati dall’agonismo, evogliamo di più.

Cominciamo il 2011 agli Australian Open. In singolo arrivo ai quarti, battendo Lourdes Domínguez Lino e Shahar Peer, poi vengo travolta dallanuova guardia: la gigantesca Petra Kvitová, otto anni meno di me, mancina come la Navratilova – e il paragone non è del tutto fuori luogo – picchiafortissimo e corre alla velocità della luce. Cerco di farla sudare e domino nel primo set, peccato che poi Petra sia ancora fresca come una rosa eio piuttosto incredula. Perdo i successivi due set 6-3, 6-3 e tengo le energie per il doppio: devo giocare i quarti.

Il giorno dopo affrontiamo Natalie Grandin e Vladimíra Uhlířová. Sul cemento sono abbastanza forti, ma noi lo siamo di più e portiamo a casal’incontro.

In semifinale giochiamo contro Liezel Huber e Nadia Petrova, teste di serie numero 3. Se fosse un singolo avremmo le gambe infiacchite dallapaura, invece è un doppio, e per di più contro di loro abbiamo già vinto una semifinale, a Roma, l’anno prima: io e Gise ci sentiamo invincibili, escendiamo in campo sentendoci le numero 1. Funziona, perché ci guadagniamo la finale, contro la Azarenka e la Kirilenko. Ancora loro. Per noisono come la Spectre per Bond: a volte perdi, più volte vinci e comunque la sfida è sempre ad altissimo livello. E ci sono delle situazioni dicontorno che non ci rendono la vita facile. Per esempio, riesco a immaginare decine di attività più rilassanti del giocare la finale di uno Slam. GliAustralian Open sono il mio sogno, e sono combattuta tra pensare “nessuno questa volta potrà portarmelo via” e “oddio, e se poi vinco cosasogno da domani?”. Cerco di mettere da parte tutto e mi torna in mente Elena Dementieva, con la quale ho giocato la finale degli US Open nel2005. Dopo venti minuti era chiaro che la Raymond e la Stosur ci stavano asfaltando, stavamo facendo una pessima figura. Alla fine del primo set,perso 6-2, Elena mi ha detto: «Flavia, è una finale! Dobbiamo riuscire a rimanere in campo almeno un’ora!». Ci eravamo fatte forza e avevamovinto il secondo set, per poi perdere piuttosto dignitosamente il terzo e, con lui, la coppa.

Ritrovo quel ricordo e faccio mie le parole di Elena: è la prima finale di Slam per Gise, così mi atteggio a quella che la sa lunga e le dico lastessa identica frase. Prima di cominciare a giocare, però: farei volentieri a meno di perdere il primo set per 6-2.

Partiamo carichissime, per poi afflosciarci nel secondo set: noi non molliamo, loro non mollano, poi arrivano quei due o tre servizi giusti dellaAzarenka e cominciamo a commettere qualche errore di troppo. Ci guardiamo e proviamo a concentrarci sul nostro gioco ma non basta: i punticalano, le palle volano fuori. Ci sediamo in panchina completamente demoralizzate: io penso “siamo fuori, è finita”, Gise anche ma fa finta diniente e prova a motivare me per motivare se stessa. Poi vediamo Gabi. Fa dei segni, dice: «Guardate di là!». Siamo tenniste, dove vuoi cheguardiamo?

Torniamo in campo credendo che le stesse provando tutte sull’onda della disperazione, però smettiamo per un attimo di pensare a comedobbiamo giocare noi e guardiamo di là con molta più attenzione: di là ci sono due trentenni sfinite, che stanno in piedi per pura forza di volontà. Eallora capiamo. Cazzo, se capiamo. Bastava guardare di là!

Le facciamo correre, movimentiamo il gioco, prendiamo il pallino e non lo lasciamo più, finché la Azarenka e la Kirilenko non comiciano asbagliare. Quando l’ultima palla finisce in rete è pura gioia: lascio andare la racchetta, corro nelle braccia di Gise e saltelliamo per tutto il campoabbracciate, impacciate come in una corsa dei sacchi, indecise se fare l’una cosa o l’altra. La coppa pesa quintali e, per fortuna, nei mesi cisiamo costruite un morigerato sorriso da campionesse che possiamo sfoderare per le foto.

È il sogno e scopro di non averne paura. Semmai, scopro che non si esaurisce, che non smetto di voler vincere ancora. Scopro che sonostrafelice di condividere quella coppa con lei (che è anche ordinata e ha una casa vera dove metterle, tra l’altro, tutte queste coppe). Scopro che èvero: quello che non si riesce a fare da soli lo si fa in due.

Io, però, sono stata brava. E il ranking lo dice: il 28 febbraio 2011, appena prima di scendere in campo con Gise a Indian Wells, prima italiananella storia, sono la numero 1 nella classifica delle doppiste, considerate non in coppia ma come singole giocatrici. Ho 10.070 punti, e sono exaequo con un’altra. Gise. Bellissimo. A ventinove anni: meraviglioso.

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Sono molto affezionata alla mia età anagrafica, mi sembra una vittoria sulla Grande Decisione Imminente: il momento del ritiro, quello su cuiultimamente mi interrogano i giornalisti.

«Cosa pensi di fare quando smetterai?»Oddio. Non ci ho mai pensato concretamente. Un’altra domanda?«Hai un fidanzato?»Oddio. No. Ci ho pensato eccome, ma no.Non capisco questa attenzione per la vita amorosa delle tenniste. A Murray mica gli chiedono se è fidanzato.Non sono molto a mio agio nella parte della fidanzata, per la verità.Sono diventata più chiusa, più protettiva nei confronti di me stessa. Odio ripetere gli stessi errori. Anche questa versione di me non mi

corrisponde al cento per cento, rimango una Flavia spontanea, solare, istintiva, ma se prima di Carlos non mi faceva paura buttarmi senza lasicurezza di un paracadute, ora sì.

Poi sento una responsabilità nei confronti del mio tennis: sto attenta a non farmi coinvolgere troppo, a non rischiare di perdere quell’equilibrioche ho faticosamente ricostruito e che mi ha portata a ottenere i migliori risultati della mia carriera.

So che, se mi apro a una relazione, se accetto di lasciar entrare un’altra persona nel mio mondo, cambia un po’ tutto. Magari non subito, macambia. Ho conosciuto ragazzi fantastici, attenti, molto presenti – tutti sportivi – ma mi sono sempre ritirata nel mio guscio: non ho trovato lapersona per cui sono disposta a cambiare. Quando queste storie avrebbero potuto fare un salto di qualità ho sempre preso le distanze. Nelrispetto mio e dell’altro, per non imporgli i miei ritmi massacranti, il mio bisogno di stare da sola, il mio totale disinteresse per la “routine amorosa”considerata “normale”. L’altro è un io totale, che prova emozioni, ha desideri, aspirazioni, bisogni, pensa, si muove, parla, ha idee e opinioni, nonun fantoccio a mia disposizione quando ci sono e quando torno dall’ennesimo torneo per un paio di giorni. Sarebbe più facile, forse, avere unrapporto con una persona così, ma non sarebbe adatto a me.

Mi hanno spiegato che non do certezze, perché quando sono fisicamente presente sono dolce, trasmetto l’idea di stare costruendo qualcosainsieme, poi appena parto scompaio. La verità è che stacco la spina, che la mia vita professionale non comporta duecento tra messaggi etelefonate al giorno, con contorno di “mi manchi ma quanto mi manchi”, “ti amo ma quanto ti amo”, e che questo inquieta perché sono in viaggioper trenta settimane l’anno, frequento un ambiente sportivo pieno di ragazzi attraenti, ogni giorno mi capita di conoscere qualcuno di nuovo. Se lapersona che cerca di starmi vicino parte al mattino da casa, va in ufficio, poi la sera torna a casa lungo la stessa strada, giorno dopo giorno dopogiorno, capisco che il mio mondo possa sembrargli uno scrigno pieno di possibilità e tentazioni. Non lo è, ma lo sembra.

Vorrei un uomo che prima di tutto si rispettasse, mantenesse la sua vita, i suoi interessi: è la base per avere rispetto per gli altri, e quindi ancheper me. Lo vorrei con un atteggiamento ridanciano nei confronti della vita, uno che ami scherzare e che sappia sdrammatizzare. Né troppo stronzoné troppo coccolone, né troppo saputello né spiaccicato ai miei piedi. Vorrei uno giusto, giusto per me. Uno nel quale tutto si combina in modo dacompletarmi, senza fagocitarmi né tenermi a distanza.

Non sarà semplice, perché non sono semplice io. Credo che sia un po’ disorientante una donna troppo indipendente, che magari guadagna piùdel suo compagno, che non ha concretamente “bisogno” di lui per vivere. Io, però, sono sempre stata così: decapitavo le Barbie e organizzavo labattaglia navale con il vicino nella vasca da bagno, e lo stracciavo.

Mia madre dice che alla fine, dopo tanto cercare, troverò pace con qualcuno che conosco da una vita, dai tempi del Centro federale, che sa chisono forse meglio di me e mi vuole bene in quello strano modo che si crea quando si è stati lontani per tanto tempo ma sempre all’interno di unastoria comune, senza mai rompere il filo. Forse dovrei fidarmi di lei e basta, e fare qualche telefonata. Togliendo quelli sposati, quelli fidanzati,quelli che anche no, quelli che non sono giusti per me non avanza molta gente... Forse Potito? Magari è lui quello perfetto per me. Chissà.

Mentre setaccio l’agenda mi allieto con le relazioni che mi affibbiano i giornali, con quasi tutti i giocatori del circuito: da Rafa Nadal a SimoneBolelli, da Juan Carlos Ferrero al mio partner di doppio, Marcelo Melo... Per non parlare della mia storia con un giocatore del Milan, “spifferata”,come dicono i paparazzi, in occasione di una cena da Mimmo a Milano: io con Fiorella e due amiche, lui con colleghi e manager vari in un altrotavolo. A un certo punto Mimmo mi chiede se può presentarmeli, perché uno è appassionato di tennis: io mi alzo, stringo mani, sorrido, accettol’invito a vederli giocare e torno al mio tavolo. La settimana dopo vedo il titolo: La prima uscita pubblica... Incredibile!

Come quando ho letto, su un’altra copertina, la scritta: Pennetta-Rossi, sarà amore? Dentro, un articolo di due pagine: una dedicata alle foto diValentino, un’altra alle foto mie. Sembravamo bamboline di carta da vestire: Vale elegante contrapposto a Flavia in abitino, Vale sportivo e Flaviain tuta, Vale in moto con Flavia in campo. Storia completamente inventata.

Gli mando un SMS: “Vale, ti comunico che siamo fidanzati”. Mi risponde spiegandomi che in un’intervista gli hanno chiesto: «Con quale sportivapotresti stare?». E lui ha fatto il mio nome.

Allora non sono l’unica a cui fanno questa domanda!

Sono fiera di aver adattato il circuito a me, e di aver minimizzato l’effetto contrario, mantenendo un’“area di sicurezza” esterna, solo mia, nellaquale trovo tempo e faccio spazio per amicizie vecchie e nuove, l’amore quando ci sarà, la mia famiglia.

È questo equilibrio a salvarmi. Il tennis non può pretendere che gli sacrifichi tutto. Rinchiudersi dietro un vetro e non far passare niente enessuno può funzionare per qualche anno, ma non appena capita di provare qualcosa d’altro il vetro si incrina. E si spacca. E fa male.

Per questo sono grata ai miei genitori per come mi hanno cresciuta. Non mi hanno costretto a fare rinunce in momenti in cui non ero disposta afarle: ho avuto come tutte l’amica del cuore, la festa di compleanno a casa, il fidanzatino e i pomeriggi in giro per il centro. È grazie a questo sesono in grado di conciliare vita privata e tennis. È chiaro che non ho avuto i risultati di chi sacrifica tutto, una Ivanović per esempio; ma il giorno chela Ivanovic scopre che esiste anche altro o, semplicemente, invecchia, saprà come fare, come reagire, avrà gli strumenti? Ne dubito.

Teoricamente la tennista professionista dovrebbe pensare solo a sé, fare scelte solo in base allo stato del suo gioco. Per me è impossibilevivere senza uno spazio fuori dal tennis. Mi verrebbe l’ansia pensando che se perdo quello perdo tutto. Letteralmente.

Sono egoista – e lo so, lo so bene – perché devo esserlo, perché il giocatore deve venire a patti con la dimensione della solitudine, perchédeve concentrarsi sul suo gioco e ignorare il resto. Trascuro gli altri per mestiere, ma non sono viziata, non sono mai caduta nella trappola delleconoscenze d’opportunità, delle persone che ti ronzano intorno appena cominci ad avere un minimo di successo. Magari senza nemmeno troppointeresse, solo per poter brillare del successo altrui. Una rete superficiale, questa: non m’interessa.

Mi salva sapere chi sono e da dove vengo.Mi salvano gli amici, gli stessi da una vita, che se faccio una scemenza mi mandano, eufemisticamente, a cagare.

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Mi salva la rete di protezione che ho intorno, che mi ricorda che esiste una Flavia anche senza tennis, che la Flavia che gioca è brava e forte,ma che quella che non gioca è un’altra cosa. Mi ricordano che esiste altro sotto la maschera della donna-che-esprime-emozioni-poco-per-volta.

Esiste la bambina che mimava i film con sua sorella e che la guardava come si guardano le dee, con un misto d’ammirazione e invidia e amore.Una bambina entusiasta che non si era dedicata a niente di preciso e ha accumulato passioni: per la danza, il basket, la pallavolo, persino lacorsa campestre e lo sci. È la stessa Flavia maschiaccio che si è dedicata con grande costanza ad attività pericolose come precipitare giù dauna pista nera a tutta velocità senza farsi beccare dai genitori (oggi dalla mia parte adulta, che cerco di fregare con identico zelo). Invariabilmentequalcuno mi becca, senza che faccia in tempo ad accorgermene.

Esiste una Flavia che organizza, smuove mari e monti per fare sorprese o regali, e quella schiva che quando esce con le amiche, se ledomandano: «Ti ho già vista da qualche parte...?», risponde di far parte della Nazionale di pallavolo.

Esiste la Flavia che a Brindisi si sente tranquilla, perché quella è la sua città e la sua gente e sa che lì le vogliono bene.Esiste la Flavia grata ai suoi genitori per trattarla come la sorella, né più né meno, per non essersi innamorati della figlia tennista e per

continuare ad amarla per quello che è. Grata per l’ascolto e i consigli, anche se fa di testa sua perché ha la zucca più dura della famiglia, perchél’hanno lasciata sbagliare per conto suo e così ha preso le misure e imparato qualcosa. Grata per averle insegnato la schiettezza e il rispetto di sé,perché le hanno permesso di diventare la donna che è oggi. E di non avere paura del futuro. Di cosa succederà quando smetterà di giocare.

Ho visto molti giocatori distrutti dal non riuscire ad abituarsi a un ritmo di vita normale. Non è facile, certo, però lo è un po’ di più se simantengono i contatti con il mondo, se si guarda oltre il circuito. Il mio avere tanti amici che lavorano in ambiti molto diversi dal mio mi aiuta amantenere i piedi per terra, a rendermi conto dei miei privilegi, a non perdere di vista la realtà delle cose.

Spero che quel giorno avrò una persona accanto che voglia costruire con me un nucleo simile a quello che ho avuto in dono dal destino – la miafamiglia – e che mi manca. Ci vorrebbe un valente cavaliere che, possibilmente, non scappi urlando quando scopre – causa convivenza – le miemanie su ordine e pulizia; uno che eventualmente mi ferma se è il caso e mi invita a trovarmi qualche cosa da fare per occupare il tempo inveceche continuare nevroticamente a sfregare lo stesso punto del piano lavoro in cucina.

Mio padre guarda con terrore al momento in cui dovrò fermarmi. Il fatto è questo: mi tratta da maschio da quando sono nata, mi parla comeparlerebbe a un maschio, una volta credo che si sia persino lasciato sfuggire qualcosa a proposito di un’avventura con una ragazza prima dellamamma... Be’, vede tutti questi giocatori maschi che non riescono a cambiare vita, che partecipano al senior tour, da soli nella player lounge,additati da tutti come vecchie glorie... Terribile, in effetti. Terribile come non smettere di suonare se si è una rockstar dannata e finire per far ridere,terribile come fingere di essere una ventenne a settant’anni e non poter sorridere per i troppi lifting. Terribile. Ronzino non teme che possa farequesta fine, ma che io soffra perché un giorno, di colpo, l’attenzione nei miei confronti scemerà: per mia fortuna, l’unica cosa alla quale non misono mai, ma proprio mai interessata. Nonostante le assenze, la distanza, il poco tempo, ce l’ho messa tutta per seminare bene con le persone acui tengo. Certo, non è facile. Torno a Brindisi talmente poco che, da una volta all’altra, mi accorgo dei nuovi segni sul volto della nonna, facciocaso al fatto che la zia fa fatica a portare pesi, che il papà ha qualche capello bianco in più. Se c’è un motivo per cui sarò felice il giorno chesmetterò di giocare sarà questo: potrò godermi le persone a cui tengo, non perdermi niente di loro.

Per adesso mi tocca continuare con le frequentazioni surrogate: via telefono. E infatti pago delle bollette allucinanti. Un giorno mi sonopresentata nel negozio del mio gestore per non so quale ragione, la ragazza controlla i miei dati sul computer e mi fa: «Scusi, ma quante lineeha?».

Una, solamente una.Mi rincuora vedere come mia madre, piuttosto, creda in me: è convinta che reggerò l’urto e che troverò un modo per agire nel mondo che mi

corrisponde.Per adesso ho pensato due cose, anzi tre.La prima: farò un viaggio per vedere tutti i posti nei quali sono stata ma che non ho visitato in questi anni. Bisogna vedere con chi, perché

queste sono esperienze che vanno condivise.La seconda: mi piacerebbe contribuire alla diffusione e alla crescita tecnica del tennis in Italia, aiutare nell’importazione di un metodo che aiuti i

giocatori futuri a essere più solidi, più preparati. Attualmente mi pare che abbiamo molti buoni tennisti, tutti molto creativi e pieni di estro poetico,ma che spesso non conoscono la grammatica di base. Non intendo dire che tengono male la racchetta, ma che se chiedi loro di “remare” magarisono in difficoltà, e non parlo di ostacoli psicologici o chissà cos’altro. Gabi dice che per vincere non bisogna per forza e sempre giocare bene. Èvero. Perché incaponirsi a giocare dei top spin quando, a volte, basta un back? Il problema è avere il polso della situazione e capire quandomettere in campo un colpo o l’altro. E per arrivare a questo risultato ci vuole una cosa sola, che in Italia secondo me non c’è: metodo.

Siamo fermi ad Adriano Panatta, ci concentriamo sul “bel tennis”, tutto è molto attraente, molto fluido e incantevole da vedere. Va molto bene seuno deve fare delle foto: vengono benissimo.

Per crescere di livello credo che bisognerebbe curare di più la parte fisica. Un giocatore deve avere come obiettivo costante superare sestesso, i propri limiti. In allenamento deve provare a farlo ogni giorno, altrimenti come farà in partita a reggere tre o quattro ore di gioco, con in piùdall’altra parte uno che certamente non molla e la pressione psicologica del voler ottenere il risultato?

I ragazzini che mi capita di incontrare quando mi alleno in Italia mi lasciano stecchita: mi è capitato che al Circolo mi facessero fretta perchél’ora dopo avevano prenotato il campo e io non avevo ancora sgomberato. D’accordo, mi sbrigo, ma perché non mi chiedi di giocare due palle?Perché non ti fermi a guardare come gioco? Alcuni in allenamento lavorano sulle gambe a un livello molto più basso di quello che useranno inpartita: è sbagliato!

Sono bravi, sono belli da vedere, corretti nei movimenti, ma sono come sfaticati, non hanno fame di vincere, credono di essere degli dèi e che irisultati siano dovuti. E non hanno un orientamento deciso, non sanno cosa vogliono, nessuno li ha inquadrati.

Come cambiare questa mentalità? Forse con una strategia dei piccoli passi, dando e dandosi piccoli obiettivi raggiungibili, per creare unaroutine che spinge ad andare avanti invece che a fermarsi. Il che, tra parentesi, credo che valga per qualsiasi mestiere, non solo per il tennis.

Sul come provare a fare tutto questo ho poche idee e molto confuse. Però ho potuto vedere la differenza tra Italia e Spagna, a livello pratico, sodove attingere per gli spunti. Poi sono riuscita a raggiungere risultati molto positivi in carriera: se sono riuscita a entrare nella top ten, primaitaliana nella storia, a vincere la Fed Cup e un numero che spero cresca ancora di tornei, sono sicura che troverò un modo positivo e fecondo ditrasmettere la mia esperienza, un modo utile per gli altri e per il tennis. Un modo da donna, in definitiva. Trasformarmi in una sequela di numeri midarebbe abbastanza fastidio, in effetti.

E poi c’è la terza cosa. Che volli, sempre volli, fortissimamente volli. Una famiglia. Due bambini. Almeno. Vorrei essere una mamma giovane,piena di energie e di tempo da dedicare, come è stata la mia per me: dura quando c’era bisogno, capace di regalare a me e mia sorella regole eprincipi, lasciandoci comunque libere di essere noi stesse e di seguire le nostre inclinazioni. Ci ha accompagnato nello scoprirci, senza violare sestessa e mantenendo un rapporto assolutamente privilegiato con mio padre. A volte essere figli di genitori che si amano tanto, che hanno unequilibrio così perfetto è difficile, è come se le mie aspettative nei confronti dell’amore fossero troppo alte. Il dubbio che non valga la pena tentare

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per qualcosa in meno di quello che hanno loro è sempre presente. Poi, riflettendoci, mi dico che erano giorni diversi: forse i valori erano più ferrei,i binari più rigidi, forse oggi abbiamo smarrito, me compresa, una certa qual predisposizione al compromesso. Però, però... però loro secondome sono una coppia modello. Anzi, sono il mio modello, quello che conosco meglio e che ammiro: Oronzo e Conchita si rispettano e rispettano leproprie differenze, si amano anche per quelle.

Vorrei, vorrei, vorrei. Sembro una bambina viziata. Forse lo sono, perché so che i sogni si avverano. Vederne avverare uno, poi un altro e un altroancora porta a credere che tutto sia possibile. Che sia proprio come mi dicevano da piccola: «Flavia, tu puoi fare tutto».

Non credo di essere così potente, però so che, se finalizzo, remo, se scelgo bene i colpi e non bado troppo ai risultati, le cose succedono. Nonprovarci sarebbe ammettere una sconfitta, e a trent’anni non sono ancora pronta. Continuo a volere tutto: voglio un amore sconfinato, voglio farebene nel mio lavoro, voglio lasciare un segno, voglio viaggiare e vedere e scoprire posti e vite. Voglio il sogno tutto intero, da mordere eabbracciare. Ci ho messo venticinque anni per realizzarne la prima metà, per la seconda ci risentiamo tra altri venticinque.

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Ringraziamenti

Sono stati parecchi i momenti nei quali mi sarei volentieri accovacciata in un angolo, nascosta, a osservare il resto del mondo muoversi e andareavanti, ma sono stati trascurabili, perché sono una persona fortunata: c’è sempre stato qualcuno che ha guardato nella mia direzione, mi ha sorrisoe ha allungato la mano per aiutarmi ad alzarmi.

Voglio ringraziare tutti loro – non servono nomi, sanno chi sono – per esserci stati, sempre, e aver condiviso il mio cammino, il mio sogno.

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INSERTO FOTOGRAFICO

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Cinque anni, palla, racchetta e uno dei campi in terra rossa del Circolo tennis di Brindisi: chissà che fine ha fatto quel vestito bianco...

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Tutte le donne del presidente (del Circolo tennis):la mia mamma bellissima, la mia sorellina lunghissima e io, il funghetto di tre anni. Il presidente èl’affascinante signore sulla destra.

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Nel 1997 vinco i campionati Under 16 di Palermo, con immensa gioia mia e colossale sospiro di sollievo di mio padre che, possibilmente, avevasofferto più di me...

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Direttamente dai furenti anni del Centro federale, la vittoria ai mondiali Under 16 a Cuneo: Claudio Galoppini (allenatore) e Gianluca Pasquini(preparatore fisico) scortanole spettacolari Came (Maria Elena Camerin), me e Robertina Vinci.

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Della serie “Come eravamo”: io sono il caschetto sulla sinistra; il biondo accanto a me è Tommy Robredo; alle mie spalle, in felpa grigia, FilippoVolandri; la faccia che spunta dietro di lui è di Francesco Piccari. La bionda di fronte a me è Laura Dell’Angelo e il capellone che spunta tra lei eTommy è Feliciano Lopez.

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Le mie inseparabili amiche: Fio(rella), Cris(tina) e Lav(inia). Qua siamo all’aeroporto di Barcellona, in partenza per una toccata e fuga aFormentera.

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Voglia di tornare zero...

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Nel 2004, olè, vinco Acapulco e non mi tengo: è la mia terza coppa WTA!(© Eduardo Verdugo/ La Presse)

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Sul tetto del mondo!!! Con Mara (Santangelo), Robertina Vinci, la Schiavo e Corrado Barazzutti riconquisto la Fed Cup a trent’anni dall’ultimavittoria italiana. (© Julian FDinney/Getty Images)

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In campo vado io, ma senza di loro sarebbe tutto diverso: festeggio la coppa con Giorgia, mio padre e mia madre.

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Dimagrisco, ma non mi piego: il PTT Bangkok Open del 2007 è mio! (© P. Kittiwongsakul/AFP/Getty Images)

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Anno nuovo, casa nuova: finalmente un punto fermo! Io e le ragazze siamo ufficialmente coinquiline e Giorgia festeggia con noi.

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Il 2008 inizia in modo fenomenale: vinco il torneo di Vińa del Mar, in Cile, e poi Acapulco, per la seconda volta! Bisogna festeggiare, e Potito nonsi tira certo indietro...

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Giovani tennisti crescono... Nel 2008 esco dal guscio e torno nel mondo, gli amici miracolosamente mi hanno aspettato. Qua sono con Poto eFilippo Volandri.

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“Fede, questa è per te”: nel 2009 vinco Los Angeles e penso a Fede Luzzi, che dal tennis era passato al cinema l’anno prima, che era venuto asalutarmi su quei campi e che ho perso il 25 ottobre 2008, e mi si è spezzato il cuore. (© Jeff Gross/Getty Images)

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14 agosto 2009: il momento è adesso! Batto Daniela Hantuchová ai quarti di finale di Cincinnati e sono numero 10 al mondo, la prima italiana ariuscirci.(© Kevin C. Cox/Getty Images)

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L’abbraccio con Gabi è liberatorio!(© Jeff Gross/Getty Images)

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Nel 2009 la sorte mi regala la possibilità di giocare contro Melanie Oudin la partita decisiva per la Fed Cup. Siamo a casa, a Reggio Calabria, latensione mi sta divorando. (© M. Paternostro/AFP/Getty Images)

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Per farla breve, ce l’ho fatta! Mando a casa la Oudin con il punteggio di 7-5, 6-2 ed è gioia pura. (© Emanuela Quaranta)

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Quelle che amo di più sono le vittorie condivise, di squadra. Insieme a me hanno lottato la Schiavo, Roberta Vinci e Sara Errani. (© EmanuelaQuaranta)

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Pennetta, Schiavone, Vinci ed Errani, altrimenti dette “tenniste infilate in improbabili tailleur”: stiamo per giocare la finale di Fed Cup nel 2010.

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Alla finale di San Diego battere Bethanie Mattek-Sands mi costa una fatica bestiale ma ne vale la pena: porto l’Italia sul 2-0. Supero laVandewenghe e siamo 3-0: senza nemmeno il doppio è gia Fed Cup! (© M. Ralston/ AFP/Getty Images)

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La scalata alla posizione numero 1 comincia da qua: io e Gise nel 2010 vinciamo il torneo di Miami, è la prima di sette vittorie. (© CliveBrunskill/Getty Images)

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Suggerisco caldamente di non dire mai, nemmeno per scherzo: “Se vinciamo ci tingiamo i capelli!”. Pena finire così, come me e Gise dopo lavittoria al Master di Doha nel 2010, e come i nostri allenatori, Alessandro (il finto biondo) e Gabi (con tinta aliena, sulla destra).

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Gli Australian Open, il mio sogno, il nostro sogno: io e Gise apriamo il 2011 con la nostra prima vittoria a uno Slam. (© Rob Griffith/La Presse)

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© Gianni Brucculeri

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Dri tto al c uoredi Flavia Pennetta© 2011 A rnoldo Mondadori Edi tore S .p.A ., Mi lanoEbook ISBN 9788852021626

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