Pearse Lesley - Ricordati Di Me

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FIRJAN CIRJ SESI SENAI IEL MECÂNICA DE MOTOCICLETAS SENAI-RJ • Automotiva

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intenso

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LESLEY PEARSE. RICORDATI DI ME..

OSCARMONDADORI. UN'AUTRICE AMATISSIMA, 2 MILIONI DI LIBRI VENDUTI

Ricordati di me.

Una storia vera d'amore e coraggio dall'Inghilterra del '700 al magico e selvaggio scenario dell'Australia incontaminata

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Bestsellers Emozioni. Le storie che hai voglia di leggere Plymouth, 1786. Una giovane giunta da poco in città, Mary Broad, viene condannata all'impiccagione per aver tentato di rubare un cappellino. All'ultimo momento la sentenza è commutata nella deportazione in Australia. Mary fu una delle prime galeotte a sbarcare in quel lontano continente da poco scoperto, e da qui ebbe inizio la sua avventura: l'incontro con l'amore, la fuga dalla colonia penale, la nuova cattura e il viaggio di ritorno verso l'Inghilterra, dove il destino aveva in serbo ancora molte sorprese per Mary... Una donna costretta dalla vita a scoprire in sé doti di resistenza, coraggio e determinazione che nessuno avrebbe potuto immaginare in quella giovane figlia di pescatori cresciuta in un paesino della Cornovaglia. Una grande vicenda sulla forza dell'animo umano che commuove ed entusiasma; una storia vera, ricca di colpi di scena e di forti emozioni, nella quale si respirano le atmosfere di Lezioni di piano. «Personaggi di cui è impossibile non innamorarsi.» DAILY MAIL.

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di Lesley Pearse nella collezione Oscar: Nelle tue mani. Ricordati di me. Segreti. Se non ti avessi lasciato andare. Senza guardarsi indietro.

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LESLEY PEARSE. RICORDATI DI ME. Traduzione di Adriana Colombo e Paola Frezza Pavese. OSCAR MONDADORI.

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© Lesley Pearse, 2003. All rights reserved. Titolo originale dell'opera: Remember Me. © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. Prima edizione Oscar bestsellers giugno 2011. ISBN 978-88'04'60962-9.

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Ricordati di me. A John Robert, il mio Boswell. Non ci sono parole per esprìmere tutta la gratitudine che provo per te. ***

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Capitolo 1. 1786. Mary, sul banco degli imputati, strinse con forza la sbarra quando il giudice rientrò nell'aula. Dalle finestre, piccole e sporche, filtrava poca luce, ma il copricapo nero sulla parrucca ingiallita e il silenzio teso della platea non lasciavano alcun dubbio. «Mary Broad, voi sarete ricondotta da dove venite, e là sarete appesa per il collo finché morte non ne consegua» disse con voce solenne, senza mai guardarla. «Possa Iddio aver pietà della vostra anima.» Assalita da un senso di nausea, Mary sentì cedere le gambe. Sapeva fin troppo bene che l'impiccagione era la pena normalmente comminata ai ladri di strada, ma una piccola parte di lei si era aggrappata alla speranza che il giudice mostrasse clemenza in considerazione della sua giovane età. Una vana illusione. Era il 20 marzo 1786 e Mary Broad avrebbe compiuto ventanni nel giro di poche settimane. Era una ragazza comune sotto ogni punto di vista, né alta né bassa, non particolarmente carina ma neppure brutta, e soltanto la sua aria da ragazza di campagna la distingueva dagli altri imputati che dovevano essere giudicati quel giorno nell'Assise di Quaresima. La sua carnagione pallida appariva ancora luminosa malgrado le settimane di detenzione

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nel castello di Exeter; i capelli ricci e scuri erano ordinatamente legati da un nastro e il vestito grigio di lana, che portava tracce della sporcizia della prigione, era semplice e pratico. Un forte brusio serpeggiò intorno a lei in quell'aula di tribunale stipata all'inverosimile. Tra il pubblico vi erano amici e parenti degli altri reclusi in attesa di giudizio, ma la maggior parte dei presenti era composta da semplici spettatori. Tuttavia non si trattava di un brusio di solidarietà o di indignazione per una sentenza tanto severa: Mary non aveva neppure un amico in quell'aula. Un mare di facce sudicie dall'espressione malevola si voltò nella sua direzione, e bastò quel lieve spostamento per farle arrivare alle narici il puzzo di quei corpi sporchi. Aspettavano tutti una qualche reazione da lei: lacrime, rabbia, un'invocazione di pietà. Avrebbe voluto scoppiare in singhiozzi, chiedere di avere salva la vita, ma l'innata vena ribelle, che in primo luogo l'aveva indotta a rubare, la spinse ad aggrapparsi all'ultimo bene che le restava, la dignità. Una guardia le afferrò la spalla. Troppo tardi, ormai; le restava solo il tempo per le preghiere. In uno stato di stordimento, Mary compì il viaggio di ritorno al castello di Exeter, la prigione in cui l'avevano rinchiusa dopo l'arresto a Plymouth. Sul carro notò a malapena lo sfregamento sulle caviglie dei ferri incatenati a una pesante fascia intorno alla vita, gli altri sei compagni di carcere o gli insulti della folla per strada. L'unico suo pensiero era che avrebbe rivisto il cielo sopra di sé soltanto il giorno in cui sarebbe salita al patibolo. Sollevò il viso verso il debole sole del pomeriggio. Quella mattina, mentre la portavano in tribunale, aveva trovato accecante la forte luce primaverile dopo il buio della cella. Nel guardarsi intorno con curiosità, aveva notato le foglioline nuove sugli alberi e sentito i piccioni tubare nel rito dell'accoppiamento; stupidamente li aveva interpretati come un segno positivo. Quanto sbagliava. Non avrebbe mai più rivisto l'amata Cornovaglia, e neppure i genitori o la sorella Dolly. Poteva soltanto

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sperare che non scoprissero mai quello che aveva fatto; molto meglio che si convincessero che li aveva dimenticati per farsi una nuova vita a Plymouth, o addirittura a Londra, piuttosto che ricevere la disonorevole notizia che era stato il cappio del boia a porre fine alla sua vita. Un rumore di singhiozzi la fece voltare verso la donna alla sua sinistra. Impossibile stabilirne l'età perché aveva il viso butterato dai segni del vaiolo e stringeva un lacero cappuccio marrone sulla testa nel tentativo di nasconderlo. «Piangere non serve a nulla» le disse Mary, immaginando che anche quella donna fosse stata condannata all'impiccagione. «Quanto meno ora sappiamo cosa ci aspetta.» «Non ho rubato niente, lo giuro» disse la donna con il fiato mozzo. «Chi l'ha fatto, se l'è squagliata e ha fatto cadere la colpa su di me.» Dal suo arresto in gennaio, Mary aveva sentito ripetere la stessa cosa tante volte dagli altri reclusi. Sul principio tendeva a credere a tutti, ma adesso le risultava più difficile. «Glielo hai detto, oggi?» chiese. La donna annuì, mentre lacrime sempre più copiose le rigavano le guance. «Però hanno parlato di un testimone.» Mary non ebbe il coraggio di chiederle ulteriori particolari. Voleva riempirsi i polmoni di aria pulita, riempirsi la mente delle immagini e dei suoni dell'affollata città di Exeter per avere qualcosa da ricordare al ritorno nella cella lurida e tetra. Ascoltare la tragica storia della compagna di sventura l'avrebbe resa più triste di quanto già era, eppure la sua naturale generosità non le permise di ignorare quella povera creatura. «Anche tu sarai impiccata?» domandò. La donna si voltò di scatto con un'espressione sorpresa sul viso butterato. «No. E solo un pasticcio di montone quello che mi accusano di avere rubato.» «Allora sei più fortunata di me» sospirò Mary.

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All'arrivo al castello di Exeter, Mary fu spinta in una cella con una ventina di prigionieri di entrambi i sessi. Trovato uno spazio libero vicino al muro, sedette a terra, sistemò le catene dei ferri in modo da poter sollevare le ginocchia e, stretta nel mantello, si dispose a riflettere sulla propria situazione. La cella non era più quella da cui l'avevano prelevata al mattino; questa era migliore perché da una griglia in alto sulla parete arrivava aria fresca, la paglia per terra appariva abbastanza pulita e i buglioli non traboccavano ancora, anche se aleggiava ovunque - e si inalava a ogni respiro - il puzzo di sporcizia, fluidi corporei, vomito, marciume e sofferenza umana. C'era una quiete sinistra. Nessuno parlava ad alta voce, nessuno imprecava, gridava o insultava le guardie, come accadeva nella vecchia cella. Tutti stavano seduti a terra come lei, immersi nei propri pensieri, disperati. Mary comprese che anche loro erano condannati a morte, in preda a una comune angoscia. Non riusciva a vedere Catherine Fryer né Mary Haydon, le ragazze catturate insieme a lei, a loro volta condotte in tribunale quella mattina. Ignorava se fossero ancora in attesa di giudizio, oppure se l'avessero scampata con una condanna più lieve della sua. Qualunque fosse la ragione, era lieta di non averle intorno. Non voleva ricordare che, se non fosse stata istigata da loro, mai le sarebbe venuto in mente di derubare qualcuno. Era troppo buio per distinguere bene i compagni di cella, dal momento che la sola fonte di luce era una lanterna nel corridoio, al di là della porta con le sbarre. Uno sguardo frettoloso le rivelò che, a parte la presenza degli uomini - la cella precedente era riservata alle sole donne -, le caratteristiche individuali non sembravano molto diverse da quelle a cui si era abituata nei due mesi di prigione. L'età dei presenti andava dai circa sedici anni di una ragazza, che stava singhiozzando sulla spalla di una donna più matura, alla cinquantina o forse più di un uomo. Tre donne, a giudicare dagli abiti colorati e anche piuttosto eleganti, parevano delle puttane, mentre le altre erano cenciose, con visi induriti, denti

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marci e capelli lunghi e radi; gli uomini, macilenti, fissavano muti nel vuoto. Vide due donne già conosciute nella vecchia cella: Bridie, in abito rosso con uno sbrindellato colletto di pizzo, le aveva confidato di avere derubato un marinaio addormentato; Peg, molto più vecchia e tra le più lacere, si era rifiutata con decisione di parlare del crimine commesso. Dall'esperienza fatta nell'altra cella, Mary prevedeva che, superato quel momento di sconforto generale, nel giro di poche ore chi per natura tendeva a imporsi - come Bridie - avrebbe assunto il comando della situazione: un atteggiamento in gran parte dettato dalla spavalderia, perché era necessario apparire forti se si voleva sopravvivere in prigione. Litigare, urlare e pretendere dalle guardie cibo o acqua era un modo per comunicare ai compagni di cella che non ci si faceva mettere sotto. Mary si chiese se, a quel punto, valeva ancora la pena di ostentare sicumera. Lei, personalmente, non ne aveva alcuna intenzione; voleva soltanto sapere quanti giorni di vita le rimanevano. Nel vederla, Bridie raccolse le catene e si avvicinò trascinandosi per la cella. «Impiccagione?» chiese. Mary annuì. «Anche tu?» Bridie si accovacciò sulla paglia con un'espressione desolata che equivaleva a una risposta. «Quel bastardo di un giudice» disse stizzita. «Mica lo sa com'è per noi. A che cosa serve impiccarmi? Chi ci pensa ai miei vecchi, adesso?» Poco dopo che Mary era stata portata a Exeter, Bridie le aveva raccontato di avere cominciato a vendersi per evitare che i genitori dovessero dipendere dalla carità della parrocchia, eppure qualcosa di chiassoso nei suoi abiti e ancora di più nella sua natura suggeriva che non avesse dovuto affrontare una lotta morale troppo dura. Comunque, fin dalla prima notte trascorsa da Mary in prigione, Bridie si era mostrata gentile e protettiva nei suoi confronti, dando prova di essere una persona di buon cuore. «Credevo che tu te la saresti cavata con quella faccetta innocente

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che ti ritrovi» disse a Mary, con una lieve carezza della mano sporca sulla guancia. «Cos'è successo?» «La signora che abbiamo derubato è venuta in tribunale» rispose Mary con tristezza. «Mi ha riconosciuto.» Bridie sospirò con aria solidale. «Be', speriamo che si sbrighino in fretta. Non c'è niente di peggio che aspettare un'impiccagione.» Più tardi, durante la notte, distesa sulla paglia sudicia sparsa per terra tra i compagni di cella profondamente addormentati, Mary si trovò a ripensare alla sua casa di Fowey, in Cornovaglia, e alla sua famiglia. Aveva ormai capito di essere nata in una situazione fortunata rispetto a tante donne conosciute dopo avere lasciato il villaggio. Suo padre, William Broad, faceva il marinaio, ed era sempre riuscito a fare in modo che i suoi familiari non patissero la fame o il freddo, anche se passavano momenti grami quando lui restava senza lavoro. Mary ricordava quando si rannicchiava nel letto con la sorella Dolly e sentiva le onde frangersi contro i muraglioni del porto; tuttavia si sentiva tranquilla e al sicuro, perché il padre, che pure stava in mare a lungo, lasciava sempre abbastanza soldi per provvedere alle loro necessità fino al suo ritorno. Il solo pensiero di Fowey con le minuscole casette e le strade lastricate le fece salire un nodo in gola. Non si annoiava mai nel porto e nel centro del villaggio, sempre pieni di attività, perché conosceva tutti e i Broad erano una famiglia rispettata. Grace, sua madre, dava molto peso alla reputazione; teneva la casa come uno specchio, e cercava di trasmettere alle figlie l'amore per quello che facevano, fosse cucinare, rassettare o cucire. Dolly, la sorella maggiore di Mary, era delle due quella ligia al dovere, ubbidiente e felice di seguire l'esempio materno; il suo unico sogno era trovare marito, avere dei figli e una casa tutta sua. I sogni di Mary erano del tutto diversi. Spesso vicini e conoscenti affermavano che sarebbe dovuta nascere maschio. Impacciata

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con l'ago e poco interessata alle faccende domestiche, era ben felice quando il padre la portava a pescare, perché si sentiva perfettamente a suo agio in mare e sapeva governare la barca bene quasi quanto lui. Inoltre preferiva la compagnia maschile, perché uomini e ragazzi parlavano di cose emozionanti, di paesi oltremare, di guerra, contrabbando, e del loro lavoro nelle miniere di stagno. Non aveva tempo da perdere con le smancerie e le risatine delle ragazze, interessate solo ai pettegolezzi e al costo dei nastri per capelli. Era stata la sete di avventura a far nascere in lei il desiderio di andarsene da Fowey, convinta di poter lasciare il segno nel mondo se solo si fosse trovata a vivere altrove. Al momento di salutarla, Dolly le aveva detto molto sgarbatamente che partiva soltanto perché non aveva mai avuto un innamorato, e temeva che nessuno l'avrebbe mai voluta. Non era affatto vero. Mary non aveva alcun desiderio di sposarsi, e in realtà provava compassione più che invidia per le sue coetanee, che erano già alle prese con due o tre marmocchi. Sapeva che la loro esistenza diventava sempre più difficile con l'aumentare delle bocche da sfamare, e che vivevano nel costante terrore di perdere il marito in mare o in un incidente in miniera. Per la verità, a meno di non appartenere all'aristocrazia, la vita era difficile per tutti in Cornovaglia. Lavorare significava necessariamente fare il marinaio, il minatore o il militare. Dolly era a servizio dai Treffry di Fowey come sottocameriera, ma Mary si era decisamente rifiutata di seguire il suo esempio. Non intendeva passare le giornate a vuotare vasi da notte o a preparare il fuoco al minimo cenno di un'arcigna governante. Non vedeva alcun futuro in un'attività del genere. L'alternativa, peraltro, era pulire il pesce e metterlo sotto sale, cosa che faceva fin da bambina; amava la libertà di chiacchierare mentre lavorava e l'atteggiamento amichevole delle compagne di lavoro, ma nessuno diventava ricco a sventrare il pesce. Si puzzava in modo disgustoso, e d'inverno si gelava. Mary guardava la schiena ingobbita e le dita deformi delle donne che lo facevano

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da tutta la vita con la consapevolezza che le attendeva una morte precoce. Dai marinai aveva sentito parlare di Plymouth. Raccontavano dei bei negozi, delle grandi case del posto, e delle tante opportunità che si offrivano a chi era determinato. Pensava di ottenere un lavoro in uno di quei negozi perché, pur non sapendo leggere né scrivere, a far di conto era più veloce del padre. La sua partenza fu accolta dai genitori con sentimenti contrastanti: da un lato avrebbero desiderato che rimanesse a casa, a Fowey, ma i tempi erano duri e faticavano a mantenerla. Inoltre, forse speravano che un paio d'anni di lontananza trascorsi svolgendo un'attività rispettabile le sarebbero serviti per sistemarsi, trovare un fidanzato e infine sposarsi. Mary era stata ansiosa di andarsene. Invece adesso, distesa sul pavimento freddo e duro della cella, si sentiva colma di rimorsi nel ricordare il giorno in cui era partita da casa. Era mattino presto, una bellissima giornata di luglio senza una nuvola in cielo e già tiepida. Suo padre era salpato per la Francia pochi giorni prima e Mary aveva insistito perché soltanto Dolly andasse al porto a salutarla: non voleva che la madre le facesse altre prediche sulla necessità di comportarsi in modo educato sulla nave e di non dare confidenza agli sconosciuti. «Fai la brava» le aveva raccomandato con la voce rotta dal pianto. «Di' le preghiere e tieniti lontana dai guai.» Mary ricordava di essere corsa via con Dolly tra risatine eccitate. Fu solo quando arrivò in fondo alla stradina che, nel voltarsi indietro, vide la madre ancora sulla soglia. Appariva vecchia, piccola e stranamente vulnerabile. Non si era ancora fatta la crocchia e i capelli erano grigi come il vestito, così si confondeva contro la pietra della casupola. Pur non distinguendone chiaramente il viso, Mary sapeva che stava piangendo, eppure Grace riuscì comunque a farle un allegro cenno di saluto. «Non so proprio perché sei convinta che Plymouth sia meglio di qui» disse Dolly stizzita mentre, nella discesa verso il porto, già vedevano la nave in attesa. «Scommetto che potresti

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fare il giro del mondo senza riuscire a trovare un posto bello come questo.» «Non dire così» ribatté Mary, convinta che Dolly fosse mossa dall'invidia. La sorella era molto più graziosa di lei, con occhi azzurri come il cielo, la carnagione chiara e rosea e un bel nasetto all'insù, ma spesso Mary percepiva che Dolly avrebbe desiderato essere più coraggiosa, e che la infastidiva il pensiero di avere la vita già segnata davanti a sé. «Non riesco a trattenermi» disse Dolly con una vocina esile. «Mi mancherai da morire. Non stare via troppo.» Mary ricordava che a quel punto aveva abbracciato la sorella, e le aveva promesso che, una volta fatta fortuna, l'avrebbe mandata a chiamare. Se avesse saputo che era l'ultima volta che la vedeva, le avrebbe dichiarato tutto il suo affetto, e invece quella mattina di sole non vedeva l'ora di imbarcarsi, neppure sfiorata dall'idea di poter fallire a Plymouth. Ciò che Mary non aveva previsto erano le centinaia di ragazze disoccupate che sbarcavano a Plymouth ogni settimana ed erano quelle istruite, le più carine e con buone referenze a trovare le occupazioni migliori. L'unico lavoro che riuscì a rimediare fu in una taverna del porto, dove aveva il compito di lavare boccali e fregare pavimenti. Alcuni sacchi per terra in cantina costituivano il suo letto. Fu intorno alla festa di San Michele che il padrone la buttò fuori con la falsa accusa di avere rubato dei soldi, mentre la sua unica colpa era stata rifiutare di cedergli. Senza referenze era impensabile trovare un altro lavoro, e l'orgoglio le impediva di tornare a Fowey per sentirsi dire: “Te l'avevo detto”. Nel momento stesso in cui incontrò Thomas Coogan vicino al porto comprese che si stava mettendo in un grosso pasticcio. Certo, una giovane per bene non avrebbe mai permesso a un completo sconosciuto di pagarle il pranzo, tanto meno di prenderla

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per mano, e sarebbe scappata a gambe levate nel sentirsi proporre di stabilirsi da lui finché non si fosse trovata un altro lavoro, ma qualcosa la conquistò nel viso magro e spigoloso di quel giovane, in quegli occhi azzurri luminosi, nelle storie dei suoi viaggi per mare in Francia e in Spagna. Thomas non teneva in alcun conto i principi con cui Mary era stata allevata. Non gli importava affatto del re, della Chiesa, e dell'autorità in genere. Aveva modi signorili e curava molto il proprio aspetto, e a Mary parve la persona più divertente che avesse mai conosciuto. Forse fu perché lui pareva desiderarla tanto, ed era sempre pronto ad abbracciarla e a baciarla. Nessun uomo l'aveva mai voluta in quel modo: in genere la consideravano soltanto un'amica. Thomas le diceva che era bella, che i suoi occhi grigi gli ricordavano le nuvole minacciose di un temporale e le sue labbra erano fatte per essere baciate. Il primo giorno insieme fu assolutamente magico. Pioveva forte, e lui la portò in una taverna del porto e le asciugò il mantello davanti al fuoco. Le fece anche assaggiare per la prima volta il rum, che a lei non piacque perché bruciava in gola, mentre le piaceva come lui si sporgeva in avanti a leccarle le labbra con la punta della lingua. «Ha il gusto del nettare su di te» le sussurrava. «Bevilo fino in fondo, tesoro. Ti riscalderà tutta.» La faceva sentire libera e ardente in tutto il corpo, e non era solo per effetto del rum. Era il suo brio, la sensazione che le procurava la sua mano che la stringeva, l'impressione di essere in prossimità di qualcosa di pericoloso eppure bellissimo. Ripensandoci, avrebbe dovuto insospettirsi: era strano che lui non cercasse di portarla a letto. La baciava con passione e diceva di amarla, ma senza mai spingersi oltre. All'epoca Mary aveva ingenuamente attribuito tanta cautela all'amore e al rispetto che nutriva per lei, e solo in seguito scoprì la verità. A Thomas Coogan importava solo di se stesso. Era un borsaiolo e, nel vederla in lacrime al porto, aveva compreso che con quell'aria pulita e innocente da ragazza di campagna sarebbe stata

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la complice ideale. Gli erano bastate poche parole di solidarietà per conquistare la sua fiducia. Nelle prime settimane dal loro incontro, Mary non fu mai sfiorata dall'idea che, mentre a braccetto guardavano le vetrine dei negozi o girovagavano per il mercato, Thomas usasse spesso la mano libera per sfilare un portafoglio, un orologio da taschino o qualche altro oggetto prezioso. Era conquistata dal suo fascino, dai suoi interessanti amici e conoscenti, e troppo abbagliata dalla sua generosità per studiarlo con attenzione. Quando infine cominciò a capire, era ormai talmente integrata nella vita facile e divertente di Thomas che non avrebbe battuto ciglio neppure se lui le avesse confessato di essere un profanatore di tombe. Quando scomparve, subito dopo Natale, abbandonandola nella pensione in cui l'aveva portata, Mary fu inconsolabile. Con ogni probabilità era stato catturato dalle guardie, e fu proprio questo ad avvicinarla a Mary Haydon e Catherine Fryer. Non voleva perdere la faccia con quelle due tagliaborse che Thomas teneva in gran considerazione; apparivano molto esperte e coraggiose, e lei aveva bisogno di soldi per pagare l'affitto della camera fino al ritorno di Thomas. Dapprima si limitò a fare il palo mentre le altre rubavano borsellini in strade e mercati affollati. A volte, per creare un diversivo, fingeva di svenire o urlava di essere stata borseggiata. Poi venne il giorno in cui Catherine pretese che anche lei si assumesse parte dei Vischi, e la comparsa della donnina elegante che rientrava a casa con le braccia piene di pacchi sembrò loro l'occasione perfetta per l'iniziazione. Forse, se non fosse stata tanto ansiosa di sfoggiare la propria temerarietà, Mary si sarebbe limitata ad atterrare la signora con una spinta per poi filarsela con uno solo dei suoi pacchi; invece afferrò il bel cappellino di seta con una mano e raccolse tutto quello che la donna, spaventata, aveva lasciato cadere per lanciarlo all'altra Mary e a Catherine prima di scappare a gambe levate. Sfortunatamente per loro, la gente si lanciò all'inseguimento, le bloccò in un vicolo e chiamò le guardie.

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Molti particolari dell'arresto e della reclusione a Plymouth le apparivano ormai confusi, offuscati dal successivo trasferimento a Exeter: quattro giorni di viaggio su un carro aperto, incatenata ad altre tre donne, due delle quali erano le sue presunte amiche, concordi nell'incolparla della loro cattura. Era gennaio, e l'implacabile vento gelido che spazzava la nuda brughiera penetrava fin nelle ossa. Se volevano fare i propri bisogni, le donne dovevano scendere legate insieme e liberarsi davanti agli sguardi lascivi delle guardie. Ogni passo era una tortura, perché i ferri incidevano la pelle tenera e loro non erano abituate a muoversi insieme. La notte venivano gettate nella stalla di una locanda, con l'unico conforto di un po' di pane e acqua. Mary temeva di morire di freddo, anzi lo sperava con fervore, se non altro per non dover più convivere con lo sprezzante sarcasmo delle compagne e la consapevolezza che il suo reato, la rapina, veniva punito con l'impiccagione. La prima notte al castello di Exeter fu Bridie a consolarla e ad assicurarle che si sarebbe abituata ai ratti, ai pidocchi, al sudiciume, al pane stantio e a servirsi del bugliolo davanti a tutti. Mary si disse che non le restava che accettare le asprezze della vita in prigione, il giusto castigo per quello che aveva fatto. Tuttavia non riusciva a rassegnarsi all'idea di dover morire nel giro di pochi giorni, di non poter mai più essere libera di camminare per i sentieri di campagna, di guardare il mare frangersi sulla spiaggia o il sole al tramonto. Allora scoppiava in lacrime al pensiero di avere tradito i genitori e disonorato la famiglia, e di non avere ascoltato la sua coscienza che le diceva che rubare era sbagliato. Era risaputo che almeno metà dei condannati a morte otteneva una qualche commutazione della pena. Nei tre giorni successivi i compagni di cella di Mary non parlarono d'altro; tutti speravano di essere tra i fortunati.

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Mary, però, non era sciocca e sapeva che bisognava avere delle conoscenze all'esterno, una padrona o un padrone preoccupati e gentili, un membro del clero, o anche soltanto un amico agiato, a perorare la propria causa. Con il lento trascorrere delle ore e dei giorni divenne chiaro quali dei suoi compagni erano i favoriti dalla sorte: quelli che ricevevano da fuori cibo, bevande, soldi e addirittura abiti puliti. Mary osservò con invidia la ragazzina e la donna - che aveva saputo essere nipote e zia - intente a mangiare sformati caldi di carne portati da una guardia. Erano state accusate di avere rubato in una pensione, ma dal momento dell'arresto non avevano fatto altro che protestare la propria innocenza. Ora, a giudicare dalle cibarie e dalle coperte che ricevevano, immaginò che avessero detto la verità, perché qualcuno all'esterno stava chiaramente lavorando per il loro rilascio. Peraltro alcuni reclusi, anche quelli senza speranza di una sospensione della pena, negli ultimi due giorni erano diventati molto gioviali, forse perché convinti che una morte a breve termine fosse preferibile alle sofferenze di una lunga detenzione, o a una morte lenta causata dalla febbre carceraria. Essere impiccati comportava anche un certo prestigio, perché l'evento richiamava folle enormi. Chi riusciva ad andare al patibolo con coraggio e dignità si guadagnava l'ammirazione della plebaglia e diventava in qualche modo una figura eroica, se non addirittura leggendaria. Dick Sullion era un uomo che la pensava così, e con il suo spirito e la sua filosofia di vita aveva rallegrato notevolmente Mary. Come lei era stato accusato di brigantaggio - il termine comunemente usato per designare la rapina di strada -, ma il reato di Dick aderiva più di quello di Mary alla definizione, perché lui stava in agguato in strade isolate in attesa di viaggiatori ignari per derubarli non solo delle cose di valore ma anche dei cavalli. Era un omone di un metro e ottanta dal viso rubicondo, con spalle larghe e un irrefrenabile senso dell'umorismo. La mattina successiva al processo, Mary si era svegliata sentendolo cantare

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un'oscena canzone da osteria che incitava ad andare alla forca ubriachi. Ovviamente si era convinta che lui avesse bevuto, perché chi aveva soldi o oggetti preziosi per corrompere le guardie poteva sbronzarsi dalla mattina alla sera. Ma quando l'uomo si mise a sedere e le sorrise, i suoi occhi azzurri erano limpidi e luminosi. «Non serve a niente starsene lì a piagnucolare» le disse, come per spiegarlo a se stesso. «Io ho vissuto bene, e secondo me è meglio finire impiccati che perdere il lume della ragione e abbrutirsi in un posto come questo.» «Alcuni di noi preferiscono dormire piuttosto che riflettere su queste cose» replicò lei. Fin dai primi giorni di prigione, in gennaio, Mary aveva imparato che era consigliabile cercare l'amicizia e la protezione di qualcuno scaltro e risoluto, e poiché Dick pareva soddisfare i requisiti, lei gli permise di avvicinarsi e prese a parlargli. Scoprì ben presto che a lui non rimaneva più un soldo per comprare da bere o da mangiare sottobanco. Le raccontò di esserseli bruciati tutti nelle settimane precedenti il processo. Ma anche se non poteva rendere più confortevoli i suoi ultimi giorni, era un tipo gagliardo, forte, sapeva il fatto suo, e le teneva alto il morale con le chiacchiere e le battute. Anche lui veniva dalla Cornovaglia. Mary trovava conforto nel parlare della loro terra, e non passò molto tempo prima che gli raccontasse come si sentiva a proposito del reato commesso e del fatto di avere tradito gli insegnamenti dei genitori. «Non serve a niente rimuginare» disse lui con il forte accento locale, rassicurante come quello di suo padre. «Si fa quel che si può per sopravvivere. È colpa del governo se si è arrivati a questo: con le tasse alte, le recinzioni dei terreni comuni, ci tolgono tutto facendoci morire di fame, e intanto loro vivono in palazzi lussuosi. Io ho derubato chi se lo poteva permettere, e lo stesso hai fatto tu. Gli sta bene, dico io.» Mary, che era stata educata all'onestà e al timor di Dio, non era del tutto d'accordo, però evitò di confessarlo. «Ma ora non hai paura di morire?» chiese invece.

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Lui si strinse nelle spalle. «Ci sono andato vicino tanto spesso che ormai non mi fa più né caldo né freddo. Che cos'è la corda rispetto alle frustate con il gatto a nove code? A me è toccato la prima volta a soli sedici anni, e quella sì che è una cosa terrorizzante, perché è così dolorosa da farti invocare la morte. L'impiccagione è rapida. Non preoccuparti, piccola: ti terrò la mano fino alla fine.» Mary trovò consolazione nelle parole di Dick. Prese la decisione che, se proprio doveva morire, avrebbe affrontato il patibolo con coraggio. Quattro giorni dopo il processo, intorno alle dieci del mattino, la guardia si avvicinò alla porta della cella, chiamò Nancy e Anne Brown - la zia e la nipote accusate di avere rubato in una pensione - e annunciò che erano state scagionate da nuove prove e quindi avevano il permesso di andarsene. Malgrado la terribile situazione personale, Mary fu felice per loro, e si alzò per salutarle con baci e abbracci. Aveva parlato parecchio con le due donne nei giorni precedenti ed era certa che fossero innocenti come si proclamavano. Erano appena uscite dalla cella quando la guardia gridò il suo nome seguito da quello di tre uomini. «Voialtri venite con me» ordinò seccamente. Mary lanciò a Dick uno sguardo disperato, convinta che stessero per condurla al patibolo. Dick le strinse la spalla con la grande mano. «Vedrai, non è quello che pensi» disse fiducioso. «Alla fine di ogni trimestre scorrono l'elenco e scelgono qualche persona adatta alla deportazione. Secondo me è per questo che ti hanno chiamato.» La guardia sbraitò di seguirla senza darle il tempo di salutare per bene Dick e Bridie. Mentre arrancava lungo il buio passaggio dietro William, Able e John - i compagni di cella -, con le catene che sferragliavano sul rozzo pavimento di pietra, udì la voce tonante di Dick dietro

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di sé. «Sette anni, piccola; ti mancano solo sette anni alla libertà. Sii forte e coraggiosa, e vedrai la fine di questa storia.» Able, un tipo sulla trentina dall'aria malaticcia, si voltò a guardarla. «Cosa ne sa quello?» le disse acido. «Ho saputo che non ne mandano più di criminali nelle Americhe, dato che è finita la guerra.» Anche lei aveva sentito la stessa storia quando stava a Plymouth. Se era vera, sarebbe stato un sollievo, perché fin da bambina aveva sentito i racconti dei marinai sui tormenti inflitti in quelle terre lontane. I reclusi venivano trattati alla stregua degli schiavi neri, ridotti alla fame, picchiati, costretti a lavorare la terra finché morivano di sfinimento. Però, se non in America, dove li avrebbero spediti? Sarebbe stato meglio? Arrivata in cortile, vide altri reclusi in fila, tra cui Mary Haydon e Catherine Fryer, le sue vecchie complici. In tutto erano cinque donne e quindici o sedici uomini. Nel vederla, Mary Haydon scosse la testa e si voltò da un'altra parte, mentre Catherine le lanciò uno sguardo incendiario; dunque continuavano a incolpare lei della loro terribile condizione. Un giudice, o almeno Mary lo identificò come tale per via della parrucca e della toga, scese i pochi gradini verso il cortile, scortato da un paio di uomini, poi lesse ad alta voce una pergamena. Lei non comprese nulla di quello che veniva letto. Sentì “in sede di Assise” e “a seguito di rilascio dalla prigione di Sua Maestà il Re”, poi una serie di “signori” a lei del tutto sconosciuti. Fu soltanto nell'udire il proprio nome che si mise ad ascoltare con maggiore attenzione. Alle parole “Sua Maestà ha graziosamente acconsentito a estendere la sua reale clemenza” Mary sentì il cuore gonfio di emozione, ma mentre il giudice proseguiva la lettura fu di nuovo assalita dallo sconforto perché, come Dick le aveva detto, l'atto di clemenza consisteva nella deportazione per sette anni. Quando il giudice uscì dal cortile lasciando le guardie sole con i reclusi, questi si fissarono a vicenda, mentre il sollievo per la mancata esecuzione si mescolava al terrore per ciò che avrebbe comportato la deportazione.

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«Io non ho mai conosciuto nessuno che sia tornato indietro» commentò cupo uno di loro. «Devono essere morti tutti.» «Io lo conosco uno che è tornato» replicò un altro ad alta voce. «E con le tasche piene, per di più.» Mary cercò di trovare un senso nel guazzabuglio di opinioni discordanti. Anche se personalmente riteneva che una condanna a sette anni, per quanto dura, fosse comunque preferibile all'impiccagione, ogni singola persona presente nel cortile sembrava più informata di lei sull'argomento, quindi evitò di esprimere il proprio pensiero. Quando la donna che le stava accanto scoppiò a piangere, le cinse le spalle per consolarla. «Sarà di certo meglio che morire» le disse dolcemente. «Vivremo all'aperto, e forse riusciremo anche a scappare.» Able, davanti a lei, doveva averla sentita perché si voltò con un'espressione sprezzante in viso. «Se non crepiamo durante la traversata» commentò. Mary pensò che comunque quell'uomo non sarebbe rimasto a lungo su questa terra. Magrissimo, squassato da una tosse continua, era l'unico in cella a non mostrare alcun interesse quando arrivava la razione giornaliera di pane ammuffito. «Finché respiro, io continuo a sperare» replicò lei con calma. Meno di un'ora dopo il portone della prigione si aprì per lasciar entrare due grandi carri trainati da cavalli. I reclusi si erano chiesti come mai fossero stati lasciati in cortile, ma nessuno di loro aveva previsto che quello stesso giorno sarebbero stati trasferiti dal castello di Exeter. In effetti quello era il programma, e senza ulteriori rinvii furono incatenati insieme a gruppi di cinque e costretti a salire sui carri. Ancora una volta Mary si trovò vicina a Catherine e Mary. Sull'altro lato c'erano la donna che aveva consolato poco prima, tale Elizabeth Cole, e un'altra che si chiamava Elizabeth Baker. Dietro la loro panca si sistemarono cinque uomini, tra cui Able.

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Per un'ora, mentre il carro arrancava attraverso Exeter, Catherine Fryer e Mary Haydon non fecero che insultare Mary. «Tutta colpa tua» continuava a ripetere Catherine. «Sei tu che ci hai fatto finire qui.» Elizabeth Cole, soprannominata Bessie, strinse la mano di Mary con gesto solidale, e infine decise di intervenire. «Tappatevi quella boccaccia» le aggredì. «Ormai siamo sulla stessa barca, che ci piaccia o no. Non ha senso dare la colpa a Mary; prima o poi vi avrebbero beccato comunque. E a parte questo, nessuno di noi ha voglia di sentire questa tiritera.» L'intervento di Bessie commosse Mary. Era una donna strana, rossa di capelli e grassa, con un occhio storto e priva di parecchi denti, ma il fatto che avesse avuto il coraggio di parlare indicava che non era prostrata come suggeriva il suo aspetto. Dagli uomini seduti dietro di loro arrivò un'eco di consensi, e forse fu questo che persuase le due donne a smettere con le ingiurie per chiudersi nel silenzio. Poco dopo uno degli uomini si rivolse a Mary. «Civetta un po' con le guardie e fatti dire dove ci portano» sussurrò. «Perché proprio io?» sussurrò lei di rimando. «Sei la più carina.» Fino a quel momento Mary era convinta di non avere alcuna attrattiva, niente quattrini o cose da usare per corrompere le guardie, e neppure amici influenti. Possedeva soltanto gli abiti che indossava, ormai logori e sporchi, ma nel guardare la fila di donne, notò che era più giovane, sana e forte di tutte loro. Quando le aveva incontrate, Mary e Catherine vivevano di furti da anni. Allora, tratta in inganno dai loro vestiti appariscenti, le aveva ritenute superiori a lei sotto ogni punto di vista, ma la seta da quattro soldi non donava granché, tanto meno in prigione, e la carnagione grigiastra sul viso tirato, lo sguardo vacuo e il linguaggio da bassifondi tradivano la loro reale condizione. Quanto a Bessie ed Elizabeth - di cui ignorava il reato e l'ambiente di provenienza -, entrambe avevano quell'aspetto stremato che tanto spesso aveva osservato tra i più poveri di Fowey.

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D'un tratto vide un'opportunità per se stessa. Era giovane e forte, nessun uomo l'aveva rovinata, e sapeva di possedere una mente più pronta della maggior parte della gente, oltre a una forte determinazione. Attese che Bessie chiedesse di fare i propri bisogni e, scesa insieme alle altre dal carro, si sistemò in modo da riparare dietro la gonna l'amica accosciata; allora rivolse un caldo sorriso alla guardia. «Dove ci portate?» domandò. «Di nuovo alla prigione di Plymouth o dritti alla nave per le Americhe?» Era un uomo dalla faccia cattiva, con denti scuri e rotti e un cappellaccio informe spinto sugli occhi stretti e allungati. «Siete diretti alle navi prigione di Devonport» disse con un ghigno crudele. «Non credo che ve la passerete bene là dentro.» Mary rimase senza fiato. Non aveva mai visto una nave prigione, ma ne conosceva la pessima fama. Erano vecchie navi da guerra, ormeggiate negli estuari dei fiumi e in piccole baie, e costituivano la risposta del governo al sovraffollamento delle prigioni. L'incarico di gestirle era stato affidato a privati il cui solo interesse era ricavare il massimo possibile da ogni recluso. I criminali che vi venivano spediti finivano per morire di fame o di sfinimento nel giro di un anno, perché quei luoghi infernali avevano anche la funzione di sfruttare i reclusi costringendoli a lavorare come schiavi, di solito alla costruzione di argini lungo la riva dei fiumi. «Non sapevo che ci mandassero anche le donne» disse Mary con voce tremante. «I tempi cambiano» ribatté la guardia con una risatina. «Meglio che fai la carina se vuoi restare viva laggiù.» Mary deglutì e lo fissò negli occhi. Sapeva che guardie e secondini venivano puniti severamente se lasciavano scappare qualcuno, magari una reclusa che era stata “carina” con loro; ma quell'uomo forse la riteneva tanto stupida da non saperlo e si illudeva che lei tentasse di lisciarlo nella speranza di ottenere il suo aiuto.

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Si sforzò di spremere qualche lacrima. «Però il giudice ha parlato di deportazione.» «Così dovrebbe essere» fece lui, con tono meno aspro. «Ma non possono mandare più nessuno nelle Americhe per via della guerra. Hanno provato con l'Africa, ma non ha funzionato. Ho sentito di un posto chiamato Botany Bay, ma quello è dall'altra parte del mondo.» Mary ricordò che i marinai nella taverna in cui aveva lavorato raccontavano di un certo capitano Cook che aveva rivendicato all'Inghilterra un paese che si trovava agli antipodi. Rimpianse di non averli ascoltati con attenzione, ma all'epoca non le importava granché se re Giorgio era davvero matto, o cosa indossavano ai balli di Londra le gran dame. «Credete che ci manderanno lì, allora?» La guardia si strinse nelle spalle e guardò torvo le donne che si erano radunate intorno a Mary per sentire la conversazione. «Risalite subito» ordinò seccamente. «Abbiamo da fare un bel po' di miglia prima del buio.» Di nuovo sul carro, Mary decise che non valeva la pena di pensare ad altro che non fosse il presente. Là sopra si stava scomodi, ma era sempre meglio il sole primaverile di una prigione puzzolente. Sarebbe stata all'erta in cerca di un'occasione per fuggire. Dubitava che ci fosse qualche speranza prima di Devonport. Se le guardie si fossero attenute alle stesse regole di quelle che l'avevano trasferita da Plymouth a Exeter, sarebbe rimasta sempre incatenata alle compagne. C'era peraltro una minima possibilità che venissero tolti loro i ferri al momento di salire sulla barca a remi che le avrebbe condotte alla nave prigione, nel qual caso si sarebbe tuffata per fuggire a nuoto. Sorrise tra sé. Era una speranza assai esile perché qualunque guardia con un briciolo di sale in zucca avrebbe previsto un tentativo del genere, ma pochi sapevano nuotare; in genere non ne erano capaci neppure i marinai come suo padre. La rallegrò il pensiero di buttarsi in acqua, togliersi di dosso il puzzo di prigione e raggiungere il tratto di costa che conosceva così

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bene. Valeva la pena correre il rischio e, se non fosse riuscita a tentare in quel momento, forse avrebbe trovato il modo di saltare dal fianco della nave durante la notte. Quando le ombre del pomeriggio presero ad allungarsi e l'aria rinfrescò, l'umore di Mary cominciò a peggiorare. Se anche fosse scappata, dove poteva andare? Non certo in Cornovaglia, perché l'avrebbero catturata subito; e neppure era pensabile dirigersi altrove senza soldi, con addosso abiti luridi e scarponi bucati. Al tramonto stava così male che non poté fare altro che rimanere distesa. Il minimo movimento suo o di una compagna le conficcava dolorosamente i ceppi nelle caviglie. Aveva strappato una striscia dalla gonna per fasciarsi sotto il ferro, ma il cotone era ormai indurito dal sangue rappreso, e fregava sulle ferite anziché proteggerle. Aveva i crampi per la fame, la schiena rigida al punto che temeva di non poter più camminare, e tremava di freddo. Quattro giorni dopo, quando il carro raggiunse infine Devonport, i compagni di Mary erano troppo demoralizzati per mostrare la pur minima reazione alla vista della nave prigione ormeggiata nel fiume. Aveva piovuto di continuo negli ultimi due giorni: erano bagnati fin nelle ossa, e molti di loro avevano la febbre. Il gelo nei granai e nei magazzini in cui erano stati rinchiusi la notte aveva impedito loro di dormire, così tutti apparivano esausti. Quel giorno nessuno parlava sul carro. Gli unici suoni erano costituiti da lamenti, starnuti, colpi di tosse, rumori con il naso e sferragliare di catene quando qualcuno cercava invano una posizione più comoda. Able era ormai gravemente malato, incapace di stare seduto, e ogni stentato colpo di tosse era accompagnato da un fiotto di sangue. «Ecco la vostra nuova casa, la Dunkirk» disse la guardia, voltandosi dal sedile con una risata maligna mentre indicava la vecchia carretta ormeggiata al largo nel fiume. «Non è granché come nave, ma neppure voialtri lo siete.»

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Mary aveva sofferto quanto i compagni, ma poiché era la più giovane e sana, o forse soltanto perché aveva tenuto la mente in esercizio studiando piani di fuga, sembrò l'unica duramente colpita alla vista della nave. Con gli alberi ridotti a mozziconi e circondata da banchi di nebbia, aveva l'aspetto sinistro di un antico relitto che sarebbe andato in pezzi alla prima burrasca. Ancora più terribile del suo aspetto, però, era il puzzo di marciume, portato dal vento. Mary, che già tremava al punto da battere i denti, avvertì un brivido gelido lungo la spina dorsale. Il suo stomaco vuoto si rivoltò per la nausea. Sentì che sarebbe stato un vero inferno, cento volte peggio del castello di Exeter. Aveva pensato che quello fosse l'inferno, ed era stata ben felice, alla partenza, di godere finalmente dell'aria fresca e del sole splendente. Troppo presto si era trovata a rimpiangere di non essere più al castello. La notte precedente, intirizzita, bagnata e affamata, con ogni osso del corpo che gridava di dolore, aveva addirittura invocato un cappio che mettesse fine alle sue sofferenze. In quel momento comprese di essere destinata ad atrocità ancora peggiori. «Non serve a niente quella faccia» disse la guardia, sporgendosi all'indietro sul sedile per pungolare Mary con il bastone. Aveva colpito parecchi di loro quando impiegavano troppo a salire o scendere dal carro. «E questo che meritano i peccatori. Voialtri ve lo siete voluto.» Pochi giorni prima Mary non avrebbe esitato a insultarlo, sputargli in faccia o anche tirargli un calcio, ma il suo spirito combattivo era scomparso. «Ci portate là subito?» chiese invece. L'intuito le suggeriva di tenerselo buono. «No, è troppo tardi» rispose lui inducendo i cavalli a muoversi con un colpo di frusta. «Prima vi tocca un'altra notte in un magazzino.»

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Non furono solo gli occupanti dei due carri provenienti da Exeter a passare la notte nel magazzino: si erano appena accasciati sul pavimento sterrato quando la porta si spalancò di nuovo per lasciar entrare un'altra ventina di reclusi. Dal momento che arrivavano da Bristol, questi erano in condizioni perfino peggiori del gruppo di Mary. Coperti di soli stracci, sembravano tutti febbricitanti; un puzzo inconfondibile rivelava la presenza della cancrena nella ferita aperta sulla gamba di uno di loro. Ci furono alcuni timidi tentativi di conversazione, e domande su amici imprigionati nel castello di Exeter e nella prigione di Bristol, ma la cosa di cui tutti si preoccupavano era quanto sarebbero stati tenuti nella nave prigione prima di venire deportati. «Ho sentito di un gruppo evaso da Gravesend» affermò un energumeno di Bristol. «Le guardie hanno aperto il fuoco e ne hanno uccisi due, ma gli altri se la sono cavata. Da allora tengono tutti quanti in catene.» Bessie, seduta accanto a Mary, scoppiò a piangere. «Tanto valeva essere impiccati» singhiozzò. «Io non ce la faccio più.» Lo stesso pensiero albergava nella mente di Mary, ma lei si affrettò a scacciarlo di fronte alla disperazione dell'amica. «Ce la faremo» disse con decisione, cingendo la donna con il braccio e stringendola forte a sé. «Solo che ora siamo infreddolite, bagnate e abbiamo fame, così non riusciamo a ragionare con lucidità. Nel giro di un paio di giorni tutto sembrerà diverso.» «Tu sei così coraggiosa» mormorò Bessie. «Ma non hai paura?» «No» rispose Mary senza pensarci due volte. «Non più, adesso che so di essere scampata all'impiccagione.» Più tardi quella notte, mentre stava appiccicata ai corpi delle altre nella disperata ricerca di un po' di calore, Mary si rese conto di non essere davvero spaventata. Era furibonda al pensiero che certe persone potessero trattare gli altri con tanta crudeltà,

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si vergognava del reato che l'aveva portata in quella situazione e la preoccupava quello che le sarebbe toccato in seguito; eppure non era spaventata. Anzi, a pensarci bene non aveva mai avuto paura di niente. All'età di sei anni aveva imparato da sola a nuotare tuffandosi in acqua e, appena aveva scoperto di stare a galla, il mare aveva smesso di terrorizzarla. Da allora, niente l'aveva più intimorita. Lei era quella che, sempre pronta a raccogliere le sfide, trovava emozionante il rischio. Nessuno sgomento neppure quando scoprì come Thomas si guadagnava da vivere: lo giudicò temerario, un burlone. Ricordò allora che il padre diceva spesso che lei era particolarmente intelligente. Da sempre più sveglia di Dolly e delle sue coetanee, afferrava in fretta, era curiosa di conoscere il funzionamento delle cose e teneva a mente quanto apprendeva. Le parve quasi di risentire il padre vantarsi con i vicini che Fowey era un posto troppo noioso per lei, che senza dubbio un giorno sarebbe tornata a casa dopo avere fatto fortuna. Come avrebbe potuto andare in giro a testa alta nell'apprendere dal «Western Flyer» del reato commesso dalla figlia e della conseguente condanna? Lui non sapeva leggere, però a Fowey molti ne erano capaci e sarebbero stati fin troppo lieti di diffondere una notizia tanto sconvolgente. Il pensiero di trovarsi a una quarantina di miglia da casa le provocò un'indicibile nostalgia. Immaginava la madre seduta sullo sgabello davanti al fuoco con un lavoro di rammendo in mano. Mary le assomigliava: gli stessi capelli folti e ricciuti, che raccoglieva in due trecce intorno alla testa, e gli stessi occhi grigi. Ricordava che da piccola la guardava sciogliersi le trecce la sera e infilare le dita tra i capelli che ricadevano in una luminosa cascata scura sulle spalle. Quel gesto la trasformava da donna comune in una vera bellezza, e le figlie le chiedevano spesso perché non li lasciava sempre sciolti così che tutti potessero ammirarli. «La vanità è un peccato mortale» rispondeva allora lei, ma sorrideva, come compiaciuta di quel bellissimo segreto condiviso soltanto con la sua famiglia. Teneva segreti anche i propri sentimenti,

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e le bambine avevano imparato fin da piccole a leggerli nei suoi comportamenti. Se era arrabbiata, sbatteva le pentole e attizzava il fuoco con movimenti energici; se era preoccupata, si chiudeva nel silenzio. Il suo modo di esprimere affetto si limitava a una semplice carezza sul viso o a una strizzata della spalla. Consapevole che non l'avrebbe mai più rivista, Mary pensò a quanto erano importanti e preziosi quei piccoli gesti. Rammentò che la madre l'aveva abbracciata la mattina della sua partenza da Fowey, ma lei non aveva realmente risposto all'abbraccio, impaziente com'era di andarsene. Quello sarebbe stato l'ultimo ricordo che avrebbe serbato di lei: una figlia che se ne andava ridacchiando distrattamente per non tornare mai più. ***

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Capitolo 2.

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La mattina successiva, quando ai detenuti fu ordinato di uscire dal magazzino, la pioggia era fortunatamente cessata; il cielo, però, era ancora grigio, e il forte vento che soffiava dal fiume li spinse a stringersi gli uni agli altri in cerca di calore. La colazione consistette soltanto in acqua e un tozzo di pane secco; nel rendersi conto che la nave prigione Dunkirk era proprio decrepita come le era parsa la sera precedente, Mary pensò che i pasti a bordo non sarebbero stati granché meglio. Tuttavia era meno sconfortata del giorno prima. Malgrado gli abiti bagnati, aveva dormito piuttosto bene, e quanto meno il viaggio era terminato. Si disse che per il momento un'evasione era impensabile: a parte le catene - ormai dubitava che le venissero tolte -, la banchina era gremita di fanti di Marina, tutti armati di moschetto. Decine di barche di ogni dimensione beccheggiavano sull'acqua traghettando i passeggeri da una riva all'altra o trasportando merci verso le navi più grandi ancorate al largo. Mary non sentì il puzzo della nave prigione: forse era cambiato il vento, oppure il tanfo percepito la sera precedente era frutto della sua immaginazione. Trovava piacevole respirare l'aria salmastra e, se ignorava i compagni di prigionia e la fame per limitarsi a gustare i suoni, gli odori e la scena intorno a lei, le pareva quasi di essere tornata a Fowey.

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A mezzogiorno Mary era ancora in attesa sul molo, incatenata alle quattro compagne. Avevano visto parecchi gruppi di reclusi di sesso maschile venire trasportati a remi alla Dunkirk, salire su per la scaletta e poi, arrivati sul ponte, scomparire alla vista. Tuttavia il loro interesse per questi movimenti era svanito da un pezzo. Le donne stavano cercando di migliorare in qualche modo il loro aspetto: si pettinavano o intrecciavano i capelli, curavano le ferite inferte alle caviglie dai ferri e, quelle che avevano un bagaglio, passavano in rassegna il contenuto per scegliere un altro vestito o un'altra sottana. Mary non possedeva altro che un pettine, regalo di un compagno di cella di Exeter, quindi le sue cure personali si limitavano a cercare di togliere dai capelli quanti più pidocchi possibile. Quella mattina era stato dato a tutte un secchio d'acqua per sciacquare viso e mani, ma lei, consapevole di puzzare, non vedeva l'ora di togliersi gli abiti sporchi e lavarsi da capo a piedi, cosa che non faceva dal momento dell'arresto. Le altre donne non parevano altrettanto preoccupate del sudiciume e in effetti, appena partita da casa, Mary aveva scoperto che l'importanza che sua madre attribuiva alla pulizia e che aveva instillato in lei non era condivisa da molti. Quando confidò a Bessie il proprio disagio, la donna la guardò di traverso. «Di sicuro non siamo così orribili» disse. «Quei fanti laggiù ci fanno gli occhi dolci.» Mary lanciò un'occhiata furtiva al gruppo di uomini e si accorse di essere oggetto della loro attenzione. Pensò che la giacca rossa, le brache bianche aderenti e gli stivali lustri davano a chiunque, per quanto di aspetto insignificante, un ingiusto vantaggio rispetto ai civili. Comunque, non si illudeva certo che la guardassero perché era particolarmente attraente. Mary aveva sempre vissuto a contatto con gli uomini di mare, e sapeva che la prima cosa che cercavano appena sbarcati era una donna. In genere finivano con prostitute, ed erano quindi quasi certi di buscarsi una malattia. Questi fanti di Marina si trovavano in una posizione leggermente

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diversa rispetto ai marinai generici. Erano addetti alla guardia dei reclusi - uomini e donne - e lo sarebbero stati anche in seguito, sulla nave usata per la deportazione. Probabilmente sapevano di avere una franchigia molto breve, seppure l'avevano, e quindi era ragionevole pensare che sperassero di trovare, in quel gruppetto di donne lacere e sconsolate, qualcuna desiderosa di soddisfare i loro appetiti sessuali. L'ideale sarebbe stata una ragazza di campagna giovane, fresca e priva di malattie. Mary si disse che avrebbe preferito gettarsi incatenata dalla Dunkirk piuttosto che venire usata in quel modo. Era metà pomeriggio quando il gruppo di Mary fu trasferito sulla nave. Le catene che le legavano l'una all'altra erano state rimosse, ma non quelle che congiungevano i ferri in vita a quelli alle caviglie. Nell'avvicinarsi alla nave prigione, Mary vide le fiancate verdi e viscide di alghe, mentre l'odore di effluvi umani aumentava di intensità fino a provocare conati di vomito in tutte loro. Arrivate in cima alla scaletta scivolosa, furono allineate per essere esaminate e misurate. Infine venne registrato il reato di cui si erano macchiate. «Mary Broad» gridò un giovane fante. Le ordinò di mettersi davanti alla scala numerica segnata su un moncone di albero. «Un metro e sessanta» urlò a un altro che prendeva nota. «Occhi grigi, capelli neri, nessuna cicatrice visibile. Reato: rapina di strada. Sette anni di deportazione.» Tutto il gruppo subì lo stesso trattamento, dopodiché a ciascuna venne consegnata una coperta logora e puzzolente. Aperto un portello, i marinai le spinsero dentro malamente, e poi giù per una ripida scala interna. Bessie inciampò nelle catene, mancò gli ultimi gradini e atterrò con un urlo di dolore. Si trovarono in uno spazio limitato che pareva condurre agli alloggi delle guardie, e qui fu aperto un altro portello. Il fetore che ne uscì le colpì come una mazzata; indietreggiarono

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d'istinto con l'orrore dipinto in volto. Nelle ultime settimane si erano assuefatte al sudiciume sotto ogni forma, ma questo superava tutto quanto sperimentato fino ad allora. «Avanti!» gridò la guardia, spingendole con un bastone per costringerle a scendere le scale. «Vi ci abituerete presto, come è successo a noi.» Mary oppose resistenza, ma un colpo della guardia sulla spalla la mandò oltre il portello in quella che doveva essere la stiva quando la nave navigava ancora. La prima cosa che vide fu un mare di volti spettrali, bianchi come cenci; quando i suoi occhi si adattarono al buio, notò una serie di ripiani di legno che dovevano fungere da letti, su ciascuno dei quali stavano quattro donne. Tuttavia un po' d'aria e di luce provenivano dai portelli aperti sulla fiancata della nave che dava verso il mare e da un'ulteriore griglia in fondo, al di là della quale Mary vide la zona riservata ai reclusi di sesso maschile. Il lezzo saliva dal pavimento, su cui era traboccato il contenuto dei buglioli. Evidentemente non veniva mai pulito. Si rese conto del fatto che quelle donne convivevano con centinaia di ratti, scarafaggi e pidocchi. I visi grigi e macilenti, i capelli sfibrati e i corpi scheletrici erano la prova che le poverette pativano la fame. Nel giro di una notte poteva diffondersi la febbre e, in quelle condizioni, tutte avrebbero finito per soccombere. Mary comprese che sarebbe stata già una fortuna sopravvivere fino alla deportazione. Un paio d'ore dopo era, come tutti, piombata nella più cupa disperazione. Intorno a sé non sentiva altro che lamenti, gemiti, pianti, e di tanto in tanto l'urlo inumano di una donna che pareva avere perduto il senno. Una stava allattando un neonato che - le raccontarono - era venuto al mondo con l'aiuto di un'altra reclusa. Le travi basse del soffitto non consentivano di stare in piedi, quindi non restava che sedere o rimanere distese sui ripiani di legno.

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Fu portata la cena, una brodaglia acquosa di farina con pane raffermo, e le donne se la contesero con accanimento; quando infine Mary riuscì ad arrivare al pentolone, non restava più nulla. I ratti non aspettarono il buio per gironzolare: camminavano lungo le travi e sotto i ripiani dei letti, quando non saltavano addirittura sui corpi. Per Mary la prospettiva più terrorizzante era non potersi aspettare niente di meglio. Aveva saputo che non era permesso salire sul ponte, che la loro zona non veniva mai pulita, che non si potevano lavare gli abiti, e che i buglioli venivano vuotati una sola volta al giorno. Alla fine si addormentò, stretta tra Bessie dal lato interno, verso lo scafo della nave, e una certa Nancy, una ragazza di soli quattordici anni. Nella parte più esterna si era sistemata Anne, una donna di oltre cinquant'anni. L'ultimo pensiero prima di cedere al sonno fu che doveva pur esserci una via di fuga. Le altre sostenevano che non esisteva nella maniera più assoluta, ma lei si era accorta che non brillavano certo per acutezza. Avrebbe trovato il modo. Nei giorni successivi Mary si dedicò a osservare e ascoltare le compagne di prigionia. Se con tutto il suo essere avrebbe voluto tempestare di pugni la porta, chiedere di essere liberata, addirittura implorare l'impiccagione piuttosto che sopportare tanto orrore, sapeva però di non potersi permettere di perdere il controllo. Doveva mantenere la calma, scoprire l'organizzazione della nave e osservare le altre donne per capire la situazione. Notò che molte erano talmente sopraffatte dalla disperazione che quasi non si muovevano dal posto in cui dormivano e non parlavano mai; probabilmente speravano in una rapida morte liberatoria. Dapprima provò una grande pena per loro, ma quando incominciò

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ad accettare il proprio stato e conobbe meglio quelle che ancora conservavano un barlume di vitalità e di speranza, i suoi sentimenti verso le altre si trasformarono in disprezzo e irritazione. Quasi tutte quelle che parlavano e addirittura trovavano di tanto in tanto qualcosa di cui ridere erano state condannate per furto. Nancy, la quattordicenne, aveva sottratto un po' di cibo nella casa di Bodmin dove faceva la sguattera. Anne aveva preso un vestito nella lavanderia di Truro in cui lavorava. Una donna aveva fatto la complice a un tagliaborse, e un'altra si era appropriata di una coperta stesa a prendere aria su una corda da bucato. Un'altra ancora aveva rubato un paio di cucchiaini d'argento. Nessuna era una delinquente abituale: tutte, mosse dal bisogno, avevano commesso reati spinte da un impulso occasionale. Quando raccontò di essere stata condannata per rapina di strada, lesse una sorta di rispetto sul viso delle compagne. Nel castello di Exeter aveva appreso la gerarchia del crimine, e in cima alla lista c'era appunto il rapinatore di strada. A lei sembrava un'assurdità che sgraffignare un cappello e qualche pacchetto fosse giudicato alla stregua di un agguato teso a una carrozza di posta, ma tecnicamente aveva rubato per strada, non in un negozio o in una pensione. Pur consapevole di essere in realtà esattamente uguale alla maggior parte di quelle donne, una delle tante ragazze di campagna finite male, percepì subito che sarebbe stato utile tenerlo per sé. La reputazione era fondamentale per la sopravvivenza quanto il cibo e l'acqua. Avrebbe sfruttato il vantaggio di cui godeva. Rilevò inoltre che non tutte le donne apparivano sudicie e stracciate. Quattro esibivano vestiti più che decenti, avevano i capelli che sembravano lavati di fresco e si presentavano più in carne, meno stravolte e incavate. Per via del loro aspetto, e del fatto che alcune detenute le trattavano con freddezza, non impiegò molto a capire che quelle vantavano amici tra le guardie e i fanti di Marina. Chiaramente vendevano il proprio corpo in cambio di qualche privilegio.

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«Dovrebbero vergognarsi» esclamò una vecchia arricciando le labbra con disgusto. Dal modo in cui tossiva doveva essere ormai preda della consunzione. «Luride puttane!» Mary aveva sempre pensato che ogni donna che si vendeva fosse imperdonabile. A Plymouth, quando aveva visto le prostitute avvinghiate ai marinai nei vicoli e aveva saputo delle terribili malattie che trasmettevano, si era quasi sentita svenire dal disgusto. Eppure, mentre i giorni passavano e gli orrori sulla Dunkirk sembravano aumentare anziché diminuire, si trovò a modificare il suo atteggiamento in proposito. Continuava a pensare che concedersi in cambio di cibarie o di un vestito pulito fosse la strada sicura per l'inferno e la dannazione ma, in effetti, non era già quello l'inferno? Era determinata a sopravvivere a tutti i costi e, se sacrificare la purezza le avrebbe evitato una lenta morte di inedia, si riconosceva disposta a cedere. Non si trattava solo del desiderio di più cibo e della possibilità di uscire di tanto in tanto da quell'orribile prigione per prendere una boccata d'aria. L'evasione era un'idea fissa nella sua mente, e per realizzarla bisognava che la liberassero delle catene. Non aveva la certezza che un amante si sarebbe prestato a farlo, ma sperava di riuscire a convincerlo; se ne avesse conquistato l'affetto, forse lui poteva addirittura aiutarla a scappare. Purtroppo non aveva idea di come conquistare un “amico” sui ponti superiori. Gli orridi bruti che venivano a raccogliere i buglioli o portavano le razioni dovevano appartenere ai ranghi più bassi dell'equipaggio, ed erano i soli con cui entrava in contatto, e anche per poco. Alla fine della terza settimana cominciò a disperare. Era passato il giorno del suo ventesimo compleanno, alla fine di aprile, e poi anche il Calendimaggio, e i tanti lieti ricordi delle feste al villaggio l'avevano ulteriormente abbattuta. Restava tutto il giorno in piedi davanti al portello aperto a guardare il mare, il riverbero del sole sull'acqua, con un desiderio tanto acuto di uscire che temeva di perdere la ragione. Aveva appreso i nomi di tutte le quaranta donne, da dove venivano,

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il reato commesso e la storia della loro famiglia. Si era accorta che Catherine Fryer e Mary Haydon avevano mutato atteggiamento nei suoi confronti: forse percepivano che lei era più forte e intelligente di tutte, e ritenevano preferibile mettersi con un vincitore piuttosto che con un perdente. Mary parlava talvolta con alcuni degli uomini reclusi, o quanto meno scambiava qualche parola urlata attraverso la griglia. Poiché venivano spesso condotti a terra a lavorare, da loro aveva appreso il nome degli ufficiali più benevoli. Fu il tenente di vascello Watkin Tench ad attirare il suo interesse. Gli uomini asserivano che era giovane, giusto, ragionevole e intelligente, e che anche lui era stato in prigione durante la guerra americana. Sembrava perfetto per il piano di Mary, che peraltro non sapeva proprio come conquistare la sua attenzione. Fece di tutto per accattivarsi le simpatie delle donne etichettate come prostitute. Non fu difficile, perché erano più che contente se qualcuno dimostrava loro considerazione, e Mary scoprì che sotto molti aspetti erano proprio come lei: alquanto audaci, più divertenti delle altre, e generose. Tuttavia, anche se spesso le regalavano qualcosa da mangiare o un nastro nuovo per i capelli, e le passavano dei cenci quando aveva le mestruazioni, tenevano la bocca cucita sui loro uomini e su come erano riuscite a farsi scegliere. Più che comprensibile: non volevano correre il rischio di perdere i loro amanti e i conseguenti vantaggi a favore di una compagna di cella. Aveva pensato di inscenare uno scontro con un'altra detenuta, creando un tale scompiglio da farsi trascinare fuori dalla cella, ma per un fatto del genere l'avrebbero di sicuro fustigata, e anche se avesse avuto la possibilità di incontrare Tench, era assai improbabile riuscire a ingraziarselo in circostanze del genere. Una sera vennero portati come al solito il pentolone della minestra e il pane e, come sempre, le più forti sgomitarono per arraffare la porzione più abbondante. Era solo la paura di morire di fame a spingere le donne a picchiarsi per un po' di minestra: arrivava regolarmente fredda e acquosa, ed era fatta di orzo con

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qualche pezzo di verdura e di carne stantia. Mary aveva impiegato parecchi giorni a superare il disgusto prima di riuscire a farsi strada per ottenere la sua parte. Quella sera, stava chiacchierando accanto alla porta con Lucy Perkins, una ragazza di St Austell, quando gli uomini tolsero il catenaccio per entrare. Una volta tanto si trovava in una buona posizione per conquistare una razione migliore, ma mentre prendeva posto e le donne alle sue spalle cominciavano a spingere e strattonare, lei si guardò indietro. La sconvolse vedere i visi mesti di quelle troppo malate e debilitate per alzarsi da letto. Alcune tendevano le ciotole, mentre le loro flebili richieste di aiuto erano coperte dal rumore assordante. Solo lei si accorse della loro disperazione. Mary odiava l'ingiustizia. Fin da bambina disprezzava i più grandicelli che tiranneggiavano i più piccoli e gracili. Consapevole che le donne sane, capaci di lottare per il pasto, stavano condannando a morte quelle più deboli privandole del cibo, d'un tratto vide rosso. Voltandosi verso la coda, allargò le braccia per bloccare la strada verso il pentolone. «Lasciate servire per prime quelle malate» ordinò. Seguì un brusio, mentre un'espressione di sorpresa si dipingeva su ogni viso sudicio. «Dobbiamo occuparci delle malate» proclamò con voce forte e chiara. «Quaggiù magari ci trattano come animali, ma noi siamo donne, non selvaggi.» Nel vedere Bessie in fondo alla coda, le gridò: «Prendi le loro scodelle e portale qui, Bessie. Prima verranno servite loro, dopo toccherà alle altre». Mary udì il mormorio di protesta, e ne fu spaventata, ma non aveva intenzione di recedere. Era consapevole che le guardie la tenevano d'occhio dalla griglia sulla porta, e sperava in un loro intervento nel caso che le compagne più forti l'avessero aggredita. «Ma chi cazzo credi di essere, la regina?» strillò Aggie Crew, una delle più lacere e sporche. Mary, che si era già scontrata con lei in parecchie occasioni, la riteneva una vera bestia: derubava le altre, non provava neppure

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a lavarsi faccia e mani quando la mattina veniva portato il secchio dell'acqua e derideva chiunque mostrasse un minimo di decenza. Aveva canzonato Mary perché lavava i panni usati quando aveva il ciclo, e per i suoi tentativi di trovare alleate per chiedere tutte insieme secchi d'acqua e stracci per lavare il pavimento. Il viso smunto di Aggie era pieno di malanimo: di sicuro aveva una gran voglia di menare le mani. «Credo di essere semplicemente una donna decisa a non comportarsi da animale» disse Mary incenerendola con lo sguardo. «Non si può agire così. Il cibo deve essere diviso in modo giusto, e a questo ci penso io.» Bessie si fece strada tra le donne con le ciotole delle ammalate. «Riempile, Jane» ordinò Mary alla ragazza incinta che aveva la mano sul mestolo accanto al pentolone della minestra. Mary aveva parlato a lungo con lei: non solo era stata condannata alla deportazione per il furto di un candeliere, ma il pastore che l'aveva denunciata si era anche premurato di violentarla. Jane prese a scodellare la minestra, e Mary impose a quelle più vicine di portare le ciotole alle malate. «Poi toccherà a voi» disse per invogliarle. Per un momento parve che Mary l'avesse vinta. Le malate ottennero la loro razione, e le altre rimasero in coda in attesa della loro, ma quando lei si voltò verso il pentolone per accertarsi che la minestra bastasse per tutte, fu colpita alla testa da una scodella. Cadde" in avanti, travolgendo un'altra, e all'improvviso Aggie Crew si mise a gridare come una pazza, cercando di aizzare le altre contro Mary. Le guardie spalancarono la porta e cominciarono a menare fendenti con il bastone. Tirarono Mary in piedi e senza tante cerimonie la spinsero fuori. Sapeva che dovevano avere seguito tutta la scena dalla griglia della porta, ma sapeva anche che non era il caso di sperare che si schierassero dalla sua parte. Nel castello di Exeter, Dick Sullion le aveva spiegato che il governo, per risparmiare, aveva assegnato l'intera gestione delle carceri ai privati. A suo dire,

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era un ottimo affare per chi era privo di scrupoli, che assumeva come secondini gli individui più brutali, sempre pronti a fare la cresta sulle razioni; a loro volta, i padroni chiudevano un occhio se i loro uomini si facevano corrompere o trattavano le persone loro affidate in modo disumano. I due che la tenevano per le braccia erano due esemplari tipici, con facce brutte e scaltre, denti rotti e sguardo spento. «Perché proprio io?» chiese non appena riprese fiato. «Non ho picchiato nessuno.» «Istigavi le altre. Sei una maledetta sobillatrice.» «Portatemi dal tenente di vascello Tench» arrischiò. «Spiegherò a lui.» Senza rispondere, i due la trascinarono lungo il corridoio e su per la scala interna depositandola sul ponte. Mary si aspettava di essere legata e fustigata, ma in quel momento non le importava, tanto era felice di riempire i polmoni di dolce aria fresca dopo avere respirato miasmi per tanto tempo. Guardò il cielo scuro, cosparso di un milione di stelle, e la luna che tracciava un sentiero argentato sull'acqua scura del fiume fino alla riva ed ebbe la sensazione che quello fosse un segno: forse era il suo momento, l'occasione che attendeva. «Voglio vedere Tench» gridò con tutto il fiato che aveva in gola. «Chiamatelo subito.» Una guardia le assestò un pugno che la fece andare lunga distesa. «Zitta» sibilò, aggiungendo una sfilza di oscenità. All'improvviso Mary comprese cosa stavano per fare. Non l'avevano trascinata fuori dalla cella per una punizione formale; intendevano approfittare di lei e poi sbatterla di nuovo nella stiva all'insaputa degli altri. La determinazione era una delle qualità migliori di Mary. Se era pronta ad andare a letto con qualcuno disposto a darle da mangiare, a permetterle di lavarsi e possibilmente capace di mostrarle un po' di affetto, non aveva alcuna intenzione di farsi prendere da un paio di bestioni in calore. Dal modo in cui avevano tentato di zittirla comprese che a bordo della Dunkirk altri non approvavano

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la violenza carnale sulle recluse, così gridò a squarciagola, e quando uno dei due cercò di tapparle la bocca, gli morsicò la mano, gli mollò un pugno e urlò a perdifiato il nome di Tench. «Cosa succede?» tuonò una voce. Mentre i due la lasciavano, Mary vide una snella figura maschile stagliarsi nel vano di una delle molte cabine che si aprivano sul ponte. «Signor Tench?» gridò Mary. «Mi hanno trascinato fuori, ma io non ho fatto niente di male. Aiutatemi, vi prego.» «Smetti di strillare e vieni qui» disse l'uomo. «E, anche voi due» aggiunse rivolto alle guardie. La cabina era adibita in parte a quadrato ufficiali e in parte a ufficio. Al centro c'era un tavolo ingombro di fogli e illuminato da un paio di candele. Mary pensò che il giovane dovesse essere intento a scrivere, perché c'erano un quaderno aperto e un calamaio davanti allo sgabello da cui si era sicuramente alzato. Mary non aveva modo di sapere se quello era Watkin Tench, ma il gallone dorato sulla giacca rossa di buon taglio e le immacolate brache bianche dimostravano che era un ufficiale; inoltre, parlava come un gentiluomo. Era di costituzione snella, con riccioli scuri e occhi castani, e dimostrava ventiquattro o venticinque anni. Il viso, non particolarmente degno di nota, aveva lineamenti piccoli e delicati e una carnagione chiara e luminosa. Sembrava irritato dell'interruzione, eppure non dava l'impressione di essere di natura stizzosa. «Come ti chiami?» chiese seccamente. «Mary Broad, signore. Volevo fare in modo che le donne lasciassero un po' di minestra alle ammalate» si precipitò ad aggiungere. «A certe non è andato giù, e una mi ha picchiato, poi questi due mi hanno trascinato fuori.» «Cercava la rissa» dichiarò una guardia. «Abbiamo dovuto separarla.» «Aspettate fuori, voi due» ordinò il giovane ufficiale. Gli uomini si allontanarono brontolando sottovoce. Quando la porta si chiuse, l'ufficiale si appollaiò sullo sgabello e guardò Mary con aria severa.

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«Come mai chiamavi proprio me?» chiese. Mary avvertì un senso di sollievo al pensiero di avere trovato la persona giusta. «Mi hanno detto che siete un uomo retto.» Tench annuì distrattamente e le domandò di spiegargli come si erano svolti i fatti. Ora che aveva un podio per dar voce alle proprie lamentele, Mary non risparmiò nulla. Raccontò che le donne più forti prendevano tutto il cibo, mentre quelle più deboli morivano di fame, e che a suo parere non c'era abbastanza da mangiare per tenere in vita tante persone. «Siamo state condannate alla deportazione» si accalorò. «Non meritiamo di essere uccise prima ancora di imbarcarci.» Tench si era sorpreso nel sentir gridare il suo nome, ma lo fu ancora più dall'evidente acume di quella donna. Soprattutto lo colpì che avesse il coraggio di ergersi in difesa delle compagne più debilitate. In America era stato prigioniero di guerra e anche lui aveva temuto di morire per le terribili condizioni in cui gli era toccato vivere. Quando aveva assunto il posto assegnatogli a bordo della Dunkirk, era inorridito nello scoprire che i suoi compatrioti erano capaci di barbarie anche peggiori. Con grande pena si rese conto che un ufficiale della Marina non aveva alcun potere per ovviare alla situazione. Le navi erano gestite da società private, e la Marina aveva soltanto il compito di mantenere l'ordine, senza voce in capitolo sulla direzione. Aveva espresso le proprie opinioni sull'argomento ma era stato severamente redarguito, e poiché era soltanto un ufficiale subalterno, e nessuno dei suoi superiori condivideva il suo pensiero, dovette rassegnarsi a ripiegare su un atteggiamento distaccato. Quando portava gli uomini a lavorare a terra, li trattava con gentilezza: cercava di assicurarsi che le guardie distribuissero ai reclusi la giusta razione di cibo, e se gli veniva portato qualcuno che meritava una punizione, dimostrava di agire con rettitudine. Tuttavia sapeva che non era sufficiente. L'accento della Cornovaglia di Mary fece breccia nella sua

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apatia. Aveva trascorso l'infanzia a Penzance e serbava felici ricordi delle persone del luogo. Prima di licenziare quella giovane, si sentì in dovere di scoprire di lei qualcosa di più. Nel rendersi conto che doveva avere saltato il pasto durante la schermaglia, si sporse dalla porta per ordinare di portare qualcosa dalla cambusa. «Verrò fustigata?» chiese Mary quando lui richiuse la porta. Non aveva sentito le parole che aveva rivolto ai sottoposti, e credeva che avesse mandato a chiamare un ufficiale di rango superiore. «No. E in futuro ordinerò alle guardie di accertarsi che le razioni vengano ripartite equamente.» «Già che ci siete, non potremmo avere più cibo?» chiese lei, sfrontata. Tench dovette frenare una risata. Quella giovane gli riportava alla mente molti minatori conosciuti in Cornovaglia, determinati, duri e impavidi. Ricordava di avere letto nei registri che aveva aggredito una donna per poi derubarla, eppure quegli occhi grigi pacati e quei modi gentili non facevano certo pensare a una natura malvagia. Allo stesso modo, l'innocenza del suo viso contrastava con le sue richieste impudenti. Una donna da tenere d'occhio, si disse, ma proprio per questo degna di ammirazione. La guardia portò un piatto di pane, formaggio e sardine. Tench accostò al tavolo un altro sgabello e invitò Mary a mangiare. Era passato così tanto tempo dall'ultima volta che aveva gustato formaggio o sardine che dovette fare uno sforzo per non scoppiare in lacrime. Trangugiò il cibo con avidità, trattenendo il piatto con la mano nel timore che Tench glielo togliesse senza darle il tempo di finire. Lui le versò un poco di rum, cui aggiunse dell'acqua, poi ne versò un bicchiere per sé. Nel guardarla china sul piatto, notò la testa infestata dai pidocchi, ma anche il collo molto pulito, il che era assai insolito nei detenuti.

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«Chiamo qualcuno che ti riporti indietro» le disse quando lei ebbe terminato. Mary aveva sempre avuto facilità a parlare con gli uomini, ma era assolutamente incapace di civettare, o di comprendere se qualcuno la trovava attraente. Guardò i suoi dolci occhi castani, e poiché le parve di leggervi curiosità, si rammaricò di non indossare indumenti puliti e di non avere i capelli lavati di fresco. «Posso rimanere ancora un pochino?» chiese d'impulso. Lui sorrise con uno scintillio negli occhi. «No, non puoi, Mary. Io ho da fare. E comunque, perché vuoi rimanere? Ti ho dato da mangiare, e non verrai fustigata.» «Perché...» esordì, ma con orrore sentì le lacrime salire agli occhi. Non trovava le parole per spiegare cosa significasse stare fuori da quella fetida stiva, o avere la pancia piena. E di certo non poteva accennare all'intenzione di offrirgli la propria verginità nella speranza di ottenere qualche privilegio. Ma forse lui intuì qualcosa perché le posò la mano sulla spalla. «Devi rientrare» le disse con tono gentile. «Ma ci parleremo ancora.» Quella notte la cortesia di Watkin Tench fu di grande consolazione per Mary. Distesa tra Bessie e Nancy, fu meno disturbata del solito da lamenti e gemiti, colpi di tosse e singhiozzi, come pure dal puzzo e dai ratti che scorrazzavano indisturbati. Riuscì invece a concentrarsi sull'espressione divertita letta negli occhi di Tench, sui suoi capelli luminosi e i suoi modi gentili. Per pochi minuti si era sentita pulita e aveva dimenticato di essere una criminale. Era stata una sorta di evasione, e assai gradita. Mary non sapeva se fosse il risultato dell'intervento di Tench, fatto sta che un paio di giorni dopo fu chiamata insieme a Bessie e ad altre due donne - Sarah Giles e Hannah Brown - per lavorare

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all'esterno. C'era già stato un notevole miglioramento nella distribuzione del cibo perché le guardie rimanevano nella cella a controllare che tutte - malate e sane - avessero la giusta razione. Mary era molto soddisfatta, e considerò un imprevisto dono del cielo la possibilità di uscire a lavorare. Il compito cui erano assegnate consisteva nel lavare indumenti, soprattutto camicie. Non era semplice, perché da un magazzino dovevano trascinare sul ponte quattro pesanti tinozze di legno - operazione non facile con le catene addosso - e poi calare i secchi nel fiume con una corda per riempirli d'acqua. Però era splendido stare al sole, poter vedere la riva e il verde rigoglioso di campi e boschi, e anche se le guardie controllavano ogni movimento, e talvolta le spaventavano con i loro sguardi lascivi, era mille volte meglio che stare chiuse nella stiva. «Secondo te possiamo lavarci una volta che abbiamo finito con queste?» sussurrò Mary a Sarah mentre fregavano le camicie sporche con pezzi di sapone duro. Sarah era una di quelle che le altre chiamavano “puttane”. Piccola e graziosa, con capelli ramati, aveva venticinque anni ed era vedova con due bambini piccoli. Il marito, un pescatore, era scomparso in mare con la sua barca in una tempesta, e Sarah aveva lasciato i figlioletti a sua madre, a St Ives, per raggiungere Plymouth. Con una storia molto simile a quella di Mary - si era data ai furti perché non riusciva a trovare lavoro -, si trovava sulla Dunkirk già da otto mesi. «Certo che puoi, se ne hai voglia» rispose Sarah con una risata, come se la cosa fosse divertente. «Però, non avrai certo intenzione di spogliarti completamente, spero.» «Certo che no.» Mary arrossì. «Salto nella tinozza con il vestito, così lavo anche questo già che ci sono.» Sarah sollevò un sopracciglio. «Catene e tutto?» «Be', quelle non posso levarmele» ribatté Mary con disinvoltura, per poi voltarsi verso Bessie. «E tu? Hai voglia di fare un bagno?» Bessie si mise a ridacchiare, contagiando le altre. Sarah fregò il sapone sulle mani e cominciò a fare le bolle, Hannah schizzò

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d'acqua Mary, e quest'ultima la colpì con una camicia bagnata. Le guardie, se anche se ne accorsero, evitarono di intervenire o di fermarle, e d'un tratto fu come essere tornate bambine al picnic della scuola domenicale. Risero, chiacchierarono, cantarono, e Bessie arrivò ad accennare qualche passo di danza, ritmato dal suono delle catene ai piedi. Le camicie, dopo essere state lavate, furono stese sulle corde ad asciugare, riparando completamente le donne dalla vista delle guardie. «Forza, allora, se vuoi farlo» disse Sarah a Mary. «Prima che vuotiamo le tinozze.» Sotto gli occhi di Bessie e Hannah, tentate di unirsi a lei ma timorose di venire colte in flagrante, Mary entrò nella tinozza trattenendo il fiato per il freddo. Inebriata dal tocco quasi sensuale dell'acqua sulla pelle, scoppiò a ridere. «Meraviglioso!» esclamò, mentre si immergeva fino alla vita sperando che le altre facessero altrettanto. «Sbrigatevi, se avete deciso, prima che ci scoprano.» Bessie e Hannah si misero in una tinozza ciascuna, ma Sarah si tenne indietro, con la scusa di restare di guardia. Le tre fregarono con energia se stesse e gli abiti, consapevoli di avere poco tempo, con un sorriso beato nel vedere la sporcizia galleggiare via dai propri corpi. Mary si insaponò i capelli, poi si calò più volte nell'acqua. Mentre riaffiorava per l'ultima volta, vide con orrore che le due guardie e un ufficiale la stavano fissando. Una rapida occhiata le rivelò che Bessie e Hannah erano già uscite dalla tinozza, e cercavano invano di strizzare via l'acqua dai vestiti. Sarah, bianca come un cencio, era visibilmente agitata. «Non facevamo niente di male» disse Mary, rivolta all'ufficiale stupefatto, un tipo corpulento con un gran nasone. «Usavamo l'acqua prima di gettarla in mare. Abbiamo fatto tutto il bucato.» Secondo lei non c'era motivo di punirle per quel bagno, ma un'occhiata alle due amiche fradicie la mise in allarme. I vestiti, aderenti al corpo, sottolineavano la curva dei seni e delle anche, e le guardie le fissavano con palese bramosia. Certa

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che il proprio corpo fosse altrettanto visibile, fu colta da un terribile imbarazzo. «Mi dispiace, signore» disse mentre si sforzava di uscire dalla tinozza. «Ma non è colpa nostra; non ci danno mai acqua abbastanza per lavarci come si deve.» «Com'è che voi donne approfittate sempre di qualsiasi situazione?» chiese l'ufficiale. Mary guardò le compagne e comprese che avevano la lingua legata dalla paura. L'ufficiale sembrava più vecchio di Tench, forse oltre la trentina, e parlava con voce acuta mangiandosi le parole; nei suoi occhi, peraltro, non si vedeva cattiveria ma solo perplessità. «Non lo fareste anche voi?» chiese lei. «Che cos'altro ci resta? La prigione in cui ci tenete puzzerebbe meno se ci permetteste di fare il bagno e di venire quassù a fare un po' di moto, e se il pavimento fosse lavato di tanto in tanto. Se teneste gli animali in un posto del genere scoppierebbe una rivolta.» Una delle guardie ridacchiò, e l'ufficiale la zittì con un'occhiataccia. «Riportate indietro quelle tre» ordinò indicando Bessie, Sarah e Hannah. «A questa ci penso io.» Le altre furono spinte lungo le corde da bucato, lasciando Mary sola con l'ufficiale. «Come ti chiami?» chiese lui. «Mary Broad, signore. Posso sapere il vostro nome?» Le parve di vedere il guizzo di un sorriso, e allora si ravviò i capelli con le dita e gli restituì un sorriso di sfida. La madre e la sorella le avevano detto spesso che i suoi capelli, da bagnati, erano particolarmente belli perché si inanellavano in tanti riccioli; si augurò che fosse vero perché sentiva su di sé il vento gelido, e sarebbe apparsa patetica se si fosse messa a tremare. «Primo tenente Graham. Ho l'impressione, Mary, che tu non afferri appieno la gravità della tua situazione.» Dai detenuti maschi aveva sentito anche il nome di Graham: era considerato pericoloso se contrariato, ma per il resto abbastanza decente.

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«Oh, certo che l'afferro, signore. Mi rendo conto che non vivrò abbastanza per essere deportata se di tanto in tanto non ho la fortuna di fare un bagno e mangiare un po' di più.» L'ufficiale la scrutò con una lunga occhiata che parve attraversarle i vestiti, e lei capì che la desiderava. Aveva messo gli occhi su Tench come possibile salvatore, e il primo tenente Graham rappresentava un mediocre sostituto. Il suo viso era grasso e flaccido, e Mary sospettava che avesse ben pochi capelli sotto la parrucca curata; però non era male avere qualcuno di riserva nel caso che Tench non potesse essere indotto in tentazione. In fondo Graham non era del tutto rivoltante, perché aveva denti buoni e carnagione sana, e lei non cercava il vero amore, ma solo la possibilità di sopravvivere abbastanza a lungo da tentare un'evasione. «È una proposta, la tua?» chiese lui stringendo gli occhi color fango, ben diversi da quelli di Tench, che non la facevano dormire. «Non sta a me avanzare proposte, signore.» Mary si inchinò brevemente con un sorriso sfacciato. «Dicevo solo come la penso.» A quel punto l'ufficiale ordinò di riportarla in cella, ma mentre la guardia la spingeva brutalmente verso la scala interna, Mary si accorse che Graham continuava a guardarla con interesse. Intanto, nella stiva, il bagno pomeridiano era oggetto di discussione da parte di tutte quelle ancora abbastanza in forze da interessarsi alle altre. Mentre Mary veniva sbattuta dentro, tutte si interruppero per fissarla. «Che cosa ti è successo?» chiese Bessie, torcendosi le mani per l'ansia. «Avevamo paura che ti avessero punita o...» si interruppe per non pronunciare la parola “violentata”. «Gli ho detto che abbiamo bisogno di mangiare di più, di aria fresca e di pulizia in questa topaia» spiegò Mary. Non aveva voglia di approfondire il discorso perché era infreddolita per via degli abiti bagnati e inoltre voleva parlare in privato con Sarah. L'occasione arrivò molto più tardi quella sera. Si era sfilata gli indumenti umidi, li aveva appesi ad asciugare su un chiodo conficcato nella trave e si era avvolta nella coperta, ma ogni volta

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che guardava in fondo alla cella, vedeva Sarah intenta a parlare con Hannah. Era ormai quasi completamente buio quando la vide spostarsi verso il bugliolo. Le altre erano quasi tutte distese, pronte a dormire. Mary si alzò e arrancò verso di lei con la coperta stretta intorno al corpo. «Quando hai finito, possiamo parlare?» sussurrò. Nella semioscurità vide Sarah annuire. Il bugliolo era il posto migliore, perché era lontano dalle altre, ma non c'era spazio per stare in piedi. Quando Sarah ebbe finito, si appollaiarono su una trave. «Cosa c'è?» «Chi è il tuo amante?» chiese Mary. Non vedeva motivo per prenderla alla larga. Sarah esitò, e nel buio Mary non riuscì a capire se fosse infastidita per la domanda. «È Tench o Graham?» insistette. «Nessuno dei due» mormorò Sarah. «Ma sono cose che non si chiedono, Mary.» «Perché no? Devo farlo, se è l'unico modo per sapere chi non devo ingraziarmi.» «Tench non fa queste cose» sospirò Sarah. «Ci abbiamo provato quasi tutte, e tanti auguri se ci provi con Graham, perché è un duro.» «Come faccio a provarci?» Mary più che vederla immaginò l'alzata di spalle di Sarah. «Fagli gli occhi dolci ogni volta che lo incontri; di solito basta questo perché ti chiamino con un pretesto. Però evita di farti troppe illusioni se non vuoi restarci male.» «Il tuo uomo te le toglie le catene?» «A volte, ma non spesso» disse con tono annoiato. «Ora vai a letto, Mary. Non ho voglia di parlare di queste cose. Non sta bene.» Mary udì la tristezza nella voce di Sarah, e seppe d'istinto che era stata solo la disperazione a spingerla in una situazione del genere e che non voleva sentirsi in colpa perché un'altra giovane seguiva la sua strada.

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«Si fa quel che si può per sopravvivere.» Mary le strinse con forza la mano. «Si tratta solo di questo, nient'altro, e non è il caso di vergognarsi.» «Ti vergognerai, eccome, quando vedrai che le altre ti voltano le spalle» ribatté Sarah con voce rotta. «Sempre meglio che morire di fame» insistette Mary. Per più di una settimana Mary aspettò che la chiamassero a lavorare. Si era fatto caldo, e in cella si soffocava. Una notte morì una certa Elizabeth Soames, e la sua morte venne scoperta soltanto all'alba, ma ciò che più turbò Mary fu che nessuno aveva niente da dire sul suo conto. Quella donna era stata rinchiusa per mesi là dentro, eppure non si era fatta neppure un'amica e non si sapeva assolutamente nulla di lei. Lo fece rilevare, e Sarah le disse: «Quando sono arrivata, lei c'era già. Stava male, tanto che quasi non parlava, e comunque era vecchia, quindi non è il caso di agitarsi». Invece Mary era agitata, eccome: si chiedeva dove avrebbero sepolto quella donna, se aveva parenti e se erano stati avvertiti. Questo evento rafforzò in lei il desiderio di fuga. Trovava consolazione soltanto rivivendo i ricordi di casa. Si accorse che se si concentrava su questi riusciva a dimenticare il caldo, la fame, il fetore e le altre donne. A volte si immaginava sul sentiero verso Bodinnick con Dolly e la mamma per prendere la barca per Lostwithiel. C'era stata solo un paio di volte - l'ultima quando lei aveva dodici anni e Dolly quattordici -, ma in entrambe le occasioni c'era uno splendido sole e lei si rivedeva, seduta in barca, con la mano immersa nell'acqua fresca e pulita. Per gran parte del viaggio il fiume scorreva tra argini scoscesi fitti di boschi, con gli alberi che crescevano fino al bordo dell'acqua protendendo radici contorte come dita di pescatori. Era un viaggio incantevole, tra le libellule che volavano sull'acqua, gli aironi in paziente attesa nelle secche, e qualche cervo che timidamente

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faceva capolino tra i tronchi; i martin pescatori, appollaiati sui ceppi, aspettavano il passaggio di un ignaro pesce per tuffarsi in un glorioso bagliore turchese, e poi risalire con la preda argentata stretta nel becco. Lostwithiel era il posto più lontano in cui Mary era stata prima della partenza per Plymouth. Non era più grande di Fowey, ma lei lo trovava emozionante per via delle carrozze che arrivavano a tutta velocità da Bristol e persino da Londra. Guardava con gli occhi sgranati i passeggeri che scendevano, le signore eleganti con bei cappelli, e si chiedeva come mai, se erano ricche e abbastanza importanti da compiere un viaggio tanto lungo, non sembravano più felici. L'ultima volta che c'era stata, suo padre aveva regalato a lei e a Dolly due penny ciascuna. Mentre la mamma comprava stoffa per abiti, loro avevano curiosato in ogni negozio ed esaminato ogni banco del mercato prima di decidere come spendere quei soldi. Dolly comprò alcune margherite di stoffa da applicare al cappellino della domenica, e Mary un aquilone. La sorella le diede della stupida perché aveva sprecato due penny in una cosa che poteva costruire a casa senza spesa, e poi perché le ragazze non giocavano con gli aquiloni. A Mary non importava di essere l'unica a farlo, e a lei pareva sciocca Dolly che voleva delle margherite per il cappellino. Inoltre, gli aquiloni fatti in casa erano troppo pesanti e non volavano bene; il suo, invece, era di carta rossa, con le code gialle e il filo incerato che scorreva agevolmente tra le dita. La mattina successiva, dopo la chiesa, Mary salì con l'aquilone sulla collina che dominava il villaggio. Dolly l'accompagnò, ma solo perché voleva esibire il cappellino con le nuove guarnizioni. Come sempre nelle belle giornate di forte brezza c'erano molti bambini che facevano volare gli aquiloni; guardarono tutti Mary con invidia nel vedere il suo prendere il vento facilmente e librarsi nel cielo ben più in alto dei loro costruiti in casa. Dolly superò il pregiudizio che si trattava di un gioco da maschi soprattutto perché lassù c'erano parecchi ragazzi che le piacevano,

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tra cui Albert Mowles per il quale aveva un debole. Mary sapeva che non avrebbe dovuto lasciarsi convincere a prestare l'aquilone alla sorella, che lo voleva soltanto per attirare l'attenzione di Albert. Arrivò una folata di vento forte, e Mary vide con orrore che Dolly, anziché stringere la presa sul filo, lo lasciava scorrere tra le dita. L'aquilone, trascinato dal vento, volò a capofitto in direzione della spiaggia di Menabilly. Tutti si buttarono all'inseguimento; alcuni abbandonarono il loro aquilone per salvare quello più bello. Mary ricordava di avere corso a rotta di collo, determinata a battere tutti i maschi, che gridavano eccitati dall'imprevista avventura. Il vento mollò all'improvviso, e l'aquilone cadde di colpo atterrando sugli scogli che delimitavano la spiaggetta. C'era alta marea, ma Mary non pensò all'abito e alle scarpe della domenica e corse a perdifiato tra le alghe, la sabbia e il fango, con l'unico pensiero di salvare l'aquilone. Inciampò in un sasso semisommerso e cadde a faccia in giù. Fu Albert a raggiungere l'aquilone, e poi ad aiutarla ad alzarsi. «Corri più veloce della maggior parte dei maschi» le disse ammirato. In quel momento, mentre sudava nella stiva puzzolente, pensò che avrebbe fatto meglio a tenere a mente la ramanzina della madre nel vederla apparire fradicia e sporca di fango, l'occhiata torva di Dolly alle aperte lodi di Albert e la predica del padre, secondo cui le femmine che si comportavano da maschi erano destinate a finire male. Eppure nessuna di quelle cose le importava allora, e in realtà neppure adesso. Nulla poteva toglierle l'emozione che le davano l'aquilone rosso che volteggiava in cielo, il sole caldo sul viso e l'erba morbida sotto i piedi, la gioia di correre in piena libertà, la bellezza di quella spiaggetta dove spesso andava in cerca di granchi e muscoli. Doveva assolutamente aggrapparsi a quei ricordi,

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vedere se stessa come quell'aquilone teso verso la libertà. Infatti, non le avevano forse detto alla scuola domenicale che chi pregava con convinzione sarebbe stato esaudito? Era peraltro difficile credere che Dio ascoltasse le sue preghiere. Lui sapeva o gli importava del suo terrore di non rivedere mai più Fowey? Era troppo chiedere di tornare in cima alla collina per ammirare sotto di sé il bel villaggio al tramonto, guardare il ritorno delle barche da pesca, cariche di argentate sardine guizzanti, o ascoltare i canti degli uomini nella taverna del porto? Sentì gli occhi riempirsi di lacrime nel rammentare che aveva perduto l'occasione di rendere suo padre e sua madre orgogliosi di lei. Non avrebbe potuto danzare al matrimonio di Dolly. I suoi genitori si disperavano per i suoi modi da maschiaccio, ma in fondo le volevano un gran bene. Come avrebbero preso l'idea di non rivederla mai più? Proprio mentre cominciava a convincersi che il caldo non avrebbe più dato tregua e che sarebbe rimasta chiusa nella stiva per l'eternità, fu chiamata di nuovo fuori a lavorare, questa volta da sola con Sarah. Mary ebbe la sensazione che l'amica avesse avuto una parte nella faccenda, visto che dopo il giorno del bucato aveva trascorso due notti fuori dalla stiva, ma - se così era stato - non aveva lasciato trapelare nulla. Ancora una volta ricevettero l'ordine di lavare le camicie, e mentre calavano i secchi lungo la fiancata, videro un gruppo di reclusi salire dalla stiva per lavorare. Mary parlava spesso con gli uomini attraverso la griglia e sapeva attribuire un nome alle diverse voci, ma non aveva idea di che aspetto avessero; però nel vedere un uomo grande e grosso, alto più di un metro e ottanta, con ispidi capelli biondi, barba folta e occhi azzurri, lo riconobbe senza la minima esitazione per Will Bryant, il preferito delle altre donne. Anche a Mary era simpatico, soprattutto perché veniva dalla

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Cornovaglia e conosceva bene Fowey. Avevano parlato in diverse occasioni, ma quando era scemato il piacere iniziale di trovare una persona con cui condividere i ricordi del villaggio natale, lei aveva cominciato a notare in lui un atteggiamento da spaccone. Si vantava di essere uno dei pochi condannati per contrabbando. A lei sembrava strano: era un reato in genere tollerato, dal momento che tutti in Cornovaglia, dal più povero al più aristocratico, vi erano in qualche modo coinvolti. Poiché lui faceva il pescatore - con una barca di sua proprietà - conosceva benissimo la costa frastagliata e di sicuro era perfettamente in grado di portare a riva la merce illegale, ma Mary aveva l'impressione che non fosse solo questa la causa della sua condanna. Inoltre non le piaceva quel suo modo di considerarsi il detenuto più sveglio e in gamba a bordo della Dunkirk. Nel vederlo di persona, però, dovette ammettere che era bello. Neppure il sudiciume guastava l'effetto dei tratti decisi e del corpo muscoloso che la camicia abbondante non riusciva a celare. I capelli biondi brillavano al sole, gli occhi azzurri erano luminosi e la carnagione dorata per le tante ore passate all'aperto. Si sarebbe detto più grande di lei di un paio d'anni soltanto, e malgrado si trovasse su quella nave da oltre un anno, appariva ancora sano e aitante. Doveva senz'altro avere trovato il modo per procurarsi del cibo extra, il che dimostrava che era pieno di risorse. «Chi siete voi due?» urlò come fossero al mercato, e non detenuti in catene. «Io sono Sarah, e questa è Mary Broad» gridò Sarah di rimando. «Bella giornata per lavorare fuori!» «Vale la pena di spaccarsi la schiena per vedere due bellezze come voi» replicò lui, impudente, scatenando l'ilarità dei compagni. «Se più tardi riuscite a svignarvela, vi offro da bere alla taverna.» Mary sorrise suo malgrado. Meritava ammirazione un uomo capace di fare battute prima di iniziare un turno di dieci ore a spaccare pietre. «E io vi pago due bicchieri ciascuna» gridò un altro. Dall'accento

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irlandese, Mary lo individuò come James Martin, che faceva ridere tutte le donne con i suoi complimenti coloriti e spesso sfacciati. Ma se Will visto di persona ci guadagnava, James era una delusione con quel naso grosso sul viso sparuto, i capelli castani filacciosi e le orecchie a sventola. Inoltre, aveva spalle cadenti e denti scuri. «Un ladro di cavalli lo immaginavo più affascinante» commentò Mary con Sarah quando gli uomini scesero la scaletta verso la barca in attesa. Sarah rise. «Quello ha una faccia tosta più grande del didietro di un elefante. Non ha bisogno di essere anche bello per attirare le donne.» «Chi erano gli altri due con Will?» si informò Mary. Uno aveva capelli rossi e lentiggini, e doveva essere suo coetaneo; l'altro era ancora più giovane, sui sedici anni, esile e nervoso, con tratti spigolosi da uccello. «Il più piccolo ha un bel sorriso.» «Sono arrivati più o meno quando sono arrivata io. Quello rosso si chiama Samuel Bird. E malinconico, non certo il tipo che rallegra la giornata alle ragazze, come Will e James» rispose Sarah con un sorriso. «Il giovane è Jamie Cox. Parla poco, forse per timidezza. È fortunato perché Will e James Martin lo tengono d'occhio, altrimenti non voglio pensare che cosa gli farebbero quei bruti nella stiva.» Mary le chiese cosa intendesse. Sarah scosse la testa. «Se non lo sai, non sarò certo io a dirtelo. A volte gli uomini fanno cose che è meglio non sapere.» Sul ponte scese il silenzio quando i detenuti maschi furono portati a riva. Le donne sentivano il sole ardente su braccia e testa, mentre sull'acqua indugiava una foschia da calore. Strofinarono i panni in un silenzio amichevole: non sembrava necessario chiacchierare perché tutte e due si gustavano la lieve brezza, il verso dei gabbiani e il blando dondolio dello scafo sull'acqua.

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Dopo avere sciacquato il primo carico di camicie con acqua pulita, fecero entrambe il bagno, ridendo deliziate mentre si lavavano a vicenda i capelli. Le due guardie, distese su casse in fondo al ponte a fumare la pipa, non fecero commenti; forse il calore del sole aveva ammorbidito anche loro. Mentre sollevavano acqua pulita per il secondo carico di bucato, i loro abiti asciugarono in fretta, ma Mary rimase molto male nell'accorgersi di quanto il suo fosse scolorito e liso: un altro paio di lavaggi e si sarebbe ridotto in brandelli. «Cosa facciamo quando questi vestiti si strappano?» chiese a Sarah. Molte donne erano già seminude, e per coprirsi tenevano stretti al corpo gli ultimi residui dei loro stracci. «Questo me l'ha regalato il mio uomo» disse Sarah abbassando gli occhi. «Cedi soltanto se ti dà da mangiare o da vestire, Mary. Non darti per nulla.» Mary indugiò un attimo a guardare l'amica. Indossava un abito di cotone blu, tutt'altro che elegante e troppo ampio per la sua esile corporatura, ma comunque in condizioni migliori di quelli che si vedevano nella stiva. Immaginò che Sarah, a Penzance, fosse una da far girare la testa con quei capelli ramati e i vivaci occhi neri. «E tremendo?» sussurrò. «Io non l'ho mai fatto.» Sarah sospirò. «Con mio marito era meraviglioso» disse con voce rotta. «La prima volta mi ha fatto un po' male, ma lui era delicato e io lo amavo. Ho paura che per te non sarà lo stesso, perché qui gli uomini vogliono una donna senza preoccuparsi dei suoi sentimenti. Non sei altro che un corpo caldo da usare come meglio gli va.» «C'è un modo per rendere la cosa più gradevole?» chiese Mary, preoccupata. «Non fare resistenza, cerca di fingere che ti piace, e non illuderti di essere amata. Noi siamo soltanto delle recluse, in fin dei conti.» ***

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Capitolo 3. Intorno a mezzogiorno Watkin Tench tornò alla nave su una piccola barca. Mary sentì il cuore mancare un colpo nell'udire la sua voce chiamare dal basso, ma continuò a versare l'acqua del bucato in mare in attesa di vederlo apparire. Sorrise quando lui salì sul ponte. In camicia e brache bianche, aveva il viso madido di sudore; sembrava stanco e accaldato, ma questo lo rendeva ancora più desiderabile ai suoi occhi. Lui annuì nel vedere le due donne. «Buon giorno, Sarah, Mary. Spero vi comportiate bene oggi.» Dal tono leggero e lievemente divertito doveva essere stato informato del bagno nelle tinozze da bucato. Mary si chiese cosa avrebbe detto sapendo che l'avevano fatto anche quel giorno. Comunque avevano il vestito quasi asciutto, e stavano torcendo il resto della biancheria per ritardare il momento del rientro nella stiva. «Ci comporteremmo anche meglio se avessimo qualcosa da mangiare» gridò Mary con l'abituale spavalderia. «C'è qualche possibilità?» Nel vedere Sarah distogliere lo sguardo pensò che l'amica la considerasse troppo sfrontata. «Non vi basta stare fuori per qualche ora?» chiese Tench, avvicinandosi di qualche passo. Non rilevando traccia di irritazione nella sua voce, Mary decise che doveva cercare di conquistarlo subito se non voleva lasciar sfumare l'occasione.

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«Oh, signore, apprezziamo davvero la possibilità di venire qui, guardare boschi e campi, sentire il canto degli uccellini e il calore del sole sul viso» disse, cercando di non ridere perché sapeva di avere un tono insincero. «Non mi lamenterei più di nulla se ci concedessero di lavorare così ogni giorno.» Tench sorrise, rivelando denti bianchissimi in spiccato contrasto con la carnagione abbronzata. «Dimmi qualcosa di te, Mary» disse, e poi aggiunse: «Anche tu, Sarah». Mary ebbe l'impressione che per una volta il fato le arridesse quando Tench si mise a sedere su una cassa con aria rilassata. Le guardie non si avvicinarono e non c'era alcuna distrazione; avrebbero potuto essere due ragazze qualunque che chiacchieravano con un amico dopo il lavoro. Mary lasciò che fosse Sarah a parlare per prima. La giovane raccontò della morte del marito e del timore di non rivedere mai più i figli. Disse che i genitori erano ormai troppo vecchi per crescere dei bambini e che, se lei fosse morta, i piccoli sarebbero finiti in orfanotrofio. Tench l'ascoltò con attenzione. Mary lo vide serrare le labbra come infuriato che non si fosse tenuto conto della storia di Sarah al momento della sua condanna. Il racconto di Mary fu assai breve. Accennò alla sua famiglia a Fowey e al trasferimento a Plymouth in cerca di lavoro. «Ora rimpiango con tutta me stessa di non essere rimasta a casa» gemette, mentre si allontanava con discrezione per controllare se il bucato era asciutto. «Mi addolora il pensiero di non rimettere mai più piede in Cornovaglia, e di non rivedere mai più i miei familiari finché campo.» Quasi si aspettava che Tench proclamasse che non era così, che sette anni non erano poi tanto lunghi, e invece comprese dalla sua espressione seria che non nutriva speranze per lei. «Per le donne detenute è più difficile rientrare» disse. «Gli uomini possono farsi ingaggiare su una nave diretta in patria, una volta scontata la pena.» Non fu necessario aggiungere che non esisteva un'opportunità

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del genere per le donne, che quindi erano costrette a restare. Mary lo avvertì nella sua voce. «Ma io tornerò» disse lei con determinazione. «In un modo o nell'altro. Sapete dove ci manderanno?» Lui si strinse nelle spalle. «Si parla di Botany Bay, nel Nuovo Galles del Sud, la terra scoperta dal capitano Cook, ma per il momento nessuno è stato in grado di confermare che sia un'opzione praticabile. L'America è esclusa perché ormai ha conquistato l'indipendenza. Hanno provato con l'Africa, ma non è andata bene.» «Se restiamo sulla Dunkirk, moriamo di sicuro» replicò Mary in tono sconsolato. Tench sospirò. «Sono d'accordo, è terribile. Ma cosa può fare il governo? Le prigioni sono sovraffollate.» Mary fu tentata di commentare che se non avessero spedito in carcere la gente per reati di lieve entità come il furto di una torta, il sovraffollamento non ci sarebbe stato, ma voleva mantenere desto l'interesse di Tench ed evitare che la spedisse via in fretta e furia. «Parlatemi di voi, signore» disse invece. «Ho sentito che avete combattuto nelle Americhe.» «Infatti.» Abbozzò un sorriso triste. «E sono anche caduto prigioniero. Forse per questo sono più comprensivo della maggior parte degli uomini della Marina nei confronti dei detenuti. Anch'io sono cresciuto a Penzance, e quindi so bene quanto sia dura la vita in Cornovaglia.» Incantata, Mary sedette sul ponte accanto alla tinozza mentre Tench le raccontava della sua infanzia felice a Penzance. Lui proveniva da un mondo completamente diverso: una grande casa con servitù, una scuola privata in Galles, una famiglia agiata dal nome importante. Eppure c'era anche qualcosa che condividevano, l'amore per la Cornovaglia, e l'affettuoso interesse da lui mostrato verso la gente comune. Gli bastarono solo poche parole per dipingere un vivido quadro della vita in Marina, dell'America e di Londra. «Ora devo andare» disse di punto in bianco, forse rendendosi

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conto di essersi trattenuto troppo a lungo a chiacchierare con lei. «Vuotate quella tinozza e rimettetela via. Vi porterò su qualcosa da mangiare.» «Non è il tipo da prendersi una donna» osservò Sarah bruscamente non appena Tench si fu allontanato. Era rimasta in silenzio per tutto il tempo in cui Mary parlava con l'ufficiale, limitandosi ad annuire o a sorridere di tanto in tanto. «Da lui non avrai quello che vuoi, Mary.» «Come lo sai?» Mary era risentita, convinta che la donna più vecchia la stesse prendendo in giro. «Io li conosco gli uomini» affermò Sarah semplicemente. «Tench è il tipo che si conserva per quella che sposerà. Una specie rara.» Mary pensò che Sarah sbagliava quando vide Tench tornare indietro con una pagnotta, del formaggio e un'arancia. Le esortò a finire in fretta e tornare in cella, e allora Sarah guardò con un sospiro la figura esile che si allontanava lungo il ponte. «È un uomo per bene, gentile» disse. «Se riesci a tenerlo interessato, ti darà una mano di sicuro, ma non sperare nell'amore, e neppure di dividere il suo letto. Quelli come lui non si innamorano delle recluse.» Il pane e il formaggio erano un po' ammuffiti, ma non importava; in fin dei conti era cibo solido. Fu l'arancia quella che più apprezzarono, perché un frutto del genere era una rara leccornia anche fuori dalla prigione. La mangiarono con avidità, buccia compresa; leccarono fino all'ultima goccia di succo scivolata sul mento, ridendo di gusto una dell'altra. Avevano appena vuotato in mare l'ultimo secchio d'acqua sporca quando comparve il primo tenente Graham nella divisa di ordinanza. Appariva accaldato e stizzito. «È ora di tornare in cella» disse seccamente. «Stavamo per raccogliere il bucato asciutto e piegarlo» ribatté Mary. Aveva preso il sole su braccia e viso, e percepiva sulla pelle il bruciore che sarebbe durato per giorni, ma lassù si sentiva libera

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e perfino felice, e per il momento non aveva alcuna voglia di rientrare in cella. «Ci penseranno i miei uomini» fece lui, trafiggendola con un'occhiata. «So come siete fatte voialtre; probabilmente mirate a rubare una o due camicie.» «Sbagliate, signore» obiettò Mary indignata. «Volevamo soltanto finire il lavoro come si deve.» L'ufficiale si appoggiò al moncone d'albero con un sorriso di scherno. «Ah, davvero? E più facile che vendiate l'anima per un vestito nuovo, qualcosa da mettere sotto i denti o un goccio di rum.» Mary guardò Sarah, e dalla sua espressione ansiosa immaginò che avesse già comunicato a chi di dovere la sua disponibilità a diventare una compagna di letto. Dopo avere parlato con Tench, Mary non nutriva più alcun interesse per Graham, ma il buon senso le suggeriva di non escluderlo completamente dal quadro. «Io l'anima non la venderei mai» affermò decisa. «E non ho mai considerato neppure l'idea di vendere il mio corpo, per adesso.» «Voi donne siete tutte puttane» commentò Graham con cattiveria. «Ora piantate lì e tornate in cella.» Quelle parole bruciavano, ma mentre sollevavano la tinozza per svuotarla, Mary sentì gli occhi di Graham sulle sue gambe. Aveva infilato l'orlo della gonna nella catena intorno alla vita e se ne era dimenticata. Si voltò verso di lui e ammiccò sfacciatamente. Era più che certa che quell'uomo potesse essere sedotto, a differenza di Tench. Nelle settimane successive Mary fu chiamata a lavorare sul ponte con regolarità, certi giorni con la sola Sarah, altri con compagne diverse. Non impiegò molto a notare che lei veniva scelta sempre, che si trattasse di lavare, rammendare o mondare verdura, ma purtroppo non aveva modo di sapere se era Tench o Graham a metterla in lista.

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Vedeva in ogni occasione entrambi gli uomini, e Tench, anche se non si fermava più a parlare a lungo, le passava quasi sempre qualcosa da mangiare; Graham, d'altro canto, si tratteneva ogni volta, e spesso la separava dalle altre con la scusa di punirla per qualcosa. Quell'uomo la sconcertava: a volte era brusco e addirittura villano, invece in altre occasioni manifestava una vena di genuina cortesia, come quando lei si era presa una scheggia nel piede dalle assi del ponte. Parecchie donne avevano cercato di togliergliela ma senza successo, e alla fine della giornata stentava addirittura a reggersi in piedi. Nel vederla zoppicare, Graham la chiamò. «Cosa ti è successo?» Mary glielo spiegò e lui le chiese di fargli vedere. Lei gli voltò le spalle, e con qualche difficoltà dovuta alle catene piegò il ginocchio per sollevare il piede. «E penetrata nella carne. Vado a prendere un ago per toglierla.» Ordinò alle altre di tornare in cella e a Mary di restare dov'era. «Siediti» le impose quando tornò con l'ago e una bottiglietta di liquido. Mary ubbidì e Graham si acquattò su una cassa davanti a lei, le sollevò il piede e se lo appoggiò sul ginocchio. Le fece male nel bucarla con l'ago, ma riuscì a estrarre la spina. Quando strofinò sulla ferita un po' del contenuto della bottiglietta, facendola bruciare, Mary gridò di dolore. «Serve per evitare l'infezione. Ora fasciala con qualcosa, e non camminare nel sudiciume finché non è guarita.» «Difficile, giù nella stiva.» «Ma non la smetti proprio mai di lamentarti?» le chiese, sempre reggendole il piede nella mano. In quel momento Mary comprese con certezza che era davvero interessato a lei. «Se pensate che questo sia lamentarsi, lasciate che vi mostri com'è quando mi lamento davvero. Da dove volete che cominci? Dal luridume, dal fetore o dalla mancanza di cibo degno di questo nome?» Scoppiò in una risata per addolcire

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le proprie parole. «Però non vorrei farvi saltare la cena stasera. Siete stato molto gentile a curarmi il piede.» Lui non disse nulla, ma indugiò con la mano sulla gamba di Mary, subito sopra il ceppo, e l'accarezzò. «Tu ti tieni più pulita delle altre» disse abbassando la voce con tono più intimo. «Questo mi piace di te. Non vorrei che la tua ferita diventasse purulenta.» «Tenersi puliti è un modo per sopravvivere su questa nave. E sopravvivere è quello che voglio, a qualunque costo.» Lui allora sorrise, e una vampata di calore gli salì sul viso paffuto; per un secondo parve quasi bello. «A qualunque costo?» chiese, sollevando un sopracciglio. Mary non riuscì a guardarlo, consapevole che lui aspettava un'aperta dichiarazione della sua disponibilità. Sapere che, se l'avesse voluto, poteva prenderla con la forza, la rese un poco più tenera nei suoi confronti. «Non sono mai stata con un uomo» sussurrò con gli occhi bassi. «Ho sempre desiderato aspettare il matrimonio, ma ormai non sarà più così. Potrei morire di fame prima di vedere il paese in cui pensano di mandarmi. Quindi, se qualcuno mi offrisse da mangiare e un vestito nuovo, e fosse gentile, credo che farei quello che vuole.» «Non ti importa se non è amore?» A Mary parve che quella domanda rivelasse una sensibilità del tutto inattesa in un uomo di quel genere. «L'amore non arriva per le donne come me. Mi farò bastare la gentilezza.» Lui le ordinò allora di tornare in cella, ma quando Mary si alzò, le diede una striscia di cotone per fasciare il piede. «Tienilo pulito» fu il suo solo commento, mentre gli occhi dissero molto di più. Quella notte Mary fu assai angosciata. Era Watkin Tench che desiderava. Per lui avrebbe provato molto più che semplice gratitudine, ma sentiva che Sarah aveva ragione nel dire che non

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avrebbe mai preso una donna che non fosse sua moglie. Tuttavia, se permetteva a Graham di fare i suoi comodi con lei e Tench lo scopriva, di sicuro si sarebbe guadagnata il suo disprezzo. Per tutta la settimana successiva non riuscì a pensare ad altro, e si tormentava chiedendosi se era più nobile lasciarsi morire di fame per non perdere il rispetto di se stessa o lottare con le sole armi che aveva per sopravvivere. Una terribile burrasca pose fine al lungo periodo di calura. La vecchia nave sobbalzava e si scuoteva, mentre il fasciame gemeva come fosse sul punto di cedere. I boccaporti dovettero essere chiusi, e così rimasero per giorni e giorni sotto scrosci incessanti di pioggia. Le donne stavano distese sulle tavole nella più completa oscurità ad ascoltare le urla di chi stava male, e l'aria già fetida era così pesante che si stentava a respirare. La piccola Rose, cagionevole fin dalla nascita, fu la prima a morire, seguita il giorno successivo dalla madre e dalla donna che divideva il letto con loro. Nel giro di ventiquattr'ore altre otto donne avevano la febbre, e un'altra dozzina, tra cui Mary, manifestava vomito e diarrea. Quasi tutte erano talmente deboli da non riuscire neppure ad arrivare ai buglioli, quindi rimanevano immobili nel loro sudiciume. Mary si accorse che le sole a non soffrire tanto erano le cosiddette “puttane”, le uniche ancora abbastanza in salute da riuscire a detergere la fronte bruciante di un'ammalata o offrire qualche parola di conforto. La stessa Mary, che si era considerata tanto vigorosa, aveva appena la forza di strisciare fino al secchio. Decise allora che la sopravvivenza era assai più importante della moralità. Infine la pioggia cessò e vennero riaperti i portelli rivelando sotto i giacigli mezzo metro di acqua di sentina su cui galleggiavano escrementi e vomito. La malattia, che perdurava, fece altre due vittime. Gli uomini chiamavano dalla griglia, anche loro sofferenti. Mary seppe che Able, suo compagno di cella a Exeter, era morto, come pure un ragazzo di soli quindici anni, e due degli uomini più anziani.

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Una mattina, Mary parlò con Will Bryant: aveva perso ogni spavalderia e sicumera. «Se è febbre carceraria, moriremo tutti quanti» disse Will con tristezza. «Dobbiamo trovare il modo per far lavare queste celle. I topi sono aumentati ancora, e io ho paura che finiremo tutti male.» «Cercherò di fare qualcosa» disse lei. «E cosa mai potrebbe fare una ragazzina come te?» ribatté lui con arroganza. «Tento di chiedere aiuto» rispose Mary, resa ancora più determinata dalla sua mancanza di fiducia. «Provaci, ma non ti porterà da nessuna parte. Vogliono farci morire tutti, così tornano a riempire la nave di nuovi, che moriranno anche loro. Con questo sistema fanno una fortuna, quelli.» «Tu disonori la Cornovaglia» gli gridò lei. «Non serve a niente parlare in questo modo.» «Ti sposo se riesci a far lavare queste celle» gridò lui di rimando con una risata roca. «Attento che non ti faccia mantenere la promessa!» Sarah le rivolse un sorriso incerto quando Mary le raccontò ciò che aveva in mente. «Le guardie non faranno venire quaggiù Tench o Graham. Ti ignoreranno.» «Devo provarci» insistette Mary. Non valeva la pena tempestare di pugni la porta, tanto non rispondeva mai nessuno, quindi Mary aspettò che la guardia scendesse a ordinare a due donne di portare fuori i buglioli per avventarsi contro non appena avesse tolto il catenaccio alla porta. «Devo vedere il tenente di vascello Tench o il primo tenente Graham» affermò decisa. «Va' al diavolo» rispose lui, allontanandola con il bastone. «Tu non vedi proprio nessuno.»

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«E invece sì» fece lei, afferrandolo per il braccio. «Se non porti un mio messaggio a uno dei due, ti farò punire.» «Tu fai punire me?» I suoi occhi piccoli divennero ancora più piccoli. «Secondo te qualcuno di sopra crede alla parola di una maledetta criminale?» «Se non mi dai retta, finirai male» replicò Mary con aria minacciosa. «Te lo dico di nuovo: portagli un mio messaggio, oppure sarà peggio per te.» «Va' al diavolo» ripeté l'uomo, ma questa volta con meno convinzione. Ordinò a due donne di prendere i secchi mentre teneva indietro Mary con il bastone. «Diglielo» gridò lei, rivolta alla guardia che, dopo avere sbattuto la porta, la chiuse a chiave. «Diglielo, se non vuoi rischiare grosso... è importante.» Mary ritentò quando le donne tornarono con i secchi, ma ottenne la stessa risposta. Le ore trascorsero lente senza che nessuno comparisse; allora, mentre fissava il cielo plumbeo dal boccaporto, si mise a piangere. Altre donne si erano ammalate e avevano la febbre, e lei temeva che, se si andava avanti in quel modo, nel giro di una settimana sarebbero morte tutte. «Be', hai fatto del tuo meglio» le disse Sarah per cercare di consolarla. «È proprio come diceva Will: non gli importa se moriamo.» «Per la maggior parte di loro può essere vero, ma non credo lo sia per Tench o Graham. Non è possibile.» Non aveva idea di che ora fosse, perché non c'era il sole a rivelarglielo, ma pensava che fosse tardo pomeriggio quando entrò una guardia e gridò il suo nome. «Forza, vieni su, tu.» Non era l'uomo da lei minacciato in precedenza, ma ebbe l'impressione che anche questo ne sapesse qualcosa perché per una volta non la pungolò con il bastone. In cima alla scala che conduceva al ponte inspirò a fondo l'aria fresca e subito avvertì un capogiro. Il primo tenente Graham l'aspettava sul ponte. «Volevi vedermi?»

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Mary sciorinò subito quello che non andava. «Le stive devono essere pulite come si deve, altrimenti finiremo tutte con la febbre.» Andò su tutte le furie nel vedere che lui rimaneva impassibile. «Se ci viene la febbre, contagiamo anche voi» si accalorò. «Per l'amor del cielo, fate qualcosa se non volete avere sulla coscienza la morte di tutti quelli che sono a bordo.» Lui le lanciò una delle sue lunghe occhiate penetranti. «E tu cosa farai per me, se io ti do retta?» Mary deglutì. Non si aspettava che lui mercanteggiasse. «Tutto quello che volete, signore» rispose. «Non mi interessa prenderti se non vuoi.» Per la prima volta Mary vide sul suo viso un'ombra di tensione. «E a me non interessa che aiutiate chi sta giù nella stiva, se non volete.» Lui si voltò a guardare il mare. Stava combattendo con la propria coscienza, pensò Mary. Forse si chiedeva non tanto se era giusto lasciar morire i detenuti per mancanza di aria pulita, ma se era giusto piegarsi alle sue richieste perché la desiderava. Dopo un silenzio che parve interminabile, Graham tornò con gli occhi su di lei. «Darò ordine di pulire le stive» disse con aria severa. «Tu vieni da me appena le altre sono rispedite indietro.» Era ormai buio quando le guardie completarono la pulizia della cella delle donne, che nel frattempo erano state portate all'aperto, dove avevano ricevuto la solita cena di pane e zuppa. Per quelle che dal loro trasferimento sulla nave non erano mai uscite dalla stiva, fu quasi troppo: si rannicchiarono spaventate sul ponte, tremando nella brezza tesa, con gli occhi vacui come fossero parzialmente accecate dalla luce. Mary fu sgomentata dalle condizioni orribili in cui versavano alcune: nel buio della cella non si era resa conto appieno della gravità della situazione. Alcune erano solo pelle e ossa, e tutte apparivano pallide, scarne e apatiche, con il sudiciume

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talmente stratificato sulla pelle e sui capelli che sarebbe stato necessario ben più di un bagno per eliminarlo. Vide sulle caviglie, dove sfregavano i ferri, piaghe ulcerose coperte di insetti, e su braccia e gambe scheletriche segni di morsi che potevano essere stati lasciati soltanto dai ratti. Rifletté con tristezza che la pulizia della stiva non sarebbe servita se non fosse stato dato loro cibo migliore. Dubitava che arrivassero tutte vive alla deportazione. Quando le guardie tornarono sul ponte, sudate per la fatica, un forte odore di aceto si diffuse nell'aria della sera. Mary cominciò a tremare di paura al pensiero di ciò che l'aspettava. Sapeva che cosa significava fare l'amore. Nella minuscola casetta di Fowey non vi era alcuna intimità, e aveva sentito i genitori farlo al buio. Nel periodo passato a Plymouth l'aveva visto fare ovunque, quindi non era l'atto in sé a spaventarla. Allora Thomas la baciava con passione, e se avesse insistito per spingersi oltre, lei sarebbe stata ben lieta di accontentarlo.Tuttavia c'era una bella differenza tra lasciarsi sedurre ed essere costretta a cedere. Al terrore di essere presa da un uomo che conosceva appena, si aggiungeva lo sgomento per ciò che aveva saputo da Sarah. A suo dire, gli ufficiali chiudevano un occhio quando uno di loro prendeva una detenuta, il che non impediva loro di allearsi poi per fustigare la donna, se trovavano qualcosa su cui recriminare. Mary immaginò di essere ormai segnata per avere osato lamentarsi sulle condizioni delle celle. Il primo tenente Graham si presentò mentre le guardie ordinavano alle donne di tornare di sotto. Le fece segno di seguirlo a poppa, poi scomparve in una delle strutture simili a baracche. Chiuse a chiave la porta non appena Mary fu entrata. Era un locale molto simile a quello in cui l'aveva portata Tench: minuscolo, con una cuccetta, uno scrittoio e un paio di sgabelli. Graham accese una candela sullo scrittoio, e fu allora che Mary vide la tinozza colma d'acqua sul pavimento. «Per me?» chiese.

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«Sì. Puzzi.» Pareva alquanto imbarazzato. «Lavati dappertutto, compresi i capelli. Torno dopo.» Mary indicò le catene. «Me le togliete queste?» Lui esitò un momento, il che la indusse a pensare che era la prima volta che lo faceva, poi pescò in tasca una chiave, le liberò le caviglie e le sfilò la catena che aveva intorno alla vita prima di andarsene senza aggiungere altro. Per un momento Mary non pensò che alla grande gioia di essere finalmente libera dalle catene; era meraviglioso potersi muovere con agio, senza sentire l'odioso sferragliare con cui conviveva da tanto tempo. Ben presto, tuttavia, si ricompose e allora balzò verso la porta per cercare di aprirla. Come previsto era chiusa a chiave, e i due oblò erano troppo stretti per passarci attraverso, quindi si rassegnò a spogliarsi ed entrare nella tinozza. Con grande piacere scoprì che l'acqua era calda e che il sapone lasciato da Graham non era uno di quei pezzi scabri che venivano usati per lavare i panni. La piccola tinozza consentiva solo di stare accosciati, ma era assai piacevole, soprattutto senza il peso delle odiate catene. Si stava asciugando con l'asciugamano lasciato da lui quando scorse uno specchio sulla parete; si diede un'occhiata e ciò che vide la sconvolse al punto che quasi cadde all'indietro. Le guance, un tempo piene e rosee, apparivano incavate, e gli occhi sporgevano dalla testa. Quando abbassò lo sguardo sul corpo, vide che era emaciato, con le costole sporgenti sotto il petto. Ancora più strano era l'effetto del viso e degli avambracci scurissimi mentre il resto era di un bianco spettrale. I capelli appena lavati però erano belli, inanellati sulle spalle in luminosi riccioli. Li fregò energicamente con l'asciugamano e ci passò il pettine di Graham per togliere i pidocchi, poi lavò anche quello e lo rimise al suo posto. Nell'udire i passi di Graham, si infilò spedita nella cuccetta e si coprì in fretta. Lui entrò lentamente. Reggeva un piccolo vassoio che posò per richiudere a chiave la porta. Mary era troppo intimidita per

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parlare ma, nel sentire il profumo del cibo, non resistette e si mise a sedere. «E per me?» Stentava a credere alla propria fortuna, perché si trattava di un tortino con la pasta dorata come quella che faceva sua madre, ricoperto da un sugo invitante. «Immaginavo che avessi ancora fame» disse lui in tono burbero senza guardarla, come fosse imbarazzato. «Molto gentile da parte vostra, signore.» «Qui dentro non è il caso che mi chiami “signore”.» Le porse il vassoio e sedette sul bordo della cuccetta. «Mi chiamo Spencer, e ora mangia prima che si raffreddi.» Mary non se lo fece dire due volte, e si avventò sul cibo con entusiasmo. Era un tortino di coniglio e verdure, il migliore che avesse mangiato dalla partenza da Fowey, e anche se il cibo per lei contava più dell'uomo che glielo aveva portato, non poté fare a meno di notare che lui sembrava felice della sua palese soddisfazione. Mentre guardava Mary mangiare, il primo tenente si sorprese delle proprie emozioni. Si era aspettato, una volta tornato in cabina, di sentirsi in colpa perché stava tradendo la fiducia della moglie, o di essere talmente pieno di desiderio da non lasciare a Mary il tempo di mangiare, e invece era riuscito a mettere da parte il senso di colpa e anche il desiderio perché il modo in cui lei gustava il cibo lo faceva sentire bene. Mary non si era accorta che nel frattempo i suoi seni si erano scoperti, due piccoli e perfetti monticelli con i capezzoli rosei. Un po' di sugo c'era caduto sopra, e lui dovette fare uno sforzo per non chinarsi a leccarlo. A vent'anni, dieci anni prima, Graham aveva sposato Alicia, una cugina di secondo grado. Giocavano insieme fin da bambini, avevano imparato a danzare e a cavalcare insieme nel villaggio natale, vicino a Portsmouth, ed era sempre stato implicito che avrebbero finito per sposarsi. Alicia si era trasferita presso i genitori di lui, ed era per loro come una figlia. Dipingeva, ricamava, suonava il piano, sapeva ricevere gli ospiti, e non

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si lamentava se lui stava via per lunghi periodi. Gli aveva anche regalato prima un maschietto, e poi una femminuccia, senza perdere la linea. Graham considerava molto riuscito il suo matrimonio. Lui e la sua sposa vivevano in armonia, e sapeva che altri uomini gli invidiavano una moglie tanto graziosa e piena di vita. Per questo non riusciva a capire come mai a volte si sentisse deluso. Lo comprese all'improvviso nel vedere Mary mangiare. Alicia dava la sensazione di mordere un frutto, buono e sano, ma non soddisfacente come poteva esserlo un pasticcio di carne. Alicia non litigava mai e gli dava sempre ragione. Appariva incantevole quando lo accoglieva a casa in occasione di una licenza, ma non c'era mai passione, emozione vera. Mary non era neanche lontanamente graziosa quanto Alicia. Anche se avesse indossato il più costoso abito di seta e avesse avuto i capelli bene acconciati, sarebbe sempre parsa quella che era, una semplice ragazza di campagna priva di buone maniere. Eppure era così attraente, soprattutto in quel momento, pulita e con i capelli scuri sciolti sulle spalle. Possedeva una spavalderia che lui non aveva mai visto in Alicia; era orgogliosa, ardita, determinata e schietta. Fare innamorare quella donna sarebbe stata una sfida, e Graham era sicuro che avrebbe scoperto qualcosa di meraviglioso ed eccitante se ci fosse riuscito. Lo emozionava anche il fatto di rischiare la carriera in Marina portandola nella sua cabina. Mai nella vita aveva osato tanto. «È stato fantastico» gli disse lei con una gratitudine che lo stupì. «E il bagno... anche il bagno è stato fantastico.» Mary sentì che a quel punto era disposta a dividere il letto con lui. Calda e pulita, con la pancia piena, era pronta quasi a tutto. In qualche modo si era convinta che lui non l'avrebbe trattata con brutalità, non dopo avere avuto la gentilezza di portarle una cena tanto buona. «Vuoi un po' di rum?» chiese Graham. «Solo un goccio.» Il sapore non le piaceva granché, ma gradiva la sensazione di calore che lasciava. Inoltre, Sarah le aveva

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raccomandato di bere qualsiasi cosa le venisse offerta perché l'avrebbe aiutata a stordirsi. Graham le porse un bicchiere di rum, poi cominciò a spogliarsi. Mary trangugiò la bevanda e, nel vedere le gambe bianche e pelose di lui, fu sopraffatta dalla paura di non farcela. La paura aumentò quando Graham buttò a terra la camicia: aveva il torace carenato e un ventre grasso e bianchiccio che tremolava a ogni movimento. Era abituata da sempre a vedere corpi maschili seminudi. Pescatori e marinai spesso si spogliavano fino alla cintola quando faceva caldo, e il loro corpo appariva sodo, snello, con muscoli guizzanti; si era quindi convinta che tutti gli uomini fossero così. L'inaspettata visione di quelle carni pallide e flaccide le procurò un senso di nausea, ma ormai non poteva più tirarsi indietro; si infilò allora sotto la coperta facendo spazio per lui, e distolse lo sguardo. Le fu sopra non appena salì sulla cuccetta. La schiacciò contro il materasso con il suo peso e, mentre la palpava con frenesia, incollò le labbra a mo' di patelle sulla sua bocca. Mary non aveva idea di come reagire; le sue uniche esperienze erano state con Thomas, i cui baci languidi e sensuali la facevano struggere dal desiderio di andare oltre. Graham spostò le labbra sul seno, che succhiò con tale avidità da farle male, e il suo respiro si fece corto e pesante come quello di un cavallo dopo una lunga galoppata. Mary sentiva premerle contro il ventre il suo pene, duro e caldo; per fortuna sembrava piccolo. Nel giro di pochi secondi lui accostò la testa alla sua, la costrinse ad aprire le gambe e si spinse con forza dentro di lei. Non fu doloroso, ma neppure piacevole; Mary ebbe solo la sensazione di un palo ficcato in un tubo asciutto delle dimensioni appena sufficienti per accoglierlo. Non gradì il modo in cui le afferrava le natiche grugnendo come un maiale. Per fortuna non durò a lungo. I grugniti si fecero sempre più forti, lui divenne sempre più caldo e sudato, poi, dopo un sospiro profondo, si fermò di colpo affondandole il viso nel collo. Soltanto allora lei provò una qualche tenerezza. Dopo tutto

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quello che aveva passato negli ultimi sei o sette mesi, era gradevole sentirsi abbracciare e giacere su un letto caldo e comodo. Sollevò la mano per accarezzargli la nuca e le spalle, chiedendosi se avrebbe dovuto dire qualcosa. Ma che cosa? Non certo che lo amava o che lui la emozionava, e neppure chiedergli se intendeva farlo di nuovo, quella sera o un'altra. Anche questo le rammentava la sua condizione di povera reclusa senza alcun diritto, considerata priva di sentimenti o di bisogni. Era sicurissima che la maggior parte della gente ritenesse le donne come lei addirittura incapaci di pensare. Graham si spostò più in basso, le posò la testa sul seno e si addormentò all'istante, con un braccio stretto intorno a lei. Mary rimase immobile per qualche tempo. L'aria proveniente dall'oblò era fresca e pulita, e solo il respiro tranquillo di Graham rompeva il silenzio. Era bello sapere che, se avesse ceduto al sonno, nessun ratto le sarebbe salito addosso, e non si sarebbe svegliata in preda ai morsi della fame; eppure non riusciva a dormire, perché all'improvviso le venne in mente che forse avrebbe potuto fuggire. Dopo essere entrato, Graham aveva chiuso la porta con la chiave, che di sicuro aveva riposto nella tasca della giacca. Sarebbe riuscita a scendere dalla cuccetta, recuperare i propri abiti e la chiave senza svegliarlo? C'era qualcuno di guardia fuori? Trovò risposta all'ultima domanda nell'udire il passo di pesanti scarponi davanti alla porta. Ascoltò con attenzione, immaginando il giro che la guardia percorreva sul ponte. Quando passò per la seconda volta davanti alla cabina, contò i secondi prima della conclusione del giro. Arrivò a novanta, ma al terzo giro l'uomo si fermò da qualche parte, forse per fumare la pipa o riposare. Si rese conto di ignorare troppe cose per tentare la fuga quella notte. Non sapeva se Graham avesse il sonno pesante, non era sicura di dove trovare la chiave, e non aveva controllato sui fianchi della nave quale fosse il posto migliore per calarsi in acqua. Tuffarsi dal ponte sarebbe stata una pazzia perché avrebbe allertato la guardia con il tonfo. La sola speranza era che Graham la

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volesse ancora, che lei riuscisse a conquistare la sua fiducia, annotando intanto con cura l'organizzazione del ponte e le possibili vie di fuga. Sognò di essere a casa, a letto con Dolly, per poi scoprire, al risveglio, che la mano che le accarezzava il ventre era di Graham, non della sorella. Finse di dormire, augurandosi che lui crollasse di nuovo, e invece, con sua grande sorpresa, lo sentì accendere una candela. Era tentata di aprire gli occhi per vedere cosa stesse facendo, ma temeva, nel caso, che lui la rispedisse nella stiva, e il tepore era troppo piacevole per rischiare. Sentì abbassare la coperta, e poi il calore della candela che si avvicinava. D'un tratto si rese conto che lui, seduto con il candeliere in mano, stava studiando il suo corpo. Malgrado la tensione, tenne gli occhi chiusi. Lui le tastò le parti intime, separò il pelo, poi con due dita le allargò le labbra. Fu ancora più difficile fingere di dormire sapendo che lui stava scrutando una parte che nessuno, tranne lei stessa, aveva mai visto. Si chiese perché lo facesse. Non l'aveva mai vista, oppure controllava che non avesse malattie? Quando vi insinuò il dito, lei fu travolta da una stranissima sensazione. Era piacevole, come lo erano stati i baci di Thomas, e d'istinto divaricò lievemente le gambe. Le carezze, dapprima esitanti, si fecero più decise; comprese che lui teneva lo sguardo fisso su quella parte, e non sul viso, perché percepiva il suo respiro caldo sul ventre. Socchiuse gli occhi e vide che non reggeva più la candela in mano - l'aveva appoggiata sul lato della cuccetta - e si stava sfregando il pene con una mano mentre con l'altra le accarezzava l'inguine. Mary serrò gli occhi. Non voleva che la vista della sua pancia molle le rovinasse il piacere che le stava procurando. Le parve strano che un uomo preferisse farle quelle cose mentre era addormentata, anziché sveglia e ricettiva, ma in realtà non aveva idea di che cosa si facessero a vicenda gli amanti. Lui insinuò ripetutamente il dito dentro di lei, che non poté far altro che imporsi di restare immobile senza gridare. Sentì il

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suo fiato sempre più affannoso, la mano muoversi sempre più veloce sul pene, e poi, quando lei stava per tendersi verso di lui per esortarlo a metterglielo dentro, Graham fece un verso soffocato e si arrestò di colpo. Dopo qualche secondo tornò a distendersi sul letto e di nuovo si addormentò profondamente. Mary rimase sveglia, turbata dalle sensazioni che lui le aveva suscitato, e ancora più interdetta dai suoi gesti. Il fatto che non l'avesse svegliata per fare quello che desiderava dimostrava una premura nei suoi confronti, oppure rappresentava una deviazione dal normale comportamento maschile? Probabilmente poi anche lei cedette al sonno perché a un certo punto si sentì scuotere. «Sveglia, Mary. E ora che tu vada!» Stava appena albeggiando - solo un debole bagliore rosato verso est -, quando attraversò il ponte, di nuovo in catene. Graham camminava davanti a lei e, raggiunta la prima delle due porte verso la stiva, si voltò indietro. «Non parlarne con nessuno» disse, con il viso irrigidito dalla tensione. «Nel caso chiedano spiegazioni della tua assenza, di' che sei stata chiusa a chiave sul ponte per punizione. La prossima volta, cercherò di procurarti un abito.» Se qualcuno la udì o la vide entrare, evitò di fare commenti. Mary si avvicinò al tavolato, spinse un poco Anne che le aveva occupato il posto, e si distese. Dopo la cuccetta morbida e calda di Graham, lè assi sembravano fredde e assai dure, però si accorse che l'odore nella stiva era molto migliorato, e se ne compiacque. Eppure le ultime parole di Graham l'avevano lasciata a disagio, perché evidentemente sapeva bene come reagivano le altre donne quando una del gruppo mancava per una notte. Avrebbero evitato di chiederle dov'era stata per limitarsi a ignorarla. Invece, al risveglio, si accorse con grande sorpresa che non c'era animosità nei suoi confronti. Di fatto era in qualche modo assurta al rango di eroina. «Ti hanno frustato?» chiese Anne, dopodiché tutte quante, perfino le ammalate, si alzarono per ringraziarla del coraggio dimostrato nel pretendere di vedere Graham.

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Soltanto Sarah le rivolse un'occhiata complice, e sorrise quando Mary raccontò di essere stata incatenata sul ponte fino all'alba. Le donne parevano meno apatiche ora che la cella era più pulita, e per tutto il giorno Mary non riuscì a parlare con Sarah perché le altre non facevano che complimentarsi, chiederle qualcosa, sottolineare che nessuna aveva mai osato tanto. Quella mattina anche la cella maschile fu sgomberata per essere pulita, e più tardi Mary fu oggetto anche delle lodi degli uomini. Will Bryant la chiamò dalla griglia. «Hai un bel fegato, ragazzina» le gridò. «Che Dio ti benedica.» «Ora devi sposarla» urlò James Martin, e Mary scoppiò a ridere, divertita dalle licenziose battute e anche dagli elogi nei suoi confronti. «Non ti costringerò a mantenere la promessa, Will Bryant» gridò lei. «So che sei solo un gran chiacchierone, e poi non ho il vestito da sposa qui con me.» Anche se lusingata da tanti complimenti, Mary si sentiva in colpa. Se Graham l'avesse chiamata di nuovo, non solo avrebbe perduto il rispetto degli altri, ma sarebbe stata anche odiata per averli ingannati. Quando fece buio, riuscì a salire sulla panca di Sarah per parlarle. «Sono stata con Graham» mormorò. «Cosa devo fare adesso?» «Se non fosse per te, morirebbero ancora in molte» sussurrò Sarah. «E poi, sarebbero tutte pronte a darla via se qualcuno di sopra la volesse, non preoccuparti. Piuttosto, com'è andata?» «Non troppo male.» Le sarebbe piaciuto raccontare la propria esperienza all'amica, ma non lo fece per lealtà nei confronti di Graham che, in fin dei conti, era stato gentile con lei. Quattro giorni più tardi Mary fu chiamata di nuovo dal primo tenente. Quel giorno era stata incaricata di pulire la cambusa da sola e, terminato il lurido lavoro, si vide comparire davanti Graham, che le ordinò di andare nella sua cabina. Era tardo pomeriggio

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e, non appena la porta si richiuse alle sue spalle, udì i detenuti maschi di ritorno dal lavoro a terra. Lui le tolse i ferri, e anche questa volta Mary vide che c'era una tinozza pronta. Graham però non si preoccupò di spogliarsi e la prese in fretta, prima ancora che fosse asciutta. Quando ebbe finito, le lanciò un abito grigio e una sottogonna. «Non puoi restare qui» le disse. «Si noterebbe. Mettiti questi e vattene.» «Posso avere qualcosa da mangiare?» chiese lei mentre indossava la sottogonna, molto lisa ma morbida e pulita. Anche l'abito era logoro, ma le stava a meraviglia in confronto a quello vecchio, che era a brandelli. «Pensavo che avresti rubato del cibo in cambusa» le disse Graham con un sorriso di superiorità. «I nostri accordi non erano che io rubassi quello che mi serviva» ribatté lei seccamente. Una delle guardie l'aveva tenuta d'occhio quasi di continuo mentre lavorava in cambusa e, con sua grande delusione, era riuscita a mettere le mani soltanto su un pezzo di formaggio. «Io la mia parte dell'accordo l'ho rispettata, quindi adesso tocca a te rispettare la tua.» Mentre lei indossava il vestito nuovo, Graham le diede le spalle per aprire una scatola di latta. «Molto bene» disse. «Però tieni la bocca chiusa. Se si viene a sapere, ti farò fustigare.» Le passò un polpettone freddo e una mela. Mary gli fece un inchino insolente. «Grazie, signore. Comunque non intendo vantarmene; non vado certo orgogliosa di essere caduta tanto in basso.» Mentre lui si chinava a serrarle le catene, Mary percepì che si era offeso. Avrebbe potuto aggiungere qualcosa di gentile, ma era troppo occupata a mangiare il polpettone. Le settimane e i mesi passarono lenti portando l'autunno e infine l'inverno, e con esso la prospettiva di morire di freddo. Con

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una sola coperta ciascuna, di notte le donne si tenevano ancora più strette per trovare un po' di calore. Tra le più anziane si registrarono parecchi decessi, ma ci furono nuovi arrivi. Si continuava a non sapere nulla della deportazione. Will Bryant era sulla Dunkirk da due anni, e spesso scherzava con Mary attraverso la griglia dicendo che i sette anni cui era stato condannato sarebbero finiti prima che salpassero le ancore. Per Mary l'evasione continuava a essere un'idea fissa: ora conosceva benissimo l'organizzazione dei ponti superiori, sapeva chi era di ronda alle varie ore del giorno, e quando c'erano meno guardie in servizio, ma per il momento non si era presentata alcuna occasione praticabile, malgrado lei fosse sempre all'erta. Non voleva assolutamente fare un tentativo sconsiderato, perché essere catturati significava prendersi almeno un centinaio di frustate. Così, come Will, aveva imparato a sopportare la detenzione concentrando le proprie energie sulla ricerca dei modi per alleviare l'infelicità e rimanere viva e sana. La buona salute, il lavoro sul ponte e le notti passate fuori le attirarono l'invidia di molte donne, ma lei ne conservava il rispetto perché dava voce alle loro richieste; inoltre faceva man bassa di tutto ciò che di utile le capitava a tiro - stracci per le mestruazioni, sapone e piccole quantità di cibo - per offrirlo a chi ne aveva più bisogno. Mary Haydon e Catherine Fryer, insieme ad Aggie nel ruolo della loro chiassosa portavoce, facevano del loro meglio per suscitare l'ostilità delle altre nei confronti di Mary, ma i soli difetti che le attribuivano erano la riservatezza e l'orgoglio. A lei non importava - non considerava un difetto l'orgoglio - e, quanto a essere riservata, sì, effettivamente lo era, nel senso che si faceva i fatti suoi e cercava di non lasciarsi coinvolgere in futili battibecchi. Nessuna, però, le diede mai della puttana, malgrado fosse ben consapevole di esserlo diventata, anche se si concedeva soltanto al primo tenente Graham. Dormiva nella sua cabina una o due volte la settimana. Lui le allungava qualcosa da mangiare, di tanto in tanto le dava abiti

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puliti, e le mostrava un certo affetto. Ciò nonostante Mary non riusciva proprio a capirlo. A volte pareva innamorato, altre volte sembrava disprezzarla. Era sposato con due figli, e parlava della moglie Alicia quasi con soggezione, eppure continuava a portarsi a letto lei e sembrava desiderare con tutto se stesso sentirle dire che lo amava. Talvolta le dava un certo piacere, ma più sovente faceva l'amore come la prima notte, in fretta e furia, senza alcuna emozione. Mary provava per lui soprattutto compassione, perché percepiva che era un uomo tormentato, privo di veri amici. Non mostrava un particolare attaccamento alla Marina, e infatti più volte le disse che avrebbe desiderato dare le dimissioni. Probabilmente era un codardo, e viveva nel costante terrore di essere assegnato a un posto pericoloso. Tuttavia gli piaceva l'autorità che gli derivava dal rango di ufficiale e sapeva che nella vita civile non c'era posto per lui. Mary sospettava che anche il matrimonio - a suo dire assai felice - durasse perché lui e la moglie passavano tanto tempo lontani. Il tenente Watkin Tench, che Graham criticava ogni qual volta gli si presentava l'occasione, le pareva un uomo assai più sereno. Tench era un altro problema, perché Mary sentiva di esserne innamorata. Probabilmente non l'avrebbe preso in considerazione se l'avesse conosciuto quando era libera, però ne era rimasta affascinata fin dalla prima sera che avevano parlato: non tanto per il suo aspetto, che non aveva niente di speciale, e neppure perché poteva contare su di lui per ottenere del cibo, ma perché si occupava degli altri, anche dei reclusi. Era capace di comandare senza brutalità, e inoltre possedeva il senso dell'umorismo. Mary amava in lui il sorriso spontaneo, un certo amore per la vita, la generosità di spirito e la mancanza di pregiudizi. Pur rinunciando alla speranza di diventarne l'amante, sapeva di poter fare affidamento sulla sua amicizia. Scoprì poi che era lui, non Graham, a metterla in lista per lavorare sul ponte. Le parlava sempre con gentilezza, e le mostrava comprensione quando lei gli rivolgeva una lamentela. Tench

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faceva quello che poteva, anche se in genere non aveva la possibilità di alleviare le tribolazioni dei reclusi, poiché le decisioni venivano assunte molto più in alto nella scala gerarchica. Era al corrente dell'intesa tra Mary e Graham, eppure non sembrava disprezzarla per questo. Intelligente e avventuroso, aveva già visto del mondo più di tutti quelli che lei conosceva. Gli piacevano l'ordine e la quiete, ma era anche coraggioso, leale e fedele verso il suo re e il suo paese. Mary era convinta che mai avrebbe mentito o si sarebbe lasciato corrompere, anche se si mostrava clemente verso chi lo faceva. Amava i libri, e le aveva raccontato che teneva con assiduità un diario, nella speranza di vederlo un giorno pubblicato. Mary si chiedeva spesso se parlava di lei nei suoi scritti, perché sentiva che le voleva bene. Una volta le aveva detto che annotava diffusamente le proprie opinioni sul sistema penale perché in futuro sarebbe stato un argomento interessante per gli storici. La vigilia di Natale, Mary fu chiamata sul ponte con Bessie per il bucato. Era una giornata di freddo pungente, e quella volta fu dispiaciuta di essere stata scelta. Stare china sopra la tinozza, con le braccia immerse fino alle ascelle nell'acqua gelida ed esposta alla furia degli elementi non era certo il massimo dei piaceri, e solo la possibilità di vedere Tench lo rendeva sopportabile. Fu anche peggio di quel che temeva. Mezzo svestite com'erano, sentivano il vento di mare penetrare come un coltello nella carne. Bessie cominciò a piangere poco dopo avere messo le mani nell'acqua fredda e, per quanto Mary cercasse di distrarla, non c'era modo di rallegrarla. Non lavarono i panni con la cura con cui li avevano lavati d'estate, e a mezzogiorno avevano finito; l'intero ponte era inghirlandato di camicie bagnate che sarebbero congelate sulle corde da bucato. Mentre tornavano verso la stiva, comparve Tench. «Vorrei scambiare una parola con Mary Broad» disse alla guardia. «L'accompagnerò io stesso tra qualche minuto.» Con grande sorpresa e gioia di Mary, lui la fece entrare nella

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sua cabina sul ponte e le offrì un tè. Lei strinse la tazza tra le mani per scaldarle. «Dio vi benedica» gli disse, colma di gratitudine. «Avevo così freddo che credevo di morire se fossi rimasta ancora un minuto.» «Non ti ho portato qui solo perché ti scaldassi. Ho una notizia per te. E stata fissata la data della deportazione.» «Quando, e dove?» chiese, nella speranza che avvenisse presto, e la destinazione fosse un luogo più caldo. «Siamo diretti verso il Nuovo Galles del Sud.» Mary lo fissò in silenzio per un attimo. In una precedente conversazione, lui le aveva raccontato ciò che sapeva di quel paese dall'altra parte del mondo. Il capitano Cook aveva riferito di un posto, da lui chiamato Botany Bay, che giudicava adatto per una colonia penale. Tuttavia, in occasione di quel colloquio, Tench si era detto dubbioso che il Nuovo Galles del Sud fosse la meta finale dei reclusi. «Siamo? Nel senso che verrete anche voi?» Sarebbe andata perfino all'inferno se si fosse trattato di andarci con Tench. Lui sorrise. «Sì, anch'io. Hanno bisogno della Marina per tenervi tutti sotto controllo, e la prospettiva mi esalta. È un paese nuovo, che sono ben contento di visitare. All'Inghilterra serve una presenza in quella parte del mondo, e questo paese, se è come dicono, potrebbe diventare assai importante per noi.» Il suo entusiasmo riscaldò Mary più di una tazza di tè caldo e finì per contagiarla. Tench raccontò che stava per essere inviata laggiù una flotta di undici navi cariche di reclusi che avrebbero dovuto costruire città e coltivare i campi, e avrebbero ricevuto in dono del terreno non appena finito di scontare la condanna. Lei aveva sempre desiderato visitare nuovi posti, e un lungo viaggio per mare non la scoraggiava; inoltre, se erano le prime persone a sbarcare a Botany Bay, forse si potevano aprire delle buone opportunità per gente sveglia come lei. «Giura di non dirlo alle altre» le disse severamente. «Te ne ho parlato soltanto nella speranza di rallegrarti. Ti guardavo, poco fa, al freddo, e mi hai toccato il cuore.»

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Proseguì a raccontarle che gli abitanti di Botany Bay avevano la pelle nera, che il governo credeva che ci fossero lino e legname, che il clima era buono, molto più caldo che in Inghilterra. Disse che il capitano Cook aveva riferito di animali e uccelli assai strani, tra cui una grande bestia pelosa che saltellava sulle lunghe zampe posteriori, e un gigantesco uccello incapace di volare. Ma per quanto fosse interessata a sapere di più del nuovo paese, furono le parole di Tench - “mi hai toccato il cuore” - a riecheggiarle nella mente. «Quando partiamo?» riuscì soltanto a chiedere. Tench sospirò. «Abbiamo l'ordine di portarvi alle navi il 7 gennaio, ma sospetto che passerà del tempo prima di salpare. Il capitano Phillip, che è al comando delle operazioni, non ha ancora deciso quali provviste di cibo e di altro genere bisogna portare.» «Sarò sulla vostra stessa nave?» Lui la fissò con i penetranti occhi scuri. «Lo vorresti?» «Sì» rispose lei senza esitazione. Non vedeva il motivo di fare la ritrosa. «Credo di poterlo ottenere.» Sorrise. «Ora, non farne parola con nessuno, soprattutto con il primo tenente Graham.» «Viene anche lui?» Tench scosse la testa. «No. Ti rattrista?» Mary sorrise. «Per niente. Non mi pare un tipo avventuroso.» Lui si mise a ridere, e Mary si chiese se significava che Graham si fosse in realtà rifiutato di partire. «No, non lo si può certo definire avventuroso, Mary, mentre tu e io lo siamo; e forse vedremo cose che non abbiamo mai sognato.» ***

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Capitolo 4. I reclusi non furono informati della loro imminente deportazione fino al mattino del 7 gennaio, giorno in cui dovevano essere tradotti sulla Charlotte. Da quando Tench glielo aveva comunicato, Mary era entrata in uno stato di agitazione, aggravato dal fatto di non poterlo confidare a nessuno. Se un momento si abbracciava da sola per la gioia di poter finalmente contare i giorni che le restavano sulla Dunkirk, quello successivo pensava con terrore che forse l'aspettavano periodi ancora peggiori durante il viaggio in mare e una volta raggiunta la destinazione finale. Tuttavia il tempo passava senza che arrivasse alcuna notizia ufficiale, e lei cominciò a temere che Tench si fosse sbagliato. Non poteva neppure chiederlo a Graham, perché questi si sarebbe senz'altro adirato con Tench per averla informata. Il primo tenente Graham si comportava comunque in modo molto strano. Sempre più spesso passava dalla tenerezza all'aggressività, e ciò le parve confermare che la partenza era imminente. «Non sei altro che una puttana» le disse invelenito una notte. «Forse credi di essere diversa dalle altre nella stiva, e invece no, sei una maledetta puttana come loro.» Tuttavia, in un'altra occasione, mentre Mary si rivestiva per scendere nella cella, lui cadde in ginocchio e le si avvinghiò nascondendo il viso nel suo seno. «Oh, Mary!» esclamò affannato. «Avrei dovuto fare di più per te, non usarti come ho fatto.»

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La notte di Natale era molto ubriaco e le disse che l'amava. Quella volta fu delicato e tenero nel fare l'amore; le baciò le cicatrici lasciate dai ferri sulle caviglie e con le lacrime agli occhi la implorò di perdonarlo per i suoi momenti di crudeltà. «Non c'è niente da perdonare» disse lei. I suoi insulti non l'avevano offesa, tanto meno se raffrontati ai molti gesti di generosità ricevuti da lui. «Allora, dimmi che mi ami» la supplicò. «Fammi credere che non sei venuta con me solo per ottenere cibo e vesti pulite.» «Infatti è così» mentì Mary, dispiaciuta che lui non riuscisse ad accettare i termini del loro accordo. «Ma tu non sei libero di amarmi, Spencer; quindi - ti prego - non darmi false speranze dicendo cose del genere.» Non lo amava, forse non le piaceva neppure, però quella notte lui l'aveva commossa, le aveva toccato qualche corda nell'intimo. La mattina seguente, mentre rientrava nella stiva con un nuovo abito grigio, si chiese se sarebbe stato diverso se si fossero conosciuti in altre circostanze. La sera del 6 gennaio, Graham la chiamò di nuovo, e lei credette che volesse annunciarle il trasferimento del giorno successivo. Lui invece non sfiorò neppure l'argomento, né le rivolse parole affettuose, altre scuse o auguri per il futuro. La prese in modo sbrigativo, poi le ingiunse bruscamente di tornare nella stiva. Se non l'avesse conosciuto bene, Mary avrebbe pensato che non fosse al corrente della sorte che la attendeva. Non era ancora l'alba quando le guardie aprirono il portello della stiva e lessero ad alta voce i nomi di chi doveva salire sul ponte. Quell'ordine brusco non sorprese Mary, che però si allarmò nell'udire chiamare solo venti donne, alcune delle quali vecchie o malate. Fu più che prevedibile la reazione delle recluse convocate sul ponte in un turbine di nevischio. Sospettose, confuse e sbigottite, si stringevano nelle vesti stracciate accostandosi l'una all'altra per scaldarsi. Mary dovette comportarsi come le compagne, perché sarebbe finita nei pasticci se lasciava trapelare di essere

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a conoscenza della loro destinazione. Tuttavia, mentre attendeva tremante sul ponte, si rallegrò che avessero chiamato Sarah e Bessie, e non la sua vecchia rivale Aggie. Anche Mary Haydon e Catherine Fryer erano nell'elenco, e in proposito Mary provò sentimenti contrastanti: benché di tanto in tanto fingessero di esserle amiche, lei avvertiva che aspettavano soltanto di vederla cadere in disgrazia. In mezzo a quaranta donne era riuscita a mantenere le distanze da loro, ma a quel punto, rimaste in venti, sarebbe stato più difficile. Furono chiamati anche trenta uomini, sei dei quali tanto malati e gracili che non si capiva come potessero reggersi in piedi, figurarsi sopravvivere a un lungo viaggio. Mary fu felice di scorgere nel gruppo Will Bryant e Jamie Cox, ma delusa dell'assenza di James Martin e Samuel Bird. Aveva imparato ad apprezzarli tutti e quattro chiacchierando attraverso la griglia: Will e James la facevano ridere, e Jamie era diventato come un fratello minore. Il suo reato era stato quello di rubare pizzo per un valore di cinque scellini, e adesso si preoccupava di come sua madre, vedova, potesse farcela senza il suo aiuto. Per Mary fu un sollievo che una persona tanto mite e gentile rimanesse sotto l'ala protettiva di Will. Si augurò che James e Samuel, una volta separati dai loro amici, si prendessero cura l'uno dell'altro. La notizia del trasferimento immediato sulla Charlotte fu comunicata da un uomo che Mary non aveva mai visto. Era in abiti civili, con un pesante mantello e un cappello a tre punte orlato da una treccia dorata, e pareva piuttosto a disagio nel rivolgersi a criminali. Il suo nervosismo dipendeva forse dal fatto che si aspettava reazioni di rabbia al suo annuncio, e in effetti così accadde: si sollevarono grida indignate perché molti reclusi avevano già scontato metà della pena e ora temevano di non rivedere mai più mariti, mogli o figli. Come sempre le proteste furono ignorate, e le guardie si avvicinarono minacciose. Solo Mary osò porre una domanda ad alta voce. «Signore, ci daranno vestiti per il viaggio? Alcune di noi non

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hanno altro che stracci addosso, e temo che muoiano di freddo prima di arrivare in climi più caldi.» L'uomo abbassò gli occhiali e la fissò al di sopra delle lenti. «Come ti chiami?» «Mary Broad, signore» rispose in tono deciso. «In più, ci sono donne malate. Ci sarà un dottore a visitarle prima della partenza?» «Sarete tutti controllati» rispose lui senza alcuna convinzione. Alla domanda sugli abiti evitò di rispondere. Era già sera quando i reclusi furono traghettati dalla Dunkirk alla Charlotte nella baia di Plymouth. L'unica reazione di Mary nel vedere la nave fu di sorpresa: era solo un piccolo brigantino a tre alberi di un centinaio di piedi. Era peraltro di aspetto robusto; poiché moriva dal freddo, non riuscì a notare nient'altro. La convinzione che avrebbero issato le vele nel giro di qualche giorno si rivelò ben presto infondata. Sembrava che il resto della flotta non fosse ancora pronto, e inoltre c'era un problema riguardo alla paga dei marinai. Sulla Charlotte le condizioni erano migliori che sulla Dunkirk: razioni più abbondanti, e anche più spazio perché alle venti donne non se ne erano aggiunte altre. Gli uomini non furono altrettanto fortunati; con l'arrivo di altri reclusi da tutta l'Inghilterra finirono per essere ottanta. Mentre la Charlotte era ancorata nella baia di Plymouth, furono chiusi i boccaporti a causa del maltempo, e nelle stive molte donne patirono immediatamente il mal di mare. In pochi giorni la situazione divenne pessima, quasi come sulla Dunkirk. Le settimane passavano senza alcuna novità sulla partenza. Le donne venivano tenute in catene e al buio per la maggior parte della giornata sulla nave sballottata dalle onde, e l'ottimismo iniziale fu presto sostituito dalla disperazione. In molte si rintanarono nelle cuccette per cercare sollievo nel sonno, e quelle che non riuscivano a dormire bisticciavano tra loro. In alcuni momenti Mary rimpiangeva di non essere sulla Dunkirk.

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Le mancavano disperatamente le conversazioni con Tench e i reclusi di sesso maschile, persino gli incontri con Graham. Tench era in licenza, e le donne, nelle rare occasioni in cui avevano il permesso di salire sul ponte, venivano ignorate dai pochi fanti e marinai a bordo. Per Mary le brevi permanenze in coperta costituivano un tormento. Se da un lato apprezzava moltissimo l'aria pura e salmastra e la possibilità di camminare eretta, dall'altro trovava assai dolorosa la vista della Cornovaglia all'orizzonte. Peggio ancora, però, era dover rientrare nella fetida stiva senza sapere quando sarebbe potuta uscire di nuovo. Distesa tremante in cuccetta, si ritrovava a rievocare particolari del tutto irrilevanti della sua vita in famiglia: lei e Dolly intente a pettinarsi a vicenda, ridendo per l'elettricità che si formava nei capelli; il padre, al di là della finestra, chino a spaccare legna per il fuoco, mentre si lamentava ad alta voce di non avere avuto figli maschi a risparmiargli quella fatica; la madre tesa a sforzare gli occhi nel tentativo, di infilare l'ago a lume di candela. Lei non cuciva né rammendava mai di giorno, quando la luce era buona, perché trovava peccaminoso sprecare le ore diurne in lavori che amava. In gran parte i suoi ricordi erano colmi di tenerezza, ma di tanto in tanto ne affiorava anche uno amaro, come quello della madre che picchiava lei e Dolly perché si erano bagnate nude in mare. Mary non aveva compreso la sua collera; le era parsa ingiustificata. Dopotutto era una giornata molto calda, e se loro avessero sciupato i vestiti con l'acqua salata sarebbe stato molto peggio. Naturalmente l'idea non fu di Dolly, che non sapeva nuotare e si sarebbe limitata a camminare sulla battigia, ma di Mary, che riuscì a convincerla. Si rivide insieme alla sorella. Era domenica pomeriggio - il giorno libero di Dolly, che aveva sedici anni e lavorava come domestica - e avevano deciso di fare una passeggiata a Menabilly. Indossavano entrambe i nuovi vestiti rosa che la madre aveva impiegato settimane a confezionare con la seta portata da un viaggio

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oltremare dallo zio, Peter Broad, un navigante che - si diceva in famiglia - stava facendo un sacco di soldi. Dolly andava molto fiera dell'abito nuovo; adorava il rosa, e il modello con il vitino stretto e il piccolo sbuffo sul dietro era molto alla moda. Mary non impazziva per il rosa e neppure le piaceva essere vestita identica alla sorella. Già tollerava con difficoltà che Dolly, con la sua eleganza naturale, apparisse perfetta con qualsiasi cosa indosso; i suoi difetti risaltavano ancora di più quando erano vestite uguali. Si somigliavano molto perché avevano gli stessi capelli neri e riccioluti, ma Dolly era molto più graziosa con il suo vitino di vespa, il portamento aggraziato e i grandi occhi azzurri che incantavano tutti. Vicino a lei, Mary si sentiva goffa e ordinaria. Arrivarono in spiaggia molto accaldate e Dolly fu delusa perché non c'era nessuno ad ammirarla nel suo vestito nuovo della festa. «Abbiamo fatto una sciocchezza a venire qui» disse irritata. «Adesso ci tocca tornare indietro con questo caldo.» «Allora rinfreschiamoci in mare» propose Mary. Naturalmente Dolly era preoccupata per il vestito. Con qualche insistenza la sorella la convinse a superare la spiaggia e attraversare il bosco, per sbucare di nuovo sulla riva, togliersi il vestito e sguazzare nell'acqua. Una cosa tirò l'altra, e infatti, giunte in un punto dove nessuno poteva vederle, Dolly decise che non era il caso di bagnare la camiciola e la sottoveste, visto che Mary l'avrebbe sicuramente spruzzata e, forse per quell'unica volta, volle essere audace come la sorella minore; così, quando Mary si spogliò completamente e si immerse nell'acqua, lei non esitò a imitarla. Non si erano mai divertite tanto. Mary cercò di insegnarle a nuotare reggendola sotto la pancia, ma poiché Dolly non riusciva a stare a galla da sola, dovette trainarla nell'acqua. Erano tanto prese dal gioco che dimenticarono di accertarsi che nessuno le stesse osservando. Si rivestirono e tornarono a casa ridacchiando per tutto il tragitto,

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e Dolly raccontò storie buffe sulle altre cameriere della casa in cui serviva. Erano quasi arrivate quando videro la madre davanti alla porta e, malgrado la distanza, capirono dalla bocca tirata come una linea retta e dalle braccia incrociate sul petto che era molto arrabbiata. «Voi, sgualdrinelle, entrate immediatamente» gridò avvicinai dosi. «Voglio una spiegazione.» A quanto pareva un pescatore, che dalla barca aveva adocchiato le ragazze intente a sollazzarsi in mare, l'aveva raccontato a qualcun altro, che a sua volta si era affrettato a riferirlo alla loro madre. «Vergogna» continuava a ripetere spintonandole su per le scale. Ordinò alle figlie di spogliarsi, poi le picchiò con una verga su natiche e schiena finché Dolly cominciò a sanguinare. Quindi spedì Mary a letto senza cena, e Dolly a casa dei padroni. Mary pensò che la madre fosse una crudele guastafeste. Non riusciva a capire che male ci fosse a nuotare nudi, e continuò a incolparla perché Dolly non volle più andare con lei da nessuna parte. Il ricordo di quel giorno la fece sospirare. Quanto era ingenua allora; non si accorgeva che le stava sbocciando il seno, e ancora meno che sua sorella fosse tanto desiderabile. Di certo non immaginava che sua madre avesse paura di quello che poteva accadere alle figlie se fossero state sorprese da un paio di marinai. Ora invece lo sapeva; capiva che bestie potevano essere gli uomini. Le sembrò che le fosse successo tutto ciò su cui la madre aveva cercato di metterla in guardia, anche l'assenza delle mestruazioni. La madre era sempre stata vaga rispetto a quello che avveniva tra uomo e donna, ma le aveva avvertite di stare molto attente a “non farsi mettere nei guai”, spiegando che il mancato arrivo delle mestruazioni significava che una ragazza avrebbe avuto un bambino. Mary cercò di convincersi che non poteva essere così, che forse era solo un effetto dell'ansia provocata dall'attesa della partenza,

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ma a marzo fu costretta ad affrontare la possibilità di essere incinta del figlio di Graham. Per questo consultò Sarah. «Secondo me lo sei» commentò l'amica guardandola pensosa. «Poveretta, se capitasse a me, mi butterei giù dalla nave con le catene. Ho sentito che se una donna ha la pancia non la impiccano, però non ho mai sentito che qualcuna abbia evitato la deportazione per lo stesso motivo.» Mary, che si era aspettata che Sarah fugasse le sue paure, si sentì mancare. «Be', se proprio devo avere un figlio, meglio qui che sulla Dunkirk» replicò con aria di sfida. Aveva assistito al parto di Lucy Perkins, e l'orrore di quella scena non l'aveva più lasciata. A Lucy non erano state tolte le catene e dopo circa ventiquattr'ore di travaglio aveva dato alla luce un bambino morto. Lei stessa morì alcuni giorni dopo. Non fu chiamato nessun medico, e fu assistita soltanto dalle altre donne, tra cui Sarah. «Tu mi aiuterai, vero?» «Certo» la rassicurò l'amica, forse ricordando anche lei quel parto. «Sei sana e forte, e andrà tutto bene.» Mary non chiuse occhio quella notte, preoccupata non tanto del parto, quanto di ciò che avrebbe pensato di lei Tench, una volta scoperte le sue condizioni. Finalmente, all'inizio di maggio, subito dopo il ventunesimo compleanno di Mary, si seppe che la nave sarebbe salpata domenica 13 per unirsi al resto della flotta. Sarebbero state undici navi in tutto, di cui quattro con circa seicento reclusi e un'intera compagnia di fanti della Marina, alcuni dei quali con moglie e figli al seguito, e le altre con viveri e beni di prima necessità per i due anni iniziali. Durante la lunga attesa, quasi tutti i reclusi avevano scritto a casa o, se non erano in grado di farlo, avevano chiesto aiuto ad altri. Un giorno di aprile, quando Mary insieme alle compagne aveva avuto il permesso di salire sul ponte per sgranchirsi

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le gambe, Tench si era offerto di scrivere ai suoi, ma lei aveva rifiutato. «Non voglio che sappiano dove finisco» disse, guardando con tristezza la Cornovaglia oltre il mare increspato. Da qualche giorno era apparsa improvvisamente sulla terra una verde bruma primaverile, e lei pensava con nostalgia alle primule sulle rive erbose, agli uccelli che nidificavano, agli agnellini appena nati nella brughiera. Le sembrava impossibile essere strappata da quella terra che amava tanto. «Meglio se credono che non mi importi di loro, piuttosto che immaginarmi in catene.» Tench abbassò lo sguardo sulle catene e sospirò. «Forse hai ragione, però io credo che mia madre preferirebbe sapere che sono vivo e penso a lei, anche se recluso su una nave.» Queste parole resero Mary ancora più triste. Nel giro di poco tempo il suo ventre si sarebbe gonfiato, dando a vedere che aspettava un bambino; allora, con ogni probabilità, lui non le avrebbe più rivolto la parola. Era riuscita ad accettare l'idea di non vedere più i suoi, ma le risultava insopportabile il pensiero di essere respinta da Tench. Quando finalmente la Charlotte salpò l'ancora per scivolare fuori dalla baia di Plymouth, molte donne piansero nel salutare per sempre l'Inghilterra. «Ritornerò» disse Mary con fermezza. «Lo giuro.» Una volta partita la nave, molte recluse si lamentarono ancora più del solito per il mal di mare, le vele che sbattevano, le ecchimosi e i tagli riportati nelle cadute a causa del forte rollio. Mary invece si sentiva eccitata. Il vento che soffiava nelle vele era musica per le sue orecchie, e la incantava osservare la prua fendere l'acqua limpida. Il capitano della nave, un ufficiale della Royal Navy di nome Gilbert, era un uomo comprensivo e ordinò di togliere le catene ai reclusi; sarebbero state rimesse solo come punizione per cattiva

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condotta, o quando si entrava in un porto. Inoltre, mentre la nave veleggiava lungo la costa francese, il tempo migliorò, i boccaporti furono riaperti, e il fetore nelle stive poco alla volta svanì. Mary aveva sempre amato navigare, ma era stata soltanto a bordo di pescherecci e per poche ore al giorno. Su una grande nave era molto diverso, perché ci si poteva muovere e persino trovare un nascondiglio tranquillo tra rotoli di gomene o in un ripostiglio per isolarsi da tutti. D'improvviso capì perché suo padre pregustava sempre con impazienza il viaggio successivo. Era emozionante sentire il rollio dello scafo sotto i piedi, e destava meraviglia il vento imbrigliato nelle vele che spingeva avanti la nave, come pure il modo in cui tutti - dall'ultimo marinaio fino al capitano - collaboravano per mantenere la velocità e la rotta. La Charlotte era una delle unità più lente della flotta, e gli uomini dovevano impegnarsi a fondo per non rimanere indietro. Eppure, mantenere la posizione era una sfida, e ogni volta che riuscivano a superare la Scarborough o la Lady Penrhyn, Mary leggeva orgoglio sui loro volti. Ciò che più apprezzava era però la libertà di trascorrere lunghe ore sul ponte. Se stava all'aria aperta gran parte del giorno, la notte, avvolta in una coperta tra Bessie e Sarah, riusciva a sopportare la stiva. Sul ponte non era costretta ad ascoltare le lamentele e i bisticci delle altre; il vento nei capelli e il sole sul viso le facevano dimenticare la sporcizia e il lezzo della cella. La paura del futuro si dissolveva come una foglia spazzata dal vento. Si sentiva libera come gli uccelli marini che seguivano la scia della nave. I rumori sul ponte risuonavano forti quasi come quelli sottocoperta: il ruggito del mare, le grida dei marinai, lo sfregamento delle cime tese e il cigolio delle vele. Tutti rumori gradevoli però, e il vento e gli spruzzi di mare erano tanto puliti e puri da inebriarla. Gioiva del fatto che la maggior parte delle donne trovasse il mare inquietante e il vento troppo freddo per trattenersi a lungo all'aperto. Sola, con la mano stretta alla battagliola, fingeva di

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essere un'ereditiera in rotta verso la Spagna o addirittura l'America. Diceva a se stessa che stava facendo proprio quello che aveva sempre desiderato: un viaggio per il vasto mondo. Scoprì che, una volta in mare, i membri dell'equipaggio erano molto simili agli uomini di Fowey: creature forti, instancabili e amichevoli, sempre pronte al sorriso. Qualche volta approfittava dell'assenza delle altre per scambiare due chiacchiere con loro e informarsi sulla rotta per Botany Bay. Alcuni, ben felici di raccontare dei porti in cui erano stati in viaggi precedenti, le spiegarono che, per sfruttare gli alisei, si doveva attraversare l'Atlantico in direzione di Rio, anziché costeggiare l'Africa. Mary si domandò quanti di loro fossero stati costretti ad arruolarsi in Marina, perché si mostravano solidali verso i reclusi e pieni di risentimento verso la maggior parte dei fanti, che non avevano quasi niente da fare durante la traversata. Molti dei fanti avevano portato con sé la famiglia. Le donne passeggiavano sul ponte con aria spaventata e Mary era dispiaciuta per loro, benché fossero troppo altezzose per rivolgerle un sorriso. Erano prigioniere anch'esse, ma mentre lei sapeva che i deportati erano per la maggior parte innocui, loro probabilmente li ritenevano solo criminali in attesa dell'occasione buona per prendere possesso della nave e uccidere tutti. Mary era felice di incontrare di rado Tench, perché sentiva che il suo corpo stava cambiando, anche se nessuno poteva ancora accorgersene. I seni erano più pieni e il ventre più tondo. Era costernata che la storia con Graham l'avesse messa in quella difficile situazione, del tutto imprevista, ma cominciava a rassegnarsi. In parte riusciva ad accettarlo perché era stata educata a considerare ogni bambino un dono del Signore, e pertanto doveva accogliere il suo senza riserve. Se da un lato nutriva qualche timore rispetto al parto e alla propria capacità di essere una buona madre, dall'altro si sentiva stranamente rinfrancata alla prospettiva di avere qualcuno tutto suo di cui prendersi cura. Con il tempo buono trovava sempre un posto riparato sul ponte per sedersi a fantasticare sul suo bambino. Sperava fosse

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un maschio, e lo immaginava un po' come Luke, il figlio di uno dei fanti. Luke aveva sette anni: era un bambino robusto con i capelli bruni e gli occhi azzurri, che le sorrideva quando la madre non guardava. A Mary piaceva osservarlo mentre cercava di aiutare i marinai, chiaramente entusiasta di navigare come lo era stata lei da bambina. Quando la nave costeggiò la Francia in direzione della Spagna e il clima si fece più mite, la madre di Luke prese l'abitudine di sedere con lui in coperta per insegnargli a leggere e scrivere. Mary allora rimpianse di non avere tali capacità da trasmettere al proprio figlio. Fu la paura per la salute del suo bambino che infine la costrinse ad andare dal dottor White, il medico di bordo. Suo padre le aveva sempre detto che i medici di bordo erano dei macellai o degli ubriaconi, ma lei non aveva mai visto White sbronzo. Neppure il suo viso gioviale e i modi delicati con cui l'aveva visitata prima della partenza sembravano quelli di un macellaio. Non aveva rivelato le sue condizioni ad altri che a Sarah, ed era sicura che nessuno, tanto meno Tench, avesse intuito ma, per quanto la imbarazzasse parlarne con il medico, pensò di dover affrontare la situazione. «Credo di essere incinta» sbottò, dopo avergli chiesto se poteva darle qualcosa per un taglio su un piede che non si rimarginava. Lui sollevò un sopracciglio grigio e cespuglioso e, dopo averle posto qualche domanda, la fece distendere per palparle il ventre. «Andrà tutto bene?» chiese Mary, visto che il medico non faceva commenti. «Certamente. Un parto in mezzo al mare non è diverso da tutti gli altri» rispose lui un po' brusco. «Dovrebbe essere per i primi di settembre, e per allora saremo in un posto più caldo e gradevole. Sei sana e forte, Mary, e non avrai problemi.» Mary si rese conto che con ogni probabilità aveva concepito a Natale, la notte in cui Spencer Graham era stato particolarmente affettuoso. Come se le avesse letto nel pensiero, il medico la trapassò con

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gli occhi scuri e penetranti. «Chi è il padre? Devi dirlo, Mary, perché deve assumersi le sue responsabilità. Se è un altro detenuto, può sposarti, e se è un fante, gli faremo riconoscere il bambino.» Per Mary fu sorprendente che a qualcuno importasse sapere chi l'aveva messa incinta, e ancora di più che intendesse inchiodare il responsabile ai suoi doveri, però non se la sentì di fare il nome di Graham. Senza di lui non sarebbe sopravvissuta sulla Dunkirk, e inoltre la moglie e i figli non meritavano il dolore di scoprire la sua infedeltà. «Mary, come si chiama?» insistette White. «Non so chi è il padre» rispose lei incrociando le braccia in gesto di sfida. «Non ci credo» ribatté lui in tono di disapprovazione. «Potrei crederlo di altre donne, ma non di te. Quindi dimmelo, e lascia che me ne occupi io.» «No» ribatté lei, ostinata. White fece schioccare la lingua. «La tua lealtà è ammirevole ma fuori luogo, Mary. Vuoi che tuo figlio abbia scritto “bastardo” sul certificato di nascita?» «Non è peggio che avere una deportata per madre.» White scosse la testa, poi la congedò raccomandandosi di pensarci su e tornare da lui in caso avesse cambiato idea. Il giorno successivo incapparono in una burrasca; ancora una volta i boccaporti furono chiusi e Mary fu costretta a rimanere nella stiva. Dopo il senso di libertà provato sul ponte era orribile essere nuovamente intrappolata al buio insieme alle altre, quasi tutte in preda a conati di vomito. La nave rollava e beccheggiava, i buglioli si rovesciavano mentre la gelida acqua di mare irrompeva nella stiva inzuppandole tutte. A Mary non rimase che stringersi ancora di più nella coperta, tapparsi il naso per non sentire il fetore e pregare che la burrasca finisse presto. Impiegarono tre settimane per arrivare a Santa Cruz di Tenerife, il primo scalo della nave. Da un paio di marinai del Devonshire con cui aveva una certa confidenza Mary apprese che prima ancora della partenza i deportati maschi di una delle altre navi

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avevano sfondato le paratie per raggiungere le femmine. Le dissero anche che le donne provenienti dalle carceri di Londra erano criminali incallite, spietate, sempre in lite tra loro, pronte a vendersi per un bicchierino di rum. Mary si spaventò perché aveva immaginato i deportati delle altre navi non dissimili da quelli della Charlotte: alcuni erano piuttosto malvagi, è vero, gente che senza pensarci due volte avrebbe derubato un cadavere, però almeno lei sapeva da chi guardarsi, e si sentiva sicura perché sulla sua nave il capitano Gilbert non avrebbe mai permesso che i deportati di sesso maschile rappresentassero una minaccia per le donne. Malgrado l'atteggiamento comprensivo, Gilbert era molto severo. Nelle rare occasioni in cui si trovavano sul ponte contemporaneamente alle donne, gli uomini venivano guardati a vista dai fanti per evitare anche la minima scorrettezza. E la minaccia di essere messi di nuovo in catene o sottoposti a fustigazione dissuadeva tutti dal correre rischi. Eppure, come già sulla Dunkirk, si intrecciavano relazioni illecite, non con gli ufficiali, ma con fanti e marinai. Mary Haydon e Catherine Fryer erano tra le più trasgressive, pronte ad andare con chiunque. Mary e Sarah non avevano scelto quella strada; tra grandi risate si dicevano che, se non era possibile avere un ufficiale, allora non volevano nessuno. La verità era che non si doveva più lottare per la sopravvivenza. Finalmente c'era da mangiare a sufficienza e acqua per lavarsi, e dopo una giornata al sole sul ponte era meglio passare la notte nella stiva piuttosto che essere umiliate e bistrattate da marinai gonfi di rum. L'unico deportato maschio che Mary vedeva spesso era Will Bryant e di tanto in tanto, insieme a lui, anche Jamie Cox. Agli altri uomini non era permesso trattenersi a lungo sul ponte, forse perché erano più numerosi dei membri dell'equipaggio, o perché il capitano Gilbert riteneva che le recluse e le famiglie dei fanti avessero più bisogno di loro di aria pura; comunque Will godeva di un trattamento privilegiato. Pare fosse riuscito a ottenere il permesso di pescare per integrare le razioni

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di bordo, così trascorreva buona parte della giornata sul ponte. Mary ammirava la sua intraprendenza e pensava di avere molto in comune con lui. Quando la nave attraccò a Santa Cruz per caricare acqua dolce e altre provviste, l'equipaggio ebbe il permesso di scendere a terra, e così i deportati furono ancora una volta incatenati e i portelli vennero chiusi. Nel caldo soffocante di giugno era intollerabile dover stare sdraiati al buio grondanti di sudore, dopo la relativa libertà di cui avevano goduto nei giorni precedenti. Per Mary era ancora più insopportabile: con il ventre sempre più grosso le era impossibile trovare una posizione comoda sul duro tavolato, e la mancanza d'aria le procurava la nausea. Non appena salparono nuovamente, diretti a Rio in Sudamerica, le catene vennero tolte e si poté ritornare sul ponte. Un pomeriggio, mentre se ne stava appisolata al sole, Mary udì Will Bryant imprecare perché gli si era strappata la rete da pesca. Si alzò, lo raggiunse a poppa, e si offrì di riparargliela. Durante il viaggio, con il corpo rimpolpato dalle razioni più abbondanti, Will era diventato ancora più attraente. Aveva un'abbronzatura dorata, occhi azzurri come il cielo, barba e capelli biondi schiariti dal sole. Sfoggiava anche un sorriso insolente e una bella faccia tosta. «Sei capace di riparare una rete?» chiese con aria sorpresa. Lei rise. «Qualsiasi ragazza di Fowey sa farlo, non credi?» Nessuno ordinò loro di separarsi, e Mary lo attribuì al fatto che lei era impegnata in un lavoro utile con la rete. Passarono tutto il pomeriggio a chiacchierare, soprattutto della Cornovaglia. «Hai un bell'aspetto florido» disse Will a un tratto. «Quando nasce il bambino?» Mary provò un improvviso disagio. Non si era resa conto che oltre al dottor White e Sarah lo sapessero tutti. Se lo aveva capito Will, forse lo sapeva anche Tench! «A settembre» sussurrò arrossendo fino alla radice dei capelli. «Come l'hai capito?» «Ho gli occhi» rispose lui con una risata. «Non è una cosa che

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si può nascondere per sempre, non quando il vento ti fa aderire la veste addosso.» Mary avvertì un briciolo di nausea. «Si sa in giro?» Will alzò le spalle. «Boh. Perché? Ti preoccupa?» «Un po'» ammise. «Non voglio che mi si giudichi male, e non ne so molto di neonati.» «Non badare a quello che pensano gli altri» fece lui con un sorriso. «Un sacco di donne partoriranno prima che arriviamo. Quanto al fatto che non sai molto di bambini, credo che poi tutto ti verrà naturale. Le altre donne aiuteranno anche te, quindi non agitarti.» Mary fu colpita dalla sensibilità di quello che aveva sempre considerato un tipo cinico. Poco dopo, lui le disse di avere sentito che a Tenerife un deportato a bordo della Alexander - una delle altre navi della flotta - si era nascosto sul ponte per poi calarsi in mare con il buio e rubare una barca a remi legata a poppa. «Quel dannatissimo idiota però si è tradito: ha avvicinato una nave olandese e ha chiesto di essere preso a bordo.» Will rise. «Io sarei andato dritto in città per nascondermi fino alla partenza della flotta.» «Sulla Dunkirk non facevo che pensare alla fuga» confessò Mary. «Adesso è assurdo, almeno in questo stato, ma appena nasce il bambino, mi guardo intorno in cerca di un'occasione.» «Io prima voglio vedere com'è Botany Bay» fece Will. «Se si può pescare, costruirsi una casa decente e coltivare un po' di verdura, potrebbe non essere tanto male.» «Ma non sappiamo come sono i deportati delle altre navi» fece notare Mary. «Qui, veniamo tutti dal Devon e dalla Cornovaglia. Tra noi non ci sono veri criminali. Invece ho sentito che quelle della Friendship sono delle donnacce, quasi tutte di Londra. Devono tenerle incatenate perché scoppiano sempre delle risse. Quando saremo a Botany Bay, ci toccherà fare i conti con loro.» «Secondo me tu sai trattare con gente di tutti i tipi. E anch'io. Ce la caveremo.»

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Fu solo qualche giorno dopo, sul ponte, che Tench parlò a Mary. Le chiese se le piaceva il viaggio e spiegò che non aveva molte opportunità di stare in coperta a causa dei molti incarichi da svolgere altrove. La guardò negli occhi. «Ti senti bene? Il medico mi ha detto che aspetti un bambino.» Mary riuscì solo ad annuire. Se in qualche modo si sentiva sollevata che la cosa fosse venuta fuori, temeva che Tench le avrebbe posto mille domande, come già White. «Io non giudico gli altri» fece lui con dolcezza, come se le avesse letto nel pensiero. «Mi preoccupo solo per te. Sei fortunata che White sia a bordo di questa nave, perché è un bravo medico. Hai abbastanza da mangiare?» Mary annuì di nuovo, troppo a disagio per parlare. «Se hai bisogno di qualcosa, vieni da me» continuò lui dandole un colpetto sulla spalla. «A Rio cercherò di procurarti della frutta. Lo scorbuto è un pericolo concreto in viaggi lunghi come questo, ma il capitano Gilbert sa cos'è necessario alla gente più della maggior parte dei capitani di mare.» Si allontanò e Mary, osservando la sua schiena snella, i capelli bruni ordinati e le brache bianche e pulite, si rammaricò che il figlio che portava in grembo non fosse suo. Sulla rotta per Rio incapparono in alcune tremende burrasche. La nave beccheggiava e rollava tra i marosi e l'acqua irrompeva nelle stive trascinando le donne giù dalle cuccette. Avevano sempre paura di morire; i cigolii del fasciame parevano la conferma che la nave sarebbe andata in pezzi. Anche Mary, che non aveva mai sofferto il mal di mare, in preda ai conati vomitò fino a non avere più niente nello stomaco. Ne uscì con una tale debolezza che non riusciva quasi a muoversi. Ma le tempeste passarono, seguite da periodi di bonaccia in cui la nave rimase praticamente immobile. Fu in uno di quei giorni, mentre Mary osservava dal ponte il resto della flotta con un occhio

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anche ai delfini e alle focene, che Tench le suggerì di cercarsi un marito tra i deportati. Non aveva molte occasioni di parlare con lei, e quando ci riusciva era solo per qualche minuto. Tuttavia, dal giorno in cui le aveva detto di sapere della gravidanza, le passava spesso qualcosa: un pezzo di formaggio, un paio di gallette, e in due occasioni un uovo sodo. Mary non voleva che fosse rimproverato dal capitano; per lei era sufficiente il solo fatto che mostrasse interesse per la sua salute. «Ti sei chiesta come sarà a Botany Bay?» esordì Tench, con lo sguardo rivolto alla flotta immobile nel mare piatto. «Voglio dire, hai pensato a quanto saranno più numerosi gli uomini delle donne?» Lei scosse la testa. «Una donna ogni tre uomini» continuò lui con la fronte aggrottata, come se questo lo preoccupasse molto. «Immagino che per voi donne sarà dura.» Sconcertata, Mary si rese conto che alludeva a possibili stupri. «Non ci sarete voi della Marina a proteggerci?» «Faremo del nostro meglio,» rispose serio «ma anche con tutta la buona volontà del mondo non potremo essere dappertutto in ogni momento.» Mary rabbrividì. Da Will aveva saputo che molti deportati erano tipi pericolosi, però lo erano anche molte delle donne. Aveva pensato soprattutto a furti di cibo ed effetti personali, ma ora Tench le faceva presente che le ruberie non sarebbero stati gli unici problemi. «Dovresti prendere in considerazione l'idea di sposarti» continuò lui. Mary la interpretò per un attimo come una proposta di matrimonio, e il suo cuore sussultò. «Sposarmi?» «Con un deportato, naturalmente» si affrettò a precisare lui. «Tuo figlio avrà bisogno di un padre.» Mary sentì di essere arrossita e si augurò che lui non ne intuisse il motivo. «Non conosco quasi nessuno» replicò risentita.

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Tench lanciò un'occhiata dietro di sé per accertarsi di non essere osservato. «Adesso devo andare. Però penserai a quello che ti ho detto, vero?» Si allontanò prima che lei potesse aggiungere altro. Mary rifletté a lungo sul consiglio di Tench. Più ci pensava, più le sue parole avevano senso. Gli uomini tenuti tanto a lungo separati dalle donne sarebbero stati probabilmente pericolosi, come pure alcune donne. Lei voleva Tench. Sapeva che l'avrebbe amato per sempre e che nessun altro poteva suscitare in lei certe sensazioni. Tuttavia era realista: forse Tench provava simpatia per lei, forse anche un sentimento d'amore, ma per farlo innamorare al punto da sposare una deportata ci sarebbe voluto più tempo di quanto Mary disponesse. Inoltre, era previsto che lui tornasse in Inghilterra dopo tre anni, e a quel punto lei ne avrebbe avuti ancora quattro da scontare. C'era solo un deportato per il quale provava ammirazione, ed era Will Bryant. Era forte e in gamba, oltre a saper leggere e scrivere; aveva nella pesca un vero mestiere, e amava le barche e il mare come lei. Era anche bello, oltre a essere un capo per natura. Più pensava a lui, più si convinceva che sarebbe stato il marito ideale. Di certo lei non rappresentava un buon partito, innanzitutto perché portava in grembo un figlio non suo. E non era neppure una gran bellezza. Però doveva pur esserci un modo per apparirgli come una risorsa. Durante le otto settimane di navigazione verso Rio, Mary non fece altro che pensare a come persuadere Will a diventare suo marito. Date le sue condizioni, il dottor White le consentì di passare le giornate sul ponte quando il tempo era buono, e avere razioni di cibo più abbondanti. In questo modo aveva la possibilità di vedere Will quasi quotidianamente, riparargli le reti, pulire il pesce, spesso dargli un po' del suo cibo e coprirlo di complimenti.

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Ogni giorno scopriva qualche lato nuovo in lui. Magari era snervante - si vantava di saper fare praticamente tutto meglio di chiunque altro -, però era forte, concreto, intelligente, e anche gentile. Si informava sovente della sua salute; una volta le chiese addirittura se poteva posarle la mano sul ventre per sentir scalciare il bambino, e quando lo sentì rimase sbalordito. Era protettivo con i più deboli, di carattere allegro e raramente di cattivo umore. Quando la nave ormeggiò a Rio, furono rimesse le catene, chiusi i boccaporti, e l'equipaggio scese a terra. Ogni tanto venne concesso ai reclusi di stare sul ponte per brevi periodi, e allora chi disponeva di denaro acquistava ortaggi dagli uomini dalla pelle scura che si avvicinavano alla nave su piccole barche per vendere la loro mercanzia. Prima della partenza dall'Inghilterra, i reclusi con la fortuna di avere parenti non lontano da Devonport avevano ricevuto abiti nuovi, cibarie, denaro e altro. Qualcuno era riuscito a difendere il proprio gruzzolo per tutto il periodo trascorso in galera e poi sulla nave prigione. Will era uno di questi, e raccontò a Mary di averlo custodito in un sacchetto nascosto sotto la camicia. Comprò delle arance e ne diede la metà a Mary. Comprò anche un taglio di tela bianca e gliela passò. «Così puoi fare qualche vestina al bambino» disse con un sorriso insolitamente timido. Anche Tench, quando risalì a bordo leggermente barcollante per le abbondanti libagioni a terra, aveva un dono per lei: una copertina. «Will mi ha comprato della tela per fare delle vestine» spiegò Mary dopo averlo ringraziato, cacciando indietro lacrime di gratitudine. «Sono fortunata ad avere due amici così cari.» «Will è l'uomo che dovresti sposare» fece Tench all'improvviso, cogliendola di sorpresa. «Sposarlo!» esclamò lei come se quel pensiero non le avesse mai attraversato la mente. «Perché dovrebbe volere me quando ci sono tante donne più graziose e senza figli in arrivo?» «Perché tu sei intelligente, tenace e di buona compagnia» rispose

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lui con un luccichio negli occhi castani. «Sono queste le qualità che vorrei in una moglie.» «E l'amore?» chiese lei, rammaricata di non saper civettare come tante altre per attirare l'uomo che voleva. «lo sono convinto che, quando due persone sono completamente in sintonia, l'amore arriva» rispose serio. «Secondo me, molti confondono il desiderio con l'amore. Due sentimenti assai diversi.» «Ma non vanno sempre di pari passo?» Tench sorrise. «A volte, se si è molto fortunati. Purtroppo, di solito si prova l'uno o l'altro, non entrambi. O, peggio ancora, si provano per qualcuno non adatto a te.» Mary ebbe la sensazione che si stesse riferendo a ciò che provava per lei. «Ma se li provi, quel qualcuno è di sicuro adatto!» esclamò infervorata. «Può darsi» Si strinse nelle spalle e guardò verso Rio, a ridosso del porto. «Se si potesse portare quella persona in un posto nuovo, dove non si dà importanza alle origini.» La loro conversazione si interruppe all'improvviso perché il capitano Gilbert stava salendo a bordo. Tench dovette andare a salutarlo, e Mary tornò silenziosa a poppa a guardare Rio affacciata sulla baia, e a chiedersi se Tench avesse desiderato andarci insieme a lei. Ma in questo caso, perché allora la incoraggiava a pensare a Will? Era un comportamento assai strano per un uomo. D'altra parte, si era resa conto da un pezzo che Tench non era come gli altri. Salparono dal porto di Rio il 4 settembre e tre giorni dopo, nel tardo pomeriggio, Mary entrò in travaglio. Inizialmente non fu tanto tremendo. Rimase sdraiata tranquilla accanto a Bessie e riuscì persino ad appisolarsi, ma nelle prime ore del mattino i dolori divennero lancinanti e per alleviarli dovette

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alzarsi e aggrapparsi a una trave. A metà mattina fu mandato a chiamare il dottor White; dichiarò che tutto procedeva nella norma e che i primogeniti impiegavano sempre molto. Si limitò a ordinare a due donne - il caso volle che fossero proprio Mary Haydon e Catherine Fryer - di raccogliere un po' di paglia per prepararle un giaciglio. La nave beccheggiava violentemente, e Mary e Catherine si mostravano del tutto indifferenti nei suoi confronti. A rendere più difficile la situazione, i boccaporti erano stati chiusi a causa del forte vento, quindi la stiva era divenuta buia e soffocante. «Prima te la sei spassata» disse malignamente Mary Haydon «e adesso ti tocca soffrire.» Mary era sempre stata consapevole che quelle due continuavano a ritenerla responsabile della loro sventura, nonostante affermassero che era acqua passata. Ogni volta che riceveva lodi e gratitudine dalle altre, percepiva la loro invidia. Speravano - ne era convinta - che si lasciasse andare durante il travaglio perdendo così l'ammirazione di tutte; in questo modo si sarebbero prese la rivincita. Mary però non aveva intenzione di dar loro questa soddisfazione. Quando sopraggiunse la doglia successiva strinse i denti e sopportò in silenzio. Man mano che il travaglio procedeva i dolori si facevano più acuti; fu costretta a sdraiarsi e stringere la corda piena di nodi che una donna più anziana si era premurata di legare alla trave sopra di lei. Sarah le sedette accanto, le bagnò la fronte e le fece sorseggiare l'acqua salmastra. «Non manca molto» la incoraggiò con un sussurro. «E se vuoi urlare, fallo; non badare a quelle due streghe.» Mary credette di morire dal dolore, e in una breve pausa tra le doglie si chiese come le donne potessero avere il coraggio di fare più di un figlio. Poi, però, proprio quando era convinta di non resistere più, avvertì una sensazione nuova: la voglia di spingere forte. Ne aveva già sentito parlare, anche da sua madre, e sapeva che

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a quel punto il bambino stava lottando per uscire. D'un tratto provò una grande tenerezza per la creatura dentro di sé e si sentì determinata a farla nascere - maschio o femmina che fosse - il più in fretta possibile. «Sta arrivando» sussurrò a Sarah, e alla doglia successiva strinse forte i denti, sollevò le gambe aggrappandosi alla corda e spinse con tutte le forze. Si rendeva vagamente conto che le altre donne stavano consumando il pasto serale al di là della coperta che Sarah aveva appeso per consentirle un po' di intimità; sentiva odore di stufato e le udiva masticare. Il rollio e il beccheggio della nave sembravano riprodurre ciò che stava succedendo nel suo corpo, e fu contenta che l'oscurità nascondesse alla vista il suo atteggiamento scomposto. Sarah ordinò a qualcuno di chiamare il medico, ma lui impiegò un po' ad arrivare e se ne andò quasi subito, dopo averle dato alcune brevi istruzioni e una lanterna per fare luce. «Non lasciatemi» gridò Mary, mentre lui si allontanava. «Ti assisteranno le tue compagne» fece lui brusco. «Io non riesco a stare in piedi qui sotto.» «Bastardo» inveì Sarah mentre lui batteva in ritirata, e intanto si sporse ad asciugarle con dolcezza il viso. «Ci sono io, comunque» la consolò. «So cosa bisogna fare, tesoro; andrà tutto bene.» Il dolore adesso bruciava come il fuoco, e mentre Sarah le lavava natiche e cosce con acqua fredda, Mary ebbe quasi l'impressione di vederlo ardere sotto la pelle. Quando, dopo una lunga poderosa spinta, sentì arrivare il bambino, l'amica gridò che gli vedeva la testa. Ebbe l'impressione che le stessero estraendo dal corpo un grosso pesce viscido. Il dolore era cessato, e riuscì a sentire le voci dietro la coperta stesa. «È una femmina» esultò Sarah deliziata. «Una splendida bambinona.» La luce della lanterna era fioca, però Mary riuscì a vedere l'amica sollevare qualcosa di simile a un coniglio scuoiato. All'improvviso

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la creatura lanciò un grido, un urlo rabbioso e sprezzante, come per lo sgomento di trovarsi nel buio di una stiva. «Se la caverà» annunciò Sarah con gioia nel posare la piccola tra le braccia della madre. «Allora, come pensi di chiamarla?» Mary rimase silenziosa un momento. Riusciva solo a fissare con una sorta di timore reverenziale la piccola dai folti capelli neri, violacea nella luce fioca, che agitava in aria i piccoli pugni. Sembrava incredibile che quella creaturina adirata potesse essere cresciuta dentro di lei. «La chiamerò Charlotte» rispose infine. «Come la nave.» Poi ricordò all'improvviso lo sguardo tenero di Graham la notte in cui la loro bambina era stata probabilmente concepita. «Charlotte Spence» aggiunse. «Spence?» chiese Sarah. «Che razza di nome è?» Mary non osò rispondere. «Posso bere qualcosa adesso? Ho la gola secca.» Era notte fonda quando Charles White rientrò in cabina dopo avere accertato che la piccola di Mary era nata senza complicazioni. Si versò un bicchiere di whisky, poi sedette ad annotare sul diario: «8 settembre. Mary Broad. Partorita bellissima bambina». Rimase seduto per un momento, incapace di pensare alle altre cose accadute durante la giornata. La sua mente era totalmente occupata dall'immagine di Mary sdraiata con la bambina tra le braccia in quella stiva lurida e puzzolente. Negli anni era stato chiamato numerose volte ad assistere a parti di donne altolocate in bellissime dimore, e anche di contadine in vere topaie; le aveva aiutate tutte e si era commosso di fronte al miracolo di una nuova vita. Ora provava una certa vergogna per avere lasciato Mary a cavarsela da sola; lei era chiaramente una brava persona, intelligente, tranquilla e riservata, migliore delle sue compagne. Forse il suo comportamento era dettato dal fatto che dava per scontato che la piccola non potesse sopravvivere più di qualche settimana. La mortalità infantile era già piuttosto alta sulla terraferma,

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ma su una nave infestata da topi, pidocchi, e malattie di ogni genere pronte a colpire i più deboli, un neonato aveva ben poche speranze. Sorprendentemente, fino a quel momento si erano registrati pochi decessi, per lo più provocati da malattie contratte dai deportati sulle navi prigione. Tuttavia, il viaggio fino a Botany Bay era ancora lungo. Una volta arrivati, sarebbe stata di gran lunga più dura. Bisognava costruire case, dissodare e coltivare la terra. Forse gli indigeni erano ostili e il tempo inclemente. Non era certo l'ambiente ideale per crescere un bambino. Pensava tuttavia che Mary, con le sue numerose e notevoli doti, sarebbe stata un'ottima madre. Si domandò ancora chi potesse essere il padre, e pensò a Tench, perché era stato con lei già sulla Dunkirk. Si capiva benissimo che stava aspettando con ansia quando lui gli aveva annunciato il lieto evento: aveva gli occhi che brillavano e si era mostrato impaziente di conoscere il sesso e il nome del neonato, e di sapere se Mary stava bene. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a vederlo come uno che andava con una galeotta. Tench era un giovanotto retto e onesto, con una grande dignità naturale, più interessato a rimettere a posto il mondo che non a fare il donnaiolo. Comunque era evidente che provava qualcosa per Mary Broad, il che era comprensibile, visto che anche un vecchio medico scontroso come lui la trovava attraente. Charles emise "un lungo sospiro: c'erano moltissime incognite in quella grandiosa idea di svuotare le navi prigione e spedire gli indesiderabili all'altro capo del mondo. Nessuno aveva notizie certe sul clima e sugli indigeni, o sulla possibilità di coltivare la terra. Si metteva in gioco la vita non solo dei deportati, di cui assai pochi in Inghilterra si preoccupavano, ma anche di coloro che erano preposti a tenerli in riga. Lo stesso capitano Arthur Phillip, comandante dell'intera flotta, aveva espresso il timore che il carico di provviste, attrezzi e vestiario delle navi da trasporto fosse insufficiente e di bassa qualità. Inoltre tra i deportati non erano molti gli artigiani esperti.

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Charles fissò cupo il diario bianco. Se fossero stati tutti persone intelligenti e piene di risorse come Mary Broad e Will Bryant, il progetto avrebbe potuto avere qualche possibilità di riuscita. Purtroppo la maggioranza era costituita da furfanti fatti e finiti, la feccia in fondo al barile dell'Inghilterra. Insomma, l'idea era destinata a fallire prima ancora di essere messa in pratica. Cinque settimane dopo, mentre la nave veleggiava verso Città del Capo, Mary, appoggiata al parapetto con Charlotte in braccio, ammirava la bellezza dello spettacolo che le si parava davanti. In un tramonto dai toni rosa e malva, le undici navi, ora accostate una all'altra, solcavano il mare turchese con le vele gonfie di vento. Banchi di delfini saltavano fuori dall'acqua per poi tuffarsi come se si stessero esibendo in uno spettacolo speciale. Erano alcuni giorni ormai che vedevano delfini e anche balene, e Mary non si stancava mai di ammirarli. «E tu neppure guardi» disse con tenerezza a Charlotte profondamente addormentata, avvolta nella copertina ricevuta in dono da Tench. Mary aveva quasi dimenticato i tormenti del parto; il latte non le mancava e Charlotte cresceva rigogliosa. D'altra parte, la copriva di attenzioni. Mai avrebbe creduto di nutrire un sentimento tanto forte per la propria creatura. Se ne separava raramente, nel timore che le altre donne le infilassero in bocca le dita sporche o la facessero cadere nel prenderla in braccio. Durante il giorno, quando era sul ponte, la teneva nella piccola culla costruita per lei da un marinaio, su cui aveva appeso un telo per ripararla dal sole; di notte, invece, troppo preoccupata dei topi, la teneva stretta tra le braccia. Il capitano Gilbert le aveva detto che poteva farla battezzare non appena arrivati a Città del Capo, quando il cappellano della flotta sarebbe salito a bordo della loro nave. Mary ne fu colpita:

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si aspettava che il figlio di un deportato fosse trattato con disprezzo, quasi non appartenesse al genere umano. «Avvisteremo la Table Mountain prima di domani mattina, credo» esordì Tench, comparso all'improvviso al suo fianco. Mary non l'aveva visto né sentito arrivare. «E una montagna con la cima tanto piatta da sembrare proprio una tavola» continuò «e quando è avvolta dalla foschia pare coperta da una tovaglia, almeno così mi hanno detto. Non sono mai stato a Città del Capo.» «Potrete esplorarla» fece Mary in tono di rimpianto. «Vedere tutti quegli animali selvatici e tante altre cose.» Sapeva che Tench amava esplorare e poi annotare sul diario i luoghi visitati e ciò che aveva visto. Non aveva mai incontrato un uomo animato da tanto interesse per posti sconosciuti. «Non resterai in prigione per sempre, Mary» la consolò con voce pacata. «Una volta che l'insediamento di Botany Bay comincerà a prosperare e tu avrai scontato la pena, per una donna come te ci saranno tante buone opportunità.» «Allora voi sarete già tornato a casa» replicò lei cercando di mantenere un tono leggero. «Immagino di sì. Ma tu farai parte di una nuova comunità, e non ho dubbi che sarai anche sposata. Forse la piccola Charlotte avrà un fratellino o una sorellina.» Chinò la testa verso la piccola in braccio a Mary per baciarla sulla fronte. «Scegli Will Bryant, Mary; è l'uomo più giusto per te.» Tench non era più tornato su Will da molto prima che Charlotte nascesse, ma il fatto che non lo avesse dimenticato era la prova che parlava sul serio. «Se questo piano dovesse piacermi, come dovrei comportarmi?» Tench rifletté un attimo. «Io metterei le carte in tavola e gli farei notare i vantaggi di avere una moglie. Specialmente una come te.» Mary abbozzò un sorriso. «Al mio paese sarei stata considerata la peggiore delle scelte per un uomo. Non sono brava a cucinare, né a cucire, e in genere in nessun lavoro femminile.» «Non ci sarà molta richiesta di talenti domestici a Botany Bay»

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commentò Tench con un sorriso ironico. «Là saranno i più forti e adattabili a farsi strada. Tu hai spina dorsale, Mary, e molta determinazione. Will lo sa e ti ammira. Non credo che faticherai molto a convincerlo.» «Voi come vi sentireste se una donna vi chiedesse di sposarla?» Sorrise per buttare la domanda sullo scherzo. Lui rise. «Be', dipende da chi me lo chiede. Ne sarei lusingato, se fosse ricca e bella.» «Quindi una semplice, povera deportata non avrebbe nessuna possibilità?» Mary tentò di mantenere il tono scherzoso, ma avvertì una nota lamentosa nella propria voce. Tench non rispose. «Scusate, vi ho messo in imbarazzo» commentò mortificata. Con sua sorpresa, Tench si parò di fronte a lei e le posò delicatamente la mano sulla guancia guardandola negli occhi. «Ho detto che sarei lusingato se me lo chiedesse una donna ricca e bella, ma lo sarei altrettanto se me lo chiedesse una deportata che mi piace veramente, anche se non accetterei comunque. Non perché di lei non mi importi abbastanza, o perché la ritengo troppo umile per me, ma perché io non sono un tipo da matrimonio, Mary. Sono troppi i posti che intendo visitare e quindi non posso sistemarmi con nessuna.» Mary deglutì sforzandosi di cacciare indietro le lacrime. «Finirete con l'essere un uomo solo.» «Sì, è vero, ma almeno mentre sarò in giro a esplorare il mondo non lascerò sola una moglie» replicò con un sorriso «e nemmeno dei figli senza un padre.» Charlotte fu battezzata tre giorni dopo l'arrivo a Città del Capo. Il reverendo Richard Johnson salì a bordo la domenica mattina per officiare la messa per l'equipaggio al completo e i deportati. Mary era l'unica senza catene: le erano state tolte per la durata della funzione, ma sarebbero state rimesse subito dopo. Per

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apparire al meglio, si era lavata i capelli fino a renderli luminosi e aveva indossato il vestito di cotone grigio regalatole da Graham sulla Dunkirk. Purtroppo era molto stropicciato perché lo aveva nascosto nella stiva quando le era stato consegnato il “camicione”, il vestito ruvido e senza forma che dovevano portare le detenute. Nel sermone, il reverendo Johnson si rivolse ai deportati: se voltavano le spalle alla malvagità che li aveva portati su quella nave - disse - Botany Bay sarebbe stata una preziosa opportunità per tutti loro. Spronò gli uomini a scegliere una moglie, perché solo nel matrimonio avrebbero trovato la vera felicità e la soddisfazione. Mary mosse un passo avanti con Charlotte in braccio perché ricevesse il battesimo, e si sentì addosso gli occhi di Will. Mentre il reverendo versava l'acqua sulla testa della neonata e lei strillava tanto forte da coprire le sue parole, Mary recitò una preghiera silenziosa, non soltanto per invocare il bene della piccola, ma anche perché Will la prendesse in moglie. Passò una settimana prima che Mary trovasse l'occasione di parlare a Will, perché il cattivo tempo li costrinse sottocoperta. Era ancora un po' rischioso salire la scaletta interna con la bambina in braccio sui gradini scivolosi, ma lei non vedeva l'ora di uscire all'aria pura. Will era di nuovo sul ponte, intento a pescare. Nel sentire i passi alle sue spalle si guardò indietro e sorrise. «Bello stare fuori, eh?» «Non avrei sopportato un minuto di più là sotto» rispose lei ridendo. «È come respirare una minestra stantia.» «Tu e io siamo fatti della stessa pasta» fece Will guardandola con approvazione. «Come sta la piccola?» «Benissimo.» Mary abbassò lo sguardo sulla bambina addormentata che per sicurezza teneva legata a sé con uno scialle. «Chissà se sulle altre navi ci sono neonati.»

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«Parecchi, ho sentito. Così Charlotte avrà dei compagni di gioco quando sarà più grande.» «E se la gente si sposa come ha suggerito il reverendo, ce ne saranno presto altri» aggiunse Mary. Will scoppiò a ridere. «Molti non staranno ad aspettare le nozze. Secondo me ci sarà un'invasione di bambini prima della fine del primo anno.» «Ma ci sono tre uomini per ogni donna» osservò astutamente lei. «Penso che le mogli saranno molto contese.» Si sentiva nervosa: quello era proprio il momento di affrontare l'argomento, ne era convinta, ma non osava dire ciò aveva in mente. «Io non avrò problemi» disse Will. «Per me faranno la fila.» Di fronte a tanta arroganza, Mary provò un senso di irritazione. «Allora faresti bene a scegliere con attenzione» ribatté brusca. «Da quanto ho potuto vedere, là sotto ci sono poche donne con un cervello, e quelle delle altre navi potrebbero essere persino più stupide.» «Tu saresti un buon partito per chiunque» fece inaspettatamente Will. «Hai una bella testa e non sei una sciattona come molte qui.» Mary inspirò a fondo per ritrovare la calma. «Sarei un buon partito per te» sbottò. «Mi intendo di barche e di pesca. Veniamo dallo stesso posto, e piacciamo entrambi agli ufficiali.» Will, stupito dalla proposta, la fissò a bocca aperta. «Potresti finire molto peggio» continuò lei paonazza in volto. «Io sono sana e forte, e lavoro sodo per realizzare quello che voglio. Lo so che c'è Charlotte, e forse un uomo non vuole vedersi intorno un figlio non suo...» Si bloccò all'improvviso, incapace di pensare a qualche altra ragione per la quale Will avrebbe dovuto scegliere lei; inoltre si vergognava di averlo implorato. «Non io!» esclamò lui con un largo sorriso. «Pensavo che tu fossi troppo orgogliosa per abbassare la testa di fronte a qualcuno.» «Non sto abbassando la testa» si affrettò a precisare Mary. «Tu mi piaci, ed è una buona soluzione.»

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«Io vorrei non solo piacere a una moglie, ma sentirla appassionata nei miei confronti.» Mary era pronta ad andare per le lunghe per convincerlo ad accettare la proposta, ma non se la sentiva di fingere un grande trasporto. Di fronte al suo sorriso tronfio, le sembrò di essere stupida e inadeguata. Rifletté qualche minuto. «Siamo buoni amici da più di un anno: tu lo vorresti un amico non sincero?» «No, certo» rispose lui, mantenendo comunque il sorriso arrogante. «Però continuo a volere una moglie appassionata.» «Forse, col tempo, potrei diventarlo» ribatté lei furiosa e sempre più rossa, certa che si sarebbe precipitato dai compagni a raccontare quella conversazione. «Non abbiamo ancora avuto occasione di conoscerci in questo senso.» Prima che potesse aggiungere altro, da un fante arrivò un grido d'avvertimento: evidentemente si erano avvicinati troppo per i suoi gusti. «Devo andare» concluse lei in fretta. «Pensaci.» Le settimane successive furono dure: violente burrasche si alternarono a periodi di bonaccia in cui la nave restava quasi immobile. L'acqua dolce fu razionata, e il cibo cominciò a marcire. Mary visse momenti di grande ansia perché temeva di perdere il latte ed era anche spaventata da ciò che l'aspettava. Le altre donne erano per la maggior parte tanto sciocche da illudersi di andare in un luogo già pronto ad accoglierle. Mary sapeva che avrebbero vissuto in tenda e che probabilmente parte dei viveri sarebbe finita durante il viaggio. Tra l'altro, molti degli animali erano morti. Prima che nascesse Charlotte non si era mai soffermata sul fatto che la nave potesse naufragare, ma ora, a ogni tempesta, veniva assalita dalla paura. Le acque in cui stavano navigando erano riportate in modo assai approssimativo sulle mappe, e nessuno dell'equipaggio era mai stato da quelle parti. Per quanto se ne sapeva, gli indigeni

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di Botany Bay potevano essere cannibali, come potevano esserci bestie feroci pronte a sbranarli. Tuttavia, da un certo punto di vista, il peggio era che Will non le avesse detto una parola riguardo al matrimonio. Mary si chiedeva se lui ci stesse ancora pensando, oppure se ritenesse la proposta troppo assurda per prenderla in considerazione. ***

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Capitolo 5. 1788. Mary stava salendo la scaletta interna con Charlotte in braccio quando udì gridare: «Terra!». Fu colta da un'euforia selvaggia e, saliti di corsa gli ultimi gradini, attraversò il ponte per raggiungere i membri dell'equipaggio e i deportati vicini al parapetto. Non le sembrò terra, ma una linea appena più scura all'orizzonte che poteva essere scambiata per una nuvola; tuttavia, sapeva che il marinaio che l'aveva avvistata dall'alto del sartiame non era tipo da sbagliare. Era gennaio: un anno intero, di cui otto mesi trascorsi in mare, da quando era stata trasferita dalla Dunkirk alla Charlotte. La piccola aveva ora cinque mesi. Erano morti cinque deportati maschi e la moglie di un fante della Charlotte, ma le cause dei decessi furono attribuite a malattie che si erano portati dietro dall'Inghilterra, piuttosto che alle privazioni patite durante il viaggio. Grazie all'aria pura e alle razioni più generose, in maggioranza i detenuti apparivano più in salute di quando si erano imbarcati. In pochi, tuttavia, avevano evitato incidenti come fratture alle gambe o semplici tagli o escoriazioni, perché il ponte e le scale diventavano pericolosamente scivolosi con il cattivo tempo. Nell'insieme, Mary aveva trovato il viaggio una piacevole esperienza. Benché spesso terrorizzata dalle burrasche e avvilita per

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l'astio e la cattiveria di alcune detenute, era stata largamente ricompensata dalla felicità che le procurava Charlotte. La piccola cresceva sana e robusta - a dispetto delle più nere previsioni - e con i suoi pronti sorrisi e i placidi gorgoglii riusciva a conquistare tutti, dagli ufficiali, fanti e marinai, fino all'ultimo dei deportati. Aveva infuso nella madre una reale speranza per il futuro, ma ora che erano quasi giunti a destinazione, l'istintiva euforia di Mary era venata dall'ansia. A Città del Capo, Tench le aveva annunciato che la flotta si sarebbe divisa per far sì che le navi più veloci andassero avanti per predisporre l'insediamento, ma lei sapeva che non era avvenuto. Il cattivo tempo e i venti sfavorevoli avevano rallentato le prime navi, che erano state quindi raggiunte dalle altre, compresa la Charlotte. Nel vederle tutte accostate, Mary si rese conto sconfortata che all'arrivo non avrebbero trovato nulla che fosse stato approntato per loro; inoltre, si ignorava se gli indigeni fossero ostili. Raggiunse Will Bryant e il giovane Jamie Cox, appoggiati alla battagliola. «Questo sì che è uno spettacolo fantastico!» esclamò Will entusiasta, indicando le altre navi con un ampio gesto delle mani. «Temevo che ne avremmo persa almeno una, invece ce l'hanno fatta tutte.» Durante le burrasche, la prospettiva di un naufragio era nella mente di tutti, e doppiamente in quella di Mary, con Charlotte da proteggere. La mattina successiva a una brutta nottata, per lei era sempre stato rassicurante scoprire la vicinanza di almeno una delle altre navi. Dall'osservazione di Will comprese che lui aveva nutrito i suoi stessi timori. «Non hai paura di quello che ci aspetta?» Lui alzò le spalle. «Temo solo che non ci sia abbastanza cibo per sostentarci finché non abbiamo coltivato qualcosa» ammise con una certa riluttanza. «E tu, Jamie?» Il ragazzo fece un timido sorriso. «Io ho paura soprattutto degli indigeni: pensa se sono cannibali.» «Non saresti un gran pasto per loro» commentò Mary ridendo,

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mentre lo pungolava nel fianco. Jamie aveva messo su un po' di carne durante il viaggio, ma continuava a sembrarle pelle e ossa. «E tu, di cosa hai paura?» le chiese Will. «Soprattutto degli altri deportati, che non conosciamo, e poi di non essere in grado di provvedere a Charlotte.» «Ci sarò io a proteggervi» fece lui dandole un colpetto sul braccio con la grande mano. Mary si chiese che cosa intendesse esattamente. Benché avessero poco alla volta riallacciato l'amicizia che c'era tra loro prima della sua proposta di matrimonio, nessuno dei due era più tornato sull'argomento. Mary era giunta alla conclusione che lui non la volesse per moglie, e che quel silenzio indicasse la sua volontà di non metterla ulteriormente in imbarazzo. «Spero tu dica sul serio,» commentò con un sorriso «ma immagino che sarai molto occupato a sceglierti una donna, quindi non ci farò troppo conto.» A causa dei forti venti contrari, la Charlotte impiegò altri tre giorni prima di riuscire a entrare nella Botany Bay. Nel vedere per la prima volta la terra che erano andati a popolare non vi furono grida di gioia, sorrisi o risate da parte di fanti, ufficiali o deportati. Per una volta reagirono tutti allo stesso modo, con uno sbigottito silenzio. La terra si presentava desolata, inaridita dal sole cocente, del tutto priva degli attesi pascoli verdi, con solo qualche stentato alberello. Ancora più scoraggiante, tuttavia, fu la vista degli indigeni, neri come la pece, totalmente nudi, che brandivano minacciosamente le lance verso le navi. Era chiaro che non erano contenti di vedere sconosciuti uomini bianchi invadere il loro territorio. La maggior parte della flotta aveva preceduto la Charlotte, e una delegazione di ufficiali e fanti era già scesa a terra alla ricerca di un posto adatto per l'accampamento. I deportati, tuttavia, non

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ottennero il permesso di rimanere sul ponte a osservare lo sviluppo delle operazioni e ancora una volta furono rinchiusi nelle stive. Solo nelle settimane successive Mary venne a sapere cos'era accaduto nelle lunghe giornate di reclusione sottocoperta, nel caldo soffocante. Un aneddoto che avrebbe in seguito divertito lei e i compagni era che gli indigeni, per comprendere di che sesso fossero gli ufficiali bianchi, avevano costretto uno di loro a calare le brache. A quanto pareva, il capitano Arthur Phillip era riuscito a superare la loro ostilità offrendo in dono ninnoli e perline, ma si era allarmato nello scoprire che Botany Bay non poteva accogliere più di mille persone con tutti gli animali. Il suolo non era fertile e l'acqua dolce di difficile accesso. Allora partì con un piccolo plotone a bordo delle scialuppe alla ricerca di un luogo più adatto lungo la costa, lasciando il resto della compagnia ad abbattere alberi in caso non si fosse trovato niente di meglio. Arrivò in un posto chiamato Port Jackson, che dalla lettura del diario di viaggio del capitano Cook aveva desunto essere una piccola insenatura. Si stava facendo sera e, per controllare di persona, ordinò ai suoi uomini di inoltrarsi con le barche oltre i due giganteschi promontori che la chiudevano. Superati questi, si accorse che non si trattava affatto di un'insenatura ma di un vero e proprio porto naturale, il più bello che avesse mai visto. Deliziato dalla scoperta di questo gioiello dalle mille cale riparate, con tanti alberi e acqua dolce, si spinse più avanti fin dove c'era abbastanza fondo da consentire alle navi di avvicinarsi alla terra. Battezzò quel luogo “Sydney Cove” in onore del segretario di Stato Lord Sydney, il destinatario dei suoi dispacci. Inoltre, in quella zona gli indigeni apparivano più amichevoli. A Sydney Cove, dunque, sarebbe sorto il primo insediamento del Nuovo Galles del Sud.

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Mary e gli altri deportati erano all'oscuro di tutto. Sudati e ansimanti nella calura delle stive, sapevano solo che erano approdati in una terra arida e infernale, popolata da terrificanti selvaggi. Non c'era da stupirsi se molti di loro si aspettavano solo la morte alla fine di quel lungo viaggio inutile. Fu solo il 26 gennaio, nell'udire salpare le ancore e issare le vele, che cominciò a rinascere la speranza per il futuro. Quando la Charlotte raggiunse Sydney Cove era già notte, troppo buio per vedere qualcosa. Ai detenuti non era stato comunicato che la nave ammiraglia Sirius li aveva preceduti quello stesso giorno, e che gli ufficiali, scesi a terra e issata la bandiera inglese, avevano festeggiato con una breve cerimonia, qualche colpo a salve, e un brindisi alla famiglia reale e al successo della nuova colonia. Tuttavia, dalle grida di gioia provenienti dagli equipaggi delle navi ancorate nella baia, fu ovvio per tutti i detenuti che quello sarebbe stato il luogo del loro insediamento. Nella fetida e afosa oscurità delle stive non potevano condividere quell'euforia, però si sentivano sollevati perché presto avrebbero camminato sulla terraferma e dormito sotto una tenda. Erano tuttavia anche molto angosciati, perché la nuova prigione che dovevano ancora costruire si trovava dall'altra parte del mondo e sarebbe stato molto improbabile rivedere l'Inghilterra e i loro cari. Alle prime luci dell'alba, nell'aria risuonavano le accette che abbattevano gli alberi, e le donne si precipitarono ai boccaporti per guardare fuori. «Sembra meglio dell'altro posto» commentò allegra Bessie. «È vero» concordò Mary. I primi raggi di sole splendevano sul mare turchese e a terra c'erano parecchi alberi, alcuni dei quali, molto grandi, popolavano le colline alle spalle della baia. Benché non vi fosse traccia di quelli che venivano comunemente detti “pascoli”, quel luogo non aveva certo l'aspetto desolato di Botany Bay.

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Videro calare le scialuppe dalle altre navi e poi i deportati maschi della Friendship salirvi a bordo. «Chissà noi quando andremo a terra» fece Bessie impaziente. Mary sospirò. «Speriamo presto. Qui sotto fa veramente troppo caldo per Charlotte.» Le donne lasciarono la nave solo una settimana dopo. Era stato detto loro che dovevano rimanere a bordo finché a terra non ci fosse stato più ordine; tuttavia ottennero il permesso di stare sul ponte mentre gli uomini montavano tende, abbattevano alberi, costruivano baracche per le provviste e una segheria. Quell'euforia che cresceva col passare dei giorni ricordava a Mary l'impaziente attesa della festa del Calendimaggio al suo paese. Le donne che possedevano diversi vestiti li passavano in rassegna in cerca di qualcosa di carino. Quasi tutte però, come Mary, erano arrivate sulla Charlotte soltanto con l'abito che avevano addosso. Sbocciò, tuttavia, una nuova generosità, e nastri, pizzi e piccoli ninnoli vennero offerti a chi non possedeva nulla. Si aiutarono a vicenda a lavare e arricciare i capelli, e chi sapeva cucire era felice di aiutare chi non ne era capace. Sentivano che le donne della Lady Penrhyn erano anch'esse prese dai preparativi. Le loro risate e i commenti sboccati si diffondevano nell'aria fino alla Charlotte, e il sartiame era inghirlandato di indumenti di tutti i colori dell'arcobaleno stesi ad asciugare. Malgrado condividesse l'euforia delle altre, Mary era anche in ansia. Bastava uno sguardo alla Lady Penrhyn per capire che quelle donne erano più di mondo e senz'altro più attraenti di lei. In qualche modo, a bordo della Charlotte, Mary si distingueva ed era ammirata per la sua capacità di fare da portavoce per le rivendicazioni di tutte, per il suo comportamento leale e perché era madre. Godeva anche del rispetto della maggior parte degli ufficiali e dei fanti, e si era persino conquistata la fiducia delle loro mogli e dei loro figli.

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A terra, invece, avrebbe dovuto ricominciare tutto daccapo, e stare sempre in guardia. Temeva che Mary Haydon e Catherine Fryer, pur di vederla umiliata, cercassero di denigrarla con chiunque fosse disposto ad ascoltarle. Gli ufficiali delle altre navi non le avrebbero concesso la fiducia e la libertà cui era abituata; sarebbe stata solo un piccolissimo pesce in un grande stagno, senza nessuno che proteggesse lei e Charlotte. Domenica 3 febbraio il reverendo Richard Johnson officiò una funzione all'ombra di un grande albero. Come tutte le donne, Mary osservava dalla nave, un po' intimorita nel vedere settecento uomini - detenuti, ufficiali, fanti e marinai - uniti nella preghiera. Will, più alto e più grosso e con i capelli biondi scoloriti dal sole, torreggiava sulla folla. Gli era accanto Jamie Cox, piccolo e minuto, che rispetto a lui sembrava un bambino. Una zazzera di capelli rossi in mezzo alla folla attirò l'attenzione di Mary che, sorpresa, riconobbe Samuel Bird. Guardando meglio, vide di fianco a lui James Martin con le sue spalle spioventi e l'inconfondibile nasone. Provò una gioia incontenibile, come se rivedesse i suoi familiari. Arrivò alla conclusione che quei due fossero stati imbarcati di proposito a bordo di un'altra nave per separarli da Will ed evitare che insieme fomentassero una qualche forma di ribellione. Tench, con il cappello infilato sotto il braccio, si trovava tra gli ufficiali, e bastò quella distanza tra detenuti e ufficiali per convincere Mary che la loro amicizia difficilmente sarebbe sopravvissuta alla conclusione del viaggio. Le donne scesero a terra tre giorni dopo. Nell'ultima settimana la loro eccitazione era andata crescendo e, mentre con le compagne veniva trasportata a riva sulla scialuppa, Mary si sentì frastornata e come le altre emise gridolini di gioia. Dopo le tante tribolazioni del viaggio, era meraviglioso vederle tutte così felici,

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con le guance arrossate e gli occhi splendenti, come un gruppo di damigelle a una cerimonia nuziale. A far battere forte il cuore di Mary bastava la prospettiva di camminare di nuovo sulla terraferma, non sentire più il puzzo dei buglioli e sfuggire alla minaccia notturna dei ratti. Era peraltro consapevole che ciò che infiammava le altre erano soprattutto gli uomini fermi sulla spiaggia. Mentre la barca si avvicinava a riva e fu chiaro che gli uomini le stavano aspettando, strinse al petto Charlotte con un moto di paura. L'espressione sui loro volti le riportò alla mente l'arrivo delle navi nel porto di Fowey dopo settimane di mare: anche allora notava gli sguardi bramosi senza però comprendere perché sua madre ordinasse subito a lei e a Dolly di entrare in casa. Ora invece lo capiva. Quei marinai avevano una sorta di fascino rude: erano forti, in forma, tutti ripuliti per presentarsi al meglio durante la libera uscita. Gli uomini in attesa delle deportate erano invece cenciosi e sporchi, più simili a un branco di cani randagi che a esseri umani. Qualcuna si mise a gridare qualche scurrilità e intanto abbassava la scollatura e mandava baci. In un'altra scialuppa proveniente dalla Lady Penrhyn una donna si mise in piedi e sollevò la gonna per esibire le parti intime. Mentre le barche arrivavano sulla spiaggia e loro cominciavano a scendere, Mary ebbe l'impressione che i fanti che tenevano indietro i detenuti non fossero molto meglio di loro. Sghignazzavano, strizzavano l'occhio, afferravano le mani delle donne senza dare la minima sensazione di essere là per proteggerle. Mary, con la piccola culla sotto un braccio e la bambina stretta a sé, si fece largo tra la folla bersagliata da versi di scherno assordanti, commenti osceni e richieste di baci. Ne era divertita ma anche spaventata; sembrava un concentrato di tutte le fiere e le sagre cui aveva partecipato. Le parve strano che gli ufficiali se ne stessero a guardare, quando per tutta la durata del viaggio erano stati tanto rigidi nel tenere separati gli uomini dalle donne. Una dopo l'altra arrivavano barche a depositare sulla spiaggia

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altre deportate; il baccano era sempre più forte, le spinte e gli strattoni più aggressivi, da parte degli uomini come delle donne, alcune delle quali si lanciavano a baciare e abbracciare chiunque. Mary avrebbe tanto desiderato sfilare gli scarponi e correre a piedi scalzi sulla sabbia, guardare gli strani uccelli che li osservavano dagli alberi e sguazzare nella ritrovata libertà, ma comprendeva che in quel momento sarebbe stata una pessima idea e che doveva rifugiarsi in mezzo alle altre. Individuò un gruppetto di donne e bambini, e corse da loro. «Che Dio abbia pietà di noi» gridò ansimante. «La situazione sta sfuggendo di mano.» Una donna alta con un bambino piccolo in braccio, che indossava un dozzinale vestito marrone e la cuffia, rispose: «Da un pezzo chiediamo ai nostri mariti di portarci in un luogo sicuro, ma a quanto pare sono distratti». Mary si rese conto che erano mogli di fanti con i figli, e poiché quelle sulla Charlotte l'avevano trattata con una certa gentilezza, pensò che queste si sarebbero comportate allo stesso modo. «Posso rimanere con voi? Ho paura per la mia bambina.» L'espressione della donna si indurì. «Vai con le deportate della tua nave. Il tuo posto è lì» fu la brusca risposta. Mortificata, Mary girò sui tacchi e si allontanò, rendendosi conto che quel breve scambio non era che un anticipo di come sarebbero andate le cose a partire da quel momento. Seguì una cerca calma quando i fanti spararono a salve sopra la testa dei detenuti e le donne vennero accompagnate alle tende loro assegnate; però, anche quando si misero in movimento, dai commenti e dalle risatine Mary capì che la maggior parte di loro era troppo eccitata da quegli uomini famelici per essere tenuta a lungo sotto controllo. Mary, Bessie e Sarah riuscirono a restare unite, ma si ritrovarono a condividere la tenda con tre sconosciute. Quella che sembrava essere il loro capo si presentò come Cheapside Poli. Era alta, magra e con gelidi occhi azzurri; indossava un vestito a righe e un malconcio cappello rosso. Depositò una borsa in

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tessuto accanto al palo della tenda e guardò in cagnesco Mary e le sue amiche. «Se a qualcuno viene in mente di rovistarci dentro, gli mozzo il naso» esordì. Si guardò intorno, e sollecitò le compagne a raccontare di cosa era capace. «L'ha fatto a una di Newgate» disse allegra la grassa con il viso butterato. «Non li avevo mai sentiti urli come quelli.» «Noi non siamo ladre» fece Mary, anche se tecnicamente lo erano. Era spaventata, perché quelle tre avevano un tono duro e parlavano in modo strano, diverso dal suo. Sapeva che Newgate era la famigerata prigione di Londra, e immaginò che venissero da là. «Tieni lontano da me quella mocciosa» l'avvertì Poli con aria aggressiva indicando Charlotte. «Non sopporto gli strilli.» Per fortuna le tre londinesi erano ansiose di uscire dalla tenda più in fretta possibile e, dopo avere steso le coperte, scomparvero. Mary sedette ad allattare Charlotte. A giudicare dall'irrequietezza di Sarah e Bessie, era evidente che anche loro erano ansiose di uscire. Le sue amiche avevano un aspetto molto migliore di quando erano partite dall'Inghilterra: Sarah, con le gote rosee e i capelli luminosi, si era arrotondata, mentre Bessie, piuttosto grassa al suo arrivo sulla Dunkirk, aveva perso una dozzina di chili, e la carnagione un tempo grigiastra appariva adesso color pesca. «Diamo solo un'occhiata in giro» disse Bessie lisciandosi i capelli. «Torniamo appena scopriamo dove distribuiscono le razioni.» Mary, che come chiunque altro era stata ansiosa di posare i piedi sulla terraferma, si sentì a quel punto sull'orlo delle lacrime. Aveva già il vestito fradicio di sudore per il gran caldo, e doveva trovare acqua per sé e per rinfrescare Charlotte. Udiva voci roche e stridule, ma la loro lingua non era l'inglese che conosceva lei; immaginò fosse il gergo della prigione di Newgate di cui aveva sentito parlare a Exeter, perché quelle strane parole le suonavano vagamente familiari. Non avrebbe mai pensato di dover imparare una nuova lingua, oltre a tutto il resto. Nel monotono scorrere del tempo sulla nave sapeva esattamentecosa ci si aspettava da lei: la routine quotidiana raramente cambiava. Lei era una di venti donne, con un nome e una personalità; ora sarebbe stata una di duecento, messe insieme senza precise regole di comportamento. Se Cheapside Poli era un esempio di come erano le altre, Mary doveva per forza trovare nuove risorse per sopravvivere. Con le guance rigate di lacrime e Charlotte stretta al petto, le tornarono alla mente le parole che tanto spesso aveva udito in chiesa il giorno di Pasqua: “Signore, perché mi hai abbandonato?”. Il buio calò all'improvviso cogliendo Mary di sorpresa. Evidentemente là non c'era crepuscolo come in Inghilterra. Il baccano che era andato crescendo nel corso del pomeriggio si era fatto insopportabile. Armata di coraggio, aveva passato in rassegna la fila di tende delle donne alla ricerca di cibo e acqua e delle sue compagne di viaggio. Aveva scorto James Martin e Samuel Bird, ma benché loro la chiamassero con grida e cenni della mano, lei non li raggiunse perché erano in compagnia di uomini dall'aspetto ancora più disperato. Per un po' tentò di unirsi alla baldoria, ma i pericoli che comportava la spinsero a raggiungere alcune donne più anziane, agitate quanto lei. Durante il giorno i fanti avevano cercato con scarso successo di separare gli uomini dalle donne, ma al calare del buio persero totalmente il controllo, e allora parecchie coppie di detenuti si infilarono precipitosamente dietro ai cespugli. Mary stava per posare Charlotte nella culla dentro la tenda quando un lampo improvviso illuminò l'intera baia. Seguì un tuono potente come il rombo di un cannone, e la piccola si mise a gridare. Dopo altri lampi e tuoni la pioggia cominciò a scrosciare con una violenza che Mary non aveva mai visto in vita sua. Il suolo compatto si allagò nel giro di qualche minuto, e nella tenda l'acqua prese a scorrere come un fiume.

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Mary si aspettava che il temporale spegnesse i bollenti spiriti dei gozzovigliatori come spegneva i numerosi falò sulla spiaggia, e invece, accovacciata al riparo della tenda, vide inorridita che la gente si era ancora più infiammata. I lampi illuminavano scene indecenti, donne che si spogliavano, uomini che le afferravano smaniosi per possederle nel fango. Tuttavia, in quegli atti orribili c'era almeno il mutuo consenso. Da altre parti, invece, uomini simili ad animali predatori inseguivano e atterravano donne in fuga, le cui grida echeggiavano per tutto l'accampamento. Tra loro non c'erano solo detenuti, ma anche fanti. Con la mano sulla bocca, Mary li osservò inorridita mentre scaraventavano a terra e violentavano donne anziane, troppo provate e gracili per fuggire. Quella scena infernale le evocò il quadro che aveva visto una volta a Fowey nella sede della scuola domenicale: uomini assatanati dalla lussuria, donne che li incitavano in preda all'esaltazione, altre che urlavano di terrore. Vide una con il viso completamente coperto di fango alzarsi barcollante da terra mentre lo stupratore si allontanava; un secondo uomo le saltò addosso, e un altro ancora aspettava il suo turno. Mary non sapeva cosa fare. Scappare sarebbe stata una follia perché qualcuno l'avrebbe sicuramente presa e, se si fosse portata dietro Charlotte, la piccola rischiava di essere strappata dalle sue braccia e uccisa. La tenda tuttavia non le offriva alcuna protezione e infatti, mentre esitava, un altro lampo rivelò un branco di uomini che,passava in rassegna tutte le tende alla ricerca di nuove prede. Afferrata Charlotte, sgusciò dalla parte posteriore e rimase un attimo acquattata per decidere quale fosse la direzione più sicura. Spingersi all'interno le parve la scelta migliore: con un po' di fortuna, sarebbe riuscita a nascondersi sotto qualche cespuglio. Allora, con Charlotte sotto un braccio e la veste sollevata nell'altra mano, corse a rotta di collo al riparo degli alberi. Urtò con i piedi nudi contro monconi di tronchi e inciampò nei rami secchi, ma riuscì in qualche modo a tenere stretta

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la bambina. Tuttavia, proprio mentre pensava di essersi allontanata parecchio dalla baraonda della spiaggia, si ritrovò di fronte due uomini. «Guardaaa!» gridò uno. «Carne fresca!» «Non fatemi del male» urlò lei terrorizzata, sapendo che in qualsiasi direzione si fosse messa a correre, sarebbe stata raggiunta. «Ho una bambina piccola con me.» «Mica vogliamo fargli del male. Mettila giù e fa' la carina con noi.» Con un urlo Mary strinse con più forzai Charlotte al petto, ma uno la afferrò per la spalla e la buttò a terra. Sdraiata sulla schiena, sempre stretta a Charlotte, che a sua volta si era messa a gridare, Mary prese a lottare con le gambe e i piedi, le sole armi a disposizione. Il buio le impediva di vedere, però sentì il tallone affondare in un punto molle, e l'urlo che seguì le fece pensare di averlo colpito nel ventre. «State lontani da me, animali!» gridò. «Laggiù è pieno di donne disponibili.» Uno la tenne ferma per le spalle e l'altro le afferrò le ginocchia per fargliele divaricare. Mary sentì la loro puzza di sudore, il fiato rancido. «Maledetti, andate all'inferno» urlò, lottando con tutte le sue forze. «Aiuto!» L'uomo che le teneva aperte le gambe si inginocchiò e la tirò verso di sé, mentre l'altro le bloccava le spalle in una morsa d'acciaio. Malgrado le urla di Charlotte, Mary udì il rumore di qualcuno che avanzava tra i cespugli; questo accrebbe il suo terrore perché poteva essere un altro malintenzionato pronto a possederla. «Lasciatela stare» tuonò una voce maschile; sbalordita, Mary riconobbe la voce di Will. Nel buio riusciva a distinguere solo una sagoma; udì un colpo sordo, e l'uomo che stava per stuprarla ruzzolò all'indietro. Seguì un altro colpo secco, e le mani sulle sue spalle mollarono la presa. «Questa è la mia donna» ruggì Will, e in un attimo la tirò su per stringerla tra le braccia.

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«Su, su» le disse poi con dolcezza, scostandosi un poco per non schiacciare Charlotte. «Sei salva.» Le prese il braccio per condurla via. Mary pensò che probabilmente aveva picchiato i due uomini con una specie di randello, ma non si voltò a guardare. «Ci sono riusciti?» chiese Will affannato. «No, sei arrivato appena in tempo.» La fece addentrare tra gli alberi, e quando ne trovarono uno che offriva un vero riparo dalla pioggia, si fermò e la aiutò a sedere. Sedette accanto a lei e la cinse con un braccio. «Siete ferite?» «Credo di no» rispose Mary cullando Charlotte tra le braccia per tranquillizzarla. D'un tratto scoppiò a piangere, come non le era più accaduto dal processo. Le fatiche, le privazioni, le crudeltà e le umiliazioni sopportate tanto a lungo sembrarono affiorare tutte insieme, solo perché un uomo si preoccupava di consolarla. «Adesso sei al sicuro» le sussurrò Will, mentre la stringeva a sé cullandola piano. «Mai più lascerò che qualcuno ti tocchi.» Poco dopo smise di piovere, all'improvviso com'era iniziato, e la luna sbucò da dietro le nubi. Will continuò a tenere stretta Mary mentre lei offriva il seno a Charlotte per calmarla. Erano tutti e tre bagnati fradici e coperti di fango, ma almeno non faceva freddo. «Sono venuto a cercarti quando la situazione si è messa male» spiegò Will. «Ho incontrato Sarah e Bessie, mi hanno detto che eri nella tenda per mettere a dormire Charlotte. Facevo meglio a venire subito da te.» «Ho avuto una gran paura appena abbiamo messo piede sulla spiaggia» ammise Mary. «Erano tutti senza freni.» «Sembravano pazzi» sussurrò lui, sconvolto. «Come hai fatto a trovarmi?» Will rimase un attimo in silenzio, e Mary pensò che neppure lui avesse la coscienza pulita. «Ho visto una banda di uomini infilarsi tra le tende delle donne» rispose infine. «Ho pensato che se tu eri là saresti scappata

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da dietro. Sono andato da quella parte e ho sentito piangere la bambina.» «Sarà sempre così?» sussurrò Mary. Tremava per lo spavento, mentre le immagini vivide di ciò che aveva visto sulla spiaggia danzavano ancora davanti ai suoi occhi. Will sospirò. «Non credo. Domani gli ufficiali riprenderanno il controllo; qualcuno verrà fustigato, qualcun altro rimesso in catene, e tutto si sistemerà.» «Spero che tu abbia ragione. Però l'idea di vivere insieme a quelle donne di Londra mi terrorizza a morte.» «Terrorizzata, tu?» la canzonò Will. «Una ragazza tanto coraggiosa da chiedere a un uomo di sposarla?» «Vorrei non averlo fatto. Devo esserti sembrata una sfacciata. Però ho pensato che io e te avevamo tante cose in comune; tu mi piaci davvero e, come dimostra quello che è successo stanotte, qui le donne hanno un gran bisogno di protezione.» «E vero» fece lui pensieroso. «Ma credo che anche a noi uomini serva una brava moglie, quindi noi due ci sposeremo.» «Vuoi sposarmi?» Per la sorpresa, Mary smise immediatamente di piangere. Lui ridacchiò. «Be', non voglio una di quelle megere impestate di Londra. Avevi ragione, Mary: tu e io saremo una bella squadra. Avranno bisogno di qualcuno che vada a pesca, perché un sacco di cibo che è stato portato qui è marcito. Credo che riuscirò ad accordarmi per avere un posto tutto per noi; ho un cervello più fino degli altri.» Mary si rendeva conto che non le stava dicendo di amarla, e che la riteneva solo una donna sana e utile, però aveva cacciato via quegli uomini e l'aveva confortata nel momento del bisogno. Quel luogo era destinato a diventare un inferno, e lei dubitava di riuscire a sopravvivere da sola. Non si aspettava una storia d'amore, e neppure ne aveva bisogno; si sarebbe accontentata di essere protetta.

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Quattro giorni dopo quella terribile notte il reverendo Johnson li sposò all'ombra del grande albero, dove aveva officiato la prima funzione. Non erano gli unici; anche altre coppie si sposavano per le loro stesse ragioni. Non disponendo di un abito per l'occasione, Mary indossava il suo solito vecchio e logoro vestito grigio, lavato di fresco, e nei capelli aveva un fiore artificiale prestatole da Cheapside Poli in un insolito slancio di generosità. Non si aspettava granché dal matrimonio, né dalla nuova terra. Nei quattro giorni successivi all'arrivo aveva notato che per la maggior parte i detenuti erano pigri e disonesti. Rubavano qualsiasi cosa, non dimostravano alcun interesse a lavorare per il bene comune, e molti si erano già messi a barattare con i fanti razioni di cibo o effetti personali in cambio di alcolici. I fanti non erano da meno, e c'era una totale mancanza di organizzazione da parte degli ufficiali e anche delle autorità che li avevano allontanati dall'Inghilterra. Will non sbagliava nell'affermare che parte del cibo era avariato. Mary aveva dovuto mangiare riso brulicante di vermi e manzo salato non più commestibile. Gli attrezzi erano di bassa qualità, i vestiti per le donne troppo scarsi, e mancavano totalmente uomini con un mestiere alle spalle. Si chiedeva come sarebbero riusciti a coltivare quella terra desolata quando su centinaia di uomini ce ne erano solo due che si intendevano di agricoltura o di allevamento del bestiame. Come si poteva costruire una città senza carpentieri o gente capace di cuocere mattoni? Era stato eretto l'alloggio per il capitano Arthur Phillip - una tenda di tela pregiata -, costruito un magazzino per tenere sottochiave le provviste, e in una zona appartata erano state montate tende con la funzione di ospedale. Gli animali che si erano portati dietro erano in cattive condizioni, e la dissenteria aveva colpito chi era già troppo provato dal viaggio. Il capitano Phillip poteva anche andare orgoglioso del fatto che a bordo erano morte in tutto solo quarantotto persone, ma quante altre se ne sarebbero andate prima della fine dell'anno?

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Una deportata di ottant'anni si era impiccata a un albero la notte stessa in cui aveva messo piede a terra; molte altre avevano ancora gli occhi pesti e l'aria impaurita. C'erano serpenti, ragni e insetti di ogni genere che potevano rivelarsi pericolosi. Quanto agli indigeni, sembrava che gli ufficiali fossero determinati a ottenerne la collaborazione, ma persino una ragazza ignorante come Mary percepiva il loro profondo risentimento nei confronti della moltitudine di bianchi che aveva deciso di cacciarli dalla loro terra. Si chiedeva in quanto tempo sarebbero passati dalla curiosità alla rabbia, per poi cominciare a uccidere. Will, comunque, era stato di parola: non solo aveva mantenuto la promessa di sposarla, ma si era anche mosso per stringere un accordo grazie al quale gli veniva affidata la pesca e otteneva il permesso di costruirsi una capanna. Mary, accanto a lui, gli lanciò un'occhiata e sorrise. Era splendido con la camicia e le brache pulite; si era anche rasato la barba cespugliosa, e i capelli biondi splendevano come granturco maturo. Lei sapeva di essere invidiata dalla maggior parte delle donne, perché Will era il più attraente e capace di tutti i detenuti. Forse avrebbe avuto un gran daffare per tenerlo legato a sé, e forse tutto quel suo vantarsi l'avrebbe stancata, però lo apprezzava molto e aveva fiducia in lui. Questo bastava. Mentre la cerimonia di nozze volgeva al termine e la gente tornava nelle tende o nelle capanne in costruzione, il tenente Tench indugiò a guardare Mary e Will allontanarsi lungo la spiaggia. Si sentiva disorientato perché nulla corrispondeva alle sue attese: il luogo, l'organizzazione, neppure gli ufficiali delle altre navi. Persino le provviste erano inadeguate. Un vero caos. Inoltre, per quello che aveva visto dei detenuti fino a quel momento, sarebbe stata una grande fatica metterli al lavoro. Da quanto poteva capire, gli ufficiali che condividevano con lui la volontà di far funzionare bene quel posto si contavano sulla punta delle dita. I suoi uomini, poi, si comportavano per la maggior parte in modo spaventoso: erano pigri e disonesti come i detenuti.

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Aveva immaginato che si sarebbe sentito più ottimista quel giorno, dopo la cerimonia. In fin dei conti, quelle nozze erano una piccola iniezione di allegria nella nuova comunità, una dimostrazione di speranza per il futuro. Invece, nel vedere quelle coppie sposate, anziché gioia aveva provato un'enorme tristezza. Sua madre piangeva sempre ai matrimoni. Era convinta che più piangeva più la coppia sarebbe stata felice. Le sue non erano lacrime di tristezza, ma di pura emozione di fronte a due persone che dichiaravano in pubblico il loro amore. Forse il senso di sconforto di Tench nasceva dalla consapevolezza che le coppie che si erano sposate quel giorno non erano innamorate. Le donne cercavano sostegno e sicurezza, gli uomini sesso. Aveva pensato che lo avrebbe rallegrato vedere Mary sotto la protezione di Will, senza però considerare che da quel momento lei sarebbe appartenuta a suo marito in ogni senso. Si voltò di scatto per avviarsi verso le baracche che fungevano da magazzini. Forse, se avesse trovato qualcosa di costruttivo da fare, avrebbe messo a tacere quei ridicoli sentimenti che si agitavano confusi dentro di lui. Mary appariva graziosa e felice, e Will era un uomo abbastanza per bene. Sembravano fatti l'uno per l'altra. «Una volta finito, sarà un bel posticino» disse Will la sera stessa sistemando le coperte sul duro pavimento di terra battuta accanto alla culla di Charlotte. Erano nella loro nuova capanna, al momento fatta di pali inchiodati insieme coperti di rami intrecciati, con una porta costituita da un telo di sacco appeso a un bastone. Il tetto non c'era ancora e, quando Mary sedette sulla coperta e guardò in alto, vide uno splendido cielo notturno, disseminato di miriadi di stelle. Avevano la pancia piena - erano state distribuite agli sposi razioni abbondanti - e Will era riuscito a trovare del rum per festeggiare. Dopo la prima notte sulla terraferma erano state stabilite alcune regole: zona delle donne interdetta a detenuti maschi e guardie

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di sorveglianza per evitare intrusioni; coprifuoco al tramonto e obbligo per tutti di rimanere nei propri alloggiamenti. In realtà non funzionò, perché gli uomini riuscivano comunque a raggiungere le donne; ma almeno lo facevano di nascosto, e le donne erano consenzienti. «C'è aria pura in abbondanza» disse Will ridendo. «E riesco anche a stare in piedi. Molto meglio di una nave puzzolente o di una tenda con soli uomini. Su, vieni a dare un bacio a tuo marito.» Mary non si fece pregare; gli era estremamente grata perché, dal momento in cui Will aveva annunciato il loro matrimonio, aveva scoperto di avere acquisito un certo status. Persino Poli e le sue pessime amiche - le tre donne più volgari che avesse mai conosciuto - mostravano una certa soggezione nei suoi confronti, perché era stata scelta dal detenuto più ambito della colonia. In quel luogo c'erano alcune belle cose: il caldo, la spiaggia di sabbia soffice e bianca, centinaia di bellissimi uccelli. Anche gli alberi avevano un profumo delizioso che riempiva le narici. Decisamente meglio di una prigione in Inghilterra. Adesso Mary aveva una casa separata dal resto dell'accampamento, e anche se non c'era ancora il tetto né un mobile, e rischiava di crollare al primo temporale, almeno era tutta loro. Per iniziare la vita matrimoniale, Will era riuscito a ottenere dal magazzino una pentola per cucinare, un secchio per l'acqua e alcuni altri utensili indispensabili. Quel giorno l'aveva già baciata parecchie volte, e sempre con molta tenerezza. Lei non si era aspettata di desiderarlo, invece lo voleva; anzi, per la prima volta da oltre un anno si sentiva veramente felice di essere dove era. «Sei proprio uno scricciolo» fece lui con voce roca mentre la aiutava a spogliarsi. Posò le mani a coppa sui suoi seni e glieli strinse; poi le fece scorrere sulle natiche e strinse anche quelle. «Un po' magra, ma io non sono mai stato per le grasse.» La sollevò tra le braccia e la distese sulle coperte. Mary era convinta che lui si sarebbe spogliato per accoppiarsi velocemente e piombare subito nel sonno e invece, con sua sorpresa, non

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fece neppure il gesto di svestirsi, e cominciò ad accarezzarla. Un giorno, sulla Charlotte, lei lo aveva sentito vantarsi con un marinaio che le donne che si portava a letto tornavano sempre a implorarlo. Mary cominciava a crederci, perché in effetti lei stessa temette in quel momento che potesse smettere all'improvviso. Con un tocco sicuro e lento, le sue dita raggiungevano punti meravigliosamente sensibili, di cui fino a quel momento aveva ignorato l'esistenza. Mentre si concedeva alla beatitudine dell'atto d'amore, dimenticò il duro pavimento sotto la coperta ruvida, quella loro bicocca incompiuta, persino le tante avversità che aveva attraversato. Quando aprì gli occhi e vide il cielo stellato sopra di sé, immaginò di essere sul letto di piume di una camera reale con il soffitto decorato di stelle. Will le fece dimenticare che non era graziosa, e che aveva pidocchi nei capelli; per una volta era bellissima, desiderabile e amata. Mai avrebbe creduto di potersi comportare come una donna lasciva e insaziabile, pronta a chiedergli di mostrarle cosa gli piaceva per poi assecondarlo tutta eccitata. Giunta all'apice, la sua mente fu attraversata unicamente dall'idea che per quelle sensazioni era valsa la pena di attraversare il mondo su una nave prigione. Senza un pensiero per il futuro, si augurò solo che quella notte durasse per sempre. «Sei contenta di avermi sposato?» le sussurrò Will più tardi, dopo avere tirato su la coperta per proteggersi dagli insetti. «Sono la donna più felice del mondo» gli rispose sottovoce, con le guance rigate di lacrime di gioia. «Vedrai che riusciamo a combinare qualcosa di buono qui» continuò lui. «Coltiviamo un piccolo orto con qualche verdura. Non patiremo mai la fame fin tanto che posso pescare, e avremo altri bambini, così Charlotte potrà giocare con qualcuno.» «Torneremo in Inghilterra dopo avere scontato la pena?» «Certo, se lo vorrai» rispose lui ridendo. «Oppure possiamo restare qui da persone libere e prenderci della terra. Tutto è possibile.» ***

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Capitolo 6. 1789. Mary, in mare con l'acqua alla vita e le mani strette alla rete da pesca come gli altri aiutanti, guardava Will nella piccola barca, in attesa del suo segnale. Era affamata, ma i morsi della fame e i conseguenti capogiri facevano ormai parte della loro vita, e dopo un intero anno a Port Jackson non riusciva neppure a ricordare cosa significasse sentirsi sazi. Molto più magra di quando era a bordo della Dunkirk, con la pelle coriacea scurita dalla costante esposizione al sole e al vento, aveva le mani indurite come quelle delle donne che pulivano il pesce a Fowey. Tuttavia, non la preoccupava il suo aspetto: la cosa più importante era mantenere in vita se stessa e Charlotte. Will diede il segnale, e tutti coloro che reggevano la rete si misero a indietreggiare verso la battigia. Mary sussultò nel vedere la rete piena di pesci guizzanti. Una fortuna del genere non si presentava tanto spesso. Nella colonia la gente rischiava di morire di fame. Le razioni erano state ulteriormente tagliate perché dall'Inghilterra non erano ancora giunti i rifornimenti. La gran parte dei viveri era avariata, e si era persa la speranza iniziale di produrre frutta e verdura sul posto. Solo con l'invio di animali da tiro, aratri, e magari contadini, si sarebbe potuto dissodare e coltivare il terreno, ma

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a questo nessuno aveva pensato. Gli animali erano stati decimati dal clima torrido e dalla mancanza di foraggio, i cereali avvizzivano nei campi e le verdure stentavano a crescere. All'inizio, la priorità era stata data alla costruzione degli alloggi prima per gli ufficiali, poi per i fanti e infine per i detenuti, ma l'edificazione procedeva con estrema lentezza a causa della mancanza di carpentieri e dell'improvvisa comparsa dello scorbuto e di dozzine di altre malattie che impedivano agli uomini di lavorare. Con il razionamento, aumentò il rischio di furti. Questo reato veniva punito con la fustigazione, ma cento frustate non riuscirono a essere un deterrente a lungo, e il capitano Phillip le portò prima a cinquecento, quindi a mille. Quando neppure queste bastarono più, decise di ricorrere all'impiccagione. Solo la settimana precedente, dalla forca appena eretta Mary e Will avevano visto pendere Thomas Barrett, di soli diciassette anni, per avere rubato dai magazzini burro, piselli secchi e maiale salato. Mary non riuscì neppure a piangere per quel ragazzo, finito in prigione a undici anni per furto, convinta che per lui fosse preferibile la morte a una vita tanto grama. «Dai, Mary, dacci dentro» le gridò Will dalla barca. Lei rise perché suo marito non le stava rimproverando di battere la fiacca; nel loro codice segreto quella incitazione significava “questa sera si mangia”. «Chissà cosa c'è da ridere» disse brusca la donna accanto a lei mentre tiravano la rete sulla spiaggia. «Al posto tuo, piangerei.» «Perché?» Mary non si fidava minimamente di Sadie Green; sapeva che dava una mano con le reti solo per sgraffignare qualche pesce. Era una delle londinesi: scurrile, smaliziata, pigra, e assai infastidita dal fatto che Mary sembrava passarsela meglio di lei. «Will ti lascerà presto» rispose Sadie, con un luccichio di malizia negli occhi color fango. «Non fa altro che dire in giro che non siete sposati per davvero.» «Ah, è così?» fece Mary in tono sarcastico. Will le aveva detto che secondo lui il loro matrimonio non era valido come un

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matrimonio celebrato in chiesa in Inghilterra, ciò nonostante la feriva che lo sbandierasse in giro, tanto da farlo arrivare alle orecchie di Sadie. Comunque lei non avrebbe lasciato trapelare i suoi sentimenti. «Ti consiglio di non aspettarlo, Sadie: potrebbe essere un'attesa lunghissima» continuò con una risatina forzata. Il viso della donna si irrigidì per la rabbia: lei riusciva ad attrarre solo i più disperati. Malgrado avesse appena ventiquattro anni, aveva il colorito grigiastro della carne putrida, e anche lo stesso odore. Non pettinava mai i radi capelli color stoppa, men che meno li lavava, e la sporcizia le era ormai penetrata nella pelle. Nella colonia non c'erano donne belle - a questo avevano provveduto il sole e l'inedia -, ma Sadie era probabilmente nata bruttina e la sua vita dissoluta aveva fatto il resto. «Cagna spocchiosa!» ringhiò, mostrando i monconi anneriti dei denti. «Cosa ti fa credere di essere meglio di noialtre? Hai una figlia bastarda, che non è di Will.» Mary esitò. La tentazione di picchiarla era forte, ma quella donna aspettava soltanto di poter dire che lei le aveva messo le mani addosso per farla punire. «Lasciami in pace, e sarà meglio per te» rispose Mary con voce stanca. «Qui è già dura abbastanza senza che ci prendiamo a botte.» Sadie la guardò in cagnesco con le mani sui fianchi. «Però per te non è dura, eh? Hai la tua bella capanna, Will ha il lavoro migliore, e ci scommetto che gli danno anche di più da mangiare. E poi il tenente Tench ti ronza sempre intorno. Scommetto che è il padre della bastarda.» Un ufficiale che si stava avvicinando per controllare il pescato evitò a Mary di risponderle per le rime. Sadie le lanciò un'occhiata minacciosa, rivolse all'uomo un ghigno beffardo e mollò la rete per allontanarsi stizzita. Un'ora dopo Mary rientrò a casa, dopo essere passata a prendere Charlotte da Anne Tomkin, la vicina che le teneva la bambina mentre lei dava una mano con le reti. La capanna era molto migliorata: il ruolo di Will aveva permesso

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loro di ottenere dalla segheria le assi per il tetto e le pareti. L'arredamento era ridotto all'essenziale: una specie di amaca legata a due sostegni di legno sgrossato con l'accetta come letto, un tavolino costituito da una plancia inchiodata su un ceppo, e due sgabelli ricavati da cassette di legno. Il pavimento era ancora di terra battuta, anche se Will intendeva ricoprirlo presto di assi. Su uno scaffale c'erano graziose conchiglie - il solo ornamento della casa -, e su un altro i pochi piatti, boccali e pentole, insieme al catino di latta per lavarsi. Per quanto primitivo, quello era un rifugio relativamente sicuro e tranquillo per Mary e sua figlia. A diciassette mesi, Charlotte era una bimba graziosa, con guanciotte rosa, riccioli neri, e braccia e gambe ben tornite. Era la ragione di vita della madre, che non avrebbe scambiato quel suo grande sorriso allegro con tutto l'oro del mondo. Tuttavia, mantenerla in salute e lontana dai pericoli in quelle terribili condizioni era una lenta tortura. Era stato relativamente facile quando Charlotte, neonata, stava in braccio e veniva allattata al seno, ma non appena cominciò a gattonare e poi camminare, Mary vide insidie ovunque. A parte quelle più evidenti - insetti, serpenti, mare e fuochi -, c'erano quelle nascoste. Chi sapeva se sotto la sabbia con cui stava giocando la bambina non fosse sepolto qualcosa che poteva prendere e ingoiare? Altre madri trascuravano i figli: permettevano loro di andare in giro, e non si mostravano minimamente preoccupate se si scottavano al sole, cadevano, o mangiavano qualcosa che li faceva vomitare. Mary, invece, non riusciva a essere come loro, e voleva avere Charlotte sempre vicina. Quando riparava le reti la teneva legata a sé con una corda intorno alla vita; quando aiutava a tirarle a riva, la affidava ad Anne in cambio di pesce e di parte delle loro razioni. Persino la sera, quando Charlotte si addormentava nel letto che occupavano in tre, Mary non si spingeva mai oltre la soglia, anche se le altre madri uscivano a trovare le amiche. Nell'attesa del rientro di Will con le razioni di cibo e probabilmente un po' di pesce, Mary riempì il catino di acqua, spogliò

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Charlotte e cominciò a lavarla. Cercava di non pensare che il suo vestitino era fatto solo di qualche cencio tenuto insieme da pochi punti, o che, essendo l'unico, doveva lavarglielo la sera per rimetterglielo il giorno successivo; e neppure voleva che le fosse ricordato che non aveva amiche da andare a trovare. In quel posto doveva accontentarsi. Sposare Will si era rivelato una scelta saggia. Lui la proteggeva dagli altri uomini, aveva costruito per loro la capanna ed era arrivato a volere bene a Charlotte come a una figlia. Mary, tuttavia, non aveva previsto che grazie alla sua capacità di pescatore sarebbe diventato tanto importante nella colonia, e che proprio questo le avrebbe creato problemi. Inizialmente, i detenuti di Londra e delle altre città erano diffidenti nei confronti del pesce e rifiutavano di mangiarlo: cosa comprensibile, visto che dove vivevano un tempo il pesce era sempre vecchio di almeno una settimana e puzzava. Tuttavia, quando le razioni furono drasticamente ridotte e morire di fame divenne un rischio reale, ogni cautela venne accantonata. Will assurse al rango di eroe perché non solo aveva fatto conoscere loro qualcosa di buono e nutriente, ma era lui stesso a procurarlo. Peraltro, mentre Will si crogiolava nel calore della loro ammirata gratitudine, Mary perdeva la salda posizione che si era guadagnata tra le donne della Charlotte. Con Mary Haydon e Catherine Fryer a versare veleno nell'orecchio delle sobillatrici delle altre navi, ben presto la maggior parte delle detenute cominciò a guardarla con sospetto. Persino Bessie e Sarah, su cui pensava di poter sempre contare, le si erano rivoltate contro. La definivano “falsa”, come se si fosse macchiata di qualche slealtà, mentre a dire il vero erano semplicemente invidiose. Mary ne comprendeva la ragione. Quasi tutte le donne dormivano in sei in capanne precarie, mentre lei disponeva di una sistemazione solida, impermeabile all'acqua, lontana dal rumore e dai disordini del campo principale. In quei primi tempi mangiava meglio di loro perché a Will era concesso tenere un po' del pesce che pescava. Non doveva neppure fare la domestica da un

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ufficiale come le altre. Inoltre, era vista come una “spia”, perché gli ufficiali parlavano con lei. Spesso Tench andava a vedere come stavano Mary e Will, e gli piaceva dare una mano nella pesca notturna. Si raccontava che persino il capitano Phillip avesse rilevato che i Bryant erano una famiglia modello, laboriosa, sobria e pulita. Nei primi tempi dell'insediamento, Mary era diventata buona amica di Jane Randall, arrivata con la Lady Penrhyn. Anche lei aveva avuto una bambina durante il viaggio, quando erano ancorati a Città del Capo. L'amicizia nacque perché Charlotte e Henrietta erano molto vicine di età, e le madri, condividendo le stesse ansie per le piccole, si davano volentieri una mano. Jane era divertente, di buon carattere e, come Mary, determinata a trarre il meglio dalla situazione. Poi, quando il capitano Phillip decise di costituire un nuovo insediamento a Norfolk Island, distante mille miglia, dove sembrava che il clima fosse migliore e la terra più fertile, alcuni detenuti, tra cui Jane, furono mandati là per ovviare in parte alla scarsità di cibo. Mary provava ancora molta nostalgia dell'amica, che non era mai stata invidiosa ma sempre contenta della fortuna che sembrava risplendere su di lei. Mary era dell'opinione che molte delle sue ex amiche avrebbero potuto essere altrettanto fortunate se solo avessero usato il cervello. All'inizio aveva cercato di convincerle di quanto fosse conveniente apparire operose. Non era difficile. Gli ufficiali ficcavano il naso solo se c'erano problemi, e a suo avviso i fanti erano per la maggior parte stupidi. Così qualsiasi donna, se si teneva pulita e ordinata e non andava in giro a caccia di uomini e alcol, si guadagnava rispetto e privilegi. Purtroppo, però, le sue vecchie amiche erano sprofondate una a una nell'apatia, e si lasciavano influenzare da alcune prepotenti che con i furti e le risse pensavano di dimostrare la loro tempra. Offrendo alcol rubato oppure ottenuto prostituendosi, reclutavano nelle loro bande un numero crescente di adepte, e niente era più al sicuro.

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Mary capiva perché Sarah fosse finita in quel modo. La notte stessa dello sbarco era stata stuprata, per poi ritrovarsi incinta. Il suo bambino era nato morto, e questa tragedia aveva fatto riaffiorare in lei il doloroso ricordo dei due figli lasciati in Inghilterra. Bere era l'unica cosa che le rendesse la vita un po' più sopportabile. La maggior parte delle altre però non aveva scuse altrettanto valide. Erano diventate delle luride sudicione che trascuravano i figli, sfruttavano le persone più deboli, e andavano con chiunque in cambio di un bicchierino di rum. Mary era per loro una specie di coscienza fastidiosa. Le sghignazzavano in faccia perché faceva il bagno in mare tutti i giorni, puliva la capanna e si teneva sempre Charlotte vicina. Tuttavia, la vera ragione del disprezzo e dell'ostilità - non aveva dubbi al riguardo - nasceva dal fatto che lei aveva l'uomo più ambito della colonia. Will piaceva sotto ogni punto di vista. Non era solo bello, alto e prestante, ma anche gentile, gioviale e con quel tanto di impertinenza da guadagnarsi la simpatia di tutti. Era anche forte e abile nei lavori manuali, quindi non stupiva che fosse tenuto in grande considerazione dal capitano Phillip come dall'ultimo dei detenuti. Tuttavia nessuno sapeva - e Mary si sarebbe ben guardata dal divulgarlo - che in realtà era un debole. Certo, sapeva leggere e scrivere, però non usava il cervello e mancava di fantasia. Lasciato a se stesso, sarebbe stato alla pari di tutti gli altri uomini, e avrebbe vissuto nello squallore ubriacandosi appena possibile e lamentandosi della cattiva sorte. Era Mary quella sveglia e determinata. Si era resa conto dell'importanza della pesca per la sopravvivenza, e l'aveva convinto a considerare le sue capacità come la carta vincente per migliorare le loro condizioni di vita. Era opera sua se Will aveva contrattato per ottenere una capanna in una buona posizione, l'uso dell'unica barca e una porzione di pesce a ogni retata. In cambio, Mary cercava di rendere la capanna accogliente in modo

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che lui ci stesse volentieri, e assecondava la sua vanità per farlo sentire importante. Purtroppo Will non ascoltò sua moglie quando fu introdotta la nuova regola in base alla quale tutto il pesce doveva finire nei magazzini. Mary voleva che lui andasse subito dal capitano Phillip, non solo per opporsi al provvedimento e insistere sul mantenimento dei propri diritti, ma anche per discutere il piano da lei studiato, e cioè costruire una barca più grande, in grado di affrontare il mare aperto per poter avere retate sufficienti a sfamare tutti. Inoltre, il pesce in eccesso poteva essere usato come fertilizzante: l'aveva visto fare al suo paese, in Cornovaglia. Will però rifiutò di andare. Se da un lato si vantava con gli amici contrabbandando per sue le idee di Mary per apparire più sveglio di loro, dall'altro evitava di rivendicare alcunché per timore di perdere la benevolenza degli ufficiali. Così si mise a rubare il pesce che gli serviva. Quando Charlotte cominciò a cercare tastoni il seno sotto il suo vestito, Mary emise un profondo sospiro. Le era rimasto poco latte, e ogni volta che le razioni venivano ridotte temeva che la piccola si ammalasse, come stava accadendo a molti altri. Ogni settimana cresceva il numero di morti tra i vecchi e i piccoli. L'ospedale era sempre più pieno, e il sentiero che portava al cimitero era talmente battuto che nessuno faceva ormai caso a un nuovo funerale. Sobbalzò per le grida e gli schiamazzi che venivano dall'esterno. Attraverso la finestra fatta di ramoscelli intrecciati al posto del vetro vide che il sole era molto basso: Will avrebbe già dovuto essere a casa. Prese in braccio Charlotte e andò alla porta. Il trambusto arrivava da lontano, dalla spiaggia vicino al campo principale. Le parve di scorgere i capelli biondi del marito, così avvolse Charlotte in un cencio e andò a vedere. Non aveva percorso più di duecento iarde quando incrociò Sarah. Il suo viso, un tempo grazioso, era emaciato. I capelli ramati

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apparivano opachi e luridi, e gli occhi azzurri spenti dall'alcol. Le mancavano due denti anteriori, persi in una rissa. Il camicione informe, ancora macchiato dal sangue del parto, rivelava dallo spacco lungo il fianco una coscia ossuta. «Hanno beccato il tuo Will a rubare» gridò. «Adesso è nei guai.» Il cuore di Mary prese a battere forte. Ovviamente era stata contenta del pesce che lui portava a casa; per nasconderlo gli aveva fatto una borsa a sacco, che Will appendeva a un gancio su un lato della barca sotto la superficie dell'acqua, e ritirava dopo che tutto il resto della pesca era stato pesato e portato nei magazzini. Sembrava un piano infallibile, però era convinta che il marito rubasse più di quanto portava a casa, e che vendesse il resto, oppure lo scambiasse con merci varie. «Il mio Will non è un ladro» replicò brusca. Non lo considerava un furto: dopotutto il pesce era di chi riusciva a pescarlo. «Secondo me il capitano Phillip non la pensa così» fece Sarah con un sorriso venato di malizia. «Dirà che ci avete derubati tutti.» Mary guardò con freddezza l'ex amica. «Will è uno dei pochi che ci procura da mangiare. Se non fosse per lui, la maggior parte di noi sarebbe troppo debole anche per comportarsi male.» La addolorava che Sarah le si fosse rivoltata contro. Non poteva dimenticare che erano state tanto amiche sulla Dunkirk, e che lei l'aveva aiutata a far nascere Charlotte durante il viaggio. Tuttavia non era mai stata un'amicizia a senso unico: Mary si era sempre preoccupata di metterle da parte del cibo, l'aveva consolata dopo lo stupro, e le aveva anche dato del pesce preso da Will. Forse però l'esperienza terrificante della violenza subita le aveva spezzato qualcosa dentro. Per tutto il tragitto verso la città, la gente continuò a chiamare Mary. Alcuni, come James Martin, Jamie Cox e Samuel Bird - gli amici più cari di Will -, le offrirono aiuto e parole di solidarietà, ma dagli altri non giunsero che commenti malevoli. Nei primi tempi, ricordò, facevano tutti fronte comune quando accadevano fatti del genere, ma la fame e le privazioni avevano cambiato la gente, che ora senza più alcun senso dell'onore era pronta a

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denunciare chiunque per un po' d'alcol o qualche cibaria, e gioiva nel veder distruggere una persona considerata privilegiata. Mary tenne la testa alta e ignorò tutti, ma un misto di paura e fame le torceva le viscere. La colonia era piccola: solo due file di semplici e squallide capanne per i detenuti, dietro alle quali c'erano costruzioni leggermente più grandi per i fanti e le loro famiglie, e i magazzini sorvegliati. Gli occhi di Mary, però, furono attirati dal patibolo; ricordava fin troppo bene l'annuncio che chiunque fosse stato colto a rubare cibarie sarebbe stato trattato con la massima severità. Watkin Tench uscì da uno dei magazzini, e Mary ne fu sorpresa perché pensava fosse a Rose Hill, un nuovo insediamento all'interno che era stato affidato alla sua direzione. Laggiù la terra era più fertile e si stava costruendo anche una nuova residenza per il governatore. «Mary!» esclamò. Sul suo viso magro e abbronzato era impressa un'espressione preoccupata. «Hai saputo, immagino.» Persino lui, che era sempre stato lindo ed elegante, ormai aveva un aspetto trascurato. Gli stivali apparivano poco lucidati, la giubba rossa era lisa e le brache macchiate. Nei suoi occhi scuri, tuttavia, c'era ancora compassione. Mary annuì. «E vero?» Lui si strinse nelle spalle. «Colto con le mani nel sacco. Temo di non poter fare molto per aiutarlo, per quanto lo desideri. Il governatore dovrà trattarlo come chiunque sia stato colto a rubare cibo.» «Non lo impiccheranno, vero?» Mary si sentiva debole, e la sua voce era ridotta a un sussurro. Tench si guardò intorno per vedere se qualcuno li stesse osservando, poi le si accostò. «Spero proprio di no» disse. «Sarebbe una follia perdere uomini capaci.» La sua prima reazione alla notizia, mentre arrivava a cavallo da Rose Hill, era stata di rabbia nei confronti di Will, che era più fortunato di qualsiasi altro prigioniero, svolgeva un lavoro che gli piaceva, godeva di privilegi e vantava una capanna decente.

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Oltre che una moglie come Mary. Tench sapeva che Will non si limitava a sottrarre pesce per sé e la famiglia, ma lo vendeva sottobanco in cambio di rum. Quell'uomo lo aveva fatto infuriare, perché non solo minava il tessuto sociale della comunità, ma ingannava anche Mary, sicuramente all'oscuro del suo attaccamento alla bottiglia. «Potrei parlare con il capitano Phillip?» chiese lei disperata. Tench non sapeva cosa dire. Certamente non aveva il coraggio di rivelarle che tipo di uomo fosse davvero Will. «E probabile che il capitano Phillip abbia già preso una decisione» disse poco dopo. Poi, leggendo il terrore nei suoi occhi, si ammorbidì. «Forse, però, se ti vedesse con Charlotte in braccio potrebbe cambiare idea.» «Vi prego, accompagnatemi da lui» implorò Mary stringendogli il braccio. «Will non merita di morire solo perché porta da mangiare alla famiglia. Non farebbe lo stesso chiunque?» Tench la guardò. Da quando aveva capito che Will era un debole, facilmente influenzabile e assai presuntuoso, si era pentito spesso di averglielo suggerito come marito. Immaginava la sua mortificazione nell'apprendere che Will ripeteva in giro che il loro matrimonio non era valido, o che, finito di scontare la pena, intendeva imbarcarsi sulla prima nave diretta a casa. Tench desiderava ardentemente togliersi Mary dalla testa, e aveva sperato di riuscirci grazie all'incarico a Rose Hill. Ora, però, di fronte all' angoscia della donna, capì che i sentimenti che nutriva per lei non si erano affatto attenuati. «Per te lo farebbe qualunque uomo» rispose posando brevemente la mano sulla sua. La casa del capitano Phillip si trovava in collina, abbastanza distante dall'insediamento. Con i suoi due piani e la veranda lungo l'intera facciata, la residenza dell'uomo più importante della nuova colonia spiccava sul resto non perché fosse grandiosa, ma per il suo aspetto di solida stabilità.

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Quasi tutte le altre costruzioni erano di argilla e legno; infatti, nonostante l'abbondanza di pietra e la presenza di una fornace per cuocere i mattoni, non si riusciva a trovare da nessuna parte la calcina per la malta. Per ottenere questo materiale Mary, come molte altre donne, era stata messa a raccogliere conchiglie, che poi doveva macinare e cuocere. Pensò che tutte quelle centinaia di secchi che aveva riempito fossero bastate appena per le fondamenta della casa di Phillip, e che sarebbero passati anni e anni prima di vedere realizzata la vera città che lui aveva in mente, con tanto di chiesa, negozi e strade pavimentate. Seguì Tench su per la collina a testa alta, ignorando gli sguardi e i commenti volgari. Will aveva sempre sostenuto che nessuno l'avrebbe mai denunciato, ma questa stupida convinzione di essere speciale era un altro dei suoi tanti difetti. Probabilmente si era vantato del pesce con qualcuno, senza considerare che quando l'invidia alza la testa, amicizia e lealtà vengono meno. Mary dovette attendere in veranda mentre Tench entrava a chiedere che le venisse concesso un colloquio con Phillip. Charlotte stava gemendo per la fame e Mary, con lo sguardo rivolto alla comunità ai piedi della collina, la cullava tra le braccia per calmarla. Durante il tragitto era calato il buio e per una volta la colonia punteggiata dalle luci dei fuochi da campo le sembrò graziosa. Intravedeva le sagome delle donne intente a cucinare; le fiamme mettevano in risalto gli alberi e diffondevano sullo sfondo un luccicante bagliore arancio sul mare. Sospirò perché, malgrado sostenesse con coloro che glielo chiedevano di voler prendere la prima nave per l'Inghilterra una volta scontata la pena, quella nuova strana terra cominciava a piacerle. Naturalmente odiava la sua funzione - quella di luogo in cui scaricare i corrotti, i disperati e i criminali di Inghilterra -, però c'erano aspetti positivi. In estate a volte il caldo era eccessivo, ma ci si poteva tuffare nel mare tiepido. Lei adorava quelle spiagge sabbiose. L'inverno non era mai rigido come in Inghilterra, e le piaceva il profumo intenso delle piante dalla

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forma bizzarra. Poi c'erano volatili meravigliosi: il volo di stormi di uccelli grigi dal ventre rosa la commuoveva fino alle lacrime. E c'erano anche i cacatua color zolfo appollaiati sugli alberi che emettevano versi rochi, simili a insulti. Gli uccelli erano di ogni colore dell'arcobaleno, tanto sgargianti da non sembrare reali. Non aveva ancora visto l'animale che Tench chiamava “canguro”, e neppure il grande uccello incapace di volare; forse erano troppo timidi per avvicinarsi alla gente, e per incontrarli bisognava spingersi nell'interno. Tuttavia, che preferisse o meno il suo luogo natio, Mary era realista. La fame in Inghilterra era esattamente la stessa, solo che era meglio avere fame senza freddo, piuttosto che patire fame e freddo. A meno di un miracolo, in Inghilterra sarebbe riuscita a fare al massimo la serva. Qui c'erano varie possibilità: una volta libera, avrebbe potuto chiedere un po' di terra, e la sfida di far nascere qualcosa dal niente la attirava. Di notte immaginava spesso di allevare qualche animale, coltivare frutta e verdura e sedere la sera sotto il portico con Charlotte e Will a guardare la loro proprietà. Will l'aveva sempre derisa per i suoi progetti; lui voleva vivere in un villaggio di pescatori con una taverna nella piazza, ma lei replicava sempre che avrebbe potuto costruire la sua taverna ovunque. «Adesso puoi entrare, Mary» disse dolcemente Tench alle sue spalle. «Devo avvertirti che il capitano Phillip è molto arrabbiato e deluso. Non credo che riuscirai a smuoverlo dalla decisione di impiccare Will.» Mary sapeva che Tench avrebbe fatto del suo meglio per lei e Will, perché aveva mantenuto la sua natura gentile nonostante le asprezze della vita in quel luogo, pressoché identiche per ufficiali e detenuti. Per lui provava ancora un profondo desiderio, che il matrimonio con Will non aveva sopito. In un anno aveva visto soccombere alla tentazione molti ufficiali che un tempo non si sarebbero mai abbassati a portarsi a letto una reclusa. Sapeva in cuor suo che, se Tench avesse mostrato qualche cedimento, avrebbe fatto di tutto per stare con lui malgrado fosse sposata.

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Tuttavia qualcosa le diceva che Tench non avrebbe mai ceduto, anche se teneva molto a lei: glielo leggeva negli occhi ogni volta che passava dalla loro capanna, quando la cercava in un gruppo di donne o coccolava teneramente Charlotte. Il solo fatto di essere importante per lui era già un aiuto, un pensiero da accarezzare la notte, un motivo per tenersi pulita e ordinata, una ragione in più per rimanere viva. Le infuse anche il coraggio di affrontare il capitano Phillip, e mentre entrava nella casa con passo deciso, riaffiorò quella vena di spavalderia che le aveva impedito di piangere nel sentire la propria condanna a morte. Non aveva intenzione di guardare Will pendere dalla forca, fintanto che lei aveva vita. Quando entrò nella stanza, trovò il capitano Arthur Phillip seduto alla scrivania con una penna in mano. «Vi ringrazio per avere acconsentito di vedermi» cominciò, e fece un piccola riverenza. Nella comunità girava voce che l'interno della casa di Phillip fosse sontuoso, zeppo di mobili pregiati e argenteria; invece Mary notò sorpresa che non reggeva il confronto neppure con l'abitazione del parroco di Fowey. Phillip disponeva di una scrivania, della sedia su cui sedeva e di un paio di poltrone accanto al caminetto; a parte una cornice d'argento con il ritratto di una signora, certamente la moglie, non c'era quasi nient'altro, neanche un tappeto a coprire le nude assi del pavimento. Neppure il capitano Phillip - sui cinquant'anni, basso ed esile, completamente calvo alla sommità della testa - era appariscente. I suoi occhi scuri, tuttavia, erano bellissimi, e Mary pensò che portava bene l'uniforme della Marina. «Immagino tu sia venuta a perorare la causa di tuo marito» esordì freddamente. «No, sono venuta a perorare la causa di tutta la colonia» replicò Mary senza esitazione. «Perché se impiccate Will, di sicuro moriremo tutti, voi compreso.» Il capitano spalancò gli occhi scuri, sbalordito da una simile affermazione.

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«Senza il pesce che ci procura moriremo di fame» continuò Mary mentre cullava energicamente Charlotte tra le braccia perché non piangesse. «Nessuno è in gamba come lui. Se non gli aveste impedito di portare a casa qualche pesce, questo non sarebbe successo.» «Non si poteva fare in altro modo, era una situazione di emergenza» ribatté brusco Phillip, irritato che lei osasse mettere in discussione i suoi ordini. «E tuo marito non si limitava a prenderne qualcuno. Faceva affari; barattava i pesci con provviste rubate nei magazzini; e più si ruba là dentro meno rimane per la colonia. È un reato molto grave.» Mary lanciò un'occhiata al ritratto della moglie. «Voi non fareste lo stesso se la vostra famiglia rischiasse di morire?» «No» rispose deciso. «Le provviste sono razionate equamente. Io ho tanto quanto voi.» Mary ne dubitava, ma non osò dirlo. «Insomma, cosa si guadagna a impiccare Will? Io rimango sola a tirare su questa bambina, chi ruba nei magazzini continua a farlo, e tutti noi patiremo ancora di più la fame.» Phillip la guardò, notando che era una stracciona come tutte le detenute, però era pulita. Anche i piedi scalzi apparivano solo impolverati, non luridi come quelli delle altre. Il tenente Tench gli aveva parlato spesso di lei: sosteneva che era intelligente e schietta, e che sulla Charlotte aveva avuto una buona influenza sulle altre. Nessuno si era mai lamentato del suo comportamento, anzi lui stesso aveva sottolineato che i Bryant erano detenuti modello. «Adesso vai» disse. «Sarà processato domani. Stanotte rimarrà in guardina.» Mary si avviò alla porta, ma prima di uscire si voltò a fissarlo con uno sguardo penetrante sollevando la bambina verso di lui. Phillip lesse nei suoi occhi paura e disperazione. «Vi prego, signore» implorò. «Guardate mia figlia. Adesso è sana e bella, ma senza Will potrebbe non esserlo più. Io mi assicurerò che mio marito righi dritto da ora in avanti. Vi prego, per amore di Dio e di questa piccola, risparmiatelo!»

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Poi se ne andò, sgusciando nella notte come un gatto. Phillip rimase alla scrivania profondamente assorto nei suoi pensieri. Quella donna aveva ragione. Impiccare Bryant significava far avvicinare ancora di più lo spettro della fame. «Maledetti quegli idioti in Inghilterra» brontolò. «Dove sono i rifornimenti che abbiamo chiesto? Come possono aspettarsi che io renda la colonia autosufficiente quando non mi hanno dato le attrezzature indispensabili né uomini con adeguate capacità?» Ogni aspetto di questo esperimento era per lui fonte di profonda preoccupazione: il suolo sterile, le scorte che si assottigliavano rapidamente, gli indigeni e il comportamento dei detenuti. Era prevedibile che quest'ultimi non avrebbero fatto nulla per risollevarsi. Per la maggior parte erano di città, più a loro agio con il boccale di birra che con l'aratro, e del tutto privi di principi morali: dozzine di donne avevano partorito o aspettavano un figlio, e non si facevano scrupoli a passare da un uomo all'altro. Invece di lavorare preferivano starsene con le mani in mano a chiacchierare; invece di coltivare la verdura preferivano rubarla. In un certo senso Phillip li capiva - dopotutto erano stati spediti in quel posto per una buona ragione -, mentre invece era molto deluso dagli indigeni. Aveva pensato che, trattati in maniera gentile e amichevole, i nativi si sarebbero comportati allo stesso modo. Purtroppo, non era stato così, e molti detenuti che lavoravano lontano dal campo erano stati brutalmente assassinati. Ciò nonostante continuava a cercare di comunicare con quella gente per scoprire dove fossero i grandi fiumi e la terra fertile, per conoscere gli animali e gli uccelli del luogo, ma tutti i suoi sforzi non approdavano a nulla. Al primo anniversario della colonia, Phillip era in verità molto preoccupato. Aveva l'insediamento di Sydney Cove, quello di Norfolk Island, e ora anche quello di Rose Hill, però i deportati mostravano poca inclinazione a riabilitarsi, i fanti non facevano che brontolare, e la situazione con gli indigeni sembrava peggiorare anziché migliorare. Senza rifornimenti di cibo e medicinali,

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il numero dei morti sarebbe ulteriormente aumentato. Per l'ansia non riusciva quasi a dormire la notte, e non riusciva neppure a immaginare una soluzione positiva. Mary si morse le nocche mentre in guardina il giudice Collins si alzava per annunciare la condanna di Will. Come previsto, qualcuno aveva fatto la spia; lei pensò a Joseph Pagett, che era stato sulla Dunkirk e sulla Charlotte, e durante il viaggio aveva ceduto a qualche moto di invidia. Rammentò anche lo sguardo minaccioso che aveva rivolto a Will il giorno del loro matrimonio. Charles White, il medico di bordo della Charlotte, aveva perorato la causa di Will; tuttavia Mary era certa che l'avrebbero impiccato. Sapeva che ne era convinto anche Will, perché appariva bianco come un cencio e si mordeva il labbro sforzandosi di non tremare. «Ti condanno a cento frustate» annunciò Collins. «A non essere più il responsabile della pesca e della barca, e all'allontanamento tuo e della tua famiglia dalla capanna che attualmente occupate.» Will lanciò un'occhiata a Mary; il suo viso rivelava un certo sollievo, ma anche ansia per come lei avrebbe preso la perdita della capanna. Mary non ci pensò affatto in quel momento. Anche se era contenta che lui non venisse impiccato e cento frustate, paragonate alle punizioni cui aveva assistito, erano una condanna lieve, la fustigazione era sempre terribile, e lei provò un senso di nausea. «Portatelo via per la punizione» ordinò Collins. Tutti i detenuti, persino i bambini, si radunarono per assistere alla fustigazione di Will. Presero posto a semicerchio davanti al grande triangolo di legno, presidiato ai lati da due tamburini. La

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giornata era molto calda e, di fronte al triangolo, il fante incaricato di somministrare le frustate era già in maniche di camicia e si asciugava il sudore dalla fronte con il dorso della mano. Con l'altra reggeva il gatto a nove code con i fili incatramati pieni di nodi. I due tamburini cominciarono a suonare, e Will fu condotto all'interno del cerchio. Le guardie gli tolsero la camicia e gli legarono i polsi alle estremità superiori del triangolo. Per un attimo il silenzio fu totale: neppure un sussurro da parte di un amico preoccupato, né un pianto di bambino. Erano tutti concentrati sull'orrore dello spettacolo cui stavano per assistere. La pena comminata fu nuovamente annunciata, e uno dei fanti che lo aveva portato fuori dalla guardina diede il segnale. «Uno» contò. Mary aveva assistito a trenta o più fustigazioni di donne e uomini, e ogni volta era inorridita, anche quando pensava che la vittima meritasse la punizione. Ad alcuni venivano somministrate mille frustate, cinquecento il primo giorno e il resto non appena si rimarginavano le ferite sulla schiena. Qualcuno moriva prima di arrivare a metà, e chi sopravviveva si sarebbe portato le cicatrici addosso per il resto della vita. A Mary venne da vomitare prima ancora che il fante sollevasse il braccio. Aveva accarezzato quell'ampia schiena abbronzata, conosceva nei minimi particolari ogni vertebra di quella spina dorsale. Alla prima frustata, Will non sussultò neppure, anzi cercò di sorriderle come a rassicurarla che non provava dolore. Ma già quel primo colpo gli aveva lasciato un segno rosso, e il suo sorriso, benché spavaldo, non la trasse in inganno. Il ritmo delle frustate era lento - mezzo minuto tra una e l'altra - e all'ottava cominciò a uscire sangue. Will non riuscì più a sorridere; a ogni sferzata, mentre il corpo sobbalzava, si mordeva le labbra per non urlare. Andò avanti così, con le mosche che puntavano sul sangue che gli sgorgava lungo la schiena come acqua da un colabrodo. Alla venticinquesima sferzata, Will si aggrappò al triangolo con il bel viso distorto dal dolore. Mary, con la testa di Charlotte premuta

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contro il petto, chiudeva gli occhi a ogni rullo di tamburo. Però udiva il sibilo della frusta che fendeva l'aria ferma e il rumore degli stivali del fante che girava velocemente su se stesso per imprimere più forza a ogni colpo. Sentiva anche l'odore del sangue di Will e l'avido brusio delle mosche. Il tutto durò più di un'ora, e molti dei presenti furono sul punto di svenire a causa del sole rovente. Dopo cinquanta sferzate Will aveva perso sensibilità, e la pelle lacerata rivelava il bianco dei legamenti. Con i polsi legati al triangolo, pendeva con le gambe flosce come quelle di un ubriaco. Mary si mise a piangere, colma di odio per quel sistema, che ordinava punizioni tanto brutali, e di disprezzo per quei fanti che spesso avevano parlato e scherzato con Will e ora erano i suoi aguzzini. Alla fine terminò il rullo dei tamburi e con esso il conteggio delle sferzate. Will, slegato dal triangolo, si accasciò al suolo. Le brache e gli stivali erano inzuppati di sangue e le formiche stavano già trascinando via piccoli frammenti della sua carne. Mary corse da lui, implorando che qualcuno portasse pezzuole e acqua salata per lavargli la schiena. Con la bambina ancora in braccio si accovacciò accanto al marito privo di sensi e con il volto contratto dal dolore. «Vuoi darmi Charlotte?» chiese una voce familiare. Mary alzò lo sguardo e si stupì nel vedere Sarah munita di pezzuole e secchio d'acqua. Il suo viso sporco era rigato di lacrime, e sembrava che le sofferenze di Will e l'angoscia di Mary le avessero rammentato la loro vecchia amicizia. «Grazie, Sarah!» Mary le porse con gratitudine la piccola. Prima di tutto lavò il viso di Will, poi alzò di nuovo lo sguardo su Sarah. «Dovrei portarlo via dal sole, ma non so dove andare adesso che ci hanno confiscato la capanna.» Sarah si chinò e le batté sulla spalla. «Lo portiamo da me. Aspetta, vado a chiedere aiuto a qualcuno.» Mentre Sarah si allontanava con Charlotte in braccio, Mary si sporse verso il marito e avvicinò le labbra alle sue orecchie. «Will, riesci a sentirmi?» sussurrò.

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Lui non rispose, ma le palpebre ebbero un lieve fremito. «Ti giuro che scapperemo da qui» continuò lei, mentre l'odio verso il capitano Phillip e gli altri responsabili le montava dentro. «Troveremo il modo, vedrai. Non permetterò che questo accada di nuovo.» Più tardi, quel giorno, mentre era accosciata di fianco a Will nella piccola capanna, intenta a lavargli la schiena, ripensò al giuramento fatto a se stessa molto tempo prima. Dal suo arrivo non aveva mai più pensato alla fuga, e ora le sembrava incredibile avere cominciato ad accettare - e addirittura apprezzare - quel posto spaventoso. A quel punto, però, le risultava intollerabile. Doveva in qualche modo portare via da lì Will e Charlotte, e al più presto. ***

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Capitolo 7. Mary, spostati» sibilò Sarah al buio. «Non sei mica con Will.» Mary accennò un sorriso; avrebbe voluto essere a casa loro, a letto con lui, ma per quanto fosse disagevole condividere una capanna con altre cinque donne, oltre a Charlotte, era molto grata a Sarah e alle sue amiche per averla accolta. Nei momenti di cinismo attribuiva quel gesto gentile al fatto che era tornata al loro livello, ma in genere preferiva credere che Sarah fosse rimasta talmente sbigottita di fronte alla fustigazione di Will da ritrovare la compassione e la generosità di un tempo. Will stava in un'altra capanna con James, Samuel e Jamie; Mary non aveva avuto molte occasioni di vederlo dal giorno delle frustate, perché già il mattino successivo era stato mandato a lavorare nella fornace di mattoni. La schiena non gli era ancora guarita, e lei si sentiva ribollire di rabbia di fronte a quella ulteriore crudeltà di assegnare a un lavoro manuale tanto duro un uomo martoriato. Il primo giorno che era passata a trovarlo aveva pianto nel vederlo trascinarsi con la camicia inzuppata di sangue e il volto distorto da una smorfia di dolore. Will era entrato in mare per una nuotata nella speranza di accelerare la guarigione, ma non riusciva quasi a muovere le braccia, e il suo viso era tanto pallido che pareva di nuovo sul punto di svenire. Le ferite non riuscivano a rimarginarsi per il continuo chinarsi

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e sollevare pesi, e si erano infettate per la sporcizia e la polvere. Era segnato per sempre, nella carne e nello spirito. A Mary sembrò di essere finita in una galleria buia, senza un barlume di luce alla fine: separata dal marito e privata della capanna, con razioni ulteriormente ridotte, circondata da un numero di ammalati e di morti che cresceva di settimana in settimana. Una volta tutti erano soliti sospendere il lavoro per partecipare ai funerali, ma ora non più, altrimenti non si sarebbe mai portato a termine nulla. La morte era un evento ordinario, al pari di un furto o di un incidente. Quando girava la voce che Jack, Bill o Kate erano morti, l'unico vero interesse era sapere a chi sarebbero toccati i loro effetti personali. Sempre che non fossero già stati rubati prima che l'uomo o la donna spirasse. La morte di un bambino incontrava ancora più indifferenza: per tutti, tranne che per la madre, era solo una bocca in meno da sfamare. Il giorno successivo alla fustigazione di Will, Mary era stata messa a fare il bucato. Lavare le divise di ufficiali e fanti non era particolarmente faticoso, ma bisognava essere sempre vigili, e questo la estenuava. Le camicie erano merce ricercata, e a lasciarle incustodite si rischiava che venissero rubate. Se ne mancava una, era sempre chi l'aveva avuta in consegna a essere punita, anche se non ne veniva trovata in possesso. L'unica cosa che la spingeva a tirare avanti era l'idea di fuggire. Le riempiva la mente dall'alba al tramonto, distraendola dalla fame, dai funerali e dagli atti di depravazione. Quattro donne si erano date alla macchia per poi essere presto catturate; altri fuggiaschi erano stati uccisi dagli indigeni o erano morti per l'impossibilità di trovare cibo e acqua; in alcuni casi venne in seguito ritrovato il loro corpo. Molti altri erano tornati indietro con la coda tra le gambe per finire nuovamente in catene. Da Tench, che aveva esplorato varie zone, Mary aveva saputo che all'interno non c'erano mete degne di interesse, solo miglia e miglia di arida boscaglia. Tempo prima, alcuni detenuti avevano rubato una barca, ma non essendo marinai si erano rovesciati ed erano stati ben presto ripescati.

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Lei però aveva familiarità con le barche e la navigazione a vela. Sapeva che erano necessari un sestante, una grande quantità di viveri e carte nautiche, ma soprattutto serviva sapere dove fosse il luogo abitato più vicino, e bisognava trovare una barca in grado di tenere il mare. Aveva esposto tutto questo a Will alcuni giorni prima, ma lui le aveva riso in faccia. «Una barca, un sestante e le carte nautiche! Perché non chiedi anche la luna, tesoro?» Lei era perfettamente consapevole delle difficoltà insite nel suo piano, ma dissentiva sull'impossibilità di realizzarlo solo perché nessun altro aveva osato pensarci. Sapeva che il capitano Phillip e i suoi ufficiali avevano cercato di comunicare con gli indigeni senza alcun risultato, mentre i suoi tentativi in quella direzione erano stati coronati dal successo. Il merito, a suo avviso, era di Charlotte: gli indigeni, se erano rimasti intimiditi dagli uomini in divisa, non avevano avuto paura di una bambina piccola, mezza nuda come una delle loro. Mary si era incamminata lungo la spiaggia e, raggiunta un'altra insenatura per raccogliere legna da ardere, si era accorta di essere osservata da un gruppo di indigene con i loro bambini. Dopo essersi messa seduta con Charlotte in grembo, aveva cominciato a cantarle qualche canzoncina. Con immensa gioia aveva sentito una voce unirsi al canto, una voce di bambina. Si era voltata con un sorriso e la piccola si era avvicinata. Mary fece la stessa cosa per tre giorni consecutivi, e al quarto la bambina si accovacciò accanto a lei. La madre osservava un po' in disparte. In breve tempo altri bambini si unirono a loro e dopo qualche giorno tutti conoscevano le parole delle sue canzoni. Mary mostrò alle indigene alcune foglie di “tè dolce”, la pianta simile alla vite da cui i deportati ricavavano una bevanda. Era ciò che più si avvicinava a un rimedio universale: sembrava alleviare i crampi della fame, rasserenare e rinvigorire; le si attribuiva il potere di tenere lontani disturbi come la dissenteria, perché chi non beveva altro sembrava esserne meno colpito. I deportati avevano utilizzato tutte le piante più vicine al campo,

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e Mary sperava che le indigene le indicassero dove trovarne altre. E così fu. Le fecero strada a passo tanto spedito che dovette mettersi a correre per non perderle di vista, quindi la aiutarono persino a raccogliere le foglie. In genere, i reclusi odiavano gli indigeni, in parte perché erano persone libere mentre loro non potevano sottrarsi ai lavori forzati, ma, soprattutto, perché li ritenevano esseri inferiori. Abituati a essere considerati gli infimi degli infimi, pensavano di avere finalmente trovato qualcuno più in basso di loro. Gli ufficiali però coprivano quei selvaggi di doni, e pretendevano che fossero trattati con riguardo, mentre con i deportati si comportavano con crudeltà, senza alcuna concessione ai loro bisogni, suscitando così grande risentimento. Mary non aveva mai provato diffidenza verso gli indigeni, anche se li trovava tutt'altro che belli. I loro bambini, con il corpo spalmato di puzzolente olio di pesce, il naso largo e schiacciato e il moccio perennemente annidato sopra le grosse labbra, le parevano brutti come il peccato. Tuttavia, era abbastanza perspicace da pensare che loro giudicassero brutti i bianchi. E in più quella era la loro terra, alla quale erano perfettamente adattati. Il suo interesse nei loro confronti era stato alimentato dall'entusiasmo di Tench, convinto che l'unico modo per insediarsi in questo nuovo paese fosse imparare a comprenderne gli abitanti. A Mary, però, importava capirli non per insediarsi, ma per farsi assistere nella fuga. Persistette nel proposito di conquistarne la fiducia, e non fu difficile: le bastò mostrare interesse verso i loro bambini e sorridere con calore. Pronunciava il suo nome, e loro facevano altrettanto. Le toccavano la pelle e i capelli, e ridendo premevano le braccia nere contro le sue per sottolinearne la differenza. Disegnò nella sabbia rozze immagini di animali del luogo, e i bambini li chiamarono con il loro nome. Disegnò una barca, poi una lunghissima linea ondulata per far capire che i bianchi erano arrivati da molto lontano. Avrebbe voluto disegnare la differenza tra la sua terra natia e la loro, ma era troppo difficile. Si chiese

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se avessero una qualche idea della natura della colonia e del significato della parola “detenuto”. Come aveva fatto notare Tench, quegli indigeni, prima dell'arrivo dell'uomo bianco, non avrebbero neppure compreso il concetto di furto. Non erano avidi, e lasciavano in giro attrezzi, canoe e altri oggetti. I bianchi ne approfittavano per impadronirsene, e di qui nasceva molta della loro ostilità; chi poteva biasimarli, dunque, se reagivano con violenza? Giorno dopo giorno, Mary continuò ad accattivarsi il piccolo gruppo di indigeni. Avevano un aspetto sano e ben nutrito, e benché sapesse che la loro dieta era costituita sostanzialmente da pesce, che pescavano dalle canoe, immaginò la integrassero con altri alimenti; ma cosa, visto che non coltivavano né allevavano alcunché? Saperlo sarebbe stato utile per la sua fuga. Rimase allibita quando le donne le mostrarono larve e insetti estratti da tronconi di alberi marcescenti. L'idea di mangiarli le procurò il voltastomaco, tuttavia ne assaggiò coraggiosamente uno e scoprì che non era poi disgustoso come aveva immaginato. La pioggia fitta le impedì per una settimana di andare a parlare con loro, e quando infine si avventurò nella solita insenatura non trovò nessuno. Ne fu turbata perché, malgrado sapesse che non si radicavano su un territorio e andavano in giro seguendo l'umore, sapeva anche che quello era uno dei loro posti preferiti per la pesca. Si spinse più avanti del solito, finché un brusio di insetti e il volteggiare di uccelli sopra la sua testa non la fecero arrestare. Scorse qualcosa vicino ai cespugli in fondo alla spiaggia, e si rese conto inorridita che era il corpo inanimato di un indigeno coperto da uno sciame di formiche. Prese in braccio Charlotte e corse verso il campo il più veloce possibile. Stava ancora correndo quando incrociò Tench. Doveva essere tornato da Rose Hill la notte precedente. Lui le rivolse un caldo sorriso. «Sei piuttosto di fretta» disse. «Qualcosa non va?» «C'è un cadavere nell'altra insenatura» sbottò. «Un tuo conoscente?» domandò lui in tono scherzoso.

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Mary non riuscì a ridere, perché temeva che il corpo appartenesse a uno dei suoi amici. «Credo sia un indigeno, ma non lo so per certo perché non mi sono avvicinata abbastanza. Di sicuro non lasciano i loro morti in giro senza sepoltura, no?» «Non penso» fece lui con aria preoccupata. «Speriamo sia morto per cause naturali, non per un'aggressione della nostra gente: abbiamo già abbastanza guai senza metterci anche questo. Comunque vado subito a vedere.» Dopo averle raccomandato di non spingersi più così distante dal campo, si allontanò. Passarono alcuni giorni prima che lei potesse parlargli di nuovo. Lo aveva soltanto scorto nel porto mentre usciva in barca con un gruppo di fanti il giorno dopo la scoperta del cadavere; forse era diretto all'osservatorio su uno dei due promontori che chiudevano la baia. Mentre usciva dal magazzino con le razioni per lei e Charlotte, lo vide scendere dalla casa del capitano Phillip. Le parve molto teso e preoccupato. «Cos'è successo?» gli chiese, mentre lui si avvicinava. «Non gli avete portato un regalo?» Questo era un gioco che facevano da tempo. Inizialmente, quando Tench passava a trovare lei e Will, arrivava spesso con qualcosa da mangiare in dono. Non era mai granché, magari un uovo per Charlotte o un po' di verdura, ma con il peggiorare dei tempi lui non poté portare più niente, e ogni volta si scusava imbarazzato. Mary lo prendeva in giro dicendogli che a mani vuote non poteva aspettarsi una buona accoglienza. Tench le rivolse solo il fantasma di un sorriso. «Il capitano non ha preso bene la notizia che gli ho dato. In giro per la baia ci sono dozzine di indigeni agonizzanti o morti, proprio come quello che hai visto tu.» D'istinto, Mary strinse forte Charlotte. Tench vide la sua paura e le posò una mano sulla spalla. «Non preoccuparti. Il dottor White non ha visto casi del genere qui. Deve essere qualcosa che colpisce solo loro. Comunque stai alla

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larga, per non correre rischi. Il capitano Phillip manderà qualcuno a vedere se si può fare o scoprire qualcosa.» Dire a Mary di non preoccuparsi equivaleva a chiedere al sole di non splendere. Era terrorizzata che quella malattia si diffondesse nella colonia e uccidesse Charlotte; tutto il suo essere le imponeva di fuggire in quel momento, con qualsiasi mezzo. Solo alcuni giorni prima, la Supply - la nave più piccola della flotta originaria - era tornata da Norfolk Island con la notizia che ventisei dei ventinove deportati sull'isola avevano escogitato un piano per fuggire con la nave dopo avere convinto con l'inganno l'equipaggio a sbarcare. Se da un lato questo significava che l'idea di Mary era realizzabile, dall'altro significava anche che da quel momento in poi le misure di sicurezza sarebbero state più severe e le punizioni per ogni trasgressione più dure che mai. La conferma arrivò alcuni giorni dopo, quando sei fanti furono impiccati per avere rubato nei magazzini. Pareva lo facessero da mesi; chi di loro era di guardia permetteva ai complici di introdursi nel magazzino con duplicati di chiavi. I detenuti furono per la maggior parte felici che il capitano Phillip riservasse ai propri uomini le stesse punizioni. Per Mary, invece, questo denunciava il panico del governatore, evidentemente consapevole che i viveri non sarebbero durati fino all'arrivo di altre navi dall'Inghilterra. Come al solito, quando veniva inflitta una punizione tutti dovevano assistere. Nell'osservare la corda intorno al collo di ogni condannato e nell'udire il rumore dell'asse che gli tiravano via da sotto i piedi lasciandolo penzolare nel vuoto, Mary si sentì disperata e impaurita come mai in vita sua. In quel posto, secondo lei, non c'era nulla di buono: le guardie erano corrotte, le donne venivano punite con trenta frustate per una rissa, e tutti morivano lentamente di fame. Aveva la sensazione di essere intrappolata nell'inferno, in compagnia di alcune centinaia di pazzi. Tuttavia in aprile le cose per Will e Mary sembrarono migliorare un poco perché, per ovviare alla carenza di cibo, il capitano

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Phillip fu costretto a riammettere Will alla pesca, benché sotto sorveglianza. Mary sorrise cupa tra sé: dunque aveva avuto ragione nel sostenere che era impossibile fare a meno di suo marito. Infatti le retate erano state scarse senza una persona esperta come lui e, malgrado lo irritasse essere guardato a vista, Will si era per lo meno dimostrato indispensabile. Inoltre aveva riavuto indietro la capanna per sé e la famiglia. Quale che fosse l'epidemia che aveva ucciso metà della popolazione indigena della baia, non si diffuse comunque nella colonia. Morì soltanto un bianco, un marinaio della Supply. Il dottor White propendeva per l'ipotesi che si trattasse di vaiolo, ma come fosse arrivato là era un mistero. Se lo avessero portato loro con le navi si sarebbe manifestato molto tempo prima. Poi, all'inizio di maggio, lo sconforto dell'intera colonia fu per qualche tempo mitigato dall'arrivo della Sirius da Città del Capo. Il suo carico consisteva più che altro di farina e non di alimenti sostanziosi come la carne, però portò la bella notizia che altre navi di approvvigionamenti erano già in viaggio, e con esse la posta a lungo attesa dai fortunati che avevano amici e familiari in grado di scrivere. Tuttavia la vista della nave ancorata nella baia sembrava provocare un brutto effetto su Will. Più di una volta Mary notò che rimaneva a fissarla prima di andare a pesca. Se cercava di affrontare l'argomento, lui le rispondeva in modo sgarbato; inoltre quando non era al lavoro non stava con lei e Charlotte come un tempo. Un giorno, nel primo pomeriggio, mentre riportava il bucato pulito negli alloggiamenti degli ufficiali dopo avere lasciato Charlotte a giocare con un altro bambino, Mary sentì la voce tonante di Will provenire dalla capanna di James Martin. Pensò fossero riusciti a procurarsi un po' di rum da qualche parte. Aveva opinioni contrastanti su James, il ladro di cavalli irlandese. Era stata una grande gioia rivederlo, e anche rivedere Sam Bird, perché le amicizie nate sulla Dunkirk erano state la base per formare tra loro una specie di famiglia. James, molto spiritoso,

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affascinante e intelligente, aveva la parlantina sciolta e sapeva leggere e scrivere; ma quando c'erano di mezzo la bottiglia o le donne diventava una bestia. Mary lo riteneva il genere di persona che con il fascino e la furbizia riesce quasi sempre a farla franca mentre lascia gli altri nei guai. Non aveva vincoli di lealtà con nessuno - James Martin pensava soprattutto a se stesso - e secondo lei esercitava una brutta influenza su Will. Di natura non era una ficcanaso, ma suo marito la preoccupava quando beveva perché diventava arrogante e spesso rissoso. Inoltre, voleva scoprire come lui e James si fossero procurati da bere; voleva sapere subito se lo aveva fatto Will barattando pesce rubato. In giro non c'era nessuno, così strisciò dietro la capanna. Se fosse arrivato qualcuno avrebbe accampato la scusa che era appena uscita dai cespugli dopo essersi liberata l'intestino. James stava parlando di uomini che andavano a caccia di indigene. Sosteneva che chi faceva una cosa del genere non aveva la testa a posto. «Per me corri meno rischi che con qualche baldracca impestata di qui» commentò Will con una sonora risata. «Ecco perché mi sono preso Mary: sapevo che era sana.» Mary era incerta se considerarlo un complimento; quella frase suonava ambigua. «È una donna in gamba» fece James con un tocco di biasimo nella voce. «Sei un uomo davvero fortunato, Will, per molti versi.» «Sarò ancora più fortunato una volta lontano da questo posto maledetto. Appena finisco di scontare la pena, mi imbarco sulla prima nave.» «Non aspetti Mary?» chiese James in tono leggermente malizioso, e a lei venne il sospetto che non stessero bevendo insieme, ma che Will fosse andato a trovare l'amico dopo avere bevuto altrove. «No, maledizione, no» sbottò Will. «Primo, nessuna nave mi

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prenderebbe a bordo con una donna e un bambino; secondo, io me la cavo meglio senza di lei.» A Mary parve di ricevere un pugno nello stomaco. Un conto era dire in giro che non si considerava sposato legalmente, un altro che riusciva a cavarsela meglio senza di lei. Si voltò e corse via, sforzandosi di non piangere. Quella sera Will non passò da casa prima di andare a pescare, così Mary mise un po' di riso sul fuoco, e per una volta non fece quasi caso ai vermi che affioravano in superficie man mano che l'acqua si scaldava. Non c'era niente da metterci dentro, visto che avevano già consumato la scarsa razione di maiale salato nel corso della settimana. Lei comunque non aveva appetito, cucinava solo per Charlotte. L'intenzione di Will di abbandonarla l'aveva resa tanto infelice da farla sentire priva di forze. Charlotte era seduta davanti al fuoco, come sempre quando il cibo cuoceva, con i suoi occhi scuri incollati alla pentola. Questa era un'ulteriore angoscia per Mary, perché una piccola porzione di riso era ben lungi dal far crescere un bambino in salute. In sua figlia scorgeva già i segni rivelatori della malnutrizione che aveva osservato in Cornovaglia nei bambini di famiglie in miseria: ventre gonfio, guance scavate, occhi e capelli spenti. Se Will la lasciava per tornarsene a casa, la sua fuga sarebbe stata pressoché impossibile. Magari lei era in grado di organizzarla, procurarsi l'attrezzatura necessaria e governare una barca, ma era Will a saper navigare. In tutto il convoglio non c'era uomo in grado di prendere il suo posto. La prospettiva di essere lasciata sola in quel luogo la terrorizzava. Avrebbe perso la capanna, le donne l'avrebbero derisa e gli uomini molestata. Non sarebbe stata in grado di tenere Charlotte al riparo dalla malvagità che regnava intorno a loro. Il massimo che poteva sperare era diventare una “moglie galeotta”, l'amante di un fante o di un ufficiale, il che sarebbe durato solo finché anche lui non fosse tornato in Inghilterra come gli altri. Quella sera le sue emozioni variarono dalla disperazione alla paura e alla rabbia, ma quando Charlotte, divorato il cibo, si

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voltò insonnolita verso il suo petto, lei aveva già elaborato un piano. Sulla Dunkirk aveva deciso a freddo di diventare l'amante di un ufficiale per sopravvivere; ora avrebbe sfruttato le scarse risorse che le restavano. Will rientrò poco prima dell'alba infreddolito fin dentro le ossa e bagnato fradicio perché la sera precedente, intorno alle dieci, aveva cominciato a piovere e a fare molto freddo. Inoltre era esausto e in preda ai morsi della fame dopo avere faticato tutta la notte per pescare soltanto una dozzina di pesci. Gli era già capitato mille volte, lì come in Cornovaglia, ma ciò che soprattutto lo deprimeva era l'atteggiamento dei due fanti che lo sorvegliavano. «Bastardi» sibilò, quindi sputò rumorosamente nella sabbia. Se non fosse stato per il timore di altre frustate li avrebbe scaraventati in mare con un pugno. Come osavano sostenere che la scarsezza di pesce dipendeva dalla sua incapacità? E che lui era ubriaco quando era salito a bordo? Aveva bevuto qualche bicchierino di rum, ma questo non gli aveva certo annebbiato la mente. Il fatto era che nella baia non c'erano pesci, e se loro fossero stati attrezzati per uscire in mare aperto, oltre i promontori, come voleva fare lui, ne avrebbero presi a migliaia. Mentre si avvicinava alla capanna rimase molto sorpreso nel vedere Mary china sul fuoco. «Come mai il fuoco? Charlotte sta male?» chiese raggiungendola. «No, dorme. Ho pensato che saresti arrivato intirizzito e affamato, così ti ho preparato un po' di colazione.» Will si rianimò subito. Si era aspettato di trovarla immusonita perché era uscito in mare senza prima passare da lei. Se poi avesse anche scoperto che aveva comprato del rum al posto del cibo per tutti loro, si sarebbe arrabbiata ancora di più. «Colazione?» ripeté incredulo. Mary gli toccò la camicia fradicia. «Toglila e stendila ad asciugare»

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disse, con un'espressione dolce e premurosa. «Avvolgiti nella coperta e scaldati. Ho potuto solo friggerti un pezzo di pane; non sono riuscita a trovare altro.» Cinque minuti dopo, seduto su uno sgabello sulla soglia della capanna con una tazza di tè dolce in una mano e un grosso pezzo di pane fritto nell'altra, Will si sentì molto meglio. I primi raggi di sole illuminavano il cielo, e la baia con un velo di foschia a pelo d'acqua gli parve incantevole. Era il suo momento preferito, con gli uccelli che al risveglio cominciavano a cantare, e le brutture del campo non ancora visibili. Benché fosse inverno, il clima era mite come in una mattina di primavera in Inghilterra. In effetti, guardando la Sirius avvolta dalla foschia sullo sfondo grigioverde della baia, riusciva anche a ingannare se stesso e illudersi di essere nel porto di Falmouth con lo sguardo rivolto verso St Mawes. La Cornovaglia gli mancava davvero moltissimo: le tortuose stradine di acciottolato, le case strette l'una all'altra, la luce accecante d'estate, il camino acceso nella taverna nelle sere d'inverno. Sorrise al pensiero dei rischi che si correvano con il contrabbando. La forza impressa ai remi contro le onde alte come case, lo sguardo attento alle lanterne sulle scogliere che dovevano segnalare l'arrivo delle guardie daziarie: era un gioco d'azzardo con una posta alta, cui osava partecipare solo chi era veloce, forte e dotato di sangue freddo. E se avevano fatto bene la loro parte, i vincitori - pescatori, minatori e contadini - tracannavano bicchieri di brandy francese, al pari del signorotto locale. Le ragazze erano molto graziose, con le guance rosee, il grande seno e il sorriso dolce e timido. Mary era come loro quando l'aveva vista la prima volta sulla Dunkirk attraverso la griglia. Adesso, magra come un chiodo, appariva smunta e sorrideva di rado. Tuttavia si era alzata per accendere il fuoco e friggergli del pane. Si manteneva pulita e non andava dietro ad altri uomini. «Un penny per i tuoi pensieri!» Mary lo fece sobbalzare arrivando alle sue spalle per cingergli il collo con le braccia.

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«Non lo valgono, un penny!» ridacchiò lui. «Te li dico gratis. Stavo pensando alla Cornovaglia, al contrabbando e alle taverne.» Lei lo baciò sul collo. «Vuoi sapere quello che penso io?» «Certo.» «Adesso noi due andiamo a letto, e io ti scaldo per bene.» Will sorrise; la proposta lo allettava. Prima della fustigazione non facevano spesso l'amore a causa della fame e della spossatezza; poi, da quel giorno, avevano smesso del tutto. La schiena dilaniata, il lavoro alla fornace e ulteriori riduzioni delle razioni gli avevano tolto ogni ardore. «E proprio una bella idea, amore mio» fece lui voltandosi a darle un bacio. «È passato decisamente troppo tempo.» Più tardi, quel giorno, Mary sorrise tra sé mentre lavava i panni in riva al mare. Aveva quasi dimenticato quanto Will sapesse farla sentire speciale. Era valsa la pena di alzarsi così presto; aveva anche dimenticato i morsi della fame. All'inizio di settembre Mary si accorse di essere incinta. Questo la rese euforica, non perché avesse raggiunto l'obiettivo di impedire a Will di lasciarla, ma perché lui era sinceramente contento di diventare padre. Eppure, come spesso accadeva nella colonia, sembrava che ogni momento felice venisse cancellato da un evento negativo. Questa volta si trattò di un fante che aveva violentato una bambina di otto anni, fatto che portò all'attenzione di Mary la vulnerabilità di Charlotte. Fino a quel momento non aveva quasi pensato a come sarebbe stato il futuro della figlia, presa com'era dalla preoccupazione di tenerla in vita. Quando però il fante invece di essere impiccato fu tradotto a Norfolk Island, lei pianse di rabbia.

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Will cercò di consolarla. «Non prendertela in questo modo, Mary. Laggiù, lui sarà fuori dai piedi.» «Ma anche là ci sono bambine, compresa Henrietta, la figlia di Jane. Mi spieghi perché si viene fustigati per un'insolenza, e invece fare del male a una bambina non è considerato un vero crimine?» Will scosse la testa. «Non lo so, e non capisco neppure perché continuino a mandare due uomini a sorvegliarmi mentre pesco. Se non ci fossero, uscirei dalla baia e pescherei molto di più.» Mary era livida di rabbia. «Dobbiamo ripensare alla fuga.» «Come si fa, con un bambino in viaggio?» replicò lui allungandole qualche colpetto affettuoso sul ventre. «E proprio per questo piccolino. Non vuoi qualcosa di meglio per lui?» A novembre nella colonia si diffuse la notizia che il tenente Bradley e il capitano Keltie della Sìrius avevano catturato due indigeni su istruzione del capitano Phillip. I due prigionieri si chiamavano Bennelong e Colbee, e si scoprì che non avevano moglie né figli. L'ufficiale responsabile della cattura, il tenente Bradley, mandò a chiamare il ragazzino indigeno orfano che era stato adottato dal dottor White, perché spiegasse ai due che nessuno avrebbe fatto loro del male. Mary assistette sbalordita a tutta la vicenda. Aveva sempre pensato che rapire una persona contro la sua volontà significava farle del male, ed era anche sicura che i due indigeni si sarebbero allarmati ancora di più nel vedersi lavati e sbarbati a forza, coperti con abiti, e messi in catene perché non potessero fuggire. Alcuni giorni dopo, circolò la notizia che si erano liberati; Colbee se l'era svignata, mentre Bennelong era stato riacciuffato. La maggior parte dei detenuti trovò la cosa molto divertente. Consideravano Bennelong non una persona dotata di sentimenti, bensì un animale da mettere in gabbia. Mary era disgustata: c'era qualcosa in quell'uomo nero, alto e ben piantato, che la commuoveva.

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Immaginò come dovesse sentirsi confuso nello strano mondo in cui era stato trascinato. La sua gente non conosceva confini; la casa consisteva nel riparo temporaneo di una grotta o di un humpy di fango e corteccia. Nella sua tribù non c'erano re o principi, e tutti erano uguali; quindi, come avrebbe potuto capire la divisione in classi dell'uomo bianco, o la sua brama di ricchezza, potere, possesso? Mary lo vide in una posizione molto simile alla sua, e pensò che avrebbero dovuto allearsi. Se fosse riuscita a mostrargli un modo per trarre vantaggio dalla prigionia, in cambio lui avrebbe forse accettato di aiutarla a fuggire con Will. Le settimane passavano lentamente, e alla fine di ognuna Mary si sentiva più disperata. Le donne incinte non avevano diritto a razioni più abbondanti, come sulla Charlotte, e lei era tanto affamata che spesso andava in cerca di larve e insetti come aveva imparato dalle indigene. A dicembre e gennaio fece un caldo torrido; si svegliava all'alba sotto un sole che picchiava implacabile sul tetto della capanna per continuare inclemente fino al tramonto. Solo il rapporto che stava creando con Bennelong le infondeva un barlume di speranza. Con parole apprese dai piccoli indigeni con cui aveva fatto amicizia, riuscì a spiegargli che se avesse collaborato con il capitano Phillip poteva diventare importante per l'uomo bianco, e inoltre gli avrebbero tolto le catene. Bennelong parve comprendere il suo discorso, e in un'occasione le mostrò con un grande sorriso la mezza bottiglia di rum che gli avevano dato. Sembrava felice di stare nell'insediamento fin tanto che l'alcol era a portata di mano. Mary sapeva che era prematuro immaginare di contare sul suo aiuto per un piano di fuga, oltretutto inattuabile dato il suo avanzato stato di gravidanza. Inoltre non c'era neppure la possibilità di accantonare cibarie, e comunque nel porto non si vedevano navi. Sia la Sirius che la Supply erano salpate per Norfolk

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Island con un carico di novantasei detenuti di sesso maschile e venticinque di sesso femminile, oltre a venticinque bambini, allo scopo di far durare un po' più a lungo le scorte di viveri. Poi la Sirius avrebbe proseguito per la Cina alla disperata ricerca degli approvvigionamenti necessari. Erano salpati dall'Inghilterra con provviste sufficienti per due anni, e ora il tempo era scaduto. Nonostante il buon raccolto di grano nella fattoria di Rose Hill, le razioni, ulteriormente ridotte, sarebbero bastate solo qualche mese. Chiunque, a partire dal capitano Phillip fino all'ultimo dei deportati, attendeva impaziente l'arrivo di una nave con altre provviste. La gente si trascinava quotidianamente fino a Dawes Point, da cui si poteva vedere l'asta della bandiera sul promontorio sud all'imboccatura della baia. Se la bandiera era ammainata significava che stava arrivando una nave, ma giorno dopo giorno le loro speranze venivano immancabilmente deluse. Il timore di morire di fame era adesso reale; lo si leggeva negli occhi spenti, nelle guance scavate, e nella lentezza dei movimenti di tutti i detenuti. Ora che molti del gruppo originario erano stati trasferiti a Norfolk Island e moltissimi altri erano morti in quei due anni, Sydney Cove appariva una colonia fantasma; le capanne vuote erano state assegnate a persone che in precedenza coabitavano con altri. A seguito di un'ulteriore riduzione delle razioni, nessuno aveva forze sufficienti per lavorare una giornata intera. Fu emanato l'ordine di lavorare solo fino a mezzogiorno; al pomeriggio ognuno poteva dedicarsi al proprio orto. Alla fine, dissero a Will che poteva pescare senza le guardie perché non c'erano più uomini da destinare al controllo della pesca. Mary entrò in travaglio il 30 marzo al calare della sera. All'inizio scambiò le doglie per crampi di fame. Will era a pesca, e pioveva tanto forte che il terreno si era trasformato in un mare scivoloso di fango rosso. Mise a letto Charlotte e si sdraiò accanto a lei, ma i fortissimi dolori le impedivano di dormire. Rimase tutta la notte con gli occhi spalancati nel buio ad ascoltare l'incessante gocciolio dell'acqua che filtrava dal tetto. A un

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certo punto si accorse che il bambino stava arrivando, ma era troppo debole per alzarsi dal letto e trascinarsi nel fango e nella pioggia in cerca di aiuto. Per la prima volta in vita sua si augurò di morire. Era sfinita dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza, e sentiva di non essere in grado di far fronte ai bisogni che un neonato le avrebbe scaricato sulle spalle. Neppure Charlotte, che si lamentava debolmente nel sonno, le smuoveva la coscienza. Mary sperava che, ignorandoli, i tentativi del bambino di venire al mondo sarebbero svaniti, e lei con loro. Tuttavia, appena chiuse gli occhi, decisa ad avviarsi nella nera valle della morte, rivide con la mente il volto della madre. Si era sforzata in ogni modo di dimenticare i genitori e la sorella. Da tempo aveva rinunciato a rammentarne il viso e il suono della voce, e a chiedersi se parlavano mai di lei. Si era anche imposta di non pensare alla Cornovaglia e di non confrontarla con quel posto. Però il volto le apparve nitido come se la madre fosse di fronte a lei nella piena luce del giorno: gli occhi grigi colmi di ansia, la bocca serrata in segno di disapprovazione, le ciocche di capelli grigi sfuggite alla cuffia di lino. Mary ricordava molto bene la sua espressione quando la rimproverava per il suo comportamento da maschiaccio. Rammentò quanto si mostrasse forte di fronte alle figlie: non faceva mai trapelare la sua preoccupazione ogni qual volta la nave del padre tardava a rientrare. In qualche modo era sempre riuscita a mettere cibo in tavola e a tenere acceso il fuoco. Mary ebbe l'impressione che stesse cercando di inviarle un messaggio: doveva lottare per la vita, per il bene dei suoi figli. Si alzò dal letto con grande difficoltà, e cercò tastoni nel buio un telo di sacco da avvolgere intorno alle spalle, quindi uscì nella pioggia. La capanna più vicina distava solo venti iarde, ma i dolori lancinanti non le consentivano di reggersi in piedi. Strisciò nel fango carponi, disperata, in cerca di aiuto.

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La prima luce dell'alba entrò attraverso la porta aperta della capanna, mentre il bambino di Mary riusciva finalmente a scivolare nelle mani non troppo sicure di Anne Tomkin. «E un maschio!» esclamò Anne con un tono più stanco che felice, mentre avvicinava il bambino alla porta per esaminarlo. «E sembra anche in salute.» Il piccolo lo confermò con un grido arrabbiato e poderoso. Mary suggerì ad Anne di avvolgerlo in un telo, legare il cordone ombelicale e tagliarlo. La donna non aveva figli e suo marito Wilfred, che era andato a cercare l'aiuto di una persona più esperta, non era ancora tornato. Mary, non appena prese il piccolo tra le braccia, dimenticò il dolore, la fame e persino il proprio corpo coperto di sangue e fango rappreso. Dio le aveva dato il maschio che desiderava e le aveva risparmiato la vita, e ciò induceva a sperare in tempi migliori. «Lo chiamerò Emmanuel» mormorò a se stessa. ***

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Capitolo 8. E una meraviglia!» esclamò Will con ammirazione cullando il figlioletto tra le braccia. Appena rientrato a casa dopo essere stato a pesca tutta la notte, benché bagnato, infreddolito ed esausto, era impazzito dalla gioia nello scoprire che Mary gli aveva dato un figlio. «E ci ha portato fortuna! Ho un cefalo bello grosso tutto per noi.» Mary gli lanciò un'occhiata preoccupata, ma lui sorrise. «Tutto regolare. Me l'hanno dato per via del bambino. Adesso le cose si metteranno meglio per noi, sono sicuro.» Mary, rassicurata, sorrise. Fin dall'inizio Will era sempre stato affettuoso con Charlotte, ma ora, mentre contemplava il proprio figlio, scoppiava di felicità. «Ti piace Emmanuel come nome?» chiese lei. «Bellissimo.» Will guardò ancora il figlio con tenerezza, e poi Mary. «È un nome che dà speranza, e farò in modo che lui impari anche a scriverlo.» Quella fu una giornata meravigliosa per Mary. Aveva smesso di piovere ed era uscito il sole, così Will la portò al mare per lavarla. C'erano stati molti momenti dolci tra loro in passato, ma mai tanta premura e tenerezza. La fece accomodare su un giaciglio improvvisato sotto l'albero della gomma nei pressi della capanna, sistemò Emmanuel nella vecchia culla di Charlotte, poi cucinò il cefalo sul fuoco con un paio di patate che era riuscito a

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rimediare. Dopo mangiato, per darle modo di dormire, fece con Charlotte una passeggiata dal dottor White per annunciargli la nascita del piccolo. Nonostante il piacere dello stomaco pieno, lei non si addormentò. Will non era tipo da parole d'amore, ma le aveva rivelato i suoi sentimenti attraverso le azioni. A volte, durante la gravidanza, si era sentita in colpa per averlo incastrato, ma ora non più perché lo vedeva davvero felice per quel figlio tutto suo. Adesso erano una famiglia completa, e qualsiasi cosa riservasse loro la vita, l'avrebbero affrontata insieme. Più tardi, nel pomeriggio, Tench passò a trovarli. «Ho sentito che è nato il bambino» disse abbassando lo sguardo su Mary che cullava Emmanuel sotto l'albero. «Grazie a Dio state bene entrambi.» «Non è il bambino più bello del mondo?» domandò Will, mentre faceva saltare Charlotte sul ginocchio. «Io non ne ho mai visto uno più gagliardo.» Tench rise e si chinò ad accarezzare la testa del piccolo. «Ti somiglia, Will: stessi capelli biondi e corporatura robusta. Vedi di prenderti cura di lui.» «Anche di me» intervenne Charlotte risentita. Scoppiarono tutti a ridere perché lei aveva capito benissimo che da quel giorno il suo posto rischiava di essere usurpato. «Mi prenderò sempre cura di te» disse Will lanciandola in aria. «Tu sei la mia piccola principessa.» «Non dare troppa importanza a chi dice che Will ti abbandonerà una volta scontata la pena» disse Tench a Mary dopo che il marito si era allontanato per andare a vantarsi del figlio con gli amici. «Secondo me, non avrà mai il coraggio di lasciarti.» Mary non si sorprese che Tench avesse sentito circolare quella voce. Là non ci si fermava di fronte a nulla pur di spettegolare. Si chiese cosa avrebbe pensato se avesse saputo che il bambino era il suo piano segreto per tenersi stretto Will. «Non bado a quello che dice la gente» fece lei in tono deciso, perché quel giorno si sentiva così felice che nient'altro le importava.

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«Quando Will sarà libero, potrete presentare domanda per avere della terra.» Mary sorrise. «Cosa ce ne facciamo? Noi non siamo contadini. A Will basta pescare.» «Allora potrebbe costruirsi una barca e avviare un'attività in proprio con la pesca. Magari potreste aprire la prima bottega di pescivendolo del Nuovo Galles del Sud!» «Chissà.» Mary avrebbe voluto credere come lui che un giorno sarebbe sorta una vera città. Tench sembrava convinto che, superati i problemi iniziali, quel paese avrebbe attratto nuovi coloni liberi per coltivare e commerciare, proprio com'era accaduto in America. «E magari domani arriva una nave carica di animali, aratri, semenze, alberi da frutto, cibo per tutti; e anche medicine e stoffa per abiti nuovi!» continuò lei con un tono non privo di sarcasmo. «Le navi arriveranno presto» la rassicurò lui come sempre, ma questa volta con scarsa convinzione. «Non posso credere che l'Inghilterra ci lasci morire qui.» Emmanuel fu battezzato qualche giorno dopo, il 4 aprile, sotto lo stesso grande albero dove si erano sposati i suoi genitori. Come avveniva sempre in occasioni del genere, erano tutti presenti. Per il matrimonio Mary si era considerata vestita poveramente, ma quell'abito grigio, da un pezzo finito in brandelli e trasformato in pannolini per Charlotte, era stato rimpiazzato dal “camicione” di ordinanza, una specie di sacco informe di cotone grezzo, già quasi altrettanto logoro. La moglie di un fante, più gentile di altre, le aveva regalato un nastro rosso per i capelli e un pezzo di cotonina per confezionare una veste a Emmanuel, che altrimenti sarebbe stato avvolto in un cencio. Nel guardarsi intorno, Mary notò quanto si era ridotta l'intera comunità dal giorno dell'arrivo. Allora erano quasi tutti sani, con gli occhi splendenti di eccitazione e malizia e, anche

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quando protestavano, non mancavano di vivacità e speranza. Con voce possente discutevano, litigavano e ridevano, spingendosi e strattonandosi come bambini impazienti. Mary ricordava di avere pensato una volta che non avrebbe mai potuto imparare tanti nomi. Ora invece era facile chiamare ciascuno di loro. La morte ne aveva falcidiati tantissimi, e a decine erano stati trasferiti a Norfolk Island: rimanevano quindi in meno di centocinquanta. Era cresciuto solo il numero di bambini e neonati, che costituivano una visione penosa con gli enormi occhi tristi in volti scarni ed esangui, gambe e braccia esili come bastoncini. La maggior parte di loro si succhiava il dito per la fame. Ormai nessuno aveva occhi splendenti, neppure gli ufficiali. Niente più strattoni, spinte, o voci alte: solo visi apatici ed emaciati, invecchiati precocemente dal sole e dalla malnutrizione. Anche la risata era un suono raro, perché chi riusciva a mettere le mani sull'alcol non cercava allegria ma un rifugio nell'oblio. Persino i colori vivaci dei vestiti ostentati il giorno dell'arrivo erano scomparsi perché da tempo ogni indumento si era trasformato in un cencio grigio. Mary pensò che erano diventati tutti come quella terra selvaggia, smorti e inariditi al pari della boscaglia con i radi alberi della gomma verdastri, striminziti e senza speranza come gli ortaggi che avevano tentato di coltivare. Le sarebbe piaciuto prendersela con gli ufficiali, ma anche loro apparivano macilenti ed esausti. Ancora più pena le facevano i fanti con le loro famiglie, perché avevano le stesse razioni dei detenuti, le divise ridotte a stracci e morivano con la stessa frequenza. Il giorno successivo, di mattina presto, Watkin Tench si recò a Dawes Point per controllare l'asta della bandiera, sul promontorio sud. Non aveva dormito bene perché molto turbato dal battesimo di Emmanuel Bryant, il giorno precedente. Se da un lato era bello vedere la gioia di Mary e Will per il loro piccolo - un puntino

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luminoso in un periodo peraltro disperatamente cupo -, dall'altro immaginava il dolore straziante di Mary se il bambino non fosse sopravvissuto. Tench avrebbe voluto non tenere tanto a lei. Si era detto mille volte che provava solo amicizia, ma in realtà gli bastava vederla per sentire crescere il sentimento che lo legava a quella donna. La sua vicinanza gli dava il batticuore. Avvertiva un senso di impotenza di fronte al suo grande bisogno di cibo e abiti decenti, ma lei era orgogliosa, non elemosinava favori, e si comportava come se le sue privazioni non avessero importanza. Dal poco che aveva riusciva a trarre il meglio. Tench aveva sperato che, com'era accaduto ad altri, le frustate indurissero Will al punto da renderlo un ribelle, e che per questo Mary cessasse di essergli fedele; a quanto pareva, invece, avevano sortito l'effetto opposto, e il piccolo Emmanuel ne era la prova. Se solo avesse potuto smettere di inseguire il futile sogno di portarsi via Mary alla fine del suo servizio in quel posto! Gli avrebbero riso in faccia se avesse confidato a qualcuno la fantasia di cercare una casetta ben lontana da Plymouth, e di raccontare ad amici e parenti in Inghilterra che lei era la vedova di un fante di stanza nella colonia. Eppure il suo sogno era sempre lo stesso, cioè quello di una Mary ben nutrita e rifiorita che tutte le notti giaceva tra le sue braccia in un letto di piume. Ogni volta che la sua immaginazione lo portava fino a quel punto, si eccitava all'idea di baciarle i piccoli seni che spesso aveva intravisto mentre lei allattava Charlotte. Si destò all'improvviso dalle sue fantasticherie quando vide l'asta con la bandiera ammainata. Significava che una nave era ancorata nell'insenatura o era stata individuata al largo. Euforico, corse all'osservatorio e puntò sull'asta della bandiera il telescopio che vi era installato. Scorse una sola persona che camminava ai piedi di questa, e deluso capì che la nave non poteva venire dall'Inghilterra, altrimenti ci sarebbe stato più movimento. Probabilmente era la Sirius che rientrava da Norfolk Island prima di salpare per la Cina.

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Si precipitò a informare il capitano Phillip e, quando il governatore disse che sarebbe andato incontro alla nave con il proprio cutter, Tench gli chiese il permesso di accompagnarlo: sarebbe stato un diversivo rispetto all'abituale routine e al pensiero fisso di Mary. A metà strada tra i due promontori videro venire verso di loro una scialuppa della Supply. Watkin Tench avvertì un tuffo al cuore nel riconoscere il capitano Ball che gesticolava freneticamente. «Signore,» disse voltandosi verso Phillip «preparatevi a brutte notizie.» Will corse veloce come una lepre lungo la spiaggia per raggiungere Mary, intenta a lavare i panni. Nel sentire i suoi passi pesanti lei sollevò lo sguardo dal lavoro. «Cosa c'è?» gridò ansiosa, con la vana speranza che lui stesse per annunciarle l'arrivo di una nave carica di provviste. «La Sirius è naufragata.» Will impiegò qualche attimo a riprendere fiato e spiegare cosa aveva sentito dire al porto. La Sirius aveva appena calato le scialuppe cariche di viveri a Norfolk Island, nella baia di Sydney, quando era stata trasportata su una secca dalla corrente. Il capitano Hunter aveva tentato di evitare il disastro calando l'ancora, ma troppo tardi. La catena non si era ancora tesa che la nave era già finita contro la barriera corallina parallela alla spiaggia. Mentre il mare irrompeva nelle stive, l'equipaggio aveva tagliato gli alberi in modo che lo scafo alleggerito potesse disincagliarsi, ma ormai con ben poche aspettative. «Hanno mandato delle barche per portare a terra gli uomini» ansimò Will. «Hanno lavorato fino a quando non si vedeva più per il buio; almeno, così ho sentito. Domani mattina portano via gli altri.» Mary ne fu sconvolta. Perdere la Sirius era un colpo mortale per la colonia. Come sarebbero arrivate le provviste dalla Cina?

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«Sono tutti salvi?» chiese. A bordo c'erano alcune donne e bambini ai quali era affezionata. Will annuì. «Dio ha avuto un po' di misericordia» disse con un grande sorriso divertito. «I detenuti che sono stati mandati sulla nave a scaricare gli ultimi animali hanno trovato del grog, così hanno acceso qualche falò e organizzato una festa.» «Oh, Will» sospirò Mary. «C'è poco da ridere!» «Invece bisogna ridere, altrimenti crolliamo tutti» replicò irritato. «E c'è un'altra storia divertente. Un detenuto è finito in mare e ha fatto cadere dalla zattera anche il tenente Clark. Siccome non sapeva nuotare, Clark l'ha soccorso e l'ha portato sano e salvo a riva, ma poi l'ha bastonato per avergli fatto rischiare la vita.» Mary ridacchiò; c'era da aspettarselo dal tenente Ralph Clark, un tipo che a lei non era mai piaciuto. Ipocrita e meschino, aveva passato la maggior parte del primo anno a dare della puttana a tutte le detenute e a tessere gli elogi di sua moglie Betsy, rimasta in Inghilterra, annoiando a morte Tench e gli altri ufficiali. Poi però, dopo tutti quei discorsi, aveva avuto la faccia tosta di prendersi una moglie galeotta e chiamare Betsy, come l'adorata moglie, la bambina nata dalla loro unione. Era stato mandato a Norfolk Island ad assumere il comando della colonia, e a Mary non sarebbe dispiaciuto più di tanto se avesse incontrato difficoltà. «E adesso, che rie sarà di noi?» chiese a Will. «La Sirius era l'unica possibilità di procurarsi altri rifornimenti.» Lui aggrottò la fronte. «Phillip ha convocato per le sei tutti gli ufficiali per una riunione urgente.» Mary sapeva da Tench che Phillip non si confidava mai con nessuno e manteneva il riserbo a tutti i costi; quindi doveva essere molto angosciato se convocava i suoi uomini. Sospirò avvilita. «Andiamo incontro a tempi ancora più grami, poco ma sicuro. Comunque, cerchiamo di vedere l'aspetto positivo, Will. Se una nave non arriva presto dall'Inghilterra, Phillip dovrà fare sempre più affidamento su quello che peschi tu. È

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ora che tu gli chieda di nuovo di poter tenere per te qualche pesce. Soltanto grazie alle tue capacità si riuscirà a sopravvivere in questo posto.» In effetti il capitano Phillip, di fronte agli ufficiali radunati alle sei in punto, era molto angosciato. Aveva atteso a lungo l'arrivo di una nave dall'Inghilterra per risolvere i problemi della colonia, ma ora doveva affrontare la realtà e assumere altre misure drastiche per non assistere a una morte di massa a causa dell'inedia. «Si renderà necessaria un'ulteriore riduzione delle razioni» cominciò con voce leggermente incrinata, perché sapeva che una razione quotidiana di due libbre e mezzo di farina, due libbre di maiale molto vecchio, una pinta di piselli secchi e una libbra di riso immangiabile non erano certo sufficienti a garantire la sopravvivenza di sette persone. «Se non vogliamo morire di fame, dobbiamo integrare con più pesce e carne. Il mio piano è requisire tutte le barche private e usarle per la pesca, e creare squadre per battute di caccia.» Gli ufficiali si scambiarono occhiate costernate, comprendendo che ci si aspettava da loro che offrissero spontaneamente i propri servigi. A eccezione di Tench, tutti consideravano spiacevole il ruolo di sorvegliante, perché non amavano lavorare con i deportati. «State proponendo di armare alcuni detenuti?» chiese uno degli ufficiali più anziani con un'espressione inorridita sul volto florido. «Sì» rispose stancamente Phillip. «Alcuni sono bravi tiratori. Sono convinto che se concediamo loro fiducia, si prodigheranno per il bene comune.» Proseguì dicendo che non poteva fare altro che inviare la Supply a Batavia, nelle Indie orientali olandesi, dove il capitano Ball avrebbe noleggiato un'altra nave per poi riportarla alla colonia carica di rifornimenti. Sarebbe partito anche Philip King, il precedente governatore di Norfolk Island, per proseguire per l'Inghilterra con i dispacci e il rapporto del capitano Phillip sullo stato della colonia.

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Questo preoccupò persino di più gli ufficiali, perché la Supply era una piccola imbarcazione di sole centosettanta tonnellate e avrebbe rischiato molto a viaggiare da sola in acque inesplorate. Inoltre, se fosse andata persa, non sarebbero rimaste altre navi per portare rifornimenti all'insediamento di Norfolk Island. Si sollevò un mormorio di dissenso che Phillip spense con uno sguardo severo. «Non abbiamo scelta» tagliò corto. «Comunque, a questo punto non ci sono rifornimenti da portare a Norfolk Island, e sarebbe disastroso lasciare una nave ancorata in porto in attesa di aiuti dall'Inghilterra che potrebbero non arrivare mai. Chiedo a tutti voi di sostenermi.» Dopo la partenza della Supply in aprile, nella colonia regnò la paura. Gli ufficiali, in ansia per la sicurezza della piccola nave, divennero aggressivi; le truppe, ora che la potenza di fuoco era tanto ridotta, paventavano un attacco degli indigeni; infine, i detenuti erano terrorizzati per tutto. Prima che la Supply salpasse era circolata la voce che si sarebbero imbarcati anche gli ufficiali e i fanti lasciando i deportati a terra a cavarsela per conto loro. Sapevano tutti che da soli non avrebbero resistito a lungo. Benché a caccia fossero stati mandati i tiratori migliori, il loro bottino non andò oltre tre piccolissimi canguri. Con il dispiego di un numero maggiore di barche e uomini, e l'assoluta necessità di pescare di più, le retate furono per un po' più consistenti, ma poi ripresero a ridursi. Gli ufficiali si ripresero le loro piccole barche, e allora il capitano Phillip, nella più completa disperazione, permise a Will di usare il suo cutter personale. Mary non era il tipo da lasciarsi sfuggire un'opportunità del genere senza tentare di sfruttarla. Una sera, a letto, esortò il marito. «Potrebbe essere la nostra grande occasione. Potremmo fuggire con quella barca.»

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«Non dire sciocchezze» fece lui stancamente. Indebolito dalla fame e logorato dalla tensione di dover portare a casa cibo sufficiente per tutti, non era disposto ad ascoltare le idee folli della moglie. «Non dico subito» spiegò lei mentre si metteva seduta per poi chinarsi a baciarlo. «Senza strumenti, carte nautiche o scorte di cibo sarebbe impossibile. Però tu puoi cominciare a guadagnarti la fiducia del governatore. Ogni volta che esci con la sua barca, vai un po' più al largo, però torna sempre indietro. Lui già si fida di te, ma pensa quanto più si fiderebbe se gli facessi credere di stare al suo gioco!» «E allora?» fece lui irritato. «Anche se arrivassi ad avere da parte sua una tale fiducia da non essere più sorvegliato, non saprei che rotta prendere per trovare un porto.» «L'altro giorno Tench mi parlava delle Indie orientali olandesi. C'è un porto molto trafficato che si chiama Kupang. Ha detto che si trova nel mare dalla parte opposta di questa terra.» Will fece una specie di sghignazzata. «Nel mare dalla parte opposta di questa terra!» esclamò, con sarcasmo. «Che razza di indicazioni sono? Lo sa quante leghe dista? C'è già stato qualcuno? Non dire scemenze, ragazza!» Mary si lasciò cadere all'indietro, irritata dalla sua ironia. «Non lo so ancora, ma lo scoprirò» annunciò con cupa determinazione. «Dobbiamo scappare, Will: se non lo facciamo, Emmanuel e Charlotte moriranno.» Lui le voltò le spalle con aria di sufficienza. «No, Mary, non moriranno. Il cibo arriverà, vedrai.» «Può darsi.» Mary fece scorrere il dito sui segni profondi delle frustate sulla sua schiena. «Magari i nostri figli avranno anche la fortuna di sopravvivere alle febbri, ai morsi dei serpenti, e alla depravazione degli altri detenuti. Speriamo però che nessuno di noi due viva tanto a lungo da dover assistere alla fustigazione di Emmanuel legato al triangolo.» Sentì Will irrigidirsi sotto le dita. Sapeva che quei colpi di frusta erano ancora un incubo per lui. «Ucciderei chiunque si azzardasse a fargli una cosa del genere.»

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«Allora sarai troppo debole,» replicò lei con dolcezza «invecchiato prima del tempo a furia di lottare per la sopravvivenza. E anch'io. Ecco perché dobbiamo andarcene presto, finché siamo ancora in grado di proteggere i bambini.» Will emise un lungo sospiro. «Ci penserò.» «E mentre ci pensi, fai quello che ho detto per conquistarti la fiducia del governatore. Una volta ottenuta, siamo già a metà strada.» Will si addormentò, ma Mary rimase sveglia a lungo. Lei era sempre all'erta, ascoltava e osservava, mentre suo marito andava in giro con le orecchie e gli occhi chiusi. Se Will credeva che nei magazzini vi fossero scorte per molti mesi, Mary sapeva che non era così. Quando andavano a pranzo dal capitano Phillip, gli ufficiali negli ultimi tempi dovevano portarsi il pane, e il vitto alla residenza del governatore era di poco migliore che a casa sua. Una sera avevano addirittura mangiato un cane! Appena qualche giorno prima, un detenuto anziano era morto nel magazzino dove era andato a prendere la sua razione. Nell'esaminare il cadavere, il dottor White aveva scoperto che lo stomaco era completamente vuoto. Ciò che consentiva a Mary di conservare un po' di combattività e il latte in seno per Emmanuel era il pesce che Will portava a casa quotidianamente, oltre alle larve e alle bacche che aveva imparato a conoscere attraverso le indigene. Bennelong era alla fine fuggito dall'insediamento, quando il cibo e il rum cui si era abituato avevano cominciato a scarseggiare. Gli orti, compreso quello del governatore, venivano costantemente depredati, malgrado le pesanti fustigazioni cui venivano sottoposti i rei colti in flagrante. Non erano solo i detenuti a rubare; una volta furono presi un marinaio della Supply e un fante. Per tenere al sicuro le loro magre razioni, Will fu costretto a scavare una buca sotto la capanna. La foderò di legno e la coprì con un falso pavimento, secondo il costume dei contrabbandieri in Cornovaglia. Mary comunque era ancora in forze e riusciva a dare da mangiare

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alla famiglia senza mai abbandonarsi alla disperazione, a differenza di tanti. Come aveva detto a Will, si trattava solo di aspettare, collaborare e mostrarsi cordiali con gli ufficiali per conquistare la loro fiducia e creare le condizioni per ottenere ciò di cui avevano bisogno una volta arrivate le navi; del loro arrivo, infatti, era certa. Con il lento passare dei giorni aumentava la fame e faceva più freddo. Le foglie degli alberi della gomma, secche come carta, stormivano in modo inquietante nel vento, e il lavoro della comunità si fermò perché nessuno era più in grado di portarlo avanti. I deportati praticamente si trascinavano, e portavano sui loro visi scarni i segni della denutrizione. Di notte, Mary udiva spesso bambini piccoli gemere penosamente per la fame; mai aveva sentito un suono tanto angosciante. Will sembrava averle dato ascolto perché con il suo impegno nel lavoro era diventato assai popolare tra ufficiali e fanti. Per questo veniva ricompensato con parte della pesca e poteva scegliersi i collaboratori. James Martin, Jamie Cox e Sam Bird - gli amici di cui si fidava maggiormente - andavano spesso con lui. Di solito erano presenti un paio di fanti, ma non sempre. Will si spingeva di frequente nelle acque oltre i promontori, a volte parecchie miglia in mare aperto. Si fece molti amici anche tra gli indigeni che pescavano dalle canoe. Spesso erano loro a indirizzarlo verso grandi banchi di pesce. Nel porto incontrava Bennelong in canoa, che ogni tanto si arrampicava a bordo del cutter per fare due chiacchiere. Mary era sicura che se lei e Will fossero riusciti a mettere le mani su un po' di alcol, l'avrebbero comprato facilmente per farsi aiutare nella fuga. Proprio quando ogni speranza di soccorsi sembrava svanita, il pomeriggio del 3 giugno fu ammainata la bandiera sul promontorio

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sud; non appena girò la voce che stava arrivando una nave, si scatenò il pandemonio. Gli uomini smisero di lavorare e si abbandonarono a manifestazioni di giubilo, le donne uscirono barcollanti dalle capanne e si abbracciarono. Watkin Tench, insieme al dottor White e al capitano Phillip, salì in barca e attraversò il porto. Malgrado il fastidio della pioggia battente e il vento teso, erano entusiasti ed emozionati come il resto della colonia. Quando furono in prossimità dei promontori e videro entrare una grossa nave battente bandiera inglese, Phillip si trasferì su una barca da pesca per tornare indietro e lasciò a Tench e White il compito di raccogliere le tanto agognate notizie di casa. «Guarda la parola magica a poppa» disse White indicando la scritta “Londra”. «Cominciavo a dubitare di rivederla.» A causa del forte vento, la nave - si chiamava Lady Juliana - fu costretta ad ancorarsi a Spring Cove, al riparo del promontorio nord. Tench e White la accostarono e gridarono un saluto agli ufficiali. «Non potete immaginare quanto siate i benvenuti» fece Tench. «Abbiamo un disperato bisogno di viveri, e temevamo che non sarebbero più arrivati. Per favore, diteci cosa state trasportando così diamo la bella notizia alla colonia!» «Duecentoventicinque detenute, tutte puttane» fu la risposta urlata da un ufficiale. Tench rise, convinto fosse una battuta, ma la risata si interruppe di colpo quando un gruppo di donne dai capelli color stoppa apparve all'improvviso sul ponte e si mise a gridare oscenità. «Avete anche viveri?» gridò a sua volta White, resosi conto che Tench era troppo allibito per porre altre domande. «E i medicinali che ci servono?» «Settantacinque barili di farina» gridò l'ufficiale. «Tutto qui. Siamo salpati insieme alla Guardian che trasportava gli approvvigionamenti, ma ha cozzato contro un iceberg ed è affondata.»

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Al calare della notte i detenuti erano piombati nella più cupa disperazione. Il capitano Phillip era rientrato tutto sorridente e aveva confermato che si trattava proprio di ciò che avevano riferito i pescatori: una grossa nave inglese ancorata a Spring Cove. Tutti si aspettavano di vedere rientrare dopo un paio d'ore il tenente Tench e il dottor White, anch'essi con il sorriso sulle labbra, e molti mangiarono in fretta ciò che rimaneva delle loro razioni, convinti che il giorno successivo avrebbero ricevuto più di quanto consumavano di solito in una settimana. Tench e White, invece, tornarono scuri in volto, e senza dire una parola salirono direttamente alla residenza del governatore. Quando uno degli uomini che era stato con loro sul cutter riferì che la nuova nave trasportava duecento donne e niente viveri, non gli credettero. Alcuni risero pensando fosse uno scherzo, ma nel vedere altri ufficiali precipitarsi dal capitano Phillip senza il minimo cenno di gioia, pian piano si resero conto che doveva essere vero. I detenuti maschi erano troppo indeboliti dalla fame per eccitarsi all'idea che su di loro stavano piombando donne nuove in quantità. L'unica reazione fu il timore di vedersi ulteriormente ridotte le razioni. Le detenute considerarono l'evento una vera calamità. Per quanto potesse essere terribile dover dividere le razioni con le nuove arrivate, la prospettiva che quelle sconosciute portassero via i loro uomini era persino peggiore. Sposati o meno che fossero, per i deportati una relazione stabile alleviava le asprezze della vita nella colonia. Quelle unioni erano nella maggior parte dei casi un compromesso, soprattutto per le donne: poche tra loro avrebbero scelto in Inghilterra il compagno che avevano lì. Le opzioni, tuttavia, erano limitate; le ragazze bruttine apprezzavano il fatto di essere desiderate da un uomo, e le più graziose si sentivano maggiormente al sicuro con un protettore. Se poi arrivava un figlio a siglare l'accordo, la vita acquisiva una nuova prospettiva. Nell'apprendere della Juliana con il suo carico femminile, Mary

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si agitò più di molte altre. Sapeva che se Will stava con lei da due anni non era certo per la sua bellezza o intelligenza, ma unicamente perché c'era penuria di donne, e perché, una volta conosciute meglio le più graziose, aveva scoperto grossi difetti di carattere nella maggior parte di loro. Gli uomini erano stati decimati: morti o trasferiti a Norfolk Island. Non ne erano rimasti più di settanta, quasi tutti relitti umani. Tra quelle duecento donne, rinchiuse per mesi su una nave, se ne sarebbero potute contare dozzine pronte a posare gli occhi su suo marito. ***

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Capitolo 9. Tutte le donne della colonia accorsero a vedere le deportate della Juliana trasportate a riva in barca. Se non fosse stato per le diverse condizioni climatiche, poteva essere una replica del loro arrivo, perché udivano gli stessi commenti scurrili e le stesse risate eccitate. Loro però erano arrivate all'inizio di febbraio - che in quel paese alla rovescia significava estate e sole cocente -, e in molte si erano buttate in acqua per trovare sollievo al gran caldo. Le nuove arrivate, invece, stavano sperimentando l'inverno: cielo grigio, vento pungente che increspava il mare, e un gran freddo. Nei loro confronti sarebbe dovuta scattare una sorta di solidarietà femminile - dopotutto venivano da un lungo viaggio estenuante e stavano per entrare nell'inferno - e invece alle veterane bastò notare il loro aspetto, seppure da lontano, per accantonare ogni proposito generoso e unirsi in un fronte comune di ostilità e risentimento. Le donne sbarcate apparivano floride e in salute, in abiti sgargianti, e molte portavano cappelli ornati di fiori o piume; più che galeotte sembravano attrici. Mary, spaventata, strinse Emmanuel al petto. Nella mente le era rimasta impressa l'immagine del suo primo incontro con i detenuti delle altre navi della flotta. Le erano parsi molto più duri di lei, intriganti, e anche crudeli. Il passare del tempo e gli stenti avevano poi reso uguali tutti i sopravvissuti, ma Mary temeva che quelle donne potessero alterare la situazione.

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«Quante signore» disse Charlotte alzando lo sguardo verso sua madre con spontanea allegria. «Belle signore.» Le parole innocenti della figlia le provocarono un senso improvviso di vergogna: dopotutto quelle donne strappate alla famiglia e agli amici, che avevano conosciuto le catene e gli orrori della prigione, erano come lei. Non voleva che Charlotte crescesse in un clima di odio e acrimonia. Decise che doveva mettere da parte paura e gelosia, e dare il benvenuto alle nuove arrivate. «Pensavo che avremmo assistito a qualche zuffa» disse il dottor White a Tench, a cena a casa sua la sera successiva. «Ma grazie al comportamento di Mary Bryant, sembra che le nuove deportate si stiano sistemando bene.» I due erano diventati amici sulla Charlotte, nonostante i ventanni di differenza. Avevano interessi e origini familiari simili e, benché il dottore si dedicasse alla salute della colonia e Tench alla difficile impresa di farla funzionare, erano entrambi affascinati da quella nuova terra ancora inesplorata. Insieme si erano spinti parecchie volte a ispezionare la boscaglia, e condividevano la curiosità verso gli indigeni. Inoltre, provavano entrambi compassione nei confronti dei deportati, a differenza di quasi tutti gli altri ufficiali. A lume di candela la sala da pranzo di White poteva sembrare quella di un qualsiasi medico di campagna in Inghilterra: pareti imbiancate a calce, tovaglia candida come neve, pratico servizio di piatti di porcellana senza decorazioni, scaffali zeppi di libri e un paio di paesaggi particolarmente amati alle pareti. La luce del giorno, invece, rivelava la precarietà dell'edificio con le pareti di graticcio ricoperto di fango e argilla, che spesso con la pioggia battente si riempivano di buchi, e il pavimento di assi sconnesse coperto da un tappeto. Malgrado i difetti, tuttavia, per White e i suoi convitati era un angolo di civiltà. Charles White rimpiangeva sovente la decisione di seguire la

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flotta, più per la mancanza di farmaci e strumenti medici che per l'assenza di comodità. Vedovo da oltre dieci anni, si era abituato alla vita da scapolo e aveva preso due detenute, Anne e Maria, per cucinare e fare le pulizie. Aveva anche il piccolo Nunburry, il ragazzino indigeno adottato di cui si prendeva cura, e qualche amico molto caro. Quella sera pareva rilassato; era riuscito a procurarsi una bottiglia di brandy, e aveva cenato insieme a Tench con un'eccellente spigola accompagnata da carote e patate del suo orto. Un vero miracolo che le verdure non fossero state rubate; forse, era bastato mostrarsi più gentile verso Anne e Maria e generoso con il cibo per guadagnarsi la loro lealtà. «Mary è una donna in gamba» concordò Tench. «Probabilmente si è ricordata di quanto sia stata dura adattarsi qui i primi tempi. Se solo tutte le altre avessero altrettanto senso pratico e nobiltà di spirito!» Si era sorpreso e commosso nel vedere Mary che si prodigava per trovare alle nuove arrivate una sistemazione nelle capanne, e il suo sforzo di farle sentire ben accette pareva sincero. Avrebbe voluto che quello fosse un atteggiamento generalizzato, e invece gli era già stato riferito di furti di vestiti e altri effetti personali. «Tra le nuove c'è un bel numero di sobillatrici» disse White con un sospiro, ricordando le due che si erano azzuffate e le oscenità che gli avevano urlato in faccia quando le aveva separate. «A quanto dicono i rapporti, hanno continuato a prostituirsi con i marinai per tutta la durata del viaggio. Molte sono incinte, ma almeno sono sane, a parte la sifilide, certo.» Tench sorrise. White faceva lunghe tirate sul flagello delle malattie veneree, che qui erano ovviamente diffuse, ma quando sosteneva che avrebbero messo a rischio il futuro di quella nuova terra, lui non gli credeva. «Almeno la Juliana ci ha portato notizie» fece allegro Tench. «Mi ha sbalordito sapere della rivoluzione in Francia. Durante il mio soggiorno a Parigi, confesso di essere rimasto allibito dagli eccessi dell'aristocrazia. E un'altra buona notizia è che re Giorgio è guarito dalla pazzia. Voi cosa sapete di questa sua malattia?»

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White alzò le spalle. «Molto poco. Io sono solo un vecchio aggiustaossa, però sono felice che Giorgio il Contadino stia di nuovo bene. Così come sono stato felice di scoprire che la Juliana ha razioni sufficienti per due anni per le sue deportate.» Tench sorrise. Quella notizia era stata in assoluto la migliore, un enorme sollievo per tutti. Purtroppo non li avevano informati subito, altrimenti quelle donne non sarebbero state accolte con tanta ostilità. Ora tutti speravano che la Justinian, che si diceva fosse partita da Falmouth con un carico di viveri e attrezzature, giungesse prima del nuovo grande afflusso di detenuti. Personalmente, però, Tench era grato soprattutto per le lettere da casa arrivate con la nave. Sapeva di reagire piuttosto bene a scomodità e privazioni, ma qualche volta si sentiva quasi annientare dalla nostalgia per amici e parenti. A dire il vero in quei due anni c'erano stati momenti in cui aveva temuto di non rivederli mai più. «Un brindisi alla luce in fondo a una galleria molto buia.» White riempì i bicchieri. «Che la luce scacci le tenebre!» esclamò ridacchiando. «Anche se, con altre tre navi cariche di mille deportati in arrivo, ci sarà bisogno di parecchia luce per riuscire a farlo.» Al porto, Mary e Will rabbrividirono alla vista della Neptune e della Scarborough in fondo alla baia. Videro abbassare le scialuppe per il trasporto a riva dei detenuti, ma dall'orribile puzzo proveniente dalle navi capirono che stavano per assistere a qualcosa di terrificante. Il giorno precedente era già stato abbastanza penoso aiutare a trasportare i malati dalla Surprise all'ospedale. Molti dei detenuti non riuscivano a camminare tanto erano malconci dopo avere viaggiato quasi sempre sdraiati nei loro stessi escrementi e nel vomito. Ma ora sarebbe stato persino peggio.

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La Justinian era arrivata il 20 giugno, con grande gioia di tutta la comunità, perché oltre ad animali trasportava viveri in abbondanza e attrezzature indispensabili. Benché fosse salpata dall'Inghilterra qualche tempo dopo la Surprise, la Neptune e la Scarborough, che trasportavano complessivamente mille detenuti, le aveva superate e aveva compiuto il viaggio in soli cinque mesi. Furono di nuovo distribuite razioni intere e fu ripristinato il normale orario di lavoro. Non appena depositato il carico, la Justinian ripartì per portare rifornimenti a Norfolk Island. Il 23 giugno, la bandiera nuovamente ammainata segnalò l'arrivo di un'altra nave, che tuttavia entrò in porto solo dopo due giorni. Era la Surprise, con un carico di duecentodiciotto detenuti e un distaccamento del Corpo d'armata del Nuovo Galles del Sud, da poco istituito. Fu sconvolgente apprendere che durante il viaggio erano morti in quarantadue, e che si erano ammalati in cento. Il reverendo Johnson salì a bordo, e al suo ritorno riferì di avere visto nelle stive deportati seminudi, troppo sofferenti per muoversi o essere autonomi. Mary e Will si erano fatti avanti per dare una mano insieme a tanti altri, ma il puzzo e lo spettacolo di fronte a loro erano talmente spaventosi che in molti girarono sui tacchi e se la diedero a gambe. Poche tra le volontarie riuscirono a frenare le lacrime. Si capiva chiaramente che i nuovi arrivati erano stati ridotti alla fame e tenuti sottocoperta per quasi tutto il viaggio. Molti di loro non si sarebbero più ripresi. Non si fece in tempo a lavare, nutrire e a dare un letto a quei poveretti, che arrivarono altre due navi. Il reverendo Johnson salì a bordo della Scarborough, ma il capitano gli consigliò di non scendere sottocoperta. Fu dissuaso dal terribile fetore che emanava dalle stive, e non cercò neppure di salire sulla Neptune. Davanti all'ospedale, furono montate tende in gran fretta e preparati cibo, acqua, indumenti e medicinali. La notte precedente, mentre cercava di prendere sonno, Mary ebbe quasi il voltastomaco per i miasmi provenienti dalle navi alla fonda, cento

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volte peggiore di quello percepito sulla Dunkirk. Benché con il cuore fosse vicina alla sofferenza di quelle creature, sentiva che la mattina non avrebbe potuto essere loro di aiuto. All'alba però la rabbia nei confronti di quelli che anteponevano il profitto personale alla vita umana le restituì le forze. Da conversazioni di ufficiali colte per caso, aveva sentito che il trasporto dei deportati era stato appaltato a privati. Poiché il governo aveva versato diciassette sterline, sette scellini e sei penny per il vitto di ogni detenuto, più scarse erano le razioni, maggiore era la quantità di cibo che i proprietari delle navi potevano vendere all'arrivo. Se poi qualcuno moriva durante il viaggio, l'affare si faceva ancora più redditizio. Un ufficiale affermò che quella gente era peggiore dei trafficanti di schiavi, motivati almeno a mantenere sani e in forma i loro prigionieri; infatti, migliori erano le loro condizioni fisiche, più alto sarebbe stato il prezzo di vendita. Rispetto ai deportati, invece, non c'erano incentivi analoghi neppure per mantenerli in vita. «Si dice che il capitano Trail della Neptune li abbia tenuti incatenati uno all'altro» mormorò Will allibito. «Quando ne moriva uno, gli altri, per prendersi la sua razione, non lo dicevano. Immagina che fame avevano per riuscire a stare vicino a un corpo in decomposizione!» Mary rimase in silenzio; per esperienza personale sapeva che sarebbe stata pronta a qualsiasi cosa, per quanto repellente, pur di mantenersi in vita. Ora che aveva due bambini, il suo istinto di sopravvivenza era persino aumentato. Will e Mary osservarono l'imbarco sulle scialuppe: il primo gruppetto si calò lentamente e con grande esitazione dalla scala di corda, e persino dalla spiaggia fu evidente la loro difficoltà. Ma quelli erano i fortunati, perché di lì a poco marinai e fanti avrebbero di fatto scaraventato gli altri nelle barche come sacchi di merce. Non erano in grado di camminare, figuriamoci scendere una scala. Quando la scialuppa si avvicinò, si sollevò tra gli astanti un

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mormorio soffocato: simili a scheletri sul punto di accasciarsi, con i volti del tutto privi di aspettative, quei poveretti sembravano a un passo dalla morte. In effetti, uno arrivò morto e altri due avrebbero esalato l'ultimo respiro sul pontile, esattamente dove erano stati depositati. «Non posso credere ai miei occhi» commentò Will con lo sguardo inorridito e la voce rotta. «Dio ci salvi da uomini capaci di simili atrocità.» Mary sentiva che avrebbe potuto strangolare i responsabili con le sue stesse mani. «Quelli non sono uomini,» disse forte e chiaro «sono bestie.» La rabbia le infuse energia, e le impedì di pensare al rischio di prendersi un'infezione o di badare al fetore insopportabile. I corpi seminudi dei deportati erano coperti di escrementi e di piaghe verminose. Si chinò su un uomo per dargli da bere, e lui cercò di coprirsi il pene esposto nel vedere che era una donna. «Ne ho già visti molti» fece Mary dolcemente, colpita che quell'uomo, nonostante le terribili condizioni e ormai prossimo alla morte, potesse ancora tenere alla decenza. «Ora sei salvo; c'è da bere, da mangiare e acqua per lavarsi, ma tu devi mettercela tutta per riprenderti. Non osare deludermi!» L'uomo schiuse a fatica le labbra spaccate. «Come ti chiami?» «Mary» rispose lei passandogli sul viso un cencio umido. «Mary Bryant. E tu?» «Sam Broome» sussurrò lui con voce roca. «Che Dio ti benedica, Mary.» Lo spettacolo peggiorava con il passare delle ore. Uomini colpiti da una terribile dissenteria giacevano nei loro fluidi corporei. Il dottor White disse che avevano tutti anche lo scorbuto e ordinò ad alcuni di andare nella boscaglia a raccogliere grandi quantità di “bacche acide”, di cui aveva scoperto le proprietà antiscorbuto. Pareva che prima dell'arrivo a Port Jackson fossero già morti in duecentosessantasette, e da allora molti altri avevano fatto la

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stessa fine; i corpi di quelli morti dopo avere superato i promontori erano stati gettati in mare. Dei sopravvissuti, quattrocentoottantasei versavano in condizioni disperate, e per la maggior parte di loro non si prevedeva alcuna ripresa. Mentre assisteva una donna con un bambino molto piccolo, Mary venne a sapere che non le avevano tolto le catene neppure durante il parto. Avrebbe sentito raccontare storie del genere parecchie altre volte nelle ore successive. La sera, seduto con il capitano William Hill della Juliarux nella sala della residenza del governatore, il capitano Phillip si scagliò contro tutte le atrocità cui aveva assistito quel giorno. «Ho parlato con i capitani della Neptune e della Scarborough» disse William Hill. «A mio avviso meritano l'impiccagione.» William Hill era considerato un duro, però aveva riservato un buon trattamento alle deportate della sua nave. Al momento dell'imbarco alcune di loro erano vecchie e deboli e si erano verificati dei decessi, ma le altre avevano probabilmente avuto la possibilità di nutrirsi meglio di quanto avessero mai fatto in vita loro. Secondo Hill sarebbe stato di gran lunga più umano se i tribunali in Inghilterra avessero mandato tutta quella gente al patibolo, piuttosto che permettere a mascalzoni come il capitano Trail della Neptune di lucrare sulla loro morte lenta e dolorosa. Il volto scarno di Phillip era rosso di rabbia. «Capisco che sulla Scarborough il tentativo dei deportati di impadronirsi della nave abbia imposto che i caporioni fossero messi in catene; ma le condizioni sulla Neptune erano spaventose. Quella nave non avrebbe mai dovuto essere considerata idonea alla navigazione: ha continuato a imbarcare acqua, e per gran parte del viaggio i deportati sono stati letteralmente a mollo fino alla vita. I loro alloggiamenti non sono mai stati disinfestati con la fumigazione e nessuno ha mai avuto il permesso di salire in coperta per fare un po' di movimento e respirare aria pura.» «Riferirò tutto questo al mio ritorno in Inghilterra» assicurò

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William Hill battendo risoluto il pugno sul tavolo. «A mio parere questi sono degli assassini, di gran lunga peggiori di quelli che avete nella colonia.» Arthur Phillip si avvicinò alla finestra. La comunità ai piedi della collina era tranquilla; i fuochi splendevano come piccoli fari nel buio. Pensò a tutti coloro che giacevano in ospedale o nelle tende di fronte, e si chiese quanti altri sarebbero morti prima dell'alba. Si sentiva esausto. Aveva assunto l'incarico di comandante della flotta e poi di governatore generale perché era convinto del successo di quella colonia penale. Aveva sperato di trasformare i criminali che gli erano stati affidati in uomini e donne pronti a cogliere l'occasione di riabilitarsi. Purtroppo sembrava avere fallito. Ora sapeva che soltanto alcuni avrebbero accettato l'offerta di un terreno gratuito una volta scontata la pena, perché per la maggior parte erano pigri e privi delle competenze necessarie per fare gli agricoltori. I superstiti della Seconda Flotta sarebbero stati prevenuti nei confronti della colonia, e, d'altra parte, chi poteva biasimarli? Di fronte a sé aveva di nuovo l'abisso: stava arrivando la Terza Flotta con altri mille detenuti, e allora molti dei suoi bravi ufficiali sarebbero rientrati in Inghilterra. Lui si era impegnato al meglio e aveva cercato di governare con umanità, ma neppure un giardiniere avrebbe potuto sperare di creare qualcosa di bello e duraturo senza gli attrezzi giusti, buone sementi e terreno fertile. «Arthur, sembrate preoccupato» disse William alle sue spalle. «Voi non siete responsabile degli eventi di oggi.» Phillip si voltò verso di lui e drizzò la schiena. «Credo che siamo tutti responsabili» replicò stancamente. «Responsabile è chiunque se ne sta a guardare senza alzare un dito permettendo ai colpevoli di passarla liscia.» «Sei molto silenziosa stasera, Mary.» Era il giorno di Natale, e Will immaginò che lei stesse rimuginando sulla Cornovaglia e sulla

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sua famiglia seduta intorno al focolare con una bella oca arrosto nella pancia. Di recente l'aveva sentita raccontare a Charlotte di Fowey e dei suoi parenti. Col passare del tempo sembrava pensare a loro sempre più spesso. Lei gli sorrise e si sporse dallo sgabello per allungargli un colpetto affettuoso sulla coscia. «Fa troppo caldo per parlare. È un miracolo che i bambini riescano a dormire.» Da settimane c'era un'afa spaventosa, tanto che le bestie e gli animali da cortile se ne stavano all'ombra o immersi nell'acqua ovunque la trovavano. Will si considerò fortunato ad andare a pesca tutti i giorni: almeno nella baia spirava sempre la brezza. «Ho immaginato che stessi pensando a casa.» «A come tornarci» lo corresse lei con un sorriso. «Credo di sapere come procurarmi quello che ci serve.» Will alzò gli occhi al cielo, spazientito. Per Mary la fuga era ormai un chiodo fisso e, anche quando non ne parlava, la sua mente non si scostava da quell'idea. Non aveva mai conosciuto una donna tanto ostinata. Nella colonia Will stava abbastanza bene, anche se non l'avrebbe mai ammesso con nessuno, tanto meno con sua moglie. Quando pativa la fame sarebbe tornato volentieri a casa, ma ora, dopo l'arrivo della Seconda Flotta, la situazione era migliorata. Gli ufficiali avevano notato quanto lui e Mary si fossero prodigati con i deportati malati, e questi, quando si riprendevano, si mostravano riconoscenti per le attenzioni ricevute. Ovviamente non potevano ricompensarlo se non con la loro ammirazione e lealtà, ma questo a Will bastava, lo faceva sentire importante. Era libero di andare e venire all'interno dell'insediamento, faceva un lavoro che gli piaceva molto, e poteva usare il cutter del capitano Phillip come fosse suo. In cambio del pesce riusciva a ottenere praticamente tutto quello che voleva. Si era persino messo da parte un gruzzolo perché gli equipaggi della Seconda Flotta, stufi di maiale salato, erano felici di comprare da lui il pesce. Soprattutto, godeva della sua condizione privilegiata: gli uomini lo guardavano con venerazione e le donne lo desideravano. Aveva tutto.

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«E dove hai intenzione di prenderlo?» chiese con voce stanca. «Dal capitano Smith.» Per la sorpresa Will quasi cadde dallo sgabello. Il capitano Detmer Smith, olandese, arrivato solo da qualche giorno, era il proprietario del brigantino Waaksamheyd, che il capitano Ball della Supply aveva noleggiato a Batavia. Smith era entrato in porto il 17 dicembre con gli approvvigionamenti per la colonia dopo un viaggio spaventoso, in cui sedici uomini del suo equipaggio malese erano morti di febbri. Aveva avuto qualche grattacapo con il capitano Phillip a proposito delle provviste, e pareva non piacere a nessuno degli ufficiali. Invece Will lo apprezzava perché era una persona calda, aperta, amichevole, priva della rigidità dei comandanti inglesi. «Sei matta?» «No, furba. Tu e io piacciamo a Detmer, e farò in modo che ci abbia ancora più in simpatia prima di convincerlo a separarsi dalle carte nautiche e dal sestante.» «Non lo farà mai» sentenziò Will in tono sprezzante. «Perché no? Gli ufficiali lo trattano male; lui è solo, lontano da casa. Non è inglese, quindi perché dovrebbe avere qualcosa in contrario ad aiutare nella fuga una coppia di detenuti inglesi?» Will bocciava sempre le idee di Mary, per principio: le donne non dovevano essere più intelligenti degli uomini. Tuttavia nel suo intimo sapeva che la mente di lei era più acuta della sua. Una volta gli aveva chiesto di insegnarle a leggere e scrivere, e lui le aveva risposto che senza libri era impossibile. Mary non tornò mai più sull'argomento, e Will in qualche modo si rese conto che aveva intuito la verità, e cioè che lui non voleva una moglie in grado di leggere e scrivere perché temeva di esserne sminuito. Mary, però, sapeva decifrare l'animo della maggior parte delle persone. Osservava, ascoltava e percepiva cose che Will non coglieva affatto. Forse su Detmer Smith lei poteva avere ragione. Quella notte, determinato a farle dimenticare l'idea della fuga, lui mise tutto il suo impegno per soddisfarla mentre facevano l'amore. Avrebbe finito di scontare la pena a marzo, e benché dicesse

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ad altri di voler prendere la prima nave diretta a casa, non ne aveva alcuna intenzione. Gli veniva nostalgia della Cornovaglia solo quando beveva; allora rievocava gli aspetti positivi, il clima mite, la brughiera e i boschi, le risate nella taverna, la solidarietà tra pescatori. Da sobrio, invece, ricordava che non era soltanto così. Chi non aveva un proprio peschereccio dipendeva da chi ne possedeva uno, e passava la notte al gelo a tirare reti per uno scellino o poco più. Anche là aveva patito la fame, e con la pancia vuota non c'è posto al mondo che sembri bello. Almeno lì faceva caldo, anche in inverno. Magari quando c'era tempo cattivo si bagnava e prendeva freddo, però non era quel freddo che entra nelle ossa e quasi paralizza. Dicevano che a chi aveva scontato la pena sarebbe stata offerta della terra a titolo gratuito. A lui la terra non serviva; voleva fare il pescatore in proprio. Vendendo il pesce al magazzino sarebbe diventato ricco in poco tempo, e avrebbe costruito una bella casa per Mary e i bambini. Da grande Emmanuel avrebbe lavorato con lui. «È stato bello?» le sussurrò, una volta finito. Era zuppo di sudore, e così accaldato che era quasi una tortura tenere fra le braccia il corpo bollente di Mary. «Meraviglioso» mormorò lei contro il suo petto. «Ma fa troppo caldo. Andiamo a fare un tuffo in mare.» Non aspettò neppure la risposta, si divincolò dalle sue braccia, e prendendolo per mano lo tirò giù dal letto. Poi con una risatina uscì di corsa dalla capanna, diretta alla spiaggia. Will sorrise. Una delle cose che più amava di Mary era la spontaneità. Non appena le veniva un'idea voleva metterla in pratica, senza pensarci due volte. Forse era stato proprio quello a farla finire nei guai un tempo, ma lui non avrebbe cambiato per nulla al mondo quel lato del suo carattere. Era anche passionale, una cosa che non ci si aspettava da lei, che appariva tanto timida e casta. Aveva sempre voglia di fare l'amore, e bastava un bacio o una carezza per accenderla. Poco alla volta, con le carezze voluttuose

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e il desiderio di compiacerlo, Mary era riuscita a distogliere la sua mente dalla fame. La luna splendente rincorse il suo corpo esile da ragazzina che si tuffava in mare con la grazia di una focena. Nella colonia poche donne sapevano nuotare, e anche pochi uomini; camminavano fino ad avere l'acqua alla vita con un'espressione timorosa, come se temessero di essere inghiottiti dal mare. Will trovava quel lato temerario di Mary sensuale come un bel seno tondo e prosperoso o la pelle liscia come la seta. Mary agitò la mano facendogli cenno di raggiungerla, e lui attraversò di corsa la spiaggia colmo di desiderio. Nuotarono per un tratto insieme, poi Mary si mise sul dorso per lasciarsi galleggiare, con i capelli intorno al viso simili ad alghe sottili. «Non lo abbiamo mai fatto in mare» disse con un risolino. «Potremmo affogare se ci proviamo così al largo» replicò Will, ma intanto allungò una mano sotto la sua schiena e mantenendosi a galla con il solo movimento delle gambe le succhiò un capezzolo. «Il primo che tocca riva sta sopra.» Mary si girò di scatto e prese a nuotare verso la spiaggia. Per una volta lui non cercò di batterla perché gli piaceva stare con lei sopra e osservarla mentre veniva. Will raggiunse Mary seduta in due spanne d'acqua o poco più. Non gli era mai sembrata tanto graziosa come quella sera, con i lucenti riccioli bagnati sulle spalle nude. «Non credo che il mio uccello sia pronto.» Si inginocchiò e le mostrò il pene che, rimpicciolito per l'acqua fredda, sembrava quello di un vecchio. «Conosco un metodo per resuscitarlo» fece lei con un sorriso da tenutaria di bordello. «Desiderate che ve lo mostri, signore?» A Will piaceva moltissimo quando lei giocava a fare la puttana. Si sentiva potente e gagliardo. Mary gli allungò la mano sul pene, e lui pensò che volesse accarezzarlo; invece, con sua estrema sorpresa e gioia, lei si accostò dimenandosi nell'acqua e glielo prese in bocca. Will aveva sentito parlare di prostitute molto costose che facevano servizi del genere, ma non si era mai portato a letto una

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donna disposta a tanto. Trasalì quando la calda bocca di Mary si chiuse: era la sensazione più dolce che avesse mai provato. L'erezione fu immediata, e temette che lei si interrompesse, ma Mary non si fermò. Invece, gli tenne con una mano una natica e con l'altra gli accarezzò i testicoli muovendo labbra e lingua lungo il pene. Will, che in precario equilibrio sulle ginocchia rischiava di cadere all'indietro, abbassò lo sguardo e si vide inghiottire dalla sua bocca vogliosa, mentre i seni nudi gli sfioravano le cosce. Fu la cosa più bella che avesse mai sperimentato. All'improvviso non era più un deportato in una colonia penale, privato di ogni dignità e orgoglio, bensì un ricco signore in viaggio su un'isola tropicale al chiaro di luna. Immaginò se stesso in camicia di seta con la ruche, brache di velluto al ginocchio, scarpe con la fibbia d'argento, e Mary, la sua schiava zelante, vestita soltanto di una ghirlanda di fiori come una bellezza esotica. «Che bello» gemette premendole la testa per schiacciarla ancora di più contro di sé. Lei si interruppe un attimo e sollevò lo sguardo con un sorriso sbarazzino. «Bello quanto?» «La cosa più bella del mondo» sospirò lui. «Non fermarti ora.» «Non ti ho ancora detto il prezzo.» «Pagherò qualsiasi prezzo» disse Will con la voce roca di passione. «Il prezzo è la fuga» mormorò lei. «Sei deciso a pagare?» Will era disposto a prometterle qualsiasi cosa. «Sì» grugnì. «Però non smettere.» Mary continuò sorridendo tra sé. L'aveva in pugno. Will magari si spacciava per duro e coraggioso più di quanto non fosse, però - lei lo sapeva - manteneva sempre le promesse. Fu molto riconoscente a Sadie della Lady Juliana per averle svelato il segreto per soggiogare un uomo. Aveva immaginato che fosse una cosa schifosa, invece, stranamente, non lo era; anzi, le piaceva persino. ***

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Capitolo 10. Mentre calava il sacco di riso nel nascondiglio sotto il pavimento della capanna, Will pensò di essere innamorato. Altrimenti, perché mai avrebbe assecondato quella follia di Mary quando gli mancava un solo mese per tornare un uomo libero? Risistemato il falso pavimento, rimase un momento accoccolato sui calcagni. Malgrado l'ansia che gli procurava il progetto, non poté fare a meno di sorridere. Fosse o non fosse libero, sarebbe stata una bella rivalsa per tutte le ingiustizie e le umiliazioni subite uscire dal porto a vele spiegate sul cutter del capitano, non solo con Mary e i bambini, ma anche con i suoi amici. Le Indie orientali olandesi gli davano l'impressione di essere un buon posto, un paradiso tropicale dove un uomo poteva vivere da re. Certo, la distanza era considerevole, la rotta in gran parte non riportata sulle mappe, e scoraggiava il pensiero che nessuno, a parte il capitano Cook, avesse mai percorso quel tratto di mare, ma per qualche strana ragione il pericolo aggiungeva fascino al viaggio, proprio in quanto elemento imprescindibile delle imprese leggendarie. Will ambiva che di lui si parlasse con rispetto anche dopo la morte. Era metà febbraio, e sapeva che la partenza doveva avvenire entro la fine di marzo per non rischiare di incappare nelle violente burrasche autunnali; però c'era ancora tanto da fare, tra cui chiedere aiuto a Detmer Smith.

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Mary si trovava con Detmer in quel momento: gli stava consegnando il bucato pulito, e di sicuro sfoderava tutte le sue armi di seduzione, per quel che valevano. A Will non importava che lo facesse - era indispensabile -, ma non gli piaceva quel suo tentare di assumere il pieno controllo del progetto. Pretendeva che lui chiedesse agli amici di unirsi a loro soltanto all'ultimo momento. Avrebbe dovuto capire che era un inferno non potersi confidare con nessuno: lui voleva parlarne con un uomo, non solo con una donna. Mary, però, temeva che uno di loro - magari in un momento di abbandono dopo avere alzato il gomito - potesse tradirsi; inoltre, tutti quanti avevano una donna, e Mary paventava che una di loro facesse la spia appena appresa l'intenzione del compagno di partire senza di lei. Quindi, per il momento a Will non restava che resistere, accumulare provviste e lavorare su Detmer e Bennelong. Vedeva spesso Bennelong quando usciva a pescare. Girava di nuovo nudo, e gli mostrava con orgoglio le nuove cicatrici che si era procurato in qualche rissa. Ricordava parecchie delle parole inglesi imparate durante la detenzione, e per mezzo di queste e di qualche segno riusciva a comunicare più che decentemente con Will. A novembre l'indigeno era tornato nella colonia con indosso gli abiti che gli aveva fornito il capitano Phillip, e questo parve indicare la sua volontà di fungere da interprete, a patto che nessuno cercasse di incatenarlo di nuovo; così il capitano gli aveva messo a disposizione una capanna e del cibo prelevato nei magazzini. Secondo Will, il capitano Phillip aveva esagerato con Bennelong, interessato soltanto alle donne e a menare le mani; dalla colonia voleva unicamente l'alcol al quale l'avevano iniziato i nuovi venuti. Si era già reso importuno ubriacandosi fino a perdere il controllo nella residenza del governatore, e Phillip sbagliava a pensare che bastasse dargli un tetto per farne il suo lacchè. In realtà Will provava simpatia per lui, per il suo entusiasmo infantile, l'ampio sorriso e la curiosità che aveva per l'uomo bianco; quando andavano a pescare insieme, l'indigeno non mancava

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mai di insegnargli qualche parola nella sua lingua e qualche usanza della sua gente. Nella cultura di Bennelong, se qualcuno voleva una donna, in genere la colpiva con una mazza e la trascinava via. La fedeltà maschile era considerata assurda, eppure Bennelong venerava Mary: si illuminava in viso quando la vedeva, ed era ansioso di compiacerla. Will era convinto che Bennelong, se l'avesse mai visto insieme a un'altra, non avrebbe esitato a riempirlo di botte. Mary aveva giustamente immaginato che parecchi indigeni fossero bravi a navigare nelle acque locali. Avevano canoe estremamente fragili, ma le governavano con straordinaria perizia raggiungendo velocità sorprendenti. Bennelong aveva anche mostrato a Will come trovare l'acqua, e quali piante fossero buone da mangiare. Will non dubitava che sarebbe stato fin troppo felice di nuotare fino al cutter di notte per condurlo alla spiaggia, dando modo al gruppo di imbarcarsi. L'indigeno non era realmente leale verso nessuno degli ufficiali, mentre lo era nei confronti suoi e di Mary. Will sapeva di poter contare su di lui; con Detmer, invece, sarebbe stato più complicato. Lui e l'olandese avevano parecchio in comune: entrambi grandi e grossi, con occhi azzurri e capelli biondi, erano assai socievoli e non avevano difficoltà a fare nuove amicizie. Inoltre, per ragioni diverse, erano tutti e due in una posizione rischiosa. Da quando la comunità era tornata a ricevere razioni intere, molti dei detenuti della prima tornata sembravano avere scordato che Will aveva salvato loro la vita con i suoi pesci. Quanto ai nuovi arrivati, erano in molti a invidiargli la libertà di andare a venire a suo piacimento, e spesso lo definivano con sarcasmo il “ragazzo” degli ufficiali. Detmer, d'altro canto, era un isolato perché non si era conformato alle regole del capitano Phillip. Gli approvvigionamenti da lui consegnati erano di peso inferiore a quello registrato in origine, il che gli era valsa la diffidenza degli ufficiali; inoltre, in quel momento stava facendo una contrattazione serrata per noleggiare

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la sua nave. Phillip ne aveva un bisogno disperato per mandare alcuni suoi uomini in Inghilterra, e Detmer faceva il furbo. Di conseguenza, era messo al bando dagli ufficiali, e la scaltra Mary, sempre pronta a sfruttare ogni occasione, volse la situazione a proprio vantaggio. Sul principio ci furono soltanto qualche sorriso, quattro chiacchiere per simpatizzare e l'offerta di fargli il bucato; in seguito un invito a dividere la cena con lei e il marito. Will non obiettava se Detmer andava nella loro capanna quando lui era presente - era una compagnia gradevole, e poi portava sempre una bottiglia di rum -, ma si rendeva conto che la gente cominciava a spettegolare del fatto che Mary parlasse spesso con Detmer sul pontile e a volte salisse sulla sua nave. Quel giorno qualcuno aveva insinuato che lei stava “corteggiando” quell'uomo. A Will, geloso di natura, non piaceva l'idea della moglie sola in compagnia di un altro, però sapeva che sarebbe stata assai più efficace di lui nel convincere Detmer ad aiutarli, quindi decise di chiudere un occhio sui metodi da lei scelti per raggiungere l'obiettivo. Will si alzò dal pavimento e uscì dalla capanna mentre Mary arrivava con Emmanuel in braccio e Charlotte che le saltellava accanto. Si disse che formavano un bel quadretto: Mary con i riccioli neri a incorniciarle il viso, Emmanuel paffuto e biondo, e Charlotte, una versione in miniatura della madre, che dava calci alla sabbia con i piedini nudi. La Lady Juliana aveva portato del tessuto dall'Inghilterra, e Mary era riuscita a convincere Tench a procurargliene una pezza; ne aveva fatto un abito per sé e degli indumenti per i bambini. Will sapeva che sua madre, in Inghilterra, avrebbe giudicato assai approssimativa la fattura del vestito a righe azzurre di Mary, ma, dopo avere visto lei e tante altre donne stracciate per due anni, trovava che l'abito le donasse molto. «Sei stata fuori un sacco» le disse in tono di riprovazione. «Ci siamo messi a chiacchierare.» Indicò con la testa Charlotte

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per fargli capire che non poteva raccontare di più davanti alla piccola. Mary scaldò un po' d'acqua sul fuoco, preparò del tè dolce, poi sedette ad allattare Emmanuel. Non appena Charlotte si allontanò un poco, fece cenno a Will di avvicinarsi. «Ho chiesto a Detmer di aiutarci» sussurrò. «Gli hai parlato del nostro piano?» Will era profondamente turbato che l'avesse fatto in sua assenza. «Mi è parso il momento giusto» disse lei stringendosi nelle spalle. «Ha di nuovo litigato con Phillip, e ho capito che dovevo approfittarne.» «Che cosa ha detto?» Will sentì un brivido lungo la schiena al pensiero di quello che gli sarebbe successo se Detmer l'avesse denunciato. Mary esitò un attimo a rispondere. In verità, la prima reazione di Detmer al loro piano era stata una risata. Aveva anche aggiunto che non capiva proprio perché Will volesse rischiare la vita sua e della famiglia quando lì era sistemato più che bene. Mary aveva dovuto implorarlo, e accennare al timore che il marito l'abbandonasse non appena scontata la pena. Aveva addirittura lasciato intendere che era disposta a fare qualsiasi cosa in cambio del suo aiuto. L'espressione di lui si era scolpita nella sua mente: labbra strette in una smorfia cinica, eppure occhi divertiti. Era seduto su un rotolo di cime a prua della nave mentre lei stava in piedi, appoggiata alla battagliola, con lo sguardo distante perché le mancava il coraggio di guardarlo in faccia. Detmer, con i capelli biondi al vento, indossava una camicia bianca pulita e brache beige che gli aderivano al corpo come una seconda pelle. Fisicamente assomigliava a Will, perché aveva gli stessi colori e la stessa corporatura, anche se probabilmente era più vecchio di una decina d'anni, però esibiva una raffinatezza che Will non poteva sperare di emulare. Aveva una carnagione ambrata, capelli di seta e denti ancora buoni, bianchi e regolari. Anche il forte accento straniero con cui parlava inglese risultava gradevole: qualsiasi cosa dicesse, suonava come un complimento.

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«Avanti, racconta!» esclamò Will. «Charlotte torna da un momento all'altro, e non si può dire nulla davanti a lei.» La bimba, che aveva tre anni, era una gran chiacchierona e spesso ripeteva cose udite per caso. «Dice che è disposto ad aiutarci.» In realtà, Detmer aveva chiesto: «Fino a che punto sei pronta a spingerti per guadagnarti il mio appoggio?». «E perché mai dovrebbe avere voglia di aiutarci?» Will serrò gli occhi, insospettito. Mary scrollò le spalle. «Perché gli siamo simpatici. Perché vuole vendicarsi nei confronti del capitano Phillip. Perché sono riuscita a convincerlo. Scegli tu.» «Gli hai spiegato cosa ci serve?» Mary si chinò verso Emmanuel perché Will non la vedesse arrossire. Era stata sfacciata, come già con il tenente Graham sulla Dunkirk. A peggiorare le cose, c'era il fatto che lei desiderava Detmer, e se non avesse avuto i due figli con sé, forse gli avrebbe ceduto, lì, subito. «Sì, gliel'ho detto, e lui è disposto a venderci un sestante e una bussola. In più aggiunge un paio di vecchi moschetti, qualche munizione e un barile d'acqua. Dovresti concordare tu il prezzo con lui.» «Anche una carta nautica?» «Sì, anche quella. La cercherà. Però ha bisogno di parlarne con te.» «Quindi ho anch'io voce in capitolo?» chiese Will in tono sarcastico. Mary avrebbe voluto prenderlo a schiaffi per quel suo atteggiarsi a grand'uomo. Se fosse rimasta in secondo piano lasciando a Will il compito di organizzare la fuga, a quel punto lui sarebbe già stato in catene per la sua incapacità di tenere la bocca chiusa. Perfino Detmer, che conosceva Will da un tempo relativamente breve, era preoccupato della sua fama di lingua lunga. Però Mary nascose la propria irritazione perché per la riuscita del progetto doveva a tutti i costi tenere buono il marito.

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«Tu hai il ruolo più importante, certo.» Tese la mano per accarezzargli il viso con un gesto ostentatamente affettuoso. «Tu sei il navigatore. Secondo Detmer, solamente uno in gamba come te è in grado di navigare tra le secche senza procurare falle alla barca.» Questo sembrò soddisfarlo. «Stanotte sgraffigno una delle nuove reti, tanto non se ne accorgono di sicuro.» Mary cercò con gli occhi Charlotte e, accertatasi che era abbastanza distante, intenta a fare torte di fango, continuò. «Dovremmo decidere subito chi portare con noi.» «James Martin, Jamie Cox e Samuel Bird, naturalmente. Sono i miei compagni, e sto con loro dai tempi della Dunkirk.» Mary annuì. Aveva previsto che Will li volesse con sé. Non era granché contenta per Samuel Bird, tetro com'era, però in effetti non aveva mai approfondito la sua conoscenza, disturbata dai suoi capelli rossi e dalle ciglia chiare. «Sì, ma come abbiamo già detto, anche William Moreton andrebbe bene, perché si intende di navigazione.» Will arricciò il naso. «Mi è antipatico.» Neppure a Mary piaceva quel tipo bruno, taurino, pieno di sé e presuntuoso come Will, però in mare si destreggiava bene, ed era forte e capace di tenere a freno la lingua. «Ci serve un altro navigatore» affermò lei con decisione. «Non puoi fare tutto da solo.» «Benissimo, allora anche lui, e magari Will Owens e Pat Reilly.» «Will Owens è un cretino» sentenziò lei sdegnata. «E Pat Reilly non sa stare zitto.» Will parve risentito. Will e Pat andavano spesso a pescare con lui, ed erano piacevoli compagni di bevute. «E allora, chi hai in mente, tu?» la aggredì. «Sam Broome, Nathaniel Lilly e Bill Alien.» «Non possiamo portarli tutti!» esclamò lui inorridito. «E poi non sono amici nostri; sono arrivati con la Seconda Flotta. Li conosciamo appena.» «Ci torneranno utili quando dovremo remare; la barca è abbastanza

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grande, e loro sono in grado di governarla. Cosa importa se li conosci da poco? Sono fidati, e in gamba.» Will non disdegnava l'idea di Nat e Bill: Nat era giovane come Jamie, e pendeva dalle sue labbra. Pareva un cherubino con quegli occhioni e i capelli biondi, ed era piacevole averlo intorno. Bill era soprannominato “l'uomo di ferro”. Quando era stato frustato per avere rubato nei magazzini, non aveva urlato una sola volta, e alla fine si era allontanato con aria impassibile. A differenza della maggior parte degli uomini della colonia era un criminale vero, condannato per aggressione grave e rapina. Sembrava quindi una scelta sensata, perché ci sarebbe stato bisogno di uomini duri nel caso fossero sorti problemi con gli indigeni. Will annuì. «Sì, Bill e Nat possono venire; ma perché Sam Broome?» Guardò la moglie con diffidenza. Secondo lui era un tipo strano: si teneva in disparte, non gli piaceva bere ed era secco come un chiodo. Mary aveva cominciato a provare simpatia per Sam dal giorno in cui gli aveva dato da bere mentre giaceva moribondo sul pontile. Gli aveva fatto visita nell'accampamento dell'ospedale finché si era ripreso al punto da poter essere trasferito in una capanna, e da allora erano diventati amici. Mary apprezzava i suoi modi signorili e la sua riservatezza, ed era lusingata dalla sua palese adorazione. Non lo si poteva definire bello - troppo magro e con capelli biondi ormai radi -, però aveva un viso volitivo, e un'espressione determinata negli occhi ambrati. Assai concreto e affidabile, era anche un bravo falegname. Mary aveva bisogno di lui come rete di sicurezza nel caso non avesse più potuto contare su Will. Le dispiaceva nutrire questi dubbi su quello che per molti aspetti era il migliore dei mariti, ma doveva essere realista e considerare ogni eventualità. Se avessero raggiunto un luogo sicuro - e Mary era assolutamente determinata a riuscirci - temeva che Will si montasse la testa. Gli piaceva bere, e l'alcol lo rendeva litigioso. Per questo lei doveva avere una specie di piano di emergenza: non intendeva rischiare la vita sua e dei suoi figli per un'esistenza

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che poteva rivelarsi addirittura peggiore di quella sopportata fino ad allora. Sapeva che Sam Broome sarebbe stato pronto a fare le veci di Will, se necessario. «Sam sa fare cose che possono tornarci utili» affermò decisa. «E un falegname, ricordalo. E poi è tranquillo, equilibrato, e andrà d'accordo con tutti.» Will emise una specie di grugnito, come a manifestare il proprio dissenso, ma non replicò. Nei giorni successivi, Will invitò uno a uno nella capanna gli uomini prescelti per esporre il piano singolarmente. Per il momento non volle rivelare a nessuno chi altri era coinvolto. Tutti manifestarono un incontenibile entusiasmo e molta gratitudine per essere stati scelti, e promisero di contribuire all'accantonamento delle scorte. Mary, seduta comoda, non interrompeva mai la spiegazione del marito e soltanto quando l'uomo di turno stava per andarsene si permetteva di intervenire. «Devi impegnarti a non fiatare con nessuno» proclamava con decisione. «Neppure con il tuo migliore amico, o con la tua donna. Con nessuno. Se lo fai, e il nostro piano viene scoperto, giuro che ti uccido.» Bill Alien e William Moreton pensavano che Will fosse pazzo a portare una donna e due bambini piccoli in un viaggio potenzialmente tanto pericoloso, ma anche se entrambi erano abituati a dire la loro quando avevano qualcosa da obiettare, nessuno dei due osò sollevare la questione in presenza di Mary. Nel percepire la furia nella sua voce e la gelida determinazione nei suoi occhi grigi, si resero conto che non era certo una complice passiva. Senza che Mary lo dichiarasse apertamente, compresero che l'idea era sua, suo il piano, e che le sue non erano parole a vanvera. Verso la fine di febbraio il deposito segreto sotto il pavimento della capanna era già pieno di scorte. In vari posti sparsi per la colonia furono nascosti due vecchi moschetti, munizioni, un rampino,

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attrezzi vari, pentole, un barile d'acqua e resina per calafatare nel caso si fosse formata una falla nello scafo. Il piano era fuggire dopo la partenza della Waaksamheyd per l'Inghilterra, quando in porto non sarebbe rimasta altra nave in grado di inseguirli o di informare altri dell'evasione. Bennelong aveva subito accettato di raggiungere a nuoto il cutter la notte stabilita e di portarlo a riva per loro. Restava soltanto una cosa da fare, e cioè ritirare da Detmer bussola e sestante e pagargli il prezzo pattuito. Will non aveva avuto problemi a tirare fuori il denaro. Disponeva dei risparmi accumulati dal giorno dell'arrivo, impossibili da spendere in quel posto. Il resto se lo era procurato nello stesso modo in cui si procurava maiale salato, riso e farina, e cioè vendendo pesce. Moltissimi fanti erano fin troppo felici di comprarlo perché, come lui, non avevano altra possibilità di spendere - fatta eccezione per gli alcolici - e gli ufficiali che lo acquistavano non facevano troppe domande. Detmer, però, pretese che fosse Mary a pagare e ritirare gli oggetti, reputandolo molto meno rischioso. Una buona idea era nascondere i soldi nella biancheria pulita e ritirare sestante e bussola avvolti in altri panni sporchi. Tuttavia Will non gradiva l'impressione che questo avrebbe fatto al resto del gruppo: era lui a guidare l'evasione, non Mary, e temeva che in breve tempo si cominciasse a pensare che l'idea era tutta di sua moglie. Mentre rimuginava questi pensieri, un pomeriggio andò a pescare. La sera precedente avrebbe voluto convocare tutti nella sua capanna per parlare della fuga, ma Mary si era opposta con fermezza, affermando che una riunione tanto allargata avrebbe dato nell'occhio, e attirato troppa attenzione. Stabilì che dovevano continuare a incontrarsi in tre o quattro al massimo. Perfino James Martin, il più grande amico di Will, si disse d'accordo con Mary e si schierò dalla sua parte, cosa che causò una certa tensione. Will si trovava sul cutter, pronto a salpare, con i sei uomini assegnati quel giorno ad aiutarlo, quando Bennelong arrivò dal

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pontile insieme alla sorella con i due figli e anche Charlotte, che spesso giocava con loro. Quando fece segno che voleva imbarcarsi con tutti quanti, il primo pensiero di Will fu di non acconsentire; non gli piaceva avere troppa gente a bordo, e comunque non era in vena di compagnia. Sapeva però che sarebbe stato positivo per Charlotte abituarsi alla barca, e inoltre temeva che Bennelong, risentito per il rifiuto, ritirasse la promessa di aiutarli nella fuga. Così non gli restò che assecondarlo. Era una giornata gradevole, più fresca del solito, e il malumore di Will si dissolse all'istante all'uscita dalla baia. Quando Bennelong gli indicò tutto eccitato una quantità di uccelli marini in volo nella parte occidentale dell'insenatura, Will comprese che gli stava comunicando la presenza di un grande banco di pesci in quella zona. L'indigeno aveva visto giusto, e infatti, nel tirare su la rete, la trovarono piena: da settimane non pescavano tanto. Will, fuori di sé dalla gioia, continuava ad allungare pacche sulla schiena di Bennelong e a dirgli che era proprio un brav'uomo. «Brav'uomo» ripeté Bennelong con un largo sorriso che rivelava la dentatura perfetta. «Tu dare rum brav'uomo?» «Ne bevo un goccio con te» rispose Will con una risata, e a segni gli fece capire che voleva festeggiare. Con una retata così ricca sarebbe stato in grado di tenere una grossa quantità di pesce per sé, quindi era proprio in vena di prendersi una bella sbronza. Stavano tornando indietro, verso il pontile, con il fondo della barca carico di pesci guizzanti, tra risate e reciproche congratulazioni per la loro fortuna, quando il vento rinforzò all'improvviso cogliendo Will di sorpresa. La barca, sempre più veloce, volò dritta verso alcuni scogli, e Will non riuscì a reagire abbastanza in fretta. Si sentì un rumoroso scricchiolio, i ganci che reggevano le vele si aprirono di scatto, la barca si inclinò e di colpo imbarcò acqua. Se a bordo non fossero stati in tanti, Will avrebbe potuto destreggiarsi, ma due detenuti, entrambi inesperti, furono presi dal panico; la barca si rovesciò e finirono tutti in mare.

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Non appena si trovò in acqua, Will pensò immediatamente a Charlotte, ma John, uno dell'equipaggio, l'aveva già tra le braccia. La bimba gridava di paura, ma sembrava incolume. La sorella di Bennelong aveva i due figli aggrappati alla schiena e, dopo avere lanciato un urlo al fratello, cominciò a nuotare con loro verso riva. «Io porto Charlotte» gridò John. «Tu occupati degli altri.» Bennelong rimase indietro per dare una mano a Will con gli altri cinque uomini - due soli dei quali sapevano nuotare -, poi anche lui si diresse alla spiaggia. Mentre Will aiutava quelli in difficoltà ad aggrapparsi alla barca capovolta, imprecò contro se stesso. Aveva perso l'intera retata e il capitano Phillip si sarebbe infuriato; inoltre, peggio ancora, forse sarebbe sfumata la speranza di evadere nel giro di un paio di settimane. Rimase con la barca, accanto agli uomini che tossivano e sputacchiavano. Bennelong, raggiunta la riva, chiamò altri indigeni, che nel giro di pochi minuti trascinarono le canoe giù per la spiaggia a prestare aiuto. Alcuni arrivarono dritti alla barca per portare in salvo l'equipaggio, altri si misero a raccogliere i remi e l'attrezzatura caduta dal cutter, mentre un altro paio di uomini portò delle corde che Will assicurò allo scafo per trascinarlo al pontile. Molto più tardi, quando tornò alla capanna con Charlotte, Will scoprì che Mary aveva già appreso la notizia. Si aspettava di essere aggredito a male parole, ed era pronto a risponderle per le rime, e invece con grande irritazione si accorse che sembrava più che altro preoccupata per la bambina. Gli prese dalle braccia la piccola, che avvolse in una coperta. «Ecco fatto» disse, mentre Charlotte ricominciava a piangere. «Appena ti scaldi un po', stai di nuovo bene, vedrai. Devo proprio insegnarti a nuotare, vero?» «Brava! Consoli lei, ma a me non pensi neppure un secondo» sbottò lui. «Magari mi frustano di nuovo. E poi, possiamo dire addio alla speranza di fuggire.»

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Già mentre pronunciava queste parole si accorse di comportarsi da stupido, ma veder svanire il sogno quando erano così vicini alla partenza gli pareva davvero troppo. I suoi indumenti si erano asciugati in fretta al vento, ma lui sentiva freddo fin dentro le ossa. Sapeva che molti di quelli che gli invidiavano la libertà di movimento avrebbero gioito della sua disavventura. «Non dire cretinate» ribatté Mary con un'occhiata sprezzante. «Perché mai dovrebbero frustarti? E stato un incidente.» Quelle parole taglienti lo convinsero che la moglie non si curava più di lui. Tutto il risentimento che era andato accumulandosi negli ultimi tempi arrivò a un punto di non ritorno e crebbe fino a esplodere. Le allungò uno schiaffo violento in faccia, scaraventandola a terra insieme a Charlotte, seduta sul suo grembo. «Tu, gelida puttana» le gridò. «Pensi solo a te stessa.» Charlotte stava strillando, e Mary si affrettò a tirarla su da terra e a rimetterla in piedi. Non tentò di scappare dalla capanna, ma affrontò Will con aria di sfida tenendo la figlia tra le braccia. «Attribuirò lo schiaffo allo spavento» disse altezzosa. «Ma se mai ti viene in mente di picchiarmi di nuovo, ficcati bene in testa che la seconda volta non sarò così comprensiva.» Will non aveva mai messo le mani addosso a una donna, e nel momento stesso in cui l'aveva colpita si era profondamente vergognato. Tuttavia non intendeva scusarsi, visto che lei non si comportava da donna e non scoppiava a piangere. Girò dunque sui tacchi e uscì dalla capanna. Tornò molto più tardi, ubriaco al punto da entrare barcollando e crollare di faccia sul pavimento. Mary era a letto al buio, sveglia, ma non si alzò ad aiutarlo. Sospettava che fosse tornato non per un atto di volontà, ma perché il suo corpo possedeva un naturale istinto che lo riportava a casa. Si chiese come si fosse procurato da bere, e quali segreti avesse rivelato sotto l'influsso dell'alcol. Era troppo infelice per riuscire a dormire. Will sembrava non avere considerato che, nell'udire che la barca si era rovesciata,

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lei aveva creduto che Charlotte fosse annegata. Non sapeva che John l'aveva tenuta stretta a sé per almeno un'ora dopo il disastro. Di fronte a una paura del genere, contava poco per lei il fallimento dell'evasione. D'altra parte, non appena appreso che Charlotte era salva, quel posto le parve ancora più orribile. Mentre aspettava sul pontile, si era guardata intorno e l'aveva visto per quello che era, un insediamento di baracche, allestito con il sudore di uomini che erano stati privati di ogni umanità. Tutto le faceva orrore: le costruzioni approssimative, il triangolo della flagellazione, il cimitero tetro e già sovraffollato, la gente intrappolata in quel luogo. Ovunque aleggiava un terribile fetore, la combinazione di escrementi e cibi avariati, accompagnato da un'atmosfera oppressiva e disperata. Impensabile crescere i figli in quel posto. Come poteva combattere contro lo squallore, la degradazione, lo stato di totale sconforto? Come poteva insegnare ai figli a non rubare quando quello era l'unico modo per sopravvivere? O che la fornicazione era peccato, quando per la maggior parte dei coloni era il solo piccolo piacere possibile? Quasi tutti i bambini erano bastardi, e molte madri non erano neppure in grado di affermare con certezza chi era il padre. Negli anni a venire era addirittura possibile che quei figli finissero per commettere incesto senza saperlo. Mary sentiva che quel posto feriva tutti i suoi sensi. L'atterriva vedere l'ubriachezza, la depravazione, la pigrizia, la malattia, l'estrema stupidità. Ogni giorno le sue orecchie venivano bombardate dal linguaggio scurrile e dai suoni dell'infelicità umana. Gli odori la nauseavano. Perfino il tatto, il più fisico dei sensi, era distorto. Il legno era grezzo e pieno di schegge, e quelli che sembravano morbidi fili di erba pungevano come aghi; la sua pelle, come quella di Will, era dura e ruvida, spesso coperta da pustole, e prudeva per le punture d'insetto. Che nostalgia di tutte le cose che a Fowey facevano parte della vita quotidiana! Sentire il profumo del pane che cuoceva nel forno, di lavanda, rose e garofani nel giardinetto; vedere fragole,

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mele e prugne bagnate di rugiada; assaporare il latte fresco da una brocca, indossare una sottana pulita, asciugata al sole; vedere i piedi rosei e morbidi appena lavati; distendersi sulla fluttuante morbidezza di un materasso di piume e guardare le tende mosse dalla brezza. Soltanto i suoi figli le facevano afferrare appieno quanto si era lasciata alle spalle: la loro pelle di seta, le voci tenere e melodiose alle sue orecchie, il respiro dolce come acqua di sorgente. A parte gli stracci che li coprivano, non erano per natura diversi dai figli dell'aristocrazia; ma proprio come non poteva aspettarsi che mantenessero il loro aspetto infantile, neppure poteva sperare di proteggerli dalla dissolutezza di quel posto. Ben presto avrebbero assistito alle flagellazioni, ai frettolosi accoppiamenti dietro i cespugli, all'ubriachezza, e per loro sarebbe stata la normalità. Senza qualcosa di bello o degno da mostrare, come si poteva insegnare a cogliere la differenza tra il bene e il male? Non avevano commesso alcun crimine, eppure come figli di reclusi erano diventati loro stessi reclusi, e se lei non li avesse portati via, quel marchio infamante si sarebbe impresso su di loro e sui loro figli. Non poteva permettere che accadesse. La mattina successiva Mary fece alzare i bambini, allattò Emmanuel, poi preparò un po' di pane fritto per la colazione di Charlotte senza svegliare Will. Era ancora disteso sul pavimento, dove era crollato la notte precedente, e la capanna puzzava di rum. Sentì il tamburo che segnava l'inizio del lavoro mentre era per strada, diretta a ritirare la biancheria sporca dalle case degli ufficiali. Si chiese se la perdita del cutter significasse che Will avrebbe dovuto presentarsi al lavoro come tutti quanti: comunque, non era certo disposta a tornare indietro a svegliarlo. Aveva un fagotto di biancheria appeso alla spalla, Emmanuel appoggiato al fianco e Charlotte che saltellava davanti a lei quando si sentì chiamare da Tench. Da settimane non lo vedeva neppure

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da lontano perché era trattenuto dagli impegni a Rose Hill. In quel momento stava uscendo dalla casa del dottor White, dove probabilmente aveva trascorso la notte. «Come sta Charlotte?» chiese avvicinandosi. «Ho sentito che era sulla barca ieri.» «Ha già dimenticato, ma io mi sono spaventata a morte prima di sapere che era sana e salva.» «E Will come sta?» «Ci dorme su.» Lasciò a Tench di indovinare se intendeva per la paura dell'incidente o per il rum. «Quanto meno dormiva quando l'ho lasciato.» Tench guardò verso il pontile. «Le riparazioni cominceranno oggi. Dovrebbe esserci anche lui.» Mary sentì il cuore mancare un battito. «Riparazioni?» Con un sorriso, Tench allungò la mano per accarezzare la guancia di Emmanuel. «Certo. Il capitano Phillip rivuole la barca in ordine al più presto.» «È arrabbiato con Will?» «Perché mai?» Tench aggrottò la fronte. «Il capitano Hunter ha visto tutta la scena e ha fatto rapporto. Poteva succedere a chiunque, dopo quanto è accaduto allo stesso Hunter sulla Sirius a Norfolk Island. Phillip è anche molto rinfrancato per come Bennelong e gli amici indigeni si sono prestati nelle operazioni di salvataggio.» «Will si aspetta di' venire fustigato.» Mary abbozzò un sorriso. «Allora vado a trovarlo. Non ha nulla da temere se si mette sotto a riparare la barca.» Mary percorse un tratto di strada con Tench. Parlarono di Bennelong, di come già una volta si era rivelato prezioso quando il capitano Phillip era stato trafitto dalla lancia di un indigeno. «La mia speranza è che in futuro tutta la nostra gente accolga di cuore gli indigeni» disse Tench. Mary in genere condivideva le sue opinioni, ma quel giorno, forse stremata dai timori e dalla disperazione, non poté fare a meno di pensare che fosse ingenuo, se non addirittura patetico.

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«Non succederà. Secondo me a un certo punto il governo vorrà cancellare dalla faccia della terra tutti gli indigeni perché non si adattano a rientrare nei progetti per questo posto.» Tench parve sgomento. «Oh, Mary. No!» «Si comporta in questo modo con chi ha valori diversi» disse in tono di sfida. «I ricchi e i potenti sono riusciti ad arrivare dove sono calpestando i meno dotati. Anche quando noi detenuti avremo scontato la pena, credete che sarà dimenticato il nostro passato? Io sono convinta che qui la società sarà sempre divisa su due piani: galeotti, indigeni ed ex galeotti in basso, e la gente come voi in alto.» «Non capisco cosa intendi per “gente come voi”» rispose indignato. «Tutti gli uomini nascono uguali, e si sollevano o cadono a seconda della loro scelta personale.» «E maledettamente più facile sollevarsi se si è istruiti, con una famiglia alle spalle a guidarti» sbottò lei. «Ma non è questo il punto. Noi detenuti non siamo meglio degli schiavi per la gente come voi. Più ne mandano qui, più questo paese attirerà le classi ricche inglesi. Immagino che col tempo verranno a impadronirsi delle terre, ma chi le lavorerà?» Fece una pausa in attesa di una risposta precisa di Tench, ma lui rimase in silenzio con un'espressione ferita. «Noi galeotti» concluse lei trionfante. «Ecco chi! Non negatelo, signore, perché anche voi sapete che è così. Alcuni possono sentirsi a disagio a catturare un nero per costringerlo a lavorare gratis, ma a nessuno importa se un gruppo di criminali sgobba fino a schiattare.» Tench era disorientato. Da quando la conosceva, non aveva mai percepito in Mary tanta amarezza. «Credevo che tu fossi felice qui, con Will e i tuoi figli» disse con un filo di voce. Eppure, anche mentre pronunciava quelle parole, si rese conto che stava facendo propria l'idea della maggior parte degli ufficiali, e cioè che i deportati fossero privi di sensibilità. «Felice!» Mary rise senza ombra di allegria. «Come posso essere felice quando Charlotte piange di fame? Quando temo per

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il futuro suo e di Emmanuel? Non hanno fatto niente di male, eppure anche loro sono condannati all'ergastolo.» «Mi dispiace, Mary.» La voce di Tench tremava, e i suoi occhi erano umidi. «Vorrei...» «I desideri non si avverano, almeno per le donne come me. La fortuna me la devo creare con le mie mani.» Tench indugiò un poco mentre Mary scendeva alla spiaggia a lavare i panni. Si sentiva impotente perché in cuor suo sapeva che ogni parola che lei aveva pronunciato era vera. Una volta che la Scarborough, la Surprise e la Neptune fossero tornate in Inghilterra, a chi sarebbe importato dei numerosi criminali morti nel viaggio verso il Nuovo Galles del Sud, o dei morti della Prima Flotta là, nella colonia? A nessuno, sospettava. Eppure migliaia di persone avrebbero atteso con impazienza informazioni sul luogo, accarezzando la prospettiva di occupare terre in quella zona. Forse la maggior parte si sarebbe ritirata nel sentire quali difficoltà presentava, ma gli opportunisti, attirati dal fatto di non dover pagare la mano d'opera, sarebbero stati pronti a correre il rischio. Come era successo in America. Tench osservò Mary posare a terra Emmanuel, vicino a Charlotte, e poi inginocchiarsi sulla riva e incominciare a lavare. Ricordò allora la prima volta che le aveva parlato, a bordo della Dunkirk, quando si era infuriata per la spaventosa situazione nella stiva. Era davvero straordinaria. Fin da quel giorno aveva lottato con coraggio per ottenere il meglio dalla vita. Moltissime altre giovani intelligenti si erano lasciate andare. La sua amica Sarah era diventata una puttana ubriacona, come la maggior parte delle superstiti della Charlotte. Sette erano morte, e Dio solo sapeva se alcune di loro sarebbero sopravvissute se ci fosse stata una minima prospettiva di miglioramento delle condizioni. Era profondamente addolorato per tutte loro, ma l'inaspettata

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asprezza di Mary, un tempo tanto ottimista, gli risultava addirittura intollerabile. Perché non trovava il coraggio di rivelarle i propri sentimenti, di accantonare gli ambiziosi piani per il futuro ed esortarla a lasciare Will per mettersi con lui? Altri ufficiali, come Ralph Clark, si erano presi mogli galeotte, eppure Clark aveva a casa ad aspettarlo una moglie che proclamava di amare. Non sarebbe stato poi così difficile. Will aveva quasi finito di scontare la pena, e a quel punto non avrebbe esitato a imbarcarsi sulla prima nave senza guardarsi indietro. Tuttavia, per quanto desiderasse Mary, sapeva di essere troppo legato alle convenzioni per sottrarre moglie e figli a un altro uomo. Non sarebbe stato giusto negarle la sicurezza di un matrimonio. E neppure poteva immaginare di vederla trattare dall'alto in basso dai suoi amici e parenti, cosa che di sicuro avrebbero fatto nell'apprendere la sua storia. Inoltre, forse si illudeva nel pensare che lei ricambiasse i suoi sentimenti: in realtà non aveva mai detto nulla per lasciar intendere che provava per lui qualcosa più dell'amicizia. Osservò la sua esile figura china sull'acqua: ogni tratto del suo corpo esprimeva determinazione. Quella donna sarebbe riuscita a cavarsela. In qualche modo Tench percepiva che non era destinata a essere la schiava di nessuno. ***

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Capitolo 11. 1791. Li hai, i soldi?» chiese Detmer con il suo pesante accento straniero. Mary annuì mentre tirava fuori un fagotto di biancheria pulita. «Sono in un fazzoletto» sussurrò. Sfiorò l'involto che lui aveva in mano. «È tutto qui dentro?» Era il 26 marzo, e Detmer sarebbe partito due giorni dopo per l'Inghilterra con il capitano Hunter e l'equipaggio della Sirius, naufragata. Era metà mattina, e come al solito a quell'ora sul pontile c'era un gran viavai. I marinai di Detmer facevano rotolare barili d'acqua dolce per caricarli a bordo, i fanti pattugliavano, i galeotti lavoravano di sega e martello per costruire un nuovo magazzino, e le deportate, di ritorno dal lavoro in casa degli ufficiali, si chiamavano a gran voce. C'erano anche molti bambini, piccoli monelli sporchi, seminudi, che si arrampicavano sulle casse di imballaggio pronte per essere imbarcate. Di tanto in tanto qualcuno li scacciava con un urlo, e loro si dileguavano come topi giù per un tubo di scolo per poi ricomparire nel giro di qualche minuto. Il cutter era appena stato riparato, proprio come previsto da Tench. L'incidente si era rivelato un colpo di fortuna perché la barca era ora in condizioni migliori di prima.

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«Sì, bussola e sestante sono qui dentro. Non ti imbroglierei mai, Mary» disse Detmer con un sorriso di vago rimprovero. «Hai voglia di salire a bordo per un brindisi di commiato?» «Sapete bene che non oserei» rispose lei guardandosi intorno. Era perfettamente consapevole che la nave di Detmer veniva tenuta d'occhio con attenzione per evitare che vi salissero dei clandestini, come era accaduto sulla Scarborough alla partenza da Sydney Cove. Scoperti prima che la nave superasse i due promontori, erano stati immediatamente sbarcati. Da allora fanti e ufficiali avevano aumentato la sorveglianza. Mary vide un paio di ufficiali scendere dalla residenza del governatore e comprese che era prudente allontanarsi al più presto dalla banchina per non destare sospetti. «Vorrei poter fare di più per te» sospirò Detmer. «Se ti avessi incontrato in qualsiasi altro posto del mondo, credo che le cose sarebbero andate diversamente.» Mary arrossì e abbassò gli occhi. Non sapeva mai come prendere Detmer e i suoi commenti spesso molto personali. In certi momenti era convinta che lui nutrisse forti sentimenti nei suoi confronti - in caso contrario perché mai avrebbe corso tanti rischi per aiutare lei e Will? -, mentre in altri momenti si sentiva soltanto una pedina nel suo gioco che mirava a irritare il capitano Phillip. «Guardami, Mary» disse con tono dolce e pressante. Lei fissò i suoi occhi azzurri e avvertì un moto di desiderio. Quel giorno appariva più attraente del solito con i capelli biondi spuntati, il viso sbarbato, l'immacolata camicia bianca, e i lunghi stivali ben lustrati. Mary si chiese se tutto ciò fosse in suo onore. Era straordinario che ancora una volta si sentisse attratta da un uomo di rango tanto superiore. Ormai da due mesi Detmer riempiva i suoi pensieri e i suoi sogni proprio come un tempo faceva Tench, ma se quest'ultimo avrebbe occupato sempre un posto speciale nel suo cuore - e l'intuito le suggeriva che lui contraccambiava i suoi sentimenti -, con Detmer si trattava di una questione puramente fisica.

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Le dava l'impressione di un uomo che non aveva mai dovuto rispondere di nulla a nessuno, con acqua salata nelle vene, felice soprattutto in mare a combattere contro gli elementi. Era profondo come l'oceano, e forse altrettanto pericoloso. Detmer sorrise. «Così va meglio. Non avrò occasione di rivederti prima della mia partenza. Restituirai questa biancheria a un membro dell'equipaggio.» Temendo che la sua voce si incrinasse, Mary si limitò ad annuire. Quali che fossero i suoi motivi per aiutarla, Detmer si era comportato da uomo d'onore. Non l'aveva ricattata per portarsela a letto e l'aveva trattata da signora, non da galeotta, e di questo gli sarebbe sempre stata grata. «Ho molta paura per te e i tuoi bambini» le disse abbassando la voce a un mormorio. «Voglia Iddio che ce la facciate.» «Se la determinazione conta qualcosa, ce la faremo» affermò lei. Poi ebbe un momento di esitazione. Desiderava tanto comunicargli la propria profonda gratitudine, ma temeva di mettersi a piangere. «Dio vi benedica, Detmer» riuscì ad aggiungere soltanto. «E benedica anche te. Non ti dimenticherò, e cercherò di scoprire come ne siete usciti.» Si scambiarono gli involti, poi lui le coprì la mano con la sua per un secondo. «Ora devo andare.» Mary mosse un passo indietro per allontanarsi. «Restituisco il bucato domani.» Alle due del pomeriggio del 28, Mary e Will, uno accanto all'altra sulla spiaggia, guardavano in silenzio la Waaksamheyd attraversare la baia verso i due promontori. Mentre gli uccelli marini seguivano la sua scia, si sentiva il vento soffiare nelle vele. La colonia quasi per intero seguiva la partenza dalla banchina, e Mary udiva in lontananza le grida di augurio e di saluto. C'era anche il capitano Phillip, e per la prima volta lei avvertì un moto di solidarietà per quell'uomo.

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Di sicuro lui avrebbe voluto fare vela verso casa con il capitano Hunter; i due erano amici e insieme ne avevano passate tante. Per molti aspetti Phillip era un recluso proprio come lei, incatenato a quel luogo di disperazione dal senso dell'onore e dell'impegno. Ora che la fuga era vicina, Mary si rendeva conto che in realtà era un uomo per bene, umano, giusto e pieno di dignità in una situazione il più delle volte impossibile. In cuor suo trovò addirittura l'impulso di augurargli ogni bene. «Altre sette ore e siamo in viaggio» disse Will con un lieve tremore nella voce. Mary sapeva che stava pensando a quel che sarebbe successo se fossero stati catturati. Forse li avrebbero impiccati; di sicuro li avrebbero fustigati e rimessi in catene. Per quanto fosse buono il piano, per quanto fossero stati prudenti, c'era pur sempre la possibilità che qualcuno con un qualche motivo di animosità ne avesse avuto sentore e li tradisse. Mary insinuò la mano in quella di Will e la strinse. Anche lei aveva paura, non per se stessa ma per i bambini, perché sapeva fin troppo bene di mettere a repentaglio la loro vita. E tuttavia era un rischio che doveva correre. Rimanere lì poteva significare per loro soccombere alla prossima epidemia o alla prossima riduzione delle razioni. Meglio affrontare i pericoli del mare; almeno, se fossero affondati, sarebbero morti tutti insieme in modo rapido e pulito. «Il cutter è in buone condizioni ora» disse Will, quasi a rassicurare se stesso. «Perfino il tempo è dalla nostra parte.» Mary alzò gli occhi verso il cielo. Era nuvolo, e se non rischiarava all'improvviso, quella sera la luna sarebbe stata oscurata. Spirava una lieve brezza, ma aveva poca importanza perché avrebbero lasciato che fosse la marea a portarli fuori dalla baia: i remi facevano troppo rumore e le vele sarebbero state troppo visibili. «Ce la faremo» affermò decisa. «Sono sicura.»

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Alle sei era già buio, e nelle due ore successive gli uomini arrivarono uno a uno per poi andarsene in silenzio con un sacco di provviste da portare alla spiaggia, nel luogo concordato per la partenza. Emmanuel e Charlotte erano già a letto, profondamente addormentati. Mary era certa che il piccolo non si sarebbe svegliato al momento di essere preso in braccio, ma per Charlotte la faccenda era diversa. Per tutto il giorno era stata noiosa, e non aveva fatto altro che frignare e fare capricci; di sicuro aveva percepito che c'era qualcosa nell'aria, e se si fosse svegliata ritrovandosi su una barca, si sarebbe potuta mettere a strillare. Mary sentì la bocca riarsa per la paura quando vide prelevare l'ultimo sacco dal nascondiglio segreto sotto il pavimento e rimase sola con i bambini addormentati. Sam Broome sarebbe tornato di lì a poco per darle una mano. Lei avrebbe portato Charlotte, e lui Emmanuel, mentre Will avrebbe aspettato che Bennelong portasse a riva la barca. Si inginocchiò accanto al letto e recitò un'ultima preghiera perché tutto andasse bene, poi la mente vagò su ciò che aveva significato per lei quella capanna negli ultimi tre anni. Era stata un rifugio, il solo posto in cui percepiva una certa pace e una relativa sicurezza. Vi aveva gioito nel fare l'amore con Will, era stata felice per la nascita di Emmanuel e per i progressi di Charlotte, dai primi passi alle prime parole. E adesso la stavano lasciando per l'ignoto. «Mary!» Sobbalzò nel sentire Sam sussurrare il suo nome; si voltò e lo vide stagliarsi sulla soglia. «Scusami» aggiunse lui. Sembrava imbarazzato di avere interrotto le sue preghiere. «Figurati» mormorò lei alzandosi in piedi. «Si è già visto Bennelong?» Sam entrò nella capanna e abbassò lo sguardo sui bambini addormentati. Alla luce tremula della candela il suo viso scarno sembrava quasi un teschio. Non era bello e sicuro di sé come Will, ma la tenerezza con cui guardava i bimbi immersi nel sonno la commosse.

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«Will crede di averlo visto nuotare verso il cutter» rispose lui. «Io non sono riuscito a scorgerlo - è troppo buio -, comunque lui dice che devi venire subito.» Mary sollevò Emmanuel, gli strinse addosso la copertina, poi lo passò a Sam. Prese un marsupio che aveva fatto con un pezzo di tela e lo passò intorno al piccolo addormentato. Legò una bretella alla vita di Sam e altre due sulle sue spalle, incrociandogliele sulla schiena, e poi gliele assicurò sul petto. «Così ti lascia le mani libere» si premurò di spiegare, temendo che lui si irritasse nel vedersi trattato come una bambinaia. Sam abbozzò un mezzo sorriso. «Io ho paura, e tu?» sussurrò. Mary scosse la testa. Aveva lo stomaco in subbuglio, i sudori freddi, e una gran parte di lei rimpiangeva di avere escogitato quel piano, ma non era disposta ad ammettere nulla di tutto questo. «Ce la faremo, Sam» disse più con spavalderia che con convinzione, prima di voltarsi verso il letto di Charlotte. Quando la prese tra le braccia, la piccola borbottò nel sonno, ma poi appoggiò la testa sulla spalla della madre senza svegliarsi. Sam raccolse la copertina e la rimboccò intorno alla bambina, poi sorrise a Mary. «Pronti?» «Quasi.» Mary si chinò a prendere un sacchetto di stoffa dal tavolino. «Che cos'è?» chiese Sam nel sentire frusciare il contenuto. «Foglie di tè dolce» spiegò lei con un sorriso. «Devo portarmi via l'unica cosa che ci è piaciuta di questo posto, non trovi?» Sgattaiolarono fuori dalla capanna senza fare rumore, fermandosi di tanto in tanto per accertarsi che nessuno fosse nelle vicinanze. Alle loro spalle, verso l'insediamento, si scorgeva il debole bagliore di fuochi morenti, ma i soli suoni erano quelli consueti di ogni notte: i passi pesanti di una sentinella che percorreva avanti e indietro la banchina, il russare proveniente dalle capanne, qualche colpo soffocato di tosse e lo sciabordio del mare. Charlotte si mosse tra le braccia della madre, ma Mary le strinse la coperta addosso per ripararla dall'aria fresca e accelerò l'andatura per tenere dietro a Sam.

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Quando gli occhi si abituarono al buio, individuò a malapena il cutter che veniva verso riva; lo tirava a nuoto Bennelong, invisibile a parte un guizzo bianco dei denti di tanto in tanto. Mary sapeva che, se il loro piano fosse stato scoperto, sarebbero stati fermati nel giro di pochi minuti. Le dolevano le orecchie per lo sforzo di ascoltare eventuali rumori di passi veloci; ogni muscolo del corpo era in tensione, e a ogni istante temeva di sentire uno sparo di moschetto. Trasalì quando Will uscì dai cespugli per pararsi davanti a lei. Era una scena irreale: la spiaggia scura, le otto persone immobili come statue, i fagotti posati a terra come massi. Nel più assoluto silenzio fissavano tutti il cutter sempre più vicino. Will avanzò un poco nell'acqua e poi si mise a nuotare senza rumore quasi come Bennelong per aiutarlo ad accostare la barca. James Martin entrò in acqua e fece segno agli altri di portare le cose da sistemare a bordo. Mary sentiva i nervi tesi al punto di rottura. Ogni minimo suono pareva amplificato. Cullò dolcemente Charlotte per evitare che si svegliasse, augurandosi che gli uomini si sbrigassero con le operazioni di carico. «La prendo io, adesso» le sussurrò William Moreton tendendo le braccia. «Tu sali.» Era il momento da lei più temuto, perché era facile che la bambina si svegliasse nel passare dall'uno all'altro, ma sapeva benissimo che non poteva salire in barca con la piccola. William, però, prese Charlotte con la delicatezza che avrebbe usato per un figlio suo, e fece cenno a Mary di procedere. Lei sollevò l'orlo della veste e avanzò in acqua. Quando fu sistemata e seduta, si protese a riprendere Charlotte. William Moreton gliela passò, poi salì a bordo. Quindi fu il turno di Sam Broome con Emmanuel, che prese posto accanto a Mary. Bennelong sorrideva, rivelando un biancore abbagliante di denti e occhi mentre teneva ferma la barca per permettere agli altri di salire con i moschetti avvolti in tela cerata. Will si mise al timone, ai suoi lati si sistemarono Nat Lilly e Jamie Cox, e per ultimo

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salì Bill Alien. Bennelong assestò una bella spinta allo scafo che scivolò via nell'acqua. L'indigeno li seguì a nuoto per un poco, spingendoli finché la barca prese la corrente e cominciò a spostarsi lentamente nella baia. Poi si staccò, agitò le mani in un saluto e scomparve nell'oscurità, silenzioso come un pesce. Fu soltanto dopo qualche tempo che Mary si accorse di essere rimasta a lungo con il fiato sospeso. Parve trascorrere un tempo infinito prima che vedessero infine i promontori profilarsi davanti a loro come due nere montagne gemelle, anche se in realtà non dovevano essere passate più di tre ore. Si chiusero in un assoluto silenzio perché, se la sentinella li avesse visti o sentiti, avrebbe dato l'allarme e sparato. D'un tratto l'acqua cominciò a incresparsi e la corrente aumentò trascinando la barca molto carica verso il tratto di mare tra i due promontori. Will lottò con il timone per portarli sani e salvi in mare aperto. Charlotte si svegliò e, messasi a sedere in grembo alla madre, si guardò intorno con aria stranita. «Issa la vela» disse Will con voce rotta, come stentasse a credere alle proprie parole. «Per Dio, siamo liberi!» Mary, incapace di parlare, riuscì soltanto a sorridere. Si voltò a guardare indietro, ma non vide altro che rocce nere e il passaggio appena superato. Non avvertiva alcuna tristezza nel lasciare quel posto; i rimpianti non facevano parte della sua natura. Solo quello che aveva davanti contava. Tuttavia nella sua mente si formò l'immagine di Tench addormentato nel suo letto, e questo le provocò una piccola fitta di dolore. Non l'aveva mai visto spogliato, e neppure mentre dormiva, si radeva o si lavava. Lo avrebbe sempre ricordato in giacca rossa, brache bianche e stivaloni lustri intento a percorrere la banchina a passo veloce. Avrebbe anche ricordato i suoi dolci occhi

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castani e la sensazione che provava quando le loro mani si sfioravano. E i suoi numerosi piccoli gesti di gentilezza. Se aveva un rimorso era quello di non averlo salutato, di non avergli detto neppure una sola volta che gli voleva bene. Erano pensieri oziosi, perché lui non avrebbe mai potuto essere reso partecipe dell'evasione. Mary guardò indietro ancora una volta per inviargli un messaggio sulle ali del vento, nella certezza di non rivederlo mai più. Poi si voltò con un forte grido di gioia per la libertà ritrovata. Benché non sapesse se sarebbero riusciti ad arrivare fino a Kupang, era comunque una vittoria il fatto che il piano per uscire dal porto avesse funzionato. Osservò i volti esultanti degli otto uomini e comprese che, a suo modo, aveva vinto. Forse non era capace di leggere e scrivere, e neppure di navigare come Will, e forse nessuno nel gruppo avrebbe mai riconosciuto il suo ruolo nel piano di fuga, ma lei conosceva la verità e, comunque andassero le cose, intendeva fare in modo di trovare la salvezza e una libertà duratura. Premette le labbra sulla fronte di Charlotte, conscia che nelle settimane successive avrebbe dovuto tenere costantemente d'occhio i suoi figli. «Mary, non hai niente da dire sul mio piano così ingegnoso?» gridò Will. Per un breve istante lei pensò di fargli notare il suo ruolo marginale in quel piano. Tuttavia, come diceva spesso suo padre, una battaglia si vince con la strategia, non con la superiorità delle forze. «Bravo, Will.» Gli rivolse un sorriso affettuoso. «Sei un uomo in gamba, davvero coraggioso.» ***

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Capitolo 12.

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Dopo due giorni in mare, Mary scoprì di sentirsi esattamente come si era sentita sul carro durante il trasferimento da Exeter alla Dunkirk. Anche allora era partita piena di entusiasmo e si era poi ritrovata tutta indolenzita per la lunga permanenza nella stessa posizione. Di notte era gelata fino al midollo; di giorno sole e vento le inaridivano il viso. Tra l'altro, durante il tragitto per Devonport non aveva i piccoli da tranquillizzare, intrattenere e controllare. Mentre Emmanuel stava fermo, di solito sul suo grembo, Charlotte continuava ad andare in giro. Cedeva al sonno un paio d'ore alla volta, mentre i bambini dormivano, ma continuava a svegliarsi di soprassalto, con il terrore che chi era di turno al timone potesse appisolarsi e far finire la barca su una secca. Tuttavia, malgrado i disagi, neppure per un momento si era pentita di avere lasciato Sydney Cove. Il tempo era buono, il vento costante da nord e nordest li spingeva avanti, tutti gli uomini erano di ottimo umore e non facevano che immaginare come le varie persone della colonia dovevano avere reagito alla loro evasione. «Il capitano Phillip è pazzo di rabbia, poco ma sicuro» gongolò James Martin. «Spero che Sarah non sia rimasta troppo male nel trovare il mio messaggio» disse Jamie Cox con un filo di tristezza. «Sei stato bravo a non cedere alla tentazione di parlarle prima

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della partenza» lo consolò Mary. Sapeva che Jamie era molto affezionato a Sarah Young, e di sicuro gli era stato difficile abbandonarla. Anche se credeva di conoscere piuttosto bene i compagni prima di lasciare l'insediamento, Mary scoprì ben presto lati della loro personalità del tutto inattesi. James Martin, il brutto irlandese, era sempre stato un tipo divertente e spiritoso, abile narratore di storie, ma anche alquanto dissoluto, perennemente a caccia di alcol e di donne, e pronto a menare le mani; eppure emerse in lui un inaspettato atteggiamento protettivo che spesso lo induceva a prendere in braccio Charlotte o Emmanuel per dare a lei un po' di respiro. Samuel Bird, il rosso lentigginoso, le era parso molto tetro. Non era mai riuscita a capire perché Will lo tenesse in tanta considerazione, e invece ora che erano liberi si dimostrava allegro e, pur mantenendosi poco loquace, ascoltava gli altri e interagiva con loro. Bill Alien e Nat Lilly, i due che conosceva meno, erano uno l'opposto dell'altro. Bill, calvo e tarchiato, sembrava essere stato preso a pugni, con quel naso rincagnato; il soprannome di “uomo di ferro” gli si addiceva alla perfezione. Nat, con il viso da cherubino, gli occhi grandi e i lunghi capelli biondi, non era affatto un duro, anzi Mary lo trovava alquanto effeminato; tuttavia si era sempre inserito bene in qualsiasi squadra di lavoro, conquistando la simpatia di tutti. Inoltre, era molto leale nei confronti di Will. Al loro arrivo con la Seconda Flotta, Nat e Bill erano apparsi in migliori condizioni di salute di chiunque altro; Mary non ne aveva mai scoperto la ragione ma, nel caso di Nat, aveva preferito non indagare. Era per questa loro capacità di sopravvivere che li aveva scelti per la fuga, eppure adesso scopriva in entrambi una sorprendente sensibilità. Fin dalla prima mattina avevano sistemato una tenda per proteggere i bambini dal sole, e si erano assunti l'incarico di distribuire equamente le cibarie.

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William Moreton era senza dubbio uno dei detenuti più intelligenti. Anche lui era poco attraente, con una fronte grande e prominente, occhi sporgenti e labbra strette e tirate. Purtroppo conoscerlo meglio non significò apprezzarlo di più: era assai polemico, e Mary temeva che prima o poi avrebbe fatto uscire dai gangheri qualcuno. Perfino Jamie Cox e Sam Broome, entrambi tranquilli, posati e apparentemente ben lieti di seguire le istruzioni altrui, cominciavano a farsi valere. A un certo punto Jamie aveva tirato fuori il coraggio di dire a Will di smetterla di vantarsi, e Sam Broome aveva rimproverato James Martin perché diceva parolacce davanti a Mary e Charlotte. Mary non dubitava di scoprire di tutti aspetti ancora più sorprendenti nelle settimane successive. Di tanto in tanto gli uomini parlavano con aria sognante di ciò che avrebbero fatto una volta rientrati in Inghilterra. Erano consapevoli che sarebbe stata una follia cercare di tornare nella città natale, perché sarebbero stati di sicuro riacciuffati. Ritenevano Londra la meta preferita per passare inosservati, e con un nuovo nome avrebbero potuto ricominciare da capo. Lei non riusciva proprio a pensare a un futuro così lontano; le sembrava di sfidare il destino. La realtà era che non avevano soldi, erano vestiti di stracci e avrebbero avuto bisogno di un incredibile colpo di fortuna per evitare di tornare a delinquere. Malgrado gli scrupoli, a volte non riusciva a non abbandonarsi alla fantasia di percorrere la strada acciottolata che saliva dal porto di Fowey con i figlioletti per mano. Immaginava di avvicinarsi alla porta aperta e scorgere la madre in casa, china sopra la pentola sul fuoco. Lei avrebbe voltato la testa e, nel vederli, sarebbe quasi svenuta per la sorpresa e la gioia. Un sogno a occhi aperti ben poco realistico, che tuttavia aiutava Mary a dimenticare il mal di schiena e la scaldava fin dentro le ossa.

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Il tempo cambiò il terzo giorno portando pioggia e un forte vento di burrasca, e Will cominciò a temere che la barca fosse troppo carica. «Dobbiamo trovare un approdo finché passa» disse. Poco dopo William Moreton, che si trovava a prua, urlò che vedeva un posto apparentemente adatto. Tutti fissarono il punto indicato da lui e scorsero una piccola baia con una spiaggia di ciottoli. Will puntò la barca in quella direzione e, accertata l'assenza di secche, convenne che era il luogo ideale. «Speriamo che ci sia una taverna!» esclamò James. La battuta fece ridere tutti, perfino William Moreton che fino ad allora non aveva dato segno di apprezzare il suo umorismo. Will accostò quanto più possibile, poi James nuotò fino alla spiaggia con una cima per tirare la barca dove l'acqua era più bassa. «Ci sono stati degli indigeni» commentò James una volta sbarcati tutti. Indicò i resti di un fuoco e lische di pesce in quantità. «Be', ora non ci sono più» commentò Will scrutando con attenzione la baia. «E poi conosco abbastanza parole nella loro lingua per spiegare che non abbiamo cattive intenzioni.» Smise di piovere, tornò il sole, e Mary inseguì Charlotte lungo la spiaggia, ridendo per la grande gioia di passare la notte sulla terraferma. In un torrentello riempirono il barile d'acqua e si lavarono il viso incrostato di sale. Mary trovò una pianta che assomigliava a un cavolo. Mentre Will, Bill e James tiravano fuori la rete da pesca, William accese il fuoco, Samuel Bird e Nat raccolsero legna, e Sam Broome con Jamie Cox improvvisò un rifugio sotto gli alberi. La pesca fu fortunata, e gli uomini tornarono con una grande quantità di cefali che, accompagnati da un po' di riso della loro riserva e dalle foglie di cavolo, costituirono un pranzetto delizioso. «Non fosse per la tremenda mancanza di birra e di qualche giovane prosperosa, potrei essere felice qui» osservò James, sdraiato sulla spiaggia dopo mangiato. Mary ridacchiò. In passato non aveva provato una grande simpatia per James, ma con il tempo aveva imparato ad apprezzarlo.

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Il suo senso dell'umorismo la riscaldava, e con i suoi racconti il tempo passava in fretta. Lo trovava assai particolare con quel viso scarno e sbilenco, le orecchie e il naso grandi, le folte sopracciglia scure congiunte che, secondo sua madre, indicavano “un uomo nato per essere impiccato”; in effetti forse era così, visto che era sfuggito per un soffio al patibolo. Il suo aspetto sgradevole era peraltro compensato dalla personalità. Mary cominciava a capire come mai molte donne della colonia gli corressero dietro. Quella notte dormirono bene, tutti stretti nel loro rifugio, con il fuoco nelle immediate vicinanze. Mentre era coricata, in attesa del sonno, con Will rannicchiato contro la sua schiena e i bambini infilati tra lei e Sam, si sentì al caldo, sazia e davvero felice. Non tanto perché era lontana dalla colonia penale, ma perché si era liberato qualcosa dentro di lei. Da bambina avrebbe voluto essere nata maschio per poter pescare, arrampicarsi sulle rocce e vivere tante avventure. Le ragazze non avevano modo di fare qualcosa di diverso dallo scimmiottare la madre in attesa di incontrare un uomo. Aveva immaginato che la situazione sarebbe cambiata una volta arrivata a Plymouth, ma non era stato così. Per tutti gli anni successivi alla sua incarcerazione aveva dovuto cedere alla supremazia maschile per sopravvivere. Ora, però, era con otto uomini, e in cuor suo sapeva che nelle settimane a venire sarebbero dipesi da lei. Già percepiva la loro ammirazione; leggeva nei loro occhi e nei loro gesti che sapevano benissimo che era stata lei a mettere a punto il piano, per quanto Will insistesse ad attribuirsene il merito. Quando aveva fatto il turno al timone, tutti a bordo si erano resi conto che era in grado di governare la barca quasi bene come il marito. La sua carta vincente, però, era l'appassionata determinazione a raggiungere Kupang. Gli uomini erano forse convinti di condividerla, ma Mary sapeva che non erano spinti da una forza potente come quella che spingeva lei. Quella forza le veniva dai figli, ed era pronta ad affrontare qualsiasi difficoltà, a sfidare qualsiasi

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pericolo per condurli sani e salvi in un luogo sicuro. Posò il braccio su Emmanuel e Charlotte, e il calore dei loro corpicini la consolò accrescendo al tempo stesso la sua risolutezza. «Da quanto siamo in viaggio, Will?» chiese un pomeriggio Nat Lilly con voce rotta dalla stanchezza. Non aveva più l'aspetto da cherubino; i capelli, un tempo dorati, erano un groviglio impastato di sale, e la pelle chiara era coperta da una grande quantità di vesciche per l'eccessiva esposizione al sole e al vento. «Sembra un anno.» Will teneva un diario di bordo che aggiornava regolarmente ogni due giorni e, se non fosse stato per lui, nessuno avrebbe saputo che giorno o che mese era. «Più di un mese.» Will stava remando con forza perché c'era poco vento. «Oggi è il 2 aprile.» «Ma quanto può essere ancora lunga questa costa?» chiese Nat, arricciando petulante le labbra carnose mentre fissava la spiaggia. Non più di un'ora prima aveva osservato che pareva non cambiare mai, per quanto avanzassero in una giornata. «Non fare domande stupide» ribatté Will irritato. «Come faccio a saperlo se non è riportata sulle mappe?» Nat parve risentito. «Be', chi l'ha percorsa prima deve pur sapere se è lunga mille miglia o cinque.» «Probabile che lo sappiano, ma si guardano bene dal raccontarlo» obiettò Will seccamente. «Ora, taci e dacci dentro con i remi.» Mary era al timone con Emmanuel in grembo, mentre Charlotte, ai suoi piedi, stava giocando con una bambolina che le aveva fatto James con un pezzo di corda. Aveva seguito il discorso tra Nat e Will, proprio come in altri momenti aveva sentito ognuno degli uomini chiedere quanto distasse esattamente Kupang. Avevano tutti bisogno di riposo, e lei sperava con poco realismo di trovare presto un posto dove soffermarsi un paio di giorni. Dopo la prima sosta in quella che avevano soprannominato

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“baia della fortuna”, si attenevano a una specie di schema: qualche giorno di navigazione, poi due di riposo una volta trovato un posto con acqua dolce. A bordo, la tensione non faceva che crescere - diventavano scostanti, aggressivi e freddi l'uno con l'altro -, ma appena sbarcati ogni rancore sembrava svanire. Will, peraltro, cominciava a preoccuparsi seriamente per il cutter, che ormai imbarcava molta acqua. William Moreton continuava a parlare del monsone, convinto che stessero navigando proprio in quella direzione. La barca andava bene per veleggiare nella baia di Sydney, ma non era nata per un lungo viaggio e per il trasporto di tanta gente. Quello stesso pomeriggio, sul tardi, arrivarono in una grande baia, bella come quella di Sydney, e allora tornò l'allegria. «Dobbiamo tirare la barca in secco e calafatare le giunture» disse Will. Poi, guardando Mary, aggiunse: «Tu puoi lavare i vestiti di tutti, ragazza mia». Mary si risentì, ma evitò di replicare. Li avrebbe lavati comunque, ma quell'ordine del marito era in realtà un rimprovero. Sapeva esattamente quale fosse il problema di Will: cominciava a perdersi d'animo. Gli uomini avevano smesso di lodarlo per averli portati via, e forse lui rimuginava che, se non fosse evaso, a quel punto avrebbe finito di scontare la pena. Inoltre, dubitava di sicuro che la barca fosse in grado di resistere fino a Kupang. Mary intuiva che forse si sarebbe sentito sollevato se qualcuno avesse suggerito di fermarsi in una baia come quella fino alla fine dell'inverno, ma non voleva proporlo per timore di apparire codardo. Inoltre lo infastidiva il comportamento dei compagni verso sua moglie. Tutto era cominciato quando James si era preso una scheggia di un remo nella mano, più o meno una settimana dopo la partenza; Mary gliel'aveva tolta, e da allora lui la chiamava “Madonna”. Da quel momento, ogni volta che qualcuno aveva un problema, interpellava lei. Per Mary era più che naturale - in fin dei conti era l'unica donna a bordo, e aveva appreso parecchie nozioni mediche elementari dal dottor White sia sulla Charlotte

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che nella colonia -, ma Will pareva convinto che in realtà gli uomini avessero delle mire su di lei. Aveva addirittura sollevato un pandemonio sostenendo che, a parte lui e William Moreton, tutti a bordo sgomitavano per sedersi accanto a lei, e anche per badare a Charlotte quando allattava Emmanuel. Mary sapeva benissimo che nessuno di loro la vedeva come una possibile amante; avevano un atteggiamento fraterno, e forse starle vicino quando nutriva Emmanuel ricordava loro i momenti trascorsi con la madre. Magari erano anche stanchi di atteggiarsi da duri come Will faceva in continuazione; parlando con lei potevano abbassare la guardia per un poco. Mary non si capacitava che Will si ostinasse a trovarvi qualcosa di losco. Bill le confidò di essere sempre stato violento con le donne, forse perché suo padre picchiava abitualmente la madre. Nat ammise di avere permesso ad alcuni marinai di usarlo come una donna sulla nave: il solo modo, secondo lui, per ottenere razioni più abbondanti e uscire dalla stiva. Sam Bird le raccontò di avere rubato cibo ai compagni quando le cose andavano davvero male, e di provarne vergogna. La rivelazione di questi comportamenti, anche se biasimevoli, non peggiorò la sua opinione sui compagni. Sentiva che condividere questi segreti rafforzava il legame tra loro. Una volta sbarcati, dopo che ebbero costruito un rifugio e acceso il fuoco, Mary sistemò Emmanuel nel marsupio, lo legò stretto intorno al corpo e, lasciata Charlotte a giocare sulla spiaggia dove gli uomini stavano tirando in secco la barca, se ne andò in cerca di qualcosa da mangiare. Colse altre foglie di tè dolce e alcune bacche acide che il dottor White riteneva assai benefiche, ma tornò indietro senza riuscire a trovare le foglie simili a quelle del cavolo. D'un tratto si accorse di essere osservata da un gruppo di indigeni radunati sotto un albero. Per un attimo si sentì allarmata perché era parecchio distante dai compagni, così agitò la mano in segno di saluto - a Sydney le era sembrato che gli indigeni lo interpretassero come un gesto amichevole -, e rivolse loro un

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sorriso. Percepì che erano interdetti, ma non ostili, quindi tornò alla spiaggia. Il giorno successivo gli indigeni si avvicinarono e, accoccolatisi a una certa distanza, fissarono con grande attenzione gli uomini intenti a riparare la barca. Mary stava facendo il bucato e, ogni volta che si alzava a stendere un indumento su un cespuglio, rivolgeva loro un sorriso. «A che gioco stai giocando?» la investì Will all'improvviso. «Non ti basta avere intorno otto uomini? Ne vuoi qualcuno anche di quelli?» «Non dire stupidaggini, Will» ribatté lei stancamente. «Sorrido solo per dimostrare che non abbiamo cattive intenzioni, lo sai.» Will continuò a mostrarsi di malumore per il resto della giornata, anche se avevano preso pesce sufficiente non solo per una buona cena quella sera, ma anche da conservare per il futuro. Più tardi, dopo avere messo i bambini a dormire, Mary sedette per qualche tempo accanto al fuoco. Gli uomini stavano discutendo per l'ennesima volta sulla distanza che restava da percorrere, ma lei non si unì alla conversazione. Sentendosi molto stanca, si alzò per andare a liberarsi prima di sistemarsi per la notte. Era una splendida serata di plenilunio e, anziché tornare dritta al rifugio, sedette su un masso a godersi la quiete. I momenti di pace erano un raro piacere per lei. Fin dai tempi del suo arresto a Plymouth era sempre stata circondata da rumore e trambusto. Perfino nella capanna di Sydney non le capitava spesso di trovarsi completamente sola. In barca, qualsiasi cosa facesse era sempre sotto gli occhi degli uomini, abbastanza garbati da voltarsi da un'altra parte quando lei faceva i suoi bisogni o si lavava, ma comunque a pochi metri di distanza. C'era sempre qualcuno che parlava, discuteva, cantava o addirittura russava. Neppure il suo corpo le apparteneva per intero: Emmanuel era attaccato al seno, si arrampicava o dormiva in braccio a lei, e Charlotte reclamava quasi di continuo la sua attenzione quando era sveglia. Perfino gli uomini la usavano come cuscino su cui appoggiarsi.

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Nel guardare le stelle e il mare che lambiva dolcemente la spiaggia, poteva fingere di essere in Cornovaglia. Si immerse nelle fantasticherie immaginandosi in una casetta, con i bambini al sicuro in un vero letto al primo piano, e Will fuori a pescare. Le sembrava di vedere con chiarezza la scena: una candela accesa, il bagliore rosso del fuoco, le faville che proiettavano figure sulla fuliggine. Da piccole, lei e Dolly avevano sempre fatto a gara a chi scorgeva l'immagine più bella in quelle faville. Dolly vedeva sagome di persone dirette in chiesa o danzatori intorno al palo inghirlandato del Calendimaggio, mentre Mary vedeva pesci, animali o uccelli. Si chiese cosa avrebbe pensato sua sorella dei racconti sullo strano animale che lì chiamavano “canguro”, o dei grandi uccelli incapaci di volare che però correvano più veloci di un uomo. Poi c'erano milioni di altri uccelli esotici e variopinti, talmente belli da togliere il fiato. «Tanto non viene!» Mary quasi morì di paura nell'udire la voce infuriata di Will, che non aveva sentito avvicinarsi. Si alzò e, voltandosi, lo vide camminare a grandi passi verso di lei. «Chi è che non viene?» chiese. «Sam, naturalmente. Come se non avessi capito» ringhiò lui. «L'ho beccato mentre se la svignava quatto quatto per venire da te, e l'ho suonato come un tamburo.» «Io non sono qui per incontrare qualcuno» protestò Mary, indignata. «Non credi che ne abbia abbastanza di avere gente intorno tutto il santo giorno?» Lui la colpì tanto velocemente da non lasciarle il tempo di scansarsi o chinarsi. Il pugno la prese sulla guancia e la scaraventò all'indietro sulla spiaggia. «Tu sei la mia donna» le sibilò, prima di buttarsi su di lei e sollevarle le gonne. Era già sconvolta per il pugno, ma quando comprese le sue intenzioni, provò orrore e paura. «Piantala, Will. Non così» lo implorò.

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Cercò di sgusciare via da sotto, ma lui era troppo forte e pesante. La penetrò con violenza, mordendole il collo come un animale selvatico, e affondò le dita nelle sue natiche per farle più male. Quando ebbe finito, si alzò e si allontanò senza una parola di scuse. Mary rimase dove si trovava per qualche minuto, troppo sgomenta per muoversi. Dopo qualche tempo scese verso il mare a lavarsi. Malgrado gli occhi asciutti, dentro di sé piangeva, perché mai avrebbe immaginato che il suo Will fosse capace di un atto tanto bestiale. Fare l'amore con affetto e dolcezza era stata la sola cosa che aveva reso sopportabile la vita nella colonia; alleviava la fame, il dolore fisico, la disperazione. Se Will la desiderava quella notte, non doveva fare altro che dirlo, e lei lo avrebbe assecondato con gioia. Sapeva che quel comportamento non era insolito: a Sydney si vedevano tante donne con le labbra spaccate e gli occhi pesti. Da certe confidenze aveva saputo che quelle poverette conoscevano soltanto la violenza nell'amore fisico; i loro uomini, però, erano di un genere diverso da Will, tipi abietti capaci di rubare il cibo ai propri figli senza battere ciglio. Udì un debole rumore e, nel voltarsi, vide che Will era tornato per fermarsi poco più avanti sulla spiaggia. «Torna insieme a me, adesso» gridò. Le stava tendendo la mano. Era troppo buio per vedere l'espressione del suo viso, ma l'atteggiamento era incerto, come se si vergognasse di se stesso. Gli si avvicinò. «Perché, Will?» Non provava odio, neppure rabbia, ma una delusione profonda come una voragine. «Non lo so» rispose lui con una voce che era poco più di un sussurro. «Sono uscito dai gangheri per Sam, credo.» Mary non fece commenti mentre tornava con lui al rifugio. Aveva bisogno di tempo per riflettere.

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La mattina successiva, al risveglio Mary si trovò sola con i bambini ancora addormentati. Will era già impegnato a sistemare la barca insieme a William e James. Non riusciva a vedere gli altri, ma immaginò che stessero cercando di catturare qualche crostaceo. Si tastò con ansia la guancia. Era ancora gonfia e dolorante, ma priva di escoriazioni. Poco dopo, mentre in ginocchio tentava di accendere il fuoco, vide Will avvicinarsi. Rimase fermo per un paio di secondi con gli occhi abbassati su di lei. Mary lo ignorò. «Mi odi?» chiese lui infine. «Ti aspetti che ti odi?» ribatté lei, fissandolo. Appariva sciupato; naturalmente tutti loro lo erano, per via del vento, della pelle scottata e della mancanza di sonno. Tutti gli uomini avrebbero avuto bisogno di una spuntata a barba e capelli, ma su Will la sciatteria risaltava di più perché aveva sempre curato con orgoglio il proprio aspetto. Però c'era dell'altro. Quegli occhi spenti, infossati, glieli aveva visti una sola volta, e cioè dopo la fustigazione. Lui si strinse nelle spalle. «Non lo so.» «Insieme ne abbiamo passate tante. E tante ci toccheranno ancora; se non restiamo uniti non ce la faremo.» Pareva perplesso. «Dunque mi perdoni?» «Non parlerei di perdono; quello devi guadagnartelo» rispose lei, tagliente. «Per ora preferisco non pensarci.» Lui fece un gesto di incredulità. «Ma che razza di donna sei? Non piangi, non strilli. Proprio non ti capisco.» «Io invece ti capisco benissimo. E non piango e non strillo perché non serve a nulla.» Certo che lo capiva: temeva che lei usurpasse il suo ruolo di capo. Violentarla era il suo modo per costringerla alla sottomissione. Ma non glielo avrebbe permesso.

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Gli indigeni tornarono nel pomeriggio. Gli uomini offrirono loro qualche pesce ed ebbero in cambio un paio di grossi granchi. La mattina successiva gli indigeni tornarono alla spiaggia e li aiutarono a rimettere in mare la barca per poi salutarli con la mano quando salparono. Sarebbe stata l'ultima volta che avrebbero incontrato gente cordiale nei loro approdi. La fortuna che durava da un mese cessò di colpo. Il tempo volse al peggio, con venti tesi e forti piogge; pur vedendo molte spiagge invitanti, non tentarono di raggiungerle a causa delle onde troppo alte. Il cutter continuava a imbarcare acqua, e quando infine trovarono una baia, videro comparire all'istante alcuni indigeni che li bersagliarono con le loro lance per scacciarli. Disperati, gli uomini li misero in fuga sparando colpi di moschetto sopra la loro testa, ma solo per vederli tornare in numero maggiore la mattina successiva. Furono costretti a scappare. Una violenta tempesta li colse alla sprovvista. I cavalloni, enormi montagne verdi, sollevavano la barca e la facevano ricadere come fosse un giocattolo. Mary teneva Emmanuel legato al petto, e intanto stringeva Charlotte per impedire che cadesse in mare. Dubitò che qualcuno di loro riuscisse a rivedere il sole. Quella navigazione da incubo continuò a lungo. Il cielo era talmente nero che perfino il giorno sembrava tremendo come la notte. Emmanuel e Charlotte strillavano di terrore e, quando la stanchezza prendeva il sopravvento, si limitavano a tremare, troppo impietriti, infreddoliti e bagnati per dormire. L'acqua dolce era quasi finita, tuttavia non potevano sbarcare per timore di fracassarsi sulle secche. Allora Will gettò l'ancora a una certa distanza dalla riva e due uomini coraggiosamente nuotarono fino alla spiaggia con il barile da riempire, ma dovettero ritirarsi in tutta fretta nel veder apparire altri indigeni armati di lance. Nei due giorni successivi Mary notò che Will, sprofondato in uno stato di apatia, lasciava il comando a William Moreton e James. Talvolta il vento soffiava con tanta violenza da trasportarli così lontano che perdevano di vista la costa.

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«Tirati su, Will» gli gridò Mary un giorno. «Stiamo andando verso la secca, e finisce che si apre una falla.» Lui borbottò qualcosa sulla necessità di accelerare per battere il monsone, il che a lei parve pazzesco, quindi prese il timone e con una virata diresse la barca verso la relativa sicurezza della spiaggia. Continuavano a imbarcare molta acqua, sia da sopra che da sotto la linea di galleggiamento, e il pericolo di affondare era concreto. Proprio quando tutto pareva perduto, avvistarono la foce di un fiume. Will allora tornò in sé, prese il timone e abilmente guidò la barca tra le secche dove l'acqua era profonda non più di un metro e mezzo. Finalmente, estenuati oltre ogni dire, tirarono la barca sulla riva del fiume. C'era abbondanza di acqua dolce, ma non riuscirono a trovare neppure un pesce o qualcos'altro da mangiare. Tuttavia, per sentirsi meglio bastò un po' di riso, l'ultimo pezzo di maiale salato, e la possibilità di asciugarsi e stendersi a dormire. Al mattino gli uomini si misero al lavoro per riparare nuovamente la barca. La scorta di resina era ormai finita, ma James, ingegnoso come al solito, tirò fuori l'idea di usare il sapone. Sapevano di dover partire in fretta per trovare cibo, e Mary era ormai molto in ansia per Emmanuel e Charlotte, che sembravano stentare più degli adulti a riprendersi. Apparivano irrequieti. Charlotte ingoiò soltanto un paio di cucchiai di riso e si riaddormentò. Emmanuel rimase immobile tra le braccia della madre senza neppure tentare di attaccarsi al seno. «Si riprenderanno» cercò di consolarla James. «Sono solo stanchissimi. Lasciali dormire.» La mattina successiva avevano percorso soltanto un paio di miglia quando furono raggiunti dal monsone. Sotto una pioggia torrenziale, si ritrovarono in balia di un vento di straordinaria violenza. Ancora una volta il mare divenne agitato, e sospinti dalle raffiche persero completamente di vista la costa. Per due giorni e due notti Mary concentrò ogni sforzo sui bambini; cercando di proteggerli con una cerata, cantava per

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loro e li cullava, ma quando si accorse che gli uomini si stavano perdendo d'animo, comprese di doverli esortare a lottare per la sopravvivenza. «Possiamo farcela» gridò. «Non ha senso rinunciare. Almeno questo vento ci spinge avanti in fretta; dobbiamo alleggerire la barca gettando in mare tutto quello che non è indispensabile.» Scaricarono indumenti e oggetti personali, e poiché l'acqua continuava a entrare in abbondanza, lei si tolse il cappello e cominciò a rovesciarla fuori. «Forza» gridò. «Sgottate! Tutti quanti! Ne va della vostra vita!» Uno a uno seguirono il suo esempio, dapprima con aria apatica, poi con maggiore lena nel vedere la barca sollevarsi sull'acqua. «Benissimo» urlò. «Forza! Sam, Jamie e William, volete finire in pasto ai pesci? Se avete voglia di suicidarvi, potete farlo una volta arrivati a terra, ma non lasciatevi morire qui solo perché siete stanchi.» Per otto giorni consecutivi non videro la costa. Continuava a piovere, e Mary non smise di pungolare gli uomini. A forza di sgottare aveva l'impressione che le braccia si stessero per staccare dalle spalle, e la sua voce era rauca, ma sapeva che era la soluzione vincente: nessun uomo si fermava finché la vedeva sgottare, e la barca filava veloce. Avvistarono di nuovo la terra proprio al calare della sera, ma le onde alte scoraggiarono ogni tentativo di approdo. Will calò l'ancora e usò il rampino per tenere la barca bene ormeggiata durante la notte, con la speranza che l'indomani il vento scemasse tanto da permettere loro di sbarcare. Di primo mattino, mentre cercavano di riposare, udirono il minaccioso rumore dell'ancora che arava gli scogli; la barca stava di colpo scarrocciando verso la secca. «Si apre una falla e anneghiamo tutti» urlò Will con tono isterico per sovrastare il ruggito del vento. «Oddio, cosa mi è venuto in mente?» Mary strisciò fino all'albero, poi si mise in piedi. Guardò gli uomini spaventati, sgomenti. «E solo acqua, vento e pioggia» gridò

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più forte del vento. «Siamo arrivati fin qui, e non possiamo rinunciare adesso. Smettetela di fare i vigliacchi, salpate quell'ancora e ripartiamo.» Mentre lottavano contro gli elementi, spuntò l'alba. Quando il cielo si fece chiaro, il vento si placò. «Continuiamo a sgottare» gridò Mary, ormai quasi senza voce. «Arriviamo a terra, ve lo prometto.» «Grazie a Dio» mormorò James qualche ora dopo mentre veleggiavano verso una baia orlata di sabbia bianca. «E grazie a te, Mary, che hai avuto la forza di convincerci a lottare.» Mary abbozzò un debole sorriso. Si sentiva male per la fame e aveva quasi paura di guardare Charlotte e Emmanuel sotto la cerata per timore che non dormissero ma fossero morti. Forse aveva vinto, ma in quel momento si sentiva assolutamente sconfitta. Non ricordava di essere arrivata a terra. L'ultima scena impressa nella sua mente era che veleggiavano verso la costa, prima del risveglio sulla sabbia soffice e calda. Si mise a sedere con cautela e si guardò intorno, sconcertata di vedere il sole a est. Tastò gli abiti e li sentì asciutti ma induriti dal sale. Allarmata dal silenzio, cercò di alzarsi, ma era talmente indolenzita che stentava a muoversi. Voltò la testa e vide gli uomini addormentati sotto un riparo, con Charlotte e Emmanuel ben protetti tra Will e James. C'erano i resti di un fuoco accanto a un'enorme pila di gusci di cozze; il barile d'acqua era sistemato sotto un albero, e una profonda traccia nella sabbia dimostrava che, una volta riempito, era stato fatto rotolare. Mary comprese che il giorno prima doveva essersi addormentata o forse era svenuta, e gli uomini l'avevano lasciata riposare

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indisturbata mentre si procuravano cibo e acqua, per poi alla fine abbandonarsi anche loro al sonno. Quel piccolo atto di gentilezza le fece salire le lacrime agli occhi e le diede la forza di ignorare le membra intorpidite, di alzarsi e stirarsi, per poi raggiungere lentamente il barile d'acqua. Bevve con avidità una tazza dopo l'altra fino a sentire lo stomaco gonfio, poi trangugiò il riso freddo avanzato nella pentola. Nel guardarsi intorno vide che erano approdati su una bellissima spiaggia di sabbia bianca circondata da una lussureggiante vegetazione, affacciata su un limpido mare azzurro. Il cuore le sembrò traboccare di riconoscenza, e cadde in ginocchio per ringraziare Dio di avere concesso loro di uscire incolumi dalla tempesta. ***

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Capitolo 13. Sam Broome e James Martin interruppero la ricerca di crostacei negli anfratti degli scogli e sedettero, esausti. «Mary è un'aguzzina tremenda,» disse James con tono vagamente divertito «ma è indubbiamente una gran donna.» Le sue brache erano così stracciate che ormai non valeva quasi la pena di indossarle, visto che gli lasciavano scoperta gran parte delle gambe e delle natiche. Gli indumenti di Sam erano ancora interi, ma lisi al punto che sarebbe bastato un altro bagno in mare per vederli galleggiare via. Sam tornò a guardare Mary, più avanti sulla spiaggia, che stendeva il bucato sui cespugli. Aveva ordinato loro di non ripresentarsi al campo prima di avere riempito il sacco di crostacei. «Già, però pretende da se stessa più ancora che da noi» replicò. Sapeva che Mary non riposava un attimo; terminato il bucato sarebbe andata anche lei in cerca di qualcosa di commestibile per integrare le provviste. James annuì. Trovava incredibile la calma e il controllo della compagna dopo tutto quello che avevano passato nelle ultime due settimane. La notte precedente si era svegliato di soprassalto da un incubo, troppo terrorizzato per riuscire a richiudere gli occhi. Perfino Will, che in passato si era messo in mare con il tempo più orribile che la Cornovaglia potesse riservare a un pescatore, ammise di non avere mai assistito a niente di tanto agghiacciante.

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Secondo James, avevano visto la morte in faccia la notte in cui l'ancora si era messa ad arare il fondo marino, quindi non stupiva che la maggior parte di loro recalcitrasse all'idea di rimettersi in viaggio. «Saremmo annegati tutti quanti, se non fosse stato per Mary» affermò Sam con voce rotta dall'emozione. «Con il suo coraggio e la sua resistenza ci fa sfigurare.» James sapeva che era vero, ma l'avrebbe imbarazzato ammetterlo. «E vero, comunque tu hai sempre avuto un debole per lei» lo stuzzicò. «Meglio che tieni per te i pensieri sul suo conto. Will può essere pericoloso quando si arrabbia.» «I miei pensieri su Mary sono puri» protestò Sam. «Non fosse stato per lei, non sarei vivo e non sarei potuto fuggire. Ero moribondo quando mi hanno abbandonato sulla banchina come un sacco di riso. Ho visto altre donne rubare gli abiti a chi era troppo debole per protestare e passarmi davanti senza darmi da bere perché ero coperto di stracci. Lei, invece, è venuta da me; Dio la benedica.» James sentì rimordere la coscienza per quell'appassionata dichiarazione di Sam. Lui non si era preoccupato di aiutare i malati della Seconda Flotta e ricordava di essersi nascosto con una bottiglia di rum rubata mentre dava una mano a trasportare le provviste nei magazzini. Durante la settimana successiva si era parlato molto dell'impegno profuso da Mary con quella gente, mentre lui con gran cinismo le aveva detto che sarebbe stato meglio per tutti se fossero morti. Nel riandare ancora più indietro con la mente, ricordò il ricongiungimento con Will al momento dello sbarco a Port Jackson. Will, ignaro che lui e Samuel Bird erano stati mandati su un'altra nave della flotta, li aveva rivisti con grande gioia. James gli aveva proposto tutto eccitato di dividere una tenda con lui e gli altri uomini della Dunkirk, ma Will l'aveva raggelato dicendogli che intendeva sposare Mary e costruire una capanna per sé. James aveva pensato che fosse uscito di senno. Stentava a credere

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che l'amico preferisse vivere con una donna e sua figlia quando poteva stare con i vecchi compagni e avere una donna diversa ogni notte della settimana. Invece non passò molto che cominciò a invidiarlo. Le detenute erano in genere una delusione - puttane pronte a tutto o povere disgraziate - e inoltre c'era poco da scherzare quando si pativa costantemente la fame. Come moglie, Mary si era dimostrata un'ottima scelta. Intelligente e allegra, teneva sempre in ordine se stessa e Charlotte. Bastava guardare il grande Will, rimasto più in forze e in salute di chiunque altro, per capire che lei lo curava da ogni punto di vista. In realtà, se era stato sbagliato il suo giudizio iniziale su Mary, altrettanto sbagliato era stato il suo giudizio iniziale su Will. «Non va bene venerare le persone» disse, pensando ad alta voce. «Oh, non mi riferisco a Mary» si affrettò ad aggiungere nel vedere l'espressione sorpresa e alquanto indignata di Sam. «Parlo di Will.» Mai avrebbe dimenticato l'espressione terrorizzata di quel grand'uomo la notte precedente in mare, e neppure l'urlo da ossessa di Mary per incitarli a darsi da fare. «Sai, da quando l'ho conosciuto sulla Dunkirk, ho sempre pensato che lui fosse indistruttibile.» «Chi si vanta troppo di essere forte e intelligente di sicuro non ne è tanto convinto» affermò Sam con un sorriso compiaciuto. «E chi prende a pugni un altro solo perché sospetta che desideri la sua donna è un cretino.» James si strinse nelle spalle. D'accordo, era deluso del vecchio amico, ma non aveva intenzione di permettere all'ultimo arrivato di criticarlo. «Attento a come parli» lo ammonì. «Will e io ci conosciamo da un pezzo.» «Lo so» ribatté Sam prudentemente. «Ma tu non sei uno stupido, James. Sai bene quanto me che ci serve un capo forte se vogliamo avere qualche possibilità di arrivare a Kupang. Io a questo punto dubito che Will sia all'altezza.» «Non penserai mica che possa fare il capo una donna con due marmocchi, vero?» James ammirava Mary, ma non era nella sua

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natura credere che una donna potesse essere più forte e resistente di lui o di qualsiasi altro uomo. Sam ridacchiò. «Certo che no. Ci sarebbe un ammutinamento.» A Port Jackson, James aveva spesso chiamato Sam “il parroco” per via dell'aspetto, dei modi garbati e perché disapprovava il bere, ma nelle ultime settimane si era reso conto che si trattava di un uomo determinato e pieno di risorse. Aveva la sensazione che Sam stesse elaborando un piano, e ritenne opportuno sondare il terreno. «E se Will suggerisce di restare qui finché il tempo non migliora?» azzardò. Will vi aveva fatto un vago accenno, e James, a essere sincero, trovava l'idea alquanto allettante. Sam fece un mezzo sorriso. Quella baia, che avevano denominato “baia bianca”, per lui era un paradiso. La sabbia morbida, la ricca vegetazione e il clima clemente erano estremamente seducenti. «Io sarei felice di restare se avessimo più provviste» confessò. «Come tutti, non ho nessuna voglia di rischiare di nuovo di annegare durante una tempesta. Se restiamo, però, finiamo farina e riso, e c'è anche la possibilità che arrivi una nave per trascinarci di nuovo a Sydney.» «Potremmo pescare e cacciare» obiettò James. «Quanto all'arrivo di una nave, credi davvero che sia probabile?» «Non molto» concordò Sam. «Ma lo scopo dell'evasione era crearci una nuova vita e, più rinviamo, più ci indeboliamo.» «Questo lo dici perché l'hai sentito da Mary» commentò James con tono ironico. «Può darsi, ma non significa che non sia vero. Secondo me non si deve mollare.» «E se Will non è d'accordo?» Sam alzò le spalle. Il gesto lasciava intendere che, a suo avviso, quelli che volevano partire avevano ogni diritto di prendere la barca e lasciare gli altri a terra. James si mise a staccare con il coltello le cozze dagli scogli. Non lo stupiva che Sam fosse pronto a lasciare Will a cuor leggero, perché lui avrebbe fatto lo stesso se ci avesse guadagnato

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qualcosa. A suo modo di vedere, la lealtà era un concetto che gli uomini adottavano solo quando, in gruppo, potevano avere più potere del singolo individuo. James pensava solo a se stesso, e al diavolo gli altri. Di natura era anche pigro, sempre propenso a scegliere la strada più facile, che in quel momento apparentemente indicava di fermarsi lì. Ma era davvero così? Non avrebbero rischiato la vita, a meno di un attacco improvviso degli indigeni, però avrebbero avuto bisogno di costruire dei veri ripari, delle capanne, e avevano ben pochi attrezzi. Con una sola donna tra otto uomini, presto avrebbero litigato. Inoltre, lui agognava la vita di città, il rumore e l'andirivieni, la possibilità di bere e mangiare a volontà, di andare a cavallo e mietere conquiste femminili. Ricordava che, nel corso del primo anno della colonia, alcuni pazzi mal consigliati erano scappati nell'interno convinti che, continuando a procedere, sarebbero arrivati in Cina. Lui aveva riso a crepapelle nel sentire quella storia, ma in effetti era uno tra i pochissimi a saper leggere e scrivere, e possedeva parecchie nozioni di geografia mondiale. Detmer Smith gli aveva raccontato che da Kupang ci si poteva imbarcare per la Cina, l'Africa o addirittura il Sudamerica, tutti posti dove un irlandese indolente e astuto poteva vivere bene. William Moreton voleva proseguire, se non altro per dimostrare di essere un marinaio in gamba quanto Will. Anche Mary era determinata in quel senso, e Nat Lilly avrebbe appoggiato Sam Broome perché i due avevano stretto una forte alleanza. Bill Alien era orientato ad arrivare in fretta a Kupang, quindi probabilmente solo Jamie Cox e Samuel Bird avrebbero appoggiato Will. James sapeva che era molto più vantaggioso coalizzarsi con Mary che con Will. Quella piccola donna audace e piena di risorse poteva tornargli assai utile una volta arrivati a Kupang.

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La sera stessa l'intero gruppo si radunò intorno al fuoco perché dopo il tramonto si era fatto freddo. William Moreton tirò in ballo la questione di quando proseguire; lui voleva partire la mattina successiva. «Che cosa ci si guadagna a restare?» chiese con tono deciso. «Abbiamo riposato, asciugato i vestiti e riparato la barca.» William aveva la particolarità di irritare tutti. Privo di senso dell'umorismo, era pedante e convinto di saperla più lunga di chiunque altro. Nat, che possedeva una vena maliziosa, spesso lo stuzzicava domandandogli come mai, se era tanto in gamba, si era fatto sorprendere a rubare. Tuttavia aveva una certa influenza sul gruppo per via della sua esperienza nautica. «Io propongo di restare ancora un po'» si intestardì Will. «La barca non regge un'altra brutta tempesta.» Ognuno disse la sua, e invece Mary non fece alcun commento. Osservava i visi per cercare di comprendere cosa davvero desiderasse ciascuno. Sam Broome, Jamie Cox e Samuel Bird apparivano quasi inespressivi, e la ragione, secondo lei, era che stavano soppesando le opinioni dei membri più autorevoli del gruppo per poi schierarsi dalla parte di chi appariva più affidabile. James Martin risultava simpatico a tutti. Molto in gamba nei momenti di crisi, con il suo senso dell'umorismo era riuscito in molte occasioni a salvare la situazione; possedeva l'attitudine al comando, però non era il più razionale. Anche Bill aveva carisma. Remava più a lungo di chiunque altro, spaccava la legna più in fretta, accendeva il fuoco in un secondo, si mostrava solidale con i più deboli, ma non era un marinaio. Un mese prima gli uomini avrebbero seguito ciecamente la decisione di Will, che tuttavia aveva perso l'ascendente su di loro da quando si era mostrato spaventato e incerto sul da farsi. Mary era rattristata che gli avessero voltato le spalle. Tutti si spaventavano a morte durante le tempeste, più violente di quanto un essere umano fosse in grado di tollerare, e non le pareva il caso di giudicare con severità Will perché si era perso d'animo. Lei stessa si sarebbe abbandonata al panico se non fosse stato per

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Charlotte e Emmanuel; soltanto il fiero istinto di proteggere a ogni costo i figli le aveva impedito di lasciarsi andare. Anche lei era dibattuta: desiderava disperatamente raggiungere Kupang al più presto per trovare una sicurezza stabile, una casa per i bambini e una vita serena priva di patemi, però Charlotte e Emmanuel, stremati dal viaggio, dal freddo e dalla lunga permanenza in abiti bagnati, non stavano bene. Apparivano sparuti, spaventati e macilenti, come se non assimilassero il cibo. Avevano bisogno di tempo per rimettersi, ma Mary stava perdendo il latte, la scorta di riso sarebbe durata soltanto altre tre settimane, e lei non sapeva se lo stomaco di un bimbo di un anno potesse sopportare una dieta a base di crostacei. Pensava che gli uomini fossero quasi tutti dibattuti come lei, naturalmente non per le stesse ragioni, ma perché temevano di incappare in un'altra violenta tempesta. «Io concordo con William» dichiarò Sam Broome. «Dovremmo andare avanti prima possibile. Non ci si guadagna niente ad aspettare qui che finiscano le provviste.» Sam si era fatto apprezzare dagli altri per la pacatezza, lo spirito pratico e la capacità di ascoltare, ma era cambiato dalla sera in cui Will lo aveva suonato come un tamburo. Era sempre misurato, però si faceva valere. Mary percepiva che aveva soppesato i compagni e li aveva trovati per lo più carenti sotto vari aspetti, in particolare Will; non che lo odiasse o che preferisse vedere William Moreton come il loro capo, ma forse avrebbe voluto una nuova ripartizione dei ruoli, magari con se stesso come comandante in seconda. «Qui si può cacciare e pescare» obiettò Will con il viso rosso di collera, visto che nessuno sembrava più considerarlo il capo. «Non ho dato da mangiare a tutti quanti quando eravamo a Sydney?» I quattro imbarcati sulla Seconda Flotta non avevano conosciuto le razioni da fame distribuite prima del loro arrivo: la protesta di Will significava poco per loro. Soltanto Jamie Cox e Samuel Bird annuirono per confermare le sue parole. «E tu, James?» chiese Sam all'irlandese. «Vuoi andare o restare?»

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James non aveva il coraggio di opporsi apertamente al vecchio amico. «Io vorrei solo qualche boccale di birra e qualche donna» affermò ostentando un'aria spensierata. «E stare qui ad aspettare non me li procurerà di certo.» Qualcuno sghignazzò, mentre Will reagì come se James l'avesse accoltellato alla schiena. «A quanto pare, dunque, tu preferisci partire» disse Sam, evitando di guardare Will. «Qualcun altro vuole dire la sua?» Nat Lilly si schiarì la gola e sputò rumorosamente sulla sabbia. «Meglio andare, senz'altro, però ci fermiamo ogni volta che cambia il tempo.» Jamie Cox tenne gli occhi bassi. Una volta aveva detto a Mary che sulla Dunkirk non sarebbe sopravvissuto senza l'aiuto di Will. Era il più giovane, di costituzione esile, e i suoi lineamenti spigolosi che a Mary, al primo incontro, avevano evocato quelli di un uccello, erano diventati ancora più affilati. A lui evidentemente non importava partire o restare, a patto di rimanere con Will. «Bill, tu cosa pensi?» chiese Sam. «Meglio partire» bofonchiò, incenerendo con un'occhiataccia William Moreton come a diffidarlo dal tentare di assumere il comando. Samuel Bird continuava a mantenere un'espressione vacua. «Mary, e tu?» chiese William. Mary, che non si aspettava di essere interpellata, esitò un momento perché non voleva contrapporsi al marito. Tuttavia William Moreton era stato quello che con maggior franchezza aveva definito una stupidaggine portare una donna e i suoi figli. Se teneva alla sua opinione, lei aveva il dovere di esprimerla. «Io sono d'accordo con Nat» dichiarò. «Dovremmo proseguire, ma fermarci appena cambia il tempo.» «Ah, ora ci tocca stare a sentire una donna del cazzo, eh?» esplose Will. «Che ne sa lei?» Jamie Cox alzò lo sguardo, sbigottito. Bill lanciò a Will un'occhiata torva. Sam aveva arruffato il pelo. «Direi che ne sa più di tutti noi» commentò James strascicando

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le parole. «Non fosse stato per lei, a quest'ora saremmo cibo per i pesci. Però adesso piantiamola e passiamo ai voti.» William Moreton guardò Will come se si aspettasse un qualche discorso per riconquistare la lealtà dei seguaci di un tempo, ma Will non lo ritenne necessario, o forse conosceva già il risultato: fatto sta che incrociò le braccia con aria cupa. «Chi è favorevole a partire domani alzi la mano» disse Will. Soltanto Jamie Cox e Will non lo fecero. «Mozione approvata» dichiarò William con un sorriso compiaciuto. «Non venite a piagnucolare da me se la barca non ce la fa» commentò Will con un'alzata di spalle. Poi si voltò verso Mary con un'espressione di pura cattiveria. «E non dare la colpa a me, ragazza, se i bambini muoiono!» Dopo la partenza dalla “baia bianca” ci furono momenti in cui Mary si angosciò al ricordo delle parole del marito, perché incapparono in altre terrificanti tempeste talmente improvvise da non lasciare il tempo di sbarcare. Ogni volta che vedeva il volto provato dei bambini e sentiva le loro urla di puro terrore, si chiedeva cosa mai le era preso per indurla a mettere a repentaglio la loro vita. Tuttavia il bisogno di proteggerli le dava la forza di lottare quando vedeva gli uomini infiacchirsi. Quelli in peggiori condizioni erano Jamie, Samuel Bird e Nat, tutti minuti, molto meno muscolosi degli altri e incapaci di nuotare, il che accresceva le loro paure. Lei di volta in volta li lodava, li implorava, li strapazzava o li spronava. Imprecava contro di loro dalla sua postazione al timone, e urlava di sgottare senza smettere un secondo se non volevano morire. Poi, quando iniziò a convincersi - come ormai tutti - che era solo questione di tempo prima che la morte li chiamasse a sé, approdarono in acque più calme. Alla loro sinistra c'era la

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riva, alla destra un'enorme scogliera, e in mezzo il mare, liscio come l'olio. «Ti ringrazio, Signore» gridò William Moreton in un insolito sfogo emotivo. «Ero assolutamente certo che fossimo spacciati.» Eppure, neanche quel mare calmo era privo di insidie, perché risultò costellato da decine di isolotti e atolli corallini su cui si correva il rischio di incagliarsi. Approdarono su un'isola, ma senza trovare acqua dolce, così dovettero usare l'acqua di riserva per cucinare un po' di riso. Quando la marea si ritirò girovagarono per gli scogli in cerca di altra acqua. Con grande stupore videro decine di gigantesche tartarughe risalire le spiagge per deporre le uova. Gli uomini corsero a ucciderne alcune e, con il ritorno della marea, le trascinarono alla loro isola. Quella sera cenarono bene, con carne fresca per la prima volta dalla partenza da Sydney. Per una volta si addormentarono con la pancia piena, e in più furono allietati dal suono della pioggia che riempiva le conchiglie vuote da loro fiduciosamente lasciate rovesciate. Nei giorni successivi, mentre James e Will calafatavano di nuovo la barca con il sapone, gli altri catturarono altre tartarughe e ne affumicarono le carni sul fuoco per poterle conservare. In gioventù Bill aveva spesso cacciato di frodo, e quando vide strani uccelli che nidificavano per terra, si dispose a catturarli con l'aiuto di Nat. Mary si ritrovò a ridere nell'osservarli, perché di certo formavano una ben strana coppia. Bill, combattivo e muscoloso, con la testa calva che brillava al sole, si rannicchiava per terra e segnalava all'effeminato Nat di spingere i volatili verso di lui. Si rivelarono comunque una buona squadra perché ne acchiapparono molti. Bill insegnò a Nat anche l'arte di spennarli. Mary trovò altre foglie di cavolo e frutti sconosciuti ma straordinariamente

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gustosi, e i bambini, fiacchi e malaticci, cominciarono a riprendersi. Dopo sei giorni di riposo salparono di nuovo, fermandosi di tanto in tanto per cacciare altre tartarughe. Non ne trovarono, però fecero provviste di crostacei e acqua dolce. Da un pezzo nessuno chiedeva più a Will quando sarebbero giunti alla fine di quella gigantesca estensione di terra. Anche dove si sarebbero diretti in Inghilterra era un argomento che apparteneva al passato. Erano ormai afflitti da una totale apatia, convinti di non potersi aspettare una civiltà degna di questo nome. Quando videro davanti a loro quello che secondo la mappa di Will era lo lo Stretto di Torres, si guardarono con aria interrogativa e poi, nel comprendere che si trovavano davvero lì, si abbandonarono a risate isteriche. Una volta superato lo stretto scoprirono un golfo disseminato di isolette; sapevano di dover sbarcare per riempire il barile d'acqua prima dell'ultimo tratto in mare aperto ma, mentre cercavano di raggiungere la terra, alcuni indigeni che li stavano tenendo d'occhio dalle canoe si misero a brandire le lance e a pagaiare verso di loro. Gli uomini furono costretti a far fuoco con i moschetti per tenerli a distanza; poi, costernati, videro gli indigeni imbracciare l'arco per bersagliarli con frecce infuocate. Mary sbiancò quando parecchie di quelle frecce lunghe quasi mezzo metro con la punta a barbiglio atterrarono proprio sulla barca. Agli uomini non restò che remare con furia per allontanarsi. Gli indigeni, più robusti e più scuri di quelli visti fino ad allora, li inseguirono in canoa urlando, ma proprio quando sembravano sul punto di raggiungerli, un vento improvviso riempì le vele e spinse via la barca e i suoi passeggeri duramente provati. «Dobbiamo procurarci l'acqua prima di attraversare il golfo» disse allora Will. «Sono almeno cinquecento miglia, e anche con un barile pieno bisognerà razionarla.» Aveva assolutamente ragione, e Mary fu lieta di vederlo di nuovo con le redini in mano.

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L'indomani si arrischiarono a sbarcare su un'isola malgrado fossero vicini a un villaggio di notevoli dimensioni. Riempirono il barile e ripartirono in tutta fretta per trascorrere la notte su un isolotto deserto. La mattina, rincuorati dal successo del giorno precedente, decisero di tornare a prendere altra acqua e a cercare frutti e foglie di cavolo. Il villaggio appariva tranquillo come il giorno prima ma, mentre si avvicinavano alla spiaggia, due enormi canoe da guerra, con a bordo trenta o quaranta guerrieri ciascuna, si materializzarono dal nulla puntando nella loro direzione. Non avevano mai visto imbarcazioni del genere: erano costruite in modo solido, con banchi per i vogatori, vele fatte di una specie di stuoia, e una piattaforma chiaramente destinata ai combattimenti. Will virò veloce. «Remate come se aveste il fuoco al culo» gridò ai compagni, mentre si affrettava a issare la vela maestra. Mary, con il cuore in gola, quasi non osava respirare. Gli indigeni avevano viso e corpo coperti da disegni bianchi, e cantavano qualcosa; sembravano assolutamente determinati a sterminare fino all'ultimo invasore bianco. Ormai erano così vicini che lei poteva sentire l'odore del loro sudore e leggere l'odio nei loro occhi, e quel che è peggio, vedeva altre canoe in arrivo. A quel punto Will mostrò a tutti la sua straordinaria abilità di marinaio. Fece una serie di bordi per prendere il vento e, una volta gonfiate le vele, la barca filò via un attimo prima che gli indigeni fossero abbastanza vicini per scagliare altre frecce. «Ora attraversiamo subito il golfo» urlò. «Tenete stretto il cappello perché stiamo per lasciare una volta per tutte questa terra dimenticata da Dio!» Gli indigeni li inseguirono per qualche miglio, finché si resero conto di non poter competere con il cutter. Quando infine virarono verso terra, Will lanciò un urlo di gioia. «Abbiamo battuto i bastardi!» strillò con un sorriso largo come il tratto di mare davanti a loro. Mary si unì agli altri per complimentarsi con lui. Si sentiva orgogliosa

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del marito, non solo perché era in gamba, ma perché si rendeva conto che aveva ritrovato lo spirito di un tempo. «Sei stato bravissimo» gli disse, andando a sedergli accanto al timone. «Neppure tu saresti stata capace di fare meglio?» ribatté lui, sollevando un sopracciglio incrostato di sale. «Nessuno di noi ci sarebbe riuscito» disse lei, sinceramente convinta, prima di baciarlo sulla guancia. «Saremo un po' scarsi d'acqua e di cibarie» avvertì Will. «Allora le razioneremo. Hai idea di quanto siamo ancora lontani?» Lui scosse la testa. «Questo tratto non è riportato sulle mappe. Meglio che ti metti a pregare, ragazza mia.» Tre settimane dopo, nel cuore della notte, Mary alzò gli occhi verso le stelle e invocò il Signore. Le frequenti preghiere con cui aveva implorato di trovare presto la terra non erano state esaudite, e a quel punto supplicò Dio di far morire i suoi figli prima di lei, per poterli accudire fino alla fine. Emmanuel era tra le sue braccia, Charlotte distesa con la testa sul suo grembo. Erano talmente macilenti e deboli da non riuscire neppure più a piangere; si limitavano a stare sdraiati con gli occhi vacui fissi su di lei. Mary credeva di conoscere bene ogni genere di sofferenza, e invece era nuova e di gran lunga la più intollerabile la consapevolezza di essere responsabile della morte lenta e inesorabile dei suoi bambini. Le cibarie erano finite da parecchi giorni, e l'acqua dal giorno prima a mezzogiorno, quando le ultime gocce erano state date a Emmanuel e Charlotte. Tutti tacevano, immersi in una sorta di torpore, con gli occhi fissi all'orizzonte. Non lo scrutavano più in cerca di terra, ma soltanto per evitare di incrociare lo sguardo altrui, perché troppo angosciante era la vista delle condizioni penose in cui versavano i compagni di viaggio.

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In quel momento, tutti dormivano tranne lei e Will; William Moreton era allungato scompostamente contro il barile dell'acqua, Sam Broome e Nat Lilly acciambellati a prua come una coppia di cani, gli altri appoggiati l'uno contro l'altro. A causa della loro pelle chiara, Nat e Samuel Bird erano quelli più scottati dal sole, e il loro viso appariva mostruoso: rosso, gonfio e coperto di vesciche. Anche Bill si era bruciato la testa calva, ma gli ultimi giorni l'aveva coperta con un pezzo di stoffa a mo' di turbante. Will era curvo sul timone e, nel guardarlo, Mary vide uno sconosciuto: sembrava rattrappito, e il suo viso, un tempo pieno, ricordava un teschio, con occhi e bocca troppo grandi. Per fortuna il vento era favorevole fin da quando avevano lasciato il golfo: nessuno avrebbe avuto neanche la forza di sollevare i remi. Mary si chiese come luna e stelle potessero brillare ancora tanto luminose in un momento del genere: occhieggiavano nell'acqua calma e scura come candele in un tabernacolo. Le pareva che le stessero dicendo di lasciar andare i bambini per risparmiare loro ulteriori sofferenze. Sollevò Emmanuel tra le braccia. Pesava così poco ormai, mentre era bello grasso alla partenza, tante settimane prima. Era tutto occhi, tanto era smunto. Non volgeva neppure più la testa verso il suo seno, come avesse finalmente accettato l'idea che era ormai vuoto. «Mi dispiace tanto» gli sussurrò baciandolo in fronte. Avrebbe voluto vivere abbastanza a lungo per vederlo camminare, sentire le sue prime parole, sapere che, da grande, sarebbe diventato forte come il padre. Non era giusto che la sua breve vita avesse tante tribolazioni. Quando però lei si spostò di poco sul sedile, con l'intenzione di calarlo in acqua, sentì le dita del piccolo stringersi intorno a una delle sue. Le parve una silenziosa supplica di lasciarlo restare con lei fino alla fine. Lo strinse con maggior forza, chinò il viso verso la testolina e dentro di sé pianse per la propria vigliaccheria.

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«Mary!» Si svegliò di soprassalto mentre Will la tirava per il vestito. I primi raggi di luce rischiaravano il cielo, e il suo primo pensiero fu che il marito prevedesse l'arrivo di una tempesta e quindi volesse farle sistemare le ciotole perché si riempissero di acqua. «Mary, ho le traveggole, oppure quella è terra?» chiese lui con voce roca. Mary scrutò l'orizzonte e in effetti vide una forma scura e ondulata. Una gioia selvaggia la percorse. «Possibile che sbagliamo entrambi? Anche a me sembra terra.» Si spostò lungo il sedile, sempre stringendo i bambini, per avvicinarsi a lui e prendergli la mano. «Oh, Will. Sarà vero?» mormorò. Si tennero per mano almeno un'ora, con gli occhi fissi e la folle speranza che non fosse un crudele scherzo della natura. Con il passare dei minuti la forma scura rimase costante, poi divenne sempre più vicina, finché si convinsero che quelli che scorgevano erano proprio alberi. «Bene, ragazza mia» disse Will raggiante «Ti ho portato fin qui. Oggi è il 5 giugno 1791, e devo scrivere sul diario di bordo che ho avvistato la terra. Sono passati sessantasette giorni dalla partenza da Sydney, e ringrazio Dio di averci concesso di arrivare.» «Sveglio gli altri o li lasciamo dormire?» chiese lei. «Svegliali, per la miseria.» La sua voce un tempo potente era ormai un rauco bisbiglio. Una lacrima gli scese lungo la guancia irsuta. «Dio sa se non è una cosa per la quale vale la pena di essere svegliati.» ***

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Capitolo 14. Più tardi, quello stesso pomeriggio, Will condusse il cutter in un porto. Nessuno di loro sapeva - e neppure gli importava - se si trattasse di Kupang. C'erano edifici e persone, il che significava anche cibo e acqua, e tanto bastava. Erano in uno stato pietoso: laceri, con i capelli incrostati di sale, la pelle riarsa e squamata per la lunga esposizione agli elementi, stavano accasciati ai loro posti, troppo esausti per riuscire a sorridere alla prospettiva della salvezza. Mary, con la lingua gonfia per la sete, aveva appena la forza di reggere Emmanuel tra le braccia, ma quando vide la folla radunata sul molo a guardare con curiosità i malandati occupanti del cutter, ritrovò immediatamente la lucidità. «Qualsiasi cosa accada, non dobbiamo scostarci dalla versione che abbiamo stabilito» sibilò ai compagni. «Se lasciamo trapelare la verità, ci rispediscono da dove siamo venuti.» Non pensava che quella fosse Kupang, perché Detmer aveva detto che era un possedimento olandese, e lì non si vedeva neppure un bianco; tutti avevano la pelle nera o gialla: quanto meno, però, non assomigliavano affatto ai selvaggi del Nuovo Galles del Sud. «Acqua!» gridò William Moreton. «Acqua!» Il suo grido, fosse o non fosse stato compreso, ebbe l'effetto di scuotere gli astanti. Un uomo avanzò con un lungo bastone uncinato

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e guidò la barca a un ormeggio. Un altro dalla carnagione scura, piccolo e mezzo nudo, saltò a bordo, prese una cima e la lanciò al compagno sul molo. Poi, miracolosamente, fu passato un secchio di legno colmo d'acqua. Tutti vi si avventarono sopra facendo rollare paurosamente la barca, ma Will riempì un boccale e lo passò alla moglie. Mary offrì il primo sorso a Charlotte, che lo portò alla bocca tanto in fretta da rovesciarne buona parte sul petto. Emmanuel era quasi privo di conoscenza, così Mary dovette aiutarlo intingendo le dita nell'acqua e facendogliele succhiare, finché il piccolo si riprese abbastanza per bere da solo. Infine bevve anche lei, e nulla nella vita le era parso tanto delizioso come la sensazione dell'acqua fresca che correva lungo la lingua e la gola gonfie e inaridite. Malgrado non comprendesse una parola di quello che diceva la folla, percepiva dal frenetico gesticolare e dal tono acuto delle voci che era pienamente solidale con lei, i suoi bambini e gli uomini. Cercò di mettersi in piedi, ma ricadde all'indietro per la fiacchezza, e da quel momento in poi tutto divenne incoerente e sfocato. Immaginò - più che sentirlo davvero - di essere sollevata da un paio di braccia. Le parve di venire depositata sulla terraferma, e poi di essere di nuovo dissetata. Le fu avvicinato al viso qualcosa dall'odore pungente. Sentiva un vocio confuso. Fu sollevata di nuovo per essere poi adagiata su qualcosa di più morbido, e a quel punto non vide più il cielo sopra di sé. «Charlotte! Emmanuel!» gridò, colta dal panico. Una donna dalla pelle scura era china su di lei e le detergeva il viso con una pezza fresca e umida. Parlava in una lingua straniera, ma le sue parole - qualsiasi cosa significassero - erano rinfrescanti e gradevoli come la pezza, e Mary sentì di essere finalmente abbastanza al sicuro da poter cedere al sonno. Al risveglio si ritrovò distesa su uno stuoino, con Emmanuel da un fianco e Charlotte dall'altro. Una candela ardeva su un tavolino, e quando si sollevò un poco vide una donna dai lucenti capelli neri e dalla carnagione scura su un altro stuoino dalla parte opposta della stanza.

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La candela faceva poca luce, eppure Mary comprese dal modo tranquillo in cui dormivano che i bambini erano stati nutriti e lavati. Ebbe l'impressione di trovarsi in una capanna, più grande di quella in cui abitava con Will a Sydney Cove, però simile. Lacrime di gratitudine le salirono agli occhi. Una sconosciuta li aveva accolti e curati, e lei si rammaricò di non conoscere la sua lingua per poterla ringraziare. I giorni successivi trascorsero in una sorta di nebbia, che di tanto in tanto si diradava facendole intendere che qualcuno la stava dissetando e nutrendo con alimenti morbidi e cremosi. Nella nebbia sentiva voci, latrati di cani, odore di cibo e a volte le pareva addirittura di udire la risata di Charlotte, ma non aveva la forza di aprire gli occhi per guardarsi intorno. Infine fu Will a trascinarla fuori. Riconobbe la sua voce e quella di James Martin. «Deve stare meglio» diceva Will. «Wanjon vuole vederla.» «È sfinita» ribatté James. «Non c'è fretta. Lui può aspettare.» Mary non aveva alcun desiderio di vedere qualcuno o di parlargli; le andava bene quel piccolo mondo crepuscolare dove nessun dolore o ansia riusciva a toccarla, ma la voce del marito toccò una corda dentro di lei, richiamandola alle sue responsabilità. «Will?» balbettò, cercando di mettere a fuoco. «Brava la mia ragazza» esclamò lui, inginocchiandosi sullo stuoino per stringerle la mano. «Hai fatto prendere una bella paura a tutti quanti. Credevamo di averti persa.» Le sue mani erano ruvide e callose, ma la tenerezza che esprimevano la commosse profondamente. «Charlotte e Emmanuel? Sono morti?» chiese Mary. «Ti pare che sarei qui seduto felice e contento se lo fossero?» Lei vide allora il suo sorriso, quello stesso sorriso sfrontato che l'aveva divertita sulla Dunkirk, ma impiegò un paio di minuti per rendersi conto di ciò che era cambiato in lui. «La barba!» esclamò. «Sparita!» Will si fregò il mento nudo. «Qualche cambiamento bisognava farlo.»

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Senza barba appariva molto più giovane e, malgrado il viso scarno e spigoloso, anche molto più bello. Gli occhi avevano ritrovato il luccichio che spesso lei aveva notato nei primi giorni e, a parte la pelle che si squamava, non sembrava troppo provato dalle traversie. «Dove siamo?» chiese Mary. «A Kupang; dove, altrimenti? Non sono stato bravissimo a portarvi fin qui?» Mary abbozzò un sorriso, perché quella vanteria le dava la certezza di non sognare. «Dove sono i bambini? E gli altri?» «Tutti nei paraggi, non preoccuparti. Emmanuel è ancora debole, ma migliora di giorno in giorno. Sei stata tu quella che ci ha fatto stare sulle spine.» Mary scattò a sedere. Nell'abbassare gli occhi scoprì di indossare una specie di camicione a righe, lungo e ampio. «Da quanto sono qui?» chiese, confusa. «Dieci giorni. Hai continuato a svegliarti e mangiare, per poi ripiombare nel sonno. Ora, però, devi scuoterti perché Wanjon, il governatore olandese, vuole vederti.» Will e James l'aiutarono a mettersi in piedi e la accompagnarono fuori. Mary si guardava intorno nel più totale sconcerto. Pur non avendo un'idea precisa di ciò che stava oltre le pareti della capanna, dai rumori che le giungevano aveva dato per scontato di trovarsi in una città, e invece si ritrovò in un gruppo di capanne tonde con il tetto fatto di grandi foglie, circondato da alti alberi e folti cespugli: un posto diverso da tutti quelli che aveva visto nella vita. Alcuni bambini piccoli, nudi e scuri di carnagione, giocavano insieme, e qualche gallina, un paio di capre impastoiate e un gruppetto di vecchi seduti vicini completavano il quadro di quel tranquillo villaggio. «Quella è la giungla» disse James indicando gli alberi. Poi indicò un sentiero ben battuto. «Da qui si arriva alla spiaggia, bella come un quadro.» «Credevo che ci fosse una città.» Mary aggrottò la fronte, disorientata. Aveva un vago ricordo di magazzini e case di mattoni in un porto. Un sacco di gente. Un grande andirivieni.

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«Infatti c'è, là dietro.» Will agitò la mano con un gesto vago. «Tu e i bambini siete stati portati qui dopo che hai perso i sensi.» Will aiutò Mary a sedere su un ceppo e poi, preso posto accanto a lei, insieme a James le spiegò che cosa era successo. Rifocillati con cibo e bevande e rinvigoriti da una notte di riposo, erano stati accompagnati dal governatore olandese, Timotheus Wanjon. Gli avevano raccontato la storia messa a punto durante la navigazione, e cioè che la loro baleniera si era incagliata su una secca, e allora avevano preso il cutter per arrivare fin lì. «Se l'è bevuta» affermò Will, molto divertito. «Come ti ho detto, in quanto primo ufficiale di una baleniera, avevo il diritto di portare moglie e figli con me. Gli ho raccontato che secondo me il capitano e il resto dell'equipaggio erano su un'altra barca e forse un giorno o l'altro arriveranno anche loro. Mi sono presentato come Broad, perché non mi pareva il caso di usare il cognome Bryant se mai fossero venuti a sapere dell'evasione da Sydney.» James raccontò allora che Wanjon - a suo parere una persona comprensiva e per bene - aveva convenuto che loro avevano bisogno di abiti, cibo e alloggio e, poiché Will apparteneva alla Marina mercantile, lui avrebbe provveduto a tutto ciò che era loro necessario per poi passare i conti al governo inglese per il rimborso. «Questo posto è davvero il paradiso in terra» esclamò Will con evidente gioia. «Tutto quello che si può desiderare è qui, pronto per essere preso.» Per qualche strana ragione quell'osservazione provocò in Mary un fremito di inquietudine. Chiese a Will di andare a prendere i bambini e portarglieli e, non appena lui si fu allontanato, si rivolse a James. Anche lui si era sbarbato, ma a parte ciò aveva l'aspetto di sempre: magrissimo, stralunato e malizioso. «Spero che Will si sia comportato bene» disse Mary. «E molto pieno di sé, soprattutto quando beve.» «Si è ubriacato?»

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«È quello che farebbe qualsiasi uomo gagliardo che si aspettava di morire.» James aveva soltanto confermato i suoi sospetti, eppure lei percepì una lieve nota di sarcasmo nella sua voce. «Si è vantato?» James si strinse nelle spalle. «Soltanto con noi, che ci limitiamo a compiacerlo; tanto sappiamo tutti chi è stato a portarci fin qui.» Mary arrossì, consapevole che si riferiva a lei. «E stato lui» affermò lealmente. «Magari io l'ho strapazzato, ma ce l'abbiamo fatta grazie alla sua capacità e alla sua esperienza.» «La mogliettina fedele fino alla fine» commentò James con un sorriso irridente. «Will è proprio un uomo fortunato.» Nel momento stesso in cui vide i suoi piccoli e li strinse di nuovo tra le braccia, Mary iniziò a riprendersi. Charlotte era tornata a essere una bambina di quattro anni come qualsiasi altra, vivace, curiosa, birichina, sempre a ciarlare di tutto e di niente. Poiché le indigene la trovavano assai divertente, faceva una vita da principessina, sempre vezzeggiata, intrattenuta, nutrita di leccornie. Era ancora molto magra, ma il colore era tornato sulle sue guance, la luce nei suoi occhi, e perfino i capelli iniziavano ad apparire più folti e luminosi. Sembrava avere dimenticato quello che aveva appena passato. Emmanuel impiegava molto di più a recuperare. Riusciva a digerire solo i cibi più leggeri e dormiva male. Prima della partenza da Sydney cominciava a muovere qualche passo esitante, ma sulla barca gli era stato impedito, quindi preferiva starsene seduto piuttosto che provare a strisciare o tirarsi in piedi appoggiandosi a qualcosa. Comunque era un bambino molto allegro, sorrideva a chiunque gli facesse qualche moina, ed era ammirato da tutti per i capelli biondi e gli occhi azzurri. Quanto agli uomini, si erano tutti ripresi. Nat e Samuel Bird portavano le tracce delle scottature del sole, e Jamie era stato fiaccato

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dalla dissenteria, ma ormai sembrava in via di guarigione. Bill e William Moreton erano particolarmente in forma: di carnagione più scura, sfoggiavano una bella abbronzatura che li faceva quasi assomigliare agli indigeni. Erano anche molto contenti di lavorare in porto al carico e scarico delle navi, per poi rientrare la sera nel tranquillo villaggio dove le donne del luogo cucinavano per loro civettando divertite. Mary aveva l'impressione che Dio non solo avesse esaudito le sue preghiere portandoli fin lì sani e salvi, ma dispensasse su di lei anche tanti doni inaspettati. Kupang aveva un clima perfetto, caldo ma non troppo, abbondanza di cibo, e gente allegra e generosa. Era anche un luogo splendido, con spiagge di sabbia bianca, un mare cristallino e una giungla verdissima e rigogliosa. Al di là delle gentilezze e delle comodità di cui adesso godevano, Mary era circondata da stima e rispetto. Girava voce che fosse stata lei a infondere negli uomini la determinazione a farcela, e tutti, da Wanjon fino al più povero degli indigeni, avevano preso a cuore lei e i bambini. Mary non si era mai sentita oggetto di ammirazione. Da bambina, a Fowey, l'accusavano di essere poco femminile; a Plymouth, la deridevano per la sua ingenuità; dopo l'arresto, la trattavano con assoluto disprezzo e crudeltà. Perfino quando Will, a Sydney, era divenuto una specie di eroe, l'avevano criticata come se fosse in qualche modo indegna di lui. All'improvviso era diventata una persona a pieno titolo, considerata coraggiosa, risoluta e intelligente. La moglie del vicegovernatore le regalò degli abiti nuovi, e allora molti uomini si complimentarono per la sua bellezza. Mary non trovava le parole per esprimere cosa significasse indossare un bel vestito rosa sopra una sottogonna impalpabile come lanugine di cardo. Forse vento e sole le avevano portato via la vellutata freschezza della gioventù, forse era macilenta come un cane randagio, ma non sembrava più un avanzo di galera o una mendicante. Si sentiva femminile, speciale, più esperta delle cose del mondo. Le brave persone che le sorridevano con tanto calore ignoravano che era stata in catene, e costretta a barattare il proprio

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corpo per sopravvivere. Anche lei poteva ormai dimenticarlo, perché aveva risparmiato ai figli una vita di fame e degradazione. Il suo piano di scappare dal Nuovo Galles del Sud aveva funzionato, senza perdite di vite umane. Aveva realizzato ciò che la maggior parte delle persone avrebbe considerato impossibile. Kupang rappresentava tutto ciò che aveva sognato, e anche di più. Il porto, pieno di attività, era molto simile a quello di Plymouth, con navi provenienti da ogni angolo del mondo; essendo un'importantissima base commerciale della Compagnia delle Indie orientali olandesi, era un crogiolo di nazionalità e religioni. Sulle colline si trovavano le grandiose case con splendidi giardini esotici dove le mogli dei ricchi mercanti se ne stavano a spettegolare. Nelle eleganti residenze in città Mary vedeva cameriere con occhi a mandorla e carnagione scura, in impeccabili grembiuli bianchi, intente a lucidare i pomoli delle porte e a scopare le scalinate. In numero assai maggiore dei grandi palazzi erano le disadorne baracche dei lavoratori, le pensioni malfamate, le taverne e i bordelli frequentati dai marinai, che peraltro conferivano al posto colore e vivacità. Nel vedere i molti mendicanti, considerava che almeno non pativano il freddo e l'umidità come quelli in Inghilterra. Qui sedevano al sole e sorridevano a chi lasciava cadere l'elemosina nelle loro ciotole, dormivano sulla spiaggia relativamente comodi, e si cibavano della frutta che cresceva abbondante e a disposizione di tutti. Mary si innamorò di Kupang perché aveva restituito a lei e ai suoi figli la salute e l'aveva accolta con generosità. Desiderava solo rimanervi per sempre, vivere la semplice vita degli indigeni, pescare, raccogliere il miele, nuotare e crescere i figli sani e spensierati. Si sentiva inebriata dal profumo del legno di sandalo che si diffondeva per il villaggio alla minima brezza e permeava gli indumenti e la pelle; seppe che era la merce più esportata. Sentiva che lei e Will avevano un futuro e che lì avrebbero potuto vivere felici per sempre.

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«Pss!» Mary, che stava mettendo Emmanuel a dormire nella capanna assegnata alla sua famiglia, sobbalzò nel sentire quel sibilo dalla porta. Si voltò e vide James Martin che le faceva dei segni. «Sono da te tra un minuto» gli disse, convinta che la sua riluttanza a entrare fosse dovuta al rispetto delle convenienze. «Mi porti un messaggio di Will?» Suo marito era stato spesso assente nelle ultime tre o quattro settimane. Di solito diceva di essere trattenuto dal lavoro in porto, ma Mary sapeva benissimo che se ne stava in qualche taverna a ubriacarsi. Sperava solo che James non fosse lì per dirle che si era arruolato su una nave e che l'avrebbe lasciata, come aveva più volte minacciato. «No, ma vieni fuori.» Mary si chinò a baciare Emmanuel e, dopo avergli rimboccato la coperta, raggiunse James all'esterno. Si sentì raggelare nel vedere l'espressione sconvolta dell'amico. «Cos'è successo?» «Di tutto» sbottò James. La prese per il braccio per guidarla verso la giungla che circondava il villaggio. «Poco fa un gruppo di marinai inglesi è entrato in porto su alcune scialuppe» mormorò. «Sono naufragati nello stretto che abbiamo attraversato noi.» «E allora?» James fregò distrattamente le mani sul viso. «Non capisci? Appena verranno portati da Wanjon, lui penserà che sono il resto dell'equipaggio naufragato insieme a noi. Quel deficiente di Will non è capace di raccontare una storia senza infiorettarla.» Mary trasalì. Si era infuriata con Will nel sentire che non si era attenuto alla versione che avevano concordato durante il viaggio. Avrebbe dovuto dire che la baleniera era affondata e che loro erano gli unici sopravvissuti - una versione chiara e comprensibile - ma, una volta conquistata la simpatia di Wanjon, non era riuscito a non abbellire la storia accennando a sopravvissuti su un'altra barca. Mary ignorava perché l'avesse detto, e comunque

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il risultato fu che Wanjon si era sentito in dovere di fare almeno qualche indagine sui dispersi. Mary avvertì un tuffo al cuore. James aveva ragione: poteva essere la loro rovina. «Arrivano da Port Jackson?» chiese. «No, da Tahiti su una nave chiamata Pandora. Il capitano Edwards, comandante della nave, era andato a cercare gli ammutinati del Bounty. Ne ha ancora dieci di quelli catturati, mentre gli altri sono andati a fondo con la Pandora.» Mary restò senza fiato. Appreso dell'ammutinamento del Bounty da Detmer Smith a Sydney, erano rimasti assai sorpresi, all'arrivo a Kupang, nello scoprire che per coincidenza era lì che il capitano Bligh e diciotto dei suoi uomini erano sbarcati due anni prima, dopo che gli ammutinati li avevano abbandonati alla deriva su una scialuppa. Pur ignorando se il capitano Bligh meritava quelle traversie, Mary sapeva però che se la Marina inglese aveva inviato un'altra nave per riportare indietro gli ammutinati il capitano non avrebbe avuto la mano leggera come Wanjon. «Ci convocheranno per interrogarci» disse, con lo stomaco sottosopra. «Oddio, James! Che cosa faremo? E abbastanza facile ingannare chi non parla bene la nostra lingua, ma non sarà altrettanto facile con un capitano della Marina inglese.» James abbozzò un mezzo sorriso. Una delle cose che più apprezzava in Mary era la sua rapidità nell'afferrare la situazione. «Se non ci scostiamo dalla storia che abbiamo stabilito, potremmo cavarcela. Quattro mesi sono un tempo troppo breve perché la notizia della nostra evasione abbia raggiunto l'Inghilterra, e io dubito che questo capitano Edwards possa averla sentita altrove.» Mary rifletté un momento. Se fosse stato James a parlare, senza dubbio sarebbe riuscito a convincere chiunque che loro erano l'equipaggio di una baleniera, ma un capitano inglese avrebbe preteso di sapere da dove veniva la nave, il nome dell'armatore e un sacco di altre informazioni plausibili che loro non erano in grado di fornire. E poi c'era Will.

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«E se Will si ubriaca e si mette a fare il gradasso?» James le posò la mano sul braccio. «È di questo che sono venuto a parlarti. Mary, devi affrontare la situazione, tenerlo lontano dalle taverne e dal porto finché questi uomini non salpano.» «E come ci riesco?» James sorrise. «Sei una donna in gamba, e un modo lo trovi di sicuro.» Mentre James andava a radunare gli altri per avvertirli del pericolo, Mary chiamò Charlotte, che stava giocando con altri bambini, e la mise a letto con Emmanuel. Si stava facendo buio, e lei sedette accanto ai figli fintanto che la piccola non si fu addormentata. Nell'abbassare gli occhi su quei visetti sereni, sentì le lacrime scorrere lungo le guance. Li aveva esposti a tanti affanni, guidandoli quasi tra le grinfie della morte, e adesso si presentava una nuova minaccia alla loro sicurezza. Si chiese se non fosse lei a portare sfortuna, se alla nascita non le fosse stato fatto un malvagio incantesimo che la condannava a una vita di interminabili sofferenze e angosce. Si era riconciliata con la possibilità che Will la lasciasse; non se lo augurava, perché malgrado i suoi difetti gli voleva molto bene, ma sapeva che, nel caso, avrebbe saputo affrontare la situazione. Si era anche resa conto che con ogni probabilità non sarebbe mai tornata in Inghilterra, con o senza Will, ma neppure questo pareva importarle. La sola cosa che le premeva era che i suoi bambini fossero al sicuro, felici, in salute e ben nutriti. Fino a quel momento aveva creduto di poterci riuscire in quel posto, anche senza il marito, perché sapeva che altri uomini, in particolare Sam Broome e James Martin, la tenevano in grande considerazione. Era strano - visto che era tutt'altro che bella - quel suo inspiegabile potere sugli uomini: il primo tenente Graham, Tench, Detmer Smith, e anche Will, che pure cercava di sottrarvisi. Avrebbe funzionato anche su questo capitano Edwards, o addirittura su Wanjon?

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Più tardi uscì e si mise a sedere su uno sgabello basso accanto alla porta. Era ormai buio, e il silenzio era rotto soltanto dal mormorio di alcune persone sedute intorno al fuoco. La luna crescente era appesa sopra le palme, e Mary sentiva in lontananza il frangere delle onde sulla battigia. Quello era il paradiso e, prima di ricevere quelle brutte notizie da James, sarebbe stata ben felice di rimanervi per sempre. Doveva andare subito in cerca del marito? Si voltò verso la capanna e decise che non era il caso. Troppo tardi per chiedere a qualcuno di tendere l'orecchio nell'eventualità che i bambini si svegliassero, e poi Will, se ubriaco, avrebbe reagito con violenza. Si chiese se lui avesse una donna al porto, visto che sovente non rientrava a casa. Pensandoci bene, si rese conto che non avevano mai fatto l'amore dal loro arrivo sull'isola. Forse perché lei era stata male? Perché Will temeva di metterla di nuovo incinta, oppure perché non si sentiva più tanto un grand'uomo da quando era diventata lei l'oggetto dell'ammirazione e del rispetto generale? Mary non si era mai fatta scrupolo di usare il sesso per indurre Will ad accettare i suoi piani, ma in quel momento avrebbe desiderato avere qualche altra opzione. Perché doveva placarlo solo per farsi ascoltare? Di sicuro qualsiasi uomo per bene, davanti a una situazione di pericolo per la moglie, i figli e gli amici, si sarebbe mantenuto sobrio e tranquillo, senza dare nell'occhio, in attesa che tornasse la calma. Fu dopo qualche ora che Mary lo sentì arrancare lungo il sentiero che conduceva al villaggio. Dal passo malfermo comprese che era molto ubriaco; sarebbe stato più prudente aspettare il mattino per affrontarlo. Lui cadde lungo disteso sul pavimento, senza neppure raggiungere la stuoia, e nel giro di pochi secondi si addormentò come un sasso. Mary si svegliò per il canto e le strida degli uccelli. Era appena l'alba, ma la luce era sufficiente per consentirle di vedere Will disteso di schiena a pochi passi da lei. Puzzava di sudore e di rum, e aveva camicia e brache luride, forse - come spesso affermava - per avere scaricato una nave.

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Soffocando la repulsione, Mary si avvicinò per rannicchiarsi contro di lui; gli sbottonò la camicia e gli accarezzò il petto. «Piantala» grugnì lui. «Possibile che non si possa dormire in pace?» «Spogliati e vieni sulla stuoia con me» sussurrò lei, baciandolo sul torace e abbassando la mano sui bottoni delle brache. «Lasciami stare, donna» l'aggredì lui, spingendola via. «Se ne avevo voglia, potevo farlo in porto.» «Dunque questo è solo un posto per dormire, vero?» ribatté Mary con rabbia. «Se non vieni qui nemmeno per vedere me e i bambini, tanto vale che ti togli dai piedi una volta per tutte.» Già mentre lo diceva comprese di commettere un errore. Lui balzò in piedi e le allungò un calcio, facendola volare verso l'angolo in cui dormivano Charlotte e Emmanuel. «Sei una donna diabolica» le urlò. «Da quando mi sono messo con te, la fortuna mi ha abbandonato. Quello che vuoi tu è un cagnolino, ma non mi ridurrai mai così. Mi imbarco sulla prossima nave per liberarmi di te.» Lo scarpone l'aveva colpita alle costole, che le dolevano molto, ma fu il livore nella sua voce a farle più male. «Chiudi quella boccaccia e ascoltami» insistette lei. «Sono arrivati con alcune scialuppe uomini della Marina inglese. James non ti ha avvertito ieri sera?» Vide una specie di bagliore attraversargli il viso, e comprese che James l'aveva trovato, ma forse Will era troppo ubriaco per afferrare quello che gli diceva. «Siamo tutti in pericolo» continuò, con la voce incrinata dalla paura. «Non c'è tempo per i dispetti; bisogna decidere cosa dire. Tu devi smettere di bere e mantenerti lucido.» Per un momento pensò di averlo calmato, ma ben presto vide un lampo di rabbia nei suoi occhi. Era ingrassato in quei due mesi di permanenza, e torreggiava su di lei come un gigante guardandola in cagnesco. «Non ne posso più di sentirmi dire cosa fare» ringhiò. «Puoi menare gli altri per il naso come cavalli castrati, ma non me. Non

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ho paura di un ufficiale inglese del cazzo. Nessuno mi rimetterà in catene, tanto meno tu.» Girò sui tacchi e uscì dalla capanna colpendo con forza il paletto della porta, che si mise a vibrare, poi imboccò il sentiero diretto al porto borbottando tra sé. Lei si sentì mancare il cuore. Mary trascorse i giorni successivi in uno stato di continuo terrore, in attesa di essere convocata da un momento all'altro a casa di Wanjon. Il governatore l'aveva trattata con molta cortesia in occasione del loro unico incontro, quando si era rimessa dalla malattia. L'aveva lodata per la forza d'animo, si era complimentato con calore per i bambini, invitandola a rivolgersi a lui se mai avesse avuto bisogno di aiuto. Sentiva che era un uomo per bene e l'avrebbe di sicuro protetta se fosse riuscita a raccontargli subito la verità sul proprio conto, mentre gli uomini come lui tendevano a mostrare ostilità verso chi li aveva inizialmente ingannati. Per peggiorare la situazione, Will continuava a stare lontano da casa. Gli altri le raccontavano che beveva sempre di più, e che girava la città baldanzoso come se fosse il capitano di una nave. James Martin, William Moreton e Samuel Bird avevano cercato di farlo ragionare, di convincerlo a ritirarsi nel villaggio e tenersi in disparte come loro, ma lui non ne voleva sapere, e sosteneva di avere scontato la condanna fino in fondo: nessuno poteva toccarlo. «Quel bastardo se ne frega di portarci tutti alla rovina» confidò una sera William Moreton a Mary. «Rimpiango amaramente di non averlo piantato in asso alla baia bianca.» Mary guardò gli uomini raccolti intorno a lei e sentì il cuore gonfio nel vedere la loro espressione impaurita. Nelle settimane trascorse in mare erano diventati come fratelli per lei, e ciascuno le aveva raccontato qualche particolare della propria vita, della madre, del reato per cui era stato condannato, di una ragazza

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che amava in Inghilterra. Nei suoi confronti si erano comportati da veri gentiluomini, e Emmanuel e Charlotte si rivolgevano indifferentemente a chiunque di loro per farsi consolare proprio come facevano con Will. Non erano uomini malvagi, ma ragazzi che si erano smarriti per qualche tempo e di sicuro avevano pagato fino in fondo per le loro colpe. Ridotti alla fame, erano stati fustigati senza pietà e spediti dall'altra parte del mondo tra orribili patimenti. Mary sapeva di non poter restare con le mani in mano mentre suo marito, il loro cosiddetto amico, si comportava da pazzo mettendoli tutti in pericolo. Doveva fermarlo. «Cercherò di parlargli di nuovo» disse. «Voi restate qui con i bambini; io vado al porto.» Mary trovò Will nella terza taverna in cui lo cercò. Era stravaccato su una panca, con una bottiglia di rum mezza vuota sul tavolo, e la barba di parecchi giorni. Seduti accanto a lui, cinque o sei uomini che, a quanto Mary poteva vedere al di là del vetro polveroso, non apparivano veri amici ma piuttosto compagni di bevute. Era la prima volta che andava al porto dopo il tramonto, e il cuore le batteva forte per la paura, perché era stata già accostata due volte da marinai stranieri. Sapeva che quasi tutte - se non addirittura tutte - le donne in giro per le strade affollate erano prostitute. Aveva paura di entrare nella taverna, perché non poteva certo contare sulla protezione del marito. Fece un respiro profondo, strinse lo scialle sulle spalle e, varcata lo soglia, puntò dritta verso di lui. «Ti prego, torna a casa, Will» lo scongiurò. «Emmanuel sta male.» Sapeva che si sarebbe arrabbiato nello scoprire la bugia, ma era la sola cosa che le venne in mente per convincerlo ad andare via con lei senza troppe scenate.

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Lui la guardò con sospetto, faticando a metterla a fuoco. «Cos'ha che non va?» «Ha la febbre. Per favore, vieni, Will. Sono preoccupata per lui.» Si udì un risolino soffocato degli uomini con cui stava bevendo. Mary si rese conto che probabilmente non parlavano inglese, e quindi forse la credevano una prostituta, pronta a offrirsi a lui. «Ti prego, Will» lo implorò. «Vieni subito.» Lui arricciò il labbro con disprezzo mentre passava con lo sguardo dai compagni alla bottiglia di rum. Per fortuna sembrò attribuire maggior valore a suo figlio, perché si alzò sulle gambe malferme. «Torno presto» disse con aria di sufficienza agli altri, che sorrisero esibendo i denti marci. Uno gli fece un gesto volgare con il pugno. Fuori, nella strada rumorosa e affollata, Mary allungò il passo perché Will non potesse interrogarla, e lo lasciò ad arrancare alle sue spalle; quando raggiunsero lo stretto sentiero verso il villaggio, lei dovette rallentare per il buio fitto, e fu soltanto allora che ebbe paura della reazione del marito una volta scoperto che l'aveva strappato alla bottiglia con un pretesto. «Sta arrivando» disse, non appena giunta nella radura dove gli uomini l'aspettavano accanto al fuoco. I grandi occhi di Nat si fecero ancora più grandi per il terrore, Jamie appariva pallidissimo, e perfino Bill, il più duro, si mordicchiava le nocche. Con una specie di gesto disperato Mary cercò di comunicare loro che non aveva ancora avuto l'opportunità di parlare con Will, e che non si aspettava una reazione positiva da parte sua. «Will!» esclamò James nel vederlo arrivare barcollando. «Dove ti eri cacciato? Abbiamo bisogno di parlarti.» «Non ora. Emmanuel sta male» ribatté lui, con il viso già teso nel vederli tutti lì. «Non sta male» affermò Mary con calma. «L'ho detto per riportarti qui.» «Cosa hai fatto?» Will la incenerì con un'occhiataccia. «Ho dovuto, era l'unico modo.» Mary mosse un passo indietro per timore che lui la picchiasse. «Siamo molto preoccupati. Non è solo la tua libertà che metti a rischio, ma quella di tutti noi.»

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«È vero, Will» confermò James. «Siamo tutti insieme in questa storia, o almeno, così pensavamo.» Will lanciò uno sguardo circolare al gruppo, poi si strinse nelle spalle. «Ho promesso di portarvi via dal campo, e ci sono riuscito. Vi ho portato qui. Pretendete che vi faccia da balia per sempre?» «Nessuno di noi ha bisogno della balia» ringhiò Bill, balzando in piedi con i pugni serrati. Alla luce del fuoco appariva minaccioso, ma Will non parve notarlo. «In città, molti fanno domande su di noi. Tu attiri l'attenzione perché ti ubriachi e non riesci a tenere la bocca chiusa. Faresti meglio a restare qui con Mary e i tuoi figli.» Will si voltò verso la moglie, nero di rabbia. «Tu, puttana» l'aggredì. «Credevi di intrappolarmi qui tirandoli tutti dalla tua parte, vero? Vuoi ficcartelo in testa che sono stufo marcio di te? Aspetta che arrivi una nave, e non mi vedi più.» Senza prendere fiato, si lanciò in un violento attacco verbale. Le disse che il loro non era un matrimonio legale, che lei era assillante, una troia, sempre pronta a criticarlo. Sostenne che avrebbe potuto partire con Detmer Smith, ma si era tirato indietro perché aveva promesso agli amici di portarli alla libertà. «E ho mantenuto la promessa» ruggì infine. «Sono stato io a portarvi tutti qui, e tu mi hai addirittura rubato il merito dando a intendere che eri stata tu a progettare tutto e a farci arrivare fino in fondo.» «Non ho mai detto una cosa del genere» affermò sinceramente Mary. Era molto spaventata perché non l'aveva mai visto tanto alterato. «È vero, non l'ha mai detto» confermò Sam Broome. «Però sappiamo tutti la verità su quel che è successo in mare, Will. Non ce l'avremmo mai fatta senza di lei. Forse non è stata Mary a governare la barca, ma è sicuro come la morte che ci ha dato la forza di andare avanti. Tu sei un pallone gonfiato, e con le tue vanterie ci farai impiccare tutti.» Will tirò indietro il pugno, poi colpì Sam con violenza mandandolo a terra. «Vediamo chi è un pallone gonfiato» gridò. «Se

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la vuoi, prenditela questa megera tanto furba; accomodati pure. Come ho detto, io mi imbarco sulla prossima nave.» Bill e Samuel lo afferrarono, cercando disperatamente di trattenerlo, mentre James tentava di farlo ragionare. Will però si divincolò e riprese la strada per il porto. «State alla larga» berciò. «Sono stufo di tutti quanti voi, un minuto aggrappati alla mia camicia, e il minuto dopo pronti a infinocchiarmi. Io posso andarmene di qui, perché sono in gamba e trovo lavoro quando voglio. Senza di me, siete tutti perduti.» Si incamminò lungo il sentiero, e Bill fece per seguirlo. «Lascia perdere» disse Mary, fermandolo con la mano sul braccio. «Servirebbe solo a renderlo ancora più deciso.» «Che cosa facciamo?» chiese Jamie Cox con voce tremante. «Speriamo che la prenda davvero la prima nave in partenza.» Mary andò ad aiutare Sam a rialzarsi da terra. «Qui è capace soltanto di creare problemi.» Fu due giorni dopo, appena spuntata l'alba, che Mary sentì il minaccioso rumore di scarponi avvicinarsi al villaggio. Si era svegliata presto con uno strano senso di premonizione, e nell'udire quello scalpiccio capì subito che era il passo di marcia di soldati. Non avevano ragione per venire al villaggio se non per cercare lei e gli uomini. Il suo primo pensiero fu prendere i bambini e scappare nella giungla, ma lo scacciò immediatamente, perché sarebbe stata la conferma che aveva qualcosa da nascondere. Così indossò l'abito rosa, infilò le scarpe ricevute in dono e mai indossate, e si affrettò a spazzolarsi i capelli. Quindi prese in braccio Emmanuel ancora addormentato e andò ad accogliere i soldati con un sorriso che sperava apparisse innocente. ***

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Capitolo 15. «Non ha senso negarlo» sospirò Wanjon, esasperato. «So che siete fuggiti dalla colonia penale; me l'ha detto tuo marito.» A queste parole, Mary si sentì sprofondare in un buio pozzo senza fondo. Lei e i bambini erano stati separati dagli uomini al momento dell'arrivo alla prigione del castello, quindi era mancata la possibilità di accordarsi su cosa dire. Non sapeva neppure se anche Will fosse stato arrestato. Tuttavia si vide trattare con gentilezza dai soldati; la cella in cui fu rinchiusa era pulita, e inoltre le portarono acqua, pane e qualche frutto, il che la fece ben sperare. Però, nel vedere il sole sorgere al di là della grata della finestrina affacciata sul porto, e poi splendere alto senza che si presentasse anima viva, cominciò a perdersi d'animo. «Perché dobbiamo stare qui, mamma?» chiese Charlotte. Dapprima aveva accettato la situazione con pazienza, ma ora iniziava a mostrarsi irrequieta. «Non mi piace qui; voglio andare a casa.» «Dobbiamo restare perché un uomo vuole farci qualche domanda» spiegò Mary, facendo scorrere distrattamente le dita tra i capelli della piccola. «Ora, fai la brava e giochiamo un po' con Emmanuel.» Mary non se la sentì di incoraggiare il bambino a muovere qualche passo tra loro, e dirgli che era proprio in gamba a camminare

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da solo; la tratteneva il terrore che quella minuscola cella, meno di un metro e mezzo per due, fosse la loro casa per chissà quanto. Charlotte era incantevole adesso, con i riccioli bruni a incorniciarle il visetto abbronzato, e braccia e gambe nude grassottelle e ben tornite. A Mary ricordava molto sua sorella Dolly, con le stesse labbra piene e il nasino all'insù. Le cure e le attenzioni di cui era stata circondata negli ultimi due mesi e la compagnia degli altri bambini l'avevano resa più sicura di sé. Aveva addirittura imparato molte parole della lingua del posto. Mary aveva l'impressione che Charlotte si fosse lasciata alle spalle la prima infanzia. Solo pochi giorni prima si era rifiutata di indossare l'insulso vestitino grigio che le avevano dato appena arrivata e aveva insistito per metterne uno a colori vivaci confezionato dalla madre con uno scampolo di stoffa di produzione locale. Mary avrebbe preferito tenerlo per le occasioni speciali, come il suo abito rosa, ma poi aveva ceduto ai capricci di Charlotte. Chiaramente la piccola aveva dimenticato che a Sydney aveva soltanto un vestito, talmente logoro, sbiadito e rattoppato, che sulla barca era andato in brandelli. Sembrava non ricordare nulla della colonia - cosa che rallegrava molto sua madre o dello stato in cui erano arrivati lì, stremati dalla fame e dalla sete, con la pelle e i capelli infestati da parassiti. Anche Mary era riuscita a cancellare tutto dalla sua mente, ma adesso, davanti alla possibilità di essere rimandata laggiù, il passato riaffiorava con prepotenza. Era già terribile immaginarsi a vivere di nuovo in quel modo, ma come l'avrebbe sopportato Charlotte dopo avere sperimentato una vita diversa? Quanto a Emmanuel, il suo piccolo stomaco non avrebbe tollerato la dura dieta della prigione; era un bambino delicato e la minima variazione nei cibi lo faceva stare male. Più tardi, quando lui e Charlotte si addormentarono con la testa appoggiata sul suo grembo, Mary, seduta a terra, allontanò dagli occhi di Emmanuel una ciocca di capelli biondi e ricacciò indietro le lacrime. Era quasi troppo bello per essere un maschio, con quei capelli chiarissimi a sfiorargli le spalle, gli occhi

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come pervinche e l'incarnato luminoso. Sulla barca lei lo aveva tenuto in vita con la sola forza di volontà, ma come avrebbe ritrovato la stessa forza se restavano in quella prigione, o se fossero stati rispediti nella colonia? Sapeva che a casa, in Cornovaglia, lui sarebbe stato uno di quei bambini che la gente definiva “speciali”, quelli che hanno l'aspetto di un angelo, e quindi non sono destinati a restare a lungo su questa terra. Dalla lunghezza delle ombre fuori dalla finestra comprese che erano circa le cinque del pomeriggio quando il carceriere aprì la porta della cella. Di carnagione scura, con gli occhi a mandorla, le disse qualcosa di incomprensibile indicandole di seguirlo. Lei prese in braccio Emmanuel, e con Charlotte per mano si lasciò condurre da Wanjon. Il governatore si trovava in una delle sale superiori del castello, un locale tetro e fresco, presumibilmente il suo ufficio, perché oltre a una scrivania c'erano una lampada, scaffali pieni di libri e molti oggetti personali, tra cui il ritratto di una donna che forse era sua moglie, e una fruttiera in legno ornata con un serpente di perline. La giacca bianca che Wanjon indossava in occasione del precedente incontro era appoggiata sullo schienale della sedia; la camicia candida appariva stropicciata, e lui puzzava di sudore. A prima vista l'aveva giudicato di bella presenza e gradevole, e invece adesso le pareva stanco, accaldato e infastidito. Era piccolo e tozzo, aveva i capelli corvini lisciati con l'olio e la scriminatura centrale. Mary immaginò dal nome, dagli occhi a mandorla e dalla pelle color caffè che fosse originario di quei luoghi, e avesse ricevuto una buona educazione, forse in Olanda se non addirittura in Inghilterra, perché parlava fluentemente inglese e olandese, oltre alla lingua locale. Cominciò a farle domande sulla baleniera: il numero dei componenti dell'equipaggio, il nome del capitano, il luogo di registrazione della nave, l'ultimo porto in cui avevano fatto scalo prima del naufragio. A suo tempo, sul cutter, avevano concordato tutte le risposte

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tranne il luogo in cui era stata registrata la nave, ma nel momento stesso in cui si mise a raccontare che il capitano era di Rio de Janeiro, che si chiamava Marcia Consuella, che a bordo c'erano diciotto marinai, e che erano salpati da Città del Capo, comprese che nessuna di queste spiegazioni avrebbe retto a un attento esame. Quando Emmanuel scoppiò a piangere, Mary sperò che Wanjon ne fosse infastidito al punto da rinunciare all'interrogatorio. Purtroppo sortì l'unico effetto di farlo decidere di non sprecare altro tempo e parlarle con franchezza. «Sono tutte bugie, Mary.» Si alzò e prese a camminare a grandi passi per la stanza con le mani dietro la schiena. «Non eravate su una baleniera. Non siete mai stati su una baleniera. Avete rubato la barca nel Nuovo Galles del Sud. Siete degli evasi.» Mary cullò Emmanuel tra le braccia mentre protestava che lui era completamente fuori strada. Fu allora che Wanjon la informò della piena confessione di Will. Lei impiegò un po' ad assorbire il colpo. Poco prima aveva chiesto alla guardia se anche suo marito era rinchiuso nella prigione del castello, e aveva ricevuto una risposta negativa. Certo, la guardia conosceva soltanto un paio di parole inglesi, e lei altrettante nella lingua del posto, però aveva avuto l'impressione che lui comprendesse la domanda. Will spiccava a Kupang per via della statura e dei capelli biondi, e Mary era certa che, se fosse stato al castello, tutti l'avrebbero saputo. Cominciava a pensare che avesse messo in pratica la minaccia espressa due giorni prima e si fosse imbarcato su una nave. «Mi addolora ammetterlo, ma mio marito ama vantarsi» spiegò accalorata. «Forse ha creduto che fosse una storia più interessante della verità.» «Ho letto il suo diario di bordo» rispose stancamente Wanjon. Nel sentire queste parole, Mary dovette reprimere un grido perché aveva scongiurato Will di distruggere quel diario ancora prima di approdare a Kupang. «E alquanto imbarazzante per me» continuò Wanjon, senza smettere di girovagare per la stanza. «Sai, se non fosse stato per

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l'arrivo del capitano Edwards, vi avrei messo tutti quanti sulla prossima nave in partenza per l'Inghilterra. Invece il capitano ha voluto saperne di più sul vostro conto, così ho dovuto chiamare tuo marito, che mi ha rivelato tutto.» «È stato Will a cantare?» chiese, incredula. «“Cantare”?» Wanjon aggrottò la fronte. «Che cosa significa?» «Fare la spia. Testimoniare contro i propri complici.» «Sì, è stato lui. Certi uomini non conoscono lealtà quando pensano di poter salvare la pelle.» A quel punto Mary crollò, incapace di trattenere le lacrime. «Vi prego, signore, non rimandateci laggiù. Emmanuel non si è ancora ripreso, e Charlotte comincia solo ora a stare meglio. Moriranno se torniamo indietro.» «Mia cara, questo è al di là della mia giurisdizione» disse Wanjon con un gesto sdegnoso della mano. «Il capitano Edwards, in quanto ufficiale della Marina inglese, è il solo con il potere di decidere che cosa fare di voi.» Aprì la porta e diede un ordine alla guardia. «Adesso tornerai in cella» disse, rivolto nuovamente a Mary. «Ti porteranno cibo e acqua. Io non sono crudele, Mary. Tu e i tuoi figli sarete trattati bene qui.» Dopo che Mary fu condotta fuori, Wanjon, con il cuore gonfio, indugiò a guardare dalla finestra per qualche tempo. Aveva accettato la versione di quegli uomini, di come erano approdati lì dopo il naufragio della loro nave, semplicemente perché assomigliava a quanto era successo due anni prima al capitano Bligh. Non l'aveva neppure sfiorato il dubbio che fossero evasi dalla colonia penale del Nuovo Galles del Sud. Chi mai avrebbe pensato che un pugno di semplici detenuti potesse compiere un viaggio di circa tremila miglia su una barca aperta? Perfino il capitano Edwards, malgrado la sua grande esperienza di mare, era finito nei guai nello Stretto di Torres, ma in effetti

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era un gran presuntuoso, convinto di poter attraversare indenne nottetempo acque tanto pericolose. Era un uomo spietato, che aveva chiuso i quattordici ammutinati catturati in una specie di cassone sul ponte, lasciandoli al vento e alle intemperie, con braccia e gambe chiuse nei ceppi. Mentre la nave si inabissava, aveva negato a un membro dell'equipaggio il permesso di togliere loro le catene, ed era stato soltanto grazie a un fante che aveva ignorato l'ordine se dieci dei prigionieri erano sopravvissuti. Wanjon fece un sospiro profondo. Lo addolorava consegnare a Edwards Mary e i suoi compagni, perché era persuaso che avrebbero sofferto molto in mano sua. Mary era una donna di eccezionale coraggio, e quale che fosse il reato che l'aveva condotta alla deportazione, ne aveva già pagato il prezzo. Quanto a quei poveri bambini innocenti, che all'arrivo a Kupang erano a un soffio dalla morte, che diritto aveva un governo - fosse inglese, olandese o di qualsiasi altra nazionalità - di spedirli verso una morte certa e prematura? Passò più di una settimana prima che Mary avesse l'opportunità di incontrare qualcuno degli uomini. Una guardia che parlava un po' di inglese le aveva detto che erano rinchiusi tutti in una cella, compreso Will. Wanjon aveva mantenuto la parola: Mary aveva ricevuto cibo per sé e per i bambini e addirittura una stuoia per riposare, una coperta, e acqua per lavarsi. Ogni giorno veniva condotta nel cortile del castello con i suoi figli perché potessero respirare aria pulita e fare un po' di moto. A volte osava addirittura sperare che il governatore olandese intervenisse per favorire la sua liberazione. Impossibile che un uomo che trattava lei e i bambini con tanta gentilezza la lasciasse andare al patibolo, rendendo orfani Charlotte e Emmanuel. Così, quando la guardia le comunicò il permesso di fare visita agli uomini nella loro cella, non poté non pensare che quello

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fosse il primo passo verso il rilascio. Il capitano inglese non era mai andato a incontrarla, quindi forse aveva addirittura già lasciato Kupang. La cella degli uomini nel castello era molto più in basso della sua: una grande stanza buia e umida con feritoie troppo alte per guardare fuori. Tutti si affollarono intorno a lei per baciare e abbracciare i bambini, e chiederle come era stata trattata. Passò un paio di minuti prima che Mary notasse Will, seduto su uno sgabello, voltato di schiena. «Non vuoi vedere Emmanuel e Charlotte?» gli chiese. «Non merita di vederli mai più» bofonchiò Bill. «Ci ha tradito.» Mary guardò con attenzione gli amici, e fu felice di constatare che stavano tutti bene e avevano abiti puliti. Le loro occhiate verso Will erano però malevole. Parevano odiarlo perfino Jamie Cox e Samuel Bird, che tanto a lungo gli erano stati ciecamente devoti. Mary aveva avuto tutto il tempo per pensare al comportamento del marito, ed era giunta alla conclusione che non era certo andato di proposito da Wanjon a spifferare tutto. Di sicuro sapeva che sarebbe stato considerato colpevole come tutti gli altri, e che se anche poteva sfuggire all'impiccagione per la fuga perché aveva già terminato di scontare la pena, il furto del cutter del capitano Phillip lo avrebbe comunque destinato a una condanna a morte. «Non riesco proprio a crederlo» disse avvicinandosi a Will, che non si era ancora voltato a guardarla. «Dimmi, sei stato tu a tradirci?» «Loro sono tutti convinti di sì» rispose lui a voce bassa. «Tanto vale che lo pensi anche tu.» Mary gli afferrò il mento per costringerlo a guardarla in faccia. Rimase senza fiato. Era stato picchiato con violenza, probabilmente dagli altri uomini. Gli occhi, pesti e gonfi, erano quasi invisibili, il labbro era tagliato e la camicia coperta di macchie di sangue. «Te lo meriti per non avere ascoltato la mia raccomandazione

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di non farti notare» gli disse in tono aspro. «Sei un verme, Will Bryant, uno spaccone borioso, un bastardo buono a nulla, eppure stento a credere che tu ci abbia tradito.» «Non l'ho fatto, lo giuro» disse lui con voce rauca. «Ero ubriaco, alcuni marinai inglesi sono entrati nella taverna e ci siamo raccontati le nostre storie.» Mary annuì. Proprio come aveva immaginato. Mentre quelli spiegavano cosa avevano sopportato sulla scialuppa dopo il naufragio, Will si era dovuto mettere in mostra vantandosi di avere passato anche di peggio. Era ancora furibonda: se fosse arrivata faccia a faccia con lui il giorno dopo l'arresto, avrebbe cercato di ucciderlo con le sue mani. Ma il tempo, e la convinzione che Wanjon volesse intervenire in loro favore, l'avevano calmata al punto da spingerla a cercare di capire perché e come Will li avesse cacciati in quella situazione. «Allora, quando sei stato portato qui?» chiese. «La stessa sera» rispose lui con un filo di voce. «Stavo uscendo dalla taverna e le guardie mi hanno acchiappato. Mi hanno portato da Wanjon il giorno dopo, di primo mattino. Lui ha detto che stavate per arrivare qui tutti. Aveva già preso il mio diario di bordo nel posto in cui andavo a dormire. Non ho potuto fare altro che dire la verità: mi ha messo con le spalle al muro.» Mary chiuse gli occhi imponendosi la calma. Si sentiva dibattuta tra opposte emozioni. Aveva sempre voluto molto bene a Will, ed era tragico vederlo caduto tanto in basso. Anche se avrebbe dovuto tenere chiusa quella boccaccia, sapeva che nessuno di loro sarebbe stato in grado di resistere a un interrogatorio serrato e prolungato. La loro storia era troppo lacunosa. Di certo, però, non biasimava gli altri per averlo picchiato. Sia James che William gli avevano detto che doveva assolutamente distruggere il diario, e lei sapeva benissimo perché non l'aveva fatto. Will si vedeva come un eroe, e voleva che tutto il mondo lo riconoscesse come tale. Se non avesse spifferato tutto lì da ubriaco, l'avrebbe fatto altrove, prima o poi. Forse con il

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diario, la prova della sua straordinaria impresa, sperava addirittura di fare dei soldi. «Perché non ti sei accontentato di quello che avevamo?» chiese con amarezza. «Eravamo al sicuro, Emmanuel si stava riprendendo. Stavamo bene, santo cielo, ma tu volevi di più. Donne, alcol...» «Non avevo altre donne» la interruppe lui. Mary fece una risatina ironica. «Sono pronta a scommettere qualsiasi cosa che stavi con una puttana. Magari è stata proprio lei a passare il diario a Wanjon o a una delle sue guardie per qualche soldo in più di quelli che le allungavi tu.» Will voltò la testa, e Mary comprese di avere colto nel segno. Avvertì un senso di nausea per il dolore. «Forse non sono la donna più bella e più intelligente del mondo,» disse con voce incrinata «però sono stata leale con te, Will. Anche quando morivamo di fame al campo, non hai mai dovuto temere che io rubassi parte della tua razione di cibo, e i tuoi soldi. Ho usato al meglio quello che avevamo, ed ero pronta a uccidere per far stare bene te e i bambini.» «Mi dispiace» mormorò lui. «Il tuo “mi dispiace” aiuterà Charlotte e Emmanuel quando ci impiccheranno?» chiese Mary, con una smorfia angosciata. «Non ci impiccheranno.» «E invece sì, se ci rispediscono in Inghilterra. Viceversa, se ci mandano nel Nuovo Galles del Sud, verremo fustigati e rimessi in catene.» Distolse il viso da lui, incapace di tollerare il pensiero di una di quelle punizioni. Avrebbe preferito morire in mare piuttosto che vedere il giorno in cui suo marito anteponeva fama e denaro a lei, ai figli e agli amici. Il 5 ottobre Mary, Charlotte e Emmanuel furono fatti uscire dalla cella e imbarcati con gli uomini sulla Rembang, una nave olandese noleggiata dal capitano Edwards per portare a Batavia loro,

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i diciotto membri dell'equipaggio della Pandora e i dieci ammutinati prigionieri sopravvissuti. Mary non aveva idea di dove si trovasse quell'isola; sapeva soltanto che era nelle Indie orientali olandesi. Pareva che in quel grande porto il capitano intendesse prendere un'altra nave per Città del Capo, e poi da lì proseguire per l'Inghilterra. Nei due mesi di detenzione nel castello, Mary si era aggrappata alla speranza che Wanjon le permettesse di restare a Kupang con i figlioletti. Sapeva di godere delle sue simpatie perché talvolta lasciava uscire di prigione lei e gli uomini, sempre e soltanto a due per volta; questo significava che Mary poteva andare al villaggio, far giocare i bambini sulla spiaggia e chiacchierare liberamente con chi l'accompagnava. Tuttavia non le venne mai concesso di andare fuori con Will, forse perché Wanjon lo riteneva troppo rischioso. La sola volta che vide il marito, nel cortile del castello, lui non fece che profondersi in scuse, con il risultato di accrescere ancora di più la sua collera. Non era più l'uomo che conosceva tanto bene. L'ostracismo degli altri, soprattutto di James Martin, Jamie Cox e Samuel Bird, un tempo i suoi più cari amici, l'aveva reso taciturno e incline a scatti emotivi speso ingiustificati. Spaventò i figli stringendoli a sé con forza, e scoppiò in lacrime come un bambino quando Charlotte scappò via da lui o Emmanuel si rifugiò dietro le gonne della madre. Ripeté a Mary di averla sempre amata e implorò il suo perdono. Lei gli rispose stancamente di averlo perdonato, anche se in cuor suo sentiva che mai ci sarebbe riuscita. Avrebbe voluto ignorarlo come facevano gli altri, ma la compassione glielo impediva. Solo pochi giorni prima della prevista partenza della Rembang furono avvertiti che vi sarebbero stati imbarcati. In occasione di una delle uscite dal castello, Mary aveva appreso la notizia con estremo sgomento da un paio di persone che parlavano inglese. Conosceva la terribile reputazione del capitano Edwards. Era circolata la voce che sulla Pandora gli ammutinati erano stati rinchiusi in una “cassa”, e quattro di loro erano morti. Pareva che

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la Rembang avesse un altro ponte, e non ci voleva molta immaginazione per comprendere che quella struttura, priva di oblò e boccaporti, con piccoli fori solo sul soffitto, era un'altra “cassa” in cui il capitano Edwards avrebbe rinchiuso lei e gli altri. Le avevano raccontato della richiesta di Wanjon al capitano Edwards di onorare i molti conti per vitto, alloggio e abbigliamento che Will aveva sottoscritto. Al netto rifiuto di Edwards, Wanjon aveva replicato che se non pagava non avrebbe ricevuto le provviste per il viaggio, la cui durata era stimata in un mese. Mary intuiva che, per questa ragione, Edwards sarebbe stato già in partenza pieno di rancore nei loro confronti. Tutto considerato, era facile immaginare che durante il viaggio per Batavia sarebbe stato come ritrovarsi sulla nave prigione in Inghilterra, con poco cibo, al buio, in catene. Vide giusto su tutta la linea. Il ponte supplementare era stato diviso in tre parti: a prua i detenuti evasi, al centro l'equipaggio della Pandora e a poppa gli ammutinati. Ancora più terrificante del buio era la “verga”, una lunga sbarra di ferro fissata al pavimento, cui erano attaccati i ceppi scorrevoli che bloccavano le loro caviglie, rendendo difficoltoso qualsiasi movimento. Mary lanciò un'ultima occhiata al porto prima che la facessero entrare a forza nella nuova cella. Durante la notte aveva piovuto e ora la città splendeva sotto il sole. Alcune donne del villaggio con i bambini in braccio la salutavano dal molo costellato di banchi con alte pile di frutta e verdura, tra i pescatori con enormi cesti di pesce appena pescato; il bambino con cui tanto spesso aveva cercato di chiacchierare, che spingeva un carretto carico di noci di cocco, le gridò un addio. Il profumo di legno di sandalo aleggiava nell'aria come un'invisibile nuvola aromatica, e nell'accomiatarsi per sempre dal luogo che le era diventato tanto caro sentì salire le lacrime agli occhi. «Perché ti fa così, mamma?» le chiese Charlotte mentre un membro dell'equipaggio le serrava i ceppi intorno alle caviglie. «Come fai a camminare, adesso?» Mary non riuscì a rispondere, angosciata dall'impossibilità di

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occuparsi di entrambi i bambini in quelle condizioni. Le domande di Charlotte si interruppero di colpo quando la porta fu sbattuta con violenza e chiusa con il catenaccio, lasciandoli nella più completa oscurità. La piccola emise un grido lacerante, e dopo avere inciampato nella sbarra di ferro, atterrò su Emmanuel, in braccio alla madre. «Quel bastardo del capitano aveva una cabina per te e i bambini a poppa, ma ha detto che dovevi stare qui con noi» le disse Jamie Cox dalla parte opposta della cella buia. «Fa pagare a noi lo smacco di non essere riuscito a catturare tutti gli ammutinati del Bounty.» «Sarò ben contento di pendere dalla forca per lui» bofonchiò James Martin. Poi, dopo un attimo di silenzio, si rivolse a Will. «Allora, finalmente sei sulla tua nave, grand'uomo» disse sprezzante. «La cabina è di tuo gradimento? Ti fa piacere avere con te la tua signora e i bambini?» Giorno dopo giorno in quella cella buia la sofferenza aumentava. Quando fuori splendeva il sole, il caldo era tale che temevano di arrostire; quando arrivava la burrasca, si bagnavano fin nelle ossa. Ricevevano solo quel tanto di cibo e acqua che consentiva di sopravvivere, e i ceppi impedivano loro di spostarsi per fare i propri bisogni. Mary implorava a gran voce pietà, anche solo per Charlotte e Emmanuel, ma se qualcuno a bordo la sentiva, preferiva ignorarla. Nelle rare occasioni in cui veniva aperta la porta si rendeva conto che quel che i suoi figli avevano guadagnato in salute a Kupang era ormai andato perduto. Sedevano sgomenti in lacrime, con il sudiciume incrostato su tutto il corpo; dopo pochi giorni Emmanuel era già febbricitante. Gli uomini parlavano pochissimo. Sui loro visi, quando Mary riusciva a scorgerli, c'era un'espressione spiritata. Nat e Jamie gemevano nel sonno, Bill imprecava, e James sembrava perennemente vigile, con gli occhi che ardevano nel buio. Soltanto Sam Broome si fingeva convinto che tutto si sarebbe risolto per il meglio, ma Mary sapeva che quella sua recita era a solo beneficio dei bambini.

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Incapparono in un ciclone, e l'acqua arrivò copiosa, minacciando di farli affogare. Mentre la nave rollava e beccheggiava, a un tuono seguì un fulmine che per un attimo illuminò una serie di visi terrorizzati. Mary pregò che la nave affondasse mettendo fine alle loro sofferenze. Udì gli uomini del Bounty gridare e imprecare come se aiutassero l'equipaggio della Rembang. Più tardi avrebbe saputo che molti olandesi se ne stavano sottocoperta a giocare a carte, mentre gli inglesi lottavano per tenere la nave lontana dagli scogli. Anche a Will venne la febbre, e nel delirio si mise a invocare la madre. Mary non poteva fare nulla per aiutarlo perché impossibilitata a muoversi con entrambi i bambini tra le braccia. Jamie riuscì a superare la rabbia nei confronti del vecchio amico tanto da offrirgli qualche sorso d'acqua; gli altri, invece, serbavano ancora troppo rancore nei suoi confronti. «Muori pensando a quello che ci hai fatto» gli gridò parecchie volte William Moreton. «Spero che tu bruci all'inferno, bastardo.» La Rembang approdò a Batavia il 7 novembre. Quel mese in mare parve durare un anno. A parte il luridume in cui erano costretti a stare, che aumentava di giorno in giorno, a parte la fame e la sete, era stato come avere gli occhi bendati, perché non avevano mai avuto la possibilità di guardare fuori. Non sapevano se avevano costeggiato altre isole, grandi estensioni di terra, o veleggiato in mare aperto. Tutti avevano perso completamente il senso del tempo e delle distanze. Hamilton, il medico di bordo, fece una rapida visita nella stiva, e malgrado tenesse un fazzoletto sotto il naso per sentire meno il fetore, fu scosso da conati di vomito. Diede appena un'occhiata agli uomini, e invece ordinò di portare subito Emmanuel in ospedale, e Mary con lui. Gli altri reclusi e gli ammutinati sarebbero stati spostati su un guardaporto in attesa di essere imbarcati sulla prima nave in partenza per l'Inghilterra.

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«Charlotte deve venire con me» lo implorò Mary, terrorizzata che la piccola fosse imprigionata su un'altra nave senza la sua protezione. «Si ammalerà anche lei se non ci sono io.» Hamilton era un uomo dal viso duro coperto da una folta barba. «In ospedale si ammalerà ancora più in fretta» affermò. «Chiamano questo posto il Golgota d'Europa, e l'ospedale è un buco puzzolente; però portala con te, se proprio non puoi fare altrimenti.» In quel momento Mary non comprese cosa intendeva, perché immaginava Batavia molto simile a Kupang. Un solo mese di viaggio doveva significare che non era tanto lontana, e inoltre aveva sentito dire che era il centro operativo della Compagnia delle Indie orientali olandesi. Non tardò a scoprire la differenza. La prima cosa che vide quando fu accompagnata sul ponte furono alcuni cadaveri a pelo d'acqua. Immediatamente vomitò in mare. I dipendenti della Compagnia delle Indie orientali olandesi si consideravano fortunati se venivano assegnati a Kupang. Era rumorosa e affollata da gente di ogni nazione, ma l'aria era pulita e tonificante, e il clima perfetto. Fuori dalla città l'isola era molto bella, con la giungla, le montagne e le sue spiagge idilliache. Batavia, invece, era avvolta da un'aria afosa, umida. Gli olandesi avevano costruito dei canali in città, e la putrida acqua stagnante portava malattie che uccidevano come mosche gli europei. Mary notò che l'equipaggio della nave era riluttante a sbarcare, segno sicuro che quello non era un buon posto. Udì casualmente un marinaio inglese, che aveva esperienza del luogo, dichiarare che anche i marinai più robusti sarebbero stati decimati dalla febbre nel giro di qualche settimana. Mentre veniva condotta via da due guardie con Emmanuel in braccio e Charlotte alle calcagna, Mary si voltò indietro a guardare gli amici sul ponte e subito sentì salire le lacrime agli occhi. Erano tutti luridi e macilenti. L'unico tocco di colore nel gruppo era dato dai capelli rossi di Samuel Bird, anche se sbiaditi dalla sporcizia. Nat Lilly e Jamie Cox, i due più esili, sembravano ragazzini. Bill Alien si atteggiava a duro, e James Martin si sfregava gli occhi con i pugni. Sam Broome e William Moreton si

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sostenevano a vicenda. Poi c'era Will, isolato e febbricitante al punto da reggersi a malapena in piedi. Mary sentì il cuore pesante: apparivano tutti talmente in cattivo stato che era certa di non rivederli mai più. Le guardie la trascinarono via. Il suo sconforto aumentò nel vedere che anche la moltitudine di piccoli indigeni dalla pelle scura che si affollava intorno a loro aveva un'aria malaticcia. Le tornarono in mente le parole del medico su Batavia nel vedere le baracche costruite alla bell'e meglio al posto delle case eleganti che si aspettava. L'afa soffocante, il disgustoso fetore e gli insetti che non davano tregua le fecero temere il peggio per i suoi figli. La prima impressione dell'ospedale a due piani fu che i muratori avessero abbandonato la costruzione a metà. Alcune finestre avevano le imposte, mentre altre erano semplici buchi. Nel cortile antistante ardeva un falò da cui emanava un odore terribile, e almeno cento persone erano sdraiate o sedute fuori; molte avevano la testa o gli arti fasciati con bende luride, sporche di sangue, punteggiate di mosche che non avevano la forza di scacciare, e gemevano o si lamentavano in modo agghiacciante. Charlotte si aggrappò alle vesti della madre, piagnucolando di paura, ma le guardie spinsero Mary oltre la porta, il che la indusse a pensare che la gente all'esterno fosse in condizioni migliori di quella all'interno. Appena dentro, Mary arretrò inorridita per il puzzo, un odore disgustoso, tanto forte da togliere il respiro. Comprese allora che soltanto un miracolo avrebbe salvato Emmanuel. Fin da quando era sulla nave aveva smesso di piangere e rimaneva inerte tra le sue braccia a fissarla. Mary aveva cercato di farlo bere, ma non tratteneva niente. Un momento scottava al punto che si sarebbe potuto cuocere un uovo sulla sua fronte, e quello successivo era scosso da violenti tremiti. Si avvicinò un'anziana monaca con un grembiule sudicio sulla tonaca bianca. Le guardie le dissero qualcosa in olandese, e lei guardò Emmanuel con un mormorio di disapprovazione, poi indicò a Mary di seguirla.

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Mentre oltrepassavano parecchie camerate, Mary vide in ciascuna trenta o quaranta pazienti adulti sdraiati su stuoie. Venne condotta all'estremità dell'edificio, dove erano ricoverati soltanto neonati e bambini piccoli assistiti dalle madri. La monaca si allontanò dopo averle indicato dove venivano tenute le stuoie, i catini e i secchi per lavarsi, senza peraltro spiegare dove si trovava l'acqua, se sarebbe arrivato un medico o chi avrebbe portato da mangiare. Mary distese in un angolo due stuoie, vi adagiò Emmanuel e fece sedere Charlotte accanto a lui, ordinandole di non muoversi. Poi prese un secchio e, con il linguaggio dei segni, chiese alla donna vicina dove poteva procurarsi l'acqua. Quando scese la notte, si sdraiò accanto ai figli. Con l'acqua presa da un pozzo esterno aveva lavato i bambini per togliere loro di dosso la sporcizia della nave, e in una squallida cucina era riuscita a procurarsi la razione giornaliera di riso. Qualsiasi altra cosa doveva essere comprata da un'indigena dall'aspetto orribile che presidiava la cucina, oppure portata da fuori. Nell'udire il familiare scalpiccio dei ratti per la stanza malgrado i gemiti e le urla dei moribondi, strinse in un abbraccio protettivo Charlotte e Emmanuel. Prima di cedere allo sfinimento, si chiese come si procuravano da mangiare e da bere i pazienti privi di amici o parenti, e se mai un medico si avvicinava all'ospedale. Trovò risposta a queste domande nei due giorni successivi, osservando e comunicando con il linguaggio dei segni con le altre madri. Un medico veniva di tanto in tanto, ma per visitare soltanto chi aveva i soldi per pagarlo. Un gruppetto di monache olandesi faceva quello che poteva, però di fronte all'enorme numero di malati era come cercare di vuotare il mare con un ditale. Ben presto comprese che quello era più un lazzaretto che un ospedale. La gente veniva spedita lì nel tentativo di contenere il contagio. Quelli nel cortile erano feriti, non affetti da malattie, e spesso dovevano aspettare anche una settimana per essere visitati. La maggior parte dei ricoverati moriva senza mai

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sentirsi rivolgere la parola, tanto meno da un medico, e ben pochi riuscivano a guarire. La camerata dei bambini era tenuta ragionevolmente pulita dalle madri, mentre un'occhiata in quelle degli adulti rivelò una realtà orripilante: i rozzi pavimenti di legno erano cosparsi di vomito ed escrementi, le pareti schizzate di sangue e pus. I pianti, le urla e i discorsi deliranti dei pazienti venivano ignorati. Il terzo giorno Mary vendette l'abito rosa per comprare sapone e latte per Emmanuel e un po' di carne e verdura per sé e Charlotte. Pensò di fuggire, perché non sarebbe stato difficile sgattaiolare fuori e mescolarsi alla folla, ma non trovò il coraggio di trascinare fuori Emmanuel sotto il sole cocente; quanto meno lì dentro faceva più fresco e c'era acqua in abbondanza. Doveva rendergli il più possibile confortevoli gli ultimi giorni. L'isolamento era per lei l'aspetto peggiore dell'ospedale. Come a Kupang, erano presenti persone di varie nazionalità, ma per il momento non aveva incontrato nessuno che parlasse inglese, e nessuno cui chiedere aiuto. In quel posto, la morte dei bambini era uno dei tanti eventi della vita, e neppure l'aspetto etereo di Emmanuel attirava particolari simpatie. Lei lo bagnava per rinfrescarlo, lo avvolgeva in coperte quando era scosso dai brividi, gli lasciava gocciolare l'acqua in bocca, ma ciò nonostante lui era sempre più debole. Aveva un bisogno disperato di comunicare a qualcuno la sua ansia per il figlio. La terrorizzava il pensiero di quello che sarebbe accaduto a Charlotte se si fosse ammalata anche lei. Quello non era un posto per una bambina sana: ogni giorno sua figlia assisteva a scene che avrebbero sconvolto anche un adulto. Era ingiusto che dovesse passare le giornate circondata da bambini in condizioni disperate. Sotto molti aspetti per lei era peggio che sulla nave, dove almeno gli uomini la intrattenevano con favole e canzoncine. Talvolta Mary pensava di impazzire per il rumore, il fetore, il caldo e la sporcizia. Si chiedeva anche che cosa avrebbe fatto una volta finiti i soldi ricavati dalla vendita dell'abito rosa. Non

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smetteva di pensare che era tutta colpa di Will, e giurava a se stessa che, una volta uscita da lì, l'avrebbe ucciso. Verso la fine di novembre una delle suore che conosceva qualche parola di inglese le disse che Will era stato ricoverato in ospedale. Anche se avesse voluto vederlo, non avrebbe potuto perché Emmanuel stava troppo male. Aveva cominciato ad allungare un po' di soldi a un'altra madre perché le procurasse il riso e l'acqua; lei, infatti, non osava allontanarsi dal capezzale del figlio. Il 1° dicembre, Emmanuel spirò tra le sue braccia. Lo stava cullando e gli cantava una ninnananna quando il piccolo smise di respirare. «Cosa succede, mamma?» sussurrò Charlotte nel vedere le lacrime scorrere lungo le sue guance. «Se ne è andato» riuscì soltanto a rispondere con voce rotta. «Adesso vive insieme agli angeli.» Se lo era aspettato. Aveva creduto di essere pronta. Giorno per giorno lo aveva visto avvizzire fino a ridursi a uno scimmiotto rugoso, che pure, anche nella malattia, la cercava con le dita. Ora, all'improvviso, quelle dita restavano inerti e fredde, e lei aveva voglia di urlare il proprio dolore. Non era arrivato neppure al secondo compleanno, ma nella sua breve vita le aveva dato tanta gioia e tanta speranza. Era ingiusto che la sua intera esistenza fosse stata segnata dalla sofferenza, e che avesse dovuto morire in un posto tanto squallido e sporco. Il corpicino le fu portato via da una monaca per essere messo in una fossa comune insieme alle altre persone morte quel giorno. Mary si aspettava che venissero a chiamarla prima dell'inizio della funzione, che invece non ci fu, come le comunicò più tardi una monaca. Erano troppi i morti per organizzare una cosa del genere. Il giorno successivo, Mary mandò Charlotte in cortile e le disse di rimanerci fino al suo ritorno. Era piena di rabbia, e prima di

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tornare sul guardaporto voleva cercare Will per dirgli che lo riteneva responsabile della morte del suo unico figlio. Lo trovò in una camerata all'estremità dell'ospedale. Quando vi guardò dentro, il tanfo che la investì era talmente disgustoso che dovette coprirsi naso e bocca. C'erano almeno cinquanta uomini, molti più che in qualsiasi altra camerata. Erano così vicini che giacevano nel vomito e nelle feci gli uni degli altri. Stava per andarsene, agghiacciata da lamenti e conati, quando individuò Will, il solo a non essere disteso. Quasi scheletrico, sedeva ingobbito in un angolo con indosso soltanto un paio di brache. La barba e i capelli biondi erano incrostati di sudiciume, e gli occhi azzurri, un tempo luminosi, apparivano spenti e cerchiati di rosso per la febbre. Aveva ventinove anni, ma sembrava un vecchio. Mary si era detta che avrebbe riso se fosse morto, che avrebbe accelerato la sua fine colpevolizzandolo per quello che le aveva fatto, e invece, nel guardarlo, si chiese come mai non le desse soddisfazione vederlo in quello stato pietoso. All'improvviso le tornò alla mente quando lui l'aveva portata in mare a lavarsi dopo la nascita di Emmanuel. Era stato dolce e affettuoso, tanto da farle dimenticare di essere una reclusa. Quel giorno, e molti altri ancora, si era sentita pari a qualsiasi moglie e madre per bene del suo paese natale. Le era diventato molto facile attribuire a Will solo qualità negative. Era riuscita a dimenticare che l'aveva salvata dallo stupro, sposata per proteggerla, e sottratta alla morte per inedia con le sue capacità e il duro lavoro di pescatore. Spesso Will aveva ceduto a Charlotte parte della sua cena sostenendo di non avere fame. Era stata orgogliosa di essere sua moglie e malgrado lui dicesse che si sarebbe imbarcato per tornare a casa non appena scontata la pena in realtà non l'aveva fatto. D'un tratto si sentì in dovere di assisterlo. Forse non sarebbe riuscita a perdonarlo completamente, ma per tutto quello che erano stati l'uno per l'altra in passato, Will non meritava di morire come un cane senza una parola gentile.

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Si fece strada tra la sporcizia e i corpi per raggiungerlo. «Sono io, Will» sussurrò, appena giunta nel suo angolo. La sgomentava che un uomo grande e forte come lui potesse finire in quel modo. Appariva nelle stesse condizioni dei reclusi della Seconda Flotta quando erano sbarcati dalla Scarborough. «Mary!» esclamò lui con un filo di voce, cercando di sollevare la testa. «Sei proprio tu?» «Sì, proprio io, Will.» Si chinò sul marito. «Sono qui per assisterti. Prima di tutto ti porto un po' d'acqua, e poi ti accompagno in una camerata meno lurida e affollata.» Will le afferrò la mano. «Emmanuel come sta?» La commosse che il suo primo pensiero andasse al figlio. «È morto ieri.» «Oh, no» gemette lui, stringendole la mano con più forza. «Tutta colpa mia.» Parte di lei avrebbe voluto confermarlo, sfogare il dolore nel disprezzo, ma prevalse la parte che desiderava poter condividere la sofferenza con qualcuno. «No» sussurrò. «E tutta colpa della crudeltà di quel capitano Edwards, di questo posto fetido, e della sfortuna.» Lui spalancò gli occhi mentre le lacrime gli rigavano le guance. «Come riesci a dire una cosa del genere dopo quello che ti ho fatto?» Mary non se la sentì di rispondere. «Vado a prendere l'acqua» disse semplicemente. «E Charlotte? Dov'è?» chiese lui, spaventato. «Lei sta bene. Le ho detto di aspettare fuori intanto che io venivo a cercarti.» Will si fece il segno della croce. «Dio, ti ringrazio.» Mary gli fece bere un po' d'acqua, poi lo accompagnò in una stanza più pulita per lavarlo da capo a piedi. Era orribile vedere tanto emaciato quel corpo un tempo grande e forte, così pretese

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da una monaca una camicia pulita per restituirgli un poco di dignità. Sapeva che sarebbe morto; dopo tre settimane in quel luogo aveva imparato a interpretare i segni, eppure gli disse che sarebbe guarito. Gli accarezzò la fronte fino a farlo addormentare, e poi sgusciò via per raggiungere Charlotte. Uscita in cortile, si bloccò all'improvviso accanto al pozzo, folgorata dall'idea che sarebbe stato un momento perfetto per fuggire, prima che si venisse a sapere della morte di Emmanuel e il capitano Edwards la mandasse a prendere con le guardie. Avrebbe potuto vendere i suoi stivaletti buoni, con il ricavato procurarsi qualche provvista e poi rifugiarsi nella giungla insieme a Charlotte. A Kupang si era fatta molti amici tra gli indigeni, e non le sarebbe stato difficile neppure lì. Forse nel giro di qualche mese, con un nome falso e una storia plausibile, si sarebbe potuta imbarcare su una nave per andarsene. Mary mosse qualche passo verso Charlotte che, seduta a terra, faceva delle torte con la fanghiglia intorno al pozzo. Era sporca, magra e pallida, e si muoveva con indolenza. Non era così a Kupang, e Mary si addolorò nel constatare il cambiamento operato in lei dal regime carcerario sulla nave: un'altra ottima ragione per darsela a gambe subito, fintanto che potevano. «L'hai visto, l'uomo?» chiese Charlotte, alzando lo sguardo. La domanda la prese in contropiede. Nel raccomandarle di non muoversi da quel posto, le aveva solo spiegato che avrebbe dovuto “vedere un uomo”. Se avesse saputo di chi si trattava, la bambina avrebbe preteso di andare anche lei. Per tutto quel periodo non aveva fatto che chiedere, più volte al giorno, quando avrebbero rivisto papà. Will aveva sempre trattato Charlotte come una figlia vera, e anche dopo la nascita di Emmanuel non aveva fatto distinzioni tra i due bambini. Quando litigava con Mary, non aveva mai usato come arma la paternità di Charlotte. Voleva bene alla bambina, e lo aveva dimostrato anche quel giorno: malgrado le pessime condizioni in cui versava, si era premurato di chiedere notizie di lei.

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Quindi, come faceva Mary a piantare in asso quell'uomo e lasciarlo morire da solo? Calò il secchio nel pozzo, lo riempì e poi lo tirò su. «Fatti lavare» disse, estraendo di tasca un cencio. «Andiamo a trovare papà.» La temperatura sembrava aumentare di giorno in giorno, e Will continuava a indebolirsi. Mary vendette gli stivaletti per comprare da mangiare per tutti e tre, ma lui non riusciva a ingurgitare più di un paio di cucchiaiate prima di ripiombare nel sonno. Da sveglio restava disteso a fissare Mary, proprio come faceva Emmanuel. Parlare rappresentava uno sforzo eccessivo, però sorrideva quando lei gli raccontava qualche episodio sui vecchi vicini di Fowey, storie di contrabbandieri sentite dal padre, e descriveva il porto e chi ci lavorava. Ogni giorno morivano almeno due persone in quella camerata, e il loro posto veniva immediatamente occupato di nuovo. Quando Will dormiva, Mary lavava gli altri e li dissetava. Per lei non c'era differenza se si trattava di indigeni, cinesi o olandesi: avevano tutti la stessa espressione sconsolata, e quanto meno non erano soli mentre esalavano l'ultimo respiro. Le monache la guardavano come fosse pazza, eppure talvolta portavano un uovo o un frutto per Charlotte, il che sembrava rivelare una certa simpatia verso la reclusa inglese che per assistere il marito rischiava la salute in quell'inferno. «È già Natale?» le chiese con voce rauca Will una sera mentre si stava facendo buio. «Mancano tre giorni.» «Mia madre faceva sempre il pudding di prugne per Natale.» Mary sorrise nel raffigurarsi la madre intenta a mescolare gli ingredienti in una grossa ciotola sul tavolo di cucina. «Anche la mia.» «La mamma ci diceva sempre di esprimere un desiderio mentre lo giravamo» raccontò Will poco più che sussurrando. «Se lo

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facessi ora, esprimerei il desiderio di averti detto che ti ho sposato perché ti amavo.» Mary, con le lacrime che le pungevano gli occhi, avrebbe voluto potergli credere. «E la verità.» Will aveva gli occhi cerchiati di rosso e infossati per la febbre, e sembrava vecchio e distrutto, tutto diverso dal bell'uomo grande e grosso che aveva sposato. «Mi sono innamorato di te sulla Dunkirk. Se anche avessi avuto in fila tutte le più belle di Inghilterra, io avrei comunque scelto te.» Le lacrime di Mary presero a sgorgare veloci. Se era vero, perché non glielo aveva mai detto? «Sono uno stupido» sospirò lui, come se le leggesse nel pensiero. «Temevo, dicendotelo, di perdere prestigio ai tuoi occhi. Proprio per questo continuavo a ripetere che volevo imbarcarmi per tornare a casa. Volevo sentirti dire che non potevi vivere senza di me.» «Oh, Will.» Con un sospiro, Mary gli prese la mano per baciarla. Comprese che era sincero: Will non avrebbe voluto andare incontro alla morte con una menzogna sulla coscienza. A quel punto lui precipitò di nuovo in uno stato di torpore, evidentemente spossato dalla fatica di parlare. Mary si distese al suo fianco e gli tenne la mano a lungo ripensando alle sue parole. Da bambina, aveva sempre immaginato che quella cosa che la gente chiamava “amore” fosse come una mela matura che cade sulla testa. La sua incontrollabile passione per Tench confermava questa idea; ma era vero amore? Non era più probabile che provasse certi sentimenti per quell'uomo perché le dimostrava interesse in un momento in cui lei aveva un disperato bisogno di qualcosa di bello che l'aiutasse a distogliere la mente dalla realtà in cui viveva? Avrebbe continuato a provare la stessa passione per lui se fossero riusciti a vivere insieme per sempre? Le circostanze che l'avevano indotta a sposare Will avevano ben poco di romantico. Eppure, malgrado la convinzione che si trattasse di un matrimonio di convenienza, avevano fatto l'amore con passione, il loro rapporto era stato caldo e rassicurante, potevano

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parlare di qualsiasi argomento e insieme ridevano molto. Erano amici. Pensò che la maggior parte delle persone intelligenti l'avrebbe definito amore. I primi raggi di sole penetravano obliqui dalla finestra quando Mary sentì Will agitarsi e cambiare posizione. Malgrado gli scottasse la fronte, era continuamente scosso dai brividi. «Sono qui» gli sussurrò mettendosi a sedere. Prese il panno e il secchio d'acqua per rinfrescarlo. «Mi dispiace tanto per quello che ho fatto» disse lui, affannato. «Non importa più» mormorò lei di rimando. Gli posò il panno umido sulla fronte e gli ravviò i capelli. «Ti ho perdonato.» D'un tratto si rese conto che era proprio così. Come l'amore, il perdono si era insinuato in lei a sua insaputa. «Proteggi Charlotte» riuscì a dire Will con grande difficoltà. Mary comprese che era la fine. «Ti ho sposato perché ti amavo.» Gli baciò le labbra calde e screpolate. «Ti amo ancora, e non voglio vivere senza di te.» Non sapeva se lui avesse udito le parole che aveva sempre desiderato udire, perché cadde di nuovo in stato di incoscienza. Mary gli rimase accanto, con la testa così vicina al suo cuore da sentire, un paio d'ore dopo, quando cessò di battere. ***

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Capitolo 16. A circa quattro mesi dalla morte di Emmanuel e Will a Batavia, la nave olandese Horssen entrava a Città del Capo con Mary e Charlotte a bordo. «Secondo me è quella la nave che ci porta a casa, Mary» disse Jim Cartwright rivolto a lei indicando il porto. «Guarda! Sarai contenta di vedere una nave di Sua Maestà.» Mary accennò un sorriso. Jim era un sopravvissuto al naufragio della Pandora. Durante le ultime settimane di viaggio da Batavia, quando lei e Charlotte si erano ammalate di febbri, aveva cercato in tutti i modi di tirarla su di morale: le portava frutti di vario tipo o noci, e soprattutto scherzava e chiacchierava. Mary apprezzava la sua gentilezza, ma spesso le paure per la figlia le impedivano di manifestarlo. Lasciò la piccola sdraiata su una stuoia e andò a guardare dal parapetto. Era un piacere rivedere Città del Capo; le faceva riaffiorare il bel ricordo del battesimo di Charlotte, avvenuto proprio lì. Allora era colma di speranze perché essere pionieri nel Nuovo Galles del Sud le appariva un'avventura più che una pena da scontare. La sete di avventura, peraltro, si era spenta da tempo. Tutto ciò che desiderava era la guarigione di sua figlia ed essere trattata gentilmente nell'ultimo tratto di viaggio. Comunque, malgrado il suo disincanto, la vista di una nave

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inglese la emozionò. La Gorgon era elegante, con il ponte lustrato a fondo, le cime arrotolate con cura e gli ottoni luccicanti al sole. Le ricordava alcune navi viste a Plymouth, che nessun vascello straniero riusciva a eguagliare in pulizia e ordine. Con la Table Mountain sullo sfondo, era impossibile immaginare una vista più bella; tuttavia, malgrado il suo aspetto gradevole, la Gorgon le avrebbe probabilmente riservato sofferenze di cui aveva già avuto esperienza. Aveva assistito alla sepoltura di Will, calato in una fossa comune, e sentito recitare una preghiera per lui, che non riuscì a comprendere perché in lingua olandese. Poi, mentre radunava le sue poche cose pensando a una nuova fuga, erano apparse le guardie. L'avevano messa subito in catene, là in ospedale, per portarla con Charlotte sul guardaporto dove si trovavano già gli altri uomini. Lo strazio per la morte di Emmanuel, che credeva di avere contenuto mentre assisteva Will, esplose non appena fu nuovamente rinchiusa. James e gli altri amici, sconvolti per la morte del piccolo, non mostrarono per Will alcuna partecipazione. Essere imprigionata ancora una volta in condizioni opprimenti per quasi un mese, con l'acqua razionata a solo un paio di pinte al giorno, e sentirli incolpare di continuo Will della loro disgrazia era troppo da sopportare. Si sentiva tanto giù di morale che avrebbe voluto morire. Si era rianimata un poco nel sapere che lei e Charlotte avrebbero raggiunto Città del Capo sulla Horssen insieme all'equipaggio della Pandora. James e gli altri si sarebbero imbarcati sulla Hoomwey con il comandante Edwards e gli ammutinati del Bounty. Malgrado il forte legame con gli amici, si sentì sollevata all'idea di non dover più sentire i loro aspri commenti. Insieme agli approvvigionamenti per il viaggio, però, sulle navi erano arrivate anche le febbri, che non fecero alcuna distinzione tra detenuti, ufficiali, mogli e figli di questi, o marinai. Quasi ogni giorno, Mary sentiva della morte di un uomo, una donna o un bambino. Non passò molto che si ammalarono anche lei e Charlotte.

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Per sua fortuna, il comandante della Horssen era comprensivo e sufficientemente audace da non eseguire l'ordine del capitano Edwards di tenere sottocoperta e incatenati tutti i detenuti per l'intera durata del viaggio. Quando gli riferirono che madre e figlia stavano male, fece togliere le catene a Mary, in modo che potesse prendersi cura della piccola. Fu solo allora che lei, colpita da quell'atto di umanità, cominciò a preoccuparsi di come stessero viaggiando gli amici sull'altra nave. Sul guardaporto li aveva visti in pessime condizioni, ed era quasi un miracolo che dopo essere stati rinchiusi nelle stive fetide per settimane non si fossero ancora presi le febbri. Sapeva che il comandante Edwards non avrebbe mostrato alcuna pietà, e temeva che qualcuno di loro non sopravvivesse fino a Città del Capo. «Tornerai a casa con i tuoi compagni» disse Jim allegro. «Quindi, su con la vita e fammi un bel sorriso.» Mary si chiese cosa avesse nella testa quel minuscolo marinaio dai capelli rossi. Certo, era gentile, ma non si rendeva conto della gravità della situazione: Charlotte era molto malata; lei stava tornando in patria per essere impiccata, e sua figlia per diventare orfana. Come poteva pensare che Mary considerasse l'ultimo tratto di viaggio come una sorta di festa? «Sei sempre così allegro?» chiese, sperando di non lasciar trasparire il sarcasmo. «Mia mamma mi chiamava “cuor contento”» rispose lui con una risata, scambiando la sua domanda per un complimento. «Dai, faresti meglio a radunare la tua roba, perché secondo me ci imbarchiamo molto presto sulla Gorgon.» Per mettere insieme i suoi scarsi effetti personali Mary avrebbe potuto impiegare meno di un secondo, invece la tirò per le lunghe. Passò in rassegna le sue cose, anche se totalmente prive di valore. Esaminò da cima a fondo il vestito di cotone azzurro ricevuto in dono a Kupang; la pezza dai colori vivaci con cui aveva

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pensato di fare un altro vestito a Charlotte, e che invece era stata usata per avvolgere Emmanuel in ospedale - la portò al viso nella speranza di sentirvi ancora il suo odore, che però se ne era andato proprio come il figlio, mentre i colori si erano sbiaditi per i molti lavaggi il filo di perline di legno azzurre regalatole da James Martin a Kupang; il ricciolo biondo di Emmanuel fasciato in un pezzo di carta marrone; la copertina che Watkin Tench le aveva regalato per Charlotte, proprio lì a Città del Capo. Allora era bianca e soffice; adesso, ingiallita dal tempo, era lisa e sottile come una ragnatela. Le bastò prenderla in mano perché nella sua mente riaffiorassero molti ricordi dei suoi bambini. C'erano anche le due graziose conchiglie trovate sulla spiaggia di Kupang, e infine il sacchetto con le ultime foglie di tè dolce. Ignorava perché continuasse a conservarle - erano le ultime di quelle raccolte nella colonia -, visto che ormai erano marroni, secche e probabilmente insapori, ma anch'esse erano legate a bei ricordi e non riusciva buttarle via. Si rivide accanto al fuoco insieme a Will fuori dalla capanna, mentre sorseggiavano il tè bollente e facevano progetti per il futuro. Il tè li aveva tenuti lontano dalla fame, scaldati contro il freddo, confortati nei momenti più bui. Avrebbe messo il vestito azzurro perché, malgrado fosse ormai lacero, era comunque pulito. L'aveva tenuto sempre addosso in ospedale a Batavia, e rimpiangeva di non avere più il vestito rosa, gli eleganti stivaletti o lo scialle e la cuffietta da sole perché l'avrebbero fatta sentire molto più a suo agio sulla nuova nave. D'altra parte, se non li avesse venduti, lei e la bambina sarebbero morte da un pezzo. Charlotte possedeva ancora meno: solo uno scamiciato e il vestitino dai colori un tempo vivaci ridotti ora a chiazze slavate, con le cuciture che non tenevano più. In ospedale aveva smesso di lamentarsi del suo anonimo vestito grigio. Mary si rese conto che da allora sua figlia non si era più lamentata di niente, neppure della mancanza di cibo o di acqua quando poi si era ammalata. Abbassò lo sguardo su di lei, raggomitolata come un cagnolino

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sulla panca dove avevano dormito, con le mani a mo' di guanciale. Era terribilmente magra, con un visino pallido e tirato e gli occhi spiritati. Le scostò delicatamente i riccioli bruni dalla fronte. «Sulla nuova nave andrà meglio. Guarirai.» Charlotte si limitò a un sospiro, una manifestazione di incredulità che ferì Mary più di una risposta aspra. Jim Cartwright aveva ragione rispetto alla nave che li avrebbe condotti a casa, ma non sull'imbarco che aveva previsto imminente. Rimasero alla fonda più di due settimane. L'equipaggio andava in franchigia, ma Mary non poteva scendere a terra. Non le rimisero più le catene, però la rinchiusero nella stiva con Charlotte e non le concessero neppure di stare due ore al giorno all'aria aperta sul ponte a sgranchire le gambe. Charlotte, divorata dalla febbre, si indeboliva sempre più e lei non poteva fare altro che rinfrescarla, cercare di farla bere e maledire un sistema che provocava tanta sofferenza a una bambina innocente. Con Charlotte quasi priva di sensi in braccio, Mary salì vacillando la passerella della Gorgon, tanto stremata da non reagire neppure al suono di voci inglesi. Jim le aveva detto che la nave era arrivata da Port Jackson piena di piante, arbusti, pelli di animali e persino una coppia di canguri, ed era impaziente di vedere con i suoi occhi tutte quelle meraviglie. Mary, dal canto suo, era più interessata a ritrovarsi con i suoi compagni “disertori” - così venivano ora definiti - che a chiedersi se a bordo vi fosse qualcun altro di sua conoscenza. Era stordita dalla febbre e dal caldo. Grida, tonfi, cigolii e colpi le bombardavano le orecchie; le membra le dolevano in modo

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insopportabile. Il riverbero del sole sull'acqua le feriva gli occhi, e l'odore di spezie, pesce e sudore le dava il voltastomaco. Il capogiro peggiorò ulteriormente quando dalla passerella passò sul ponte gremito di gente e casse. Le gambe le parvero di gomma; con il timore di far cadere Charlotte, si fermò per appoggiarsi a una cassa e tenne chiusi gli occhi qualche istante per riprendere l'equilibrio. Poi si sentì chiamare per nome. La voce le era familiare, ma lo stordimento le impedì di associarla a qualcuno. Quando aprì gli occhi, tutto le parve indistinto. «Stai male, Mary?» chiese la voce che sembrava provenire da molto lontano. «Lascia che ti prenda Charlotte.» Lei suppose di avere perso conoscenza dopo quelle parole, perché si ritrovò sdraiata sul ponte mentre qualcuno le tamponava la fronte con un panno umido. «Charlotte!» chiamò allarmata, cercando di mettersi seduta. «E in buone mani» disse un uomo. «Bevi questo.» Era rum e, a giudicare dai calzoni di tela e dalla camicia bianca, l'uomo che le porgeva il bicchiere doveva essere un marinaio. Aveva capelli ricci e biondi, e il viso bruciato dal sole. Ora che si trovava in un fazzoletto d'ombra, riusciva di nuovo a mettere a fuoco. «Chi era quello che mi ha parlato e preso Charlotte?» «Il capitano Tench.» «Tench!» esclamò. «Watkin Tench?» «Giusto, tesoro» fece l'uomo con un ampio sorriso. «E tu sei quella per cui lui non ha fatto altro che agitarsi da quando gli hanno detto che tornavi a casa con noi?» Mary, sdraiata su una cuccetta con vicino Charlotte addormentata, era sbalordita; non capiva se si trovava davvero in una cabina con tanto di oblò, o se stava sognando. La cabina sembrava proprio vera: molto piccola, con una sola cuccetta e una brocca d'acqua accanto a una specie di portacatino,

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e sulla parete un paio di ganci per gli abiti. Attraverso l'oblò si vedevano assi incrostate di “denti di cane”, che dovevano essere quelle del molo. Se era un sogno, era assai piacevole; le pareva infatti di ricordare che un marinaio le aveva offerto il rum dicendole che sulla nave c'era Watkin Tench. Di certo, riguardo al rum non aveva sognato perché ne sentiva ancora il sapore in bocca. Forse però l'aveva bevuto troppo in fretta, dal momento che gli eventi successivi non le erano per niente chiari. Tench poteva essere stato uno dei due uomini che parlavano vicino a lei? Era sicura di avere sentito qualcuno dire: “Ne ha già passate abbastanza. Voglio che sia sistemata in una cabina con la sua bambina; così, almeno, avranno una possibilità”. Si sollevò un poco per guardare Charlotte: respirava a fatica, scottava, aveva la pelle arida, e sul suo corpicino magrissimo si potevano contare le ossa. Aveva lo stesso aspetto di Emmanuel poco prima della fine, e Mary pensò che non sarebbe sopravvissuta; non poteva illudersi che fosse una coincidenza perché nei giorni passati in ospedale a Batavia le erano diventati troppo familiari i segni della morte imminente. Più tardi, si svegliò nel sentir bussare alla porta. «Avanti» disse con voce flebile, sorpresa che qualcuno trattasse una detenuta evasa con tanto riguardo. La porta si aprì, ed ecco Watkin Tench, esattamente come lo ricordava: snello, il viso magro e gli occhi scuri colmi di preoccupazione. Le salirono le lacrime agli occhi. Dunque non era un sogno! Tench era entrato di nuovo nella sua vita per salvarla. «Mary!» Le si avvicinò lasciando la porta aperta. «Non puoi immaginare la sorpresa quando ho saputo che avresti viaggiato su questa nave. È una coincidenza straordinaria.» Per Mary fu molto più di una coincidenza. Solo Dio aveva potuto fare un miracolo del genere.

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«Pensavo di sognare quando ho sentito la vostra voce» ammise. «Poi mi sono trovata in questa cabina.» «Per questo devi ringraziare il comandante, il capitano Parker. E una brava persona, e quando ha saputo i particolari della tua storia e ha visto come eravate ridotte tu e Charlotte, ha dato ordini precisi. Presto verrà a visitarvi il medico di bordo e, per quanto io voglia sapere tutto quello che è successo dopo il nostro ultimo incontro, tu ora devi riposare.» «Sapete che Emmanuel e Will sono morti?» Lui annuì con aria grave. «Mi dispiace proprio tanto, Mary. Vorrei trovare le parole giuste per consolarti nel tuo lutto.» La sincerità della sua voce la fece piangere. In passato si era prodigato per lei in tanti modi diversi, per tante ragioni diverse, e scoprire di averlo di nuovo vicino in quel momento di disperazione la commosse profondamente. «Siete sempre stato un caro amico» disse tra le lacrime. «Ed eccovi di nuovo.» «Mi sei mancata moltissimo da quando te ne sei andata da Sydney Cove. Senza di te quel posto non era più lo stesso. Non puoi immaginare che putiferio hai scatenato.» Mary cercò di controllarsi e asciugò le lacrime. «James, William e gli altri... ci sono anche loro?» chiese. «James Martin, Bill Alien, Nat Lilly e Sam Broome, sì.» L'esitazione nella sua voce la mise in allarme. «E gli altri tre?» Tench distolse lo sguardo, come se temesse di dire la verità. «Sono morti, vero?» Mary si lasciò cadere sul guanciale in preda allo sconforto. «Per le febbri?» Lui annuì. «William Moreton e Samuel Bird sono morti subito dopo la partenza da Batavia» rispose, sfiorandole il braccio in un gesto di solidarietà. «Jamie Cox si è buttato in mare nello Stretto della Sonda. Forse tentava di fuggire, ma è più probabile che delirasse per le febbri.» Mary lo guardò inorridita. «Oh, no» gridò con voce rauca. «Non Jamie!» Jamie era per lei uno di famiglia, e con loro aveva condiviso

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tante cose. Sulla Dunkirk, sulla Charlotte e infine a Sydney Cove era stato l'ombra di Will. Aveva sempre avuto un aspetto più di ragazzo che di uomo, anche quando divideva la capanna con Sarah. Emanava un'innocenza che lo distingueva da tutti gli altri detenuti. Terribile pensarlo mentre poneva fine alla sua vita in quel modo. «Gli altri quattro sono malconci,» continuò Tench «ma di sicuro si riprenderanno presto. James mi ha raccontato ogni particolare della fuga, e del fatto che tutti ti devono la vita. Mandano a te e Charlotte i loro auguri. Sperano di potervi vedere entrambe, non appena salpiamo.» Mary spostò lo sguardo su Charlotte, addormentata tra le sue braccia. «Non credo che vivrà abbastanza per vederli. Figuriamoci vedere l'Inghilterra» mormorò. Tench non rispose e lei, nel voltarsi, notò che aveva gli occhi colmi di lacrime. «Il destino ti ha trattato con straordinaria durezza» disse a voce bassa «e tu hai reagito con grande coraggio. Adesso è ora di dire basta. Hai sofferto abbastanza.» «Ho sentito bene? Quel marinaio vi ha chiamato “capitano” Tench?» Lui le sfiorò delicatamente il viso. «Come mi piaci, Mary: in un momento per te così brutto riesci a pensare agli altri. Sì, adesso sono il capitano Tench. Sono felice che il grado più alto mi conceda qualche privilegio in più, come una cabina per voi due.» Se ne andò all'improvviso, e Mary pianse, stringendo più forte Charlotte. Tench avrebbe chiesto perché erano fuggiti? Avrebbe capito? Lei aveva lasciato il Nuovo Galles del Sud con otto uomini in piena salute e due bambini. Forse allora non li conosceva bene, e con il tempo aveva provato una particolare simpatia per alcuni, eppure erano tutti una famiglia; avevano faticato insieme e insieme erano arrivati a Kupang. Ora, invece, erano rimasti in quattro: il cherubino Nat, lo spiritoso James, il risoluto Sam e il combattivo Bill. Metà del gruppo non c'era più, come

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pure uno dei suoi figli; Charlotte era in fin di vita, e gli altri sarebbero stati impiccati. Lei, che si era sentita orgogliosa di essere la mente della fuga, in realtà aveva condotto tutti alla morte. La Gorgon salpò da Città del Capo il 5 aprile. Attraverso l'oblò aperto, Mary udì le grida di addio provenienti dal molo, ma non guardò fuori perché, ancora una volta, stava facendo un bagno freddo a Charlotte. Il suo unico interesse era la guarigione della figlia. Durante il viaggio Mary si vide trattare con estrema gentilezza. Le portavano in cabina cibo e acqua, riceveva ogni giorno la visita del medico di bordo, e aveva il permesso di stare sul ponte in qualsiasi momento. Oltre a quello di Tench, vide molti visi familiari a bordo: erano tutte persone che avevano prestato servizio nella colonia penale, e che ora, a fine mandato, tornavano a casa. Tra loro, dozzine di fanti della Marina con le loro famiglie, e Ralph Clark, il tenente ipocrita che dopo avere trattato le detenute come spazzatura sotto i piedi ne aveva presa una per sé. Mary era troppo depressa per mettersi a parlare con qualcuno di loro e chiedere notizie di vecchie amiche come Sarah e Bessie. Vedeva nella sua situazione una sorta di ironia: se invece di sposare Will fosse diventata la moglie galeotta di Tench o di un altro ufficiale, sarebbe stata abbandonata al momento del suo ritorno a casa; qualsiasi strada lei avesse preso, sarebbe comunque finita allo stesso modo, e cioè sola. Dubitò di potersi aspettare solidarietà da parte di Ralph Clark perché, quando lo incrociò sul ponte, lui ostentatamente voltò la testa per non guardarla; tutti gli altri, però, si dimostrarono gentili. Una volta la moglie del comandante Parker le fece visita per portarle un vestito a righe bianche e verdi e una camicia da notte per Charlotte. La trattò con freddezza, ma d'altronde Mary non si aspettava un atteggiamento espansivo da una signora

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nella sua posizione. Era già tanto che avesse superato il timore delle febbri per portarle gli indumenti. Mary si riprendeva gradualmente, sentendosi ogni giorno un po' meglio; Charlotte, invece, continuava a peggiorare. Alcuni giorni riusciva a mandare giù qualche cucchiaio di minestra o di passato di frutta e a rimanere sveglia abbastanza da permettere alla madre di cantarle qualcosa o raccontarle una storia; altre volte, invece, delirava, incapace di inghiottire anche un sorso d'acqua. Nelle due settimane successive fece sempre più caldo, e Mary seppe dal medico che si erano ammalati altri bambini, figli di fanti. Alla fine di aprile, prima del suo ventisettesimo compleanno, ne morirono cinque, e furono sepolti in mare. Tench andava a trovarla non appena poteva, e la sua grande preoccupazione per Charlotte la toccò profondamente. Spesso le portava messaggi da parte di James Martin e degli altri tre, altrettanto in ansia per la piccola. «“Dalle un bacio da parte mia”» lesse Tench sul biglietto mandato da James. «“Dille che i suoi zii non vedono l'ora di vederla”.» «Stanno bene?» chiese Mary. Se da una parte le sarebbe piaciuto incontrare gli amici, dall'altra lo temeva, perché c'era la possibilità che ricominciassero a inveire contro Will. Comunque aveva un'ottima scusa, visto che non intendeva allontanarsi da Charlotte neppure per un minuto. «Si sono rimessi molto bene» rispose Tench con un sorriso. «Mangiano come maiali; James stuzzica e corteggia le signore con lo stesso successo che aveva con le donne a Sydney. Dice anche di voler scrivere le sue memorie che, immagino, sarebbero una lettura interessante. Bill gioca a carte con i marinai, e invece Sam e Nat dormono in continuazione.» Mary sorrise; le faceva piacere sentire che anche loro erano trattati bene, ed era contenta che avessero accantonato il pensiero, seppure per qualche settimana, di ciò che li aspettava in Inghilterra.

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Nella notte del 5 maggio, Charlotte rinunciò infine alla sua lunga lotta e morì tra le braccia della madre. Mary continuò a stringere e dondolare il corpicino per più di un'ora, sfogando il suo strazio tra i singhiozzi. Attorcigliò le dita nei riccioli bruni tanto simili ai suoi, e ripensò ai momenti più significativi della breve esistenza della figlia. La nascita sulla Charlotte, il battesimo, i primi dentini, i passi incerti. Si soffermò in particolare sul periodo di Kupang, perché là Charlotte era stata veramente felice; per una volta ben nutrita, libera come tutti gli altri bambini, e adorata da chiunque la conoscesse. Adesso, almeno, non avrebbe dovuto soffrire per l'impiccagione della madre, o essere soggetta alle miserie di un orfanotrofio o di un riformatorio. Avrebbe raggiunto il fratellino in paradiso. Tuttavia, malgrado potesse avanzare dozzine di buone ragioni per dirsi contenta della sua morte durante il viaggio, le sembrò che il cuore si fosse frantumato in mille pezzi. A Charlotte, la sua ragione di vita, aveva dato tutta se stessa: ora non le rimaneva più nulla. Il corpo di Charlotte fu affidato al mare quel pomeriggio, alla presenza di quasi tutto l'equipaggio, dei passeggeri e degli altri detenuti. Era domenica, e pioveva. Mary, con il capo scoperto e il volto impietrito, ascoltava le preghiere recitate dal capitano Parker. Aveva cucito lei stessa il telo di sacco in cui si trovava il corpo di Charlotte, versando le sue ultime lacrime. Era completamente svuotata; non si spiegava perché il suo cuore continuasse a battere con tanta ostinazione. Non pianse, né si voltò verso James o Sam in cerca di conforto neppure quando il piccolo involucro scivolò in mare dal fianco della nave. Voleva raggiungere la figlia nella sua tomba d'acqua, ma sapeva che, se avesse tentato di buttarsi, qualcuno glielo avrebbe impedito, e il fallimento l'avrebbe fatta sentire ancora più infelice.

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Agnes Tippet, la moglie di un fante, osservò Mary allontanarsi dalla funzione, e si voltò scandalizzata verso le donne di fianco a lei. «Non le importa un bel niente» commentò. «Non una lacrima, niente. Mai visto nessuno seppellire un figlio con una faccia così dura.» Watkin Tench udì il suo commento. «Tacete, sciocca che non siete altro» la aggredì furioso. «Non avete idea di quello che ha passato, o di come si senta dentro. Ritenetevi fortunata che i vostri figli stanno bene, e non giudicate gli altri.» Si allontanò a lunghi passi sentendo le donne bisbigliare tra loro, e soffocò lacrime di tristezza e frustrazione. Conosceva Mary molto bene: lei non avrebbe riversato sugli altri il peso del proprio dolore, tantomeno su di lui. Sui volti di James, Sam, Nat e Bill aveva letto tutta la loro desolazione, e sapeva che non era solo per la bambina, che avevano imparato ad amare e considerare come una figlia, ma anche per Mary. Lei aveva salvato loro la vita, e per ciascuno era stata un'amica, una sorella e una madre; capivano che quest'ultima tragedia aveva annientato quel poco di spirito che le era rimasto. Un anno prima, la loro fuga da Sydney lo aveva profondamente sconvolto. Era convinto di conoscere Mary e Will abbastanza bene da capire se stessero tramando qualcosa del genere, e invece non aveva sospettato mai nulla. Dubitava molto che sarebbero riusciti ad arrivare fino alle Indie orientali olandesi perché, secondo tutti i rapporti, si trattava di un viaggio lungo e pericoloso. Tuttavia, capiva le ragioni che li avevano spinti a tanto e ammirava davvero il loro coraggio. Mary gli era mancata moltissimo. Non passava giorno senza pensare a lei. Pregò per la sua salvezza, e in fondo al cuore la credeva sopravvissuta, perché, ne era certo, se avesse incontrato la morte, lui l'avrebbe percepito. Continuò a pensare a Mary persino quando fece i bagagli per partire da Sydney Cove. Ricordava il viso di lei colmo di aspettativa, gli occhi che si accendevano nel vederlo arrivare nella sua capanna. Vedeva ancora le sue gambe snelle ma ben tornite

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mentre si alzava il vestito ed entrava in mare a tirare con gli altri la rete, e vedeva i suoi riccioli bruni caderle sul viso quando lavava i panni. A mancargli maggiormente, tuttavia, non era la presenza fisica, ma la sua mente indagatrice, la battuta tagliente e lo stoicismo. Anche se avesse saputo che era sopravvissuta, non avrebbe mai pensato di poterla incontrare di nuovo. Quando, a Città del Capo, il capitano Parker gli comunicò che avrebbero imbarcato dei disertori di Port Jackson da processare in Inghilterra e disse i loro nomi, rimase del tutto sbalordito, incredulo. Gli sembrò quindi che il suo destino fosse intrecciato a quello di Mary; che Dio nella sua infinita saggezza li avesse sempre voluti l'uno per l'altra. Se ne convinse ancora di più quando, parlando con gli uomini sopravvissuti, apprese del viaggio e della morte di Will e Emmanuel a Batavia. Di certo lo rattristava che Mary avesse perso il marito e il figlioletto, ma Will, a quanto dicevano gli altri, li aveva traditi tutti, e a Emmanuel non aveva avuto modo di affezionarsi come a Charlotte. Poi Mary si era imbarcata, tanto debole da accasciarsi a terra priva di sensi con in braccio la piccola dolce Charlotte - la figlia che molti dell'equipaggio ritenevano sua - mortalmente malata. Date le circostanze, non gli era sembrato il caso di aprirle il suo cuore; poteva solo fare in modo che lei e la bambina avessero tutto il necessario per riprendersi, ed esserle vicino quando lei avesse avuto bisogno di un amico. Dopo la morte di Charlotte gli parve ancora meno opportuno rivelarle i suoi sentimenti. Mary era scampata alle navi prigione, al lungo viaggio verso il Nuovo Galles del Sud e a quattro anni di stenti nella colonia penale. Aveva avuto l'audacia di studiare un fantastico piano di fuga, ed era giunta a destinazione con la sola forza di volontà. Poi, tradita dal suo stesso marito, si era ritrovata nuovamente detenuta, con la prospettiva dell'esecuzione capitale in Inghilterra. Nel suo intimo, Tench sapeva che a spezzarle il cuore non era stato niente di tutto ciò, per quanto potesse sembrare terribile.

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Era certo che se i suoi figli fossero sopravvissuti, lei avrebbe ordito ed effettuato un'altra temeraria fuga; ma quei bambini erano il suo tallone di Achille. Quando Emmanuel si era ammalato, l'aveva assistito con amore, e lo stesso aveva fatto con Charlotte. Adesso che loro non c'erano più, la libertà per lei non aveva alcun valore. Sarebbe andata al patibolo senza paura: la morte era l'unica fuga che desiderava. «Non puoi arrenderti» mormorò a se stesso. «Devi trovare il modo di riaccendere in lei la voglia di lottare.» Parecchi giorni dopo, Tench incontrò sul ponte James Martin e Sam Broome. Seduti con la schiena appoggiata a un armadietto, il loro unico intento era godersi il sole e l'aria aperta. Entrambi terribilmente magri, con gli occhi ancora colmi degli orrori che avevano sopportato, sembravano molto più vecchi di quando si trovavano nel Nuovo Galles del Sud. Malgrado apparissero rilassati, Tench colse tra loro una certa animosità e, immaginando avesse a che fare con Mary, si fermò a parlare. Dopo qualche chiacchiera sullo scarso spazio sul ponte per via delle casse di piante e arbusti prelevati nel Nuovo Galles del Sud, e sulle probabilità di sopravvivenza dei due canguri in un clima più freddo, Tench accennò a Mary. «L'avete vista sul ponte, oggi?» «C'è stata per un po',» rispose Sam «però sembra che non abbia più voglia di stare con noi.» Tench percepì nella sua voce una nota di sconforto e immaginò fosse innamorato di lei. Sapeva che, al suo arrivo con la Seconda Flotta, Mary lo aveva assistito fino alla guarigione, e probabilmente chiunque si sarebbe innamorato di lei per questo. Sam era tranquillo, di buon cuore, e anche un bravo falegname; Tench lo apprezzava e non poteva fare a meno di pensare che se avesse viaggiato con la Prima Flotta avrebbe potuto essere per Mary un marito migliore di Will.

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«Non ha voglia di stare con nessuno» lo consolò. «Il dolore a volte si manifesta in questo modo nella gente.» «O magari la gente vuole stare solo con chi le torna utile» fece James con un sorrisetto malizioso e gli occhi piantati su di lui. «Mary non è così» ribatté Sam, rosso di collera. D'un tratto Tench capì quale fosse il problema tra loro: James riteneva che Mary fosse una calcolatrice come lui. Non gli era mai piaciuto quello scaltro irlandese. Era divertente, intelligente, ma furbo come una volpe. «Sam ha ragione; Mary non è quel tipo di persona» replicò con fermezza. «Dovresti saperlo.» James alzò le spalle. Il suo brutto viso assunse un'espressione di vago pentimento. «Non la sto biasimando. Se ritenessi che qualcuno è in grado di salvarmi dall'impiccagione, sarei disposto a leccargli il culo, se necessario.» Più tardi, nella sua cabina, Tench si trovò a ripensare alle parole di James. Ovviamente aveva torto rispetto a Mary: lei non parlava con nessuno, ma non per evitare la commiserazione altrui, bensì perché era prigioniera di se stessa. James, tuttavia, aveva detto una cosa giusta, e cioè che in Inghilterra le sarebbe servita una persona influente. Tench era pronto a fare qualsiasi cosa per lei, però era solo un membro della Marina da poco promosso capitano, e in Inghilterra non aveva la minima autorevolezza. Scorse mentalmente l'elenco di tutte le persone che conosceva, ma non c'era nessuno in una posizione migliore della sua in grado di aiutarla. Prese allora il diario, come faceva d'abitudine quando era agitato, e lo sfogliò leggendone pagine a caso. La colonia penale del Nuovo Galles del Sud era storia in divenire, e lui aveva voluto fissare qualcosa a futura memoria come preziosa fonte di informazioni sui primi anni dell'insediamento. Aveva inteso il diario come resoconto di vicende di ampio respiro, non sue personali. Nel complesso lo riteneva un lavoro abbastanza ben fatto. Magari, quando si fosse ritirato dalla vita militare, avrebbe potuto

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utilizzare quel materiale per scrivere articoli da inviare ai giornali. Poi, all'improvviso, un pensiero gli attraversò la mente come un fulmine. Ecco come ottenere per Mary l'aiuto di una persona influente! Avrebbe fatto pervenire ai giornali inglesi un resoconto completo su di lei! Malgrado la sua calma abituale e i modi controllati, fu preso dall'euforia. Ovviamente non avrebbe potuto firmarsi con il proprio nome, perché doveva esserci una qualche legge che proibiva agli ufficiali in servizio di divulgare informazioni, però nessuno avrebbe indovinato che a scrivere la storia della fuga dei Bryant in stile fiorito e di grande effetto era lui. I giornali di ogni angolo dell'Inghilterra si sarebbero buttati su un boccone tanto appetitoso, capace di appassionare gli uomini con i suoi aspetti avventurosi e le donne con le vicende dolorose di Mary, che aveva perso marito e figli. Di certo, chiunque avesse avuto un cuore non avrebbe voluto vederla impiccata dopo tante sofferenze. Si spalancò in un sorriso: poteva funzionare. Doveva funzionare. Mary, seduta a poppa in un angolo riparato, guardava con un misto di piacere e trepidazione la costa inglese che si avvicinava rapidamente. Era una splendida giornata di giugno, calda, soleggiata, con il vento giusto per far correre la nave a una buona velocità. Un tempo perfetto per veleggiare, che le richiamò alla mente tante giornate simili in barca con il padre. In quegli anni aveva pensato moltissimo ai genitori e a Dolly. Avevano scoperto cosa le era capitato? E in caso contrario, avevano forse pensato che lei li avesse abbandonati per una vita dissoluta a Londra? O addirittura immaginato che fosse morta? Qualunque cosa sapessero, o credessero, sarebbe stata per loro una grande sofferenza scoprire che la figlia era in attesa di giudizio nella prigione di Newgate, a Londra. A diciannove anni non capiva cosa significasse essere madre. Era convinta che le madri fossero solo capaci di criticare le figlie,

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di pretendere di farne delle ottime padrone di casa, in grado di cucire e cucinare bene come loro, così da sposare una persona rispettabile; in questo modo potevano compiacersi e complimentarsi con se stesse per averle tirate su bene. Le figlie non dovevano darsi ai divertimenti e alle avventure, come neppure loro avevano fatto. Ora Mary capiva: per i propri figli una donna vuole solo sicurezza e felicità. Le critiche di sua madre non erano che un tentativo di proteggerla dal male, un modo di manifestarle il proprio amore. Avrebbe voluto dirle che aveva compreso, e anche rassicurarla che morire impiccata non la spaventava; desiderava solo liberarsi dal terribile senso di colpa per la morte dei suoi bambini. Sulla nave erano tutti gentili, ma sarebbe stato meglio se qualcuno l'avesse chiamata assassina, perché lei era proprio questo. Quando aveva progettato la fuga, pensava che per i figli fosse preferibile una morte rapida e netta per affogamento in mare, piuttosto che una morte lenta per fame e malattia nella colonia. Ne era ancora convinta. Eppure, malgrado tutti i suoi sforzi, loro avevano finito col soffrire molto più di quanto avrebbero sofferto nel Nuovo Galles del Sud. Ed era stata lei a cacciarli in quella situazione. Un'ombra sopra la testa la indusse ad alzare lo sguardo. Tench. «Come sei assorta» fece lui con un sorriso. «Hai voglia di parlare un po'?» Mary non se la sentiva di rivelare le sue riflessioni sui figli, così andò sul sicuro. «Pensavo a mia madre» rispose. Lui le si accovacciò di fronte. «Vuoi che le scriva da parte tua?» Mary scosse la testa. «Non sa leggere; dovrebbe portare la lettera a qualcun altro.» «Forse un giorno potrei andare a trovarla.» «Non posso caricarvi di questo fardello» obiettò lei, immaginando la madre mentre si vedeva di fronte un signore come Tench. Si sarebbe sentita imbarazzata a farlo entrare nella sua umile casa e avrebbe reagito in modo scortese, come se non le

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importasse niente della figlia. Poi, non appena lui se ne fosse andato, avrebbe pianto per giorni. «Spero solo di essere processata e impiccata in fretta, e che nessuno lo venga a sapere. Sarebbe la cosa migliore per tutti.» «Per me no» fece lui con espressione inorridita. «Io sono invece convinto che avrai la solidarietà della gente e che sarai rilasciata.» «Sciocchezze.» Mary rise a denti stretti. «Sapete benissimo che saremo impiccati o rispediti nella colonia. Io spero solo che mi impicchino.» Tench esitò qualche istante prima di ribattere. Da tanto tempo si sentiva su un'altalena emotiva; a volte non sapeva esattamente cosa provasse per Mary. Quel giorno era molto graziosa, con quel vestito bianco e verde, i capelli stretti da un fiocco bianco sulla nuca e le guance arrossate dal sole e dal vento. Dopo la morte di Charlotte, aveva messo su un po' di peso e distava un mondo dalla ragazza coperta di stracci di Sydney Cove. Ora però i suoi occhi grigi erano spenti: nessun luccichio, nessuna fiamma. Anche la voce si era smorzata. Tench lo trovava insopportabile. «E difficile trovare un argomento di conversazione dopo che è stata tirata in ballo l'impiccagione» disse con il timore di mettersi a piangere e rendersi ridicolo. «Forse è perché non c'è nient'altro da dire» replicò lei. «La nostra è stata una strana amicizia, vero? Sempre impari: voi con il mondo davanti, io con il nulla.» «Io non l'ho mai vista così» ribatté lui con tristezza venata di indignazione. Mary sospirò. «Neanch'io. Però farei meglio a vedere le cose come stanno.» Tench si sentì impotente. Rammentò l'audacia di Mary sulla Dunkirk. Aveva capito che lei era sempre in cerca di un'opportunità, che fosse per fuggire, lavorare sul ponte, o ottenere altro cibo o vestiti. Era stato proprio quell'insieme di inventiva e temerarietà ad attrarlo, e ora non poteva credere che lei l'avesse

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perduto. Forse, però, avrebbe fatto rinascere in lei qualcosa se le avesse rivelato i suoi veri sentimenti. «Non credo che tu sia capace di vedere tutto» azzardò. «In particolare quello che provo per te.» Lo sguardo interrogativo di Mary gli infuse coraggio. «Ti amo. Ti ho sempre amato» sbottò. «Vorrei avertelo detto tanto tempo fa, così ti avrei impedito di sposare Will.» Lei si limitò a fissarlo, né incredula, né sprezzante. Lo guardava come se gli stesse leggendo in fondo all'anima. «E vero» insistette Tench. «Voglio trovare un modo per farti rilasciare, così potrai vivere la tua vita con me.» Mary rimase in silenzio ancora per qualche momento, e lui attese la sua risposta con il fiato sospeso. «Non sono la persona giusta per te, Watkin» disse infine con voce dolce ma ferma, e il chiamarlo per nome le suonò strano. «Tu vuoi che io abbia speranze.» «Certo che voglio che tu abbia speranze. Di un futuro insieme, il matrimonio, una vera famiglia» ribatté infervorato. Lei abbozzò un sorriso. Gli vide negli occhi la fiamma che un tempo aveva sognato, ma ormai era troppo tardi. «Io ho speranze per te. Spero che tu possa avere una lunga, luminosa carriera e una moglie adatta alla tua posizione, che ti ami con tutto il cuore.» «Ma non capisci che è stato il destino a farci incontrare di nuovo?» perseverò lui con foga mentre le afferrava la mano per stringerla tra le sue. «Noi siamo destinati a stare insieme, lo so.» «Io credo che il destino ci abbia riunito solo per darmi la piccola consolazione di vedere ancora una volta un viso caro» fece lei posandogli la mano sulla guancia. «Tu sei stato il mio migliore amico.» «Tutto qui?» Tench appariva addolorato e deluso. Mary rifletté qualche istante. Non sapeva se la verità l'avrebbe ferito o confortato. Sua madre, però, le avrebbe detto che era sempre meglio essere sinceri. «Era te che volevo, già da quando eravamo sulla Dunkirk» sospirò. «Charlotte avrebbe dovuto essere tua figlia. Mi sono portata

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dietro l'amore per te lungo tutto il viaggio verso il Nuovo Galles del Sud, e tutto il matrimonio. Se mi avessi chiesto di diventare la tua moglie galeotta, sono certa che per te avrei lasciato Will.» «Bene, allora» dichiarò lui, trionfante. «Adesso non ci sono più ostacoli.» Mary scosse la testa lentamente. «Invece sì, Watkin. Io non sono più la stessa» disse con una vena di nostalgia. «Ho la testa piena di migliaia di brutti ricordi. Sono sfinita.» «Non capisco.» Tench scosse il capo affondando gli occhi scuri in quelli di lei. «Se tu fossi di nuovo libera tutto questo svanirebbe.» «Qualcosa, forse» ammise lei con le lacrime agli occhi, perché avrebbe voluto che ciò che gli stava dicendo non fosse vero. «Tu, però, ami la vecchia Mary, e quella non potrai averla mai più.» «Non capisco» ripeté lui nel prenderle la mano per portarla alle labbra. «La Mary che amavi tu era una piccola intrigante» spiegò con un mezzo sorriso. «Badava solo alla sopravvivenza e faceva accadere le cose, ma alla fine di cose ne sono successe fin troppe. Non puoi neppure immaginare quante. La vecchia Mary è morta a Batavia. Quello che vedi è solo un involucro vuoto.» Tench la fissò negli occhi, vi lesse tutta la sua desolazione, e capì d'istinto che Mary era pienamente convinta di ciò che diceva. «Lascia che ti dia un bacio» mormorò senza preoccuparsi se qualcuno li stesse osservando, perché era certo che questo le avrebbe fatto cambiare idea. Mary annuì. Le andava bene finire con ciò che aveva sognato tante volte. Tench la avvolse tra le braccia e la tirò a sé, morendo dal desiderio di far rinascere la ragazza audace e maliziosa che gli aveva catturato il cuore e lo teneva prigioniero da tanti anni. Le labbra di lei erano morbide e cedevoli, ma purtroppo il suo era un bacio di addio. Tenero, convinto, ma privo di passione: soltanto un commiato. Seppe, allora, di non poter più dire o fare niente per persuaderla.

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Le prese il viso tra le mani. «Mi impegnerò con tutto me stesso per aiutarti» promise risoluto. «Ti scriverò e verrò a trovarti.» «No, Watkin» fece lei con fermezza. «Non voglio. Tu sei stato una delle persone migliori che ho incontrato nella vita; nella mente ho centinaia di bei ricordi di te, che mi saranno di sostegno se dovrò essere impiccata. Lascia le cose come stanno. Trovati una donna del tuo rango che possa farti felice.» Fra tutti gli aspetti della personalità di Mary che Tench aveva imparato a conoscere e ammirare negli anni, la determinazione era quello dominante; le aveva consentito di sopravvivere e di trarre sempre il meglio da ciò che le capitava. Ormai era ferma nei suoi propositi. Anche se per miracolo lui fosse riuscito a sottrarla a Newgate e al patibolo, Mary non gli avrebbe permesso, sposandola, di macchiare il suo nome o la carriera. Mai aveva conosciuto una persona tanto eroica e disinteressata. Si alzò e si avviò verso il parapetto. Avrebbe voluto ribattere con argomenti convincenti, ma sapeva di non averne. «Siamo quasi a Portsmouth» annunciò infine con lo sguardo rivolto alla costa. «E lì che dovrò lasciare la nave. Tu proseguirai per Londra.» Il pensiero gli era insopportabile: sapeva che presto le avrebbero rimesso le catene, proprio come quando l'aveva vista la prima volta. «Il Signore sia con te» fece Mary alle sue spalle con un tremolio nella voce. «Tu sei destinato alla grandezza, Watkin, e io mi riterrò sempre fortunata ad averti avuto come amico.» ***

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Capitolo 17. Nel tardo pomeriggio di una bella giornata di sole di fine giugno, Mary si trascinava mesta dietro la guardia carceraria di Newgate, seguita dai quattro amici. Erano stati registrati all'ingresso della prigione, e ora percorrevano uno scuro e stretto corridoio di pietra per essere rinchiusi in cella fino al processo. Le sanguinavano le caviglie escoriate dalle catene che le erano state di nuovo messe all'inizio del mese, durante lo scalo della Gorgon a Portsmouth; le aveva dovute tenere per tutta l'ultima parte del viaggio fino ai Docks di Londra. Non mangiava dall'alba ed era affamata, quando lei, James, Bill, Nat e Sam erano sbarcati e, incatenati l'uno all'altro, avevano atteso di essere scortati al carcere di Newgate. Mary si sentiva come a Kupang, quando dalla prigione era stata tradotta sulla nave che li avrebbe portati a Batavia. Questa volta, però, le voci intorno a loro erano inglesi, e - cosa più toccante - non c'erano più quattro degli uomini e i suoi due bambini. Aspettarono il carro prigionieri sul molo gremito di gente quasi senza parlare; immersi ognuno nei propri pensieri, rimasero seduti in fila contro un muro stringendo nel grembo il piccolo fagotto con gli effetti personali. La gente passava sul molo guardandoli con curiosità. Mary capì che dovevano essere una strana visione, perché di solito i galeotti erano sporchi, malnutriti e vestiti di stracci, mentre loro erano puliti e in salute. Agli uomini

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erano state consegnate brache di tela e camicie, e Mary indossava il vestito bianco e verde avuto in dono dalla moglie del comandante. Bill, con i suoi muscoli, la testa calva e i tratti da pugile professionista, poteva forse avere un'aria minacciosa, ma Nat con il suo viso angelico, gli occhi azzurri e i capelli biondi che splendevano al sole, evocava un paggetto o un corista. James e Sam, poi, davano l'impressione di allampanati aristocratici decaduti. James guardava con aria di superiorità chiunque gli lanciasse un'occhiata, mentre Sam se ne stava in un mondo tutto suo con gli occhi ambrati fissi sul lontano orizzonte. Non avevano niente da dirsi, né commenti da fare sul viavai del molo, dove venivano impilate le merci scaricate o da caricare sulle navi. Non reagivano davanti alle botti di alcol e di vino fatte rotolare sull'acciottolato, né alle grida dei facchini e degli scaricatori, e neppure di fronte alla mezza dozzina di cavalli recalcitranti che venivano condotti su una nave. Durante il lungo viaggio da Città del Capo si erano rimessi in salute, e gli orrori delle precedenti reclusioni avevano cominciato a svanire. Ora, nell'attesa di essere tradotti a Newgate - considerato il carcere più duro e crudele di Inghilterra -, si sforzavano tutti di tenere a freno la paura. Il carro prigionieri non arrivò che a metà pomeriggio, e solo quando salirono a bordo e si allontanarono dall'attività frenetica del molo, Bill ruppe il silenzio. «Avevo dimenticato come puzzava la merda di cavallo» esclamò, mentre il carro si accodava a una fila lunghissima di altri carri carichi di merci in una stretta strada di magazzini alti e cupi. «Sembra di essere a Dublino» replicò James inspirando in modo esageratamente rumoroso. «Secondo voi, se glielo chiediamo con gentilezza, il vetturino ci porta in una birreria?» Mary, di fronte a quell'ostentata spavalderia, abbozzò un sorriso. Sapeva che i suoi compagni erano spaventati quanto lei. Era infine arrivata a Londra, città che sognava sin da bambina, però non rientrava nei suoi sogni vederla da dietro le sbarre del carro prigionieri, o morirci impiccata, appesa a una corda.

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Malgrado la consapevolezza che Newgate li attendeva alla fine del viaggio, i cinque riuscirono tuttavia a distrarsi durante il tragitto. Le strade, che fossero ampie ed eleganti o strette e nere di sporcizia, pullulavano di gente di ogni classe sociale. Signore in abiti di seta e cappelli stravaganti al braccio di signori in parrucca e marsina passeggiavano noncuranti tra mendicanti ciechi, prostitute ubriache e monelli scalzi. Il baccano era tremendo: carri e carrozze lanciati a grande velocità, venditori ambulanti dalle voci stridule intenti a offrire di tutto, dai pasticci di carne coperti di mosche ai mazzolini di fiori. Chi suonava l'organetto e chi il fischietto di latta o il violino. Mary vide facchini dei mercati con enormi, traballanti pile di ceste sulla testa, una lattaia dal viso fresco che trasportava sulle spalle due secchi di latte appesi alle estremità di un bilanciere, e un uomo dalle gambe storte che stringeva per le zampe polli starnazzanti. Le botteghe erano varie come i tipi di persone che vi passavano davanti. Una vendeva esclusivamente argenteria, quella accanto grossi prosciutti rosa, fagiani e conigli in bella mostra su piani di marmo bianco. In una modisteria c'erano cappelli adatti solo alla famiglia reale, e per contrasto, nella bottega accanto, montagne di stivali e scarpe di seconda mano. Mary non riusciva a credere che le donne potessero girare per strada con vestiti tanto scollati e il seno esposto al mondo intero. Eppure parevano signore dell'alta società, perché tutte avevano al seguito un servitore in livrea o una cameriera sobriamente vestita. A Plymouth solo le prostitute avrebbero mostrato tanta pelle nuda. Il baccano, la sporcizia e la puzza avrebbero dovuto infrangere l'illusione da lei a lungo cullata che Londra fosse la città dei miracoli. Invece, finché non vide Newgate qualche ora dopo avere lasciato i Docks, continuò disperatamente a sperare che da un momento all'altro qualcuno sarebbe andato a salvarla. Nessuno la salvò; anzi, alla vista delle minacciose mura grigie della prigione, i cavalli macilenti accelerarono addirittura un poco il passo, forse sollevati all'idea di poter depositare il pesante carico.

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D'un tratto, tutte le storie sentite a Sydney Cove sulle impiccagioni pubbliche di Tyburn Tree, che richiamavano immense folle come fossero attrazioni di una fiera, assunsero un nuovo orribile significato. Mentre il cancello si apriva per permettere l'ingresso del carro, furono investiti da una zaffata fetida. Mary ebbe l'assoluta certezza che non si trattasse del lezzo di escrementi umani a lei familiare: quello era il fondo assoluto del barile della vita. Persino James, che per la maggior parte del tragitto aveva scherzato e chiacchierato, rimase in silenzio quando il carro passò lentamente in una sorta di piccola galleria in acciottolato per poi accedere a un altro cortile con pesanti portoni. I due corpulenti secondini che avevano aperto il cancello lo richiusero a chiave alle loro spalle, poi raccolsero i manganelli e aspettarono che il vetturino liberasse i prigionieri dalle catene che li legavano uno all'altro. Mary era terrorizzata quando vennero sbattuti in una piccola stanza dalla parte opposta del cortile. Alcune donne a Sydney Cove le avevano raccontato che bastava una sola domanda per essere pestati dai secondini, pronti a sottoporre i detenuti a perquisizioni corporali solo per il gusto di umiliarli. Temeva, inoltre, il momento in cui l'avrebbero separata dagli amici. Invece non li perquisirono, forse perché arrivavano direttamente da una nave della Marina reale; si limitarono a chiedere le generalità per poi riportarle su un registro. Dopo una breve attesa, li condussero lungo un corridoio fino a un'altra porta. Mary lanciò una rapida occhiata agli amici alle sue spalle, convinta che quello fosse il momento della separazione. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma la prospettiva di attendere il processo isolata dai suoi compagni era tanto deprimente che rimase senza parole. Il secondino aprì la porta, e la luce del sole insieme a un alito inaspettato di aria tiepida la fece trasalire. Se la sorpresa di uscire in un cortile all'aperto non fosse stata sufficiente, ciò che vide fu talmente incredibile che si bloccò di colpo.

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«Santa madre di Dio!» esclamò James dietro di lei. Avevano appena varcato le mura della prigione, ma la scena davanti a loro era più quella di un carnevale che di una casa di pena. C'erano almeno cento persone che giravano con aria divertita, e il rumore di bagordi di gente ubriaca era più forte di quello proveniente dalle taverne incrociate durante il trasferimento. Mary si fregò gli occhi, credendo fosse una sorta di allucinazione. Quella non poteva essere una prigione: non si vedevano catene, né volti segnati dalla fame. Molti indossavano addirittura abiti eleganti; c'erano uomini con la parrucca che camminavano impettiti come aristocratici, e signore in abiti da ballo - almeno così sembravano a Mary - ornati di pietre preziose. Una donna con un vestito di raso turchese circondata da uomini in giacca di velluto e broccato si sventolava con un ventaglio di piume come se si trovasse a una soirée esclusiva. Che fine avevano fatto i disgraziati in catene che si aspettavano di trovare? Le vecchie prostitute vestite di stracci, malate e con gli occhi infossati? Le patetiche fanciulle perdute, e i bruti sfregiati che avevano finalmente avuto ciò che meritavano? Quella gente che si divertiva, beveva e chiacchierava di certo non stava scontando una pena. «Muoviti» disse il secondino spazientito, pungolandola con il manganello. «Tu sembra che non ci sei mai stata in una prigione.» «In una così, mai» ribatté lei, lanciando un'occhiata alle spalle per vedere la reazione dei suoi compagni, che apparivano altrettanto sbalorditi e increduli. L'alcol ovviamente aveva un ruolo determinante in quel clima festoso. Da una porta usciva gente con boccali di birra pieni fino all'orlo; alcune donne ballavano persino la giga, accompagnate dal violino di un uomo con una benda nera su un occhio. Dalle celle sovrastanti arrivava un gran baccano. Mary risalì con lo sguardo il grigio edificio della prigione e vide molte teste che si sporgevano da piccole finestre con le sbarre e urlavano a chi stava di sotto o di fianco.

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Mentre il secondino intimava a Mary e al suo gruppo di proseguire, la folla si zittì all'improvviso e tutti si voltarono a guardarli. «Eccoli!» gridò qualcuno. «Facciamogli un applauso!» Scoppiò una fragorosa ovazione, e Mary si sentì all'improvviso come una sposa finita nel matrimonio sbagliato. Non riusciva a spiegarsi il motivo di quella calorosa accoglienza; probabilmente li avevano scambiati per altre persone. La folla si avvicinò a braccia spalancate per salutarli con grida di gioia e grandi sorrisi. «È un piacere darvi il benvenuto a Newgate.» Un uomo con una marsina nera tutta macchiata fece un inchino togliendo l'alto cappello logoro. «Finiremo in molti a Botany Bay, e ci consola sapere della vostra fuga.» «Hanno scoperto quello che abbiamo fatto» disse Sam incredulo tenendo Mary per un braccio, quasi la credesse sul punto di svenire dallo stupore. «Per tutti i santi del paradiso! Non avrei mai pensato che eravamo famosi.» Ovviamente la fama non impedì che venissero rinchiusi, senza avere la possibilità di chiedere come si fosse saputo di loro o qualsiasi altra cosa. Il secondino li spinse su per due rampe di una scala a chiocciola di pietra fin dentro una cella, sbatté la porta alle loro spalle e la chiuse a chiave. Rimasero tutti e cinque impalati e ammutoliti per alcuni minuti, ancora storditi dalle scene viste in cortile e dall'accoglienza degli altri detenuti. Mary riuscì a riprendersi per prima. La cella era angusta, la paglia sporca, e la luce filtrava da una feritoia troppo alta per permettere di vedere all'esterno. Tuttavia, in confronto alla Rembang e all'ospedale di Batavia, le condizioni parevano decenti. L'aspetto più positivo consisteva nell'essere rimasti tutti insieme e non dover coabitare con altri. Fu lei a rompere il silenzio. «È meglio di quanto mi aspettavo;

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però, mi piacerebbe sapere come mai quelli in cortile non sono in catene.» «Te lo dico io, tesoro» fece James con un sorriso. «Soldi. Non ti è mai capitato a Port Jackson di ascoltare qualcuno che era stato qui?» Mary rammentò come i londinesi le fossero sembrati stranieri perché usavano uno strano gergo; avevano smesso di parlare della vecchia prigione per lamentarsi della nuova proprio quando lei cominciava a comprenderli. «Ascoltavo, ma non capivo.» James alzò le spalle. «Be', dicevano che bastava pagare per avere le cosiddette “facilitazioni”. Anche a Dublino è possibile. Allunghi qualcosa al secondino, e le catene spariscono. Puoi farti arrivare anche il cibo da fuori.» Mary annuì. Le venne in mente che anche a Exeter si potevano comprare sottobanco cibo e alcol. «Secondo me, se hai abbastanza soldi o qualcosa da vendere, puoi ottenere una cella tutta tua con un servitore che ti porta da bere e da mangiare» continuò James accennando una risata. «Però noi non abbiamo niente, quindi possiamo aspettarci ben poco.» Gli uomini, demoralizzati, si lasciarono cadere sul pavimento. Nat si addormentò quasi subito, e Mary ricordò le donne sulla Dunkirk che dormivano giorno e notte; era il loro modo di sottrarsi alla crudele realtà della prigione. Sedette, sistemò le catene in modo che non le premessero sulla carne e con le ginocchia raccolte sotto il vestito e la schiena appoggiata alla parete si mise a riflettere sulla tragica situazione dei suoi amici. Non le importava di se stessa, perché desiderava solo morire e liberarsi dei propri tormenti. Durante il viaggio di ritorno aveva riguadagnato la salute fisica, però non era riuscita a guarire dal terribile senso di colpa per avere inflitto un viaggio tanto pericoloso ai suoi figli e averne causato la morte. Essere rispedita nel

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Nuovo Galles del Sud sarebbe stato un inferno, e pur di evitarlo era pronta a buttarsi in mare alla prima occasione. I suoi compagni, invece, non si erano rassegnati alla certezza dell'impiccagione. James, visto che i termini della sua detenzione originaria erano ormai scaduti, nutriva una sorta di fede cieca nella salvezza. Sam era convinto che bastasse mostrarsi pentito per essere liberato. Bill e Nat tentavano di rimuovere il tutto dormendo o parlando d'altro. Tuttavia, nel vedere Londra, Mary aveva sentito accendersi qualcosa dentro di sé; non che le fosse tornata la voglia di vivere, o il dolore si fosse attenuato, però aveva percepito con assoluta chiarezza la situazione dei suoi amici. Nessuno di loro era cattivo, e avevano già tutti sofferto abbastanza. Lei sapeva di non poterli salvare dall'impiccagione, però forse sarebbe riuscita a trovare il sistema per ottenere le “facilitazioni” in grado di rendere più sopportabili le loro ultime settimane. Rifletté per più di un'ora, poi sorrise nell'intravedere la soluzione. James incuriosito, si avvicinò per accucciarsi di fronte a lei. «Cos'hai da ghignare?» «Mi è venuta un'idea.» «Se ha a che fare con funi o lime, lascia perdere» disse lui con una risata. «Prima di lasciare la Gorgon ho fatto un inventario delle nostre cose, e fra tutti non possediamo neppure un coltello.» «Sono contenta che tu abbia conservato il senso dell'umorismo.» Mary gli diede qualche colpetto affettuoso sul volto ossuto. «Magari tornerà utile per la mia idea. Senti, pensavo che potremmo approfittare della nostra fama per tirare su un po' di soldi.» Nat continuò a dormire, e nella luce fioca faceva tenerezza come un bambino; Bill e Sam, invece, si misero a sedere, ma solo James inarcò le sopracciglia con aria interrogativa. «Will pensava di guadagnare del denaro con la nostra storia, e così non si è disfatto del diario» spiegò Mary. «Noi le storie le abbiamo ancora in testa, quindi perché non venderle?» «A chi?» fece James sarcastico.

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«A chiunque voglia ascoltarle» rispose lei. Ora che si profilava una nuova sfida, sentiva riaffiorare tratti del suo carattere di un tempo. Fino a sera non si presentò alcuna occasione, ma si tenne pronta la mattina successiva, quando sentì passare il secondino lungo la fila di celle per svuotare i buglioli. Mentre la chiave girava nella toppa, scrollò la paglia dal vestito e si passò le dita tra i capelli. «Forza, datemi il secchio da svuotare» gridò il secondino, molto più forte del necessario. Era grasso e dall'aspetto malaticcio, con gli occhi storti e i denti marci. A Mary fece venire in mente le guardie carcerarie di Exeter. «Quanto, per togliere le catene?» Lui si succhiò i denti marci, squadrandola con uno sguardo indagatore. «Dipende.» «Da cosa?» L'uomo scoppiò in una risata. «Se lo voglio o no.» Mary lo afferrò minacciosamente per la camicia bisunta. «Faresti meglio a volerlo» sibilò. «Noi abbiamo combattuto con i cannibali e ucciso animali a mani nude, e saremo impiccati per avere osato scappare dal Nuovo Galles del Sud. Quindi non ci pensiamo due volte a tagliarti la gola. Allora, preferisci esserci amico o nemico?» Il secondino sbarrò gli occhi, allarmato. Mary non riusciva a vedere gli altri alle sue spalle ma sperava che avessero assunto un'espressione feroce come da lei ordinato. «C-c-cosa ci guadagno io?» «Dipende da come te la cavi.» Lo lasciò andare con un dolce sorriso. «Voglio che tu sparga la voce che siamo pronti a ricevere visite. Ovviamente si dovrà pagare. Quel che basta per eliminare le catene, avere da mangiare, da bere e acqua calda per lavarsi.» Era un gioco d'azzardo. Mary ignorava del tutto se qualcuno dentro la prigione o all'esterno fosse disposto a pagare per il privilegio di incontrare lei e i suoi amici.

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«Non so cosa dire» fece il secondino, con aria ancora spaventata. «Hai parlato di cannibali?» «Esatto. Avevano frecce con punte di metallo lunghe così» rispose lei spalancando le braccia. «Ah.» L'uomo mosse un passo indietro come a voler richiudere la porta. Mary afferrò il bugliolo. «Svuotalo prima di andartene» disse spingendolo verso di lui. «E riportalo sciacquato. Odio la puzza.» Lui se ne andò con il secchio, docile come un bambino spedito a comprare il pane, e Mary si voltò verso gli uomini, ridacchiando. «Mi sa che ci sta.» Prima di mezzogiorno erano senza catene, mangiavano pasticcio di montone, e avevano una grossa caraffa di birra da due soldi davanti a loro. Il secondino - si chiamava Spinks, avevano saputo -, tanto efficiente quanto avido, aveva già condotto lì due gruppi di quattro persone, tutte smaniose di conoscere i fuggiaschi e farsi raccontare dei cannibali. Il narratore era James, ed era anche bravo: infiorettò con combattimenti corpo a corpo sulla spiaggia la vera storia dei guerrieri indigeni che li avevano inseguiti con le canoe da guerra. «Nei loro villaggi ci sono dozzine di teschi umani infilati sulle aste» mentì allegramente. «Abbiamo visto mucchi di ossa umane, collane di denti umani e scudi foderati di pelle umana.» Uscito il secondo gruppo, Mary e gli amici scoppiarono in una risata. «Be', potevano benissimo essere cannibali» fece James risentito. «Insomma, non ci siamo fermati abbastanza per scoprirlo, no?» Mary pensò quanto fosse piacevole il suono di una risata; non ne sentiva una dal giorno della loro cattura a Kupang. Anche

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sulla Gorgon erano stati tutti molto giù di morale. Eppure non poté fare a meno di provare una punta di tristezza perché Will non era più con loro. Sarebbe stato felice di raccontare quelle storie, e probabilmente le avrebbe rese ancora più avvincenti di James. «Mary, sei fantastica» disse Sam poco dopo, leccando dalle dita gli ultimi rimasugli di pasticcio di carne. «A nessuno di noi sarebbe venuto in mente un piano tanto astuto. Quando James raccontava che tu avevi colpito un cannibale sulla testa con un remo, ho quasi creduto che fosse vero. Sono sicuro che saresti riuscita a tirare fuori un'idea per salvarci anche se ci avessero messo nel pentolone.» Mary sorrise. Era bello avere di nuovo l'ammirazione degli amici, e ancora di più vederli emergere dalla tetraggine. «Non possiamo esagerare» li avvertì. «Noi dalla gente vogliamo solidarietà, non l'accusa di essere bugiardi.» Soltanto il giorno successivo scoprirono come si era venuto a sapere di loro. Avevano ricevuto la visita di un falsario di nome Harry Hawkins che, come molti altri a Newgate, si aspettava di essere deportato. Un tipo viscido, piccolo e magro, con un naso aquilino e capelli stranamente lunghi e trascurati per un uomo tanto elegante. «Ho letto di voi sul “London Chronicle”» disse estraendo dalla tasca un ritaglio spiegazzato come prova. I cinque avevano pensato che la storia che li riguardava fosse semplicemente passata di bocca in bocca come di solito avveniva nelle prigioni, e fu una sorpresa scoprire che qualcuno aveva scritto di loro su un giornale. James lesse ad alta voce l'articolo, poi lo restituì. «Non è del tutto preciso: la barca che abbiamo rubato era quella del governatore, non del capitano Smith» commentò disinvolto. Mary era sbalordita che reagisse con quel distacco al racconto tanto vivo e ammirato della loro fuga. «Chi l'ha scritto?» Non si era aspettata che in Inghilterra qualcuno potesse solidarizzare con loro.

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«Non lo dice» rispose James riguardando il pezzo di carta. «Comunque è uno che sa un sacco di cose. Magari ha sbagliato sul proprietario del cutter, ma per il resto quadra tutto.» Non ebbero modo di continuare a discutere sulla fonte di quelle informazioni perché Harry Hawkins voleva ragguagli su ciò che lo aspettava, in particolare informazioni riservate sugli ufficiali di Botany Bay. Mary trovò in un certo senso divertente che quell'uomo, e gli altri in attesa di essere deportati, pensassero che l'insediamento fosse ancora a Botany Bay. Evidentemente ignoravano che quel luogo era stato abbandonato dal capitano Phillip; in effetti, sembrava che in Inghilterra arrivassero pochissime notizie sulla colonia. Mary ebbe il sospetto che il governo le tacesse di proposito per non pubblicizzare i tremendi errori commessi. Questo, per lei e i suoi amici, costituiva addirittura un vantaggio. «Laggiù non è come qui» disse con un sorriso ironico. «Non ci si può comprare una capanna più bella o razioni di cibo più abbondanti: l'unica possibilità per migliorare la situazione è saper fare un lavoro che serve.» Hawkins parve deluso. «Ma voi avrete pur avuto qualcuno che vi ha aiutato, a cui avete allungato una mazzetta, no?» «No» disse James indignato. «È stato tutto merito di Mary: con il suo fascino ha convinto un capitano di mare olandese a fornirci carte e strumenti nautici.» L'uomo lanciò un'occhiata scettica a Mary, che arrossì. Pensò che lui non si capacitasse che una ragazza insignificante e sciupata come lei potesse affascinare qualcuno. «Il capitano era una persona molto sola» spiegò lei. «Io e mio marito chiacchieravamo spesso con lui. Qualche volta veniva a cena da noi.» «Così è stato lui a pagare per questa cella?» chiese Hawkins con una vena di sarcasmo. Mary e i suoi compagni si guardarono l'un l'altro di sottecchi. «Pagato per questa cella?» esclamò James. «Non ha pagato nessuno.»

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Hawkins parve un po' a disagio. «Qualcuno deve avere pagato ancora prima del vostro arrivo, altrimenti vi avrebbero messo nella cella comune.» Quando un'ora dopo Hawkins se ne andò, Mary si voltò verso gli amici. «Chi potrebbe essere stato a pagare?» Hawkins era stato felice di spiegare il meccanismo della prigione: a meno che qualcuno non intervenisse a favore di un prigioniero prima del suo arrivo, si veniva messi insieme ai criminali comuni; di qui il nome “cella comune”. Queste celle luride e stipate erano focolai di infezioni. I detenuti erano alla mercé di gente folle e pericolosa, e ci si considerava fortunati se al risveglio si avevano ancora le scarpe ai piedi. Donne giovani e ragazzi venivano regolarmente stuprati la notte del loro arrivo, e di rado da una sola persona. Hawkins aveva poi spiegato che chi disponeva di un po' di denaro o di qualcosa da vendere poteva comprare l'accesso a un posto più pulito e sicuro, oltre che gli extra che loro stessi avevano già individuato. La baldoria nel cortile ne era la prova: le persone che avevano visto erano ricche oppure avevano amici ricchi e influenti. Tuttavia, terminati i soldi, venivano ricondotte nelle celle comuni. Hawkins aveva raccontato di un malfattore che si era fatto portare il proprio letto di piume, disponeva di acqua calda per il bagno mattutino, si faceva lavare le camicie, pranzava con vini pregiati e al pomeriggio riceveva la visita della sua amante. Per poi finire impiccato, come aveva sottolineato, perché le mazzette non potevano risolvere tutto. «Qualcuno di voi ha conoscenze a Londra?» chiese Mary agli uomini perplessi. Nessuno di loro aveva idea di chi potesse essere il misterioso benefattore. «Una volta la conoscevo un po' di gente» rispose James. «Ma quelli non ti pagavano neppure una pinta di birra, figuriamoci una cella decente.»

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«Forse è stato qualcuno che dopo avere letto il “Chronicle” ha avuto compassione di noi» azzardò Sam. «Può darsi» disse Bill pensoso, accarezzandosi la barba. «Quando ero piccolo, nel Berkshire ammazzarono un tale che lasciò moglie e cinque bambini; non appena la storia si seppe in giro, la gente mandò loro dei soldi.» «È possibile, ma chi ha raccontato la nostra storia?» chiese James, interdetto. «Quel giornale è di quattro o cinque giorni fa, e noi eravamo ancora sulla nave nel canale della Manica. Come l'hanno saputo?» «Qualcuno deve averne parlato quando la nave ha fatto scalo a Portsmouth.» Sam si spalancò in un sorriso. «Il capitano Edwards è sbarcato allora, e forse ha dato informazioni su di noi alle autorità. Molti altri sono sbarcati, e chiunque aveva la possibilità di contattare un giornale.» D'un tratto, Mary si rese conto che poteva essere stato solo Watkin Tench. Il capitano Edwards, che si era sempre dimostrato molto duro con loro e con gli ammutinati catturati, avrebbe semmai cercato di metterli in cattiva luce. Quanto agli altri ufficiali sbarcati a Portsmouth, non erano certo in grado di fornire informazioni tanto precise. Da quando aveva prestato servizio sulla Dunkirk, Tench era anche al corrente della corruzione nelle prigioni e sapeva come muoversi per riservare loro una cella a Newgate. Decise all'istante di non dire niente agli altri. La stupiva un poco che non avessero preso in considerazione Tench; d'altra parte non l'avevano conosciuto bene come lei. Se avesse rivelato i suoi pensieri, avrebbe provocato solo domande cui non intendeva rispondere. Inoltre, se Tench aveva mantenuto l'anonimato, voleva sicuramente restare in incognito: se fosse saltato fuori il suo nome, avrebbe rischiato la carriera. Meglio dunque che gli altri continuassero a credere che si trattasse di un caritatevole sconosciuto. «La fortuna ci sorride di nuovo» disse James con un'allegra risatina senza rilevare che Mary non aveva fatto alcun commento.

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«Se continuano ad arrivare soldi, magari anche noi, come quel malfattore, dormiremo su un letto di piume.» “Dio ti benedica, Watkin” pensò Mary, e si voltò perché gli altri non scorgessero nei suoi occhi lacrime di gratitudine. Nei giorni successivi ricevettero molte visite. Alcuni erano interessati ai particolari della loro fuga, ma più numerosi erano coloro che, con la prospettiva della deportazione, volevano sapere a cosa sarebbero andati incontro. Spillare denaro a quella gente faceva sentire Mary un po' in colpa; era già abbastanza triste l'idea della separazione dalle persone care senza che la loro infelicità venisse acuita dal racconto della fame, della costante calura e dello spaventoso triangolo della fustigazione. Tuttavia, come diceva James, piuttosto che nel bere, era meglio che spendessero un po' di soldi per prepararsi a ciò che li attendeva; e lei era d'accordo. La prima volta che poterono uscire in cortile, Mary ebbe la sensazione di entrare in un gruppo esclusivo. Gli altri detenuti li salutarono con sincero calore, offrirono bevande prese allo spaccio interno, consigli e amicizia. James e gli altri tre accettarono tutto di buon grado, specialmente gli approcci delle donne. Mary invece era esitante. Se da una parte le faceva piacere essere oggetto di stima anziché di disprezzo o commiserazione, sentiva però che le sue ferite, ancora troppo aperte, le toglievano il desiderio di parlare e ridere con estranei, per quanto bendisposti. Desiderava solo starsene seduta tranquilla al sole, ma questo le era impedito perché tutti volevano qualcosa da lei. Chi le chiedeva particolari della fuga, chi informazioni su amici e parenti deportati. Alcune donne volevano persino sapere dei suoi parti. Certi uomini, poi, cercavano di corteggiarla o le facevano proposte indecenti. Le bastò qualche ora per capire che aveva visto e sentito abbastanza.

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Non voleva esibirsi in quel circo, e neppure fare parte del pubblico. Non le era mai capitato di riflettere su se stessa rispetto al mondo del crimine, di cui faceva parte da tanti anni. Sulla nave prigione, durante la deportazione, o nella colonia penale, lei era stata solo una delle tante detenute che scontavano la pena ed erano pronte a tutto pur di garantirsi la sopravvivenza. Pertanto era stata leale con i compagni di prigionia, li aveva coperti, aiutati e a volte istigati a rubare nei magazzini e a commettere altri reati, perché quello era il codice secondo il quale vivevano tutti. La perdita dei figli, però, le aveva risvegliato la coscienza. Non si era mai pentita di avere rubato la cuffia a quella donna di Plymouth. Quando l'avevano catturata, aveva sofferto, si era arrabbiata con se stessa per la sua sconsideratezza, ma non si era mai messa nei panni della vittima, né aveva pensato cosa avrebbe provato lei a essere colpita e derubata. Adesso, invece, se ne vergognava profondamente. In realtà, allora non stava morendo di fame, e neppure aveva bisogno di una cuffia. Avrebbe potuto prendere esempio dalle brave persone conosciute nella sua infanzia, come Martha Dingwell del negozio del fornaio, che alla fine della giornata regalava il pane invenduto a chi non poteva comprarne; oppure Charlie Allsop, il becchino, che per mostrare la sua partecipazione faceva gratuitamente dei piccoli lavori alle persone colpite da un lutto. Loro due, come altri, avevano appena di che vivere, e c'era stato anche chi li aveva derisi. Ora Mary capiva che le Martha e i Charlie di questo mondo impreziosivano la vita. I criminali, invece, la rendevano brutta e spaventosa, la contaminavano con la loro egoistica avidità di denaro e di cose materiali per ottenere le quali non facevano lo sforzo di lavorare. Mentre si guardava intorno nel cortile della prigione, non riusciva a vedere altro che persone interessate solo a se stesse. Non provavano rimorso per avere mentito, imbrogliato, rubato o ucciso. Lo dimostrava il fatto che avevano denaro per comprarsi l'accesso al cortile e si vantavano, ubriache, dei loro reati. Senza dubbio, quelli erano malviventi e criminali tra i peggiori

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e i più scaltri di Londra, prostitute incallite e ladri. Che venissero da ricche dimore o dai bassifondi usavano tutti il gergo, quel linguaggio della malavita che nella colonia le era diventato familiare. Mentre gli altri bevevano, lei avvertì il diffondersi per il cortile di pericolose tensioni sotterranee fatte di invidia, frustrazione sessuale, violenza repressa e vecchi conti in sospeso. Non era una puritana; sapeva che l'alcol costituiva un potente toccasana per alleviare la disperazione e la paura. Per quanto disperata, tuttavia, era certa che non si sarebbe mai venduta per un paio di gin, né avrebbe accettato di avere rapporti sessuali in pubblico, come facevano alcune donne, anche alla presenza dei figli. Nel corso del pomeriggio aveva distolto lo sguardo parecchie volte da uomini che andavano in calore come bestie con donne quasi svenute tanto erano ubriache; le sembrò anche che alcuni avessero qualche mira sui bambini. Un'anziana che si era messa a sedere accanto a lei le raccontò che qualcuno degli uomini corrompeva i secondini per avere rifornimenti costanti di nuovi bambini della cella comune. Si mise a ridere in modo chioccio; Mary avrebbe anche potuto non crederle, ma poco dopo vide un uomo tarchiato che palpeggiava una bambinetta lacera di non più di sei anni. In cortile c'erano molte bambine, e le si strinse il cuore. Si rivide da piccola, con lo stesso colorito sano, la stessa strana combinazione di innocenza e coraggio. Quelle bimbe erano troppo occupate a civettare con i detenuti più raffinati per parlare con lei. Forse pensavano che quei damerini in abito elegante le avrebbero portate con sé quando avessero trovato modo di uscire da Newgate corrompendo qualcuno. Mary conosceva la realtà: in quel posto le ragazzine avrebbero perso la loro innocenza nel giro di un paio di settimane, e sulle navi prigione il coraggio le avrebbe abbandonate. Qualche anno a Sydney, e sarebbero diventate come lei: un mucchietto di ossa senza più speranza e voglia di vivere.

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Si trovavano a Newgate da oltre una settimana quando Spinks andò in cella da Mary per annunciarle la visita di un signore. Mary aveva stretto con il secondino una sorta di cauta amicizia. In realtà non le piaceva perché era troppo furbo, sempre pronto a spillare denaro ai detenuti. Eppure, nell'apprendere della morte dei suoi bambini, si era dimostrato autenticamente partecipe. Spesso, quando lei non era in compagnia, le portava una tazza di tè o un frutto, ma senza farsi pagare: voleva semplicemente chiacchierare un po'. Forse era una persona sola come lei. Mary se ne stava spesso per conto suo: dopo avere assistito a un accoltellamento la seconda volta che era scesa in cortile, aveva deciso che il posto migliore era quella cella tetra. Anche quel giorno non c'era nessuno con lei: gli uomini erano andati a prendere aria. «Chi è questo signore?» chiese. Spinks definiva “signori” tutti gli uomini agiati. «Risponde al nome di Boswell» disse con un sorriso compiaciuto. «Pare che fa l'avvocato.» «Vuoi dire che viene da fuori?» «Be', qui dentro non ce li abbiamo molti avvocati.» Spinks rise alla sua battuta. «Allora, lo vuoi vedere o no? Per me mi fa lo stesso.» Mary sospirò. Non aveva voglia di parlare con nessuno, ma forse una persona estranea alla prigione poteva distrarla dalla sua malinconia. «Portalo su» disse con voce stanca. «Va bene, ragazza» fece Spinks in tono affettuoso. «Senti, mentre io scendo, perché non ti pettini quei bei capelli? Guarda, c'ho un nastro per te, metticelo.» Estrasse dalla tasca un nastro di raso rosso, glielo ficcò in mano e se ne andò. Mary lo fece scorrere tra le dita con un groppo alla gola: le rammentava il padre che, al ritorno dai suoi viaggi per mare, portava sempre un nastro a lei e a Dolly. Allora Mary era un maschiaccio, e non apprezzava molto quel dono. Invece questo lo apprezzò; aveva bisogno di tirarsi su con qualcosa di allegro e femminile.

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«Buongiorno, signora Bryant!» Al suono di quella voce melodiosa Mary si voltò di scatto. Era tanto concentrata ad annodare il nastro sulla nuca da non sentire arrivare l'uomo dal ballatoio. Per una volta Spinks aveva avuto ragione: quel tipo era proprio un signore. Più o meno sulla cinquantina, corpulento, di media statura, con un viso rubizzo e abiti molto raffinati - tricorno verde scuro bordato da treccia dorata, e marsina di fine broccato -, era affannato e sbuffava per via delle scale. «Adesso mi conoscono come Mary Broad» fece lei, brusca, abbassando lo sguardo sulle sue calze bianche immacolate e le scarpe dalle fibbie vistose. «Perché siete venuto?» Le tese la mano. «Voglio aiutarti, cara. Mi chiamo Boswell, James Boswell, e sono avvocato, benché sia più conosciuto per il libro sul dottor Samuel Johnson, il mio caro amico scomparso.» Mary riconobbe l'accento scozzese, perché due ufficiali conosciuti a Port Jackson parlavano nello stesso modo. Il riferimento al libro sull'amico morto però non le disse nulla, e rimase più colpita dalla catena d'oro dell'orologio e dall'originale panciotto di seta. Pensò che neppure il re avrebbe potuto vestire meglio. Gli strinse la mano, e la sbalordì il fatto che un uomo potesse averla tanto morbida. Sembrava un pezzo di tiepido impasto per il pane. «È impossibile aiutarmi,» disse «però è gentile da parte vostra che vi siate offerto, quando io non sono neppure in grado di offrirvi una sedia.» Lui sorrise. Mary notò che i suoi occhi erano due grandi pozze scure quasi luminescenti, mentre non poté vedere il colore dei capelli, coperti dalla parrucca. Dalle folte sopracciglia, comunque, intuì che una volta dovevano essere stati bruni come i suoi. «Non credo sia impossibile aiutarti» replicò lui, convinto. «Vorrei difenderti, quindi ti prego di raccontarmi la tua storia. Di te so solo le cose straordinarie lette sul “Chronicle”.» ***

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Capitolo 18. James Boswell si allontanò a lunghi passi dalla prigione di Newgate, irritato perché Mary non aveva visto in lui il suo salvatore e non si era buttata ai suoi piedi. Non l'aveva neppure sfiorato il pensiero che lei potesse non accogliere con gioia la sua offerta di aiuto. «Maledizione» borbottò. «Sarà anche un'eroina, ma è chiaro che le manca il cervello.» Una volta un suo caro amico aveva sostenuto che “Bozzie” era votato alle cause perse. Si riferiva in quel caso alla sua passione per le prostitute, ma era risaputa la sua sincera solidarietà con chiunque ritenesse trattato in modo ingiusto. Spesso aveva difeso povera gente senza farsi pagare, accollandosi casi che nessun altro avrebbe accettato. Per la verità, niente lo eccitava più di un caso ritenuto da tutti perso in partenza, o di una donna votata all'autodistruzione. Mary Broad rappresentava l'uno e l'altro. Gli amici altolocati che lo prendevano in giro in realtà non apprezzavano che lui sentisse di avere molto in comune con clienti e prostitute. Sapeva cosa significasse essere costretti ad abbracciare una professione non voluta; era spesso frainteso, commetteva errori di valutazione ed era avventato. Il padre, Lord Auchinleck, giudice della Corte suprema di Scozia, malgrado il desiderio del figlio di arruolarsi nelle Guardie

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scozzesi, pretendeva che diventasse avvocato. Terminata la scuola, Boswell fuggì a Londra e si convertì al cattolicesimo, lasciando sbigottita la sua austera famiglia presbiteriana. Per un breve periodo accarezzò addirittura l'idea di farsi monaco. Un cattolico, tuttavia, non poteva diventare ufficiale dell'esercito o avvocato, e neppure ereditare le proprietà paterne, così lui abbandonò presto il cattolicesimo e, secondo il volere del genitore, entrò alla Inns of Court, per studiare giurisprudenza. Più che una svolta, però, questa per Boswell rappresentò l'opportunità di stare a Londra e usare il denaro messogli a disposizione dal padre per non sfigurare in società. Lui stesso ammetteva di essere un cattivo studente. Passava più tempo a teatro, alle corse, a bere e a inseguire donne, che sui libri. Suo padre si aspettava che facesse un matrimonio vantaggioso, ma lui lo deluse anche in questo perché sposò una cugina squattrinata, Margaret. Un matrimonio d'amore, perché lui reputava l'amore molto più importante del denaro. Poi fu fraintesa la sua amicizia con Samuel Johnson. Si mormorava che volesse insinuarsi nelle grazie del grande letterato al solo scopo di promuovere se stesso. Boswell veniva ritenuto snob, arrampicatore sociale, donnaiolo, ubriacone e ipocondriaco. Era vero che amava le donne e il vino. Non resisteva a una graziosa cameriera o prostituta, ma questo non era forse un segno del suo gusto per la vita? I suoi detrattori non vedevano né capivano che lui dedicava la maggior parte del tempo alla raccolta di materiale per mettere insieme la sua opera: Vita di Samuel Johnson. Per svolgere degnamente questo lavoro doveva entrare nei circoli frequentati dallo stesso Johnson, per osservare, ascoltare e vedere attraverso i suoi occhi. Ovviamente ne fu felice, e forse approfittò anche di qualcuna delle conoscenze fatte in quegli ambienti, però non usò mai l'amicizia di Johnson a proprio vantaggio. Era affezionato a quell'uomo e avrebbe voluto che tutto il mondo potesse condividerne saggezza, intelligenza e senso dell'umorismo. In cuor suo, sapeva di avere scritto un'eccellente biografia

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dell'amico, ed era certo che con il tempo il suo nome sarebbe stato collocato accanto a quello di eminenti letterati. Malgrado non avesse ottenuto gli elogi sperticati e l'adulazione che a suo avviso gli spettavano, il libro gli fece guadagnare comunque una somma considerevole. Possedeva abiti raffinati e una casa elegante nei pressi di Oxford Street. Si concedeva cibi e vini pregiati, poteva contare su numerose amicizie, e sul grande conforto dei suoi amati figli. Tutto sommato, pensava che questo dovesse bastare a chiunque. Eppure, prima di posare la penna e appendere al chiodo parrucca e toga, voleva togliersi la voglia di fare ancora qualcosa di sensazionale. A cinquantadue anni il tempo gli scorreva ormai tra le dita, era vedovo, e non più nel pieno della salute. Desiderava essere ricordato come “il più grande biografo di tutti i tempi”, ma sarebbe stata un'immensa soddisfazione anche sbalordire chi lo riteneva un avvocato mediocre. Voleva vincere un caso difficile e drammatico, ed essere considerato il paladino dei deboli e degli oppressi. Sorrise a quel suo desiderio di compiacere se stesso. Era davvero assurdo che se la prendesse tanto per il caso di Mary Broad, visto che fino a quella mattina non conosceva neppure l'esistenza sua e dei compagni. Se poi era sincero fino in fondo - una fissazione di suo padre quella della sincerità -, prima di quel momento non aveva mai neppure pensato alle condizioni dei condannati alla deportazione. Vedeva la deportazione come una soluzione al tempo stesso umana e pratica: allontanava i delinquenti dal luogo in cui avrebbero potuto nuocere ancora alla società ed era una soluzione molto migliore del patibolo. Da ragazzo aveva assistito all'esecuzione pubblica di un malfattore e di una giovane ladra di nome Hannah Diego, e non era più riuscito a cancellare dalla memoria una scena tanto terrificante. Comunque, quella mattina, stava sorseggiando una tazza di caffè in casa mentre leggeva il giornale - tanto per passare il tempo prima di andare dall'editore per controllare l'andamento delle

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vendite del libro - quando si imbatté nel resoconto della fuga da Botany Bay. Fu un virgolettato della stessa Mary a catturare la sua attenzione: «Preferisco essere impiccata piuttosto che rispedita laggiù». Botany Bay non pareva affatto quel paradiso tropicale che i giornali avevano fatto credere, e Boswell si immerse nella lettura. Il fatto che Mary, otto uomini e due bambini piccoli avessero veleggiato per tremila miglia in una barca aperta lo colpì molto. Lo colpì ancora di più che quattro degli uomini fossero morti dopo la cattura, ma fu la perdita dei due bambini a toccargli profondamente il cuore. Da padre che adorava i propri figli e si sentiva fortunato ad averli tutti accanto, non poté immaginare niente di più tragico della morte di uno di loro. Quella poveretta aveva perso tutto, marito e figli, e ora rischiava di perdere anche la vita. Nella mente rivide Hannah Diego divincolarsi mentre veniva trascinata verso il cappio del boia. Sentì l'odore della sua paura, udì i macabri ruggiti della folla presente e rammentò gli incubi che da quel giorno lo avevano tormentato per tanto tempo. Provò un senso di nausea e rabbia. Non poteva starsene a guardare, lasciare che Mary Broad condividesse lo stesso destino. Era disumano; quella donna aveva sofferto fin troppo. Boswell era anche incuriosito dalla sua personalità. Di sicuro possedeva determinazione e immenso coraggio per condurre quegli uomini verso la libertà, e una grande forza per sopravvivere alle febbri e all'inedia. Voleva saperne di più, incontrarla, parlarle; così posò il giornale, si fece portare cappello e marsina, e si diresse a Newgate. Si era raffigurato Mary Broad come una donna grande, forte e robusta, proprio come le sue prostitute preferite, e fu una sorpresa scoprire che era piccola, magra e parlava con voce sommessa. Dimostrava più della sua età tanto era consumata dal dolore, e i suoi occhi grigi sembravano già rassegnati alla morte. Gli raccontò la sua storia con molta semplicità, come se fosse stanca di ripeterla ancora. Non fece alcun tentativo di guadagnarsi

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la sua simpatia né si addentrò in particolari sconvolgenti su stenti, privazioni o crudeltà. L'unico momento in cui i suoi occhi si riempirono di lacrime fu quando parlò della sepoltura in mare di Charlotte, ma li asciugò in fretta e aggiunse che sulla Gorgon era stata trattata con gentilezza. Boswell si commosse profondamente e percepì tutto l'orrore che Mary non aveva voluto esprimere. Era già stato molte volte a Newgate, ed era preparato a bugie, esagerazioni e distorsioni della verità. Come molti dei suoi contemporanei, credeva nell'esistenza di una classe di criminali, un gruppo sociale predisposto a minare la società per bene. Quei tipi si potevano facilmente individuare per la loro infingardaggine, i modi brutali e la mancanza di principi. Nel cortile della prigione ne aveva visti tanti girare impettiti come fossero in un club privato molto esclusivo. Di certo Mary non era una di loro. Aveva più in comune con quei debitori sconsolati che se ne stavano seduti in piccoli gruppi, privi di speranza e vitalità, davvero imbarazzati per le vicende che li avevano condotti in prigione. Eppure il nastro rosso splendente sui suoi capelli bruni, così in contrasto con il vestito logoro e macchiato, suggeriva che lo spirito indomito che l'aveva mantenuta in vita fra tante traversie era ancora presente, benché attenuato. Mary aveva avuto l'audacia di chiedergli se fosse disposto a difendere anche i suoi quattro amici. Quando Boswell le rispose che si sentiva di battersi soltanto per la sua causa, lei distolse lo sguardo come se il colloquio fosse terminato. «Allora non posso accettare il vostro aiuto» disse infine. «Siamo tutti nella stessa barca, loro sono i miei amici, e io non li abbandono.» Per Boswell era inconcepibile che in una situazione disperata come la sua si potesse anteporre l'amicizia alla propria vita. La scongiurò, spiegò che avrebbe potuto vincere la causa perché la gente si sarebbe schierata dalla sua parte per via dei bambini. Pensò anche, ma senza confessarlo, che quel processo potesse costituire una sorta di vetrina per il suo talento. Voleva che fosse

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di grande impatto emotivo; si vedeva già impegnato nell'arringa finale, drammatica e straziante. Se invece avesse dovuto difendere anche i quattro uomini - probabilmente tutti personaggi equivoci -, si sarebbe molto attenuata la solidarietà suscitata intorno a Mary. «Non mi rimangono che questi quattro amici» fece lei semplicemente. «Abbiamo attraversato insieme l'inferno; per me sono come fratelli. Se io ho un'opportunità, devono averla anche loro.» «Pensi che per te farebbero lo stesso? Io non credo, Mary; ciascuno farebbe qualsiasi cosa per salvare la pelle, senza preoccuparsi per te.» «Forse» sospirò. «Per me, una volta, sopravvivere contava più di ogni cosa al mondo, ma questo appartiene al passato. Ora non ha più tanta importanza.» James fu colpito dal suo senso dell'onore, ma pensò che avesse perso la ragione oltre che lo spirito. “Allora, Bozzie, come hai intenzione di restituirle la voglia di vivere?” si domandò sollevando appena il cappello per salutare una graziosa signorina accompagnata da un'anziana chaperon. Si voltò a guardarla e notò il vitino di vespa, l'impertinente fiocco sull'imbottitura posteriore dell'abito rosa e la cuffia ornata di margherite. Veronica e Euphemia, le sue due figlie più grandi, avevano una gran quantità di abiti e cuffie, e nulla le rallegrava più di averne di nuovi. Chissà, forse con qualcosa di carino da indossare Mary avrebbe ricominciato a sperare. Nella piccola cella di Newgate c'era tensione nell'aria; i quattro uomini fissavano Mary con occhi freddi e sospettosi. «Non guardatemi in quel modo» fece lei indignata. «La sola ragione per cui non vi ho parlato della sua visita è perché lui non può aiutarci.»

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Gli uomini erano rientrati in cella nel tardo pomeriggio, tutti ubriachi. Se fossero stati sobri, probabilmente avrebbe raccontato loro della visita del signor Boswell, ma mentre dormivano per smaltire l'alcol ingurgitato, si era detta che quella rivelazione non sarebbe servita a niente. Il signor Boswell voleva aiutare lei, non loro, e dirlo non avrebbe fatto che ferirli. Sfortunatamente non si era resa conto che una visita dall'esterno attirava molta attenzione e provocava illazioni di prigionieri e anche di secondini. Non appena gli uomini, riacquisita la lucidità, erano tornati allo spaccio, avevano sentito che in tutta la prigione si parlava del signor avvocato che era andato a trovarla. «Cosa stai tramando?» sbottò James, rosso di rabbia nel volto magro. «Proprio niente» rispose Mary. «L'ha portato qui Spinks: era curioso di sapere di noi tutti, ma non abbastanza interessato per difenderci.» «Hai lasciato andare e venire un avvocato senza avvertirmi?» sbraitò James. «Sarei riuscito io a interessarlo.» Mary alzò le spalle. «Da sbronzo? Avrebbe avuto ancora meno voglia di aiutarci.» «Io l'alcol lo reggo, e sbronzo o sobrio convinco sempre tutti» ringhiò lui. «Scommetto che non hai neppure provato. Se a te va bene che ti mettano un cappio intorno al collo, a noi non va bene.» Lei lanciò un'occhiata supplichevole agli altri. «Lo sapete benissimo che farei qualsiasi cosa per aiutarvi se ne avessi la possibilità. Il gin scadente vi ha fatto andare in pappa il cervello?» La guardarono tutti un po' imbarazzati. «James però ha ragione: avresti dovuto venire a chiamarci» fece Bill, ostinato. «E lui quello bravo con le parole; a te invece non importa più di niente.» «Forse non mi importa più niente di me, ma di voi sì» replicò infervorata. «E se davvero volete saperlo, state diventando come tutti gli altri qui dentro: pensate solo a rimbecillirvi con l'alcol e scoparvi qualsiasi cosa che si muove.»

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«Tornerà quel signore?» chiese Nat speranzoso. «Ne dubito» tagliò corto lei. «Non può fare nulla per noi.» Udirono Spinks che in corridoio cominciava a chiudere a chiave le celle per la notte. Mary si ritirò nel suo angolo, e si stese a terra con la speranza che il rapido dileguarsi della luce ponesse fine a quell'acredine. James e Bill continuarono a parlare a bassa voce ma lei, esausta e avvilita, non tentò neppure di ascoltare. Il signor Boswell era stato molto gentile. A parte Tench, nessun altro uomo si era mai interessato tanto a lei. Avrebbe dovuto cercare di convincerlo ad aiutarli tutti? Magari implorandolo aggrappata a lui con le lacrime agli occhi, o addirittura offrendo se stessa? “Nessuno ti vorrebbe, almeno non come ti presenti adesso” disse dentro di sé. Sapeva, senza neppure vedersi allo specchio, di non essere nemmeno lontanamente desiderabile. Il vento, il sole cocente e la malnutrizione l'avevano invecchiata prima del tempo; era priva di curve, e di qualsiasi morbidezza. Persino Sam, che in passato aveva nutrito per lei sentimenti romantici, sembrava averli smarriti da quando erano stati catturati a Kupang. Udì urla di donna in lontananza. Sembrava l'agonia di un parto, e per empatia sentì il ventre contrarsi. Le sembrò molto strano percepire ancora il dolore degli altri, dopo tutte le sofferenze, le umiliazioni e le terribili avversità affrontate negli anni precedenti. A quel punto, avrebbe dovuto essere del tutto insensibile, indifferente alla sopravvivenza o alla morte di un neonato. Invece le importava ancora; ogni volta che passava davanti alla cella comune, si sentiva in colpa perché quei poveretti erano luridi, malati e mezzi morti di fame, mentre lei poteva uscire, mangiare, bere e dormire in una cella decente. Le urla cessarono all'improvviso. Si chiese se la madre avesse infine partorito, o fosse morta. Meglio forse la seconda ipotesi, perché se fosse vissuta i suoi tormenti sarebbero solo aumentati.

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Passati tre giorni, gli uomini tornarono lentamente a mostrarsi amichevoli con lei. Il quarto, furono portati in tribunale, di fronte al giudice, il signor Nicholas Bond. Non appena incatenati, tutti e cinque sentirono una forte tensione; poi, mentre il carro prigionieri procedeva sferragliando lungo strade affollate e rumorose, la tensione si trasformò in terrore per ciò che li aspettava. Nat aveva gli occhi azzurri sbarrati per la paura, Bill stringeva i pugni con tanta forza da imbiancare le nocche, Sam sembrava mormorare una preghiera. Perfino James, per una volta ammutolito, strinse la mano di Mary quando il carro fu all'improvviso circondato da un'orda di gente urlante. D'un tratto lei si rese conto che la folla non stava invocando il loro sangue, ma esattamente il contrario. Gridavano: «Bravi! Buona fortuna! Dio sia con voi!». Qualcuno lanciò sul carro un rametto di erica bianca. Mary lo raccolse e sorrise. «Sono tutti con noi» disse con voce strozzata. Lei e i compagni erano abituati alla notorietà all'interno della prigione, ma non avevano pensato che la loro vicenda suscitasse anche l'interesse della gente comune. Invece era proprio così, e Mary e i suoi amici furono commossi nel vedere che in tanti si stavano dirigendo verso il tribunale per mostrare la propria solidarietà. Mentre venivano condotti al banco degli imputati, notarono che l'aula tetra e polverosa del tribunale era gremita di spettatori; tra loro, Mary intravide James Boswell. «C'è il signor Boswell» sussurrò a James pensando che, se non avesse detto niente, lui e gli altri tre avrebbero ricominciato a darle addosso. «Quello grasso con la giacca vistosa.» James lo guardò, accennò un sorriso, e sottovoce passò l'informazione agli altri. Il giudice - faccia magra e occhiali in bilico su un naso affilatissimo - li interrogò uno alla volta, e parve particolarmente attento alle loro risposte. Questa fu un'ulteriore sorpresa, perché

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nei processi che li avevano condannati alla deportazione, avevano sperimentato tutti e cinque la totale indifferenza dei giudici; inoltre, tutti conoscevano persone trascinate in tribunale e condannate senza che venisse prodotta alcuna prova o testimonianza. Quando toccò a Mary, il giudice fu ancora più attento, dimostrando interesse e impegno a farsi un quadro reale della loro vicenda. Malgrado la sua agitazione, lei parlò forte e chiaro guardandolo dritto negli occhi. L'unico momento in cui le tremò la voce fu quando le fu chiesto della morte dei figli. «L'idea della fuga è stata tutta mia» ammise. «Io l'ho progettata e poi mi sono procurata le carte nautiche e l'attrezzatura. Ho costretto mio marito Will a seguirmi in questa impresa e a convincere gli altri a venire con noi.» Percepì l'occhiata furtiva degli amici: erano chiaramente sorpresi che lei si autodenunciasse come istigatrice. «Da quanto tempo progettavi la fuga prima di lasciare la colonia?» chiese il giudice scrutandola con attenzione. «In pratica dal giorno dell'arrivo, ma la decisione l'ho presa quando mio marito è stato fustigato solo per avere tenuto da parte un paio di pesci pescati da lui. Soffrivamo la fame. La gente moriva intorno a noi, eppure il mio Will, l'unico della colonia a procurare il cibo, si è preso cento frustate. Non era giusto.» Le domande continuarono, e Mary rispose a tutte con sincerità. Infine il giudice le chiese se era pentita del crimine che l'aveva spedita nel Nuovo Galles del Sud. «Certamente, signore. Non è passato giorno senza che io provassi rimorso.» Un mormorio di approvazione si propagò nell'aula. «Ma dimmi, perché hai deciso di mettere a repentaglio la vita dei tuoi bambini con un viaggio tanto lungo e pericoloso in acque inesplorate?» «Nella colonia i pericoli erano altrettanto grandi» rispose lei risoluta. «Ero convinta che fosse meglio morire tutti insieme in mare, piuttosto che morire lentamente di fame o di qualche terribile malattia uno alla volta.»

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Il mormorio della folla si trasformò in boato e, quando scese il silenzio, il giudice annunciò di non essere ancora pronto a emettere la sentenza; sarebbero stati tradotti nuovamente in carcere e riportati davanti a lui la settimana successiva per ulteriori approfondimenti. Bersagliati da nuove grida di solidarietà, i cinque vennero condotti via e rinchiusi in una cella sotto il tribunale, in attesa di essere riportati a Newgate. «Avete visto che folla?» fece James allegro con gli occhi colmi di felicità come nei giorni di Kupang. «Sono tutti dalla nostra parte. Non ci impiccheranno di sicuro, vero?» Mary non disse nulla. Per lei molti altri anni di carcere erano una prospettiva di gran lunga peggiore dell'impiccagione. «Sei stata bravissima» le disse Sam, sorridendo da un orecchio all'altro. «Però non avresti dovuto prenderti tutta la colpa.» Mary si strinse nelle spalle. «Era tutto vero: ho veramente forzato Will e gli ho detto di coinvolgere voi.» «Sei proprio una donna coraggiosa; poco ma sicuro» intervenne Bill con la voce incrinata. «Scusa se abbiamo pensato male di te l'altro giorno.» Prima di poter rispondere, Mary udì la voce inconfondibile del signor Boswell, che in fondo al corridoio di pietra chiedeva con insistenza di vederla. Si sentì sprofondare: se si fosse di nuovo offerto di difenderla, gli altri l'avrebbero giudicata una bugiarda. In un attimo, sfolgorante in marsina blu scuro e panciotto ricamato, lui comparve davanti alla griglia con il suo viso tondo increspato dai sorrisi. «Mary, mia cara, hai dato un'ottima prova di te» tuonò esultante. «La folla ti ha preso a cuore. Nel giro di pochi giorni tutti, in Inghilterra, leggeranno la cronaca di oggi e si schiereranno con te.» «Non solo con me, spero» riuscì a dire lei, augurandosi che Boswell si rendesse conto del suo imbarazzo. «Noi cinque in questa storia siamo insieme, e voi non avete ancora conosciuto i miei amici.»

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«Certo, certo. La gente stava con tutti voi» disse porgendo una scatola contenente una considerevole somma di denaro. «Hanno fatto una colletta per le vostre spese a Newgate. Me ne rallegro per voi.» James presentò se stesso e gli altri. «Significa che adesso siete disposto a difenderci?» domandò prendendogli di mano la scatola. «Ora che il pubblico si è unito a Mary per forzarmi la mano, ho riconsiderato il tutto, e penso di poter difendere anche voi uomini, sempre che lei sia pronta a tornare sui suoi passi.» Boswell, raggiante, li guardò in faccia uno a uno e parve non notare i gesti frenetici di Mary alle loro spalle. «Spero apprezziate la lealtà della vostra amica! E adesso dobbiamo parlare della prossima mossa. Sono convinto che a questo punto non rischiate la pena di morte, ma solo la prigione; io però sono determinato a farvi ottenere la grazia.» Non attese la loro reazione e continuò. «La settimana prossima sarò in tribunale per tutti voi, e nel frattempo ho intenzione di vedere il ministro dell'Interno Henry Dundas, che è un mio caro amico.» Non appena Boswell se ne andò, James lanciò un grido di gioia e fece tintinnare la scatola con le monete. «Conosce il ministro dell'interno» gongolò. «E hanno fatto una colletta per noi. Ci lasceranno liberi!» Sam guardò con aria pensosa Mary, che arrossì. «Si è offerto di difendere solo te e tu hai rifiutato, vero?» Nella sua voce c'era stupore e ammirazione. Gli altri tre aggrottarono la fronte, perplessi. Nat gli chiese di spiegarsi meglio. Lui scosse la testa per tanta stupidità. «Non capite? Quell'avvocato non era qui per caso. È tornato per rivedere Mary, che l'altro giorno non ci ha parlato della visita perché Boswell voleva difendere solo lei. Lo ha respinto per causa nostra!» «Davvero?» fece Nat incredulo, spalancando gli occhi azzurri.

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«Santa madre di Dio!» esclamò James. «E noi ce la siamo presa con te!» Mary diventò paonazza. «Acqua passata» mormorò. «Niente affatto, Mary.» Sam la cinse con il braccio. «La gente ha fatto la colletta per quello che hai detto al giudice. Credo che l'avvocato abbia cambiato idea anche per questo. Ti dobbiamo la vita ancora una volta.» Mary non riuscì a dormire per tutta la notte perché la sua mente era un vortice di “E se...”. E se rimanevano in prigione mesi o addirittura anni, e il pubblico perdeva interesse per il loro destino? A quel punto non avrebbero mai ottenuto la grazia. E se Boswell era solo uno sbruffone come Will, e in realtà non conosceva il ministro dell'Interno? E se lei otteneva la grazia, dove sarebbe andata, come avrebbe vissuto? Se, come aveva detto il signor Boswell, le sue drammatiche vicende avevano acceso l'immaginazione di tanti, era probabile che la sua famiglia ne venisse a conoscenza. Sua madre sarebbe di sicuro morta di vergogna nel saperla su tutti i giornali. Non poté fare a meno di sorridere all'idea che dopo tutto quello che aveva passato si dovesse preoccupare di cose del genere. Tuttavia teneva ancora moltissimo ai sentimenti della madre, e moriva dalla voglia di rivedere lei e il resto della famiglia. Durante la seconda udienza, ai cinque fuggiaschi fu ufficialmente annunciato che non sarebbero stati impiccati, bensì condannati senza processo a un periodo indeterminato di detenzione. Gli uomini furono abbastanza soddisfatti: erano famosi e avevano denaro a sufficienza per una vita confortevole a Newgate, un paradiso rispetto a tutte le prigioni che avevano conosciuto. Ovviamente, se Boswell fosse riuscito a ottenere la grazia, sarebbe stato meraviglioso, ma non ci contavano.

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Mary, invece, non la vedeva allo stesso modo. Voleva essere rilasciata o impiccata, non una via di mezzo. Era disposta ad attendere la libertà, a patto però di sapere esattamente quanto tempo sarebbe passato prima di poter camminare di nuovo sull'erba, nuotare in mare, annusare i fiori e cucinare i propri pasti. Non intendeva trascorrere le giornate a stordirsi con il gin, una consuetudine consacrata dal tempo a Newgate. Boswell aveva ragione nel dire che tutti avrebbero saputo di loro, perché la storia si era diffusa in ogni angolo dell'Inghilterra. Lei, comunque, non traeva alcun piacere dalla notorietà. Ogni giorno andavano a conoscerla in carcere membri di organizzazioni fermamente contrarie alla deportazione, giornalisti e semplici curiosi che volevano vedere con i loro occhi la donna di cui parlavano i giornali, come se fosse un fenomeno da baraccone. Mary non poteva rifiutarsi di incontrare quella gente; sapeva che per ottenere la grazia lei e i suoi amici dipendevano dall'opinione pubblica, però era una pena continuare a raccontare la stessa storia, essere costretta a rivangare cose che avrebbe preferito dimenticare. James, invece, era entusiasta, specialmente delle signore dell'alta società che tornavano a fargli visita. Mary sapeva che non erano affatto interessate alle sue penose vicende, ma che andavano a Newgate solo per interrompere la monotonia della loro vita quotidiana. Le eccitava recarsi in un luogo tanto sporco e pericoloso. James le corteggiava sfoderando il suo fascino irlandese, e le intratteneva con aneddoti sconvolgenti che poi loro, nei tè pomeridiani, avrebbero riportato ad amiche meno audaci. In cambio, riceveva cibo, abiti nuovi e libri. Aveva anche cominciato a scrivere un resoconto della loro fuga nella speranza di ricavare dall'eventuale pubblicazione denaro sufficiente per tornare in Irlanda ad allevare cavalli. Quanto a Nat, Bill e Sam, loro si sentivano importanti per la prima volta nella vita. Avevano anch'essi delle ammiratrici e più passavano i giorni meno sembravano avere bisogno di Mary.

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Poi c'era il signor Boswell. Mary lo apprezzava - era intelligente, arguto e molto gentile -, ma si chiedeva cosa volesse da lei. James Martin, che si era assunto il compito di indagare a tutto campo su di lui, scoprì qualcosa di lievemente inquietante. Se da un lato risultava uno scrittore di fama molto ammirato e ben introdotto nell'aristocrazia, dall'altro era un dissoluto, dedito all'alcol, che bazzicava prostitute. Con i figli si comportava da buon padre affettuoso, ma si diceva che avesse trascurato la moglie al punto da non tornare in Scozia neppure quando lei stava per morire. Non era neppure considerato un bravo avvocato. Mary lo riteneva assai simile a Will nel carattere, cioè una persona che dava l'impressione di essere molto capace, intelligente e audace. Il signor Boswell, certo, era un signore, colto e decisamente più vecchio; tuttavia, spogliato degli anni in più, dell'erudizione e dei vestiti raffinati, avrebbe avuto molto in comune con Will. Quando parlava di amicizie altolocate, si trattava veramente di amicizie o di semplici conoscenze occasionali? Si vantava anche di casi vinti in tribunale, di successi con le donne e della sua discendenza da Roberto I di Scozia. A qualsiasi ora andasse a farle visita aveva sempre addosso odore di alcol, e la sua carnagione rubizza tradiva il vizio del bere. L'alcol era stato anche la debolezza di Will, e lei non poteva dimenticare il ruolo che aveva giocato nella loro rovina. Eppure, quando le parlava, Mary gli credeva totalmente. Ed era anche facile: la sua voce melodiosa con quel vago accento scozzese suonava gradevole all'orecchio. Boswell le dipingeva un nuovo mondo fatto di sontuosi banchetti, vestiti da sera e residenze di campagna; la faceva ridere con vivide descrizioni di persone di sua conoscenza. Eppure, al di là delle ostentazioni si percepiva la sua nobiltà d'animo. Odiava l'ingiustizia, mostrava una reale comprensione verso le debolezze, specialmente quelle femminili. Adorava i bambini, voleva una società più giusta e scuole per i poveri. Quando Boswell era con Mary, la cella sembrava accogliente e piena di luce; la sua conversazione era stimolante e la colmava

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di speranza. Le ombre, però, tornavano non appena se ne andava. Cosa voleva veramente da lei? Era difficile credere che facesse tutto quanto per pura bontà d'animo. Doveva esserci una ragione nascosta; tutti ne avevano sempre una. Ai primi di agosto, a poco più di un mese dall'arrivo a Newgate, Boswell tornò a farle visita, questa volta però in una stanzetta della prigione, arredata con un tavolo e alcune sedie. «Povero me, che caldo tremendo oggi.» Ansimava a causa della faticosa camminata fino alla prigione sotto il sole cocente. «Domani sono via, vado in vacanza» disse asciugando la fronte con il fazzoletto. «In Cornovaglia, mia cara, ma per te ho sistemato le cose in modo che - ne sono convinto - avremo buone notizie al mio ritorno.» Si mise a parlare di una lettera a Henry Dundas, che non aveva ancora ricevuto risposta. Mary ebbe la sensazione che le sue precedenti affermazioni circa la grande amicizia con quell'uomo fossero esagerate. Poi Boswell posò sul tavolo il pacco marrone che aveva in mano. «Qualcosa per te, cara. Non è nuovo, ma spero che ti tiri su di morale.» Mary lo aprì, e rimase a bocca aperta nel vedere che conteneva un vestito: quasi certamente smesso da una delle sue figlie, pensò. Un vestito celeste con la scollatura profonda bordata di pizzo bianco. «È delizioso» disse, arrossendo imbarazzata. In effetti era il genere di abito sognato da ogni donna, destinato a una signora di ceto elevato per il tè del pomeriggio o per una passeggiata nel parco, non certo a una reclusa di Newgate con la testa infestata dai pidocchi. «Vi ringrazio moltissimo, signor Boswell, ma non credo sia adatto a me.» «Gli amici mi chiamano Bozzie» fece lui in tono di rimprovero. «Io ti considero un'amica, e questo vestito è assolutamente adatto a te; sei ancora giovane, e con la prospettiva della libertà. Sarei felice di vedertelo addosso.» Mary mise da parte il vestito e sedette. «Mi rilasceranno davvero? E in questo caso, cosa farò?»

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«Sono sicuro che potrai andartene in giro libera» disse convinto. «E io, che sono tuo amico, ti troverò un posto dove stare. Mi farà molto piacere poterti mostrare Londra come si deve.» «Non posso pretendere da voi una cosa del genere, signore» disse lei lievemente in allarme. «Sarei già più che contenta di trovare un lavoro come cameriera o cucitrice.» Lui posò la morbida mano tozza sulla sua. «Prima di metterti a lavorare ti farà bene svagarti un poco» replicò lui guardandola negli occhi. «Sei pelle e ossa, hai bisogno di prendere qualche chilo e di un tonico per depurare il sangue. Dovrai anche imparare come si vive a Londra.» Nella mente di Mary irruppe violentemente l'immagine del tenente Graham. Boswell pensava di prenderla come amante? Lei sapeva che se fosse riuscito a farle ottenere la grazia, la gratitudine l'avrebbe costretta a essere condiscendente, e il pensiero la rivoltava. Boswell era grasso, e il suo alito puzzava di alcol: sarebbe stato insopportabile baciarlo, inimmaginabile andarci a letto. «Devo farmi strada da sola nel mondo» disse dopo un attimo di riflessione. «Vi sono veramente grata, Bozzie, ma se esco di qui non intendo pesare su di voi.» Lui rise e le fece il solletico sotto il mento. «Fammi un sorriso, Mary. Sei molto carina quando scompare questa tua espressione addolorata. Non essere troppo precipitosa, perché Londra, senza un amico, è una città molto difficile.» Poi, con grande sollievo di Mary, cambiò argomento e parlò della sua imminente vacanza in Cornovaglia. Il solo accenno a quel luogo le evocò vivide immagini di casa. Erano ormai passati quasi sette anni da quando si era imbarcata a Plymouth, e le parole di Dolly - “Scommetto che potresti fare il giro del mondo senza riuscire a trovare un posto bello come questo” - le tornarono alla mente. Ora che il viaggio per il mondo l'aveva compiuto, concordava con lei che non vi fosse niente di più bello del suo paese. Se chiudeva gli occhi, rivedeva il luccichio del mare sotto il sole estivo, sentiva l'odore delle alghe, l'urlo dei gabbiani.

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«Non sono mai stata a Truro, né a Falmouth e neppure a Land's End» fece lei quando Boswell le disse che intendeva visitare quei luoghi. «No!» esclamò lui sorpreso. «Davvero?» Mary sorrise: malgrado l'età, lui dimostrava l'entusiasmo per la vita di un ragazzo. «Quando ci andrete, capirete il perché. È vero che la distanza da Fowey non è grande, ma le strade sono brutte, poco più che sentieri.» «Mentre eri via, a Truro ci sono state delle sommosse» disse lui con un sospiro. «Sono dovuti ricorrere all'esercito per sedarle, ma poi sono scoppiati disordini dappertutto. La tensione e il malcontento sono così diffusi che sospetto che l'Inghilterra sia stata contagiata dalla Rivoluzione francese.» Boswell leggeva una grande quantità di giornali, e una delle cose che Mary amava maggiormente delle sue visite era la possibilità di dialogare su quello che succedeva fuori dalle mura della prigione. Poteva anche avere la compagnia dei suoi quattro amici, ma i loro argomenti di conversazione erano molto limitati. Si era stancata di rievocare la loro fuga e le persone che avevano conosciuto nel Nuovo Galles del Sud, e le interessava anche meno parlare dei prigionieri di Newgate. «Mi piacerebbe saper leggere» disse con rammarico. «Sono molto ignorante sui fatti del mondo.» Boswell posò nuovamente la mano sulla sua. «Mary, se lo desideri puoi imparare a leggere, ma non dire di essere ignorante perché sei molto più sveglia e saggia di tante persone di mia conoscenza che si credono tanto in gamba.» Si alzò in piedi. «Devo andare adesso. Cerca di non affliggerti, e stai certa che in Cornovaglia ti avrò sempre nei miei pensieri.» Le diede un bacio sulla guancia. «Metti il vestito, Mary, potrebbe farti ricordare i giorni in cui la tua giovane vita non conosceva ancora il dolore.» Mary indossò l'abito, e parecchie volte. Boswell aveva ragione: le faceva ricordare la sua giovinezza. Pensò a quando correva agli incontri con Thomas Coogan a Plymouth, a lui che la stringeva

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tra le braccia e la faceva girare vorticosamente, al piacere inebriante dei suoi baci. A Newgate non c'erano specchi, ma dagli sguardi degli uomini quando lei portava quel vestito avrebbe detto di essere meno sciupata e insignificante di quanto avesse creduto. Questa consapevolezza la aiutava; si ritrovò a pensare sempre più spesso alla libertà, e solo qualche volta disperava che sarebbe arrivata. ***

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Capitolo 19.

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Cosa ti tormenta, Mary?» Boswell allungò la mano sul tavolo del parlatorio di Newgate per prendere la sua. «Oggi non hai quasi aperto bocca!» Era una gelida giornata di febbraio. Mary, in prigione ormai da sette mesi, indossava uno dei due pastrani che erano stati regalati a James Martin dalle sue altolocate ammiratrici. Aveva anche le muffole e spesse calze di lana, e ciò nonostante temeva di morire di freddo. La sua cupezza, tuttavia, non era provocata solo dal gelo, ma anche dallo scoramento. «Ci daranno mai la grazia?» chiese con voce flebile. «Bozzie, ditemi ora se non succederà. Non posso continuare ad aspettare e sperare.» Ogni volta che andava a farle visita, Boswell le raccontava quanto si fosse impegnato per lei e i suoi amici. Per Henry Dundas - diceva - lui era diventato un vero assillo, perché continuava a importunarlo, come faceva con ogni altra persona influente. Intanto però i mesi passavano, e Mary era tormentata dal sospetto che le sue fossero solo vuote promesse. «Sono passati sette anni dal tuo primo arresto» disse Boswell in tono gentile. «Hai sopportato tutto con grande forza d'animo; di certo riuscirai a pazientare ancora un po', vero? O forse hai perso la fiducia in me?» Mary non volle ammettere che era proprio così, consapevole di

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quanto poco conoscesse del mondo oltre i cancelli della prigione, di avvocati, giudici o ministri dell'interno. Boswell la trattava da pari a pari; le raccontava di gente famosa che aveva incontrato, di feste cui aveva partecipato, di teatri e concerti, dando per scontato che lei sapesse a chi o a cosa si riferiva. Ma come sarebbe stato possibile? Mary era una ragazza di campagna, analfabeta. Per lei, ciò che più si avvicinava a un concerto era la banda che aveva visto sfilare nelle strade di Plymouth. Mai in vita sua si era seduta a una tavola apparecchiata con coltelli d'argento e bicchieri di cristallo. Per lei, Lord Falmouth, Evan Nepean e Henry Dundas - le persone che Boswell vedeva per perorare la sua causa - non erano altro che nomi. Ignorava chi fossero o che mestiere facessero e, in fin dei conti, lui poteva anche averli inventati per farle credere di darsi da fare. Suo padre diceva sempre: “Nel regno dei ciechi il guercio è re”, e lei ne aveva compreso il significato solo durante la permanenza a Port Jackson, dove appariva più sveglia della maggior parte dei deportati, di molti fanti della Marina e anche di qualche ufficiale. Là si era convinta di essere una donna in gamba, in grado di affrontare qualsiasi difficoltà. Londra e Newgate, invece, erano un altro paio di maniche rispetto a Port Jackson. La gente era scaltra e astuta, anche se non necessariamente più istruita di lei. Tutti - detenuti, secondini e visitatori esterni - vantavano conoscenze ed esperienze maggiori delle sue. Mary, che era stata in capo al mondo, dal giorno dell'arrivo a Newgate aveva capito quanto fossero in realtà limitate le sue capacità. Sapeva pescare un pesce, pulirlo e cucinarlo; magari sapeva anche condurre una barca a vela e dare una mano a costruire una capanna, ma poco di più. Aveva riposto tutte le sue speranze in Boswell perché era intelligente e colto, ma forse era stata una sciocchezza. Sospirò. «Credo di avere perso fiducia in me stessa.» «Più che comprensibile» disse lui, con gli occhi scuri addolciti

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dalla compassione. «Newgate tende a distruggere tutto ciò che varca il suo portone. Ma tu devi resistere, Mary. Guarda le donne qui intorno che si vendono per un bicchiere di gin, gli uomini pronti a rubare gli scarponi a uno che dorme, e ricorda a te stessa che non sei una di loro. Tu, con il coraggio e la sopportazione, hai conquistato i cuori della nazione. Ogni giorno la gente mi chiede come stai, e mi mette in mano del denaro per te.» «Davvero?» chiese Mary sorpresa. «E dov'è?» aggiunse con gli occhi socchiusi. Boswell ridacchiò. «Lo metto da parte per quando ne avrai bisogno. Non sarebbe saggio tenerlo qui, ma io prendo nota di ogni penny; quando sarai rilasciata, quei soldi serviranno a pagare affitto, vestiti, cibo e vetturini per farti portare dove meglio credi.» Lei annuì, rincuorata di avergli sentito dire “quando” piuttosto che “se”. «È possibile sapere con certezza quante settimane devo ancora aspettare?» Boswell scosse la testa. «No, Mary. Sto cercando in tutti i modi di forzare la mano a quelli che hanno il potere di rilasciarti, ma non posso fare di più.» Quando Boswell si congedò, Mary andò a cercare gli amici allo spaccio; malgrado l'avversione per quel posto, non se la sentiva di aspettare il loro ritorno in cella da sola. Come sempre, quando aprì la porta, si sentì svenire per il puzzo di alcol dozzinale, tabacco e sudore. Il locale era piccolo, simile a una cantina con pareti di pietra grigia, umide e fredde al tatto. L'ambiente era illuminato da una lanterna, e l'arredamento consisteva in un paio di panche malferme. L'aria entrava solo dalla porta, ma i bevitori abituali sembravano essersi adattati a quella cortina di fumo. Non c'era il solito affollamento, forse perché nella cella comune infuriava il tifo. Tuttavia, vi si aggiravano sedici uomini e quattro donne, due delle quali dovevano essere appena arrivate perché Mary non le aveva mai viste in precedenza. Una, con

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un chiassoso abito a righe viola e azzurre, beveva a garganella da una bottiglia seduta sulle ginocchia di un uomo e lasciava che questo le palpasse il seno. Come ogni volta che le capitava di entrare là dentro, a Mary venne il voltastomaco. Non perché disapprovasse che si bevesse là o da altre parti - per affrontare la prigione l'alcol era valido tanto quanto la preghiera -, ma perché quel posto sembrava tirare fuori il peggio dalla gente, che si lasciava andare a spacconerie e piagnistei, o infieriva mortificando gli altri nel profondo. Maldestri accoppiamenti, spesso accompagnati da commenti dal vivo da parte dell'esecutore, erano all'ordine del giorno. Una volta, entrando, aveva visto un uomo, dopo l'atto sessuale, spingere via dal grembo una donna, che poi era stata afferrata e usata da un altro tra gli applausi degli astanti. In quel luogo si ordivano anche congiure contro detenuti impopolari, e poiché dietro alla maggior parte delle feroci aggressioni a Newgate c'era l'invidia, Mary temeva spesso per sé e per i suoi amici. «Mary, mia piccola cara!» esclamò James nel vederla nel vano della porta. «Vieni a bere qualcosa con noi!» Da quando erano arrivati a Newgate, James aveva subito un notevole cambiamento. La notorietà, il fatto di saper leggere e scrivere, e il suo fascino naturale lo avevano distinto quasi subito dagli altri detenuti. Tuttavia, ciò che dava veramente lustro alla sua immagine erano le visite di una moltitudine di signore. Nei nuovi abiti eleganti, perfettamente rasato e con i capelli curati, ora poteva essere scambiato per un aristocratico irlandese. Con quella fronte troppo alta e il naso grosso non lo si poteva certo definire un bell'uomo, tuttavia portava con stile gli abiti, e seduceva con il suo calore umano e il senso dell'umorismo. Mary avvertì un tuffo al cuore nel vederlo avanzare barcollante verso di lei con il volto rubizzo per l'alcol. Peggio dell'ubriachezza, tuttavia, era la compagnia di Amos Keating e Jack Sneed, veri rifiuti della società, brutti nell'aspetto come nell'animo. I due avevano ammazzato a bastonate un'anziana e ricca vedova

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che li aveva sorpresi a svaligiarle la casa. Anche ora, in attesa dell'esecuzione, non mostravano alcun rimorso, anzi addirittura si vantavano della loro impresa. Nat, Bill e Sam non c'erano, e Mary sospettò che se ne fossero andati per evitare gente dello stampo di Amos e Jack. «Volevo parlarti un secondo, James» disse indietreggiando. «Ma posso aspettare.» Amos, il più basso dei due, le rivolse un sorriso lascivo rivelando i denti marci. «Troppa puzza sotto il naso per bere con noi?» Mary esitò. Non era nella sua natura subire in silenzio osservazioni del genere, ma quell'esitazione le fu fatale, perché Jack, il complice di Amos, un bruto di notevole altezza con la faccia colore del fegato crudo, attraversò la stanza con due lunghi passi e la prese per la vita. «A me mi piacciono quelle con la puzza sotto il naso» disse. «Hanno la fica più stretta.» Sollevò Mary serrandola come una morsa e fece per baciarla. Mary gli allungò uno schiaffo in faccia, ma lui reagì con una risata. «Vabbè, ribellati pure» ruggì deliziato. «A me non mi piacciono le donne che ci stanno subito.» Mary si divincolò ma non riuscì a liberarsi; quell'uomo la teneva troppo stretta, e, spronato dalle urla di incoraggiamento degli altri avventori, non aveva alcuna intenzione di mollare la presa. «Mollami» gridò tempestandolo di pugni. «James, aiutami!» Lo vide avanzare barcollando, ma Amos lo trattenne con un braccio intorno al collo: in quell'istante lei comprese di essere proprio in pericolo. Gli uomini di Newgate, detenuti o secondini, erano per la maggior parte convinti che le donne fossero tutte a loro disposizione. Mary si era sempre considerata ragionevolmente al sicuro per il suo status elevato di fuggiasca e per la vicinanza dei quattro amici. Era chiaro, invece, che Jack e Amos non avevano alcuna soggezione di lei e la ritenevano una facile preda. «Per una che si fa sbattere da quattro uomini non è certo un problema far fare un giro a uno nuovo» le sibilò Jack all'orecchio

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prima di scaraventarla a terra; poi si slacciò la cintura e le montò sopra. Il puzzo acre dei suoi abiti luridi le provocò un conato di vomito. Chiamò di nuovo James, urlando, ma riuscì appena a intravederlo perché gli altri bevitori si stavano stringendo intorno a loro per assistere alla prestazione di Jack. Dalla sua espressione afflitta, Mary immaginò che James fosse ancora trattenuto da Amos e ridotto all'impotenza. Lottò contro Jack tirandogli i capelli e graffiandogli il viso, ma lui le bloccò le mani con una delle sue e con l'altra le frugò frenetico sotto i vestiti. Era lievemente impedito dal pesante pastrano, e lei si divincolava come un'anguilla. «Lasciami stare, lurido bastardo» urlò Mary sputandogli in faccia. Nel tentativo di toglierselo di dosso, cercò disperatamente di fare presa sul pavimento con il tacco degli stivali, ma la superficie era troppo scivolosa. Le sue urla a pieni polmoni sembrarono infiammare ancora di più Jack e tutti gli astanti. Rammentò, disperata, che a Newgate le urla erano un fatto troppo comune per far accorrere qualcuno. Percepì l'eccitazione degli uomini intorno e un'improvvisa tensione nell'aria: se Jack avesse avuto la meglio, anche gli altri avrebbero abusato di lei. Tuttavia, dopo quello che aveva passato, non era certo intenzionata a subire uno stupro. Piuttosto la morte. Lottando con tutte le forze che le rimanevano, riuscì a liberarsi le mani e gli ficcò le unghie negli occhi, come artigli; poi gli tirò i capelli unti finché un ciuffo non le rimase tra le dita. Jack tentò di bloccarla con un bacio, ma lei reagì con un morso sul labbro. «Piccola megera» esclamò quasi ammirato, fermandosi per asciugare il sangue sulla bocca. Mary ne approfittò per inarcarsi e spostarsi un poco sulla sinistra. Jack, però, fu molto rapido: la strinse di nuovo con forza e tenendole schiacciati a terra schiena e braccio destro, si sfilò la cintura con la mano sinistra. «No, bastardo!» urlò James. Mary lo sentì, ma senza riuscire a vederlo; forse stava cercando invano di avvicinarsi per soccorrerla.

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Era chiaro che Jack intendeva usare la cintura per sottometterla a frustate o per legarle le mani. La vista degli astanti le parve in un certo modo persino peggio di ciò che Jack aveva in mente di farle. Malgrado la luce fioca della lanterna, sui loro volti si leggeva una gioia sadica. Di fronte a tanta depravazione, il suo terrore si trasformò in furia e la rese ancora più determinata a non offrire l'intrattenimento che già stavano assaporando. Mary era sempre stata un'attenta osservatrice, e negli ultimi sette anni questa sua dote si era, per necessità, ulteriormente affinata. Altre volte, in quel posto, aveva notato bottiglie vuote sparse a terra, ma adesso era troppo buio per vedere se ve ne fossero. Allungò così il braccio libero e lo passò rapidamente sul pavimento fino a toccarne una. Jack aveva le brache slacciate, e il pene che si protendeva come un palo sembrava un'insegna cilindrica da barbiere con la sommità violacea. Si lanciò di nuovo verso Mary con la cintura in mano, e lei comprese la sua intenzione di soffocarla per ottenere sottomissione e silenzio. Urlò ancora per distrarlo, e strinse forte le gambe in modo che, per aprirgliele, lui fosse costretto a lasciare un'estremità della cintura. Jack esitò, incerto su come procedere. Mary ne approfittò per spaccare la bottiglia sbattendola sul pavimento; poi, con un rapido movimento e tutta la sua forza, gli ficcò il coccio di vetro frastagliato sotto l'orecchio. Con un urlo di dolore, Jack si alzò di scatto sulle ginocchia e portò le mani al collo. Mary balzò in piedi e, ansimante per lo sforzo, con le mani sui fianchi abbassò gli occhi colmi di disprezzo sul suo aggressore. Nel locale calò il silenzio. Jack, ancora in ginocchio, roteava gli occhi terrorizzato con un orribile gorgoglio in gola, mentre fiotti di sangue sgorgavano tra le sue dita. «Che ti serva da lezione» sibilò Mary, poi gli allungò un calcio facendolo accasciare su un fianco. Quindi, digrignando i denti ancora con la bottiglia rotta in

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mano, si girò verso gli astanti, che per timore di essere a loro volta aggrediti indietreggiarono di un paio di passi. Per un attimo fu tentata di colpirli, ma quei miserabili non meritavano neppure il suo disprezzo; con i loro lineamenti affilati e i modi furtivi le ricordavano i ratti dell'ospedale di Batavia che infierivano anche sui deboli. «Se qualcuno pensa di mettermi di nuovo le mani addosso, lo ammazzo» ringhiò. «Adesso andate a cercare aiuto per lui; e tu, James, vieni con me.» Gli altri tre non erano ancora rientrati in cella benché cominciasse a farsi buio. James, che per tutte le scale si era profuso in scuse, si lasciò cadere sulla paglia, piegò le ginocchia fino al mento e vi appoggiò la fronte. «Sembri convinto che io voglia picchiare anche te» fece Mary con voce dura. «Forse dovrei, visto che frequenti certa gentaglia.» «E se muore?» gemette lui; nell'oscurità il suo viso appariva bianco come calce. Mary accese una candela. «Credi che importi a qualcuno? Quello è un assassino in attesa dell'esecuzione. Comunque non morirà per colpa mia; la ferita era superficiale. Se però questo ti tiene lontano dallo spaccio una settimana o due, vuol dire che a qualcosa è servito.» James rimase in silenzio. Mary, tremante e infreddolita, sedette a terra con la schiena appoggiata alla parete, consapevole di avere avuto la meglio su Jack non grazie alla forza o alla particolare intelligenza, ma per un semplice colpo di fortuna. «Mi odi?» sussurrò James poco dopo, con un tremolio nella voce. Lo spavento pareva avergli restituito la lucidità. «Perché dovrei? Non eri tu quello che cercava di violentarmi.» «Avrei dovuto trovare un modo per impedirglielo. Ti ho lasciata sola.» «Tutti gli uomini mi lasciano sola» commentò lei, e all'improvviso crollò. Si era detta che dopo la perdita dei suoi bambini

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nulla l'avrebbe più fatta piangere, e da quando erano arrivati a Newgate non le era mai capitato di cedere alle lacrime. Tuttavia, aveva dovuto lottare ancora una volta per difendersi; le parve di non avere fatto altro tutta la vita e di non avere più la forza di continuare. James attraversò la cella per andarle vicino. «Non piangere, Mary. Non sopporto di vederti così.» «Perché?» chiese lei in tono amaro con le guance rigate di lacrime. «Hai paura che se mi arrendo io non ci siano più speranze per voi?» Fu una risposta impulsiva, ma d'un tratto le apparve chiaro che corrispondeva alla realtà. Sin dai giorni sulla Dunkirk la gente si era sempre appoggiata a lei succhiandole le energie. Rammentò che quando si stavano insediando a Port Jackson tutti le chiedevano come si faceva questo o quello. Le rovesciavano addosso i loro drammi; la coinvolgevano su ogni problema, dalle cure per il figlio malato alla richiesta agli ufficiali di una coperta o una pentola. E così di continuo anche durante e dopo la fuga. Lei, però, a chi poteva appoggiarsi nel momento del bisogno? Era costretta a non lasciarsi andare perché non poteva contare su nessuno. «Senza di te saremmo nelle peste» rispose James con aria mesta, come se le avesse letto nel pensiero. «Ma tu lo sai quanto bene ti vogliamo io e gli altri?» «Non sono tanto convinta che gli uomini sappiano volere bene» rispose Mary tra i singhiozzi. «Mi è difficile credere che abbiano un cuore quando ricorrono allo stesso atto per dire a una donna che la amano, o per mostrarle tutto il loro odio e disprezzo.» James la strinse a sé con un braccio e la cullò contro il petto. «Sei molto cinica, Mary. Io ho fatto tante cose di cui mi vergogno, però non ho mai preso una donna con la forza. Un uomo può anche amare una donna senza pensare di portarsela a letto. Io, Nat, Bill e Sam ci sentiamo così nei tuoi confronti; per noi sei una sorella.»

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«Ma se ci tenete tanto a me, dove siete tutto il giorno?» sbottò lei. «Io me ne sto qui da sola per ore e ore. Ve ne andate non appena arriva Boswell; sono io a trattare con Spinks per il cibo, io a lavarvi i panni. Voi cos'altro fate, a parte bere?» «Ce ne andiamo quando arriva Boswell perché sappiamo che lui vuole vedere te» replicò James indignato. «Con Spinks ottieni di più tu perché gli piaci. Ti lasciamo sola perché pensiamo che tu preferisca così.» «Ah sì?» «Sai benissimo che è la pura verità a proposito di Boswell e Spinks» fece lui sulla difensiva. «Boswell ti ha forse detto qualcosa che ti ha spinto a venire a cercarmi allo spaccio?» Mary rifletté un attimo. Non aveva affatto dimenticato il dialogo tra lei e Boswell. «Ero semplicemente arrabbiata perché non ha nessuna notizia riguardo alla grazia» disse asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Comincio a pensare che non l'otterremo mai.» «Allora, forse è arrivato il momento che io scriva ai giornali» fece James. «Tanto perché non dimentichino che noi siamo ancora qui dentro; magari si muove qualcosa.» Mary era consapevole che i suoi amici non agognavano come lei alla libertà. La volevano, certo, ma ormai si erano abituati a Newgate e, fino a quando arrivava denaro per bere e mangiare, erano soddisfatti. Secondo lei, però, James viveva in un paradiso illusorio. All'inizio aveva avuto ambizioni: scrivere un libro e tornare al suo paese in Irlanda ad allevare cavalli; ora, invece, non si dedicava ad altro che al bere. Pareva non rendersi conto che le donne lo trovavano tanto affascinante perché era detenuto, e che una volta scarcerato non avrebbero mostrato alcun interesse a conoscerlo o aiutarlo. Doveva cominciare a pensare a quel giorno, e subito. Si drizzò sulla schiena e gli strinse il viso tra le mani. «Ascolta bene, James: devi smettere di andare allo spaccio. Non ti fa bene la compagnia di quella gente. Ti prego, dedica il tuo tempo a scrivere il libro, a leggere, a fare qualsiasi cosa tranne bere, altrimenti

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quando usciremo di qui ti metterai nei guai e finirai in galera un'altra volta.» «Non farmi la predica, Mary.» James si liberò dalla sua stretta. «Lo so benissimo.» «Ah sì? Allora sei molto più intelligente di me. Sai, io ci penso in continuazione, ma non ho ancora capito come sarà la mia vita, una volta fuori. Come fa una donna a guadagnarsi da vivere onestamente se non è in grado di leggere e scrivere? Chi ha la testa sul collo non prenderebbe mai a servizio nella sua bella casa una che è stata in prigione.» «Qualcuno c'è sempre» fece lui noncurante. Mary sollevò un sopracciglio con aria interrogativa. «Pensi sul serio che la puzza della prigione svanisca appena esco? Che fuori dai cancelli ci sarà ad aspettarmi una persona gentile, pronta a portarmi a casa sua e a correre il rischio che io scappi con l'argenteria?» James si irrigidì. Non gli era mai piaciuto quando Mary ricordava loro che erano tutti condannati per furto. «Ti aiuterà Boswell. Poi arriverà un tipo splendido che ti sposerà. Magari avrai altri bambini.» Mary fece una risatina amara. «Sembro una vecchia cornacchia, James; chi mai vorrebbe sposarmi?» «Io» fece lui stringendole forte la mano. «Anche Sam. Tu sei bellissima, Mary; forte, coraggiosa, buona, onesta. Chiunque con un briciolo di sale in zucca sarebbe felice di averti.» Mary stava per fargli notare che se avesse deciso di sposare uno di loro, i suoi problemi si sarebbero raddoppiati, non certo risolti. Si rendeva conto, però, che James le aveva fatto un complimento, e sarebbe stato scortese non apprezzarlo. «Parlando in questo modo puoi incantare la maggior parte delle donne di Londra» replicò con un mezzo sorriso. «Ma non me, James. Ti conosco troppo bene.» «Ma non conosci bene te stessa» fece lui, sporgendosi a baciarle la guancia. «Credimi, tu sei eccezionale, Mary. Vali molto più di quello che credi.»

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Con un bicchiere di brandy in mano, James Boswell si scaldava la schiena in piedi davanti al caminetto del salotto. Erano passate da poco le sette di sera e si sentiva svuotato sia nella mente che nel fisico. La settimana precedente aveva visto Mary tanto sconfortata da sentirsi obbligato a raddoppiare i suoi sforzi per lei. Dalle dieci di quel mattino aveva fatto visita agli amici e ai conoscenti più influenti per cercare di coinvolgerli. Nella maggior parte dei casi lo avevano ascoltato fino alla fine e avevano mostrato la loro solidarietà offrendo un contributo per il fondo di Mary, tuttavia nessuno era rimasto tanto colpito da mettere a disposizione tempo o competenze per farla rilasciare. Raggiunse la poltrona e si lasciò cadere pesantemente. Mentre si appoggiava allo schienale sorseggiando meditabondo il brandy, nella sua mente irruppe di nuovo la vivida immagine di Mary: i grandi occhi grigi che gli ricordavano il mare in burrasca, la folta chioma di riccioli bruni, il nasino impertinente e le labbra sempre pronte a incurvarsi in un caldo sorriso. Non la si poteva definire bella, per via della carnagione giallastra e dell'eccessiva magrezza; era segnata dalla durezza della vita e invecchiata anzi tempo per l'esposizione agli elementi naturali. Eppure in lei c'era qualcosa di indefinibile che colpiva. Si erano incontrati moltissime volte, da soli e anche con i quattro uomini. Ormai lui conosceva come le sue tasche ogni particolare della fuga e il carattere di ogni persona coinvolta, anche di chi era morto dopo la cattura. Aveva imparato a cogliere ciò che stava dietro le parole di Mary, perché lei tendeva a semplificare i racconti e di solito evitava di parlare del ruolo cruciale da lei svolto. Aveva detto in che giorno di dicembre era morto Emmanuel nell'ospedale di Batavia, accennato anche a come Will fosse arrivato in ospedale prima di loro, ma solo in seguito, da una sua osservazione casuale relativa al ricongiungimento con i compagni sul guardaporto, Boswell capì che era rimasta fino all'ultimo al capezzale del marito. Lui sapeva quali sentimenti nutrivano i quattro uomini nei

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confronti di Will, e perché; la stessa Mary era convinta che suo marito avesse tradito tutti loro. Quando Boswell le chiese come mai fosse rimasta con lui fino alla fine, lei alzò le spalle. «Non lascerei morire nessuno senza un po' di conforto» rispose. Era questa, a suo avviso, l'essenza di Mary. Per lei non era stato un atto nobile o generoso, ma semplicemente umano. Dopo la perdita del figlio, la maggior parte delle donne avrebbe voluto che il padre soffrisse, anche se era responsabile solo in parte. Mary avrebbe potuto usare quel tempo prezioso per fuggire con Charlotte, ma non lo fece. Rimase ad assistere Will. Non era stato facile comprenderla a fondo, perché era molto brava a cambiare argomento, a sdrammatizzare gli avvenimenti, ad attribuire agli altri il merito anche quando era suo. Boswell, tuttavia, era dotato di perseveranza e anche di ottima memoria; così, aggiungendo ai suoi racconti quello che di lei dicevano gli amici, veniva fuori la verità. Mary aveva coraggio, resistenza e intelligenza eccezionali. Era decisamente mascolina nel non lasciar trapelare le proprie emozioni nei momenti difficili, eppure per altri versi appariva molto femminile. Prendeva a cuore la sorte dei bambini nati in prigione e si preoccupava per la mancanza di cure nei confronti delle madri. Ammirava i panciotti stravaganti di Boswell; quando lui le portava un mazzolino di bucaneve le salivano le lacrime agli occhi e mostrava sincera preoccupazione se lo vedeva arrivare ansimante. Lui aveva notato la sua tenerezza verso gli amici, e come teneva pulita e ordinata se stessa e la cella: a Newgate era un comportamento quasi senza precedenti. All'esterno la temperatura era molto al di sotto dello zero, ma il fuoco crepitante nel caminetto rendeva il salotto di Boswell caldo e accogliente. Gli scuri e le pesanti tende di broccato tenevano lontani gli spifferi, la poltrona era morbida e confortevole. Gli bastava suonare il campanello e la governante gli portava tutto quello che voleva: un piatto di prosciutto o formaggio, una bottiglia di porto, o anche una coperta da mettere sulle ginocchia; gli scaldava il letto con un mattone rovente e appendeva

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accanto al caminetto la camicia da notte perché lui la trovasse calda al momento di andare a dormire; lo svegliava con un vassoio di tè, il fuoco già acceso e l'acqua tiepida pronta per le abluzioni mattutine. Quella sera a Newgate faceva sicuramente un freddo terribile, e Boswell mal sopportava l'idea che Mary cercasse di prendere sonno rannicchiata sulla paglia. Lei, però, non si lamentava mai di quelle condizioni, anzi si mostrava grata che le fosse stata risparmiata la cella comune. Solo quando le veniva in mente la natia Cornovaglia, dai suoi occhi traspariva la fame di aria pura, del mare con le onde maestose e delle brughiere selvagge. Con il viaggio in Cornovaglia, Boswell era riuscito a comprendere meglio alcuni aspetti del carattere di Mary. Aveva giudicato deprimente quella regione piovosa, con una povertà in alcune zone persino peggiore che a Londra, ma quando era uscito il sole e gli si era parato innanzi uno scenario spettacolare, si era ricreduto. I minuscoli villaggi di pescatori insinuati al riparo delle scogliere erano lo specchio della tenacia degli abitanti, che vivevano di pesca, facevano i minatori o gli agricoltori. Per quanto poveri, non avevano atteggiamenti servili nei confronti dei ricchi proprietari terrieri. Per tutta la durata del soggiorno, James aveva avuto l'impressione che, se lo avesse voluto, la gente comune avrebbe avuto la forza e il coraggio di alzare la testa per riprendersi a buon diritto ciò che era suo. Mary era in tutto e per tutto una di loro, forte e indomita come un pony della brughiera, tenace come una patella nell'anfratto di uno scoglio, e profonda come il pozzo di una miniera. La settimana precedente, tuttavia, Boswell aveva pensato che stesse crollando, che avesse raggiunto il limite della sua stoica sopportazione. Temeva che per le terribili condizioni della prigione potesse diventare vulnerabile alle malattie e non le rimanessero più le forze per combatterle. Se all'inizio con la decisione di difenderla lui aveva forse cercato la gloria, adesso non gli importava affatto. Desiderava davvero

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tirarla fuori da quel posto spaventoso, vederla rifiorire con buon cibo e bei vestiti, e con la libertà. Di recente un amico l'aveva stuzzicato chiedendogli se per caso a Londra non vi fossero abbastanza prostitute per soddisfarlo senza che dovesse salvare una carcerata. Una volta avrebbe riso a un'osservazione del genere, e anche cercato di portarsi a letto la donna non appena rilasciata. Mary, invece, gli aveva toccato nel profondo qualcosa che non aveva niente a che fare con la lussuria. Lo irritava che i suoi amici non lo capissero. Aveva sempre avuto scarsa considerazione per le donne, ma adesso era convinto che Mary rappresentasse per lui l'occasione di redimersi. Malgrado avesse amato sinceramente la moglie Margaret, non si era fatto scrupolo di trascurarla e tradirla molte volte. Quante prostitute, cameriere e spesso giovani donne innocenti si era portato a letto! La sua colpa non era stata la mancanza di sentimenti, perché molte di loro lo avevano coinvolto emotivamente, ma quella di avere svolazzato come una farfalla di fiore in fiore per poi allontanarsi quando la dolcezza del nettare svaniva. Nei riguardi di Mary, invece, non avrebbe perso interesse perché almeno una volta nella vita voleva portare a compimento qualcosa, a tutti i costi. Il suo scopo non era solo ottenere la grazia per lei e i suoi amici, ma condurla a una vita stabile e prospera. Scolò il bicchiere fino in fondo e allungò la mano verso la bottiglia di cristallo per versarsi ancora un po' di brandy. Non poteva scegliere un periodo peggiore per perorare la causa di Mary. Il paese era in rivolta da tre anni. Il malcontento dei poveri era giustificato: la legge sulle recinzioni costringeva molti di loro all'abbandono della terra per raggiungere le città, e gli artigiani scoprivano che con l'avvio dei nuovi processi industriali la loro perizia non serviva più. Scoppiavano violenti tumulti, e il governo era nel panico perché uomini come Thomas Paine incitavano alla rivolta per l'abolizione della monarchia e la presa di potere da parte della classe lavoratrice. I rivoltosi venivano arrestati, giudicati e condannati alla deportazione per evitare che altri fossero contagiati dalle loro idee

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incendiarie. Henry Dundas, che inizialmente aveva acconsentito alla concessione della grazia ai cinque deportati rientrati in patria, negava di avere fatto a Boswell alcuna promessa e lo accusava di avere una fervida immaginazione. Lui, allora, si era rivolto a Evan Nepean, il sottosegretario di Stato responsabile dell'organizzazione della Prima Flotta di deportati; si diceva che fosse rimasto allibito alla notizia della morte di moltissimi detenuti sulle navi della Seconda Flotta. In linea generale gli stava a cuore il benessere dei deportati, ma nel caso dei cinque fuggiaschi era convinto che il governo si fosse già dimostrato abbastanza clemente evitando di impiccarli, e non vedeva quindi ragione di concedere loro la grazia. James provò un lieve senso di vergogna per avere lasciato credere a Mary che Henry Dundas fosse un suo vecchio, intimo amico. L'unica cosa che li accomunava consisteva nell'essere stati compagni di scuola, per giunta senza alcuna reciproca simpatia. Comunque, si sarebbe fatto vivo con lui il giorno successivo, e avrebbe anche scritto a Lord Falmouth. «Non posso e non voglio arrendermi» mormorò tra sé. «Se persisto, il diritto vincerà.» Mentre James si appisolava davanti al calore del caminetto, Mary quella sera giaceva al buio sveglia, con il viso rigato di lacrime. Aveva tanto freddo da non riuscire neppure a rabbrividire; non sentiva più le dita dei piedi e le dolevano tutte le ossa del corpo. Udì il lamento di qualcuno in lontananza; quel grido non era di dolore ma di disperazione e faceva eco ai suoi sentimenti. Era così stanca di lottare che ancora una volta la morte le parve auspicabile. Non ricordava più perché un tempo la sopravvivenza fosse stata tanto importante per lei, per che cosa valesse la pena di vivere. ***

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Capitolo 20.

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Mary, in piedi su una cassetta, guardava fuori dalla finestra della cella. «Che giorno è oggi, James?» chiese, voltandosi verso di lui. Riusciva a vedere solo il cielo e il tetto della prigione di fronte, ma era infinitamente meglio osservare nuvole e uccelli piuttosto che pareti. James, seduto sul pavimento, smise di scrivere e alzò gli occhi su di lei. «Il 2 maggio» rispose. «Lo vuoi sapere per qualche ragione particolare?» Era metà mattina e si trovavano tutti in cella; Sam intagliava un animale da un pezzo di legno; Nat si cuciva una toppa sulle brache, Bill intrecciava meticolosamente fili di paglia in forme fantasiose. Le chiamava “bambole di saggina” e sosteneva che nel villaggio nel Berkshire della sua infanzia venivano considerate un simbolo di fertilità. Più di una volta James aveva detto scherzando che se nella prigione vi fosse stato un improvviso incremento delle nascite, la responsabilità sarebbe stata sua. Dal giorno dell'aggressione a Mary, i suoi compagni passavano molto meno tempo allo spaccio. Jack era sopravvissuto alla ferita solo per essere impiccato dopo un paio di settimane. Da allora, lei si era vista trattare con estrema cautela dai detenuti, ma poiché continuavano ad arrivarne di nuovi - molti dei quali

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persino più pericolosi di Jack - i quattro amici avevano seguito il suo consiglio di tenersi alla larga. Si erano tutti ingegnati a trovare modi per riempire le ore. Mary sferruzzava uno scialle, gli altri giocavano a carte, andavano a trovare altri detenuti nelle loro celle, e nelle belle giornate uscivano in cortile. Spesso rievocavano il Nuovo Galles del Sud e la loro fuga, su cui James si era messo infine a scrivere un libro. Allo spaccio andavano solo qualche volta, di sera, per un paio d'ore. «Il 2 maggio!» esclamò Mary. «Allora due giorni fa era il mio compleanno, e noi siamo qui da quasi undici mesi.» Il compleanno per lei contava soltanto perché cadeva la vigilia del Calendimaggio, una festa molto sentita in Cornovaglia. A Newgate non ne parlava mai nessuno, quindi forse i londinesi non lo celebravano. «Sembra di esser qui da una vita. Comunque pare non stia bene chiedere l'età a una signora» commentò James con un sorriso impertinente. Mary saltò giù dalla cassetta e vi sedette sopra. «Tu sei più vecchio di me» replicò. «Io faccio fatica a tenere il conto degli anni» disse Bill pensieroso, grattandosi la testa calva. «Non sono sicuro se ne ho trentadue o trentatré.» «Io, a venticinque, resto sempre il più giovane» intervenne Nat. Mary odiava ammettere di averne ventotto; le sembravano moltissimi, e si sentiva vecchia. Si trovava a Newgate da così tanto tempo che i detenuti conosciuti il giorno dell'arrivo erano stati per la maggior parte impiccati, portati via per essere deportati, o erano morti per le febbri. «Sta arrivando qualcuno» annunciò Sam alzando gli occhi dal suo intaglio. Aveva ragione: dal corridoio proveniva un rumore secco di passi decisi. Non era Spinks, che trascinava sempre i piedi, e gli altri detenuti camminavano lentamente. Dapprima Mary aveva trovato strana quell'andatura, ma poi si era accorta che anche lei

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si muoveva lentamente: in effetti, a cosa serviva correre quando bisognava riempire una giornata lunga e vuota? I passi si fermarono di fronte alla cella, e la porta venne aperta con una spinta. Era uno degli uomini di guardia all'ingresso del carcere: alto, con le spalle larghe e il volto butterato. L'avevano visto il primo giorno, e poi quando erano stati tradotti in tribunale. «Mary Broad! Ti vogliono sotto.» Mary e gli amici si scambiarono un'occhiata interrogativa. Di solito era Spinks ad annunciare le visite. «Sarà il re» commentò James, ridendo poi della propria battuta. Mary raccolse lo scialle e seguì la guardia giù per le scale, attraverso il cortile e all'interno del piccolo ufficio da cui era passata il giorno dell'arrivo. «Signor Boswell!» esclamò nel vederlo. La marsina rosso scuro bordata da una treccia nera e il tricorno con coccarda e piume rosse gli conferivano un aspetto ancora più sfarzoso del solito. «Mi aspettavo qualcosa di brutto. Perché la guardia non ha detto che eravate voi?» Boswell lanciò un'occhiata alla guardia, poi si illuminò di un sorriso gioioso. «Perché sono in visita ufficiale.» Le mostrò un foglio che teneva nascosto dietro la schiena. «Questa, mia cara, è la tua grazia!» Mary, troppo sbalordita per parlare, batté le palpebre e si limitò a guardarlo stringendo il bordo del tavolo per sorreggersi. «Be', di' qualcosa» fece lui ridendo. «O non ci credi finché non te lo leggo?» Si schiarì la voce, fece un ampio inchino come se dovesse consegnare un proclama al re, e sollevò il foglio. «“Premesso che nei confronti di Mary Bryant, nata Broad, ora detenuta a Newgate...”» lesse ad alta voce, prima di interrompersi per sorriderle. «Continuate» sussurrò Mary, che temeva di svenire dall'emozione. «“... permane l'accusa di essersi sottratta alla custodia legale

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prima della scadenza dei termini della pena a lei comminata, la deportazione, e premesso che è stata a Noi umilmente presentata circostanziata istanza in suo favore, siamo indotti a concedere la Nostra grazia e la Nostra clemenza e la remissione completa del suddetto reato.”» Al termine della lettura, Boswell disse che la lettera era firmata da Henry Dundas su ordine di Sua Maestà. Mary, tuttavia, non riusciva ancora a crederci: l'unica parola che aveva un senso per lei era “grazia”. «Oh, Bozzie!» esclamò ansimando. «Ce l'avete fatta! Sono libera?» «Sì, mia cara» fece lui raggiante. «Da questo preciso momento. Puoi uscire dai cancelli, proprio adesso, con me. L'ultima notte a Newgate l'hai già trascorsa.» Mary si precipitò ad abbracciarlo e baciarlo sulle guance. «Siete una persona meravigliosa» disse colma di esultanza. «Come potrò mai ringraziarvi?» Con quel volto sempre rubizzo era difficile dire se Boswell fosse arrossito; comunque le afferrò le mani e le strinse forte mentre nell'occhio gli spuntava una lacrima di commozione. Mary non l'aveva mai baciato, né aveva tentato di abbracciarlo in precedenza, e lui si era aspettato che accogliesse la notizia con l'abituale distacco. Vederla tanto trasportata dalla gioia fu un ringraziamento sufficiente. . «Mi puoi ringraziare raccogliendo in fretta le tue cose, così andiamo a festeggiare.» Mary mosse due passi verso la porta, poi si bloccò di colpo per voltarsi verso di lui. Il sorriso era svanito, rimpiazzato da un'espressione di grande ansia. «E gli altri?» domandò in poco più di un sussurro. «Hanno avuto anche loro la grazia?» Era arrivato il momento che Boswell temeva maggiormente. «Non ancora» rispose cauto, timoroso che lei rifiutasse di andarsene senza di loro. «Ma la otterranno a tempo debito. Me l'hanno promesso.»

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Mary esitava. «Mary, saranno liberati» insistette. «Vedrai che sono felici per te. Per loro potrai fare di più da fuori che bloccata qui dentro.» Allora lei si avviò, a passo lento e con la testa china, come assorta nei propri pensieri. Sulla soglia della cella, Mary annunciò la notizia, ma scoppiò in lacrime quando dovette spiegare che la grazia era solo per lei e gli altri dovevano aspettare ancora. Immaginandoli arrabbiati, feriti e risentiti, si coprì il volto in attesa di una raffica di insulti. James rimase sbalordito, ma nel vedere quel suo gesto si vergognò che lei si aspettasse invidia per la sua buona sorte. Mary meritava la libertà più di chiunque altro perché i lutti subiti le erano costati enormi sofferenze. Con un'occhiata avvertì i compagni di non uscirsene con battute meschine. «A noi sta più che bene, giusto, ragazzi?» «Ma io volevo che andassimo via da qui tutti insieme» fece lei mentre le lacrime le rigavano le guance. «Come posso andarmene senza di voi?» I quattro scattarono in piedi come un sol uomo, commossi dalla sua incrollabile lealtà. «Non fare la testona» continuò James. «Da sempre sapevamo che saresti andata via per prima, quindi togliti dai piedi e goditela.» «Te lo meriti più di tutti noi» aggiunse Sam con il suo caldo sorriso che gli ammorbidiva il volto spigoloso. Nat le allungò affettuosi colpetti sulla spalla, mentre Bill tirò un pugno in aria con un grido di gioia. Mary si asciugò le lacrime, commossa che gli amici nascondessero la delusione dietro una tale dimostrazione di contentezza. «Siamo stati insieme così tanto che non so se ce la farò senza di voi.» «Fuori di qui!» intimò Sam indicando la porta con un gesto teatrale. «Finalmente non sentiremo più le tue continue prediche.»

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«La cella diventerà un letamaio, berremo tutto il giorno, e faremo venire qui le puttane» ringhiò Bill, ma le labbra gli tremavano. «Io mi prendo la tua coperta» pigolò Nat. «E più pesante della mia.» Mary guardò quei volti con occhi colmi di lacrime. Quattro sorrisi spavaldi, quattro cuori generosi; ognuno le era caro per più di mille ragioni; ognuno aveva messo a nudo se stesso rivelando agli altri il meglio e il peggio di sé. Avevano lottato, riso e pianto insieme. Ora lei doveva andare; doveva imparare a vivere senza i compagni. «Niente sbronze e niente risse; e tu, James, finisci il libro» ingiunse con un filo di voce ricadendo nel suo ruolo materno, perché sapeva che se avesse fatto trasparire il proprio affetto si sarebbe commossa. «Tornerò a trovarvi, e quando anche voi riceverete la grazia festeggeremo insieme.» Sfilò il vecchio vestito per indossare quello celeste regalatole da Boswell; poi svuotò della paglia il sacco di lino che si era portata dietro fin dalla Gorgon e che usava come guanciale, e vi infilò le sue poche cose. James si avvicinò per abbottonarle il vestito sulla schiena, poi la fece voltare per metterle un ricciolo ribelle dietro l'orecchio. «Dio ti benedica, Mary» disse con la voce rotta dall'emozione. La baciò sulla guancia, poi la strinse forte. «Sarà fortunato l'uomo che ti avrà.» Mary si staccò in silenzio da lui per abbracciare e baciare gli altri tre. Con Sam si trattenne un po' più a lungo. «Riga dritto» gli sussurrò. «E trovati una donna degna di te.» Si fermò sulla porta per lanciare loro un'ultima occhiata. Rammentò che quando aveva visto uscire James a passo di marcia dalla Dunkirk per andare a lavorare con Will lo aveva considerato un tipo losco e sgradevole. Lui rappresentava l'ultimo legame con quella puzzolente nave prigione, eppure adesso, grazie alla sua capacità di incantare le signore, sembrava più un gentiluomo che un recluso. Nat le era parso, a prima vista, un tipo ambiguo. Quel ragazzo

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grazioso con la chioma lucente e le carni morbide l'aveva indotta a chiedersi come fosse riuscito a sopravvivere sulla Neptune. Ora, la rattristava l'idea di averlo mal giudicato: non c'era nessuna differenza con quello che lei aveva fatto con il tenente Graham. Sam non aveva le fattezze per comprarsi qualche comodità sulla Scarborough. Quando lei lo aveva dissetato sul molo, era prossimo alla fine; aveva lottato per la propria vita nello stesso modo in cui, insieme a lei, aveva lottato contro gli elementi per la salvezza di tutti. Quanto a Bill, era rimasta colpita dalla sua forza quando, dopo essere stato fustigato, se ne era andato via sulle sue gambe; tuttavia, aveva imparato ad apprezzarlo soltanto dopo la fuga. Il tempo aveva dimostrato che sotto la sua dura scorza c'era un uomo gentile e corretto. Nessuno di loro aveva avuto sulla sua vita un effetto dirompente: erano semplicemente quattro persone comuni che nella disperazione erano diventati come fratelli per lei. Aveva scolpita nel cuore ogni sfaccettatura della loro personalità, e quei cari volti sarebbero rimasti per sempre impressi nella sua mente. «Vi voglio bene» sussurrò con gli occhi di nuovo colmi di lacrime. «Vi prego, non mettetevi più nei pasticci. Voglio che siate onesti e felici.» Poi corse via mentre le lacrime le scendevano sul viso. «Ho trovato una sistemazione per te in Little Titchfield Street» disse Boswell mentre la faceva salire su una carrozza a due ruote. Nel notare il suo viso arrossato dal pianto aveva intuito che era sconvolta per il distacco dagli amici. Sentiva, però, che quella separazione sarebbe stata un bene per lei: non era del tutto convinto che dopo il rilascio quegli uomini diventassero onesti e laboriosi, e non voleva che la influenzassero negativamente, adesso che era libera. «Allora, qui ci sono i tuoi soldi» disse estraendo dalla tasca un

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libriccino. «Più di quaranta sterline, una somma principesca. Li userò per pagarti l'affitto; inoltre avrai bisogno di vestiti. Adesso, però, devi solo goderti la vita.» L'emozione di essere libera e vedere Londra attenuò la tristezza del commiato dagli amici. Boswell le disse che la parte della città che aveva già visto nel tragitto dai Docks a Newgate era una delle più squallide, e che ora stavano raggiungendo una zona rispettabile. Mary non poté fare altro che fissare in uno stupito silenzio ciò che le passava davanti. Era una giornata primaverile, piena di sole; le strade affollate costringevano il cocchiere a tenere i cavalli al passo. Carretti dai pesanti carichi con le ruote cerchiate di ferro e carrozze di varie dimensioni facevano un gran fracasso sulla superficie dissestata della strada. Scansando agilmente i numerosi mucchietti di sterco di cavallo, le portantine passavano serpeggiando tra i mezzi più pesanti. Signore con abiti eleganti e graziose cuffie di tutti i colori dell'arcobaleno andavano in giro per acquisti; uomini in marsina e cappello come Boswell procedevano a passo spedito come se avessero affari urgenti da sbrigare, mentre venditori ambulanti offrivano i loro articoli con voci stridule. C'erano poi esili fioraie bambine con cesti di primule, giovani strilloni con giornali, e commercianti corpulenti che scaricavano merci dai carri, o trasportavano cose, di ogni genere, dalle scale ai mobili. Tuttavia erano soprattutto i grandiosi palazzi a catturare l'attenzione di Mary. Abitazioni private, banche o luoghi d'affari che fossero, avevano gradini di marmo, colonne e pareti in pietra cesellata come quelle che aveva visto solo nelle chiese. Edifici molto diversi tra loro, a ridosso l'uno dell'altro come se i costruttori disponessero di poco spazio, sembravano voler offuscare tutto il resto, ognuno con il proprio splendore. Alcuni, per metà di legno e dall'aria molto antica, pendevano pericolosamente verso la strada. Altri, nuovi, eleganti, di due o tre piani, esibivano alte e raffinate finestre ad arco. C'erano anche molte carrozze eleganti. Alcune avevano ruote

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rosso vivo, altre cavalli con il pennacchio, altre ancora impeccabili lacchè in livrea rossa e oro. Boswell le additava ciò che immaginava potesse interessarle, come gli uomini provenienti dal mercato di Smithfield con quarti di bue sulle spalle, le Inns of Court dove lui aveva compiuto gli studi da avvocato, Lincoln's Inn Fields - la più grande piazza della città -, e molte bellissime case che appartenevano a suoi conoscenti. Le raccontò del Grande Incendio e della successiva ricostruzione di Londra. Mary lo interruppe mentre le parlava di un caffè dove un tempo si incontrava con il dottor Johnson. «Guardate!» esclamò, indicando una donna che spingeva una sorta di carrozza per infanti, uno splendido veicolo dalle grandi ruote in cui stava un piccolo che agitava eccitato le manine. Mary non aveva mai visto una cosa del genere. «Qui a Londra la gente è tanto ricca che i bambini hanno una carrozza tutta per loro?» Boswell ridacchiò: tipico delle donne essere più interessate a un bambino su un veicolo con le ruote che ai suoi amici importanti. D'altro canto, una persona incapace di leggere e scrivere non avrebbe potuto comprendere perché mai qualcuno si prendesse il disturbo di compilare un vocabolario, e neppure sentire la necessità di usarlo. «Nei parchi di Londra vedo così spesso carrozzine spinte da bambinaie che non ci faccio più caso. La maggior parte delle madri, tuttavia, non le usa, non solo per il costo, ma perché sono molto ingombranti e poco maneggevoli.» «Però sono comode» fece Mary. «Specialmente se hai due o tre figli.» «Oserei dire che le donne comuni preferirebbero avere l'acqua che arriva in casa con le tubature piuttosto che una carrozzina. Questo eviterebbe loro tante fatiche. Alcuni ricchi hanno stanze solo per fare il bagno, e l'acqua sporca viene facilmente eliminata aprendo una piccola saracinesca.» Mary lo guardò incredula. «Davvero?» «Oh, sì. Hanno costruito intere strade di case a schiera con

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tubature di olmo per l'acqua e relativi scarichi. Forse un giorno, quando queste comodità si diffonderanno, sarà più piacevole passeggiare per la città.» Mary si mise a ridere perché proprio davanti a loro una cameriera stava scaricando il contenuto di un pitale da una finestra del secondo piano. «Io ho avuto la sfortuna di ritrovarmi inzuppato da quella roba dozzine di volte» continuò Boswell con tono mesto. «Penso che canali di scolo adeguati dovrebbero essere considerati una priorità dal governo.» «Non credevo che Londra puzzasse come Plymouth» fece Mary arricciando il naso. «Invece puzza, eccome.» «Con tutti questi cavalli cosa possiamo aspettarci?» Boswell ne indicò almeno una trentina con un cenno della mano. «Nei giorni di pioggia le ruote di carri e carrozze ti schizzano addosso il loro sterco. Si è cercato di impedire il transito del bestiame in città, ma senza successo.» «Almeno gli abitanti di Londra sembrano in genere sani e ben nutriti» osservò Mary. Boswell sospirò. «Questa è una zona rispettabile della città. In altre, come St Giles, è tutta un'altra storia. Ma non ho intenzione di mostrarti miserie e squallori; ne hai già visti abbastanza.» La pensione di Little Titchfield si trovava in una casa a schiera, stretta e alta, con un battiporta di ottone e i gradini più bianchi che Mary avesse mai visto. Quando Boswell pagò il cocchiere, fu presa da un attimo di panico: era impensabile che una persona come lei potesse alloggiare in un posto del genere. Invece, la donna dalle guance rosee e paffute con il copricapo orlato di pizzo che aprì il portone e che Boswell le presentò come la signora Wilkes non pareva turbata o sorpresa dal suo arrivo «Entra, mia cara» la invitò. «Il signor Boswell mi ha detto tutto di te, e sono sicura che noi due andremo d'accordo.»

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Senza mai fermarsi a prendere fiato, fece qualche commento sulla giornata meravigliosa, disse che le avrebbe fornito colazione e cena, che era felice di farle il bucato e che lei doveva considerare le stanze come casa sua. «Ti sto scaldando l'acqua per il bagno» continuò, ma a voce bassa, come se fosse un argomento un po' sconveniente. «Il signor Boswell ha detto che di sicuro ti avrebbe fatto piacere. Ti chiedo solo di portarla tu di sopra, perché per me sarebbe troppo faticoso.» Mary non poté fare altro che annuire, perché a simili incredibili comodità e magnificenze si era accostata solo sbirciando nelle finestre delle case più sfarzose di Plymouth. Dallo stretto ingresso con il pavimento di legno tirato a lucido scorse uno spesso tappeto con le frange, sedie imbottite e un tavolino di legno lustro con dozzine di piccoli soprammobili. Eppure, il modo in cui la signora Wilkes continuava a guardare Boswell, come a cercare la sua approvazione, suggeriva che lui fosse abituato a lussi anche maggiori. Mary, priva di forze per lo stupore, era penosamente consapevole di portarsi addosso il puzzo di Newgate e molti dei suoi microscopici compagni di cella. «Adesso ti affido alle tenere cure della signora Wilkes, così ti sistemi» fece Boswell dandole qualche colpetto sulla mano. «Hai bisogno della compagnia di una donna, oltre che di riposo e quiete. Passo a prenderti alle sei e mezzo per la cena.» Un paio d'ore dopo Mary era distesa a letto, troppo eccitata per riuscire a dormire malgrado la stanchezza. Aveva due stanze all'ultimo piano; quella che dava sulla strada era il soggiorno, con tavolo, sedie e due poltrone di legno, una delle quali a dondolo. La camera da letto, sul retro, conteneva un letto di ferro, un armadio per i vestiti e una toeletta con il portacatino. Rispetto a quanto visto al piano inferiore, le sue stanze erano arredate in

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modo semplice, con mobili simili a quelli di casa sua a Fowey. Tuttavia, dopo tanti anni di stenti in condizioni di terribile disagio, le sembravano una reggia, e quasi tutto ciò che vedeva la commuoveva fino alle lacrime. Dopo avere trasportato con gioia i secchi d'acqua calda su per le scale, si era svestita e infilata nella tinozza ridendo. Non riusciva a ricordare l'ultima volta che si era lavata con l'acqua calda, figuriamoci potervisi immergere. Non ricordava l'ultima volta che aveva avuto una porta da chiudersi alle spalle. Mentre si strofinava la pelle e i capelli per togliersi il puzzo di prigione, si sentì rinascere. Una volta rimaste sole, la signora Wilkes fu piacevolmente schietta con lei. «Penso sia proprio meglio bruciare tutti i vestiti» disse. «Il signor Boswell ne ha portati altri ieri sera; di sua figlia, credo. Tra un giorno o due usciremo a comprarne di nuovi. Nell'armadio comunque puoi trovare tutto quello che ti serve. Mi raccomando: lavati bene i capelli.» La camera era inondata dalla luce del pomeriggio e, mentre si metteva a sedere sul letto per guardarsi allo specchio della toeletta, Mary rimase sbalordita nel vedere splendere i suoi capelli come quando era ragazza. La signora Wilkes le aveva portato di sopra un po' d'acqua leggermente acetata per il risciacquo. Le avrebbe reso lucenti i capelli, sosteneva, anche se Mary sospettava servisse per uccidere gli ultimi pidocchi. Quale che fosse la ragione, quell'acqua acetata aveva fatto un miracolo: i suoi capelli non erano mai stati tanto morbidi e belli. Le sarebbe piaciuto scoprirsi un viso più grazioso di quanto immaginasse, ma purtroppo non fu così. La pelle era spenta e ruvida, gli occhi increspati dalle rughe, le guance scavate. La signora Wilkes tuttavia le aveva fatto inghiottire un cucchiaio colmo di malto ripetendole convinta che con l'aria buona, il cibo sano

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e una grande quantità di sonno, nel giro di un paio di settimane avrebbe stentato a riconoscersi. La felicità, comunque, le aveva portato un po' di colore alle guance. Aveva dovuto chiedere l'aiuto della signora Wilkes non solo per allacciare il bustino, ma anche perché le consigliasse in che ordine indossare gli indumenti intimi. Per prima andava messa la graziosa e impalpabile sottoveste: con la scollatura bassa e stretta al seno da un nastro, profumava di lavanda e le arrivava alle ginocchia. Poi, prima del bustino, la sottogonna bordata di pizzo e una gonna di cotone azzurro. La signora Wilkes dovette spiegarle che il bustino con le linguette all'interno della vita doveva essere indossato sulla gonna con la parte appuntita sul davanti. Infine, era il momento del vestito bianco e blu con il panier sui fianchi, quasi un soprabito che le lasciava in vista il bustino, la sottoveste e gran parte del piccolo seno. «E la moda di Londra, mia cara» assicurò la signora Wilkes nel cogliere la sua espressione disorientata e ansiosa. «Almeno hanno tolto dalla circolazione quelle stupide gonne con il guardinfante che mi toccava indossare alla tua età. Su, lascia che ti aggiusti i capelli: non puoi portarli sciolti come una zingara.» Mary posò la mano sul copriletto e sorrise felice. Era un tessuto semplice color biscotto, ma ai suoi occhi appariva come seta. La signora Wilkes si sarebbe resa conto che lei non dormiva in un letto vero da quando, otto anni prima, se ne era andata da casa diretta a Plymouth? Anche per la gente comune del suo paese, lenzuola e guanciali erano un lusso raro: a sua madre li aveva portati lo zio Peter da uno dei tanti viaggi all'estero. E poi, la signora Wilkes avrebbe capito che una stanza ammobiliata per lei era una cosa strana, dal momento che per molti anni si era seduta su un pavimento di terra battuta oppure di pietra coperto di paglia? Neppure Boswell avrebbe probabilmente compreso fino in

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fondo che per qualche tempo le sarebbe sembrato tutto miracoloso, inconsueto e forse persino inquietante. Come avrebbe potuto? Finché non era arrivata in quel posto, neanche lei l'aveva previsto. «Chi è questa meravigliosa creatura?» chiese Boswell in tono scherzoso quando tornò a prenderla per portarla a cena. «Siamo sicuri che non ci sia un errore, signora? Il vostro nome non può essere Mary Broad!» «Invece sì, signore» ridacchiò lei. «A quanto pare l'acqua di Londra ha poteri magici.» Mary sapeva che la sua trasformazione non era dovuta semplicemente a un bagno e ad abiti nuovi, ma al senso di libertà. Era rimasta tutto il pomeriggio nella pensione, ma il pensiero di poter varcare, se voleva, la porta d'ingresso e mescolarsi alla gente per strada era come un ricostituente. Rimanere distesa sul letto soffice, con la consapevolezza che quella stanza ariosa e profumata di fresco era tutta per lei, la rendeva tanto euforica che avrebbe potuto passarci la vita senza annoiarsi. Ora, però, con i pettinini fissati nei capelli dalla signora Wilkes, il piccolo copricapo di pizzo, le calze azzurre e le scarpe con la fibbia dorata, doveva uscire ad assaporare la ritrovata libertà. «Non credo di riuscirci» fece Mary, in preda al panico, mentre Boswell la aiutava a scendere dalla carrozza in una strada affollata piena di negozi. «A cenare?» «Non là dentro» rispose lei guardando le finestre luccicanti del locale dove lui intendeva condurla. Vide una coppia raffinata seduta a un tavolo vicino alla finestra; la signora indossava una collana di perle e sorseggiava con grazia un bicchiere di vino. Ebbe la sensazione che entrare là dentro sarebbe stato come irrompere,

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non invitata, in casa del capitano Phillip durante una cena con gli altri ufficiali. Boswell si mise a ridere. «Perché mai?» «E troppo lussuoso» sbottò Mary. «Mi renderei ridicola e vi metterei in imbarazzo.» «No davvero» insistette lui con fermezza, e prendendole la mano per infilarla sotto il braccio la condusse deciso verso la porta. «Hai solo da sorridere e copiare quello che faccio io. Ti assicuro che è facilissimo.» Se per Boswell era facile entrare in posto del genere, con tutte le teste che si voltavano verso di loro, per Mary fu più terrorizzante di una burrasca in mare aperto. Gli sguardi incuriositi, i sorrisi e i cenni di capo a Boswell, e il ronzio interrotto delle conversazioni le fecero comprendere che tutti sapevano di lei. Si sentì avvampare. Le sembrò che il viso avesse preso fuoco perché, anche se cessarono di fissarla quando si mise a sedere, ebbe la sensazione che la gente continuasse a guardarla con la coda dell'occhio e a spettegolare sul suo conto. Boswell studiava la carta dei piatti facendo commenti su quelli già assaggiati in altre occasioni. Non sembrava consapevole del disagio di Mary. «Cosa vorresti mangiare, mia cara? Il pasticcio di manzo qui lo fanno molto bene, ma anche il coniglio e l'anatra.» Prima di uscire dalla casa della signora Wilkes era molto affamata, ma ora non più; anzi, sentiva un senso di nausea. Il bustino le scavava la carne, e le scarpe nuove erano troppo strette. Comunque, dopo anni di fame non poteva proprio rifiutare un pasto. «Scegliete voi per me» sussurrò. Cercò di ricordare a se stessa che già una volta era stata fuori a cena, a Plymouth, con Thomas Coogan. Non era un posto elegante come quello - là non c'erano tovaglie bianche -, comunque non si era comportata in modo disdicevole, quindi non l'avrebbe fatto neppure lì. Erano passati però più di nove anni, e da allora si era abituata a ingozzarsi con qualsiasi cosa le venisse sottomano, che fosse il cibo nella scodella distribuito sulla nave o

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quello che riusciva a cucinare lei. Non le era mai stata data l'opportunità di scegliere. L'idea di mangiare seduta a tavola le era del tutto estranea. Guardò le forchette d'argento e impallidì, perché era abituata solo a cucchiaio e coltello, e spesso aveva dovuto mangiare con le mani. «Immagino che ti sembri tutto un po' strano,» disse Boswell premuroso mentre le riempiva di vino il bicchiere «ma ti abituerai presto. Adesso bevi, e goditi la tua prima serata di libertà.» Mary, invece, non riuscì a godersela. Era più nervosa della prima notte nell'ospedale di Batavia. Là era all'erta per i topi, qui per le occhiate della gente. Il cibo che portarono aveva un aspetto e un profumo meravigliosi, però ogni volta che lei riusciva a prendere un boccone con la forchetta, come faceva Boswell, arrivava qualcuno al loro tavolo a dare una pacca sulla spalla all'avvocato e complimentarsi per lo strabiliante successo di avere ottenuto la grazia per la sua protetta. Volevano essere gentili, sorridevano amichevolmente e le auguravano una vita lunga e felice. Lei invece rimaneva muta; riusciva solo ad abbozzare un sorriso e ringraziare con un filo di voce. «Non puoi biasimarli se vogliono conoscere “la ragazza di Botany Bay”» disse Boswell dopo che la scena si ripeté parecchie volte. «A Londra parlano tutti di te.» Mary non se la sentì di ribattere. Pensò che lui avesse il diritto di sentirsi orgoglioso della sua impresa e di crogiolarsi nell'ammirazione altrui. Così si finse altrettanto felice, e non espresse il desiderio di tornare a casa. Quando infine se ne andarono, era leggermente instabile sulle gambe. Aveva bevuto più che mangiato, però sentiva di essere riuscita a superare la serata senza avere fatto sfigurare Boswell. «Buonanotte, mia cara» disse lui quando la signora Wilkes aprì la porta. «Dormi bene e assapora la libertà ritrovata. Passo da te domani.» Mary non vedeva l'ora che la signora Wilkes le accendesse

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una candela per farsi luce sulla scala e andare in camera sua, però quando chiuse la porta le venne paura. Aveva diviso una cella con quattro uomini per quasi un anno, spesso maledicendoli perché russavano o tossivano di notte. Ora, però, alla luce della candela, quella camera profumata di fresco e con un comodo letto le parve strana, misteriosa e troppo grande per dormirci da sola. “Non essere sciocca” si disse. “Non preferiresti certo essere a Newgate piuttosto che qui, no?” ***

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Capitolo 21.

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In un pomeriggio luminoso, a un mese dal rilascio da Newgate, Mary passeggiava con Boswell in St James's Park. Visitare i parchi londinesi costituiva per lei uno dei piaceri più grandi. Era bellissimo fuggire dal rumore e dalla sporcizia delle strade e vedere erba, alberi e fiori. Molti avevano recinti con cervi, altri con mucche e pecore. La divertì scoprire che le mucche di St James's venivano condotte a Whitehall nel pomeriggio per essere munte, e che si poteva comprare un bicchiere di latte per un penny. Durante la settimana, gli aristocratici andavano nei parchi per incontrare gli amici e sfoggiare abiti all'ultima moda. Evitavano invece di farlo la domenica, giorno in cui la gente comune vi si riversava a frotte. Bustaie, modiste e commesse andavano a godersi la giornata libera, e forse avevano occasione di incontrare un bell'impiegato giovane, o persino un focoso soldato. Il parco preferito da Mary era di sicuro St James's, perché le uniche persone a cavallo o in carrozza cui era consentito l'accesso erano quelle al servizio della famiglia reale. Il lago era popolato da anatre, cigni e oche, e le aiuole erano una profusione di colori. Mary e Boswell si fermarono a guardare alcuni bambini intenti a buttare pane secco alle anatre. «Credo che adesso dovrei trovarmi un lavoro» fece lei pensierosa. «Quel denaro non durerà all'infinito.»

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Lui le diede qualche colpetto sulla mano infilata sotto il suo braccio. «All'infinito no, mia cara, però durerà ancora parecchio, e tu devi decidere innanzitutto cosa fare e dove andare.» Mary avrebbe voluto obiettare, dirgli forse che le dispiaceva essere sempre più dipendente da lui ma, alla luce della sua generosità, le parve scortese. Ora le sembrava assurda la paura provata il giorno del rilascio; si alzava tutte le mattine ringraziando il Signore della sua misericordia e di averle mandato James Boswell. La prima settimana, tuttavia, aveva quasi rimpianto di non essere più a Newgate. Naturalmente era meraviglioso sentirsi pulita e libera, dormire in un letto comodo e mangiare cose buone. La libertà, però, le faceva a volte molta paura, soprattutto se si trovava ad affrontarla all'improvviso, come in occasione di quella prima cena cui Boswell l'aveva trascinata senza tenere conto che il suo mondo le era del tutto ignoto. Lui frequentava persone di alto lignaggio e, quando la portava con sé a fare visita a qualcuno, Mary avrebbe preferito essere lasciata con la servitù nei piani bassi piuttosto che venire esaminata come un esotico esemplare proveniente da oltreoceano. Poi c'era il senso di colpa. Molte volte rimaneva sveglia nel suo letto morbido a pensare intensamente a Charlotte e Emmanuel. Non le sembrava giusto vivere tanto bene quando la loro breve esistenza era stata tanto travagliata. Anche adesso, a distanza di un mese, non riusciva a liberarsi di quel pensiero che continuava ad assillarla qualunque cosa facesse. Passava in rassegna ogni parte della loro vita in cerca di ciò che aveva fatto o non fatto per causare la loro morte. La conclusione era sempre la stessa: se fosse rimasta a Port Jackson, forse sarebbero sopravvissuti. Questi pensieri non la tormentavano soltanto nei momenti di solitudine. La vista di una madre con un bambino le procurava una fitta di dolore anche mentre era in carrozza con Boswell. Ogni volta che per strada notava bambine dell'età di Charlotte vestite di stracci, sentiva montare dentro di sé la rabbia contro la società così poco attenta ai suoi membri più giovani.

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Inoltre, sentiva molto la mancanza di James, Sam, Nat e Bill, non solo per la loro compagnia e i ricordi condivisi, ma per la posizione da lei occupata all'interno del gruppo. Con loro era un capo, tenuto in grande considerazione per il suo senso pratico, l'intelligenza e la saggezza. Fuori da Newgate era solo un caso curioso, e la gente le parlava come se fosse stupida. Col passare del tempo cominciò a adattarsi. Accettò l'idea di dover imparare a rapportarsi di nuovo alla gente normale, chiacchierare del più e del meno, e attenersi ai comportamenti ritenuti adeguati per una donna. Trovò il coraggio di attraversare da sola strade piene di traffico e zigzagare tra le carrozze; esercitandosi, imparò a usare la forchetta e a raccogliere i capelli come le aveva insegnato la signora Wilkes. Riuscì addirittura ad allacciarsi il bustino da sola. La padrona di casa era una donna davvero buona, gentile e, dal momento che aveva più di quarant'anni, anche materna. Tuttavia era ancora sufficientemente giovane da comprendere perché Mary a volte si sentisse inadeguata e intimorita. Ammetteva che di tanto in tanto il signor Boswell peccasse un po' di presunzione, ma lo giustificava per via dell'educazione ricevuta e della sua fama di scrittore. Preparava il tè, invitava Mary a sedersi con lei in cucina e le faceva tirare fuori tutto ciò che la preoccupava. Le spiegava quello che lei non osava chiedere al signor Boswell. Comprendeva perché non volesse essere esibita davanti ai suoi amici, e le suggeriva come chiarire le cose con lui. Soprattutto, però, capiva il suo disagio nel trovarsi all'improvviso in un ambiente del tutto estraneo. «Non lasciarti travolgere» consigliava. «Ascolta, osserva, impara più che puoi. Goditi la fama senza chiederti quanto durerà; la meriti, dopo tutto quello che hai passato. Soprattutto, Mary, non perdere mai il coraggio, che è ciò che ti rende tanto affascinante.» Quando non le offriva tè e consigli, la signora Wilkes le somministrava grandi quantità di malto, le faceva bere spremute di limone per rendere la carnagione più luminosa, e la portava a comprare nuovi vestiti. Malgrado Boswell si ritenesse l'unico capace

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di trasformarla in una persona “all'altezza”, “accettabile” - un bel passo avanti rispetto alle radici povere seppure rispettabili della sua infanzia -, in realtà la sua vera maestra era la signora Wilkes. Insieme a momenti di penoso sconcerto ce ne furono molti altri di allegria e felicità. Mary era stata alla Torre di Londra con i leoni al suo interno; aveva visitato la cattedrale di St Paul e il monumento al Grande Incendio; aveva visto i palazzi reali, e raggiunto Greenwich in barca sul fiume. Adorava i parchi, i negozi affollati dello Strand, i mercati, o anche solo guardare le tante case eleganti. Di solito la accompagnava Boswell, ma a Mary piaceva molto anche esplorare per conto proprio. Se lui aveva bisogno di una carrozza perché stava invecchiando, lei amava camminare, fermarsi a osservare passanti, scene di strada, edifici. Ora, a un mese dal suo rilascio, poteva essere forse scambiata per una che aveva sempre vissuto in quel modo. Vedeva tutti i giorni povera gente spazzare per terra, vendere fiori e chiedere l'elemosina all'angolo della strada, e si rendeva pienamente conto che non era affatto scontata la vita comoda a cui era approdata più per fortuna che per le sue capacità. Sapeva di dover trovare un modo per assicurarsela per sempre. Era troppo intelligente per credere che bastasse qualche vestito grazioso per procurarsi un buon lavoro. La gente voleva cameriere giovani e cuoche vere in grado di affrontare pranzi importanti, non persone la cui unica esperienza era stata buttare in pentola cose vagamente commestibili su un fuoco da campo. Le governanti dovevano saper fare di tutto, dall'occuparsi della biancheria di casa e dell'argenteria al tenere i conti. Mary non solo ignorava tutto questo, ma non aveva neppure referenze. Più si guardava intorno, più capiva che per le donne c'erano poche possibilità di lavoro. Persino la signora Wilkes, che Mary aveva creduto di classe elevata, non aveva altra scelta che gestire una pensione. Era rimasta vedova dieci anni prima e, una volta finito il poco denaro lasciatole dal marito, aveva trovato un posto come governante e dama di compagnia presso un anziano signore in quella stessa

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casa di Little Titchfield Street. Alla sua morte, il vecchio aveva lasciato i soldi in eredità al nipote, e a lei tutto il contenuto di quella casa in affitto. L'unico modo per rimanere in quel posto a lei tanto caro era prendere qualcuno a pensione. La signora Wilkes riteneva che la soluzione ai problemi di Mary fosse il matrimonio, e aveva lasciato intendere che Boswell era il marito ideale; dopotutto era un vedovo con molti mezzi, ed era molto affezionato a lei. Mary si era trastullata qualche breve momento con questa idea. Apprezzava molto Boswell perché era gentile, divertente e generoso, però sapeva che non sarebbe mai andata a letto con lui spinta dal desiderio perché stava diventando vecchio e grasso, e aveva i denti marci. Inoltre era un uomo molto intelligente, e non avrebbe rischiato la disapprovazione dei figli cui teneva tantissimo a causa di una ex detenuta che non aveva mai dimostrato un amore appassionato nei suoi confronti. «Credo che mi piacerebbe vivere di nuovo in un posto di mare» disse Mary mentre attraversavano il ponticello sul lago. Benché Londra fosse interessante, lei si ritrovava spesso a desiderare ardentemente la serenità della brughiera, il vento fresco che spirava dal mare e una vita più tranquilla. «Allora potremmo metterci in contatto con la tua famiglia» fece Boswell. «Ricorderai che in Cornovaglia ho conosciuto il reverendo John Baron di Lostwithiel. Che brava persona!» Mary annuì. Boswell aveva accennato a quell'uomo, ma lei non lo conosceva perché era stata a Lostwithiel solo due volte in vita sua. «Se glielo chiedessi, lui andrebbe a trovare i tuoi. Vuoi che gli scriva? Si era dimostrato molto partecipe nei tuoi confronti.» «Ho paura che gli mostrerebbero la porta» fece Mary avvilita. Ricordava fin troppo bene il severo giudizio della madre su chi infrangeva la legge, e di certo si vergognava moltissimo della notorietà

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della figlia. Non le sarebbe piaciuto che un prete la supplicasse di perdonare e dimenticare; anzi, questo avrebbe probabilmente messo Mary ancora più in cattiva luce. «Vale la pena tentare» suggerì Boswell. «No» ribatté Mary decisa. «Sta a me chiedere il loro perdono; è da codardi farlo fare a qualcun altro. Ci andrò quando i miei amici avranno ricevuto la grazia.» Boswell non le aveva mai permesso di andare a trovarli a Newgate, con il rischio - a suo dire - di contrarre qualche malattia infettiva, ma Mary pensava fosse soprattutto preoccupato di tenerla lontana da cattive influenze. Tuttavia non se la sentiva di disubbidirgli perché era sempre stato buono con lei, e dovette accontentarsi della sua disponibilità a portare loro i suoi messaggi. «Potrebbe non succedere presto, Mary» la avvertì. «Tu sai che sto facendo del mio meglio per loro, ma la legge va avanti a rilento, soprattutto in estate.» «Allora aspetterò.» Lui sorrise e le strinse il braccio. «Bene, c'è ancora tanto da vedere a Londra. E non preoccuparti del denaro. Ne è rimasto più che a sufficienza.» Il resto di giugno, luglio e le prime due settimane di agosto furono un periodo eccezionalmente felice per Mary, che, scemata la curiosità della gente, si sentiva molto più a suo agio nella nuova vita. Aiutava la signora Wilkes con il massimo della dedizione: l'accompagnava a fare la spesa, spesso si occupava del bucato e preparava la cena. Eppure di tanto in tanto le prendeva una strana malinconia. Pensava a Will, a Tench, a Jamie Cox e a tutte le persone di Port Jackson che si era lasciata alle spalle malgrado fosse loro affezionata. Si soffermava sui momenti trascorsi in loro compagnia, e spesso si ritrovava a piangere. La irritava che in Inghilterra la gente ignorasse le durezze e la cattiva gestione della colonia, e non fosse interessata a saperne di più. Peraltro avrebbe voluto anche

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raccontare che il Nuovo Galles del Sud era un luogo bellissimo e affascinante, e si chiedeva come potesse ancora pensarlo dopo tutto quello che aveva passato in quel posto. Inoltre la scombussolava il netto contrasto tra la vita nuova e quella vecchia. Un giorno la signora Wilkes le chiese di buttare via un pezzo di carne che stava andando a male. Mary, che dopo avere patito tanto la fame non sopportava l'idea di sprecare il cibo, dovette imporsi di non mangiarla. Le sembrava poi ridicolo che la gente si aspettasse da lei, in quanto donna, che fosse debole, indifesa e delicata di stomaco, quando invece si era nutrita di larve, aveva fatto a pezzi tartarughe marine, ed era stata l'elemento trainante in un viaggio di tremila miglia su una barca aperta. Una donna non doveva neppure accennare a funzioni corporali, e di certo non davanti a persone di sesso maschile; lei, invece, era stata addirittura costretta a espletarle in presenza di otto uomini, e dopo avere vissuto molto tempo gomito a gomito con loro, sugli uomini non aveva più misteri da scoprire. Col trascorrere del tempo, tuttavia, si ritrovò a pensare sempre meno al passato e riprese a vivere nel presente. Infatti, pur avendo i figli sempre impressi nella mente, scoprì che gli altri ricordi cominciavano a svanire. Le giornate erano belle e Boswell passava spesso da lei per portarla al parco, in gita sul fiume o in campagna nei pressi di Londra. Un giorno di agosto, mentre andavano in carrozza al villaggio di Chelsea, lui sembrava molto divertito da alcune poesie su di loro che circolavano in città. A quanto pareva, gli autori li ritenevano amanti, e in una poesia li facevano morire insieme sulla forca. «Forse dovrei sposarti, mia cara» disse Boswell in tono scherzoso. «Tanto per lasciare di sale quei poetucoli da strapazzo.» «Credo che le vostre figlie la prenderebbero male» replicò Mary con un sorriso. «Non sono la matrigna dei sogni per una ragazza.» «Il tuo cuore è sempre per il capitano Tench?» chiese lui, sollevando il sopracciglio con aria divertita. Mary gli aveva accennato spesso a Watkin Tench, senza peraltro far trapelare i suoi reali sentimenti. Neppure i suoi quattro

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amici di Newgate ne sapevano qualcosa, e quella domanda di Boswell la lasciò interdetta. «Io il cuore non ce l'ho» rispose in tono leggero. «Falso» replicò lui con una risata. «Ho scoperto che era lui a pagarti la cella. Sai, ha smesso quando sei stata graziata, e i tuoi amici hanno dovuto trovare una nuova sistemazione.» Quanto a prontezza di spirito, Boswell era simile a Mary: non gli sfuggiva quasi nulla. «E allora? Eravamo amici e Tench mi aiutava; questo non significa che fossi innamorata di lui.» «Significa che lui era innamorato di te» ribatté Boswell in tono solenne. «Generalmente quelli della Marina non sono famosi per la loro prodigalità. Però mi colpisce che sia così codardo da non venire a Londra a reclamarti, visto che sa del tuo rilascio. Adesso è sulla Alexander, una nave della Marina reale che fa parte della Flotta della Manica.» Il cuore di Mary accelerò i battiti. Aveva sempre pensato che Tench fosse ripartito per qualche paese lontano. «Ah ah» ridacchiò Boswell. «Noto un lieve rossore: dipenderà forse dal fatto che lui è ancora da queste parti?» Non aveva senso continuare a fingere, decise Mary. «Ho provato per lui sentimenti profondi, e lui per me.» Alzò le spalle. «Ma è una cosa che non potrà mai realizzarsi. E Tench non è un codardo: sono stata io a insistere che non cercasse di mettersi in contatto con me.» Durante la detenzione a Newgate, Mary aveva cercato di reprimere la speranza che Tench si facesse vivo, ma in prigione era facile capire che lui apparteneva a un mondo diverso dal suo. Adesso, però, era libera, una vedova rispettabile agli occhi di tutti, e non poteva fare a meno di accarezzare a volte la fantasia di lui che veniva a Londra per reclamarla e condurla subito in una casetta di campagna. In certi momenti pensava addirittura di essere tanto cambiata da poter diventare la moglie perfetta di un ufficiale. «Hai ragione, non potrebbe realizzarsi» concordò Boswell, e lei si sentì alquanto delusa. «A me è capitato di innamorarmi di

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signore non adatte a me, e questo ha comportato soltanto sofferenze per entrambi.» Le prese la mano e gliela strinse, partecipe. «La sofferenza è qualcosa che si dovrebbe cercare a ogni costo di evitare. A qualunque età e in qualsiasi circostanza.» Anche se in apparenza Boswell si riferiva al legame tra lei e Watkin Tench, Mary ebbe l'impressione che in realtà sottintendesse qualcos'altro. Poco prima aveva accennato per scherzo al matrimonio, ma adesso era come se sondasse il terreno per capire se lei si aspettava una vera proposta da parte sua. Mary reputò opportuno chiarire subito che quello non era il suo obiettivo. «Be', mio saggio consigliere, ditemi: che genere di uomo può farmi felice?» chiese in tono scherzoso. Boswell rimase assorto per qualche attimo. «Un uomo di mare, direi» rispose infine. «Un navigatore, con una buona posizione. Magari vedovo - così probabilmente non darebbe importanza al fatto che hai un certo passato -, ancora giovane, massimo trentacinque anni, con la voglia di mettere su famiglia.» «Per caso ne avete già in mente uno?» chiese Mary ridendo, perché lui sembrava conoscerla davvero quella persona. «No, mia cara; purtroppo no» ridacchiò. «Sono solo un vecchio matto che vorrebbe vedere un lieto fine per te. Comunque, credo che una delle cose più belle della vita sia non sapere mai cosa c'è dietro l'angolo.» ***

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Capitolo 22.

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Di nuovo quel disgraziato!» disse la signora Wilkes a Mary, esasperata dal martellare insistente del batacchio sulla porta. «Solo ieri ho cercato di fargli capire che le sue visite continue a tutte le ore non fanno affatto bene alla tua reputazione. Ed eccolo di nuovo, per giunta di domenica!» Era il 18 agosto, una giornata molto calda; nella frescura del cortile sul retro, le due donne cucivano e parlavano degli amici di Mary ancora rinchiusi a Newgate. Lei era abbattuta perché temeva che non sarebbero mai stati graziati e che cominciassero a dubitare della sua dedizione alla loro causa. La signora Wilkes, alla pari di Boswell, pensava che andare a trovarli fosse una cattiva idea, dato l'alto rischio di infezioni, però si era offerta di scrivere loro una lettera da parte sua. Proprio mentre Mary stava pensando alle cose da raccontare agli amici, udirono battere alla porta. Sorrise allo sfogo della padrona di casa; sapeva perfettamente che le faceva molto piacere se i vicini spettegolavano sulle frequenti visite di Boswell. Dopotutto, era un uomo famoso, un membro dell'alta società, e una breve visita a mezzogiorno, fosse o non fosse di domenica, non era affatto sconveniente. Si alzò. «Apro io. Devo dirgli di andarsene?» «No, certo che no» si affrettò a rispondere la signora Wilkes. «Fallo accomodare in salotto. Vi porterò un tè.»

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Questa volta, però, Boswell non era solo; accanto a lui Mary vide un uomo corpulento dal viso florido - forse un commerciante - con una chiassosa giacca a scacchi e brache intonate, e una parrucca di un castano polveroso che gli stava di traverso. «Buona giornata, Mary» fece Boswell sollevando il cappello. Sembrava nervoso. «Questo è il signor Castel, un vetraio; è di Fowey, e desidera darti notizie certe della tua famiglia. Ha voluto venire subito da te.» Mary spostò lo sguardo da un viso all'altro e notò che entrambi erano molto accaldati, in agitazione. Chiaramente Boswell non era felice che quell'uomo avesse insistito tanto per farle visita, e forse sospettava che sotto vi fosse un qualche inganno. In precedenza c'erano stati parecchi casi di persone che andavano a chiedergli l'indirizzo di Mary sostenendo di conoscerla. Quindi, se le aveva portato a casa quell'estraneo, significava che lo considerava in qualche modo credibile. Li fece accomodare in salotto e, quando furono seduti, studiò l'uomo con attenzione. «Allora, voi siete di Fowey, signor Castel? Non conosco nessuna famiglia con quel nome.» «Me ne sono andato molti anni fa, quando voi probabilmente eravate bambina» spiegò lui con calma. «Però conosco molto bene vostra sorella Dolly.» Suo malgrado, Mary trasalì. «Conoscete Dolly? Come mai? Dov'è?» «L'ho incontrata per la prima volta qui a Londra» fece lui asciugando il sudore dal viso con un fazzoletto. «È a servizio dalla signora Morgan, in Bedford Square. Io ero là per sostituire un vetro, e ci siamo messi a parlare di Fowey.» «Dolly è a Londra!» Mary stentava a credere alle proprie orecchie e, anche se Boswell sembrava imporle con lo sguardo di frenare l'entusiasmo, non riusciva a trattenere la gioia. «Sembra che il signor Castel voglia chiederti il permesso di scrivere ai tuoi per informarli sul tuo conto» si intromise Boswell in tono sprezzante. «Sostiene anche di conoscere un tuo parente, Edward Puckey.»

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Mary trasalì di nuovo. «Ned!» Lei e Dolly avevano fatto da damigelle al matrimonio del cugino Ned. «Hai un parente di nome Edward Puckey?» chiese Boswell. Mary annuì. «Mio cugino.» Il signor Castel la guardò, e dal suo cipiglio era evidente un certo risentimento. «Pare che il signor Boswell non si fidi di me. Conoscevo Ned Puckey da ragazzo, anche se lui era di qualche anno più giovane. È per merito di questa vecchia conoscenza che ho avuto modo di diventare amico di Dolly. Voglio solo vedere due sorelle riunite, e darvi una notizia che potrebbe tornarvi assai utile.» A parte l'abbigliamento e la parrucca che non gli donava e suggeriva gusti discutibili, quell'uomo - pensò Mary - aveva un viso onesto: la guardava negli occhi, non si passava ansiosamente la lingua tra le labbra, né dava altri segni di nervosismo. Aveva anche mantenuto l'accento della Cornovaglia. «Quale notizia?» chiese lei sospettosa lanciando un'occhiata a Boswell. Era teso e sudato fradicio, e dalla sua espressione truce sembrava voler zittire quell'uomo. «La vostra famiglia ha ereditato una fortuna.» Mary scoppiò a ridere e si lasciò andare contro lo schienale della sedia. «A questo non posso credere, mentre vorrei tanto credere che conoscete Dolly.» «È vero» insistette lui. «Me l'ha detto proprio Dolly. Vostro zio, Peter Broad, è morto quando voi eravate a Botany Bay, e ha lasciato una fortuna alla vostra famiglia.» Mary tornò seria di colpo. Lo zio Peter, fratello di suo padre, era capitano di navi mercantili, e ciò significava che veniva assunto di volta in volta al comando di una nave, diversamente da suo padre che era un comune marinaio. Mary non lo aveva conosciuto bene perché lui stava in mare per periodi molto lunghi, tuttavia ricordava che ogni volta, al suo ritorno, portava in dono cibo, dolciumi e altri beni voluttuari. Era stato lo zio Peter a regalare la seta rosa con cui sua madre aveva confezionato per lei e Dolly i vestiti che indossavano il giorno del bagno in mare

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nude. A Fowey si diceva che fosse anche ricco e, in effetti, quando sua madre esprimeva il desiderio di qualcosa fuori dall'ordinario, suo padre ribatteva scherzoso: “Meglio aspettare il momento opportuno, cara, quando torna Peter”. «Non so proprio cosa dire!» esclamò Mary. «E un fulmine a ciel sereno, signor Castel.» «Non ne dubito. Ma credetemi, nel mio desiderio di darvi questa notizia non c'è alcun oscuro disegno; solo il tentativo di riunire una famiglia. Capite, Dolly e io siamo amici. Quando ci siamo conosciuti, quattro anni fa, mi ha raccontato di avere una sorella che se ne era andata a lavorare a Plymouth, di cui non sapeva più nulla. Mi ha parlato anche dell'ansia dei vostri genitori, che ignoravano se eravate viva o morta.» «Non hanno saputo cosa mi è successo?» Mary non capiva se questo le facesse piacere o tristezza. Il signor Castel scosse la testa. «Da quanto mi ha detto Dolly, vostro padre andò a cercarvi a Plymouth, ma senza fortuna. Dolly pensava che voi foste venuta a Londra, e per questo ha iniziato a lavorare qui, nella speranza di incontrarvi un giorno. Con il passare degli anni, però, la sua speranza è svanita. Ho capito quanto voi eravate importante per lei il giorno stesso in cui l'ho conosciuta. Non appena ha sentito la mia voce e si è accorta che venivo dalla Cornovaglia, ha fatto di tutto per parlarmi.» Mary annuì. Le pareva logico: lei stessa, se avesse incontrato qualcuno con l'accento del suo paese, avrebbe voluto parlargli subito. «Voi allora sapevate dov'ero io?» Castel scosse la testa. «No davvero. Non avrei mai pensato che una ragazza come Dolly potesse avere una sorella deportata.» «Perché?» «Be', lei è così...» Si fermò, chiaramente incapace di trovare le parole giuste. Mary decise di aiutarlo. «Onesta?» suggerì. «Non pensavate che potesse avere una sorella ladra?» Castel apparve imbarazzato. «Non intendevo questo» disse

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subito. «Dolly è schiva e laboriosa. Immaginavo che sua sorella fosse come lei.» A quel punto, Mary non ebbe più alcun dubbio: quell'uomo conosceva davvero sua sorella. “Schiva e laboriosa” era un'ottima descrizione di Dolly. Lei stessa l'aveva spesso paragonata a un topolino! «Allora perché avete impiegato tanto a farvi vivo?» La notizia del suo arrivo a Newgate era stata resa pubblica già da quattordici mesi; quella della grazia, che aveva nuovamente richiamato l'attenzione dei giornali, da più di tre. «Consideratemi pure ottuso, se volete» rispose lui imbarazzato. «Io ho letto tutto della “ragazza di Botany Bay” sui giornali, ho persino notato che il vostro cognome corrispondeva a quello della sorella di Dolly, ma neppure per un momento ho pensato che si trattasse di quella Mary Broad.» «No?» fece Mary sorpresa. Lui tastò nervosamente il colletto rigido. «Era proprio incredibile: nessuno, conoscendo Dolly, poteva pensare che avesse una sorella tanto audace. Inoltre, Mary Broad è un nome abbastanza comune, e il giornale che ho letto non diceva che eravate della Cornovaglia.» «Allora, cosa vi ha fatto pensare che potessi essere sua sorella?» chiese lei, incuriosita. «Una poesia» rispose. Si voltò verso Boswell come a cercare conferma, ma lui si guardò bene dal sostenerlo. «Una poesia?» ripeté Mary. Immaginò si trattasse di una di quelle cui aveva accennato Boswell, anche se non gliele aveva mai lette. «Da quando avete ricevuto la grazia, se ne trovano incollate in giro dappertutto» fece lui impacciato. «Io, però, le ho sempre lette in modo distratto, fino a quando non ne hanno messa una vicino al mio negozio. Non so spiegare esattamente perché, però mi è venuta questa sensazione, che non mi ha più abbandonato. Non ho voluto mostrare la poesia a Dolly nel timore di turbarla, perché alludeva alla vostra deportazione e al fatto che voi e il

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signor Boswell foste più che semplici amici. Così stamane sono andato da lui per chiedere la sua opinione.» Mary guardò Boswell con aria interrogativa. «Per prima cosa ha domandato se tu eri di Fowey» disse lui stringendosi nelle spalle con aria di impotenza. «Ho detto di sì, e allora mi ha parlato di Dolly. Avrei voluto venire qui da solo, ma il signor Castel è un uomo ostinato, mia cara. Ora, sarebbe bene che io verificassi questa storia; torno da te quando avrò prove certe.» Più tardi, quello stesso giorno, mentre Mary aiutava la signora Wilkes a lavare i piatti della cena, qualcuno bussò di nuovo alla porta. «Scommetto che è ancora Boswell» disse con un'espressione preoccupata. «Forse ha scoperto qualcos'altro su Castel.» Mary era stata nervosa tutto il giorno. Voleva credere al signor Castel ma, vista la diffidenza di Boswell, si era imposta di non crearsi false speranze. Percorse spedita il corridoio togliendosi il grembiule, ma quando aprì la porta le cedettero le ginocchia. C'era di nuovo il signor Castel e, di fianco a lui, Dolly. Impossibile non riconoscere la sorella: era identica a nove anni prima, quando la salutava agitando la mano all'imbarco per Plymouth. Per tutti quegli anni Mary aveva gelosamente conservato l'immagine del suo nasino all'insù e degli occhi azzurri. Trasalì coprendosi il volto con le mani. «Mary!» esclamò Dolly in tono dolce. «Sei proprio tu! Avevo tanta paura che il signor Castel si fosse sbagliato.» D'un tratto Mary si trovò avvolta dalle braccia della sorella maggiore: le due rimasero strette a dondolarsi sulla soglia di casa, piangendo a dirotto dopo tanti anni di separazione. «Allora, vogliamo entrare, per cortesia?» ingiunse perentoria la signora Wilkes alle loro spalle. «E tutto molto commovente, ma non voglio che diventi l'argomento delle chiacchiere di tutta la strada.»

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Una volta in salotto, le due donne si abbracciarono ancora e piansero per alcuni minuti. Poi cominciarono a ridere istericamente tra le lacrime, in un alternarsi confuso di mezze domande e mezze risposte: una lotta assurda per colmare un vuoto di nove anni. Il signor Castel aveva già raccontato a Dolly per sommi capi la vicenda della sorella, ma la sua versione, tratta dai giornali, non era precisa. Mary cercò di raccontarle come fossero andate veramente le cose, ma Dolly era troppo scossa e confusa per riuscire ad afferrare tutto. «Adesso sembro molto più vecchia di te» disse a un certo punto Mary, fissandola con orgoglio. Si erano sempre assomigliate: entrambe avevano i capelli bruni e ricci come la madre, una struttura robusta, ed erano un po' più alte della maggior parte delle ragazze del villaggio. Dolly però aveva gli occhi azzurri, non grigi come Mary, e il suo naso all'insù era più pronunciato. Le vere differenze stavano nel carattere; Dolly era quella mite, pratica, ubbidiente e, per quanto ricordava Mary, sempre linda e ordinata, con i capelli raccolti in una treccia stretta, e lo scamiciato immacolato. Evitava di finire nel fango o nei rovi, e sedeva silenziosa sul gradino di casa a osservare la sorella che invece strappava e inzaccherava il vestito in giochi da maschiaccio con i ragazzi. Dolly ora continuava a vestire in modo sobrio e ordinato, come richiedeva il suo lavoro di cameriera presso una signora dell'alta società. Indossava un abito azzurro pieghettato con il collo alto chiuso da minuscoli bottoni di madreperla, lustri stivaletti con i bottoncini e un piccolo copricapo di paglia cinto da un semplice nastro azzurro. Aveva trent'anni, ma con quella carnagione chiara e levigata, ne dimostrava dieci di meno, secondo Mary. «Non ho avuto una vita dura come la tua» disse con gli occhi colmi di lacrime. «Sei così magra, Mary. Io ricordavo il tuo viso bello paffuto.» Sotto gli sguardi della signora Wilkes e del signor Castel furono

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impossibili le confidenze tra sorelle. Dolly fece per chiederle dei due bambini, ma non terminò la domanda. Allo stesso modo, Mary avrebbe voluto sapere tante cose della madre e del padre, e se lei aveva un innamorato, ma di fronte a quei due non poté farlo. Poi, nel bel mezzo dell'incontro, tornò Boswell. Andò ad aprirgli la signora Wilkes, e Mary le sentì dire che Dolly era arrivata. «Oh, è meraviglioso» aggiunse in brodo di giuggiole. «Piangono e ridono in continuazione.» Boswell entrò nella stanza con aria stizzita. Al mattino aveva chiesto a Castel di lasciargli organizzare l'incontro tra le due sorelle. Un'ora prima era andato a Bedford Square per vedere Dolly, ma aveva scoperto che era appena uscita con lui. Di fronte alla gioia di Mary, tuttavia, recuperò il consueto buonumore e si scusò con l'uomo per la diffidenza mostrata nei suoi confronti. Quindi, con i suoi modi affascinanti, lusingò Dolly con molti complimenti e spiegò che il suo atteggiamento sospettoso era da imputare al desiderio di proteggere Mary. Per festeggiare, la signora Wilkes stappò una bottiglia di porto e suggerì ai due uomini di lasciare le sorelle a parlare da sole. «Ma ho promesso alla signora Morgan che l'avrei accompagnata a casa» si affrettò a dire Castel, e dagli occhi adoranti con cui guardava Dolly era chiaro che aveva un debole per lei. «Comunque non potrei trattenermi ancora molto, temo» fece Dolly rivolta a Mary. «La signora Morgan mi aspetta per le nove e mezzo, però mercoledì potremmo passare insieme il mio giorno libero.» «Bene. Prima di andare, Dolly, non sarebbe forse il caso che parlaste a Mary dell'eredità dello zio?» chiese Boswell. «Forse la mia è una domanda impertinente, ma credo che su questo Mary si aspetti un chiarimento.» «Giusto» disse Dolly afferrando la mano della sorella minore come se temesse di perderla un'altra volta. «Lo zio Peter ha lasciato tutti i suoi soldi a papà: una bella cifra, tra l'altro. Papà ha fatto scrivere da Ned una lettera in cui mi spiegava tutto e insisteva sul mio ritorno a casa perché non c'era più bisogno che lavorassi.»

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«Allora, come mai non siete tornata, Dolly?» Boswell non se la sentì di rivolgerle la domanda grossolana sull'ammontare della somma, tanto più di fronte a Castel. Lei arrossì. «Mi piace Londra, e mi piace il mio lavoro. Sto molto bene dai Morgan. Non volevo diventare una vecchia zitella a Fowey.» «Dubito che rimarrete a lungo non sposata» disse Boswell con la consueta galanteria. Dolly guardò la sorella in cerca di approvazione. «Mary mi capisce di sicuro.» «E così, Mary?» chiese lui. «Sì.» Mary rivolse un sorriso divertito alla sorella. «Per tutti gli anni in cui sono stata via, ti ho sempre immaginato sposata e con uno stuolo di bambini. Era quello che volevi da ragazzina. Ma qualunque sia stata la ragione della tua partenza, hai organizzato bene la tua vita. Tornare a casa sarebbe come seppellirti viva.» «Proprio così» concordò Dolly, seria. «La mia posizione sociale non cambierebbe certo soltanto perché papà ha del denaro. Potremmo anche vivere in una casa più grande, avere vestiti e cibo migliori, ma chi avrei come amici? Quelli vecchi mi eviterebbero perché sono poveri, e i ricchi mi guarderebbero dall'alto in basso.» Mary approvò annuendo: era probabile che sarebbe successo proprio così. Inoltre c'era anche la faccenda dei cacciatori di dote: Dolly avrebbe voluto un uomo che l'amasse per come era, non per i suoi soldi, ma secondo Mary sarebbe stato difficile avere la certezza dei reali sentimenti di un uomo se non dopo molti anni di matrimonio. «Non intendete tornare mai più a casa?» Boswell si chiese se per caso non vi fosse già un uomo nella vita di Dolly. Intuiva che Castel aveva delle mire su di lei, ma dubitava che l'attrazione fosse reciproca. «Magari tra qualche anno» rispose lei, poi guardò la sorella e sorrise. «Mary però dovrebbe tornare, almeno per vedere i nostri genitori. Impazziranno di gioia quando sapranno che è sana e salva.»

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Mary chiese se era certa che non fossero a conoscenza della sua storia. «Certamente non quando papà mi ha scritto l'anno scorso. Sai, ha accennato a te; ha detto che sperava che a impedirti di tornare da Plymouth fossero un marito e dei figli.» Mary rifletté qualche istante. Era quasi ridicolo che i suoi genitori l'avessero sempre immaginata a Plymouth, distante solo quaranta miglia, quando in realtà si trovava all'altro capo del mondo. Se fosse andata a casa, come diavolo avrebbe potuto spiegare tutto quello che aveva fatto e visto? Era già abbastanza difficile affrontare per conto suo i ricordi, i cambiamenti nella sua vita, o semplicemente pensare ai lunghi viaggi fatti negli anni, ed era convinta che la madre, mai allontanatasi più di venti miglia da Fowey, non l'avrebbe capita. «Secondo te papà ha saputo la mia storia dopo averti scritto?» «Può darsi» rispose Dolly accigliata. «Il signor Castel mi ha detto che se ne è parlato molto sui giornali, ma se io che vivo a Londra non ne ho saputo niente, perché avrebbero dovuto saperlo loro che stanno così lontano?» Mary sospirò. «Forse è meglio che non lo scoprano mai, Dolly. Sarebbe un colpo terribile.» «Meglio ricevere un brutto colpo che invecchiare con la convinzione che la loro figlia li ha abbandonati o è morta» insistette la sorella. Più tardi, Boswell si congedò insieme a Castel e Dolly; le due sorelle avevano stabilito di rivedersi in quella casa nel giorno libero di Dolly. Appena uscirono, Mary salì in camera sua perché aveva un gran bisogno di stare sola. Sedette vicino alla finestra aperta e guardò fuori, nell'oscurità. Come tante altre sere da quando abitava dalla signora Wilkes, nell'aria ferma e tiepida fluttuavano rumori di ruote di carrozze, chiacchiericci, risate, pianti di bambini, e il suono argentino di un pianoforte lontano. Fino a quella sera, ogni volta che le arrivavano

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quegli echi di vita domestica, si sentiva terribilmente sola perché il destino l'aveva separata da tutte le persone amate. A volte le erano venuti persino pensieri cinici rispetto alla sua libertà: benché potesse circolare senza impedimenti per la città, con la mente era invece ancora incatenata al senso di colpa, alla vergogna e al dolore. La totale dipendenza da Boswell, poi, aveva fatto di lui una sorta di carceriere. Gentile, certo, ma sempre pronto a decidere tutto al posto suo - dove andare, chi incontrare -, oltre a provvedere al suo mantenimento. Mary non aveva ancora trovato modo di uscire da quella forma di subordinazione per iniziare una vita tutta sua. Ora, però, si presentava l'occasione. «Ma tu, hai abbastanza coraggio per tornare a casa?» mormorò a se stessa. Un conto era raccontare tutto a Dolly, giovane e senza forti pregiudizi; forse anche il padre l'avrebbe capita perché nei suoi viaggi per mare aveva conosciuto tanti paesi e gente di tutti i tipi. La madre, invece, era un'altra faccenda. Il suo mondo minuscolo era compreso tra la chiesa e i vicini di casa. Sarebbe stata in grado di aprire la mente per rendersi conto che Mary aveva pagato molto più del dovuto per il suo crimine? Avrebbe saputo perdonare e non dare importanza ai mormorii della gente del villaggio? Mary ne dubitava. Grace Broad non era mai stata disposta al perdono né tollerante. Da bambina, Mary era considerata strana perché le piaceva intrattenersi con i pescatori, nuotare, arrampicarsi sugli alberi e vagabondare lontano da casa. Il padre ci rideva sopra sostenendo che lei avrebbe dovuto essere un maschio, mentre la madre disapprovava sempre, scura in viso. Adesso Mary ne comprendeva la ragione: cose che un tempo le risultavano assai bizzarre le parevano ragionevoli ora, dopo la sua esperienza di madre. Il ruolo di una madre era accudire e proteggere i figli, aiutandoli con lodi e critiche a non esporsi ai pericoli. Senza dubbio, la madre era spaventata dalla sua ostinazione, che avrebbe potuto trascinarla in qualche guaio. E questo suo timore si era rivelato fondato.

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Inoltre, Mary dubitava che le malelingue di Fowey considerassero eroica la sua fuga temeraria, a differenza dei londinesi. Si sarebbero soffermati su altri aspetti: le navi prigione, le catene, la minaccia del patibolo. L'avrebbero giudicata licenziosa perché aveva trascorso molto tempo con una banda di uomini. Una lacrima le scese lungo la guancia. Sapeva di essere stata una ragazzina sconsiderata ed egoista, ma ormai era acqua passata, e il suo più grande desiderio era essere accolta nuovamente in famiglia. Se la madre l'avesse stretta tra le braccia, lei sarebbe riuscita a confidarle lo strazio per la perdita dei due figli, cosa che non aveva mai fatto con nessuno. Avrebbe spiegato ai familiari che le erano sempre rimasti nel cuore in quei lunghi anni di reclusione. Forse, da adulta, avrebbe potuto fare ammenda per tutta la tristezza e le preoccupazioni che aveva causato loro. Sentiva anche di avere bisogno della pace e della bellezza del suo villaggio per mondarsi l'anima dalle brutture che vi erano intrappolate. Aveva ricevuto il perdono del re e del governo, ma significava ben poco senza il perdono dei suoi. Nei giorni successivi, i pensieri di Mary si fecero ancora più confusi. La giornata trascorsa insieme a Dolly a raccontarsi tutto ciò che era successo loro nei nove anni passati fu una delle più belle della sua vita. Aveva sempre considerato la sorella un esempio di virtù femminili. La sua bravura nel cucito, l'accuratezza nelle pulizie e nei bucati, la capacità di creare piatti gustosi praticamente dal nulla, per non parlare della mancanza di insolenza e del carattere dolce, erano le doti che l'avevano fatta apparire noiosa ai suoi occhi di giovinetta. A distanza di nove anni, Mary scoprì invece che la sorella maggiore era dotata di uno spirito assai più vivace di quanto avesse mai immaginato. Attraverso il suo lavoro di cameriera in una casa aristocratica,

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Dolly aveva fatto conoscenza con ogni aspetto della vita dell'alta società. Aveva imparato praticamente tutto, dall'acconciare i capelli secondo la moda alla gestione di una grande casa. Dai suoi padroni, peraltro, non aveva appreso soltanto abilità domestiche; ne conosceva i segreti, i punti di vista su tutto, dalla religione alla politica. Attraverso loro si era istruita e non era più un'ignorante ragazza di campagna. Era forse ancora timida - nel senso che non parlava se non sollecitata, né usciva sola la sera -, però aveva avuto due innamorati. Uno, confidò a Mary, era stato il fratello minore del suo padrone, e questa storia le aveva fatto capire che una donna intelligente può avere il controllo del proprio destino. Disse che non aveva intenzione di sposare un umile lacchè e neppure un commerciante come il signor Castel, per poi passare la vita ad allevare bambini in ristrettezze economiche. Se nel giro di qualche anno non avesse trovato marito nell'alta società, avrebbe avviato un'attività in proprio, magari un'agenzia per fornire personale domestico. Sosteneva che il padre non aveva rivelato l'ammontare del lascito per ragioni di sicurezza. Nella lettera che si era fatto scrivere, diceva solo che era sufficiente per vivere nell'agiatezza e che, se lei avesse avuto bisogno di una somma da investire in un lavoro migliore, non doveva fare altro che chiederla. Mentre ascoltava, Mary non ebbe alcun dubbio che la sorella fosse in grado di avviare un'attività autonoma. Sotto la dolcezza e la calma esteriori c'erano una grande determinazione e molto buon senso. Mary, quindi, fu propensa a credere che avesse ragione quando cercava di convincerla a tornare in Cornovaglia. Dolly era dotata di accortezza e immaginazione; disse che con un piccolo capitale iniziale Mary avrebbe potuto gestire una pensione in Cornovaglia. Le suggerì Truro perché in quella città c'era molto passaggio, oppure Falmouth, dove avrebbe potuto offrire i propri servigi agli ufficiali delle navi e alle loro famiglie. Un'altra idea era convincere i genitori a comprare una piccola fattoria in cui Mary avrebbe potuto coltivare ortaggi da vendere.

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«Potrei anche raggiungerti se Londra dovesse venirmi a noia» rise. «Quello che devi avere chiaro, Mary, è che non sei una donna comune: sei coraggiosa, forte e molto intelligente. E più che sufficiente per avere successo. Rimanendo a Londra potresti fare solo lavori umili, come l'aiuto cuoca. Lo odieresti. Nella vita, ne hai viste troppe e non riusciresti a piegarti agli umori di una cuoca scontrosa o di una padrona con la puzza sotto il naso. Sii coraggiosa ancora una volta, e torna a casa.» Arrivò settembre con le sue meravigliose giornate, e tutte le volte che riusciva a svignarsela per qualche ora dal lavoro, Dolly stava insieme alla sorella. Le risate e il piacere di scoprire quante cose avessero in comune alleviarono il dolore di Mary per la perdita dei suoi bambini e le fecero recuperare l'ottimismo e l'energia di un tempo. Con l'aiuto di Boswell, il signor Castel aveva scritto a Ned Puckey chiedendogli di riferire ai Broad le notizie su Mary. Boswell, a sua volta, aveva scritto all'amico reverendo John Baron di Lostwithiel, affinché accertasse se Grace e William Broad erano disposti a riaccogliere Mary. Tuttavia, molto prima che Puckey o il reverendo Baron ricevessero le lettere, a casa di Boswell ne arrivò una di Elizabeth Puckey, la moglie di Ned. A quanto pareva, i genitori di Mary avevano saputo della figlia solo al momento della grazia. La vicenda della deportazione e della fuga era apparsa su un giornale della Cornovaglia, e ora tutti erano ansiosi di sapere come stava e dove si trovava. Elizabeth insisteva perché Mary tornasse dalla sua famiglia, che ora, per usare le sue parole, si trovava «in una situazione economica assai diversa, dovuta a una cospicua eredità». Diceva che Mary sarebbe stata accolta nel più caloroso dei modi da tutti i parenti, e che William e Grace Broad erano molto sollevati e felici di sapere che la figlia minore era sopravvissuta a tante terribili difficoltà. Benché rassicurata dalla lettera riguardo all'affetto dei suoi e oltremodo desiderosa di rivederli, Mary continuava a essere dibattuta: amava Londra e voleva stare vicino a Dolly; in Boswell

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aveva un caro amico e una compagnia stimolante, e si era anche molto affezionata alla signora Wilkes. Con Boswell che la portava a teatro, al caffè, al ristorante viveva esperienze che la Cornovaglia non le poteva offrire; con Dolly, poteva riappropriarsi della propria adolescenza, parlare di uomini, di vestiti e delle molte differenze tra la loro vita attuale e quella di un tempo. La signora Wilkes era una sorta di madre e zia, saggia e gentile, istruita e anche raffinata. Mary percepiva che avrebbe voluto trattenerla per farsi aiutare a mandare avanti la pensione. L'idea la attraeva perché con lei si sentiva al sicuro, ma Dolly le fece notare che avrebbe dovuto fare i lavori più spiacevoli, come svuotare i vasi da notte, trasportare l'acqua calda, fare il bucato e fregare i pavimenti; secondo lei, la sorella avrebbe dovuto aspirare a qualcosa di più. Inoltre i suoi amici erano ancora a Newgate. Mary non se la sentiva di lasciare Londra finché loro rimanevano in prigione. Andò a trovarli subito dopo avere incontrato un'altra volta la sorella, malgrado la disapprovazione di Boswell e della signora Wilkes. Newgate, così in contrasto con l'ambiente confortevole in cui viveva, la inorridì e le sembrò impossibile avere sopportato quelle condizioni per quasi un anno. Sapeva che Boswell continuava a darsi da fare per i suoi amici, ma la grazia non si profilava ancora all'orizzonte. Sam era così demoralizzato che aveva fatto domanda per arruolarsi nel Reggimento del Nuovo Galles del Sud, il corpo che doveva sostituire i Fanti della Marina nel presidio della colonia penale. Era arrivato a questa decisione perché, a suo avviso, l'Inghilterra non aveva niente da offrire a gente come lui, mentre laggiù, nel Nuovo Galles del Sud, da uomo libero gli sarebbe stata assegnata della terra da coltivare. James lavorava ancora alle sue memorie. A sentir lui, Nat e Bill tiravano fuori ogni giorno un'idea diversa su quello che avrebbero fatto una volta scarcerati. Mary aveva una paura terribile che la grazia non sarebbe mai arrivata, ma i suoi amici sostenevano

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con convinzione il contrario. Ripetevano di essere abbastanza sereni, e che lei doveva continuare la sua vita senza più preoccuparsi di loro. Fu Sam a convincerla a dare un taglio al passato. La accompagnò da solo ai cancelli, e le parlò. «Ci daranno la grazia» dichiarò convinto. «Tu, però, non devi aspettare che arrivi quel giorno, Mary. Noi quattro, una volta rilasciati, non staremo più insieme: ci stiamo da tanto tempo perché costretti dalle circostanze, non per scelta. Io voglio tornare nel Nuovo Galles del Sud, James ha in mente l'Irlanda. Bill vuole andare nel Berkshire e Nat di nuovo nell'Essex. Abbiamo condiviso la più grande delle avventure e le difficoltà più incredibili, ma una volta liberi, tutto questo non sarà nient'altro che un ricordo.» Le stava dicendo che la loro amicizia era nata dalle avversità, e che quelle erano le sole cose che li accomunavano. Mary lo capì, e capì anche che lui voleva prendere le distanze dagli altri per paura che diventassero una palla al piede. Nel proprio intimo condivideva il timore dell'amico, anche se non intendeva esprimerlo. «Tu mi hai salvato la vita sul molo di Port Jackson» continuò Sam con la voce carica di commozione. «Spero di poter raccontare un giorno di te ai miei figli. Ma adesso vai, e non tornare più a trovarci. Hai già fatto abbastanza per noi.» Mary gli prese il viso ossuto tra le mani per sfiorare le sue labbra con un bacio. «Buona fortuna, Sam» disse con tenerezza, ricordando che un tempo lo aveva considerato la sua rete di sicurezza. Ora sapeva di non averne più bisogno. Verso la fine di settembre, un'improvvisa, violenta tempesta sradicò alberi, allagò strade, e pose fine alle belle giornate. Continuò a piovere anche quando i venti fortissimi cessarono, e Mary vide con i suoi occhi la città nelle condizioni descritte da Boswell il giorno del suo rilascio da Newgate.

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Le strade erano molto insidiose: una disgustosa fanghiglia mista a escrementi umani e animali schizzava addosso ai malcapitati tanto incauti da girare a piedi. Boswell le raccontò che nei quartieri più poveri si manifestavano febbri, e le fosse comuni si stavano riempiendo rapidamente di morti. L'aria era intrisa di un fetore rivoltante, e ogni sera calava una nebbia sulfurea. Mary, in pratica imprigionata nella casa di Little Titchfield Street, si rese conto che vi sarebbe rimasta fino a primavera a meno di non partire presto per la Cornovaglia, anticipando l'arrivo dell'inverno. I suoi genitori diventavano vecchi, e lei non si sarebbe mai perdonata se a uno dei due fosse successo qualcosa prima del suo ritorno. Poi c'era il richiamo della Cornovaglia in sé, che ogni sera, nel dormiveglia, la ammaliava come il canto di una sirena, esortandola a tornare. Mary si immaginava sempre in piedi a prua di una nave che entrava nel porto di Fowey, nel momento in cui la luce del giorno svaniva e il sole d'autunno si inabissava lentamente nel mare come un'enorme palla di fuoco. Poteva vedere la cittadina che dal molo si arrampicava su per la collina, i gruppi di casette di pietra grigia inframmezzati dalle viuzze di acciottolato che i bambini percorrevano di corsa per rientrare a casa prima del calare della sera. In basso, sul molo, i pescatori si preparavano alla pesca notturna; l'oste accendeva le lampade della taverna, e i vecchi della città scendevano zoppicando verso il locale e sollevavano il cappello per salutare le donne ancora in giro. Mary avvertiva quasi l'odore di sardine sulla brace, udiva lo sciabordio delle onde contro il molo, il verso stridulo dei gabbiani e il sibilo del vento tra gli alberi sopra la città. Voleva riempire i polmoni di quell'aria pulita e salmastra, sentire l'accento della Cornovaglia e immergersi nella semplicità della vita di paese. Lei non apparteneva a Londra.

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«Credo che dovrei tornare in Cornovaglia» disse Mary a Boswell durante una delle sue visite pomeridiane. Lui rimase immobile e la fissò in silenzio con aria interrogativa. «Sì, dovresti,» disse infine «però io non voglio.» Mary pensò che con quell'affermazione Boswell intendesse che a Londra lei avrebbe avuto un futuro più luminoso. «Perché?» chiese. «Perché sentirò la tua mancanza» rispose semplicemente e Mary, con enorme sorpresa, vide i suoi occhi riempirsi di lacrime. Lei non sapeva cosa dire: Boswell le stava forse lasciando intendere che era innamorato? E in questo caso, come doveva comportarsi? «Non sentirete la mia mancanza. Potrete andare a fare visita a tutti gli amici illustri che avete trascurato così a lungo» replicò in tono leggero. «Li ho trascurati perché sono vuoti in confronto a te» disse lui con un tremolio nella voce. «Tu mi hai dato uno scopo nella vita, mi hai aperto tante nuove prospettive.» Mary avvertì un lieve imbarazzo. «È molto gentile da parte vostra, però sono io a dover ringraziare voi perché mi avete restituito la vita.» Lui scosse lievemente la testa con lo sguardo abbassato. «Io ho passato la mia a comportarmi da sciocco» mormorò. «Però sono onorato che il destino abbia scelto me per aiutarti. Mary, sei la persona più straordinaria che io abbia mai incontrato. Hai accettato con coraggio e forza d'animo ciò che la vita ti ha buttato addosso. Non ti ho mai sentito una sola volta incolpare qualcun altro.» «Non c'è da incolpare nessuno» replicò lei brusca. «Sono io che ho sbagliato.» Boswell si mise a ridere. «Oh, Mary» farfugliò. «Questa è la tua essenza. Il mondo sarebbe migliore se tutti avessero il tuo stesso atteggiamento. Io sono sempre stato circondato da persone che attribuivano ad altri la colpa delle loro sventure. Io stesso ho attribuito di volta in volta la responsabilità dei miei fallimenti a

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mio padre, a mia madre, alla mia cara defunta moglie, alle puttane, all'alcol, alla mancanza di soldi e persino al cibo. Vorrei tanto essere più giovane e attraversare la vita con te al fianco.» Con un gesto affettuoso, le fece scorrere le dita tra i capelli, poi, stringendo un ricciolo, prese un paio di forbici dal cestino da cucito della signora Wilkes sul tavolino accanto, e lo tagliò. «Un piccolo ricordo» disse, infilandolo in un sacchettino estratto dalla tasca. «Io, tutti i ricordi più cari di voi li terrò qui dentro» fece Mary portando la mano al cuore. «E fate in modo di ottenere la grazia per i miei amici, altrimenti me la prenderò con voi.» «Arriverà presto. Henry Dundas ha preso in mano la situazione.» Il tardo pomeriggio del 12 ottobre, Mary e Boswell si trovavano al Beals Wharf di Southwark, il molo da cui Mary doveva imbarcarsi sulla Anne and Elizabeth per arrivare a Fowey con la marea del primo mattino. Pioveva e tirava vento, così si affrettarono a ripararsi in una taverna nelle vicinanze. Quando Boswell era passato da Little Titchfield Street per prendere Mary e il baule con i suoi effetti personali aveva portato con sé James, il figlio quindicenne, perché la conoscesse. Il giovane James Boswell aveva gli stessi bellissimi occhi scuri e le labbra piene del padre, però era più alto e più magro, aggraziato, e con la pelle liscia. Era comprensibilmente intimidito, ma ansioso di incontrarla. Le disse che il padre aveva raccontato la sua storia a lui e alle sorelle, e che le auguravano tutti buona fortuna. Si mise d'accordo con il padre di ritrovarsi più tardi quella sera, e mentre la sua carrozza si allontanava sferragliando verso il Tamigi lungo strade bagnate e ventose, Mary rimase in silenzio con un turbinio di dubbi nella mente. Non era più tanto sicura di voler tornare in Cornovaglia, e soprattutto lasciare Boswell, il suo caro amico e salvatore. Durante il tragitto gli lanciò molte

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occhiate, mentre una grande, insopportabile tristezza le cresceva dentro. Sapeva che lui non godeva di buona salute: il colorito acceso e la rigidità delle gambe facevano pensare a un'infermità ormai prossima. Avrebbe rivisto Dolly, forse anche la signora Wilkes, invece sentiva che quelle ore prima dell'imbarco sarebbero state le ultime trascorse con lui. Nella taverna tolse il pesante mantello di lana verde scuro che le aveva regalato la signora Wilkes. Con quella donna dal cuore gentile, che le aveva insegnato tanto, si sentiva in debito quasi come con Boswell. Nessuno in quel locale sul lungomare l'avrebbe presa per una prostituta o una criminale. Ogni cosa, mantello e cuffia, vestito di lana e pesanti stivaletti, dava di lei l'immagine di una distinta governante. Comunque, quell'abbigliamento era stato scelto dalla signora Wilkes non solo perché caldo e pratico, ma anche perché le donava. Il vestito aveva un bordo di pizzo arricciato color panna intorno al collo alto e altro pizzo sulla sottana, e le calze erano di un rosso alla moda. Nel baule Mary aveva molti altri vestiti, e le era davvero difficile pensare che la donna graziosa riflessa nello specchio fosse la disgraziata di un tempo, lacera e con le catene alle caviglie. Mentre bevevano rum seduti l'uno accanto all'altra su una panca vicino al fuoco scoppiettante, tra loro scorrevano fiumi di tenerezza. Mary avrebbe voluto trovare le parole giuste per dirgli quello che provava per lui. Boswell, insolitamente silenzioso, teneva la mano sulla sua posata sulla panca, trasmettendole con quel gesto il desiderio di trattenerla il più a lungo possibile. La taverna, con il pavimento di pietra bagnato dagli stivali degli uomini, l'aria densa di fumo, l'odore prepotente degli abiti umidi, evocava a Mary quelle di Fowey e Plymouth. Comunque era un posto caldo e accogliente, dove i marinai si raccontavano storie, trovavano una donna disponibile e sperperavano in alcol i soldi guadagnati con fatica. Mary era contenta di trascorrere le ultime ore insieme a Boswell in un luogo a lei tanto familiare.

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Il giorno successivo lui sarebbe rientrato nel suo ambiente per pranzare in posti eleganti, prendere il caffè con gli amici illustri o mettersi a scrivere alla sua scrivania, mentre lei avrebbe solcato i marosi per raggiungere la Cornovaglia. «Ho disposto che il reverendo John Baron di Lostwithiel ti versi un vitalizio di dieci sterline l'anno» disse all'improvviso Boswell; quindi estrasse dal portafoglio una banconota da cinque sterline e gliela premette nella mano. «Questa è per la prima metà dell'anno; per la seconda dovrai andare da lui ad aprile e firmare con il tuo nome, come ti ho insegnato.» «Ma Bozzie, perché?» fece lei perplessa. «Non ne ho bisogno, e so che non siete ricco.» Aveva scoperto che Boswell, benché agiato in confronto alla gente comune, nella vita era passato da una crisi finanziaria all'altra, rischiando ogni volta la rovina. A salvarlo erano stati solo la fortuna e i buoni amici. «Ti darà una certa sicurezza.» Boswell non aggiunse che le sarebbe servito qualora le cose a Fowey non avessero funzionato. Mary capì quello che pensava, però preferì non parlarne. Lo ringraziò, ma il groppo in gola le impedì di aggiungere altro. Infilò la banconota nella borsina a rete ricamata per lei dalla signora Wilkes come dono di addio, e ne estrasse un pacchetto legato da un nastro rosso. «Questo è un piccolo ricordo da parte mia» disse con dolcezza mettendoglielo in mano. «Non è di valore, ma a Port Jackson era l'unica cosa che mi confortava nei momenti particolarmente difficili.» Boswell la guardò incuriosito scorgendo lacrime nei suoi occhi, quindi aprì il pacchetto con molta cura. Tutto ciò che conteneva era qualche foglia secca mezza sbriciolata. «Lo chiamavamo “tè dolce”» spiegò lei. «Il giorno prima della fuga ho raccolto alcune foglie, e le ultime le ho conservate per tutto il viaggio, da Kupang a Batavia fino all'Inghilterra e Newgate. Avrei voluto regalarvi un orologio d'oro con il vostro nome inciso sul retro, ma queste foglie, per quanto umili, per

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me hanno un significato maggiore. Di tanto in tanto guardatele e pensatemi.» Boswell legò il pacchetto e lo infilò in tasca. «Le conserverò per sempre» disse con la voce incrinata dalla commozione. «Anche se non ne avrò bisogno per ricordarmi di te, Mary, perché tu occupi un posto molto speciale nel mio cuore.» Mentre le prendeva le mani per portarle alle labbra, i suoi occhi scuri e luminosi scrutarono il suo viso come a volerlo imprimere nella mente. «In passato ho giurato amore a troppe donne, e adesso esito a farlo per paura di banalizzare ciò che provo per te, mia cara. Ma la vera amicizia, il sentimento più puro, sgorga dall'affetto. Non muore mai, non si appanna mai. Sopravvive persino alla morte.» Quel momento di tenerezza fu interrotto da grida allegre, ed entrambi, alzando lo sguardo, videro gli uomini nella taverna che salutavano l'arrivo di altri due. Uno era piccolo e magro, sui quarantacinque anni; l'altro, più giovane di una decina d'anni, era alto e biondo. «Il più vecchio è il comandante della Anne and Elizabeth; si chiama Job Moyes» disse Boswell. «L'ho conosciuto quando ti ho preso il biglietto. L'altro è il suo comandante in seconda. Invitiamoli al nostro tavolo per un punch; non dobbiamo essere tristi negli ultimi momenti che ci restano.» Job Moyes e il suo comandante in seconda, John Trelawney, salutarono molto calorosamente Boswell e Mary; era chiaro che sapevano tutto di lei. «Sarà un piacere avervi a bordo, signorina Broad» disse Job con un luccichio negli occhi. «Potremo ricorrere alle vostre doti di navigatrice se dovessimo imbatterci nel cattivo tempo.» John Trelawney la guardò con sincera ammirazione. «Siete molto più piccola e graziosa di quanto mi aspettassi. Spero che durante il viaggio mi raccontiate le vostre avventure.»

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Il complimento le provocò un fremito di piacere. Quell'uomo di straordinaria bellezza, con gli occhi ambrati che ricordavano quelli di un gatto, aveva zigomi alti, denti bianchissimi e folti capelli biondi legati dietro la nuca. Anche la voce era piacevole, profonda e vibrante, e con una lieve inflessione della Cornovaglia che le ricordava casa sua. Il punch arrivò, e Boswell propose un brindisi al futuro di Mary; poi chiese alcune informazioni a Moyes riguardo al carico, mentre John la guardava con una intensità tale da farle palpitare il cuore. Le sembrò assurdo che una cosa simile le capitasse proprio alla vigilia della partenza da Londra, perché da tempo era convinta che non sarebbe più riuscita a sentirsi sentimentalmente attratta da un uomo. «Da che parte della Cornovaglia venite?» chiese. «Falmouth» rispose lui con un sorriso, rivelando i bei denti. «Ma adesso là non ho più nessuno; i miei se ne sono andati qualche anno fa e mio fratello è partito per l'America.» «Quindi cosa chiamereste “casa”?» «La Anne and Elizabeth» ridacchiò lui. «Ma se dovessi mettere su famiglia sceglierei Fowey.» Mary alzò un sopracciglio con aria interrogativa. «Niente moglie o fidanzata, quindi?» Lui scosse la testa. «Non ho mai incontrato una donna che accettasse che il mare fosse la mia amante.» Questa frase fece riaffiorare qualcosa sepolto dentro di lei da molto tempo. Lo guardò incuriosita. «Ho rubato questa frase a vostro zio» continuò John. «Peter Broad. Da ragazzo ho fatto parte del suo equipaggio; era una brava persona e tutto quello che so l'ho appreso da lui.» Mary trasalì. «Avete navigato con mio zio?» John annuì. «E anche con vostro padre, Mary; un'altra brava persona, e sono orgoglioso di essere io a riportarvi da lui.» «Cosa succede?» chiese Boswell nel cogliere la coda della conversazione. «Dicevo a Mary che ho navigato con suo zio e suo padre, signore» fece John. «Ma voi lo sapete già.»

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«Bozzie» disse Mary in tono di biasimo. «È per questo che avete insistito perché prendessi questa nave?» Lui le rivolse un sorriso malizioso. «Avrei dovuto affidare un carico tanto prezioso a una persona qualsiasi? Prima di trovare Job ho parlato con parecchi comandanti. Ne volevo uno con cui potessi sentirti a tuo agio.» Riempirono nuovamente i bicchieri, e Boswell fece ridere i due uomini con un divertente resoconto della sua “gita” in Cornovaglia dell'anno precedente. Mary si accontentò di seguire in silenzio le sue parole. La rallegrava vedere come si animava nel raccontare una storia, con descrizioni tanto vivide da dare l'impressione all'ascoltatore di partecipare di persona alla scena. Boswell le sarebbe mancato, certo, ma ormai il timore del ritorno era svanito. La sua terra era la Cornovaglia. Uscirono dalla taverna dopo le dieci, e si avviarono verso la nave: John, un po' più avanti con Moyes, portava il baule di Mary, mentre lei li seguiva al braccio di Boswell. «Salutiamoci qui» gli disse mentre arrivavano alla nave. «Non salite a bordo: avete promesso a James che vi sareste ritrovati.» Il vento era cessato e così pure la pioggia. Per una volta non c'era nebbia; la luna e le stelle erano chiare e luminose nel cielo e facevano luccicare il fiume nero come inchiostro. Il delicato sciabordio dell'acqua contro lo scafo le riportò il toccante ricordo del suo viaggio disperato, cui non pensava da tanto tempo. «Starai bene?» le chiese Boswell, senza più l'abituale sicurezza. «Certamente» rispose Mary dandogli un bacio sulla guancia. «Il mare non mi spaventa.» Le strinse forte il braccio; il suo volto, nel bagliore della torcia accanto alla nave, parve d'un tratto più giovane. «Se mai avessi bisogno di me, mandami un messaggio» raccomandò. Lei annuì. «Abbiate cura di voi, Bozzie. E salutate da parte mia James, Bill, Nat e Sam. Mi dispiace che non potremo festeggiare insieme la loro libertà; diteglielo.» Udì tossire Moyes o John, e capì che stavano aspettando che

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salisse a bordo. «Arrivederci, mio caro amico» disse baciandolo di nuovo, questa volta sulle labbra. «Non vi dimenticherò mai. Mi avete restituito la vita.» Si allontanò in fretta, temendo di scoppiare a piangere. Appena salita sul ponte, si voltò a salutarlo con un solo cenno della mano. Lui rimase a guardarla, i bottoni d'argento della giacca e la catena d'oro dell'orologio luccicanti al chiarore della torcia. Sollevò il tricorno, fece un profondo inchino, poi si voltò per andarsene. «Vi mancherà Londra?» chiese John dietro di lei. Mary gli sorrise. Aveva la sensazione che la vera domanda fosse se le sarebbero mancate persone importanti come Boswell, non la città in sé. «No, non credo» rispose con schiettezza. «Sono felice di averla vista, ma preferisco la vita semplice, e la gente con cui posso essere me stessa.» D'un tratto ebbe la stranissima impressione di conoscere già quella nave. Si guardò intorno confusa, ma nell'oscurità riuscì a vedere solo il debole scintillio degli ottoni e il candore delle cime arrotolate. «Cosa c'è?» chiese John. «Non ditemi che un marinaio nato come voi si fa impressionare dal movimento sotto i piedi!» «No, certo che no.» Mary scoppiò a ridere perché la pronuncia arrotata di John tipica della Cornovaglia fu sufficiente a rinfrescarle la memoria. L'odore dell'acqua del fiume e un uomo che la attraeva completarono l'immagine riemersa dal passato. Vide, sul ponte della Dunkirk, la ragazza lacera e in catene che aveva messo gli occhi su un ufficiale con un vago accento della Cornovaglia. «Permettetemi di accompagnarvi alla vostra cabina» disse John. «Prenderete freddo qui fuori.» D'un tratto lei si sentì completamente libera, molto più del giorno del rilascio da Newgate. Stava andando in una cabina, non in una cella. All'alba del giorno successivo sarebbero state issate le vele, e lei avrebbe consumato i pasti con Moyes, John

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e gli altri marinai. Avrebbe potuto usare il cucchiaio se ne avesse avuto voglia, perché nessuno là vi avrebbe fatto caso. Avrebbero bevuto rum e raccontato storie di mare; e tra quegli uomini lei sarebbe stata una pari. Mentre scendeva i gradini che portavano alle cabine scoppiò a ridere. E scoppiò a ridere anche John, che l'attendeva in fondo alla scala reggendo il baule. «Siete felice di essere a bordo?» chiese con un luccichio negli occhi ambrati. «Io ne sono molto contento. Però ci aspettavamo che non voleste più saperne di navi per tutta la vita.» «Lo pensavo anch'io» replicò Mary in tono ancora divertito. «Ma questa mi fa sentire come se fossi già a casa.» ***

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Poscritto. Confesso di non avere mai guardato a queste persone senza pietà e stupore: avevano fallito nella loro eroica lotta per la libertà dopo avere affrontato ogni privazione e superato ogni difficoltà. La donna, deportata a Port Jackson sulla nave su cui ero imbarcato, si era distinta per il suo encomiabile comportamento. Non potevo che essere compiaciuto per la strana combinazione di eventi che ci aveva riunito, contro ogni umana previsione e congettura. Estratto dal diario di Watkin Tench, 1792. ***

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Nota dell'autrice. Mi è stato difficile lasciare Mary sul ponte della Anne and Elizabeth. Mi ero talmente affezionata a lei che mi sarebbe piaciuto scrivere un resoconto del tutto immaginario del suo innamoramento per John Trelawney nel corso del viaggio di ritorno a casa. Mi sarebbe anche piaciuto rendervi partecipi del suo gioioso ricongiungimento con i genitori a Fowey e del successivo matrimonio con John, e infine della nascita di un paio di figli sani e belli. Ma quella di Mary è una storia vera, e benché io abbia usato l'immaginazione nel descrivere la sua personalità, i suoi amici e i grandi stenti sopportati con tanto coraggio, ho rispettato gli eventi storici che riguardavano lei come altri personaggi di rilievo. Pertanto sarebbe stato scorretto falsare la sua vita dopo la partenza da Londra. Purtroppo non si conosce nulla di ciò che le accadde una volta tornata a Fowey. Sappiamo solo che ritirò il suo vitalizio dal reverendo John Baron, e anche che questo signore scrisse a James Boswell per conto di Mary per ringraziarlo della sua gentilezza, e per informarlo dell'ineccepibile comportamento della sua protetta. Tuttavia non c'è traccia di certificati di matrimonio, di nascita e neppure di morte che possano collocarla per certo a Fowey. Comunque io credo che una donna intelligente e audace come lei non sia voluta restare per sempre in un luogo in cui era oggetto di continui pettegolezzi. Se il resoconto di Boswell sull'eredità

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della sua famiglia era vero - e non vi è ragione di dubitarne -, penso che lei se ne sia andata, forse addirittura oltremare. Sono anche convinta che una donna come lei, apprezzata e ammirata da tutti gli uomini che la conoscevano, si sia risposata. Spero proprio che Mary abbia trovato una brava persona e abbia avuto altri figli. James Martin, Sam Broome (conosciuto anche come “il macellaio”), Bill Alien e Nat Illy vennero graziati a novembre, poco dopo la partenza di Mary da Londra. Appena usciti da Newgate si recarono da Boswell per ringraziarlo della sua gentilezza. Sam si arruolò nel Reggimento del Nuovo Galles del Sud e ripartì per l'Australia. Degli altri tre non si sa niente; tuttavia mi piace pensare che James Martin sia tornato in Irlanda ad allevare cavalli dopo avere tratto buoni profitti dalle sue memorie, oppure che si sia imbarcato per l'America. Quanto a James Boswell, purtroppo morì il 19 maggio 1795. La sua famiglia cancellò il vitalizio a Mary, e benché lui avesse annotato nel diario di avere scritto alcune pagine sulla “ragazza di Botany Bay”, queste non furono mai trovate. Sono però sicura che riposa felice, sapendo che Vita di Samuel Johnson è stata considerata la migliore biografia di tutti i tempi. Watkin Tench diventò una sorta di eroe. Fu catturato in Francia e probabilmente evase dal campo dei prigionieri di guerra. Raggiunse il grado di generale. Sorrisi nello scoprire che sposò una certa Anna Maria Sargent. Sargent era il mio cognome da ragazza, e mio padre era nella Marina reale. Watkin e Anna Maria non ebbero figli propri, ma adottarono i quattro bambini della cognata quando suo marito morì nelle Indie occidentali. I diari di Watkin Tench sopravvissero insieme a quelli di molti altri ufficiali che andarono in Australia con la Prima Flotta, e non c'è dubbio che fosse un uomo intelligente, compassionevole e onesto.

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Mary non rivelò mai il nome del padre di Charlotte, perché il tenente Spencer Graham è stata una mia invenzione. Alcuni pensano che fosse Watkin Tench, ma io ne dubito fortemente, perché avrebbe di sicuro riportato sul diario lo strazio provato nell'assistere alla sepoltura in mare di Charlotte. Mi piace pensare che gli uomini di valore della Prima Flotta, fossero essi deportati, ufficiali o fanti, sarebbero stati orgogliosi e compiaciuti nel vedere il paese meraviglioso che è oggi l'Australia. Chissà, forse Mary vi tornò sotto altro nome, e i suoi discendenti sono ancora là, coraggiosi e pieni di risorse come lei. ***

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Ringraziamenti. A Pam Quick, di Sydney, nel Nuovo Galles del Sud, non solo per le informazioni, i libri e le immagini che mi hai fornito sulla Prima Flotta, ma anche per la costante disponibilità. Senza il tuo entusiasmo, il tempo che mi hai generosamente dedicato, l'instancabile aiuto e il sostegno che mi hai dato non avrei mai terminato questo libro. Quando tornerò a Sydney ti offrirò una cena favolosa: è il meno che io possa fare. Che Dio ti benedica. Nel corso delle ricerche per Ricordati di me ho letto decine di libri. Ecco i più importanti. Tiò Brave Every Danger di Judith Cook. La realtà è spesso più incredibile ed epica della fantasia, e il documentatissimo libro di Judith Cook su Mary Bryant di Fowey è fonte di ispirazione e lettura imprescindibile per chiunque sia appassionato di storia. Fatal Shore (La riva fatale, Adelphi, Milano 1990) di Robert Hughes. Un libro splendido e avvincente sui primi anni dell'Australia. The First Twelve Years di Peter Taylor. Ricchissimo di dati senza essere arido o noioso, ha illustrazioni molto belle. Orphans of History di Robert Holden. Una storia commovente sui bambini dimenticati della Prima Flotta. The Floating Brothel (Il bordello galleggiante, Garzanti, Milano 2001) di Stan Rees. La storia delle deportate a bordo della Juliana fornisce moltissime informazioni davvero sconvolgenti.

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Boswell's Presumptuous Task di Adam Sisman. Uno splendido libro su James Boswell. Dr Johnson's London di Liza Picard. Una lettura avvincente che presenta un quadro assai vivido della Londra del Diciottesimo secolo. English Society in the Eighteenth Century di Roy Porter. *** Questo volume è stato stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento NSM - Cles (TN) Stampato in Italia. Printed in Italy