PCM - Dicembre 2014/Gennaio 2015

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PCM PERSONAL CHEF MAGAZINE | FIPPC | N. 04/2014 | Dic. 2014/Genn. 2015 LA RIVISTA ITALIANA DEL PERSONAL CHEF SEBASTIANO ROVIDA CLAUDIO SADLER DEBORA FANTINI IRENE BERNI SPECIALE FINGER FOOD IL PRIMO PERSONAL CONTEST MISS PUGLIA CHEF

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Personal Chef Magazine - La rivista dei Personal chef italiani

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LA RIVISTA ITALIANADEL PERSONAL CHEF

SEBASTIANO ROVIDA

CLAUDIO SADLER

DEBORA FANTINI

IRENE BERNI

SPECIALE FINGER FOOD

IL PRIMO PERSONAL CONTEST

MISS PUGLIA CHEF

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COVER

PCM

FIPPC - FEDERAZIONE ITALIANA PROFESSIONAL PERSONAL CHEFsede legale: via Tito Schipa, 1/D - 73058 Tuglie (Le)

e-mail: [email protected]

www.fippc.com

04/2014

dicembre 2014/gennaio 2015

PERSONAL CHEF MAGAZINE

periodico di cultura enogastronomica

organo ufficiale FIPPC - federazione professional personal chef

editore e direttore: Giorgio Trovato

direttore responsabile: Giorgio Giorgetti

redazione: Stefania Erroi

hanno collaborato: Paolo Antonio Cancedda, Federica De Prezzo, Alessandra Malagnini

grafica e impaginazione: Giorgio Giorgetti

su un modello di broluthfi (http://goo.gl/SenrTk)

COLOPHON

Per salvaguardare la voce autentica degli associati

e su richiesta diretta di molti autori, sia gli articoli della sezione

IN CAMPO, sia quelli della direzione Fippc non sono sottoposti

ad alcuna revisione editoriale, ma pubblicati integralmente,

così come giungono in redazione.

IN CAMPO

Foto originale: Sabrina Conforti, per gentile concessione di Realize Networks

Elaborazione: Giorgio Giorgetti

Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 3.0 Italia.

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AGNELLI CI CONQUISTA La nostra Federazione offre sempre ai suoi clienti i migliori prodotti reperibili sul mercato. Per sua natura, quindi, e con la medesima coerenza, la Fippc sceglie l’eccellenza anche fra i partner che la sostengono nella crescita e nell’immagine. È così che Pentole Agnelli ci ha conquistati. Perché la grande azienda italiana non è soltanto un brand di primissimo livello, ma soprattutto un’azienda che, con convizione, ha fatto della qualità e dell’innovazione il fulcro del suo successo.A dimostrazione di ciò, il centro di ricerca Saps di Pentole Agnelli testa quotidianamente strumenti di cottura professionali e sistemi di lavoro capaci di migliorare il lavoro in cucina e la qualità dei cibi, in osservanza della valorizzazione delle materie prime usate. Ha messo a punto un innovativo rivestimento di grande resistenza, il B-Cristal, per garantire performance eccezionali di durata nel tempo e di antiaderenza, applicandolo anche agli strumenti di cottura in alluminio per consentire le cotture a induzione. Oggi, quindi, la grande novità è aver rivestito con l’innovativo B-Cristal lo strumento di cottura in pur-alluminio per alimenti sia dentro sia fuori, garantendo altissima durata, antiaderenza totale, facilità di pulizia in qualsiasi lavastoviglie e con qualsiasi detergente, facilità d’uso sui piani di cottura ad induzione. La pentola Al Black B-Cristal in alluminio, nella versione classica 3 e 5 mm e per piani cottura ad induzione, si presta in modo particolare a essere mostrata in pubblico, in tutte quelle occasioni in cui là dove lo strumento di cottura diventa parte del servizio e lo spadellare viene eseguito a vista: una situazione che i personal chef ben conoscono, nel loro lavoro sotto gli occhi attenti dei clienti.

i pregi di al black b-cristal• un’ottima conducibilità termica;• un notevole risparmio energetico, grazie all’elevata capacità di condurre il calore;• è resistente agli urti, agli shock termici e alla corrosione;• un eccellente rapporto qualità/convenienza, garantito dalla scelta di un marchio qualificato che offre una verniciatura all’avanguardia, garanzia di qualità e durata;• applicando al fondo un disco in acciaio ferritico, la pentola è idonea anche alla cottura per induzione;• praticità di utilizzo e facilità di pulizia;• sicurezza dal punto di vista igienico;• conformità alle leggi in materia;• leggerezza grazie al ridotto peso specifico: una dote da non sottovalutare per chi opera professionalmente nel settore e che solleva pesi tutto il giorno;• è ideale per cotture veloci e dinamiche;• promuove una cucina a basso contenuto di grassi.

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Ingredienti per quattro persone: 400 g di filetto di baccalà già ammollato, 10-12 fettine di speck, 20 g di pinoli, 4 patate piccole con la buccia, maggiorana fresca, olio extravergine d’oliva, Aceto Balsamico Tradizionale di Modena D.O.P. extravecchio 25 anni.

Preparazione: Metti le patate in acqua fredda, porta a bollore e fai lessare per una decina di minuti: devono essere cotte al dente.

Nel frattempo, taglia in otto pezzi il filetto di baccalà, pareggiando i bordi. Avvolgi i tranci nelle fettine di speck, magari aiutandoti con uno stuzzicadenti.Metti il filetto in una teglia e cuocilo per 7-8 minuti in forno a 200 °C.

Prendi le patate lessate e tagliale a rondelle. Tostale in un po’ d’olio extravergine d’oliva, appena sufficiente per non farle attaccare alla padella, e qualche fogliolina di maggiorana fresca.

Una volta cotti, poni i pezzi di baccalà in una padellina con il liquido di cottura (se c’è), i pinoli e qualche goccia di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena D.O.P. extravecchio 25 anni, facendolo velocemente sfumare.

In un piatto di portata, stendi prima un letto di patate, poi i filetti avvolti nello speck e nappa con il sughetto e i pinoli.

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BACCALà, SPECk E ACETO BALSAMICO TRADIZIONALE DI MODENA D.O.P.

Ricetta di GIORGIO TROVATO. Realizzazione e foto di GIORGIO GIORGETTI.

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TOP & STARSTEFANIA ERROI

P. 18

EDITORIALI

P. 10

Evviva il gambero giramondo!

CLAUDIO SADLER

Le occasioni della metropoli

P. 24

GIORGIO TROVATO

P. 12

GIORGIO GIORGETTI

FIPPC ACADEMY

P. 14

STEFANIA ERROI

PRIMO CONTEST FIPPC

P. 16

FRITTATE IN GARA!

GIORGIO TROVATO

P. 28

Un presidente nel paese delle meraviglie

SPECIALE FINGERSEBASTIANO ROVIDA

Mr. Finger Food

P. 34

DEBORA FANTINI

P. 50

Quel piccolo cielo che si tocca con un dito

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TENDENZEIRENE BERNI

P. 54

Il bello di Irene

LAURA DI RENZO

Bio & logico

P. 68

DE.CO, DOP E COSì VIA

P. 76

Nella selva delle sigle

OFF TOPICCOMUNICARE MEGLIO

Foto orrenda, cucina tremenda

P. 88

IN CAMPOPAOLO ANTONIO CANCEDDA

P. 100

Al Convito di Curina c’è chi ruba con gli occhi!

FEDERICA DE PREZZO

Guida i critici gastronomici (da non incontrare mai)

P. 104

ALESSANDRA MALAGNINI

P. 108

Gioie e dolori nella reggia di chef Giorgio

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QUALITà IN STILE FIPPCEDITORIALE DI GIORGIO TROVATO, PRESIDENTE FIPPC

Spesso oggi, tanto per cambiare, si abusa anche dell’espressione

qualità senza accorgersi poi di quanta contraddizione ci sia tra i

gesti concreti e ciò che si proclama.

Invochiamo spesso una qualità della vita che si concentra

semplicemente sugli aspetti materialistici dimenticandoci della

qualità reale: la scelta di quello che mangiamo, la scelta dei rapporti

umani, la scelta delle esperienze che decidiamo di vivere e la scelta

dell’importanza che decidiamo di dare alla nostra formazione.

Fippc sin dall’inizio, attraverso l’attività dei suoi organi istituzionali ha

cercato di fare in modo che tra la qualità delle azioni intraprese e la

realtà non ci fossero discrepanze e che la qualità fosse realmente un

elemento distintivo.

Superato il primo step oggi posso certamente affermare che la qualità

è uno degli elementi caratterizzanti del modus operandi Fippc.

• Qualità nella formazione dei propri associati, attraverso l’attività

svolta dalla Academy, attività che nel corso del tempo sta cercando

non solo di creare e rafforzare basi che fanno del Personal Chef

professionista un soggetto che opera con uno stile completamente

differente da quello di altri competitors ma anche migliorando ed

ampliando le tematiche e le specializzazioni attraverso la possibilità

di calarsi attivamente in una realtà ristorativa di qualità attraverso

le Work Esperience Fippc con l’intento di aumentare quanto più il

livello specialistico di ogni singolo operatore.

• Qualità nell’espletamento del servizio teso a realizzare al meglio un

evento unico con la giusta attenzione sia alla sostanza che ai dettagli

partendo dalle tradizioni ma contestualizzandole allo stile di vita

attuale, rispettando il gusto e allo stesso tempo cercando di strizzare

un occhio agli aspetti salutistici.

• Qualità nella scelta dei partners, non dei semplici sponsor ma

delle realtà di primissimo piano con le quali interagire in modo

continuativo e proficuo facendo sì che ogni associato possa godere

dei benefici di tali partnership.

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Oltre che presidente della Federazione e rettore di Fippc Academy, Giorgio Trovato è executive chef e restaurant manager a Il Convito di Curina del Villa Curina Resort a Castelnuovo Berardenga (Si). Ha prestato la sua consulenza all’estero per numerosi ristoranti nel mondo: come quando ha guidato 65 cuochi di Stefano’s Fine Food Factory a Kiev in Ucraina o ha seguito la cucina de Il Vicoletto a Dublino.

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• Qualità significa anche avere la forza e la capacità di dire no,

di essere selettivi e di rifuggire da facili palcoscenici e da momenti

di visibilità apparente capace di sciogliersi come neve al sole.

La qualità, la rigidità metodica purtroppo hanno un dazio

da pagare che spesso si concretizza o in semplice impopolarità

o anche in mancati introiti economici. Ma ben vengano situazioni

del genere se devono essere utili ad una crescita qualitativa

dell’intero movimento Fippc.

• Qualità anche nel rinnovato restyling del PCM, organo ufficiale di

comunicazione Fippc affidato alle cure del nostro Giorgio Giorgetti,

il direttore che ha sposato l’idea di far diventare il Personal Chef

Magazine uno strumento di confronto, di informazione e di supporto

sia per gli associati che per i lettori appassionati e tecnici del settore.

La qualità paga sempre chi ha la forza e la capacità di riuscire ad

offrirla aspettando le giuste tempistiche.

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ECCOLA QUA!EDITORIALE DI GIORGIO GIORGETTI, DIRETTORE RESPONSABILE

Signore e signori, la nuova rivista è questa. Finalmente!

E dovrei fermarmi qui, riprendere un attimo il fiato e mettermi

anch’io a guardarla come se già non mi uscisse dagli occhi, tante

volte ho fatto scorrere queste pagine, questi testi e queste immagini.

Mi piacerebbe raccontartela tutta, questa nuova PCM.

Ma è probabile che la storia t’interessi poco e che tu non veda l’ora di

sfogliarla, se già non l’hai fatto.

Era la rivista che volevo io? Sì, quasi, insomma, abbastanza.

Ci sono ancora un po’ di cose da sistemare, ma esistono ampi margini

di miglioramento, già nel prossimo futuro.

Era la rivista che volevi tu? Non lo so, questo me lo devi dire tu,

magari sulla prima novità di PCM: una pagina su Facebook tutta

dedicata alla rivista e al suo rapporto con i lettori, che probabilmente

hai già visitato (e, se non l’hai fatto, fallo subito: http://goo.gl/qHPokv).

La seconda novità è che la grafica è del tutto cambiata, con

un'impaginazione più simile a quella di una rivista seria.

E spero che questo la renda non soltanto più accattivante, ma

soprattutto più facile da leggere e sfogliare.

Ma fermarsi alla semplice estetica sarebbe un errore.

La vera, grande novità (e siamo già a tre) riguarda i contenuti.

Articoli, interviste, esperienze che credo finalmente comprensibili,

utili, originali e soprattutto esclusivi. La nuova PCM, infatti, non

parla soltanto della nostra Federazione e non raccoglie solo le

testimonianze degli associati, ma vuole diventare un punto di

riferimento autentico per chiunque desideri intraprendere la

professione del personal chef. E per chiunque ami la cucina.

Il bistellato Claudio Sadler, che non ha certo bisogno di presentazioni;

lo chef Sebastiano Rovida, balzato al successo televisivo prima con

Fuori Menù, poi con Finger Food Factory; Debora Fantini, vincitrice

del campionato italiano di finger nel 2012; Irene Berni, maestra

d’accoglienza e di mise en place, tutti insomma parlano con noi e per

noi personal chef, non per altri. E possiamo trovare le loro interviste

qua e solo qua. E poi tutto il resto, per oltre 100 pagine tutte da

leggere e da guardare. Una rivista vera, insomma, che nessun’altra

Federazione italiana di cuochi prossiede. Neppure lontanamente. Per

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Giorgio Giorgetti è un giornalista che si occupa principalmente di divulgazione scientifica e vive con una moglie, un cane e un ferocissimo gatto in una cittadina della provincia di Varese, così piccola da sembrare un paesino delle fiabe. È anche un sommelier Ais, ma non lo dice quasi mai.

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lo meno, non così bella e attuale. Alla faccia della falsa modestia!

Naturalmente, c’è sempre spazio per tutti, non soltanto per gli ospiti.

Lo scrigno che conserva i testi di chiunque desideri collaborare si

chiama IN CAMPO ed è un nome parlante: io, tu, noi, voi, tutti con le

nostre vicissitudini tra lavoro, vita, stage e corsi, a volte comiche, a

volte drammatiche, a volte spiritose e avventurose.

In mezzo a tutte queste novità, di cui ho ormai perso il conto, ne

spuntano di sicuro anche altre.

Ma questa di sicuro ti stimolerà: corri a pagina 16 e scopri il

CONCORSONE, il primo contest Fippc a cui tutti possono partecipare!

C’è una gara di frittate e un bellissimo premio al vincitore...

Che cosa vuoi di più?

Ok, basta, potrei scrivere per ore, parlando di queste pagine. Meglio

se ti lascio scoprire tutto da solo. E, se hai voglia, non dimenticarti di

raccontare che cosa ne pensi sulla pagina PCM di Facebook.

Lì potrai postare commenti, suggerimenti, idee, critiche e quanto

desideri. A me premeva una sola cosa: che tu avessi una nuova rivista

e che anche la Fippc l’avesse. Prima non c’era, ora c’è. Davvero.

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ALLA RICERCADELLA CREATIVITà

DI STEFANIA ERROI, SEGRETARIA FIPPC

Da quando ho iniziato ad interessarmi a livello professionale di

cucina, ho incontrato la parola “creatività” almeno un milione

di volte. Ho letto di cucina creativa, ho sentito in tv parlare

di cucina creativa e mi sono imbattuta in un’infinità di persone,

soprattutto appassionati di cucina a livello amatoriale che, nella

descrizione di sé e presentandosi hanno usato con me l’aggettivo

“creativo”. Sarà stato per il fatto che di creativo, avendo una mente

più improntata alla logica e alla matematica, non ho mai pensato di

possedere granché, sarà perché ho sempre immaginato il creativo

come un essere speciale al limite del genio, ad un certo punto ho

deciso di approfondire (cosa che mi affascina e mi riesce bene).

Così ho cercato di capire cosa sia questa così tanto sbandierata e

celebrata “creatività”.

Un po’ tutti concordavano nel considerarla una specie di balzo,

veloce e inconsapevole del pensiero o un cortocircuito dei normali

processi di ragionamento. Una particolare abilità quindi che permette

di produrre qualcosa di “nuovo”. Distruggere per ricostruire… più o

meno. A questo punto mi sono chiesta se Darwin o Einstein allora

fossero dei creativi e se pur possedendo doti naturali che pochi

sapranno eguagliare in futuro, i cosiddetti “doni di natura”, potessero

queste doti lavorare senza sforzo e per intuizioni repentine.

Ovviamente no. Perché l’intuizione è lo stadio finale di un lungo

processo cognitivo e lo stesso Einstein dovette cimentarsi in un

lunghissimo e faticoso lavoro prima di arrivare alle sue teorie. È la

combinazione tra vincoli e imprevedibilità, tra familiarità e sorpresa

che fa balenare il lampo creativo.

Allora perché saremmo tutti creativi?

Forse si confonde creatività con originalità (ma poi siamo così sicuri

che quel piatto non sia stato già pensato ed esista?) o peggio con

trasgressione e sregolatezza. Ma il genio quando produce lavora con

metodo, dedizione e applicazione sia che si tratti di un artista che di

uno scienziato o un cuoco.

Se mescolare ingredienti a caso fa pensare che basti questo per essere

innovativi, originali e creativi forse non si è sulla strada giusta e forse

il risultato più probabile sarà quello di produrre pietanze al limite tra

l’immangiabile e il tossico. Allora come si lega il concetto di creatività

a quello di cucina dopo un’introduzione forse un po’ noiosa?

Il legame c’è ed è molto forte.

La cucina può essere considerata il “campo di applicazione”

della creatività a patto che quest’ultima consista nel “cuocere”

virtualmente conoscenze profonde, informazioni di qualità e notizie

fresche reperendole direttamente dal “mercato” della cultura.

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NELLA VITA NORMALE, SEMPLICITà è SINONIMO DI “FACILE DA FARE”, MA QUANDO UN CUOCO USA QUESTA PAROLA, SIGNIFICA “CI VUOLE UNA VITA PER IMPARARE”. (BILL BUFORD)

Responsabile del coordinamento segreteria e partnership della Federazione e direttrice di Fippc Academy, Stefania dirige sia un ben avviato studio legale, sia un’impegnativa famiglia. Professional personal chef e chef de cuisine, nel 2014 ha vinto il titolo di Miss Chef Puglia Imperiale.

DIVENTA PROFESSIONAL PERSONAL CHEF!i prossimi appunTamenTi Con i Corsi FippC inTermediaTe

Dal 12 al 18 gennaio 2015 a LECCE, in Puglia.

A febbraio 2015 in Lombardia (date e sede da definire).

A marzo 2015 in Sicilia (date e sede da definire).

Gli altri appuntamenti sulla pagina Fippc Academy di Facebook. Clicca su http://goo.gl/8lwGUx.

Per info: [email protected].

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Per avere quindi “materiale” su cui e con cui operare bisogna passare

attraverso lo studio e la formazione di qualità.

Se la scorsa volta ho spiegato che l’improvvisazione non paga in

nessun settore stavolta vi spiego come la creatività si possa esprimere

attraverso tante attività, anche le più apparentemente banali e

quotidiane e a una grande quantità di livelli.

Un esempio…? Basti pensare alla cucina degli “avanzi”, con i quali si

possono preparare piatti o decorazioni gourmet e che non possono

prescindere a maggior ragione da ingegno e abilità. Se la Fippc applica

in modo rigoroso certi concetti e certi passaggi attraverso la gradualità

è solo perché ha l’ambizioso desiderio di consegnare insieme ad un

attestato di formazione professionale anche qualcosa di differente,

a mio parere di valore inestimabile: la tranquillità di operare

correttamente eliminando il più possibile il margine di rischio con

i propri clienti e la sicurezza di avere dei punti di riferimento che un

po’ come la rosa dei venti non faccia mai sentire smarriti.

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LA GRANDE SFIDA A COLPI DI FRITTATA

Niki Segnit, nel suo libro La grammatica dei sapori, dice che la

frittata è l’equivalente gastronomico della tuta da casa: comoda,

informale, familiare. E conclude affermando che, se nel frigo ti

ritrovi due uova, presto o tardi farai anche tu una frittata.

Non si scampa, insomma: la frittata è come il destino.

Eppure, questo piatto all’apparenza banale possiede mille

variazioni sul tema e milioni di difficoltà, non ultima quella

dell’impiattamento: hai mai visto una frittata ben accomodata,

che non somigli a qualcosa di osceno? Beh, non è facile.

CONTEST FIPPC N. 1

La prima competizione fra i personal chef della Federazione

è su un piatto che sembra facile, ma che invece presenta mille insidie

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VALE TUTTO. Basta che possa definirsi una frittata o un’omelette. Vietate soltanto le crêpes.

PRIMO PREMIO. Il libro con dedica personalizzata riservato al miglior creatore di frittate.Non sai chi è Irene Berni? Corri a pagina 54, allora!

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Per tutti questi motivi, la prima sfida degli chef

Fippc sarà proprio contro questo difficilissimo

piatto. Sono ammessi tutti i tipi possibili di

frittata e di omelette, dolci o salati.

Via libera anche con gli ingredienti: basta che ci

siano le uova, che possono essere anche di struzzo

o di serpente, se proprio lo desideri!

Per partecipare basta inventarsi una ricetta

(una sola a concorrente), preparare la frittata

e fotografarla meglio che si può. Foto e ricetta

devono essere postate sulla pagina Facebook

della rivista entro e non oltre il 31 gennaio 2015.

In bocca al lupo e vinca il migliore!

Il concorso è aperto a tutti,

a eccezione dei membri

della direzione Fippc.

La consegna del materiale

è fissata per il 31 gennaio

2015. In bocca al lupo!

Chi vincerà avrà in premio il

libro Quello che piace a Irene,

di Irene Berni, con dedica

personalizzata dell’autrice.

REGOLE FACILI FACILI

CONCORSONE!

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EVVIVAIL GAMBERO

GIRAMONDO!

DI GIORGIO GIORGETTI

Su di lei si narrano mille storie favolose. Come di quella volta che,

durante una sua lezione di cucina, indicò perentoria la porta a

Tonino Cannavacciuolo, raggelandolo con una sola parola: Addìos!

O di quando si mise a insegnare a Gordon Ramsay imprecazioni in

pugliese. O dell’invidia secolare che Carlo Cracco continua a nutrire

nei suoi confronti (sembra che lei gli abbia detto di accontentarsi

della San Carlo... o qualcosa del genere...).

Ma questa non è una delle mie solite news e neppure una leggenda

metropolitana. È la vera verità: Stefania Erroi, la nostra Stefania

Erroi, è Miss Chef Puglia Imperiale 2014! La Fippc, insomma, in

qualche modo ha conquistato anche questa bellissima regione.

O viceversa, che in fin dei conti è quasi la medesima cosa.

«Seconda è arrivata Gabriella Masi, anche lei professional personal

chef della Fippc» dice Stefania. «Così, anche se non avessi vinto io,

la fascia sarebbe lo stesso rimasta in Federazione. Gabriella è stata

eccezionale e non avrei proprio voluto essere nei panni della giuria:

abbiamo dato vita a un vero scontro fra Tuglie e Corato, Lecce

contro Bari, come capita sempre dalle nostre parti... Come mi sono

sentita quando hanno detto che avevo vinto? Sono scoppiata a

ridere perché non ci potevo credere».

Ok, Stefania, allora partiamo dall’inizio di quest’avventura.

Come ci sei finita dentro? «Un giorno mi chiama l’organizzatrice

della manifestazione, Mariangela Petruzzelli, e mi dice che ero

stata segnalata per rappresentare la provincia di Lecce a questa

competizione. In palio c’era il titolo di Miss Chef Puglia Imperiale...».

E tu? «Io ho detto sì, anche se all’inizio non so bene perché l’abbia

fatto. Forse perché mi piaceva l’idea della sfida, soprattutto di

confrontarmi con me stessa in una situazione di questo tipo».

E così, lo scorso 16 settembre, si trovarono in quattro a scendere

in campo per duellare in uno show-cooking all’ultimo sangue: le

nostre Stefania e Gabriella, più Maria Falcone di Manfredonia e

Lory Ignone di Carovigno. Palcoscenico dello scontro la Masseria

Sei Carri di Andria, a porte serrate per l’occasione. Due le giurie, una

di tecnici esperti e l’altra di personaggi della cultura, della politica,

dell’imprenditoria, dello spettacolo e dell’enogastronomia.

«La maggior soddisfazione l’ho avuta con loro, con gli esponenti

della seconda giuria. Quando hanno assaggiato il mio piatto,

avevano un’autentica espressione fisica di gioia e di estasi. È stato

bellissimo, per quanto mi riguarda avevo già vinto la mia battaglia».

La nostra infaticabile Stefaniaconquista il titolo di Miss Chef 2014

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BRINDISI, INCORONAZIONE, GLORIAALLA NOSTRA CHEF CHE HA VINTO PER LECCE, MA ANCHE PER TUTTI NOI

Ci sono stati momenti dello show-cooking in cui ti sei sentita

impaurita o a disagio? «Se devo dirla tutta, il momento in cui

mi sono sentita più “strana” è quando mi hanno fatto vestire

da sera, con tutti i trucchi e parrucchi possibili e immaginabili,

subito dopo la presentazione dei piatti... Continuavo a ridere,

mentre c’era tutta questa gente che mi correva attorno, mi

metteva i vestiti, mi raccoglieva i capelli, mi truccava... Ma dai,

io sono un maschiaccio, lo sanno tutti! Invece hanno voluto

trasformarmi in una fatina...».

Però, alla fine, la nostra fatina un incantesimo l’ha fatto. Un

incantesimo bello e buono. Racconta un po’ il tuo piatto, che

già dal nome pare piuttosto originale: “Un gambero a spasso”.

«Il gambero è quello viola di Gallipoli» dice Stefania. «È il

crostaceo che amo di più, perché da una parte somiglia molto

al gambero rosso, dall’altra è persino più delicato e tenero,

gustosissimo. Si pesca nello Ionio e anche in Liguria ed è un

prodotto locale fantastico, anche se sempre più difficile da

reperire. Lo puoi fare davvero in tutti i modi, in carpaccio,

in tartare, è buonissimo così com’è... Volevo che fosse il

protagonista del mio piatto fin da subito. Ma non avevo

pensato che avrei avuto bisogno di ben 42 esemplari!».

Perché così tanto? «Perché si doveva servire un piatto a

ciascun giurato. E considera che il mio piatto era un trittico:

tre gamberi cucinati in tre modi diversi». E allora? «E allora è

andata a finire che tutti i pescatori del porto, quando hanno

saputo che rappresentavo Lecce, si sono messi assieme per

cercare in fretta e furia 42 gamberi viola. Ce l’abbiamo fatta

per il rotto della cuffia».

Raccontami il piatto, dai. «Come dice il titolo, è un gambero

che va a spasso, che fa un bel viaggio d’andata e ritorno. Parte

da Gallipoli, è ovvio, e attraversa le Puglie, incontrandosi

con la nostra burrata. Quindi il primo gambero è stato

preparato in carpaccio con emulsione di burrata, zest di lime

e timo limonato. Poi esce dall’Italia e si lascia suggestionare

dall’Oriente: quindi eccolo in tartare, su uno zoccolo di

mango con succo di frutto della passione e una spruzzata di

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cardamomo. Terza e ultima parte del trittico: il ritorno

a casa del nostro gambero girellone. Naturalmente, la

prende un po’ larga e passa anche dalla Sicilia e dalla

Toscana. Eccolo quindi in crosta di lardo di Colonnata

con caponatina siciliana rivisitata».

Una ricetta piuttosto complicata... «A dirla tutta, la cosa

più difficile è stata preparare i 14 piatti, che dovevano

essere tutti uguali e tutti perfetti. Se un gambero ti

cadeva, non stava in equilibrio, erano dolori. Ma poi, in

sé e per sé, le ricette non erano difficili da realizzarsi.

Sono stati piuttosto gli impiattamenti a sfibrarmi... Ero

già tesa per la gara, emozionata. Però è andata bene.

Lo ripeto: il momento più bello non è stato quello

della vittoria vera e propria. Non lo dico per modestia.

Gabriella aveva fatto un piatto strepitoso e io mi ero

già vista seconda. Quando hanno detto il mio nome,

la sorpresa è stata così grande che quasi non sono

neppure riuscita a godermela».

Ma allora qual è stato il momento più bello della

serata, per te? «Te l’ho detto. È stato quando la giuria

istituzionale, quella insomma formata non dagli

addetti ai lavori, ha assaggiato i miei gamberi. La giuria

tecnica era stata molto compassata, si vedeva che i

giurati facevano il possibile per darsi un contegno, per

assaggiare in maniera spassionata. Gli altri, invece, il

mio piatto se lo sono proprio goduto. Sai quando vedi

un cliente che raggiunge l’estasi per qualcosa che hai

preparato? Ecco, è stato così. Questo è stato davvero

il momento più emozionante, in cui mi sono sentita

gratificata tantissimo per questa reazione spontanea

di piacere e gioia».

Sia come sia, la Puglia ha una nuova Miss Chef e si

chiama Stefania Erroi. E, con lei, sul podio ci finisce

anche un po’ la Fippc. È nata una nuova stella della

cucina: lasciamola brillare libera e felice per qualche

miliardo di anni.

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CLAUDIO SADLER, chef bistellato di Milano, patròn dell’omonimo ristorante in via Ascanio Sforza 77.

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LE OCCASIONIDELLA

METROPOLI

DI GIORGIO GIORGETTI

Claudio Sadler, due stelle Michelin da tempo infinito e d’altrettanto

tempo sinonimo di qualità indiscussa in tutta Milano. E oltre,

naturalmente. I meneghini più vecchi se lo ricordano ancora

quando era patron dell’Osteria di Porta Cicca, in Ripa di Porta

Ticinese: era qui che andavano le famiglie bene del capoluogo

e provincia, quando volevano mangiar davvero i piatti della

tradizione. Ci andavano i genitori di un mio caro amico, negli

anni Ottanta-Novanta, ogni tanto si portavano dietro il figlio, un

ragazzino come me ma già appassionato di cucina. Del Sadler di

quei tempi, quindi, ho soltanto racconti di seconda mano, per lo

più sfocati dal ricordo. Un tempio della gastronomia milanese,

mi dicevano. L’unico posto dove si possono gustare i veri piatti

meneghini, mi ridicevano. Il fatto che a due passi ci fosse anche

l’altro mito di Milano, Al Pont de Ferr, a quanto pare non disturbava.

Ma a quei tempi, a casa mia, neppure l’auto avevamo: figurati se

riuscivamo ad andare in quattro all’Osteria di Porta Cicca, che nel

1991 aveva già conquistato la sua prima stella Michelin.

E, a questo punto, era chiaro che l’osteria s’era fatta stretta. Il

locale si spostò così in via Trollo, sempre in zona Navigli, e nel

2002 si prese la seconda stella. Ed è questo il Sadler che comincio

a conoscere pur io, finalmente, soprattutto quando il ristorante

approda in via Ascanio Sforza. Quello di una cucina meditata ma

non saccente, quello della ricetta “che forse ce la faccio anch’io”,

ma che non ti viene mai uguale. Quello che ti pare tutto facile,

poi alla fine capisci che quest’apparente semplicità è questione di

grandissima tecnica. E di stile. Il suo, benedetto da un cognome che

è da solo un marchio naturale e che dà nome al ristorante, a scanso

di equivoci. Sadler. Bellissimo. Mica Giorgio Giorgetti, che quando ti

presenti, devi giustificare la fantasia di mamma e papà!

«Il bello di lavorare a Milano è che questa citta è moderna e

cosmopolita» afferma Sadler in prima battuta, quando gli chiedo

come concilia prodotti del territorio e cucina. «Qui la logica del

chilometro zero non esiste, non ha molto senso. Credo che uno

chef, piuttosto, debba essere capace di sfruttare le occasioni che

un mercato gli offre, piuttosto che intestardirsi su una determinata

filosofia, che in alcuni luoghi può essere sterile o addirittura

controproducente per tutti, clienti inclusi».

Mi spieghi meglio... «Il mercato del mondo passa da qui, da Milano»

Il grande chef milanese offre la sua interpretazione del rapporto fra cucina e territorio

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RISOTTO AL NERO DI SEPPIA, CONTRASTO DI MANGO, CALAMARI E UOVA DI PESCE VOLANTE

Ingredienti per dieci persone: 800 g di riso Carnaroli, due scalogni tritati, 4 l di brodo di pesce, vino bianco q.b., 50 g di nero di seppia, tobiko (uova di pesce volante) q.b., 100 g di Parmigiano Reggiano, 50 g di burro, olio extravergine d’oliva all’aglio q.b., tre calamari tagliati a julienne, citronette q.b. per la salsa di mango: due manghi ben maturi e dolci.

Preparazione: Prepara un buon brodo di pesce. In una casseruola fai soffriggere lo scalogno assieme all’olio, tosta il riso, sfuma con vino bianco, bagna con il brodo di pesce e cuoci per 15 minuti. Negli ultimi minuti di cottura, aggiungi il nero di seppia al riso.In seguito prepara la salsa di mango, frullando con un mixer i manghi, passando il tutto al colino. Taglia i calamari a julienne e condiscili con la citronette, il sale e il pepe. A cottura ultimata del riso, mantecalo con burro, Parmigiano e olio all’aglio. Servi in un piatto piano con al centro il riso, la salsa attorno e la julienne di calamari sopra.

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dice. «A Milano si trova tutto, basta

cercarlo e pagarlo. Magari non

c’è l’ortaggio colto e mangiato del

contadino, ma è più facile avere

l’agnello irlandese. E questa è

una risorsa non da poco, per un

ristoratore».

Quindi niente km zero? «Non ho

detto questo. Dico che a Milano è

difficile. Altre possibilità, invece,

sono molto più suggestive. Occorre

avere una visione più ampia del

concetto di territorio: la vera

eccellenza di Milano è il suo mercato

cosmopolita ed è importante saperlo

sfruttare bene, con intelligenza

e sensibilità, con attenzione alla

qualità. Da altre parti, sarà vero il

contrario, sarà più sfruttabile il km

zero, non lo so. Ma io opero qua, non

in altre località d’Italia».

Ma come riesce a coniugare la

tradizione gastronomica con la

produzione locale? «Non so se le due

cose sono così inscindibili. Penso

ad alcuni piatti tipici milanesi...

Non è che le materie prime che li

compongono siano state, anche

storicamente, meneghine al cento

per cento. La ricerca della qualità

viene prima dell’aderenza cieca alla

produzione locale. Anche perché non

è detto che nostrano sia sinonimo

di bontà. Se a ciò si aggiunge che la

cucina tradizionale, fatta come un

tempo, non la si propone più...».

Mi sta parlando di rivisitazione... «Sì,

ma una rivisitazione intelligente.

Piatti milanesi in carta ne tengo

ancora, perché qualcuno che

li chiede c’è sempre. Ma sono

proposti in maniera più leggera, con

rosolature più delicate e, quando

occorre, magari con cotture a bassa

temperatura. E poi per queste

pietanze c’è soprattutto la mia

trattoria, Chic’n Quick, dove si fa

più tradizione che nel ristorante

principale e ritengo che la si faccia

bene e con intelligenza. Al Chic’n

Quick si possono trovare il riso giallo

al salto, la costoletta alla milanese e

così via. Anche qui, cerco di seguire

la stagionalità pur contenendo i

prezzi, rendendo la buona cucina più

accessibile».

La riporto al ristorante vero e

proprio e alla sua cucina, quella che

è più legata al suo nome. Ci sono

punti fermi che vorrebbe indicare?

«Il vero punto fermo è che non sto

mai fermo. Che dopo tutti questi

anni provo e sperimento ancora, che

stare in cucina mi piace ed è anche

per questo che ogni due mesi circa

cambio il menù. Ho poi la fortuna di

avere un personale di cucina molto

creativo: anche se il ristorante è

mio, i miei ragazzi vivono e creano

con me» racconta. «Come dicevo,

mi piace sperimentare, ma non ho

mai amato l’astrusità. Il piatto, per

me, deve esser comprensibile. In

tutti i sensi. Se il cliente lo guarda

perplesso, è molto probabile che tu

abbia fallito. Credo che questo sia un

buon consiglio da dare a un personal

chef: proporre piatti riconoscibili,

identificabili».

Qualche altro suggerimento?

«Di studiare bene il territorio e le sue

eccellenze. Di capire come sfruttarlo

al meglio. Come dicevo prima, se si

sta in una grande città, magari non

si ottiene il km zero, ma si hanno

occasioni maggiori per trovare

prodotti rari. Se invece si sta in

centri più piccoli, si ha magari a

portata di mano cibi eccellenti,

che è bello usare per riscoprire e

farli riscoprire, valorizzandoli. Il

territorio deve essere sfruttato con

intelligenza, insomma, non con

idee precostituite».

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UN PRESIDENTE NEL PAESEDELLE MERAVIGLIE

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Metti una sera in cui devi sbucciar carote e alla tivù

non c’è nulla di nulla. Metti che termini lo zapping sul

canale di Alice tv (221), proprio sulla faccia sorridente

dello chef Persegani e sul quella un po’ più seria della

Rizzi. Ok, mi dico: Persegani mi piace, mi è simpatico,

mi ricorda persino un mio amico del Modenese... E poi

magari ti tira fuori dalla pentola qualcosa di carino...

E così, mentre con le mani pelo carote, con un occhio

guardo il pelapatate, con l’altro sbircio Persegani e con

tutto il resto vivo da qualche altra parte, ecco che mi

sveglio all’improvviso dall’ipnosi quando la Rizzi, tutta

giuliva, cinguetta il nome del prossimo ospite, Giorgio

Trovato. Giorgio Trovato? Ho capito bene? Ma dai,

penso, ma davvero è lui?

Non faccio in tempo a chiedermelo davvero che

eccolo lì, faccia da pirata con tanto di microchignon

in testa, sorriso un po’ teso e vorrei vedere, perché

starsene in tivù non è mica facile!

Ok, è proprio lui, il nostro presidente. Che cucina e

parla con la Rizzi... Prima sbuccia una carota, taglia

una patata e le mani gli tremano un po’, ma poi si

riprende, perché i gesti tra pentole e coltelli sono

quelli di una vita e l’emozione li può rallentare

soltanto per un attimo. Naturalmente, parla anche di

noi, della Federazione, e spiega che cosa fa un personal

chef e in che modo è diverso da un cuoco di ristorante.

Nel frattempo, la ricetta va avanti.

«È una cosa facile, facile. Si può realizzare anche

mentre si sta facendo altro...», afferma. Con i gamberi

che non ci sono e allora via libera alle mazzancolle.

Con la Rizzi che lo tampina e che cerca di intervistarlo,

di scucirgli qualche informazione in più sulla sua vita,

la sua esperienza. Ma basterebbe guardargli le mani

per avere tutte le risposte. Mani che parlano della

maestria di uno chef che porta in tivù anche una parte

di noi, assieme alle sue squisitezze.

MA GUARDA UN PO’CHI è OSPITE

DI FRANCA RIZZI A CASA ALICE!

UN PRESIDENTE NEL PAESEDELLE MERAVIGLIE

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MA IL PIATTO... SE L’è PORTATO DA CURINA?

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preparazione: metti la carota, lo scalogno, il sedano e le patate con la buccia in una casseruola con un po’ d’acqua e fai bollire per 10 minuti circa. Passa con il frullatore a immersione fino a ottenere una vellutata. Pulisci i gamberi o le mazzancolle e tagliali a tocchetti. In un piatto fondo, metti un ramaiolo di vellutata, i pezzetti di gambero, le fettine di cedro candito (una per ogni tocchetto di gambero), le bacche di Goji e il cuore sfilacciato della burrata. Condisci con un pizzico di sale nero di Cipro e con un filo d’olio extravergine d’oliva.

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Una trasmissione, una rivista e adesso persino

un libro, uscito da pochi giorni, dedicato al cibo

più maneggevole del mondo... Non si scappa: il

titolo di Mr. Finger Food dell’anno è tutto per

Sebastiano Rovida, cuore da chef autentico, ma

faccia malandrina e sguardo ironico in prestito

alla tivù. «Finché dura...» aggiunge lui, il Seba, con

quella voce che par sempre ti sfotta un po’, pari

pari a quella che si sente a Fuori Menù. Com’è

che a Finger Food Factory, invece, sei diventato

serio? «Guarda che non è che io faccio o divento a

seconda del programma», mi sottolinea al telefono.

«Sono così, punto e basta. Non sono un attore...

Sono un cuoco in tivù. Non ho mai lasciato la

cucina. Ho 32 anni, sono sposato e anche papà, e la

televisione mi ha permesso di mettermi in proprio,

di farmi conoscere, di avere clienti che prima

neppure potevo sognarmi... Ed è bellissimo, ma non

dimentico mai che l’esperienza in tivù potrebbe

finire, mentre il mio lavoro in cucina no».

Ok, s’è capito. Io non volevo rubargli troppo tempo

per quest’intervista, ma Sebastiano è un fiume in

piena, quando parla.

E non si risparmia, è tutta passione.

Parliamo dei finger food, Seba: hai scelto questo

filone modaiolo perché te l’hanno imposto, perché

sei un furbetto o perché ti piacciono davvero?

«Mah, furbetto mica tanto. I finger sono ancora un

prodotto di nicchia. Magari si vedono in giro, ma

non si sa come si chiamano... Forse una trasmissione

con proposte più convenzionali avrebbe fatto un

maggior ascolto, non lo so. I finger, comunque,

io li amo davvero. Mi piace tantissimo crearli e

prepararli. Anzi, penso proprio di essere stato fra

i primi, in Italia, a proporre finger food. Si era più

o meno nel 2003, erano i tempi dei “bicchierini”,

che a Milano erano una novità e quindi lo erano di

certo in tutto il resto del Paese. Non è che fossero

già dei finger; erano ancora un po’ incerte, come

LO CHEF PIÙ IRONICO DELLA TIVÙ CI SVELA I SEGRETI DEL CIBO

PIÙ MANEGGEVOLEDEL MONDO

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Foto di SABRINA CONFORTI, per gentile concessione di SPERLING & kUPFER, dal libro FINGER FOOD FACTORY.

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IL FINGER è UN’ARMA ECCELLENTE, QUANDO SI VUOLE PERSONALIZZAREUNA CENA O UN BUFFET

preparazioni. Comunque l’idea era lì e a me è piaciuta subito».

Perché? «Perché un finger è un piatto vero ma in miniatura.

Non è un antipastino, tipo pizzetta, frittatina, frittura mista,

oliva ascolana o quello che vuoi. È una preparazione vera e

propria, ma tanto piccola che si prende con le dita o con una

posatina e che si mangia in un boccone. Se te li trovi davanti,

non resisti. Li vuoi provare tutti, perché ogni boccone è

diverso dal precedente e tutto è una sorpresa. E se uno non ti

piace, poco male perché ne mangi subito un altro, che magari

ti fa andare in estasi. Un po’ come il sushi... Anzi, se ci pensi,

il finger food per eccellenza è proprio il sushi. E poi i finger

sono belli e questo è un valore aggiunto». In che senso? «Nel

senso che ci sono locali che diventano famosi o sono molto

frequentati soltanto perché sono molto belli. Per i finger è un

po’ così. Sono belli, ti attirano, li vuoi provare tutti perché ti

catturano gli occhi: è come girare un sacco di bei locali, tutti

diversi. Il piatto tradizionale, che sia un primo, un secondo o

un dessert, tanto per intenderci, ha il suo fascino e nessuno

glielo toglie. Ma l’esperienza che si fa con i finger è diversa

perché è molto meno impegnativa e più libera, spensierata.

Lo chef, quando crea vari finger, può buttarci dentro davvero

tutta la sua fantasia e chi li assaggia ce la ritrova tutta questa

fantasia: è un processo liberatorio per entrambi».

I finger food, quindi, possono essere una buona arma

nell'arsenale di un personal chef? «Sicuramente. Anzi, io li

consiglio proprio. Come ti dicevo, ho fatto e faccio tantissimi

catering, grossi eventi, grandi numeri. Ci sono stati periodi,

nella mia vita, in cui preparavo dieci matrimoni al giorno,

una follia. Poi ho imparato a ridurre gli interventi... I finger,

dicevamo. Sì, i finger, soprattutto quando non sei nel chiuso

di un ristorante, hanno un valore aggiunto». Perché sono

belli... «Perché sono belli ma, soprattutto, perché sono duttili.

Li adatti alla situazione, al luogo, al cliente. Che ne so? Fai

un matrimonio e prepari tutti finger bianchi, per esempio.

Oppure sai che al tuo cliente e ai suoi ospiti piace qualcosa

in particolare... Non per forza un alimento vero e proprio,

magari un sapore, una sensazione, una suggestione... Puoi fare

finger che s’ispirano ai piatti della tradizione o a quelli più

apprezzati dal tuo cliente, oppure esotici, strani, curiosi, che

accendono la fantasia e l’interesse. Perché quando un pranzo

o una cena cominciano con il piede giusto, il resto è più facile».

Questo è interessante, soprattutto per noi personal chef. Puoi

approfondire? «Sai, ho sempre pensato che il momento più

bello di una cena sia l’aperitivo. Perché in quell’occasione

sei aperto a tutto, sei totalmente ricettivo, rilassato. Non sei

ancora alle prese con coltello, forchetta, tovagliolo e così via.

Non stai davvero mangiando. Stai chiacchierando, ti diverti,

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Questa e le precedenti sono foto di SABRINA CONFORTI, per gentile concessione di SPERLING & kUPFER, dal libro FINGER FOOD FACTORY.

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entri in sintonia con la gente e il

luogo. E nel frattempo porti qualcosa

alla bocca ma, come dicevo, non stai

davvero mangiando. Mangiucchi.

Ed ecco che un finger ti cattura,

orienta la tua attenzione sul cibo

senza impegnarti troppo. Non è

anonimo come un salatino o banale

come i soliti stuzzichini, che neppure

ti accorgi che esistono anche se

continui a ingollarne... Il finger ti dà

invece subito il tono della serata,

senza però toglierti le chiacchiere, il

coinvolgimento che si sta pian piano

creando. Non è l’antipasto magari

bellissimo ma formale, che ti viene

servito a tavola. È qualcosa che vai in

giro a spilluzzicare, probabilmente in

compagnia. È il cibo che crea i primi

commenti, che rompe il ghiaccio e

che comincia a interessarti. Dopo,

il resto della cena è più facile,

soprattutto per lo chef. Perché ha già

conquistato i suoi ospiti e, a meno

che non faccia cavolate spaventose, li

ha già dalla sua parte».

Chiarissimo. Che tu sappia, nei finger

ci sono nuove tendenze, nuove mode

o qualcosa così? «La vera tendenza,

in questo momento, è soprattutto

estetica. Più il finger è bello,

architettonicamente suggestivo e

colorato, meglio è. E infatti l’industria

degli accessori sta sfornando

prodotti sempre nuovi e diversi. Il

mio consiglio, quindi, è di cominciare

a prendere confidenza anche con

queste nuove presentazioni e

non limitarsi ai classici cucchiaini,

bicchierini, tazzine e così via. Che

vanno benissimo, per carità, ma

dobbiamo cercare sempre di provare

e sperimentare qualcosa di nuovo».

E per quanto riguarda i sapori?

«Qui non si scappa. Il finger, come

tutte le cose che si cucinano, deve

essere soprattutto buono. Se è anche

bello, meglio. Ma se non è buono,

non c’è presentazione al mondo

che lo salvi. Che una preparazione

sia buona, deve essere dato per

scontato». E infatti lo do per scontato

anch’io. Ma in realtà chiedevo se

esistono nuove tendenze nei sapori...

«Da quel che vedo, credo che esista

ancora molta libertà, che non ci

sia una sorta di orientamento che

primeggia sugli altri... Personalmente,

io consiglio sempre di conoscere

bene il cliente, parlando con lui,

girando per la location che ha scelto...

Per lo meno, io faccio così e mi

sono sempre trovato bene. Le idee

nascono da lì, perché il finger, che è

estremamente duttile, è davvero il

modo migliore per cucire su misura

l’esperienza gastronomica addosso

al cliente, per renderla davvero sua.

Alcuni miei clienti sono stilisti o

aziende di moda, così quando guardo

le loro creazioni mi ispiro e cerco di

ricrearle in ciò che cucino, studiando

bene colori e testure. Con il finger

queste cose le fai, le puoi fare. Riesci

anche a mantenere un certo filo

logico, a ricreare un’atmosfera, a

personalizzare il momento. Con un

piatto classico fai più fatica. Se trovi

il tipo che ama i sapori particolari,

il finger ti permette di proporglieli

senza rischiare troppo. Al limite,

di tutte le cose che prepari, magari

proprio quella non gli piace, ma in

fin dei conti è solo un boccone, dopo

un po’ se lo dimentica. Non puoi

rischiare così tanto con un piatto

vero e proprio. E, di contro, se il tuo

finger lo colpisce, lo affascina, se lo

ricorda per tutta la cena e anche

oltre. Resta dentro».

Finger food forever, quindi. «Ma

sì, senza dubbio. Anche se non è

detto che prepararli sia sempre

facilissimo. A volte possono essere

impegnativi come un piatto vero e

proprio. Comunque, uno se li sceglie

in rapporto alle sue capacità e alle

sue forze. Non è che se ne devi fare

a centinaia ti vai a prendere proprio

quello che ti ci vogliono due ore per

farne uno...». Una trasmissione di

successo su Real Time (canale 31) e

un libro, edito da Sperling & Kupfer,

che si chiama proprio Finger Food Factory: quante ricette sono davvero

tue e quante ne hai prese da qualche

altra parte? «Sono tutte mie, giuro.

Fra la tivù e il libro, nell’ultimo anno

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GAMBERO ROSSO BARDATO CON PANCETTA E HUMMUS DI CECI

Ingredienti per 10 finger: dieci gamberi rossi, dieci fette di pancetta, 260 g di ceci lessati e sgocciolati, mezzo limone, salsa di soia, tahina (pasta di sesamo).

Preparazione. Prepara i gamberi: elimina il guscio e la testa, lavali con cura e privali delle interiora. Avvolgi ogni gambero in una fetta di pancetta e infilzalo con una forchettina di legno da finger. Inforna i gamberi a 200 °C per quattro minuti. Prepara l’humus: frulla i ceci con un cucchiaio di tahina, un goccio di salsa di soia e il succo di mezzo limone, fino a ottenere una salsa morbida e omogenea, abbastanza liquida. Componi il finger: stendi una goccia di salsa di ceci a specchio su un piatto di portata e appoggia il gambero con la forchettina in verticale.

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Questa e la seguente sono foto di SABRINA CONFORTI, per gentile concessione di SPERLING & kUPFER, dal libro FINGER FOOD FACTORY.

DAL LIBRODI SEBASTIANO ROVIDA

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ho creato più di 200 ricette. Poi, per carità, magari

inconsapevolmente ho fatto qualcosa a cui aveva

già pensato qualcun altro... Ma in cucina capita.

Non è che, alla fine, t’inventi tante cose nuove.

Ho in casa non so più quanti libri di cucina e ogni

tanto, quando ne apro uno, finisce che ci trovo

qualcosa che credevo di aver pensato solo io... Ma

è così, è normale. Rielaborare fa parte del processo

creativo. Comunque, nel libro ci sono sia le ricette

della trasmissione, sia ricette inedite. Penso con

sincerità che sia una buona fonte d’idee, per chi

vuole dedicarsi a questo tipo di preparazione».

Finiamola qui, se no ti monopolizzo il pomeriggio.

Consigli ai personal chef? «Riassumo: fate i finger

food personalizzandoli sul vostro cliente. Non

trattateli come una sorta di riempitivo o di sfizio,

ma usateli proprio per far capire al vostro ospite

che la cena o il pranzo o il buffet sono dedicati

esclusivamente a lui, ai suoi gusti, alle sue passioni,

alle sue curiosità. E se è un evento aziendale,

stessa cosa, però declinata sull’attività della ditta.

Sono quei particolari che poi spianano la strada a

tutto il resto, perché vi fanno partire subito con il

piede giusto». Parola di Mr. Finger Food.

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QUEL PICCOLO CIELOCHE SI TOCCACON UN DITO

Parecchi anni fa partecipai a una

cena di gala in un noto ristorante di

Imola, dove fu servito l’aperitivo in

un’accogliente cantina ristruttura.

Lì, per la prima volta, assaggiai

piccole pietanze appetitose, colorate

e sfiziose. Fui letteralmente rapita

dall’eleganza delle presentazioni,

dall’attenzione per gli abbinamenti e

affascinata dal gusto primordiale di

poter mangiare con le mani. La cena

in generale fu sublime, ma il ricordo

della gradevolezza e dello stupore

per quel cibo mignon mi aveva del

tutto conquistato. In quel momento

ancora non lo sapevo, ma avevo

appena assaggiato i finger food, una

preparazione che avrebbe avuto

molta importanza nella mia carriera

professionale di chef.

Il termine finger food entrò nell’uso

comune fra le berrette bianche più

o meno attorno agli inizi del 2000,

grazie a concorsi internazionali

in cui i giudici creavano regole

I finger food sul podio: una delle proposte più creative degli ultimi anni dimostra di non essere soltanto una moda passeggera, ma un’arma

vincente anche e soprattutto per il personal chef. Ce ne svela i segreti un’autentica artista di questa golosità

DI DEBORA FANTINI

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sempre più specifiche per questa particolare creazione

gastronomica. In quegli anni, insomma, furono fissate

linee guida severe e precise per codificare la nuova

tendenza, facilmente sintetizzabili e comprensibili a

tutti.

Quindi cominciamo a definire nella maniera più precisa

possibile che cosa sia davvero questo incredibile piatto.

Il finger food è una vivanda che si degusta in un

sol boccone, con le mani o con idonee e specifiche

attrezzature (piccole posate, stuzzicadenti e così

via). Per questo motivo, deve esser di piccole

dimensioni e pesare fra i 15 e i 30 grammi, non di

più. È comunque uno sbaglio ritenerlo una sorta di

pietanza miniaturizzata: al contrario, deve essere una

preparazione ben ragionata e armoniosa nella forma

e nel gusto. La sua composizione prevede un minimo

di tre ingredienti riconoscibili e non destrutturati,

accostati secondo i canoni dell’equilibrio, quindi

attraverso abbinamenti per contrasto e per analogia.

Un finger food può essere caldo o freddo e realizzabile

con qualsivoglia metodo di cottura, sempre che non

cozzi con i principi di una sana alimentazione.

I finger food possono essere accompagnati da salse o

gelatine, ma non devono mai perdere la caratteristica

di poter esser portati alla bocca in un unico gesto.

Tecnica e precisione nei tagli fanno la differenza,

naturalmente, in piatti così minuscoli, poiché la ricerca

della perfezione anche estetica è importantissima,

soprattutto nelle competizioni. Meglio ancora se già

al primo colpo d’occhio paiono appetitosi, con colori

vivi, lucidi ma naturali: l’uso dei coloranti è caldamente

sconsigliato. Eleganza, gusto, praticità, persino

spensieratezza... La tendenza a usare sempre di più

questi autentici gioielli gastronomici in miniatura offre

più di una freccia all’arco dello chef e, soprattutto, del

personal chef. Il finger food rende il convivio leggero,

poiché si adatta sia alla cena raffinata, sia all’aperitivo

più spartano. Inoltre, permette ai professionisti di

divertirsi, sbizzarendosi in forme e giochi di colore

sorprendenti. Grazie anche a cucchiaini, forchettine,

bicchierini o involucri naturali, diverse fiere del settore

ci propongono molteplici alternative di modelli e

materiali, aiutandoci nella produzione in serie di

numerosissimi piccoli sfizi.

Anche perché l’unico limite del finger food è la fantasia

dell’esecutore e le sue capacità tecniche. Altri confini

non li pone, poiché questo tipo di preparazione è

slegatissimo da tradizioni, convenzioni o aspettative

di alcun genere, se non la propria golosità. Via libera,

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quindi, a qualsiasi tipo d’idea e di contaminazione:

si possono creare finger food partendo dai prodotti

del proprio territorio, realizzando una vera e propria

antologia di delizie locali e rare, interpretandole fuori

dagli schemi della cucina tradizionale, magari creando

aperitivi a tema. Si possono scoprire

e far scoprire cibi esotici oppure mescolare tutto, alla

ricerca di suggestioni innovative e mai provate prima.

Anche perché il finger food, ammettiamolo, è una

preparazione un po’ trasgressiva: non soltanto perché

si può (anzi, si deve) mangiare con le dita, ma perché ci

permette di passare da carne a pesce, da dolce a salato,

da freddo

a caldo senza vincoli e senza problemi, boccone dopo

boccone, con l’unico scopo di assaggiare più cose

possibili,

di scoprire un gusto nuovo a ogni morso.

Questa sorta di felice libertà di gustare, unita

alla ricerca dell’eleganza e della precisione, mi ha

affascinato fin da subito e penso che possa conquistare

più di un professionista, anche se non si è mai

avvicinato ai finger food. Quando mi sono innamorata

del mondo delle competizioni, mi chiedevo come fosse

possibile racchiudere così tante regole in un elaborato

così piccolo. La risposta l’ho trovata nelle notti insonni

trascorse a provare, nei disegni a colori sulla carta per

cerca la giusta cromia della composizione, nelle ore e

ore passate in auto per poter raggiungere questo o quel

luogo del concorso, nella scarica d’adrenalina mentre

attendevo il momento della gara, quell'istante a cui

avrei dato vita alle mie idee davanti a una giuria. Una

piccola giungla di preoccupazioni in cui mi sono andata

a cacciare, guidata esclusivamente dalla passione. Ma,

dopottutto, non è la passione a far sì che ogni cuoco ami

il suo ruolo? Non è forse la passione che ci porta a dare

tutto di noi stessi in attesa di un unico gesto, quello del

commensale che porta il cibo alla bocca?

Perché dall’espressione di quel volto dipende ogni

nostro investimento, fisico ed emotivo: un sorriso, un

piacere, uno stupore o, purtroppo, una delusione, uno

sbadiglio annoiato... L’essenza del finger food, alla fine,

è la medesima che alimenta la passione dello chef:

catturare la delizia sul volto di chi mangia le nostre

creazioni, sperando ogni volta che gli ospiti si lecchino

le dita e si sorprendano, come accadde a me qualche

anno fa, cambiandomi per sempre l’esistenza.

Debora Fantini è chef al Fantini Club di Milano

Marittima (Ra) e membro della Nazionale Italiana

Cuochi. Vera regina dei concorsi, ha tra l’altro vinto

il campionato italiano di finger food nel 2012

e quello di cucina fredda nel 2013.

Ha creato www.squisitaly.it, per portare i prodotti

dell’alta cucina nelle case di tutti.

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IL BELLO DI IRENE

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IL BELLO DI IRENE

TEN

DEN

ZE

fotografie di IRENE BERNI un’intervista di GIORGIO GIORGETTI

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Non sono mai stato al Valdirose, il

bed&breakfast di Irene Berni a Lastra

a Signa, un passo da Firenze. Però

me lo sogno pieno di luce, come se

possedesse un sole tutto suo. Me

lo sono immaginato così, la prima

volta che l’ho visto in foto, ed è stato

amore a prima vista.

Perché Irene è una di quelle rare

persone che la bella luce ce l’ha

dentro, tatuata nei cromosomi

del Dna, uno di quei talenti che

lo possiedi o non lo possiedi, lei

Mozart e tutti gli altri Salieri. Una

bellezza che illumina, che elimina le

ombre e, in qualche modo, persino

l’irrequietezza, come una primavera

serena. Non so come vi riesca: Irene

posa un cucchiaio su un asse di

legno ed è magico. Se lo faccio io, il

cucchiaio pare scordato da un ospite

distratto e il legno del tavolo appena

uscito da una discarica. È un mistero

che mi affascina ogni volta.

«Sono soltanto una che ha un

bed&breakfast» mi dice al telefono,

mentre percorre in auto gli

Appennini dell’Autosole, con la linea

che crolla di colpo a ogni galleria.

Sarà. Però dal suo talento è nato

anche un libro pieno di eleganza,

luce, suggerimenti, idee e ricette,

che è unico come il suo Valdirose:

s’intitola Quello che piace a Irene

ed è pubblicato da Guido Tommasi

Editore. Un libro stupendo, tutta

farina del suo sacco, tanto per

dimostrare ancora una volta che

il tocco d’Irene è come quello di

Mida: magari non trasforma in oro

tutto ciò che sfiora, ma vicino ci

arriva. E allora ho pensato bene di

sfruttarne il dono. Per quei giorni in

cui qualche cliente ti chiede consigli

sull’apparecchiatura, sulla tavola,

sul modo migliore per sorprendere

il partner o gli amici, per far sì che la

serata sia qualcosa di speciale e non

soltanto un momento in cui si paga

qualcuno per cucinare

a casa propria.

«Beh, già il fatto che si prenda un

personal chef per fare una sorpresa

mi sembra già una gran cosa» mi

dice. «Se un ospite arriva già a questa

pensata, il più direi che è fatto. A

quel punto, per rendere l’atmosfera

ancora più interessante, penso che

sia importante continuare nel gioco,

nell’importanza del momento.

Sottolinearlo il più possibile,

insomma».

In pratica, quindi, che cosa dovrei

suggerire? A volte capitano clienti un

po’ intimiditi dalla situazione nuova,

mai sperimentata, e che temono di

sprecare l’occasione...

«Di solito, quando ci si concentra

su un’idea originale, come una

cena appositamente preparata da

un personal chef, si lascia un po’

in disparte l’impatto decorativo, il

contesto, il contorno» mi racconta

Irene. «L’errore, in questo caso,

Irene Berni, proprietaria del b&b più affascinante d’Italia,regala idee e suggestioni che rendono indimenticabile

ogni cena o evento che un personal chef prima o poi affronterà. Dai suggerimenti all’ospite alle invenzioni per stupire...

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Irene Berni, 37 anni, è nata e cresciuta sulle colline di Lastra a Signa, vicino a Firenze. Lavoro, viaggi e scoperte hanno affinato il suo amore per la decorazione, che ha poi sfruttato per ristrutturare e arredare la sua casa di famiglia, Valdirose (www.valdirose.com), trasformandola in un bed&breakfast di successo. Tiene anche uno splendido blog, fonte d’infinita ispirazione.

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UN SEGRETO? METTERE A PROPRIOAGIO GLI OSPITI E STUPIRLI CONUNA SORPRESA, ANCHE MINUSCOLA

è pensare che la grande idea basti e avanzi. Avere un

professionista che cucina apposta per chi vuoi tu, in casa

tua, che ti prepara piatti da ristorante di lusso, è come se

fosse un sogno. E quindi occorre ampliare i confini del sogno

il più possibile. Prendo l’idea di una cena romantica per

fare qualche esempio, perché è più facile. Mettiamo che

io organizzi qualcosa di questo tipo per mio marito: penso

alla sorpresa, al fatto che per qualche ora saremo serviti e

riveriti nella nostra casa come in un locale stellato... E allora

che locale stellato sia! Tiriamo fuori la migliore tovaglia che

possediamo, magari quella che non mettiamo neppure per le

feste comandate! Stessa cosa per i piatti, i bicchieri, le posate...

Se si ha qualcosa di bello in casa, è il momento di tirarlo fuori

per costruire un sogno vero a 360 gradi, da godere senza

troppe preoccupazioni».

Mi viene in mente che un personal chef potrebbe farsi

un piccolo elenco, anche solo mentale, delle cose che una

padrona di casa potrebbe chiedergli, durante l’intervista

preliminare, o che potrebbe addirittura suggerire di sua

iniziativa... «Se l’ospite ci chiede qualche consiglio, la cosa

migliore da fare, secondo me, è di focalizzare l’attenzione

sui particolari. Se la cena è per qualcuno che ci è caro,

mettiamo sulla tavola un mazzo dei suoi fiori preferiti,

oppure un oggetto che abbia un valore affettivo particolare.

Naturalmente, deve essere in tono con l’occasione: quel vaso

che lui o lei vi hanno regalato, per esempio. E se s’invita la

suocera, è il momento di resuscitare quel soprammobile

nascosto in uno stanzino da anni, tanto per intenderci!».

E poi? «E poi bisogna apparecchiare a modino» prosegue

Irene, fra una galleria e una fresca risata al cellulare. «Tavola

ordinata e precisa, senza raffazzonare e buttar lì le cose, se

no si rovina tutto. Posate al posto giusto, come galateo vuole;

coltello con la lama rivolta verso il piatto e così via. Se non

si conoscono le regole base della mise en place, si cerchi su

internet: esistono un sacco di siti* dove se ne parla e tante

foto da cui prendere ispirazione. A me piacciono molto i

piccoli segnaposto, per esempio. Anche se si è in due, perché

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fa tanto tavolo riservato, evento speciale...

Anzi, magari potrebbe proprio farli il personal

chef e metterli in tavola prima del servizio

vero e proprio... Mi sembra una cosa carina,

che porta via poco tempo. Anche qui, internet

è piena di idee e suggerimenti, basta cercare

qualcosa che si è in grado di fare... Credo

sia l’occasione giusta per essere più formali

del solito, perché in un ristorante di lusso

la formalità si respira ovunque. E in casa

occorrerebbe ricreare la medesima atmosfera,

giocare fino in fondo alla grande serata,

all’appuntamento insolito, insomma».

Quindi sono queste le cose che, se tu fossi

una personal chef, suggeriresti a un cliente in

cerca di un po’ d’aiuto? «Fondamentalmente

sì. Inviterei il cliente a lasciarsi andare del

tutto al gioco, al momento. Sentendosi il più

possibile a suo agio, che è un po’ la parola

d’ordine, soprattutto se la serata coinvolge

un gruppo di persone amiche fra loro e

non soltanto una coppia romantica. Anche

nel caso del gruppo, un po’ di attenzione ai

dettagli non guasta: se si fa venire un personal

chef, in qualche modo è giusto sottolineare

che l’evento non è qualcosa di comune o di

banale. È anche questa una favola da saper

gestire, magari un sogno della padrona di

casa: invitare gli amici più cari a una serata

specialissima, raffinata, fuori dagli schemi.

L’importante è che niente sia troppo forzato.

Anche perché, secondo me, sentirsi a proprio

agio, senza seguire mode o trend, seguendo

unicamente il proprio carattere e la propria

sensibilità, è sempre la cosa migliore, che dà i

migliori risultati».

Grazie, Irene, ma non ti libererai di me con

troppa facilità. Perché finora abbiamo parlato

dei suggerimenti che, eventualmente, un

personal chef può offrire - su richiesta - a un

cliente. Ma c’è un aspetto che m’interessa assai

di più: che cosa può fare, un personal chef,

per rendere unica una serata? «Spero che

la domanda riguardi sempre l’accoglienza...

Adoro cucinare, ma non mi ritengo una

professionista...». Tranquilla, t’interrogo

soltanto sull’accoglienza.

«Benissimo, allora!» sorride. «Ti racconto un

po’ di cose che mi giungono dall’esperienza

diretta del Valdirose, il mio b&b. La prima cosa

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è il fuoriprogramma, la sorpresa.

Poche cose fanno più piacere a un

cliente di un momento inaspettato,

che non era nel menù, nella lista

della spesa concordata, nei piatti,

nell’apparecchiatura... Non c’è

bisogno che sia qualcosa di grosso, di

dispendioso. Basta pochissimo. Prima

ti dicevo dei segnaposti: si comprano

dei cartoncini carini e te li puoi

fare da solo, a mano o lasciandoti

aiutare da chi ha una bella calligrafia.

Un piccolo fiore sul tovagliolo o

addirittura un fermatovagliolo

originale, che si lascia come cadeau...

Possono essere anche sorprese

commestibili, che magari sono più in

tono con il personal chef. Qualcosa

all’inizio o in chiusura della cena,

per esempio: dall’antipasto non

previsto al finale con un cioccolatino.

Mi piace molto l’idea del biscotto

della buonanotte...» che sarebbe?

«Sarebbe quel biscottino che lasci sul

cuscino in camera degli ospiti. Così

quando salgono, la sera, lo vedono e

ne restano felici davvero.

È un modo per farli sentire speciali

sul serio, perché lo sono, lo meritano

e tu non l’hai dimenticato. Non sono

soltanto clienti, insomma».

Trovo complicato, per un cuoco,

andare in camera da letto dei suoi

avventori... «Non ce n’è bisogno.

Basterebbe lasciare l’omaggio in

cucina, dopo che l’abbiamo pulita

e riordinata, magari con un piccolo

bigliettino di saluto. Anche qui,

possiamo pensare a un fiore, a un

piccolo dolce, a un cioccolatino...

Basta poco. Ma è sufficiente a fare

la differenza».

Regalami un’altra idea e ti lascio

libera... «Amo la sensazione

dell’abbondanza e ho notato che

piace anche agli altri» mi suggerisce.

«Tempo fa, quando preparavo la

colazione al Valdirose, chiedevo ai

clienti che cosa volevano, tè, caffè,

latte e così via. Poi portavo le cose

un po’ alla volta e finiva sempre che

qualcuno voleva ancora qualche

altra cosa, chi ci aveva ripensato

per la spremuta, chi si è lasciato

incuriosire dal dolce... Così un giorno

mi sono detta: ma se tanto, alla fine,

mi chiedono tutto, perché non porto

subito tutt’assieme, in una volta

sola? Beh, puoi non crederci, ma

vederti arrivare un vassoio carico di

roba da mangiare fa il suo effetto! Al

cliente stesso sembra molto di più, si

sente ingolosito e non è più bloccato

dall’imbarazzo della scelta».

E come l’applicheresti a una cena

servita da un personal chef?

«Gli antipasti, per esempio. Invece di

proporne uno, farne tanti piccoli. La

cosa può essere anche concordata,

con il cliente, non c’è bisogno che sia

per forza una sorpresa. La sorpresa la

si ha quando li si vedono servire tutti

assieme, nel medesimo momento...

Anche a fine cena si può fare la

medesima cosa con dei dolcetti da

servire con il caffè. Se si pensa già

di terminare la serata con caffè e

liquori, meglio servire tutto assieme

piuttosto che una cosa per volta,

petit four compresi. Sembrerà di

averne dieci volte di più».

L’intervista termina qui, ma la

luce che Irene ha diffuso è ancora

nell’aria e nelle sue foto. «Non sono

una fotografa.... Ho cominciato a

fare qualche scatto perché tenevo il

blog del Valdirose, mi sembrava un

buon modo per farlo vedere... Poi ho

fatto il libro e mi sono regalata una

fotocamera migliore... Tutto qui».

Sì, certo, è tutto qui. Per Irene,

naturalmente.

C’è chi nasce con la bellezza

dentro, non si sfugge...

MISE EN PLACE: Un eccellente testo per imparare tutti i segreti della mise en place lo trovi su www.salabar.it, che non è tanto un sito, quanto un vero e proprio internet ebook, scritto da Oscar Galeazzi. Qui il capitolo dedicato, appunto, all’apparecchiatura formale: http://www.salabar.it/node/185.

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DAL LIBRODI IRENE BERNI

PASTA, SALSICCIA E VERZA

Amo questo ortaggio buono e bello. Cucinarlo è un vero piacere: staccare le sue foglie esterne increspate e ben serrate, sentirle “croccare”, tagliarlo in due per scoprire quel cuore verde e leggero, cuocerlo lentamente e ritrovare il suo dolce sapore...

Ingredienti per sei persone: mezza verza, un porro, tre cucchiai d’olio e due salsicce.

Preparazione: Scegli una verza pesante, con le foglie intatte e ben chiuse. Elimina le foglie esterne più rovinate e lava la verza con acqua corrente. Tagliala a metà e successivamente in quarti. Procedi poi a tagliarla ancora in tante striscioline. Pulisci il porro privandolo della barba alla base e delle foglie esterne. Taglialo a rondelle sottili. Prendi una pentola antiaderente e facci rosolare il porro con l’olio: quando sarà rosolato, aggiungi la verza. Salta per qualche minuto, poi copri e continua la cottura a fiamma bassa, aggiungendo mezzo bicchiere d’acqua calda, se necessario. Terminata la cottura, aggiungi la polpa di salsiccia saltata a fiamma viva e usa il sugo per condire la pasta.

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BIO&

LOGICO

Mi sono sempre chiesto se mangiare

bio fosse meglio che usare prodotti

d’agricoltura e d’allevamento

tradizionali. Da quando sono

personal chef me lo chiedo ancor

di più, perché - quando dico a un

cliente che uso soltanto cibi biologici

garantiti - voglio sapere se sto

vendendo autentica qualità oppure

il solito fumo modaiolo. Le prime

ricerche, lo ammetto, sono state

sconfortanti: moltissimi esperti,

capitanati anche da note associazioni

di consumatori, affermavano che

una gran differenza non c’era. Una

carota bio, insomma, si differenziava

assai poco da una tradizionale:

medesima composizione, medesime

vitamine, medesimi oligoelementi,

medesime calorie... Spendere di

più per mangiare bio non sarebbe

servito a nulla e io, da buon personal

chef, tutte le volte che decantavo a

qualcuno la lista dei miei produttori

di fiducia, altro non facevo che

marketing. E nulla più.

Intendimi, ti prego. Non è che

volessi per forza che qualcuno mi

dicesse, dati alla mano, che bio è

meglio. Però mi dispiaceva. Vedevo

e vedo nell’agricoltura bio un modo

per affrontare il futuro in maniera

diversa, una sorta di palestra dello

spirito e delle intenzioni. Del tipo: se

ancora c’è chi coltiva senza pesticidi,

magari un giorno impariamo davvero

a farlo anche nell’agricoltura e

nell’allevamento intensivi e il pianeta

respira di più. E poi c’erano i bambini.

Io figli non ne ho: ma i miei potenziali

clienti sì e m’infastidiva pensare che

la mia scelta bio fosse soltanto un

modo per conquistarli, mettendo

avanti la salute dei bimbi.

Perché, quando si mettono in

mezzo i figli, si guarda assai meno al

portafoglio. Le madri che decidono di

passare ai cibi biologici, nonostante

il loro prezzo più elevato, sono

infatti sempre più in aumento: il

74 % delle donne intervistate dal

sito Alfemminile.com dichiara di

prestar sempre più attenzione a

ciò che mangia e di riconoscere la

miglior qualità del bio, acquistando

in prevalenza frutta e verdura

(60 %) e carne (22 %). Ciò che anni

fa poteva apparire una moda o

una reazione alle cattive acque

in cui naufragavano l’agricoltura

e l’allevamento convenzionali

(mucca pazza e polli alla diossina

in primis), ora è una realtà di fatto,

che interessa un settore forse ancor

ristretto, ma non più indifferente

della nostra economia. Allora, prima

Un cibo biologico è più salutare di uno d’agricoltura o d’allevamento convenzionali? Secondo molti esperti, la differenza

è minima e non giustificherebbe i costi maggiori. Ma uno studio italiano chiarisce una volta per tutte

la questione, dati scientifici alla mano: un alimento naturale può davvero aiutare la nostra salute. E di parecchio

DI GIORGIO GIORGETTI

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UN’AUTENTICA MINIERADI PREZIOSI ANTIOSSIDANTI

di tentare di trovare qualcuno

che avesse davvero studiato a

fondo il problema, ho provato

ad approfondire la materia e di

capire che cosa volesse dire “bio”

e in che cosa si allontanasse dal

resto. Ma cercare di comprendere

la natura e il significato del

cibo biologico è impossibile

senza parlare della filiera che lo

produce. Al contrario di quanto

si pensi, l’agricoltura biologica

non è soltanto un modo diverso

(magari più scomodo, ma forse più

salutare) per giungere ai medesimi

risultati delle coltivazioni

convenzionali. È, invece, un

sistema più vasto di relazioni,

persino filosofiche o spirituali,

in cui ambiente e coltivatore

instaurano un dialogo fitto e

continuo, in una sorta d’impegno

reciproco, comune.

Quest’ultima definizione, che di

primo acchito pare un po’ New

Age, acquista maggior senso se si

spendono due parole sui metodi

dell’agricoltura convenzionale, nel

pieno rispetto delle leggi vigenti.

L’attività agricola non biologica ha

dovuto semplificare la struttura

dell’ambiente che occupa in

vaste aree, riducendo a un

numero sparuto di colture e di

animali domestici la pluralità

di specie che caratterizza un

ecosistema naturale. Inoltre,

l’intera produzione agraria è

indirizzata all’esterno, al mercato,

lasciando all’interno dell’habitat

soltanto scorie: ciò comporta una

perdita d’energia e materia tale da

limitare la capacità del sistema di

autosostenersi. Il risultato finale

è un sistema ecologico artificiale

dall’equilibrio precario: per esser

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mantenuto stabile, necessita via

via di interventi umani sempre

maggiori. Ha bisogno di un costante

apporto artificiale (concimi

chimici, diserbanti, fitofarmaci) per

mantenere la sua artificiosità.

L’agricoltura biologica è invece

una procedura che prende in

considerazione l’intero ecosistema,

con l’intento di creare tra i

vari elementi una ragnatela di

rapporti e relazioni, consentendo

l’autosostentamento dell’ambiente

ed evitandone impatti negativi

come l’inquinamento delle acque,

71

del terreno e dell’aria.

Tale pratica tenta di adeguarsi il

più possibile al cosiddetto principio

dell’autorganizzazione: la capacità

di un ecosistema di perpetuarsi da

sé, in un circuito chiuso che non

necessita di interventi esterni. In

pratica, la fertilità della terra è

mantenuta attraverso il lavoro dei

microrganismi e dei decompositori,

che provvedono a riciclare come

concime il materiale organico

prodotto dall’azienda agricola.

L’acqua per le irrigazioni proviene

dal riciclo della pioggia e non

prelevata da fuori. I parassiti

sono eliminati per mezzo della

biodiversità locale, grazie ai loro

antagonisti naturali. La semina è

effettuata con i semi del raccolto

precedente e non con semenze

importate. La resistenza alle

malattie è creata attraverso

lo sfruttamento delle varietà

autoctone e così via.

Naturalmente, l’impiego di tecniche

agronomiche tradizionali (come

la rotazione delle colture, ad

esempio) non esclude pratiche

più moderne (come la sarchiatura

meccanica dei terreni, approvata

a livello europeo), purché restino

ancorate alla filosofia di fondo,

che è di ridurre al minimo

l’impatto ambientale e alla

conservazione della catena di

rapporti tra agricoltura e territorio.

Particolare attenzione meritano

inoltre i metodi d’allevamento

del bestiame: vietati gli alimenti

Ogm, gli antibiotici e gli stimolatori

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72 PERSONAL CHEF MAGAZINE

LA NATURACHE FUNZIONA

Fibra, carboidrati, proteine, grassi.. Nei suoi macroelementi, una carota bio

è simile a una carota non bio. Ciò che però cambia è la presenza

di microelementi in più, indispensabili per la salute umana.

Si parla, insomma, di pigmenti vegetali come i polifenoli e i bioflavonoidi,

le vitamine, il selenio, il rame , lo zinco, il coenzima Q10, il licopene e così via...

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I BIOALIMENTI COSTANO DI PIÙ, MA SOSTITUISCONO IN MODO EGREGIO QUALSIASI INTEGRATORE IN PILLOLE

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della crescita, così come la crescita in gabbia o in batteria.

Gli animali devono essere alimentati anch’essi con prodotti

biologici certificati, accuditi in ambienti idonei alla loro

fisiologia, con possibilità di movimento, luce e pascolo. La

Regione Toscana fu la prima, in tutt’Europa, a dotarsi di una

legge sulla zootecnia biologica, nel 1995, durante gli anni caldi

dell’encefalopatia spongiforme bovina, conosciuta anche

con il termine di Bse (Bovine spongiform encephalopathy)

o “malattia della mucca pazza”. In seguito, l’Unione Europea

varò un regolamento specifico, il n. 1804/99.

Il prodotto bio, insomma, nasce da un duro lavoro, senza

troppi compromessi, che sul mercato si traduce in un costo

maggiore. La domanda, soprattutto in tempi di crisi come

questi, sorge spontanea e ci riporta all’inizio di quest’articolo:

vale la pena pagare di più per una carota biologica? Prima

di far parlare la scienza, una provocazione: se l’alternativa al

mangiare frutta e verdura bio è non mangiare affatto frutta

e verdura, allora non ne vale la pena. Che siano d’agricoltura

convenzionale o no, i vegetali sono indispensabili in una

sana e corretta alimentazione. Però, potendo, il bio è meglio.

Ed ecco che qualcuno mi spiega finalmente perché, dati alla

mano e senza troppe chiacchiere alla moda.

«Lo dico nella maniera più chiara possibile: non sono una

scienziata prezzolata dalle aziende, ma una libera ricercatrice

dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata». Laura Di

Renzo, docente alla Scuola di specializzazione in Scienza

dell’alimentazione, mette subito le mani avanti. «Quando

affermo che, secondo i dati ricavati da anni di studi e ricerche,

i prodotti bio sono migliori da un punto di vista nutrizionale,

spesso mi si accusa di esser di parte. Invece non c’è nessuna

parte: non rispondo a logiche economiche, politiche e

quant’altro. Sono libera e non ho sudditanze con sponsor o

chi per loro».

Allora partiamo dal risultato di questi studi, che è senz’altro

ciò che più interessa: perché un alimento bio è superiore

a quello d’agricoltura convenzionale? «Perché le capacità

antiossidanti degli alimenti bio sono di gran lunga superiori

a quelle dei prodotti agricoli più comuni. Significa che la

differenza sta proprio in quei microelementi indispensabili

nella dieta umana. Parlo di pigmenti vegetali come i polifenoli

e bioflavonoidi, le vitamine, alcuni microelementi ed enzimi

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come il selenio, il rame, lo zinco, il coenzima Q10, il licopene e così via. Nei suoi macroelementi, una carota

bio è simile a una carota non bio. Avrà una determinata quantità di fibra, di carboidrati, di proteine e di

grassi che non varia, perché sempre una carota è. Ciò che cambia è la quantità dei microelementi che ho

appena citato. E, dal punto di vista della salute, non è una differenza da poco, se posso permettermi di

sottolinearlo».

«In linea di massima» prosegue la dottoressa «seguire una dieta ricca di antiossidanti è molto utile per

rallentare i processi degenerativi e favorire una buona attività metabolica. Non per nulla gli esperti

consigliano un consumo di almeno cinque porzioni tra frutta e verdura fresche e di stagione, all’incirca

due etti di frutta e di tre di verdura. Poiché i vegetali bio sono più ricchi di antiossidanti, dare a essi

la preferenza è senza dubbio la mossa migliore per aumentare la nostra quota giornaliera di questi

microelementi. Certo, costano poco di più, dipende da dove sono acquistati. La spesa per l’acquisto di

un prodotto di qualità per una dieta sana e biologica, che aiuta a mantenere il buono stato di salute e

a prevenire eventuali patologie legate alla cattiva alimentazione, riduce comunque i costi sanitari per

acquisto di pillole e integratori; diventerebbero un investimento, più che una spesa».

«Tutto è cominciato nel 2006, con la pubblicazione dei dati raccolti nel cosiddetto Progetto Sabio,

guidato dal professor Antonino De Lorenzo, docente di Alimentazione e nutrizione umana dell’Università

Tor Vergata» prosegue. «In questo studio volevamo capire se, effettivamente, gli alimenti biologici che

costituiscono la base della Dieta mediterranea avessero proprietà nutrizionali davvero maggiori degli altri,

oppure non ci fosse alcuna differenza. Le nostre ricerche non lasciano spazio a dubbi: durante i tre anni

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ALBUMINA: l’albumina è una proteina del plasma, prodotta dalle cellule del fegato. Valori bassi indicano appunto un problema a quest’organo. Inoltre, è anche un importante marcatore di disfunzioni renali.

OMOCISTEINA: è un amminoacido presente nel sangue. Livelli troppo alti di omocisteina sono considerati un fattore di rischio cardiovascolare.

*Laura Di Renzo è professoressa aggregata

e ricercatrice presso la Sezione di nutrizione

clinica e nutrigenomica del Dipartimento

di biomedicina e prevenzione dell’Università

degli Studi di Roma Tor Vergata.

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del progetto, ho analizzato centinaia di alimenti bio e sono arrivata a conclusioni molto indicative.

La prima: la capacità antiossidante del bio è superiore al convenzionale da un minimo del 5 % a un

massimo del 300 %. La seconda: non esiste differenza nella quantità di micotossine».

Può spiegare meglio quest’ultimo punto? «Le micotossine sono composti tossici prodotti da diversi

tipi di funghi, che di solito entrano nella filiera alimentare attraverso colture contaminate. Uno

dei punti più controversi del bio è sempre stato che, poiché queste colture non sono trattate

con fungicidi e pesticidi vari, dovrebbero presentare un rischio micotossine più elevato di quelle

dell’agricoltura tradizionale, che invece le combatte con i prodotti chimici. Il risultato, invece,

afferma che nei vegetali convenzionali si trovano tante micotossine quanto nel bio. Quindi, da

questo punto di vista, la differenza non c’è. Ma il bio, però, vince: perché, a parità di micotossine del

convenzionale, presenta molte meno tracce di pesticidi».

D’accordo sulla minor presenza di pesticidi nel bio, che potrebbe esser cosa ovvia. Ma perché si

è così certi delle sue proprietà nutrizionali? «La certezza nasce da una lunga ricerca. Sul modello

della Dieta mediterranea, abbiamo costruito piani dietetici diversi per un gruppo di soggetti, del

tutto inconsapevoli dell’origine degli alimenti. Una parte di essi era nutrita con prodotti bio, l’altra

parte con i medesimi prodotti, ma d’origine convenzionale: poi i gruppi si scambiavano e, finito

l’esperimento, i vari soggetti arruolati prendevano loro stessi il controllo della loro alimentazione.

Confrontando i dati ottenuti, abbiamo notato che, nei soggetti nutriti con prodotti bio, la capacità

antiossidante era aumentata del 10-15 %. Ma questo non basta: abbiamo fatto il medesimo

esperimento su soggetti ammalati e i risultati sono stati al di là di qualsiasi nostra previsione».

«Abbiamo proposto una dieta bio a persone che soffrivano d’insufficienza renale cronica e,

dopo un certo periodo, abbiamo scoperto che il livello di colesterolo nel sangue si era abbassato,

mentre era aumentato il colesterolo Hdl, quello cosiddetto buono. Ciò significa che anche il

rischio cardiovascolare diminuiva. Non solo. La perdita di albumina* nel sangue, che è indice

di malnutrizione, si riduceva. L’omocisteina* si riduceva: ciò significava che attraverso la dieta

venivano apportati quantitativi maggiori di acido folico, quindi di vitamina B12 e B6. Si riducevano

anche i fosfati e quindi si aveva un rischio minore di danni renali. Sono andata a provare questa

dieta bio anche in una comunità chiusa come quella di un convento, tra i frati che mangiano tutti

alla medesima mensa, senza avere la possibilità di nutrirsi in altro modo. I valori evidenziati si

presentavano sempre e comunque, confermando la superiorità nutrizionale del bio».

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UNA BUSSOLA PER NON PERDERSI FRA LE INDICAZIONI DEI PRODOTTI TIPICI

NELLA SELVADELLE SIGLE

GIORGIO GIORGETTI. testi e foto d’apertura.

Se sei un professional personal chef della

nostra Federazione, hai fatto il corso con Giorgio

e Stefania e magari ti leggi pure PCM, allora saprai

probabilmente vita, morte e miracoli dei prodotti

De.Co. Può darsi, però, che qualche dubbio ti

resti in fondo al cervello, non tanto perché non

hai compreso che cosa sia una Denominazione

Comunale, quanto perché non hai un’idea chiara

di come si ponga nei confronti di altre sigle e altre

indicazioni merceologiche.

Perché, ammettiamolo, tutti questi marchi paiono

infiniti! Igp, Doc, Stg, Dop... ma quante sono e a che

cosa corrispondono, queste sigle? Ci servono, nel

nostro lavoro, o potremmo senza problemi farne

a meno? E se proponiamo a un nostro cliente un

prodotto Dop, gli stiamo davvero vendendo qualità

oppure gettiamo solo un po’ di fumo negli occhi?

Ecco, se senti il bisogno di una guida veloce

veloce che ti faccia da bussola nella selva delle

sigle, questo è l’articolo che fa per te. Qui avrai le

spiegazioni di ogni denominazione, con le parole

più semplici che sono riuscito a trovare.

La prima cosa da fare, però, è eliminare dalla nostra

lista quelle sigle che non ci servono tutti i giorni.

Parlo delle denominazioni tipiche del vino italiano,

che può essere utile approfondire in un discorso

più ampio sulla produzione vitivinicola nazionale.

Ma, per ora, limitiamoci al cibo. Alle bevande,

a parte il breve accenno che segue, penseremo

un’altra volta.

Le sigle del vino, ti dicevo: Doc, Docg e Igt si

trovano molto spesso sulle bottiglie e significano,

rispettivamente, Denominazione di origine

controllata, Denominazione di origine controllata

e garantita e, infine, Indicazione geografica tipica.

Ma, come ho detto, per adesso togliamocele

dalla mente, che non c’interessano.

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DE.CO. Pensiamo invece al cibo vero e

proprio, magari partendo proprio dalla nostra

amata sigla De.Co., che sta appunto per

Denominazione comunale. Che cosa significa?

Semplice: che, attraverso una delibera del

Comune, un particolare prodotto locale è stato

dichiarato rappresentativo di quella cittadina.

Tanto per fare un esempio: io abito a Cantello,

in provincia di Varese. Il prodotto De.Co. di

Cantello è l’asparago bianco, chiamato appunto

asparago di Cantello.

GALLO DI RAZZA PADOVANA, zucca bertagnina e formaggio Murazzano. Insalata Rosa di Gorizia (foto di Cate Sherpa).

Un prodotto De.Co. è sinonimo di qualità? In

teoria fino a un certo punto, in pratica sì e ora

vediamo perché. In teoria la Denominazione

comunale non risponde ad alcuna legge

nazionale o comunitaria. Non deve, insomma,

rispettare determinati standard di qualità

davanti a una commissione che ne accerterà

la bontà. In pratica, però, un prodotto De.Co. è

molto spesso di qualità perché sono gli stessi

produttori ad autoregolarsi, magari stilando

un regolamento (si chiama disciplinare) in cui

specificano le linee guida della produzione,

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PECORINO DI MONTE PORO al mercato di Vibo Valentia, in Calabria. Foto di Cherrye Moore -www.italiannotebook.com/author/cherrye.

79

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80 PERSONAL CHEF MAGAZINE

proprio per mantenere un alto livello qualitativo. Il marchio,

insomma, definisce un prodotto legato intimamente a un territorio

e ha una valenza soprattutto pubblicitaria e commerciale, non

legale. Alla Comunità europea, per esempio, non interessa nulla che

un formaggio sia De.Co. oppure no. Per l’Europa (ma anche per il

nostro stesso Paese) la De.Co. non offre alcuna garanzia.

ARCHE E PRESIDI. Piuttosto simili alle De.Co. sono le Arche e i

Presidi Slowfood, la nota fondazione che ormai ha valicato i confini

del nostro territorio per diventare una realtà mondiale.

Queste iniziative di Slowfood somigliano in qualche misura

alle De.Co. Perché vogliono anch’esse evidenziare e preservare

produzioni di nicchia, che con il tempo potrebbero sparire del tutto

oppure sono addirittura già svanite e soltanto negli ultimi anni

recuperate con difficoltà.

Anche questo marchio ha fini del tutto commerciali, basandosi sulla

ben nota legge che, se una cosa non viene comprata e mangiata,

prima o poi sparisce. Ma qual è la differenza fra Arca e Presidio?

Facile: l’Arca non è che una voce in un registro, un catalogo di

prodotti che vuole denunciare il rischio di estinzione di determinati

cibi, invitando tutti a far qualcosa per salvaguardarli.

Il Presidio, invece, è l’attuazione di un piano di salvaguardia: è

quindi la fase operativa su un prodotto individuato dal catalogo

dell’Arca. Anche qui, il discorso sulla qualità in senso stretto diventa

difficile. Soltanto il produttore (e Slowfood, che ci mette la faccia)

può garantire con il suo buon operato la bontà dell’alimento, della

coltivazione, dell’allevamento. Altre vere e proprie garanzie non

esistono. Provare e assaggiare, insomma, è l’unica soluzione.

L'elenco dei prodotti è su www.fondazione-slowfood.it/presidi-italia.

Tutto questo discorso sulla garanzia di qualità è importante perché,

come vedrai, molte altre sigle sono state invece create proprio per

assicurare uno standard produttivo e quindi hanno un determinato

peso davanti alla legge italiana ed estera. Nel frattempo, se ti

piacciono le liste, puoi scaricarti quella che elenca tutti i prodotti

Dop, Igp e Stg italiani nel sito ufficiale del ministero delle Politiche

agricole alimentari e forestali: http://goo.gl/OfPv19.

DOP. Cominciamo con la più famosa, la sigla Dop. Dop significa

Denominazione di origine protetta e già il nome qualcosa svela.

Innanzi tutto, questa sigla è nata in Europa, viene attributa dalla

Comunità europea e in tutta Europa si usa, non soltanto nel nostro

Paese: vale in tutto il territorio dell’Unione e, grazie a particolari

accordi internazionali, anche nel resto del mondo.

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Il formaggio Salato d’Asìno, foto di Luca Maruffa. Sale marino artigianale di Cervia.Formaggella del Luinese. Frutti di chinotto, foto di Vincent Albanese.

SONO DAVVERO TANTI I PRODOTTI LOCALICONTRADDISTINTI DA UNA SIGLA.

NON SOLO ALIMENTI DI BASE, MA ANCHE ANIMALI E PIANTE, DOLCI, PASTE E PIATTI TIPICI

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LA CONOSCENZA DEI MARCHIè UN VALIDO AIUTO NELLA RICERCADELLA MIGLIOR QUALITà

Al contrario della De.Co., la Dop sancisce uno standard

qualitativo regolamentato dalla legge. Che cosa significa, in

soldoni? Che per ogni prodotto Dop si garantisce l’area di

provenienza specifica e un processo produttivo conforme a

un disciplinare controllato, perché è proprio lì, in quel luogo e

in nessun altro, che tale cibo ha raggiunto l’eccellenza.

E quindi non può essere slegato dal nome del luogo e dalla

produzione locale, appunto. Per fare un esempio, l’Aceto

balsamico tradizionale di Modena può riportare il marchio

Dop se è stato prodotto nella zona stabilita per legge (in

questo caso la zona di Modena, in Emilia Romagna), seguendo

un ben preciso disciplinare di produzione, che ne garantisca

un buono standard qualitativo.

I prodotti Dop sono quindi di qualità? Sì, almeno sulla carta.

Questo perché un disciplinare, per quanto rigido sia, indicherà

sempre e soltanto le metodiche produttive per giungere a

un livello qualitativo di base. Un livello buono, insomma, ma

non per forza eccelso. Starà al produttore stesso ricercare una

qualità oltre il minimo richiesto dalla legge, se lo desidera:

ecco spiegato perché gli stessi prodotti Dop hanno spesso

prezzi così differenti. L’Asiago, per esempio, è un formaggio

Dop, ma può essere prodotto con livelli base di qualità da

un’industria casearia o con livelli qualitativi altissimi da un

artigiano locale. Naturalmente i prezzi varieranno, così come

varia la qualità reale, pur essendo entrambi prodotti Dop.

Questo, di sicuro, è il discorso più complicato da

comprendere: il medesimo prodotto Dop può avere qualità

e prezzi assai differenti a seconda delle capacità e degli

intenti del produttore. Per la legge, insomma, basta che siano

rispettati livelli minimi, sufficienti comunque a garantirci la

provenienza, l’integrità e la salubrità di questo cibo.

IGP. Questa sigla significa Indicazione geografica protetta e, a

primo avviso, non parrebbe troppo diversa dalla Dop. Invece

la differenza esiste e non è proprio piccolissima. Ciò che

afferma, infatti, è che un prodotto è in qualche maniera legato

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a un territorio che, nel corso del

tempo, è stato per il prodotto stesso

sinonimo di qualità e reputazione,

ma non è detto che tutta la filiera di

produzione debba svolgersi in quel

luogo. Troppo arzigogolato?

Proviamo con un esempio.

Il Limone femminello del Gargano

è un prodotto Igp. Significa che

nel Gargano quel particolare tipo

d’agrume ha raggiunto livelli di

qualità e di reputazione notevoli.

Non significa, però, che soltanto

nel Gargano si possano coltivare

limoni femminelli. Lo si può fare

anche in altre parti d’Italia e li si può

anche chiamare proprio così, limoni

femminelli. Però, da sempre, i più

famosi e probabilmente anche i più

buoni sono quelli del Gargano.

Se invece fosse stato un prodotto

Dop, soltanto i limoni femminelli del

Gargano avrebbero potuto essere

commercializzati con questo nome:

gli altri avrebbero dovuto trovarsene

un altro. Per questo non c’è un Asiago

calabrese o toscano!

Questa, però, non è la sola diversità

con la Dop. Anzi, quella che segue

è molto importante per lo chef

che punta alla vera qualità. A

differenza della Dop, infatti, per

la legge europea e italiana non è

importante che tutte le tappe della

filiera produttiva di un prodotto Igp

siano effettuate nel luogo preposto.

Sembra folle, ma è così. Per essere

definito Igp, infatti, è sufficiente che

un alimento abbia avuto almeno

un passaggio nell’area geografica

determinata. Gli altri possono essere

compiuti da qualsiasi altra parte.

Proprio per garantire ciò che la

legge non riesce ad assicurare fino in

fondo, quindi, sono nati i Consorzi.

Che, a loro volta, controllano e

targano i prodotti che ritengono

davvero corretti, mettendoci la

faccia in prima persona. Hai dubbi

sulla reale provenienza/qualità di

un cibo Dop o Igp? Vai sul sito del

Consorzio e controlla fra i suoi soci

se trovi il nome del produttore. Sarà

un’ulteriore garanzia di qualità che

puoi offrire al tuo cliente.

Per il discorso della bontà di un

prodotto Igp, vale quanto detto per

la Dop: il disciplinare regola uno

standard minimo, tocca poi al singolo

fare di più, se lo desidera.

STG. La Specialità tradizionale

garantita è ben poca cosa e vale

più all’estero che da noi. In pratica,

in Italia abbiamo soltanto due

prodotti Stg: la mozzarella e la pizza

napoletana, i due cibi nostrani forse

più imitati al mondo. E, in effetti,

questo marchio vuole proteggere

soltanto un nome, come a ricordare

che la vera mozzarella è quella

napoletana, idem per la pizza. Poi,

per carità, possono essere fatte

da chiunque e ovunque, anche in

Lituania. Ma ricordatevi che la patria

d’origine è questa. A conti fatti, per il

nostro lavoro di personal chef questa

sigla è del tutto inutile!

PAT. Questa sigla ti giunge nuova?

Non preoccuparti, capita. Può darsi

che tu l’abbia piuttosto sentita citare

come Prodotto agroalimentare

tradizionale. La lista di queste

produzioni è piuttosto lunga e la

sua genesi parecchio complicata,

se vogliamo molto “all’italiana”. In

qualche maniera, i Pat potrebbero

essere considerati gli antenati

dei prodotti De.Co: non per nulla,

parecchi De.Co. sono anche Pat.

La storia, a grandi linee, è questa.

Circa una ventina d’anni fa, l’Italia

si trovò ad affrontare il complicato

scenario della politica agricola

europea, assai più “di massa” della

nostra. E non si parla tanto di qualità,

quanto di quantità: da noi mancano

estensioni di terra coltivabile che

possano competere con quelle di

altre nazioni. Lo Stato italiano, per

trovare un terreno su cui competere,

decise di puntare sulle produzioni

di nicchia, chiedendo alle singole

regioni di stilare un catalogo di

prodotti tradizionali caratteristici

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86 PERSONAL CHEF MAGAZINE

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che, naturalmente, non fossero già Dop,

Igp o Stg.

Così fecero, ma non servì in pratica a nulla,

perché l’Europa si rifiutò (e tuttora si rifiuta)

di accettare queste indicazioni, in quanto

finirebbero per confondersi con le Dop e le

Igt, senza produrre le garanzie qualitative di

quest’ultime. Chiaro, no?

Infatti, per entrare nei Pat di una regione, a

un prodotto è sufficiente essere stato ottenuto

con metodi di lavorazione, conservazione e

stagionatura consolidati nel tempo, omogenei

per tutto il territorio interessato, secondo

regole tradizionali, per un periodo di tempo

non inferiore ai 25 anni. Insomma, tante

garanzie non se ne vedono. Basta che ci

sia una lunga pratica. A questa definizione

potrebbe corrispondere sia un prodotto può

essere così infimo da essere immangiabile, sia

un capolavoro della gastronomia mondiale.

Come se non bastasse, molti di questi elenchi

regionali sono difficili da trovare anche sui

portali della propria Regione. Il metodo più

sicuro per buttarvi un occhio è aprire la

pagina di Wikipedia corrispondente (http://

it.wikipedia.org/wiki/Prodotti_agroalimentari_

tradizionali_italiani) e cercare l’elenco

che interessa, anche se di solito non è mai

aggiornato, purtroppo.

I Pat sono sinonimo di qualità? No. Perché

non vi è obbligo di alcun disciplinare, a meno

che i produttori non se lo siano dato per

loro diretta iniziativa. Anche qui, assaggiare

e giudicare è la prima regola. Tutto il resto

non conta o conta pochissimo. Leggere

l’elenco regionale dei Pat è però utilissimo

per imparare a conoscere i prodotti locali più

interessanti. Che non è poco, anzi! Si può dire,

infatti, che un buon personal chef, se vuole

esser legato al territorio dove principalmente

opera, dovrebbe conoscere molto bene i

prodotti tradizionali della sua provincia e

di quelle limitrofe. Questi elenchi, quindi,

dovrebbero esser consultati come la Bibbia.

Buona caccia!

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OFF

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PIC FOTO ORRENDA,

CUCINA TREMENDA

Il 90 % delle foto di cibo che trovo in

giro fa parecchio schifo.

Scusami, ma davvero non so in che

altro modo scriverlo. Se vuoi ti dico

che sono così così, che non sono

poi tanto male, che in fin dei conti

l’importante è il contenuto, non la

forma... Ma mi viene da ridere... No,

no, fanno proprio schifo!

Ti dico come funziona nella

stragrande maggioranza dei casi.

Un giorno mi sveglio e decido di

diventare personal chef. Allora, per

pubblicizzare la mia nuova attività,

apro una pagina Facebook, un

blog o addirittura un sito e, poiché

cuoco sono, mi metto in testa di

fotografare i miei piatti migliori.

Così tutti li vedono. E vedono anche

quanto sono bravo. Però c’è un

però. Una volta fotografato, il mio

meraviglioso sformatino di quinoa

alle verdurine dell’orto con gocce

di aceto balsamico tradizionale e

scaglie di Castelmagno sembra il

vomito del mio cane quando mangia

cose che non dovrebbe. Persino la

mia crema pasticciata al caramello di

melanzana somiglia pericolosamente

a una cosa che il mio gatto ha

deposto sul tappeto. Qualcosa che

avrebbe fatto meglio a deporre nella

sua lettiera, intendo...

Ecco, se a questo punto tiri su le

spalle e ti racconti che l’importante

è mettere qualcosa in pagina e

che sei uno che spadella e non

un professionista della fotografia,

commetti un errore gravissimo.

Che può costarti caro.

Tu puoi essere il personal chef più

bravo del mondo, ma se le foto dei

tuoi piatti fanno schifo, la gente che

non ti conosce penserà malissimo

della tua cucina. Mai sentito dire che

un’immagine val più di mille parole?

Significa che il senso della vista, per

il nostro cervello, è più importante

di qualsiasi altra cosa. Per noi esseri

umani, ciò che vediamo è ciò che

esiste, che è, che è vero. E se vediamo

una cosa schifosa, per noi è e resterà

schifosa per sempre. Potrà avere

il profumo e il sapore migliori del

mondo, ma continuerà a farci schifo.

Quindi, ogni volta che metti sul

tuo sito, sul tuo blog o in qualsiasi

altra tua presentazione una foto

da ribrezzo, sappi che susciterai

ribrezzo anche negli altri. E chi mai si

fiderebbe a chiamare a casa uno chef

che cucina cose ributtanti?

Ok, mi dirai, posso anche essere

d’accordo con te. Ma mi dici che cosa

dovrei fare? Devo diventare anche

Nulla come un’immagine da incubo è in grado di allontanare i potenziali clienti. Se il tuo sito o il tuo blog

sono afflitti da scatti nauseabondi, ecco i primi passi per migliorare l’aspetto dei tuoi piatti anche sul web, non solo in tavola

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DI GIORGIO GIORGETTI

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90 PERSONAL CHEF MAGAZINE

fotografo? No. Però se vuoi comunicare agli altri le tue capacità,

devi trovare un modo davvero buono per farlo. Se no sarà tempo

perso. Non pretendo di dirti come diventare un grande fotografo

e neppure un fotografo. Voglio però elencarti tutto ciò che devi

sapere per cominciare a migliorare le foto dei tuoi piatti. Poi,

dipenderà da te e dalla tua volontà.

UN PO’ DI AUTOCRITICA. Te lo giuro: spesso mi chiedo come sia

possibile. Non credo di essere un signor Perfettino, ma tantissime

volte trovo su internet immagini di piatti e di pietanze che mettono

i brividi. E non certo d’entusiasmo. E allora mi chiedo: ma è

possibile che questa foto faccia paura soltanto a me? Come mai chi

l’ha scattata non vede quanto fa orrore?

Un po’ è normale: siamo portati a essere indulgenti con ciò che

facciamo, soprattutto in quei campi in cui non sappiamo nulla o

quasi. È un po’ come se la nostra mente ci dicesse: «Beh, dopotutto

non sei un fotografo! Non puoi mica pretendere chissà che cosa!».

E così finisce che ci accontentiamo e pensiamo che quel risultato

(orribile) sia il massimo che possiamo ottenere con le nostre forze.

E invece non è così.

Ciò che davvero manca è un po’ di autocritica. Fermarsi a guardare

lo scatto in maniera oggettiva, come se a giudicarlo fosse un’altra

persona. Chiedersi, in tutta sincerità: ma questa foto è una bella

foto? Mi fa venire voglia di assaggiare questo piatto oppure

preferirei la morte per impiccagione, piuttosto che ingoiarlo?

Non ti è mai passata la fame tenendo in mano quei menù di

ristoranti con le foto (spaventose) dei piatti che servono? Ci

capitano fra le mani soprattutto all’estero e, ogni volta, devo farmi

forza per ordinare, quando mi succede... Pensa che la medesima

difficoltà l’avrà il tuo ipotetico cliente. Quindi, per favore, butta

un occhio alle tue foto e sii sincero con te stesso: sono foto per lo

meno decenti? Ti ingolosisce ciò che vedi o ti disgusta? L’immagine

è bene a fuoco o è così mossa da essere irriconoscibile? I colori

sono accattivanti o ricordano i rigurgiti di vomito di un neonato?

Istintivamente, che odore assoceresti a quell’immagine? Qualcosa di

gradevole o di fetente, modello fogna a cielo aperto?

Non ridere. Sono domande che devi cominciare a porti sul serio,

se vuoi compiere un salto di qualità con le tue foto. Il tempo

dell’eccessiva indulgenza è terminato: ora devi essere critico per

davvero. E rimboccarti le maniche.

ADDIO AL CELLULARE. Ora che ti sei convinto a diventare davvero

critico, è probabile che le tue foto non ti piacciano più.

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NELLA PAGINA A SINISTRA, DALL’ALTO. Zuppa di pollo e tè verde da www.topwithcinnamon.com.

Noci da www.epicureaperture.com, di Nadine Greeff.

FOTO 1. Waffles, sempre di Nadine Greeff. FOTO 2. Cheesecake ai lamponi, di Tim Hill. FOTO 3. Antipasto elegante di Béatrice Peltre. FOTO 4. Cocktail di frutti rossi da www.sproutedkitchen.com.

Alcune immagini rubate dai siti di alcuni fra i più importanti food photographer del mondo.

Trovi qualcosa che ti piacerebbe studiare per ricreare anche nelle tue immagini?

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QUALCHE IDEAPER IMMAGINI

SEMPRE MIGLIORI

E che tu ti deprima così tanto da non

produrre più nulla. Sarebbe uno sbaglio.

Non sei un incapace: hai solo acquistato la

consapevolezza che devi imparare un po’

di cose e che devi impratichirti. Niente di

drammatico, è normale. Nella tua vita ti è

già capitato molte volte, anche e soprattutto

in cucina. Ricordi quei tortellini che non

volevano venire, quella torta che si sformava

malissimo, quel soufflé che si sgonfiava?

Stessa cosa. Quindi non amareggiarti e

rimettiti in pista con ottimismo.

Il primo passo è scegliere strumenti giusti.

Non sfiletti una cernia con un temperino. Allo

stesso modo, non puoi realizzare belle foto

con l’apparecchio sbagliato. Che, sono pronto

a giurarlo, nel tuo caso significa che devi

smettere di fotografare i tuoi impiattamenti

con il cellulare. Ma come, dirai tu? Guarda che

il mio smartphone ha più megapixel di una

macchina fotografica! Può essere. Anzi, magari

hai ragione. Però non c’entra. Per vari motivi.

La prima, è che probabilmente tu non scatti

mai le tue foto usando tutta la risoluzione che

il cellulare ti consentirebbe, perché non vuoi

sfruttare troppo la memoria. E, inoltre, più una

foto è pesante più fai fatica a condividerla con

gli amici o sui network.

Immaginiamo però che tu voglia usare l’intera

potenza del tuo smartphone... Beh, mi dispiace

dirtelo, ma i risultati non saranno buoni lo

stesso. Ciò è dovuto all’obbiettivo del tuo

telefonino, che è piccino picciò e di qualità

non eccelsa. Fa quello che può, coglie dettagli

quanto vi riesce, ma non può competere con

un obbiettivo vero e proprio.

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94 PERSONAL CHEF MAGAZINE

Gallette di cereali in fiocchi di Vanessa Rees (http://vkrees.is).Mozzarelle, di David Munns.

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E allora? E allora, se vuoi fotografare davvero bene i tuoi piatti, devi

procurarti una macchina fotografica reflex. Una fotocamera reflex

ha almeno due vantaggi che tutti gli altri apparecchi (cellulari,

smartphone e tablet compresi) non hanno: obbiettivi davvero

potenti in grado di catturare molti dettagli e la visione reale

dell’inquadratura. Significa che ciò che compare nel mirino sarà ciò

che vedrai nella foto finale. È importante, te l’assicuro.

COMPRA UNA REFLEX. Ma dove le trovo queste fotocamere?

Ovunque si vendano macchine fotografiche. Anche nei centri

commerciali, anche su internet. Se vai su Amazon.it, per esempio, e

digiti reflex, ti viene mostrata un’infinità di modelli.

Sì, lo so che cosa stai per dire e quindi ti anticipo. Le reflex costano e

ti girano un po’ i cabasisi a pensare di spendere tutti quei soldi solo

per fare foto. Finora gli scatti col cellulare ti sono sempre bastati.

Perché dovresti spendere di più?

Pensalo come investimento per la tua attività. Una buona foto

attirerà l’attenzione di un potenziale cliente. Una foto orribile lo

allontanerà per sempre. E poi non tutte le reflex sono costose.

Per i tuoi scopi, un apparecchio base basta e avanza. Se l’attività ti

appassiona e vorrai progredire, avrai tempo di farlo in seguito. Per

adesso, vediamo che cosa ti serve per cominciare.

Un modello base di Canon o di Nikon può essere più che sufficiente.

Su Amazon, tanto per dare un punto di riferimento, una Canon

EOS 1100D costa sui 350 euro e più o meno spunta quella cifra

una Nikon D3100, compreso un obbiettivo che va benissimo per

il nostro scopo. Se non te ne intendi, ordina la selezione fatta da

Amazon per prezzo crescente e guarda quale modello costa meno.

Andrà sicuramente bene. L’importante è che ci sia chiaramente

indicato che si tratta di una reflex e non di una compatta.

CERCA CIÒ CHE TI PIACE. Mentre accantoni nel tuo salvadanaio

i soldini per comprarti una reflex, magari rinunciando all’ultimo

modello di iPhone o di Galaxy o di Lumia di cui non ti fai nulla, ti

consiglio di guardarti attorno per cercare lo stile fotografico che ti

piace di più. Sì, hai capito bene. Ti sto dicendo di copiare il lavoro

altrui. Quando s’impara qualcosa di nuovo, infatti, fare di testa

propria non conviene mai. Occorre invece armarsi di modestia e

apprendere da chi ne sa più di noi, cercando di imitarlo. Nessuno

nasce imparato, come si dice. Anche i grandi maestri hanno avuto

maestri a loro volta. E se il maestro è grande, meglio ancora.

Quindi vai su internet e comincia a frugare fra le immagini, magari

raccogliendo in una cartellina quelle che ti colpiscono di più.

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96 PERSONAL CHEF MAGAZINE

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Affidati al tuo gusto, non ti tradirà. In queste pagine

ti ho messo un po’ di foto di grandi maestri del food:

alcune di queste immagini richiedono davvero

un’attrezzatura professionale, altre invece no. Tutte,

comunque, possono servire come modello per

capire quale tipo di food photografer sei.

Per approfondire, puoi cercare i loro siti su Google

oppure le loro foto su Instagram o su Flickr: non hai

che l’imbarazzo della scelta.

IMPARA A COPIARE. Copiare, ti dicevo.

Esattamente. Sei mai andato in un ristorante e

assaggiato un piatto che ti è piaciuto tantissimo?

Magari sei riuscito a procurarti la ricetta, magari no...

Però ti sei messo in testa di rifarlo. Beh, a meno che

tu non sia un mago, sono abbastanza sicuro che tu

non sia riuscito a riprodurlo perfettamente al primo

tentativo. E forse neppure al secondo e al terzo.

Copiare, insomma, è tutt’altro che facile.

Ci vuole studio e attenzione.

Come si copia una foto? Più o meno come una

ricetta: prestando attenzione ai dettagli.

Prendi l’immagine (qui a sinistra) delle tagliatelle

alla carbonara di arachidi e asparagi verdi e

analizzala velocemente. Innanzi tutto, prova a

capire se l’aspetto complessivo ti appare appetitoso

oppure in qualche modo ti disgusta. Se percepisci

l’insieme abbastanza commestibile, allora puoi

pensare di usarlo come modello. In caso contrario,

lascia perdere e passa ad analizzare un’altra foto.

Una volta deciso che l’immagine non ti schifa, ma

che anzi potrebbe valere la pena di emularla, poni

attenzione ai particolari. La luce, per esempio.

Controlla le ombre: se ne vedi poche e leggere,

come in questo caso, significa che è stata usata una

luce diffusa, forse da una finestra illuminata. Magari

il fotografo ha anche usato qualcosa per schiarire

le ombre, ma questo lo vedremo meglio in altri

articoli, nei prossimi numeri di PCM.

La messa a fuoco: ti appare sfuocata o nitida?

Uhmm, a ben guardare, pare che l’immagine non

sia del tutto a fuoco: alcune zone sono addirittura

molto incise, altre più sfumate. L’effetto non sembra

casuale, ma realizzato per focalizzare l'attenzione,

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Page 98: PCM - Dicembre 2014/Gennaio 2015

98 PERSONAL CHEF MAGAZINE

per farci concentrare sui punti più vicini ai nostri occhi (il primo piano) e rendere più apprezzabile, più “tattile”, la

testura della pasta fatta in casa e degli asparagi.

Parrebbe quindi che, grazie a tutti gli espedienti usati (luce diffusa, primo piano a fuoco e secondo piano sfuocato,

dettagli molto incisi), l’autore abbia voluto suggerire un'idea molto chiara di cibo: un piatto reale, materico, da prender

su con una forchetta e masticare, senza troppe domande e troppe leziosaggini. Quindi, se desideri copiare questa foto,

dovrai concentrarci sui particolari che hai evidenziato nella tua analisi e tentare di riprodurli nel modo migliore che tu

possa. Devi insomma creare una foto il più simile possibile al modello.

IMPADRONIRSI DELLA TECNICA. Ma a che cosa mi serve, dirai? L’idea che questo fotografo ha del cibo non ha nulla a

che vedere come la mia. Anzi, vorrei proprio rappresentare i miei piatti in modo del tutto diverso...

Vero, ma dovrai imparare a esprimere le tue idee. Per adesso, non ne sei ancora capace. Per questo devi cominciare

copiando. Copiare ti serve non per ricalcare le orme di un fotografo che ti piace, quanto per prendere confidenza con

la tecnica. Quando avrai capito come usare la luce, ammorbidire le ombre, calibrare la messa a fuoco e così via, potrai

usare queste tecniche per comporre le tue immagini. Ma se non hai, all’inizio, un punto di riferimento, non potrai

raggiungere nessun traguardo e le tue foto saranno sempre dilettantesche. O, peggio ancora, ributtanti. Quindi, se vuoi

cominciare a fare i primi passi nella food photography, questo è l’inizio. Il resto seguirà. Su PCM, of course.

Pane di zucca, sempre dal sito Sprouted Kitchen (www.sproutedkitchen.com).

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IN C

AM

PO

ESCI DAL GUSCIOE RACCONTACI DI TE

ESPERIENZE, STORIE ED ENTUSIASMIDALLA VIVA VOCEDEI PROTAGONISTI

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100 PERSONAL CHEF MAGAZINE

AL CONVITO DI CURINA C’èCHI RUBA... CON GLI OCCHI!Ferie d’agosto lontano dalla famiglia e catapultato nella cucina di un grande

ristorante toscano. Quasi una missione impossibile per il nostro Paolo,

che però l’affronta con il sorriso sulle labbra. E si porta a casa un bagaglio

di esperienze e tecniche, paesaggi e colori, atmosfere e buona tavola da far

invidia anche a chi, in vacanza, ci è andato davvero

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IN QUALSIASI POSTO MI TROVO, SENTO CHE DEVO ESPLORARE IL LUOGO DOVE SONO, DEVO CONOSCERE, VISITARE...

DI PAOLO ANTONIO CANCEDDA

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AL CONVITO DI CURINA C’èCHI RUBA... CON GLI OCCHI!

Le persone normalmente sfruttano il periodo delle ferie

estive per ristorare corpo e mente facendo una bella vacanza.

Io che di normale devo aver poco, quest’anno ho deciso di

investire le mie ferie sfruttando l’occasione dataci dallo Chef

Trovato e la Federazione di fare una Work Experience al

Convito di Curina.

Parlatone a tavolino con moglie e figli, ho dato la mia

disponibilità per lo Stage dal 17/08 al 31/08 incluso.

Affrontato tutto il viaggio e arrivato in quel di Curina,

nel cuore del Chianti, come tante persone, sono stato preso

dal paesaggio che mi circondava che nessuno può negare

essere incantevole.

Senza perdermi in tanti preamboli, appena accolto

calorosamente in cucina, ho gentilmente rifiutato l’offerta

dello Chef di cenare la sera e ho cercato di mettermi subito

all’opera o perlomeno di iniziare a capire cosa dover fare. Ho

quindi cenato con la ciurma composta da Ervis, Alty, Daniele

e Agostino. È poi iniziata la prima serata in cucina, quella

dove non sai dove metter le mani e non sai neanche cosa fare.

In fondo quando non sei tra i tuoi fornelli ci va un attimo

a capire dove si trovino attrezzi e materie prime. La prima

serata quindi mi è servita proprio a questo, ad ambientarmi,

in attesa di iniziare la giornata successiva a pieno ritmo.

La prima settimana è stata dura, devo dire la verità, seguire il

ritmo dello Chef “Saetta” Trovato e del suo secondo Ervis, non

è stato facile. È però vero che al di là delle corse durante il

servizio il fatto di essere li a “rubare con gli occhi” ed imparare

mi ripagava della stanchezza.

Praticamente qualsiasi fosse l’ora che finivamo la sera, ben

carico di adrenalina, alla mattina alle sette ero già in piedi,

colazione con frutta in camera e via in giro con macchina

fotografica al seguito, tranne ovviamente i due giorni che

facevamo le preparazioni già dal mattino.

In qualsiasi posto mi trovo, sento che devo esplorare il

luogo dove sono, devo conoscere, visitare le particolarità

e assaporare ciò che c’è di caratteristico il posto offre.

Sapete che a Curina c’è una delle Cappelle più particolari,

meravigliose e ben conservate?

Così ho girato nel piccolo paese di Castelnuovo Berardenga e

soprattutto ho girato in lungo e largo Siena, visitando la Torre

del Mangia in piena Piazza del Palio, facendo un po’ il turista,

ma ho girato anche il vero e autentico Chianti avendo anche

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102 PERSONAL CHEF MAGAZINE

la possibilità di visitare le Cantine del Conte Ricasoli.

Io ed i ragazzi della brigata avevamo differenti orari di sveglia pertanto colazione e pranzo mi

arrangiavo da me, mangiando qualche volta a Siena, o a Castelnuovo Berardenga, o al Convito

preparando da me qualcosa, comunque sempre in posti diversi.

La cena invece puntuale come degli Svizzeri la facevo con la Brigata al Convito alle 18:30.

Devo dire che la seconda settimana è andata decisamente meglio, unico neo negativo, quando

cominci a muoverti come si deve è già tutto finito, mi ci sarebbe voluta ancora una settimana

in verità. Forse quando son partito da casa non mi aspettavo che comunque il servizio fosse

così duro, in tutta sincerità lo è stato di più, ma solo perché non si è abituati a cucinare a quelle

velocità e a quei ritmi. Cucinare in un ristorante tutti i piatti espresso non è cosa da molti

ma ogni centesimo che il cliente spende posso dire che li vale tutti e non ripaga certo degli sforzi

e fatiche di chi li prepara.

Nato nel 1974 in Provincia di Cagliari, mi sono trasferito in Piemonte 18 anni fa.Felicemente sposato, padre di tre splendidi figli, nella vita di tutti i giorni sono immerso in un mondo di numeri e burocrazia, in quanto lavoro in uno Studio di Consulenza del Lavoro. Giusto un anno fa sono approdato in FIPPC in quanto alla continua ricerca di una seria Federazione che potesse portare la mia passione per la cucina ad un livello professionale.Numerose le esperienze oramai riportate in quest’anno, e belle o brutte, tutte hanno avuto aspetti positivi e negativi.

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La grande sala da pranzo a Il Convito di Curina.Scorci dalla Terrazza sul Chianti di Villa Curina. Ogni giorno un paesaggio da favola.

La dependance dell’albergo, dove anche Paolo aveva la sua cameretta.

Villa Curina, Chianti, Toscana. A pochi chilometri da Siena, in questo territorio basta affacciarsi a una finestra, aprire

una porta a vetri su una veranda, uscire da una porta, per ritrovarsi in paradiso.

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GUIDA AI CRITICI GASTRONOMICI

(DA NON INCONTRARE MAI)

La mia estate lavorativa è stata

entusiasmante. La prima in cui io mi

sono dedicata completamente al mio

lavoro di Personal Chef. Molta fatica

ma anche tante soddisfazioni. Ho

conosciuto dei colleghi che hanno

dimostrato tanto affetto nei miei

confronti. In tutto questo idillio,

per carità, forse dato dal fatto che

finalmente faccio un lavoro che mi

fa saltare di gioia e che non mi ritrae

seduta dietro una scrivania, una nota

stonata l’ho trovata. Sono un’ingenua,

lo so... Ogni volta che ho raccontato

qualche aneddoto a chi ha più

esperienza di me sono stata derisa

perché considerata più imbarazzante

di Cappuccetto Rosso quando, alla

quarta domanda rivolta alla nonna,

non aveva capito che invece ci

fosse il lupo. Mi riferisco, così come

anticipato nel titolo, ai cosiddetti

Critici Gastronomici, improvvisati

e non. Quei gentili signori che

sbucano fuori negli eventi e che poi

il giorno dopo scriveranno di te sui

social media e su rinomate (spesso

solo a loro) riviste. In giro per il

Salento sono incappata in un nutrito

campionario di queste preziose

figure e solo a fine stagione ho avuto

un quadro preciso di quello che

possono in realtà essere. Allora cari

amici e colleghi, per chi non avesse

ancora avuto a che fare con loro –

ma data l’elevata densità penso che

almeno uno lo abbiate conosciuto -,

ho pensato bene di stilare una lista

di profili da evitare, o perlomeno

da affrontare equipaggiati, nel caso

in cui voi ve li trovaste di fronte in

qualche sagra, evento, vernissage

o in una di quelle occasioni in cui

è presente l’odiatissimo prefisso

“aperi-”. Vale a dire in qualsiasi posto

in cui si mangi gratis, e tanto. Cioè, vi

consiglio proprio di parlare in arabo

e spiegare a gesti che voi siete solo

l’aiutante dello Chef che è dovuto

purtroppo scappare per motivi di

famiglia, tanto non ne caverete un

fico secco, datemi retta.

1. Autoreferenziale. Colui che,

prima ancora di avvicinarsi, sta

già recitando il suo curriculum a

memoria, vantandosi delle super doti

di vero esperto del settore e delle sue

4 lauree. “Signora lei non sa chi sono

io, sono uno importante nella mia

regione, mi faccia assaggiare solo il

pane, tutto il resto non lo gradisco”.

Subito dopo ci dirà che nel risotto

sua moglie ci mette l’uva passa.

Così, a prescindere.

2. Vip. Arriva neanche fosse Sophia

Loren nello spot del prosciutto

“accattatevillo”, con tutta la corte a

seguito. Mosè durante l’apertura della

acque. Si offre volentieri per i selfie

con i suoi fan e conosce l’Italia solo

per macroregioni: nord, centro, sud.

3. Gigi Marzullo. Della serie “Fatti

una domanda e risponditi da solo”.

Ti chiederà che cosa hai preparato

e come, in quanto tempo, che grano

hai usato ecc, ma non preoccuparti

se la tua salivazione si è azzerata:

sarà perfettamente inutile. Alla

sua domanda, senza soluzione

di continuità, sarà lui stesso a

rispondere. Tu non dovrai fare altro

DI FEDERICA DE PREZZO

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Mi chiamo Federica e fin qui tutto bene. In quanto madre, moglie e personal chef la mia vita si complica. Ho un orsetto di 5 anni che dicono essere mio figlio, un marito part-time e un lavoro da sogno che mi fa vivere tra farine, sesamo, anice stellato e pani dai mille profumi. Ah... sono anche schizofrenica, facilmente divento Desdemona, Dorina o qualsiasi altra maschera il teatro mi impone di indossare.

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GUIDA MICHELIN. È anche su app la guida più famosa del mondo.

106 PERSONAL CHEF MAGAZINE

che restare fermo, annuire e chiudere la bocca che accidentalmente ti si è bloccata sulla A di un

“Allora…” d’esordio, e che ti sta facendo assumere le fattezze di un deficiente.

4. Esigente. Quello a cui, in un evento con 1000 persone in fila che aspettano di mangiare, non

basta sapere che il tuo pane è fatto di farina Senator Cappelli proveniente direttamente da Foggia,

ma pretende anche che tu gli spieghi la Riforma Agraria che ha portato alla distinzione tra grani

duri e grani teneri. Ovviamente tu, il cui unico sforzo mnemonico ti conduce alla tabellina del 2,

vieni additata come la solita incompetente che si accinge a fare un lavoro senza sapere le basi. Se

non conosci almeno il Piano Marshall non sei praticamente nessuno. Ignorante!

5. Scroccone. Elogia le doti del malcapitato a patto di ricevere come compenso quantità industriali

di prodotti o di mangiare gratuitamente nel suo ristorante. Generalmente, “lo scroccone” pesa oltre

i cento chili e l’ultima volta che ha fatto la spesa è stato nel 2001.

6. Modaiolo. Segue le mode del momento. Copia le recensioni di chi è più in alto di lui, apportando

modifiche che scientificamente peggiorano i contenuti e usando inutili neologismi anglosassoni per

far vedere che lui non è un tipo out(let). Se proprio non riesce a reperire informazioni, si rivolge al

suo ultimo dio: Trip Advisor.

7. Controcorrente. Colui che vuole distinguersi da tutti, l’anticonformista per eccellenza.

L’hipster (!). Al solo sentir nominare Gualtiero Marchesi assume la postura da conato di vomito e

pensa che sarebbe stato meglio che il Maestro fosse rimasto solo un musicista.

«Chi è lui per opporsi alla grande guida Michelin, prodotta da un marchio famoso nel mondo per la

produzione di gomme da strada?».

8. L’amico degli amici. Nel senso che gli amici da segnalare già ce li ha. Coloro che sono intoccabili

e per forza di cose devono essere spinti. Si presenta agli eventi ma non si preoccupa neanche di

far finta di essere interessato alla tua proposta gastronomica. Non ti guarda neppure. Non esisti

proprio. Niente. Nada. Zero. Il pover’uomo deve correre a fare il selfie con l’amico importante, o

rischia di non finire sull’Evento Fb del mese.

Non faccio di tutta un’erba un fascio e mi rendo conto di non aver avuto a che fare con “grandi”

nomi della critica enogastronomica, ma chi ci assicura, in realtà, che ad alti livelli il risultato cambi?

Di critica ai critici (scusate la ridondanza) sono piene le riviste, i libri e i social network. Una critica

è sempre di parte, d’accordo, ma il motore dovrebbe essere la passione e il fine nobile quello di

esaltare eccellenze e mettere in luce nuovi talenti. In fin dei conti il critico offre sempre la “sua”

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ALL’ESTERO E IN ITALIA. Non si vive di sole stelle e stelline...

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visione delle cose, e se i critici

denoantri che ho incontrato io

per la maggior parte sono persone

a cui della critica costruttiva

non importa nulla perché mossi

da interessi personali o per

accontentare l’editore di turno,

immaginiamo che cosa possa mai

succedere ad alti livelli, dove gli

interessi di marketing ed economici

soverchiano quelli puramente

gastronomici.

E poi, diciamola proprio tutta, chi

è che segue fino in fondo i critici,

quelli veri? Chi è che acquista le

guide? In quanti ristoranti stellati

si mangia davvero bene? Quanti

ristoranti presenti nelle guide non

sono almeno chiusi da due anni?

Che il tanto odiato Trip Advisor

sia la nuova guida 2.0?

Ai posteri l’ardua sentenza.

P.S. Ho incontrato un critico

che assomma in sé tutte

e 8 le caratteristiche.

Ma non vi dirò mai chi è.

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Ciao, sono Alessandra, madre, moglie e figlia adorabile (così dice la mia mamma!). Amo tutto ciò che è  arte e che mi teletrasporta la mente da una situazione all’altra: il disegno, il ballo, la lettura e, ovviamente, il magico mondo dei fornelli. Il mio colore preferito è il rosso, il mio cantante Biagio Antonacci e il Profumo del mosto selvatico è il film più dolce che abbia mai visto. Ah, dimenticavo... Sono golosissima e non può mancare il cioccolato a fine pasto!

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GIOIE E DOLORINELLA REGGIA

DI CHEF GIORGIO

Ce l’ho fattaaaaaaaaa!

Ho mandato richiesta di

partecipazione alla work experience

presso Villa Curina e sono

sopravvissuta a 15 giorni nella

cucina del Big Chef Giorgio Trovato

e la sua troupe!

La decisione è stata abbastanza

travagliata, perché lasciare la

famiglia non è mai facile per me.

Oltretutto ho dovuto rinunciare alle

mie ferie estive per poterle avere nel

periodo utile per la work experience

e mio marito a casa ha dovuto

prendere le redini di tutto.

Pochi giorni prima della partenza,

ho saputo che avrei condiviso il

percorso formativo con la mia

collega Francesa Maselli, conosciuta a

maggio presso il Cibus di Parma. L’ho

contattata e ci siamo organizzate

per la partenza insieme. Arrivate lì

la domenica sera, abbiamo avvertito

un’aria molto tesa e il primo pensiero

è stato ma chi me l’ha fatto fare!!!

Lo chef Giorgio ci ha dato subito

indicazioni di cosa dovessimo fare e

in particolare NON fare. Vi assicuro

che per una donna che normalmente

a casa e a lavoro è un leader non

fa per niente piacere sentirsi dare

indicazioni cosi precise e dettagliate.

Ma ero in casa sua e dovevo

eseguire. Diciamo che ci siamo

ricredute subito dopo mentre a cena

gustavamo le prelibatezze di Giorgio.

Le ore in cucina trascorrevano

veloci. È stato bellissimo preparare

insieme allo chef e ad Ervis, lo chef

in seconda, pasta fresca, marmellate,

zuppe, dessert, approfitto per

fare un saluto agli altri colleghi di

cucina e servizio Daniele, Alty e

Agostino. Meno piacevole era lavare

e tagliare verdura e frutta in quantità

industriali portate la mattina da

Chef Giorgio. Queste preparazioni

servivano la sera per il servizio in

sala e in quei momenti vi assicuro

mi sembrava di essere in un reality

show! Padelle che sfiammavano da

tutte le parti, banchi d’acciaio pieni

di piatti e lo chef che sembrava

essere un pittore per quanta cura

metteva nel decorarli. C’erano

rumori, odori, colori tutto sembrava

surreale e io? Estasiata da quanto

stavo vivendo, nonostante non mi sia

fatta mancare nulla...

...mal di testa, dolore ai piedi, polso

infiammato... mi è sembrato di

vivere una prova di resistenza fisica,

morale ed emotiva. Per fortuna ad

allentare un po’ la fatica c’è stata la

sorpresa di mio marito e mio figlio in

occassione del nostro anniversario di

matrimonio. Il 10 settembre mi arriva

la foto di mio figlio su whatsapp

scattata sotto l’insegna di Villa

Curina. Siiiii erano lì da me, carramba

che sorpresaaa!

Che dire ancora... ringrazio la Fippc

per l’occasione professionale, la mia

famiglia per avermi supportato e la

grande Francyyyy sempre carica di

adrenalinaaaa, bravissima autista,

cicerone e ottima coinquilina. Grazie

a questa esperienza oggi ho aquisito

maggior conoscenza e sicurezza

ma in particolre un’amica in più,

FRANCESCA MASELLI.

È stata un’esperienza molto ricca.

Ricca di emozioni, sensazioni,

conoscenza, teorie, pratica, nostalgia

e chi più ne ha più ne metta!

Un saluto a tutti i lettori e

alla prossima!

DI ALESSANDRA MALAGNINI

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