Patrimonio culturale e territorio negli anni dell’editto...
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Patrimonio culturale e territorio negli anni dell’editto Pacca
Valter Curzi
Nell’affrontare il tema della tutela di Antichità e Belle arti nello Stato Pontificio negli anni dell’editto Pacca,
può essere utile rivolgere lo sguardo al secolo precedente e porsi il problema, spesso trascurato, dell’effettiva
efficacia degli editti e bandi pontifici emanati, come è noto, con particolare frequenza nel Settecento1. Una
valutazione, quest’ultima, da doversi necessariamente accompagnare alla verifica della maturazione sia della
consapevolezza del valore pubblico del patrimonio culturale e del diritto conseguente dello Stato di garantirne
la salvaguardia in nome del bene collettivo, sia dell’ interesse alla tutela dell’oggetto artistico per il suo valore
storiografico e di documento, svincolato da giudizi di ordine puramente estetico. E’ questa, a mio avviso,
l’impostazione culturale dalla quale fare emergere quel mutamento di mentalità e di costumi sociali che sta
alla base dell’editto che vide la luce il 7 aprile 1820 siglato dal cardinal Camerlengo Bartolomeo Pacca2.
Per delineare la straordinaria portata innovativa dell’editto è innanzitutto necessario sgomberare il campo da
un frequente errore metodologico: quello di ricorrere all’antologia di fonti legislative curata e edita da Andrea
Emiliani nel 1978 per rivendicare il primato pontificio nella tutela di Antichità e Belle Arti. Quei documenti
non possono che costituire gli assunti teorici di una volontà di tutela ostacolata prima dell’Ottocento, con più
frequenza di quanto si sia disposti ad accettare, dalle deroghe alle leggi di uno Stato di ancien régime dove
hanno spesso la meglio questioni di ordine patrimoniale, interesse economico, valutazioni di opportunità
politica, rivendicazioni, infine, di diritto di censo, di agevolazioni e di privilegi.
Sarebbe sufficiente ricorrere all’ indagine del 2003 di Johathan Scott sulla formazione delle collezioni inglesi
nel Settecento, per dare la misura della dimensione colossale del mercato antiquario a Roma responsabile di
un fenomeno di dispersione del patrimonio artistico e, in particolare, archeologico dell’Urbe che non trova
eguali3. Ne fu, a suo tempo, uno dei testimoni più perspicaci Goethe, quando ad appena tre mesi dall’arrivo a
Roma, affidava il suo sgomento alle pagine del diario romano: «Uno straordinario vantaggio avrebbe
costituito per i visitatori […] se il governo, cui solo spetta dare il consenso alle esportazione delle opere
antiche, avesse fermamente disposto che di ciascuna si consegnasse una copia. Ma se qualche Papa avesse
avuto una simile idea l’opposizione sarebbe stata generale, giacché in pochi anni tutti si sarebbero spaventati
del valore e dell’importanza di quegl’oggetti perduti; sicché ci si adopera, per vie segrete e con ogni sorta di
mezzi, a ottenere caso per caso la concessione necessaria»4.
Con questo, ovviamente, non si intende negare la centralità assunta dal patrimonio monumentale e artistico di
Roma nella promozione del suo primato culturale e di conseguenza i ripetuti tentativi, in particolare nel sec.
XVIII, di salvaguardarne la conservazione, ma al tempo stesso si avverte l’esigenza di mettersi al riparo da
facili entusiasmi scaturiti, per lo più, da una mancata verifica, per via documentaria, della prassi quotidiana
nell’azione di tutela promossa dallo Stato.
Su un secondo aspetto mi interessa inoltre ricondurre la vostra attenzione: sulla dovuta considerazione che
spetta, anche nel caso del contesto pontificio, alla rifondazione della società civile e al rinnovato ordinamento
dello Stato nati dai principi del 1789 e dall’esperienza napoleonica. A quest’ultima, totalmente eclissatasi
dalla memoria di quanti si sono occupati in passato di storia della legislazione artistica, ho avuto modo di
dedicare i miei studi più recenti nella convinzione che a essa spetti un ruolo di fondamentale importanza
nell’impostazione delle politiche di tutela degli anni della Restaurazione, avviate sotto l’egida dell’editto
Pacca con ricadute senza precedenti estese, come si vedrà, per la prima volta a tutto il territorio dello Stato
Pontificio.
Gli studi storici hanno da tempo evidenziato come la seconda occupazione di Roma, dal febbraio del 1808,
lungi dal rappresentare un semplice episodio militare incentrato nella contesa della capitale pontificia tra
papato e impero, vada letta come una tappa essenziale nella transizione dell’Urbe verso la modernità; una
considerazione quanto mai valida nell’ambito che ci interessa5.
Per quanto concerne il rapporto delle autorità governative francesi con la città monumentale e artistica si
dovrà infatti registrare, sia attraverso gli atti della Consulta straordinaria per gli Stati romani, insediatasi
subito dopo l’occupazione, sia con il ricorso alle fonti archivistiche, un immediato atteggiamento
protezionistico e di valorizzazione che sembra avvalersi di una tardiva riflessione sulle Lettrés di Quatrémere
de Quincy.
«Si donc Rome» scriverà nel 1809 Joseph-Marie de Gérando, ministro degli Affari interni «doit être et un
grand Musée, et une grande École, le Sanctuaire de l’étude pour tout à qui intéresse la connaissance de
l’antiquité, il est indispensable de retenir dans son sein les éléments nécessaires de cette même étude»6.
Roma, diviene agli occhi di de Gérando, città universale, unico luogo dell’Impero che offre, come ancora
scrive, «un sistème aussi complet d’inseignement» in grado di «exalter le genie des artistes». Di fronte a ciò il
ministro condanna apertamente ogni tentativo di spogliare Roma del suo patrimonio in nome, come si legge
nel rapporto, della curiosità individuale e della speculazione mercantile, concludendo «tous ces objets d’etude
son nécessaires les une aux autres» formando «comme un vaste Tableau qu’on ne saurait diviser, sans en
détruire l’effet».
Sulla spinta di tali considerazioni, pienamente condivise peraltro dal conte Miollis, presidente della Consulta,
così come dal prefetto Camille de Tournon, il 9 luglio 1810 venne emanata una legge con la quale fu varata
una Commissione dei monumenti e delle fabbriche urbane, composta di ben tredici membri posti sotto la
direzione del prefetto, incaricata, oltre che del controllo degli scavi e delle esportazioni di opere d’arte, di
«invigilare sulla conservazione di tutti i monumenti, fabbriche urbane, oggetti d’arte, e generalmente su tutto
ciò, che può interessare l’istoria, le arti e l’antichità»7. Una legge che, contrariamente ai testi legislativi del
passato governo pontificio, non tralasciava di elencare dettagliatamente gli aspetti operativi del nuovo
organo, a partire dall’obbligo di una riunione settimanale presso la prefettura e dall’incarico di predisporre un
«piano generale e uno specchio dettagliato» di tutti gli edifici monumentali con la finalità di programmarne il
restauro o la manutenzione secondo un piano complessivo sottoposto, anche in fase esecutiva, all’esame e al
controllo dei membri della commissione, mentre il finanziamento delle spese occorrenti veniva ripartito tra
governo, dipartimento e comune, sulla base di una valutazione dello specifico interesse del singolo
monumento. Cinque mesi più tardi, con il varo di un secondo decreto, l’ attività di ricognizione del
patrimonio e la puntuale programmazione di ogni intervento di tutela sarebbero state estese a tutto il
Dipartimento.
A seguito della compilazione dei cataloghi e delle relazioni richieste, a partire dal 1811, decine e decine di
cantieri di restauro furono aperti in una vasta operazione che, insieme al recupero dell’area dei Fori per la
creazione di una passeggiata pubblica e ad altre iniziative di sistemazione urbana, ebbe il merito di addestrare
nella corretta gestione della cosa pubblica un’ampia schiera di funzionari, già peraltro impiegati dalla passata
amministrazione pontificia e che avrebbero assunto il compito di traghettare quell’esperienza negli anni della
Restaurazione.
Da non sottovalutare inoltre è il ripensamento del valore del patrimonio artistico e monumentale emerso
dall’operazione; essa fu infatti costantemente guidata da un approccio storicistico che permise di ampliare
definitivamente l’arco cronologico di riferimento nella scelta dei monumenti da conservare e da valorizzare,
tanto che sarebbe stato possibile far rientrare nel novero dei monumenti posti sotto la tutela dello Stato, per la
loro importanza documentaria, sia i complessi catacombali di Roma, sia le principali chiese di età medievale.
Un’impostazione ereditata, alla caduta di Napoleone, dagli amministratori dello Stato Pontificio, come reso
già evidente sia nell’editto Pacca, sia nel regolamento del 1821 volto a chiarirne le prescrizioni. «dovrà
riflettersi» si legge nel regolamento « che come in Roma dalle singolari Antichità si reca sommo splendore
alla Metropoli dell’Universo, così nelle altre Città, o Paesi si debbono avere in considerazione quelle locali
celebrità, ancorché mediocri […]Poiché distruggendo quelle memorie, si può bene spesso incorrere nella
taccia di aver distrutto un monumento interessante, e che pur se tale non era, richiamava alla mente qualche
punto di storia patria»8. La nozione di bene culturale qui si allarga al di fuori di quella gerarchizzazione
incentrata sulla natura estetica dell’oggetto artistico che ancora adombra lo stesso editto pontificio del 1802
quando proibisce l’esportazione delle: «Pitture in Tavola, o in Tela, le quale sieno opere di Autori Classici,
che hanno fiorito dopo il risorgimento delle Arti»9. Non si dovrà d’altro canto dimenticare che l’editto redatto
da Fea, al di là delle obbiettive aperture sulle quali hanno insistito gli studi, fu varato con lo scopo prioritario
di risarcire i musei romani - quelli archeologici in particolare - delle gravi perdite dovute alle requisizioni
seguite al trattato di Tolentino10.
Con l’editto Pacca, al contrario, la conservazione di Antichità e Belle Arti diviene una questione sociale,
avvertita come un’occasione di riscoperta della memoria collettiva, così da far crescere, per la prima volta, il
grado di attenzione nei confronti dei territori dello Stato Pontificio, rimasti fino ad allora in ombra, al di fuori
delle città più attrezzate culturalmente. L’editto del 1820, come è noto, istituì nelle Legazioni e Delegazioni
pontificie le Commissione Ausiliarie chiamate a vigilare sul territorio e a coadiuvare, nell’applicazione della
nuova legge, la Commissione di Belle Arti romana, primo «Consiglio permanente» del Camerlengato, sancito
dall’editto Pacca a fronte della pratica della collegialità di giudizio sperimentata in età napoleonica.
Tale iniziativa si ricollegava al riassetto territoriale, fortemente voluto dal Segretario di Stato Ercole Consalvi
ma anch’esso memore della stagione politica napoleonica, seguito al motu proprio del 6 luglio 1816, con il
quale lo Stato veniva ripartito in diciassette province poste sotto la guida di legati o delegati apostolici
assistiti da congregazioni a carattere consultivo. Della nuova pianificazione amministrativa si
avvantaggiavano anche le comunità locali provviste di un consiglio e di una magistratura che per la prima
volta contemplava l’ingresso di laici11.
Furono questi ultimi i principali interlocutori della Commissione di Belle Arti romana, soprattutto quando si
trattò di denunciare abusi a danno del patrimonio artistico locale perpetrati, senza troppe preoccupazioni, da
rappresentanti del clero tradizionalmente abituati alla più assoluta libertà di manovra.
Le sedute della Commissione romana ci restituiscono decine e decine di esempi del progressivo farsi strada,
anche in provincia, di una nuova coscienza del valore identitario del patrimonio monumentale e artistico,
anche sulla scorta, non lo si può certo dimenticare, dei recenti traumi legati alle requisizioni napoleoniche e
alle mancate restituzioni dei dipinti recuperati da Canova.
E’ attraverso una lettera indirizzata nell’aprile del 1823 al camerlengo, firmata dagli “Amatori delle Belle
Arti di Città di Castello”, che la comunità fu in grado di impedire la vendita della Presentazione di Maria al
tempio di Raffaellino del Colle tentata dai serviti con l’appoggio del vescovo (Fig. 1).
fig. 1. Raffaellino del Colle, Presentazione di Maria al tempio, Città di Castello, Pinacoteca Comunale
È l’intera popolazione a essere chiamata a testimone dell’ennesimo sopruso dopo che, nel giro di pochi
decenni, la cittadina umbra aveva assistito inerme alla perdita di ben tre dipinti di Raffaello, tra i quali la
Crocifissione e Santi (Fig. 2) il cui allontanamento risaliva ad appena cinque anni prima della stesura della
missiva. «Questa popolazione e noi connessi» si scrive nella lettera «altamente meravigliamo, che un Corpo
Religioso abbastanza pingue e sempre più crescente voglia porre vergognosamente a mercato un avanzo dei
pittorici ornamenti della nostra patria». Un atto ritenuto tanto più grave se ricondotto all’utilità del dipinto
nella crescita dei membri della comunità: «si prendono l’arbitrio» si denuncia ancora al camerlengo « di
spogliare la chiesa della loro città de’ monumenti di arte, che i nostri antenati lasciarono a decoro della città
stessa, e ad istruzione de loro concittadini che non hanno mezzi di studiare la Pittura altrove»12.
fig. 2. Raffaello, Crocifissione, Londra, National Gallery
A Deruta, l’anno successivo, sarà il Gonfaloniere a denunciare la vendita di un quadro dell’Alunno (Fig.3) da
parte dei Padri Minori Conventuali e a pretenderne la restituzione garantendone peraltro, dopo il recupero, il
restauro a spese dell’intera comunità.
fig. 3. Niccolò di Liberatore detto l’Alunno, Madonna con Bambino, Santi e donatore, Deruta, Pinacoteca Comunale
Ad appena due mesi di distanza dal varo dell’editto Pacca, per rievocare un ulteriore episodio, risale il divieto
di vendita, intimato dalla Commissione romana, del dipinto di Giovanni Santi della chiesa di santa Croce a
Fano (Fig. 4). Ad allertare le autorità romane era stato, in questo caso, un privato cittadino, il conte Pompeo
di Montevecchio, ben accorto nel replicare alle giustificazioni che egli immagina accampate, come in effetti
fu, da quanti intendevano alienare l’opera di un artista primitivo, giudicato senza pregio. «non conosco in
Fano» aveva scritto il conte «persone bastantemente approfondite nella Teoria dell’Arte, per distinguere i
pregi d’un dottissimo lavoro, adombrato dalla secchezza e venusta semplicità dello stile quattrocentista, e per
venerare quanto si debbe il nome illuste – in addietro di poco notato – del coltissimo, e nobile artefice
urbinate, Padre dell’immortale Raffaelle, e per bene apprezzare in conseguenza questo genere di antiche
pitture in Tavola, che vanno ad essere, come rare in numero, così altrettanto ricercatissime»13.
fig. 4. Giovanni Santi, Madonna con Bambino e Santi, Fano, Pinacoteca Civica
All’iniziativa di un cittadino privato, il medico condotto Giuseppe Dotti, si deve nel marzo 1821 la denuncia
del parroco di Monteleone di Orvieto. Nel caso in questione il problema, di certo non meno grave delle
vendite clandestine, era quello del restauro rovinoso di un dipinto creduto di Pietro Perugino condotto,
secondo quanto si legge nel rapporto di Dotti, da un «avventuriere ritrattista che vagando di paese in paese, da
villa in villa, va cercando il sostentamento»14. Sarebbe spettato al Gonfaloniere del piccolo comune umbro,
inviato nella parrocchiale per un sopralluogo, registrare il danno seguito all’intervento del restauratore che,
come viene riferito, aveva «portato via tutto il primo colore».
Era ben presente alle autorità romane, è cosa nota, la delicatezza della questione dei restauri pittorici tanto
che tra i primi provvedimenti del Camerlengato con la Restaurazione ci fu l’istituzione, nell’agosto del 1814,
dell’Ispettorato per la conservazione delle Pubbliche Pitture, seguita , nel 1819, dall’emanazione di una
circolare con la quale si vietava in tutto lo Stato Pontificio ogni intervento di restauro di dipinti di pertinenza
pubblica senza il permesso di Vincenzo Camuccini, chiamato a occupare la nuova carica e a farsi garante dei
risultati tecnico-scientifici di ogni intervento intrapreso entro i confini dello Stato. Nei due anni successivi la
questione dei restauri sarebbe ricomparsa sia nell’editto Pacca, sia nel Regolamento per le Commissioni
Ausiliarie dove si raccomandava di «essere cauti assai, e timorosi per ogni risarcimento che si fa nelle
Chiese». Si trattava di una vera e propria svolta nell’azione di tutela di recente indagata, per quanto riguarda i
restauri pittorici, in uno studio di Federica Giacomini, al quale rinvio per un approfondimento del tema15.
Mi interessa tuttavia, prima di avviarmi alla conclusione, segnalare,come anche su tale questione pronta fu la
risposta da parte di diverse comunità locali, nello sforzo di rendere lustro al patrimonio monumentale storico
bisognoso, ovunque, di urgenti interventi conservativi.
La commissione ausiliaria di Ravenna, ad esempio, all’indomani dell’insediamento inviò alle autorità romane
un dettagliato rapporto per denunciare il preoccupante stato di degrado di molte delle chiese cittadine, così
come delle: «pitture di Giotto […] che sono tenute nella maniera più indecente e pericolosa che possa mai
dirsi, per cui rimangono esposte ad una quasi totale rovina»16. Da Rimini, Fano e Benevento si provvide a
inviare a Roma progetti di restauro degli archi trionfali di età imperiale, per la verità aspramente criticati da
Valadier che ne bocciò tassativamente le fantasiose proposte di ripristino invitando a un cauto intervento
conservativo. Ad Assisi, all’inventariazione dei monumenti più illustri condotta da Tommaso Minardi, era
seguita nel settembre del 1820 una lettera della Commissione romana al Delegato apostolico di Perugia con la
raccomandazione di «intimare ai Proprietari di questi oggetti la conservazione, ed il necessario restauro de’
medesimi» suddividendone le spese tra privati, comune e ente ecclesiastico «trattandosi» come viene scritto
«di oggetti, che strettamente riguardano il lustro e decoro patrio»17. E’ così che negli anni successivi troviamo
Camera Apostolica, Vescovo e Comune impegnati nel finanziamento di diversi restauri.
Concludo ricordando il restauro condotto da Giuseppe Carattoli tra il 1830 e il 1831 sui dipinti murali di Cola
dell’Amatrice nella chiesa di S. Margherita a Ascoli Piceno. Qui fu tale l’entusiasmo per i risultati conseguiti
che i cittadini promossero l’affissione di una lapide nella quale veniva celebrato l’operato del restauratore
ricordato ai posteri come segue: «in pristinam fere formam splendoremque restituit»18.
1 Si veda l’antologia legislativa di A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, [1978], II edizione ampliata con nuovi commenti, Bologna, Nuova Alfa Editoriale 1996, pp. 66-84.
2Successivamente a questo intervento, chi scrive è ritornato sull’argomento nel contributo: Nuova coscienza e uso politico del patrimonio artistico negli anni del pontificato di Pio VII Chiaramonti, in L’arte contesa nell’età di Napoleone, Pio VII e Canova, catalogo della mostra a cura di R. Balzani, (Cesena, 2009), Cinisello Balsamo (MI) 2009, pp. 28-32. Nello stesso volume si vada anche il saggio di R. Balzani, Nel crogiolo del patrimonio: come le opere d’arte cambiano statuto, pp. 24-27. Per una lettura storico-critica dell’editto si vedano: V. Curzi, Per la tutela e la conservazione delle Belle Arti: l’amministrazione del cardinale Bartolomeo Pacca, in Bartolomeo Pacca: ruolo pubblico e privato di un cardinale di Santa Romana Chiesa, atti delle Giornate di Studio a cura di C. Zaccagnini (Velletri, Museo Diocesano, marzo 2000), Roma 2001, pp. 49-79; Idem, Cultura della tutela e della conservazione a Roma negli anni della Restaurazione, in L’intelligenza della passione. Studi in onore di Andrea Emiliani, a cura di F. P. Di Teodoro e M. Scolaro, Bologna 2001, pp. 161-172. 3 Jonathan Scott, The Pleasures of Antiquity. British Collectors of Greece and Rome, Yale, Yale University Press 2003
4 J.W. Goethe, Italienische Reise [1816-1817], ed. it. Viaggio in Italia, Milano, Mondadori 2000, p. 182.
5 Significativi, a tale riguardo, i risultati del Convegno Internazionale di Studi Villes et territoire pedant la période napoléonienne (France et Italie), (Roma, 1984), Collection dell’École Française de Rome, 96, Roma, École Française de Rome 1987. Tra gli studi più recenti si veda inoltre P. Boutry, La Roma napoleonica fra tradizione e modernità (1809-1814), in Roma, città del Papa, a cura di L. Fiorani, A. Prosperi, Storia d’Italia, Annali 16, Torino, Einaudi 2000, pp. 937-973.
6 Si tratta della relazione di De Gérando inviata alla Consulta per perorare l’emanazione di una legge a tutela di Antichità e Belle Arti a Roma, conservata presso l’Archivio di Stato di Roma. Cit. in V. Curzi, Bene culturale e pubblica utilità. Politiche di tutela a Roma tra Ancien Régime e Restaurazione, Bologna, Minerva Edizioni 2004, p. 93. 7 Per il testo della legge Ibidem, pp. 171-173.
8 Emiliani, cit., p. 111.
9 Idem, p. 88.
10 Oltre al testo dell’editto si vedano: M. A. De Angelis, Il “Braccio Nuovo” del Museo Chiaramonti. Un prototipo di Museo tra passato e futuro, in “Bollettino dei Monumenti Musei e Gallerie pontificie”XIV, 1994, pp. 187-256; P. Liverani, Dal Pio-Clementino al Braccio Nuovo, in Pio VI Braschi e Pio VII Chiaramonti. Due pontefici cesenati nel bicentenario della Campagna d’Italia, Atti del Convegno internazionale (Cesena 1997), Bologna, CLUEB 1998, pp. 27-41.
11 C. Semeraro, Restaurazione. Chiesa e società, Roma, LAS 1982. Per la questione relativa alla delega in materia di tutela alle Legazione e Delegazioni pontificie con l’istituzione delle Commissioni Ausiliarie: A.M.Corbo, Le commissioni ausiliarie di Belle Arti nello Stato Pontificio dal 1821 al 1848, in “Lunario Romano”, XI, 1981, pp. 433-446. Sull’operato delle Commissioni si vedano anche: V. Curzi, La riscoperta del territorio. Tutela e conservazione del patrimonio artistico nello Stato Pontificio nei primi decenni dell’Ottocento, in Cultura nell’Età delle Legazioni, Atti del convegno di Studi a cura di F. Cazzola e R. Varese (Ferrara, 2003), Ferrara, Le Lettere 2005, pp. 789-809; Idem, Tutela e conservazione del patrimonio artistico nelle Marche nel primo Ottocento: un confronto costruttivo tra centro e periferia, in Dal viaggio del 1783 “per la Marca” di Luigi Lanzi alla conoscenza e tutela del patrimonio marchigiano, Atti del Convegno a cura di D. Frapiccini, (Treia, 2 dicembre 2006), Macerata, Edizioni Simple, 2008, pp. 100-121. 12 Per la pratica d’Archivio: Archivio di Stato di Roma, Camerlengato II, titolo IV, busta 153. Il dipinto è, attualmente conservato nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello.
13 Cit. in Curzi, Tutela e conservazione del patrimonio…, op.cit., pp.104-106.
14 Cit. in Curzi, Bene culturale e pubblica utilità…, op. cit., p. 138.
15 F. Giacomini, “per reale vantaggio delle arti e della Storia”. Vincenzo Camuccini e il restauro dei dipinti a Roma nella prima metà dell’Ottocento, Roma, Quasar 2007. 16 Per la vicenda dei dipinti ravennati e in particolare per quelli citati nel testo da attribuirsi a Pietro da Rimini, già nella Chiesa di S. Chiara a Ravenna si vedano: M.Bencivenni, La tutela monumentale nello Stato pontificio nell’Età della Restaurazione. L’attività della Commissione ausiliaria di belle arti di Ravenna, in “Romagna arte e storia”, 65, 2001, pp. 13-44; V. Curzi, Tutela e storiografia artistica. Salvaguardia e conservazione dei primitivi nello Stato Pontificio dopo la Restaurazione, in Giuseppe Vernazza e la fortuna dei primitivi, Atti del convegno a cura di G. Romano (Alba, 2004), Alba, Fondazione Ferrero 2007, pp. 147-165, in part. pp. 160-161.
17 Archivio di Stato di Roma, Camerlengato II, IV, busta 38.
18 F. Giacomini, Tra conservazione e ripristino. Giuseppe Carattoli e il dibattito sul restauro dei dipinti nella prima metà dell’Ottocento, in “Notizie da Palazzo Albani”, XXXII, 2003, pp. 147-185.