Pasticherivista, n.7 - maggio 2012

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rivista d’arte e poesia versicontroversi n.7 mensile gratuito 05/2012 PASTICHE Tiziano Angri

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Il link alla NUOVA pagina di Pastiche Rivista. La vecchia pagina non sarà più usata, da maggio si riparte con Paolo Battista in redazione come sempre, una grafica piu creativa: Fara è Moody, nuovi autori e attenzione alla comunicazione con Chiara Fornesi. Seguiteci ogni mese con i nuovi numeri! CORRETE A CERCARLA O LEI TROVERA' VOI!!!

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rivista d’arte e poesia

versicontroversi

n.7mensile gratuito

05/2012

PASTICHE

Tiziano Angri

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PastichePastiche

Quanto possono essere difficili le scelte, ma essenziali per tirare avanti? Tanto, ma noi siamo abbastanza coraggiosi da prenderci le nostre responsabi-lità e continuare questo bellissimo percorso. Importante svolta redazionale nel cuore di PASTICHE che termina una prima difficile emozionante fase per inau-gurarne un’altra ancora più viva e feconda. Alcuni ( tra cui Pierluca d’Antuono ) lasciano per differenza di vedute, ma Pastiche va avanti, ancora più forte ed energica che mai, con nuovi brillanti collaboratori quali Fara è Moody e Chiara Fornesi. Salutiamo e ringraziamo i vecchi amici e diamo il benvenuto ai nuovi. Su questo numero un ritorno gradito, quello di Gabriele Ronco con le sue lacrime cariche di disperazione, i di-segni fumettosi di Tiziano Angri, le matrioske di Alt97 e due interessantissimi scrittori quali Daniele Casolino con i suoi vibranti Racconti in un tweet ( ma non solo ) e Simone Togneri con il suo intenso Cuore di Metallo, per la prima volta con noi. Chiudo con una frase tratta da L’arte di conoscere se stessi di A. Schopenauer: “ In un mondo così spregevole tutto ciò che non lo è inevitabilmente si isolerà, ed è proprio quanto è accaduto. “Grazie a tutti e continuate a seguirci numerosi!!!

PASTICHE è pensata e redatta da Paolo Battista.

Grafica e impaginazione a cura di Fara è Moody.

Collaboratori: Chiara Fornesi, Fara Peluso.

Per ricevere a casa Pastiche in abbonamento ( costo 10 euro )

scriveteci a:[email protected],indicando nome e recapito.

Per inviare il vostro materiale ( poesie, racconti – lunghezza

da concordare -, disegni, racconti per immagini,

fotografie b/n, stencil e quant’altro ) scrivete a:

[email protected] oppure all’indirizzo:

Paolo Battista, via F. Laparelli n. 63 int.1

00176 Roma

sbraita Gianni assillato da Lisa ansiosa e cupa come un giorno di pioggia, nun so che ditte, lassa-me perde. Ma che cosa? sbotto con ancora il gusto del caffè tra le labbra. Ma ‘na storia..., sputa Lisa ciondolando avanti e indietro come uno di quei piccoli giocatori del Subuteo, cioè so’ annata a cantamme ‘n pezzo demmerda da le guardie e mo so’ preoccupata pecchè nun so che me pò succede. Ma è ‘na persona che conosci?, la interrompo cercando di capire qual è il pun-to. No, io questo nun lo conosco de persona…cioè, farfuglia Lisa intabarrata con una felpa xxl grigia dal collo macchiato e un giubbotto marrone, praticamente Mario m’ha chiesto de faje sto favore, e ‘nsomma m’ha detto dice io c’ho un sacco de debbiti e me devo toje questo dar cazzo e solo tu me poi ajutà, e allora dopo che jeri sera sto pezzo demmerda quasi me l’ammazza Mario mio co ‘na lama tutta arrugginita ho preso e so’ annata ‘n questura a denunciallo, a testi-mognà che era stato lui a inizià la caciara e che a la fine aveva pure tirato fori sta lama. Ma quello che vojo sapè io, continua interrogativa, è si potrebbe succede quarcosa der tipo che se presentaquarche sbirro a rompeme l’anima, hai capito che dico? Ma che deve succede, sbotta Gianni ancora più ansioso di Lisa. Ma NO, faccio io, non credo! Tu cerca di ricordarti sempre la tua versio-ne e vai avanti, e do fuoco ad una canna di maria sbuffando come un arabo che fuma il narghilè. Che te devo dì, m’è presa l’ansia, frigna Lisa, nun ce sto a capì ‘n cazzo, e chiaramente entra dal China per scolarsi la sua seconda Peroni stanca di farsi domande a cui nessuno vuole rispondere.

Siamo tutti figli di Caino ( giunto con questo mese alla VII puntata ) è una storia colllettiva, dura,

di persone semplici ma controverse che abitano la periferia romana (Torpignattara) e passano

la loro giornata davanti al Ser.T di via Casilina: l’Arena dove ognuno cerca la sua maledettissima

via d’uscita senza però riuscire a trovarla. Sono tossici, o ex tossici, lavoratori, ladruncoli, puttane, studenti, disoccupati, stranieri, padri, madri, figli e

figlie. Fantasmi che abitano la città e che agli occhi della gente “normale” non lasciano traccia utile del

proprio passaggio, ma che catturano lo sguardo curioso di Pierpaolo Terrani, uno di loro; un poeta, un apolide, un innamorato, un uomo combattuto e introverso che in prima persona ha vissuto il capi-

tombolo di decenni di politiche sociali fallimentari; il narratore attraverso cui filtrano le vite, i problemi,

le speranze e le frustrazioni di Silvia, Gianni, Gigetto, Bruno e Chiara, Lisa e gli altri invisibili che

popolano l’Arena. Storie di una realtà violenta, cruda e sfacciata che si ripete sempre uguale a se

stessa, tra piccoli reati, passaggi di mano, precarie-tà, sangue rappreso, degrado e tentativi di rivalsa

in una Roma letale e indifferente, dove il gruppo e la droga diventano l’unico rifugio possibile in una società che lentamente sta perdendo la sua

credibilità.

Siamo tutti

figli di CainoNon è escluso che qualcuno si innalzi sopra la massa,diventi il degno successore di – Caino sulla luna.W. C. Williams

chiudo gli occhie come una bestia feritami accingo in posizione fetale:anonimo

AAAooooooooOOOOOooooooo,

foto di Helm

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PastichePastiche

Ao Pierpà, ma quanto c’hai? ghigna Gianni che oggi c’ha voglia di farsi un po’ di roba. Sto a secco ma va bene così, gli dico, chiedi a Bruno e Chiara, gli faccio vedendoli parcheggiare lo Scarabeo bianco vicino al muretto di fronte. Cazzo, ma così semo ‘n tre!, esclama insod-disfatto dirigendosi lo stesso verso la coppia. Quando Lisa esce, stringendo nella mano tozza la bottiglia scura, ancora impreca per qualcosa ma dopo una bella sorsata sbrodola: devo pas-sà pe la farmacia che me servono n’artro par de scatole de Rivotril, e sbotta: urtimamente anche Mario se fa de pasticche e metà scatola so’ costretta a dajela senza fa ‘n fiato.

Prima però ne vende quattro ad una bulgara amica sua, una battona con un jeans bianco attillato e lunghi capelli lisci e neri che sguaia come un’esaurita. Io mi do una sgrullatina al pacco e poi mi stringo nella giacca. Il freddo di novembre colora gli alberi di un giallo in-naturale e il vento fatto di petrolio s’intrufola sotto le mie narici. Sento un brivido scorrermi lungo la schiena, entro al Ser.t per il mio affido settimanale e una ragazzina mi si para davanti. Porta i capelli corti, nero corvino, con una leg-gera sfumatura di rossetto. La pelle è bianchis-sima, ma forse è solo la luce al neon che infe-sta la stanza, gli occhi neri s’intonano ad una camicetta dal collo lungo e appuntito mentre un jeans aderisce alle cosce nervose. Un stella dorata le precipita nell’incavo delle tette pic-cole e apparentemente rotonde e subito gli oc-chi mi ci cadono sopra. Così bevo lo sciroppo e metto in tasca il resto delle boccette, poi la tipa s’avvicina e mi chiede se voglio fare una specie di test, di sondaggio, che lei studia psi-cologia o qualcos’altro e sta preparando una tesi sui problemi di tossicodipendenza legati al narcisismo. Sabina Spielrein del cazzo, pen-so e la guardo leggermente infastidito, non ho voglia di svelare chi sono ad una tizia che dopo poche ore probabilmente si starà lamentando di quelli come me al suo gruppo di amichetti borghesi. Guarda adesso proprio non posso, le mento, magari la prossima volta, e la evito con un dribbling da centravanti cazzuto mirando la pesantissima porta di vetro del Ser.t casilino. Fuori la solita guardia fa la guardia al nulla, sguazzando come una balena dal cancello alla porta e dalla porta al cancello, sballonzolando il suo stomaco enorme sulla cinta sottilissima, lanciando occhiatacce ignobili a due indiani che rasentano il muretto cercando di entra-

re. Quando sto per uscire vedo Orazio con una lunga camicia di panno beige tra-scinarsi dentro: che c’hai l’urina pulita? mi chiede sottovoce. Penso di no, gli rispondo, ultimamente non è stato un bel periodo, e mi lascia da solo a parlare coi fantasmi del giorno perché ha visto Gigetto che sicura-mente può aiutarlo. Picco-letto com’è Gigetto si chiude nel suo largo cappottone blu e prima di sedersi sul solito scalino del China compra la solita birra per annacqua-re la giornata. Poi dice che sono un paio di giorni che non vede Giancarlo e che l’a-mico fa sempre così; quanno ce stanno da pagà le bollet-te o l’affitto, blatera, vedi che sparisce come li struzzi, mette la testa sotto tera sto fijo de ‘na mignotta! Voi l’a-vete visto? Ma subito Orazio tuona che Giancarlo non lo vede da giorni e fissando Gigetto come dall’alto di una mon-tagna ulula: me serve ‘n po’ de piscio pulito…che me poi ajutà? Così lentamente Gi-getto si nasconde dietro uno dei secchioni metallici poco più avanti pisciando dentro una piccola boccettina vuo-ta gentilmente offertagli dall’amico bisognoso. Ecco fatto, sbarella, adesso nun rompeme er cazzo!, e nuo-vamente si accuccia nella stessa posizione di sempre. Dopo un po’ ritornano anche Gianni, Chiara e Bruno, sfac-ciatamente fatti ma subito Bruno spara sta roba è ‘na sola!, agitando tra le mani il casco nero come se volesse sfasciare la testa a qualcu-no. Io l’ho sentita, cinguetta

Vabbè, sbotta Bruno, ma te senti pure lo zucchero! Ma che cazzo stai addì! farfuglia Chiara ringhiante, a Già dijelo pure tu? E che devo di? tuona Gianni che già sta pensando alla coca da farsi più tardi. Io la sento pecchè nun me la faccio tutti li giorni, ma poi arriva Schizzetto e lo carica sul suo scooterone senza tar-ga. Gianni scompare saltando alle spalle dell’amico, noi dovemo fa ‘n lavoretto, strilla, se vedemo domani, e infilandosi il casco allarga le braccia facendosi colpire in faccia da vento freddo e smog. Una marmitta intanto sbuffa fumo nero e una zingara dai capelli lunghissimi è incastrata nel bidone dei rifiuti. Due colpi di calc-son, una risposta lunga, un fischio assordante e l’ennesima birra che scivola nelle viscere. Dopo un po’ ci spostiamo tutti verso piazza della Marranella e sbracati vicino alla banca ci stanno Piotta e Giulio che bevono e s’ingozzano e farfugliano come due amici di vecchia data che non si vedono da tempo. Con Bruno e Chiara prendiamo un’altra birra e salutiamo i ragazzi che bor-bottano di una rapina che hanno sentito e Piotta dice che han-no arrestato Zuki; er cugino d’Azim, sputa, mentre lui, Azim dice che è riuscito a cavassela de striscio. L’hanno menato de brutto a Zuki, sbotta Giulio gonfiando le guance viola ad ogni parola, e dato che c’aveva er fero rischia de fasse parecchi anni de galera. Ma dov’è che stavano? chiedo spostandomi sulla rin-ghiera lercia. Dice che stavano a la posta de Centocelle e che Azim è riuscito a prennese quarche mijaio de euro, ma gnente de più! E deve pure sperà che Zuki nun se lo canta!, ghigna Giulio passando il suo Tavernello al compare. Io dico che nun se lo can-ta, sbotta convinto Bruno grattandosi la pelata, sennò ar campo l’ammazzeno! Comunque, continua Giulio, ormai è difficile pure rapinasse ‘n buco de posta, io dico che nun ne vale la pena e li sordi so’ sempre troppo pochi, pe la madonna el rischio nun ce vale più! Io invece dico che purtroppo nun ce sta gnente da fa,

semo tutti fiji de Caino, sentenzia Piotta come un teologo

Poi me ne resto un po’ a fissarla senza darglie-lo a vedere e scorgo nei suoi occhi una disperazio-ne alcolica che peggiora giorno dopo giorno. Solo l’altra settimana abbiamo assistito ad una delle sue solite litigate con la sorella più piccola: urla, accuse, sputi, vergo-gna fino a quando si pre-senta sto Mario che se la trascina via come un sac-co di patate.

Poi dice che ormai è un pò che si fre-quentano ma non scende nei partico-lari rotolando con i suoi piedini piccoli verso la croce verde di via Laparelli.

Chiara che oggi s’è liscia-ta i capelli e una piccola frangetta le copre la fronte vissuta, un geco argentato le sale sulla tetta sinistra e una tuta nera le avvolge le cosce smagliate.

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Eravamo rimasti insieme tre anni. Poi il rischio che qualcuno venisse a sapere di noi due era salito, e ave-vo cominciato a preoccuparmi: non si doveva sapere. A lei non impor-tava né di correre il rischio, né che la cosa finisse. Non le importava di niente. E la cosa non mi stupiva: fin dall’inizio era sempre stata fredda come un pezzo di

di Simone Togneri

Me l’aveva presentata un tizio che la conosceva bene. A bassa voce mi aveva detto che lei era fatta apposta per uno come me. Io l’avevo guardata e mi ero innamorato all’istante. Bella. Una di quelle che ti danno sicurezza, una di quelle per cui ti chiedi se sarai all’altezza. Mi ero fatto coraggio e l’avevo avvicinata, le avevo parlato, l’avevo sfiorata, toccata, avevo respirato il suo aroma penetrante. Avevo sorriso e deciso in quell’istante: sì, era fatta per me.L’imbarazzo delle prime uscite era passato in fretta. In poco tempo io e lei eravamo diventati inseparabili, come un unico cuore. Eravamo fatti l’uno per l’altra e lo sape-vamo entrambi. I pochi che ci vedevano insieme si mostravano sempre disponibili. Ah, lei sì che sapeva ottenere dalla gente la giusta dose di rispetto. Non ero diventato quel che ero diventato per il mio valore, piuttosto per ciò che lei rappresentava. E il fatto di averla sempre al mio fianco mi faceva sentire capace di qualsiasi cosa.Poi qualcuno che non avrebbe dovuto parlare di noi due lo aveva fatto, e un giorno avevo trovato sulla porta di casa una mezza dozzina di uomini in divisa che facevano un sacco di domande. Lei non era in casa, ma ricordo come adesso che cominciarono a cercarla. Sapevano che doveva esserci, erano troppo sicuri. Sapevano tutto. E mi fa-ceva rabbia, perché l’unico che sapeva di noi era l’uomo che me l’aveva presentata.

Colpo di ulmine e colpo dipistola: quando coincidono mettiti al riparo. Uccidemmo l’infame in casa sua, nella vasca da bagno. Lo facemmo senza esitare, senza pen-timento perché se lo meritava. E senza sapere che era sorvegliato.Cominciarono a cercarci, a starci addosso sul serio. L’unica speranza di salvezza per noi era la separazione. Lei non avrebbe parlato, ma la paura mi costrinse comunque a prendere una decisione orribile quanto inevitabile.Ponte alla Vittoria: lo chiamano il “Ponte dei Suicidi” perché è lì che i peccati affogano in-sieme ai peccatori. Uno in più non fa diffe-renza.

Così, di notte perché di notte nessuno guar-da, la portai sul ponte e aspettai che fossimo soli. Poi la spinsi giù. Un tonfo e poi il silenzio. Solo il traffico lontano della città che se ne fregava di tutto, probabilmente anche di noi. Mi allontanai, solo, con un nodo in gola. Non l’avrei mai dimenticata. Era la prima, e il primo amore non si scorda mai. Perché le pisto-le sono come le donne: quando ti leghi a loro, è per sempre.

metallo.

CUOdi re

(continua)di

Paolo Battista

che la maggior parte delle volte non sa quello che dice, nun ce sta gnente da fa, semo destinati a sta vita demmerda, è ‘na lotta continua, e lo stato fa de tutto pe mettece l’uno contro l’artro, anche se doves-simo da esse tutti fratelli. Io le so certe cose, continua infilandosi una mano nei capelli li-sci e brizzolati e unti, so’ quasi quarant’anni che bazzico sta giungla e dico che a la prima occasione semo pronti a scannacce l’uno co l’artro, senza pensacce, è ‘na questione de sopravvivenza, è così dall’inizio de li tempi, pensa pure a li romani de li Cesari! Forse c’hai ragione, farfuglio io con una leggera dose di

sconforto gettata tra le vocali e le consonan-ti, e insomma se la gente è costretta a rubare per vivere qualcosa che non va ci dev’essere per forza! Poi dice che uno perde la capoccia e diventa ‘n fijo de ‘na mignotta, sbotta Giulio, e ce credo, vaffanculo, ma tanto quelli come noi c’hanno sempre torto e l’artri, li poliziotti, li politici, li dottori, li banchieri, l’imprenditori, c’hanno sempre raggione, che cazzo parlamo a ffà! Ho capito, sbotto io, ma se la vita è questa bisogna adeguarsi, e comunque meglio figli di Caino che di puttana, o no? Ma che cazzo sta addi? sbotta Bruno che spec-chiandosi nello sguardo di Chiara sente che la vita è troppo difficile da vivere e da spiegare. Semo tutti ‘na massa de stronzi, sbotta er Piot-ta, semo tutti vittime de sta società che se ne frega de li tossici o de li precari o de li stra-nieri o de chiunque artro. Pe annà avanti devi solo avecce li soooooordi! Poi il sole tramonta e nel cielo frigolano enormi nuvole rosso san-gue. Restiamo ancora qualche minuto a sco-larci le nostre birre e a parlare di politica, poi Chiara guarda l’orologio facendo uno strano segnale al suo uomo. Noi se n’annamo, sputa Bruno tirandosi Chiara che scivola come una grassa ballerina di flamenco. Anche io che mi moje m’aspetta, frigna er Piotta centrando il secchione con la bottiglia vuota e saltando al volo nel 409. Così io e Giulio, brillante come un catarifrangente, ce ne restiamo silenziosi e ubriachi a fissare il tramonto stasera più affa-scinante e poetico che mai, vediamo i ragazzi allontanarsi: ...a domani, sentiamo urlare da qualcuno, e restiamo a osservare la gente che si trascina più indaffarata e isterica che mai.

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e perlopiù si tratta di sup-posizioni e voci insistenti. Secondo alcuni sarebbe l’ultima discendente di una antica famiglia di intagliatori russi, le cui matrioske furono ritrova-te vicino ai cadaveri dei Romanov.Secondo altri si trat-terebbe dell’insperato risultato di un esperi-mento scientifico: il novantasettesimo clo-ne di una non meglio precisata artista egi-zia. Per quanto sia dif-ficile individuarne le radici, il mistero sulle origini e i suoi continui spostamenti le rendo-no di fatto inesistenti, l’artista sembrerebbe aver scelto la capitale italiana come sua casa d’elezione. Schiva, taci-turna, asociale per alcu-ni; socievole, simpatica ed estroversa per altri, ALT97 fa della contraddi-zione un cavallo di batta-glia e delle sfaccettature una imprescindibile carat-teristica della sua vita e

Alt 97

del suo lavoro. Pare che nel 1997 abbia cominciato un viaggio iniziatico, desti-nato a durare dieci anni, acquistando un biglietto della Transiberiana. Si ferma qualche tempo a Mosca, alcuni giorni a Vladivostok, osserva la tundra scorrere dietro i finestrini e ascolta le leggende slave, che spaziano dai vecchi vampiri ai nuovi mostri – serial Killer spietati e altrettanto assetati di sangue. A quei pa-esaggi apparterreb-bero i visi tondi delle matrioske, i colori es-senziali, le linee nette e la violenza malinco-nica della sua prima produzione di stencil e disegni.Ripercorrendo il leg-gendario cammino delle tribù primitive che popolarono il con-tinente americano, pare che ALT97 lo abbia attraversato tutto da Anchorage a Ushuaia, passando per Pittzbourg e Salem, Coyocàn e Sal-vador de Bahia, per poi ricomparire a Fiumicino su un aereo proveniente da Disneyland…..Attualmente non ha fissa dimora.

http://dentrolamatrioska.blogspot.it/

Si sa molto poco delle originidi

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Come l’inizio del perché delle cose, in cui le attrazioni che legano più elementi solo alla

fine del loro compito svelano quale progetto doveva aver luogo, così in questa esecuzione

tutto fu naturale e consequenziale e il percor-so non fu cercato, ma divenne indicativo solo

ed esclusivamente in seguito al suo progressi-vo svolgimento.

Quando Fedor incappò in questo strano da farsi, infatti, accadde che una serie di azioni, che mai avrebbe potuto immaginare si potessero conca-tenare, incominciarono a legarsi pian piano e, le une con le altre, crearono alla fine un’esclusiva tessitura. Egli non pensò minimamente a come dover mettere su o inventare una cosa simile, non stava pensando o studiando una soluzione adeguata, perché egli stesso era una parte funzionalmente fusa con le altre e per questo interamente immersa nell’onda che si stava formando: Fedor era l’ulteriore strumento che insieme agli altri stava determinando quella produzione, ma anche lo strumento capace di reggere quell’apparato di azioni ed imprimere loro la giusta coerenza di fine. Era come se, trovandosi a disegnare su un foglio bianco, diventasse, nel proseguo del lavoro, parte integrante del disegno e inoltre l’agente protagonista e detentore dell’unità del disegno stesso. Sul foglio, lo si sarebbe potuto vedere ad occhi chiusi, concentrato, leggero e incosciente, tenere giunte tutte le linee che compongono la figura e ordinarle nel giusto senso. Sarebbe stato quell’elemento capace di concentrare su di sé l’equilibrio e la

simmetria, quell’elemento pittorico sen-za il quale, di contro, il componimento sarebbe risultato mozzo e spacciato.Nell’esecuzione gli strumenti che uti-lizzò furono da lui trovati senza alcu-na fatica, perché semplicemente li trovò mano a mano fiorenti ed utili lungo lo scioglimento di quel che si sentiva di fare. In quel momento il suo foglio bianco rappresentava l’aria nel-la quale si stava muovendo e,

attraverso questa, l’intenzione trasse a sé se-ducendoli gli indispensabili alleati: il suo viso, gocce di lacrime, una sigaretta accesa, uno specchio.

Quando Fedor inciampò in questa esecuzione stava piangendo lacrime che, scendendo, se-gnavano il suo viso col loro percorso. Piangeva però in un modo, composto e fisso, che mai si sarebbe potuto dire intenso; la sua agitazione non lasciava il suo corpo, restava intrappola-ta, e le lacrime erano l’unica testimonianza della sua sofferenza. Si era infatti costretto a soffocare dentro ogni segnale espressivo: re-primeva urla, frenesia motoria ed una fluida emorragia di pensiero; il suo dolore non pro-

duceva alcun suono o gesto improvviso, era sospeso da ogni possibilità espressiva. Ma se all’esterno se ne potevano far scomparire i segnali,

all’interno del corpo il dolore trovava la sua via privilegiata di sfogo. In particolare la gola sembrava fosse stata presa come vittima sacrificale

in cui si concentravano tutte le tensioni represse. Le grida non emesse, la rabbia da spaccare gli oggetti e l’inquietudine a pensare all’infinito,

si erano trasformate in decine di fili tiranti in metallo che, finissimi nella pelle, avvolgevano, come sottili e lunghe strisce di fiamma, l’intera lun-

ghezza del collo; qui si aggrovigliavano in un nodo al centro della gola che così si irrigidiva in una fitta intensa e mordace, come se un chiodo la

stesse perforando. Sentì a quel punto il bisogno di una sigaretta, perché voleva per lo meno

tentare di darsi un minimo di sollievo; sapeva che fumare lo portava mo-mentaneamente, in occasioni come questa, ad un certo grado di distensio-

ne; l’accese, e provava ad ogni inspirata un’inquietudine, e alla seguente Ffuoriuscita di fumo un’at-

tenuazione della tensione. Oltre a questa, aveva gli oc-

chi gonfi e arrossati e, inoltre, sentiva la gola secca ed irritata;

così, istintivamente si recò in ba-gno. Bastava bere a volontà, sciac-

quarsi la faccia o magari lasciare la testa sotto l’acqua corrente; bastava

insomma molto poco per poter recu-perare freschezza e lucidità; ma da-

vanti allo specchio si bloccò. Infatti non bevve, ne si sciacquò la faccia, non aprì

neanche il rubinetto; rimase colpito alla vista del suo viso riflesso in quel momento

di Gabriele Ronco

nello specchio e non compì alcuna azione per riprendersi: non voleva alterare lo stato in cui ora si trovava. Voleva guardarsi, voleva sapere come si pre-sentava il suo viso quando piangeva, voleva vedere in che stato fosse la sua faccia, le sue rughe, i suoi occhi. Voleva vedere in opera tut-to quell’apparato di tristezza e disperazione che di solito tendeva a coprire per pudore o vergogna. Ma adesso che si trovava da solo poteva spingere la sua curiosità fino al limite ed inchiodare se stesso ai suoi stessi sguardi. Ora, in un tempo solo, era protagonista e spet-tatore della medesima situazione.Ora non aveva pietà per se stesso, non la-

edor

sciava che la sua immagine disperata potesse depositarsi in pace, sola e al buio, lontana da qualsiasi tipo di occhio. Fedor si stava comportando nei suoi confronti, come un carceriere che continua a guardare l’imprigionato dopo averlo torturato, umiliato e riportato nella cella. Davanti allo specchio poteva prendersela solo con il suo riflesso, ma non voleva dar pace a se stesso, non voleva che gli sfuggisse niente, e, anche se l’imprigionato non aveva parlato, il carceriere continuava ad osservarlo nella speranza che, fortuitamente, l’imprigionato cedesse all’improvviso all’esterno degli indizi importanti. Era sicuro, si stava osservando per potersi avvicinare quanto più possibile a se stesso; voleva entrarsi dentro, fondersi, raggiungersi. Voleva stare quanto più vicino ai suoi pensieri per poterli fermare e farli scomparire. Ma questi proseguivano e colpivano e, tramite le lacrime, scendevano sul suo viso. Non poteva arrivare direttamente ai suoi pensieri ma le lacrime, in quanto traccia, quelle poteva toccarle e sconfiggerle, e con queste poteva risalire ed eliminare l’inquietudine dei pensieri che le lacrime dentro si portano. Voleva raggiungere ciò che lo stava facendo soffrire, voleva eli-minare le strette alla gola che lo stavano facendo piangere, e voleva star vicino alle sensazioni che gli procuravano tutta questa tensione.

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tarra sguainata sul palco mi fa sentire meglio. Mi ricordo che rinunciammo alla vacanza a Marrakech per comprarla, e tu rompesti il cazzo anche lí, nonostan-te tutti i giorni ti portassi a Capocotta, e la sera a ballare alla Spiaggetta. Ti ricordi? Prima del concerto ci spaccava-mo col Puma in quelle Jam da paura. E tu mi guardavi da sotto, un mojto dietro all’altro e ti riportavo a casa puntual-mente addormentata sul sedile dietro. Poi la mattina dopo ti passavo a pren-dere per riportarti al mare e tu ricomin-ciavi a rompere il cazzo su quanto sa-rebbe stato fico quel rijad, che il mare a Ostia è marrone, e che il blues ti an-noia. Non ciài mai capito un cazzo di musica. Per fortuna sei così bella. Mi da un motivo, una risposta alla mia quoti-diana domanda: ma che cazzo ci sto a fare con te? Ok, perchè sei bella e ciài le tette che ho sempre sognato quando da pischello mi ammazzavo di seghe. Ieri seduto sul cesso di casa ci ripensavo: ma non era meglio allora? Manco al cesso mi lasci in pace, con quei cazzo di sensi di colpa che m’hai attaccato addosso. Guardo le piastrelle scrostate di casa di mamma e mi chiedo come cazzo preten-di che possa trovare i soldi per andare a vivere insieme. Ció messo 36 anni per arrivare dove sono arrivato, ore e ore di sala e studio, per essere finalmente un nome; mi conoscono in tutti i loca-li di Roma e domani potrò registrare il mio primo LP. E tu mi scassi con i tuoi sogni romantici. Prima vuoi che lavori e poi non ti sta bene se passo quattro

sere a settimana in saletta. Come cazzo credi possa trovare un con-tratto se non suono. “Non usciamo mai” mi spacchi sempre i coglioni e oggi che ti porto a vedere il gran-de Bubby J. Metter tu non arrivi. Vaffanculo piccola, m’hai rotto il cazzo. Ora vengo sotto il por-

tone e se non ci sei, sticazzi io vado. Perchè cazzo c’è tutta sta fila… Guarda se sta stronza me fa perde l’inizio. -Signò ma che cazzo è successo? ‘Na regazzetta, pare se sia buttata de sotto. Porella.

Era tanto bella!

Musica e

Non ho nessuna voglia di restare ad aspettarti, sono le 22,40 e l’appunta-mento era per le 9,30. Ti ho chiamato sei volte senza che tu abbia mai risposto. Solo mezz’ora fa ti sei degnata di inviarmi un sms: Sto arrivando. Intanto ha iniziato a piovere, sono in macchina a girarmi i pollici e a sentirmi per la sesta volta i successi di Edith Pfiaf, l’unico disco che questo cesso di stereo riesce an-cora a leggere e, guarda caso, è il tuo. La sessione radio è fottuta da un mese. Casco a pezzi come questo rottame. L’ho comprato 5 anni fa per farmi bello da-vanti a te: usato ma tenuto benissimo. Il vecchio proprietario era certo mi-gliore di me in questo. Io non riesco a conservare nulla. Anche la mia fida Les Paul sembra un reduce della guerra di secessione ormai. Ma io sono fatto così: riconosco negli oggetti solo il valore d’uso. Perché ne esiste qualcun’altro? Una macchina serve per trasportare per-sone, una chitarra per suonare, un libro per leggere. E se il libro mi suggerisce qualcosa non esito certo a sottolinear-lo, a farci orecchie di mezza pagina, a strapparne stralci importantissimi per potermeli portare appresso, per i mo-menti di crisi, piegato in otto, in tasca. Ma do’ cazzo sei? Lo sai che ci tengo al concerto di stasera. Sei la solita stronza e te ne freghi. Bella sei bella. È per que-sto che ti sopporto. Ti guardo e mi sento fortunato, anzi fico. Quando esco con te, sento gli occhi degli altri che mi si posano addosso ammirati, finanche in-vidiosi, e io sono la star. Solo la mia chi-

della

della

Aveva ancora la sigaretta, e questa conservava sull’apice una sufficiente piccola brace per far evaporare almeno una goccia di lacrima, una per volta. “Le lacrime sono le tracce degli umori che mi passano dentro” pensò “ vorrei stare loro vicini nella misura sola e necessaria ad avvi-cinarmi quanto più possibile e cancellarne i segni almeno”.Avvicinò la sigaretta al suo viso e con la parte accesa si rivolse dapprima alle lacrime che ancora lambivano i suoi occhi; incominciò dalle gocce più gonfie, quelle che ancora stavano in bilico sugli zigomi, appena scese dagli occhi, in equilibrio tra il cadere o il restare; queste gocce, infatti, essendosi appena accumulate sulla sua pelle, erano quelle che presenta-vano una maggiore rotondità perché ancora cariche del liquido che contenevano. Non fu difficile rintracciarle e le loro dimensioni facilitavano il lavoro che con la sigaretta sta-va facendo; la avvicinava sicura, diretta, e appena la brace sfiorava la lacrima, questa svaniva all’istante come svanisce all’istante una bolla di sapone al contatto con un dito. Successivamente portò la sigaretta verso le lacrime che già avevano compiuto il loro corso, quelle lacrime che invece erano ormai meno gonfie e sottili; in questo caso più che di lacrime egli ebbe a che fare con strisce umide aderenti la pelle;

infatti non si trattava di gocce piene e dense, bensì di gocce che

avevano lasciato il loro contenuto di liquido lungo tutta la lunghezza

del viso. In questo caso allora il suo lavoro fu molto più delicato; fu co-

stretto a calibrare millimetricamente la distanza dalla sigaretta al liquido e,

per evitare di bruciare la pelle, si aiutò con l’altra mano a tenere fermo il pol-

so di questa, così da scongiurare quelle oscillazioni che caratterizzano i lavori di

fine precisione. In questo modo fece evaporare tutte le

lacrime che aveva pianto, ma lo fece così delicatamente che per ogni contatto con la

brace sentiva quasi impercettibilmente frig-gerne fuggente il liquido. Accostava, sicuro, la sigaretta al suo viso quel tanto che basta-va affinché la brace fosse sempre maggiore rispetto alla goccia. Non voleva che la siga-retta potesse mai spegnersi per via del troppo liquido imbevuto, e soprattutto non voleva as-solutamente distrarsi. Quello era un momen-to così estratto dalla realtà, che ne avrebbe di sicuro intaccato il corso se si fosse dovuto staccare per forza ad accendere di nuovo la sigaretta. Soprattutto non voleva interrompe-re quel filo diretto che gli stava permettendo di potersi osservare. Per tutto il tempo richie-sto da queste operazioni infatti, i suoi occhi non lasciarono mai la presa sul suo stesso

sguardo uscente dallo specchio; anzi, quando si accingeva a far scomparire le lacrime, il suo sguardo raggiungeva con maggiore intensità l’immagine riflessa del suo viso, fissando se stesso attraverso lo specchio mentre le gocce svanivano di sua mano. Gestendo al meglio il contatto tra la brace del-la sigaretta e il liquido della lacrima e preve-dendo quando fermarsi una volta evaporata, aveva compreso, se non misurato, la vicinanza massima con la quale poter accostare la pro-pria pelle alle sue inquietudini più pericolose senza che queste la potessero bruciare in ogni suo punto. A lavoro ultimato, col viso asciutto, non si po-teva scorgere sulla sua pelle il benché minimo arrossamento.

m n

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P Pastiche astiche

#27C’era un tempo in cui,

poi fu dove,poi si raggo-

mitoló, si avvoltoló e si

curvó su e=mc2 e divenne

c’era una volta e quel

fummo perse una m.

#3Abboccai

ad un interrogativo

rovesciato, che adescatomi

strattonò senza posa

mentre il grande boh

ingoiava tutto, compreso

l’Amo

#21

Avvertivo un certo

distacco, mentre mi

guardavi; forse perchè

l’ossigeno non arrivava

più e il cuore artifi-

ciale aveva smesso di

fare bipbip

#32La mia è un’esistenza

palindroma,improvvisamente

mi ritrovo come un Benja-

min Button oltre lo spec-

chio che fa retropodismo e

gli anni passano

#33Eravamo due

fogli di carta

carbone, nes-

suno bianco

dell’altro,

segnavamo recipro-

che illegibilità

perdendo insensa-

tamente il nostro

smalto

#24Addomesticai

l’orgoglio

a dirmi tuo, così

come più appresso

fece quel cucciolo di

pastore maremmano che

latra al

chilometro 23

dell’Aurelia

#19Si alzava presto la

mattina e andava al

balcone in mutande; con

fare ieratico e lo

sguardo ad est sollevava

le braccia a far uscire

il sole.

#5

Forse il crick ha un eti-

mologia onomatopeutica,

pensai rimanendo lette-

ralmente a bocca aperta,

mentre l’uomo vestito di

verde davanti a me serrava

con forza un bullone nella

mia mascella – C R I CKK

#28Sentivo dalle vecchie

del paese che la don-

na vampiro si

aggirava nei giorni

dispari a bussare

alle case senza

porta.

Mi trovasti

scardinato.

#23Ho sentito spesso

parlar di te, alla

radio, alla tv.

Da quando mi hai fatto

sparire nel

tritaverdura non si

parla d’altro, dolce

amore

mio!#39

I suoi occhi biondi di

sirena di fiume ricorda-

vano le spire di una si-

garetta spenta in fretta

per l’arrivo del preside.#13Vedi cara,

dolce mio amore, oramai mi

conosci, sai chi

sono e cosa faccio,

cosa sogno,

quindi,

capisci che non ho

scelta,

dovró ucciderti.

#14

Beccheggiavo ai tuoi

flutti, vogavo con foga,

a rimanere a galla, alle

tue maree, alle tue ma-

reggiate, alle tue irose

inondazioni di cacca

di Daniele Casolinoacconti in un tweetpo

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Tiziano Angri