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Pasquale Stanislao Mancini e la giustizia amministrativa - Finchè fu membro della Camera dei deputati, Mancini si occupò intensamente della tutela dei cittadini nei loro rapporti con l’amministrazione: fu protagonista nel dibattito che portò alla legge del 1865, sull’abolizione dei Tribunali del contenzioso amministrativo; lo fu ancora nei lavori preparatori della legge del 1877, che trasferì la soluzione dei conflitti di attribuzione dal Consiglio di Stato alle Sezioni Unite della Corte di cassazione romana. Non prese parte agli eventi successivi, e, in particolare, alla discussione che portò alla istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, perché nel 1885 si era dimesso da deputato, per contrasti sulla spedizione a Massaua, da lui caldeggiata, e avversata dalla maggioranza. Si era ritirato a Napoli, nella villa reale di Capodimonte, messagli a disposizione da Umberto I, del quale era stato precettore. - Come introduzione, e quasi frontespizio, di questo breve ricordo del suo contributo al sistema della giustizia amministrativa, mi sembra necessario riportare per esteso il celebre passaggio del primo discorso che Mancini pronunciò nel dibattito sul progetto di legge per l’abolizione dei Tribunali del contenzioso amministrativo; passaggio che, per 1

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Pasquale Stanislao Mancini e la giustizia amministrativa

- Finchè fu membro della Camera dei deputati, Mancini si occupò intensamente della tutela

dei cittadini nei loro rapporti con l’amministrazione: fu protagonista nel dibattito che portò

alla legge del 1865, sull’abolizione dei Tribunali del contenzioso amministrativo; lo fu

ancora nei lavori preparatori della legge del 1877, che trasferì la soluzione dei conflitti di

attribuzione dal Consiglio di Stato alle Sezioni Unite della Corte di cassazione romana. Non

prese parte agli eventi successivi, e, in particolare, alla discussione che portò alla istituzione

della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, perché nel 1885 si era dimesso da deputato, per

contrasti sulla spedizione a Massaua, da lui caldeggiata, e avversata dalla maggioranza. Si

era ritirato a Napoli, nella villa reale di Capodimonte, messagli a disposizione da Umberto I,

del quale era stato precettore.

- Come introduzione, e quasi frontespizio, di questo breve ricordo del suo contributo al

sistema della giustizia amministrativa, mi sembra necessario riportare per esteso il celebre

passaggio del primo discorso che Mancini pronunciò nel dibattito sul progetto di legge per

l’abolizione dei Tribunali del contenzioso amministrativo; passaggio che, per il suo

contenuto (deciso, quasi brutale, ma estremamente significativo), viene riportato tuttora nei

manuali di giustizia amministrativa: consente di apprezzare con chiarezza quale fosse il

pensiero di Mancini sui rapporti tra l’amministrazione e i cittadini e sul come dovessero

essere risolte le relative controversie.

- Siamo al 9 giugno 1864, il primo giorno della discussione parlamentare sul progetto di legge

presentato dal ministro Ubaldino Peruzzi l’anno precedente 1863; discussione che durerà

con intensità, direi con foga, fino al 22 giugno successivo: Mancini, membro della

Commissione che aveva compiuto l’esame preliminare del testo governativo, rispondendo a

Cordova, che era contrario alla abolizione dei Tribunali amministrativi, si espresse nel modo

che segue: - “sia pure che l’autorità amministrativa abbia fallito alla sua missione, che non abbia provveduto con

opportunità e saggezza, che non abbia saputo ottenere la massima somma di prosperità e di sicurezza pubblica

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mercè i suoi atti; sia pure che essa abbia, e forse anche senza motivi, rifiutato ad un cittadino una permissione,

un vantaggio, un favore, che ogni ragione di prudenza e di buona economia consigliasse di accordargli, ovvero

gli abbia ordinato di concorrere con soverchio e non necessario disagio allo scopo di un pubblico servigio, cui

abbia potestà di provvedere con l’opera gratuita dei privati; sia pure che questo cittadino è stato in conseguenza

ferito, e forse anche gravemente, nei propri interessi: che perciò? Ed ecco, o signori, a questo punto sorgere il

criterio proposto da più illustri pubblicisti, e adottato dalla Commissione. Che cosa ha sofferto il cittadino in

tutte le ipotesi testè discorse? Semplicemente una lesione degl’interessi? Ebbene, ch’ei si rassegni”.

- “ch’ei si rassegni”!: su questo passaggio e su questa espressione si appunteranno le lodi e le

critiche all’azione riformatrice di Mancini. Vedremo poi che significato occorre

effettivamente attribuire a questa troppo secca affermazione.

- Pasquale Stanislao Mancini, conte avellinese (di Castel Baronia), giurista eclettico, esperto

di diritto costituzionale, internazionale, processuale, allora professore alla Università di

Torino, fu indubbiamente il protagonista del dibattito, l’alfiere degli abolizionisti, e si

scontrò a più riprese con Filippo Cordova, barone ennese (di Aidone), consigliere di Stato,

campione dei riformisti non abolizionisti: tra i due si sviluppò un “duello oratorio”, che,

secondo Antonio Salandra (La giustizia amministrativa nei Governi liberi, Torino, 1904,

328), “restò memorabile nei fasti del Parlamento italiano”, e non fu privo di tratti

formalmente corretti ma sostanzialmente acrimoniosi. Anche prescindendo dalla novità delle

tesi giuridiche che furono poste in campo, dalla ricchezza degli argomenti e dalla forza

dialettica impiegata per sostenerle, dalla appropriatezza degli esempi portati a chiarimento, i

ripetuti interventi dei due duellanti si segnalano anche per la profondità delle ricostruzioni

storiche dell’istituto del contenzioso amministrativo e per l’ampio esame critico della

legislazione comparata.

- Ci furono, ovviamente, molti altri partecipanti di spessore al dibattito: basti rammentare

Rattazzi, Crispi, l’apprezzato avvocato milanese Antonio Mosca, il ministro Peruzzi; ma il

“duello oratorio” tra i due campioni restò centrale e fu determinante.

- Il 9 giugno 1864 la discussione parlamentare ebbe inizio con un (inatteso) colpo di scena: il

testo presentato alla Camera dal ministro Peruzzi era stato profondamente cambiato dalla

Commissione cui era stato affidato l’esame preliminare: da progetto moderatamente

riformatore del sistema del contenzioso amministrativo era diventato un progetto

rivoluzionario: ne prevedeva la totale abolizione. Il ministro, “con un’arrendevolezza certamente

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singolare” (dirà Urbano Rattazzi, tornata del 13.VI, 5223), aveva espressamente consentito

che fosse messo come oggetto della discussione il testo elaborato dalla Commissione

parlamentare e non quello che egli stesso aveva precedentemente presentato; portando, in tal

modo, la Camera a pronunciarsi sull’abolizione, e non sulla riforma, del contenzioso

amministrativo.

- In effetti, il testo ministeriale era stato redatto sulla base di un precedente progetto,

presentato nel 1862 da Rattazzi, allora Presidente del Consiglio dei ministri, il quale era

personalmente assolutamente contrario alla abolizione dei Tribunali amministrativi; Peruzzi,

ministro dell’interno del subentrato Governo Minghetti, era invece favorevole alla loro

abolizione, e, pur avendo presentato un progetto di legge non molto diverso da quello di

Rattazzi, mostrò chiaramente le sue idee nel corso della discussione.

- Quali i temi del dibattito, sui quali Mancini fece valere la sua valentìa e la sua facondia? La

necessità, o utilità, di una legge sul contenzioso amministrativo; la opportunità

dell’abolizione di un istituto, di lontana provenienza francese, che era presente in quasi tutte

le esperienze preunitarie; il criterio del riparto delle controversie già proprie dei Tribunali

del contenzioso amministrativo tra giudice e “amministrazione pura” (ovvero, a seconda

delle tesi, tra Tribunali ordinari e Tribunali del contenzioso amministrativo); i mezzi di

tutela degli interessi-non-diritti e la loro adeguatezza; la salvaguardia della “libertà”, come

allora si diceva, dell’amministrazione.

- Sul primo tema, sulla necessità dell’intervento legislativo, non ci furono dissensi: fu

generale la convinzione che il problema dovesse essere affrontato, per porre rimedio alle

differenti discipline ancora in vigore nelle varie province del Regno: occorreva con ogni

urgenza che si giungesse ad una disciplina uniforme per l’intero territorio nazionale.

- Nelle varie parti del Regno erano in vigore le antiche discipline; cosicché la situazione che

si presentava al legislatore unitario era profondamente variegata; ed era anche, ove si

considerino le diverse rappresentazioni che ne vennero fatte nel corso della discussione,

imperfettamente conosciuta: i deputati che intervennero nel dibattito conoscevano bene il

sistema in vigore nella loro provincia di provenienza, conoscevano approssimativamente i

sistemi in vigore nelle altre province.

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- Vi erano province in cui il contenzioso amministrativo era stato abolito, sia pure di recente

(Umbria e Romagne); province in cui il contenzioso vigeva, da più o meno lungo tempo,

disciplinato in modi diversi, per competenze (più larga a Napoli, più ristretta a Torino), per

procedure (più compiuta a Napoli, più grezza a Torino), per natura delle decisioni

(decisione definitiva a Torino, semplice “avviso” per il Re, a Napoli). Vi erano province in

cui il contenzioso aveva dato buon esito, ed era ben valutato (Ducato di Parma) e dove,

viceversa, era valutato negativamente (Regno delle Due Sicilie).

- Lo scontro si ebbe su tutti gli altri temi sopra elencati, in primo luogo sulla opportunità di

abolire completamente il sistema del contenzioso amministrativo: gli argomenti di contrasto

furono di ordine teorico e di carattere pratico. Mancini, come la maggioranza dei

componenti della Camera, era fortemente attratto dalle tesi del Duca de Broglie, esposte nel

suo notissimo articolo del 1828 (De la juridiction administrative, in Revue française), ed era

un conoscitore e ammiratore della esperienza belga: il testo della Commissione venne

redatto sostanzialmente ricopiando alcuni articoli (92, 93, 107) della Costituzione belga del

1831. Cordova aveva una lunga esperienza di avvocato ed era membro, allora, del Consiglio

di Stato: aveva una cognizione ampia e concreta dei vantaggi che il sistema del contenzioso

amministrativo, se ben disciplinato, poteva arrecare alla tutela effettiva dei cittadini. Non fu

un contrasto tra un eminente teorico ed un attrezzatissimo pratico, ma la differenza di

impostazione risulta evidente; e più lo diverrà quando la legge, redatta secondo lo schema

della Commissione, messa in applicazione, affronterà l’interpretazione giurisprudenziale e i

commenti dottrinali.

- Cordova intendeva conservare il contenzioso amministrativo. A suo giudizio occorreva

soltanto eliminare, come disse, la “esuberanza di attribuzioni nell’amministrazione attiva a danno

dell’amministrazione contenziosa” e la “esuberanza, eccedenza da parte dell’amministrazione contenziosa a

danno dell’amministrazione giudiziaria” (9.VI, 5137). Voleva riequilibrare l’ordine delle

competenze, trasferendo al giudice la tutela dei “veri” diritti (proprietà, libertà, stato delle

persone), lasciando ai Tribunali del contenzioso amministrativo la cognizione di quelli che

egli chiamava i “diritti minori”; minori perché subordinati alle determinazioni

dell’amministrazione circa la necessità e l’utilità pubblica.

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- Mancini riteneva, invece, che la tutela effettiva dei diritti, di tutti i diritti, dei cittadini

potesse essere fornita soltanto in sede giurisdizionale, ossia da giudici indipendenti

dall’amministrazione ed inamovibili; e considerava il contenzioso amministrativo come un

“imperfettissimo mezzo di difesa de’ cittadini”, una “larva di giustizia” (9.VI, 5144), “un sistema ibrido e

ipocrita, che afferma e nega, concede e ritoglie” (9.VI, 5158). Si notino le espressioni pesantemente

colorite! Mancini poneva una alternativa secca: “o la giustizia amministrativa è parte legittima

dell’amministrazione, e non ha ragione alcuna di aver esistenza separata e propria. O no, ed appartiene alla

vera funzione di giudicare”(ivi): tra il giudice e l’amministratore non c’era spazio per un

amministratore-giudice.

- In questa alternativa è il nocciolo delle due diverse, anzi opposte, concezioni: per Cordova

giudicare l’amministrazione era ancora amministrare: si trattava ancora di una funzione

eminentemente amministrativa. Egli non voleva affatto amministratori-giudici. Lo specificò

chiaramente: il Consiglio di Prefettura “non è un giudice, voglio che l’amministrazione soltanto cerchi

di trovare la verità con metodi acconci; che le si conferisca una certa responsabilità con la pubblica

discussione; voglio delle forme che diano agio ai cittadini che credono lesi i loro interessi a far valere le loro

ragioni”. Né perciò – aggiungeva – “l’amministrazione si converte in giudice; non è la pubblicità, non è

il collegio, non è il rito che fa il giudice; ma lo fa la missione di pronunciare nella materia dei diritti privati,

l’essere inamovibile, indipendente, non potere in conto alcuno pronunziare in via di disposizione generale di

regolamento, non poter ritardare la sentenza sotto pretesto di silenzio della legge” (13.VI, 5270). Il

contenzioso amministrativo “non è altro che l’amministrazione stessa” (14.VI, 5310): doveva

assicurare solo garanzie formali (l’esame collegiale, il contraddittorio, la discussione orale)

nell’esercizio di una funzione che permaneva amministrativa: la soluzione delle controversie

restava pienamente nell’ambito dell’amministrazione; pertanto gli organi del contenzioso

dovevano fornire soltanto pareri, spettando la decisione ai vertici amministrativi; e i membri

dei Tribunali del contenzioso non dovevano affatto essere inamovibili. Egli si ispirava, più o

meno, al sistema in vigore nelle province meridionali, che considerava, almeno sulla carta, il

meglio disciplinato.

- All’opposto Mancini era convinto che la tutela dei diritti soggettivi abbisognasse di giudici

inamovibili, indipendenti dall’amministrazione, imparziali: non poteva, quindi, che

combattere con decisione i Tribunali del contenzioso amministrativo, che considerava un

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“potere giudicante il quale non ne avrebbe che il nome” (9.VI, 5146). Riteneva che potesse

logicamente concepirsi soltanto quella che allora si designava come amministrazione

“pura”, cui spettava la cura degli interessi generali. La tutela dei diritti, la soluzione delle

controversie giuridiche, in particolare delle controversie con l’amministrazione, che fossero

giuridiche, ossia relative a diritti, spettava al giudice. Rinfacciava a Cordova la

prospettazione e la difesa di una tesi timida e insoddisfacente: “non seppe richiedere – disse – nel contenzioso amministrativo altre guarentìe che la collegialità e la pubblicità della discussione, ma non la

inamovibilità, né l’assoluta indipendenza dei giudici” (9.VI, 5146). Era pienamente convinto che i

“diritti, siano essi civili e di ragione privata, siano politici, sono [dovevano essere] fatti salvi in faccia alla

potestà pubblica e amministrativa; essi rimangono [dovevano rimanere] sottratti all’azione di questa, e

debbono [dovevano] essere dalla medesima rispettati e lasciati integri ed incolumi, ad eccezione degli

specialissimi casi e modi in cui una espressa disposizione di legge permetta all’amministrazione pubblica di

chiederne dal privato il sacrificio” (9.VI, 5149).

- La differenza delle posizioni sta tutta nella individuazione degli organi dell’amministrazione

(organi di amministrazione attiva ovvero organi di amministrazione contenziosa) cui

devolvere la tutela degli interessi (o diritti minori), dato che questi interessi, per generale

convincimento, non potevano godere di tutela giurisdizionale. Né la impossibilità di tutelare

in giudizio semplici interessi deve meravigliare: resterà tra gli assiomi giuridici per molti

anni e anche la dottrina avrà difficoltà a superarlo. Lo farà soltanto quando vi sarà costretta,

ossia dopo che la tutela degli interessi sarà stata affidata al Consiglio di Stato e la tutela sia

stata riconosciuta come giurisdizionale: intorno all’inizio del secolo ventesimo.

- Le tesi, pur così diverse, venivano giustificate, entrambe, alla luce del principio della

separazione dei poteri, ritenuto a quel tempo il pilastro centrale e fondamentale dello Stato

di diritto. Mancini partiva dall’idea che “amministrare è una funzione essenzialmente diversa da quella

del giudicare”; proclamava “il doppio principio della separazione e della reciproca indipendenza dei due

poteri, amministrativo e giudiziario”; e, pertanto, concludeva che “l’amministrazione non può farsi

giudice senza arrogarsi una funzione che non le spetta” (9.VI, 5149-5150). Per Cordova, invece,

lasciare che il giudice sindacasse le valutazioni di necessità ed utilità compiute

dall’amministrazione comportava l’ingerenza della giurisdizione in ciò che spettava

all’amministrazione, e ciò contrastava, quindi, con il principio della separazione dei poteri.

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Risulta evidente che si fronteggiavano due diversi modi di intendere il principio: l’uno lo

interpretava in modo oggettivo, come distinzione di funzioni; l’altro lo interpretava, in modo

soggettivo, come separatezza degli apparati di potere.

- Lo scontro continuò, anzi si fece più serrato (e per noi più interessante), sul criterio di

riparto tra controversie da attribuire, o “restituire” (come era scritto nel precedente progetto di

legge Rattazzi del 1862) al giudice e controversie da attribuire all’amministrazione:

all’amministrazione “pura”, secondo l’intento della Commissione e di Mancini, ovvero

all’amministrazione contenziosa, secondo il contro-progetto presentato da Cordova.

- Quest’ultimo, ispirandosi al progetto ministeriale (presentato, ma non sostenuto, da Peruzzi),

molto simile al precedente progetto Rattazzi, riteneva adeguato utilizzare, per il riparto, il

criterio della enumerazione, elencando sia le questioni da affidare al giudice sia quelle da

affidare ai Tribunali del contenzioso amministrativo. La Commissione aveva, invece, optato

per l’utilizzo di una clausola generale, fondata sulla differenza fra diritti e interessi: Mancini

era convintissimo che questo fosse l’unico criterio razionale, e lo difese a spada tratta,

sostenendo che la differenza tra le nozioni di diritto e di interesse era già conosciuta e

illustrata nei manuali di diritto amministrativo, che era chiara e semplice, ed avrebbe

eliminato, o fortemente ridotto, i conflitti di attribuzione.

- Mancini si ispirava a nozioni comunemente accettate nelle sedi dottrinali dell’epoca:

riteneva, ed affermò con vigore, che, tranne casi specialissimi, espressamente stabiliti per

legge, non poteva esserci incontro (e scontro) tra i diritti dei cittadini e i poteri

dell’amministrazione: i primi appartenevano ad un settore dell’ordinamento giuridico in cui

non vi erano poteri; i secondi rientravano in un settore in cui non vi erano diritti: a fronte dei

poteri amministrativi potevano esserci solo interessi, ossia entità prive di rilevanza giuridica.

Nel settore dei diritti l’amministrazione non poteva legittimamente entrare; se vi entrava,

violava la legge e, pertanto, poteva essere convenuta dinanzi al giudice dei diritti, di ogni

diritto; viceversa, nel settore dei poteri amministrativi, l’amministrazione, nel perseguimento

del bene pubblico, non essendoci diritti da rispettare, non doveva trovare soverchi ostacoli

negli interessi individuali o collettivi. Dunque, secondo tale impostazione, Mancini poteva

dichiarare che “l’amministrazione ha bensì il mandato di esercitare le funzioni che le spettano, e di

compiere tutti gli atti che tendono al conseguimento dei suoi fini: ma sotto la condizione di non eccedere in

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quell’esercizio e nella scelta dei suoi atti tali limiti, cioè di non violare alcun diritto, di adempiere ai propri

obblighi, di non infrangere alcuna legge” (9.VI, 5149).

- I diritti dei cittadini erano considerati il limite invalicabile posto all’amministrazione; entro

tale limite l’amministrazione doveva godere di “indipendenza assoluta” (ivi), dato che “nulla può

esservi di contenzioso, dove non è doglianza propriamente di alcun diritto violato, né di alcuna legge infranta”

(9.VI, 5150). Ne derivava che le decisioni amministrative che intercettavano semplici

interessi “saranno definitive, obbligatorie, intangibili, e soprattutto la giustizia dei tribunali non avrà alcun

titolo per immischiarvisi; e se il facesse commetterebbe una invasione ed usurpazione di poteri, un attentato

alla legittima indipendenza dell’autorità amministrativa” (ivi).

- Lo schema teorico era limpido: per i diritti, ossia per gli interessi giuridicamente rilevanti,

era indispensabile, irrinunciabile, la tutela giurisdizionale; per gli interessi giuridicamente

irrilevanti, la tutela giurisdizionale era di contro perfino inconcepibile: ove gli interessi

venissero lesi, ci si doveva rassegnare, o, meglio, si poteva ricorrere a mezzi di tutela di

ordine schiettamente amministrativo; mezzi, quindi, propri dell’amministrazione “pura”.

Non vi era alcuno spazio per la c.d. amministrazione contenziosa.

- La costruzione manciniana era condivisa da tutta la Commissione e dalla maggioranza dei

deputati: significativo è il forte intervento del magistrato torinese Carlo Bon-Compagni di

Mombello, nella seduta del 10 giugno, nell’ambito del quale, tra l’altro definì il potere

discrezionale (è interessante per la sua singolarità) come una “parola barbara” (5201).

Altrettanto rilevante è la presa di posizione del magistrato ferrarese Francesco Borgatti,

relatore per la Commissione; che, richiamando la dottrina francese, e, in particolare il

Vivien, affermò che “prima tra queste regole di giurisprudenza è appunto la distinzione fra i diritti e

gl’interessi, distinzione che in questo recinto [ossia nell’aula parlamentare], da uomini gravi [pensando a

Cordova, ma anche a Rattazzi], è stata derisa e tacciata di sottigliezza e di futilità scolastica” (13.VI, 5259).

Va sottolineato che la medesima convinzione era condivisa anche dalla maggior parte degli

amministrativisti teorici italiani dell’epoca.

- Non può negarsi, tuttavia, che la costruzione avesse, nella sua eleganza formale, un che di

schematico, nel senso che non interpretava appieno la complessa realtà delle cose,

soprattutto per quanto riguardava la vastità e la sostanza economica degli interessi non

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elevati a diritti. Per questo fu contestata dai sostenitori del contenzioso amministrativo, sia

dal punto di vista teorico, sia per le sue conseguenze pratiche.

- In primo luogo si mise in dubbio, ma credo a torto, la distinzione tra diritti e interessi: si

disse trattarsi di una “distinzione assai nominale, e tutt’al più ristretta e relativa” (Serafino Soldi,

avvocato irpino, 10.VI, 5186); si affermò che non fosse una distinzione ben comprensibile:

“non so capire – argomentò Francesco Crispi – “l’esercizio di un diritto privo d’interesse, come non so

capire che possa esistere un interesse senza che vi si leghi un diritto” (10.VI, 5190). Lo stesso Rattazzi

sostenne che non fosse “ancora ben definita la linea che in molti casi separa l’interesse ed il diritto”

(11.VI, 5227), e riteneva, pertanto, che fosse incongruo farvi riferimento. L’avvocato

avellinese Luigi Minervini fu più crudo: esagerando, parlò di “screditata distinzione d’interessi e

diritti; distinzione che non è logica, né legale”; e se la prese con l’avvocato milanese Antonio

Mosca, che aveva cercato di “difenderla con l’autorità dei trattatisti” (14.VI, 5304)

- Fu peraltro ancora Cordova che introdusse l’argomento più nuovo e rilevante, sostenendo

che, accanto ai “veri” diritti, i diritti maggiori, esistevano i “diritti minori”, quelli che “Broglie

pensò di chiamare (…) interessi legittimi, intérêts à apprécier”. Cosa sono, si chiedeva Cordova,

questi interessi ad apprezzare, questi interessi a valutare, “che cosa sono se non diritti? Non vi è

altra differenza fra questi diritti e quelli che sono confidati alla tutela dell’autorità giudiziaria, se non che si

tratta di diritti che sono subordinati alla considerazione dell’utilità pubblica, di diritti minori, diritti

subordinati” (13.VI, 5265). Li chiamo diritti, aggiunse, “perché ogniqualvolta vi è un interesse

legittimo fondato, un interesse a far conseguire giustizia, vi ha un diritto naturale ad ottenerla” (ivi). Si

tratta, com’è evidente, di una significativa anticipazione delle tesi di Ranelletti sul diritto

compresso, poi ridenominato diritto affievolito.

- Questi diritti, che corrispondevano a quelli che Mancini ed altri denominavano

semplicemente interessi, erano subordinati all’utilità pubblica, diremmo oggi al pubblico

interesse; ma anche per loro, sostenevano Cordova e gli altri oppositori della totale

abolizione, occorreva predisporre adeguati mezzi di tutela, perché potesse realizzarsi la

massima di Romagnosi, a cui tutti credevano, di raggiungere “la massima possibile sicurezza ed

utilità pubblica col minore sacrificio possibile della privata proprietà e libertà” (ivi). Pertanto al cittadino

è dovuta “la prova” della “utilità pubblica”, quando l’amministrazione lo voglia privare “del possesso o

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dell’uso intiero della cosa sua”: “avvi quindi un esame di utilità, che modifica il diritto del cittadino, e che è di

suo interesse” (14.VI, 5310).

- A questo punto si virò, pertanto, a considerare le conseguenze pratiche della distinzione tra

diritti ed interessi: e ci si chiese perché ai primi si assicurava la tutela giurisdizionale e ai

secondi non si assicurava alcuna tutela contenziosa. Perché, si disse, non lasciare il sistema

del contenzioso amministrativo almeno per le controversie sugli interessi, considerati dal

Cordova diritti minori? Si chiedeva Rattazzi se fosse “meglio permettere che provvedano gli

amministratori in via gerarchica a porte chiuse, senza sentire coloro che sono interessati, o non piuttosto

circondare i reclami, che possono sorgere, di quelle più grandi e necessarie cautele che presentano la pubblica

discussione, ed i giudici che decidono collegialmente” (11.VI, 5230). E Cordova aggiungeva: “c’è una

parte viva, ed è grandissima, ed è precisamente quella parte che concerne l’esame dell’opportunità, della

necessità che colpisce gli interessi, quelli che io chiamo diritti subordinati, la quale non dev’essere sfornita

delle garanzie del contenzioso amministrativo” (13.VI, 5267). E si chiedeva: “chi sarà che pronunzierà sopra la

questione di utilità?”, rispondendosi: “non può essere nessun altro che l’autorità amministrativa” (14.VI,

5310). A sua volta l’avvocato pavese Pietro Mazza insisteva: “anche trattandosi di meri interessi,

siccome si possono trovare interessi gravissimi sì di comuni, sì di altri corpi morali e sì di privati, i quali

abbiano una grandissima importanza (…), io non vedo veramente perché con un tratto di penna si sia voluto

sopprimere il tribunale amministrativo quanto al giudizio dei reclami su quest’ordine di interessi” (15.VI,

5363).

- A queste perplessità fa eco l’autorevole voce di Massimo Severo Giannini, che, quasi un

secolo e mezzo dopo, “a mente rasserenata”, considerava “misterioso” e “incomprensibile come i pur

validi giuristi del 1865 non si siano resi conto che il ricostituito omaggio al giudice ordinario della legge

sull’«abolizione» del contenzioso amministrativo significava lasciare senza giudice oltre metà delle possibili

controversie contro l’amministrazione pubblica” (Ha un futuro la nozione d’interesse legittimo?,

(1993) ora in Scritti, vol. IX, Milano, 2006, 286).

- Mancini stesso riconosceva l’esistenza di “interessi ragionevoli, rispettabili, legittimi nell’ordine delle

convenienze e delle utilità private e sociali”, che potevano essere pregiudicati dall’amministrazione

nell’esercizio della sua missione mirante alla soddisfazione dell’interesse pubblico; ma,

siccome tali interessi non risultavano “assicurati da una legge che li innalzi al grado di diritti e crei in

loro favore una azione esperibile in giudizio” (13.VI, 5270), non potevano che essere lasciati alla

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discrezione dell’amministrazione. Era la logica stessa della riforma, la ferrea interpretazione

del principio della separazione dei poteri, che impediva altra soluzione.

- Possiamo domandarci se Mancini, e con lui tutti coloro che approvarono l’abolizione del

contenzioso amministrativo, fossero realmente così ciechi, o così insensibili, nei confronti

del problema che, con l’abolizione del sistema del contenzioso, veniva a determinarsi: la

riduzione delle garanzie per gli “affari” (art. 3), nei quali non “si faccia questione d’un

diritto civile o politico”. La risposta, almeno per quanto riguarda Mancini è a suo favore: lo

scagiona dalla pesante contestazione.

- Vi sono, in proposito, tre argomenti da considerare. Il primo è che Mancini era pienamente

convinto che, aboliti i Tribunali del contenzioso amministrativo, tutte le controversie di loro

competenza sarebbero passate, in blocco, al giudice: “abbiamo diligentemente procurato – si legge

nel suo primo discorso – e confidiamo che per effetto di questa legge nessuna parte di tali materie [quelle già

affidate al contenzioso amministrativo] (salve alcune eccezioni espressamente dichiarate) passerà nell’assoluta

balìa della pura amministrazione, e rimarrà spogliata anche di quelle imperfette garanzie che oggi la

circondano” (9.VI, 5158). Questa, se non era una convinzione pienamente esatta, non era

nemmeno totalmente infondata: nello stesso dibattito sulla legge abolitrice alcuni

intervenienti sottolinearono che i Tribunali amministrativi, dove più dove meno nelle

diverse province del Regno, si dichiaravano incompetenti quando nelle deduzioni del

ricorrente non ravvisavano la lesione di diritti soggettivi o la violazione di specifiche

disposizioni di legge.

- Se, in seguito, l’applicazione delle disposizioni della legge abolitiva dimostrò il contrario, in

larga parte dipese da una restrittiva, ma restrittiva fino alla loro sostanziale violazione, di

quelle disposizioni. Ad esempio non si tenne adeguato conto della disposizione che

consentiva al giudice di trattare e decidere le cause, anche se fossero stati “emanati

provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa” (art. 2). Gli atti

amministrativi, tutti, senza distinzione, ad esempio tra atti d’impero e atti di gestione,

potevano (anzi: dovevano), in base alla legge, essere conosciuti dal giudice, il quale non

aveva il potere di revocarli o modificarli, ma poteva eliminarne gli effetti pregiudizievoli per

i titolari di diritti.

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- C’è un secondo argomento: alla tutela degli interessi veniva chiamata l’amministrazione

“pura”, ma si dettavano regole precise per l’esercizio dei suoi poteri: “ l’autorità amministrativa

provvede circondata da parecchie garanzie, cioè con decreto motivato, ammesse le deduzioni degli interessati,

ed uditi que’ Consigli amministrativi che le leggi rispettive, regolatrici de’ vari rami dell’amministrazione, ne’

diversi casi abbiano stabilito o saranno per stabilire” (13.VI, 5274). In effetti l’art. 3 della legge del

1865 stabilisce chiaramente che le autorità amministrative “provvederanno con decreti

motivati”, “ammesse le deduzioni e le osservazioni in iscritto delle parti interessate” e

“previo parere dei consigli amministrativi che pei diversi casi siano dalla legge stabiliti”.

- Tuttociò, si badi, prima dell’adozione del provvedimento che potesse ledere gli interessi,

ossia nel corso di ciò che sarà in seguito, decenni dopo, chiamato procedimento

amministrativo; prima ed a prescindere dall’eventuale, e comunque successivo, ricorso

gerarchico. Mancini e i suoi colleghi avevano preordinato, sia pure in bozzo, la

partecipazione degli interessati alle decisioni amministrative: la tutela degli interessi veniva

anticipata rispetto alla decisione dell’amministrazione, senza aspettare di doverla impugnare

dinanzi agli organi del contenzioso amministrativo. Essi avevano preconizzato ciò che si

realizzerà solo con la legge sul procedimento, nel 1990.

- Se le disposizioni allora dettate non furono poi attuate nella pratica amministrativa, non se

ne può ritenere responsabili i legislatori di allora.

- In terzo luogo, Mancini riteneva che non fosse la legge sull’abolizione del contenzioso

amministrativo la sede adatta per disciplinare a dovere il modo di esercizio delle funzioni

amministrative: “non è questa – osservò – la legge in cui dobbiamo e possiamo occuparci delle garantìe

dell’esercizio dell’amministrazione pura; aspettiamo che venga in discussione la legge sull’amministrazione

comunale e provinciale, e che si propongano più tardi leggi regolatrici degli svariati rami speciali

dell’amministrazione. Ivi determineremo quali esser dovranno i modi di esercizio delle funzioni puramente

amministrative; e se si troverà che i prefetti ed i ministri, prima di emanare provvedimenti nelle materie di

competenza dell’amministrazione, debbano chiamare a contraddittorio le parti, elevare una specie di tribunale

e forse anche discutere pubblicamente, e col sussidio di un voto collegiale; allora chi vorrà anche in materie

simili limitare, almeno con mezzo indiretto, i poteri dell’amministrazione”, potrà fare le sue proposte: “la

Camera vedrà allora se un’amministrazione veramente libera ed idonea ad operare il bene sia possibile con

forme somiglianti; deciderà soprattutto intorno al problema, a mio avviso insolubile, della conciliazione della

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libertà e della responsabilità dell’amministrazione (…) con l’obbligo che allo stesso amministratore volesse

imporsi di sottostare necessariamente alla decisione di altre autorità che debba consultare” (13.VI, 5274).

- Si può, in definitiva, essere certi che Mancini il problema di una efficace tutela degli

interessi, che non assurgevano alla dignità di diritti, se lo pose e ritenne di averlo

adeguatamente risolto. Anche se, occorre riconoscerlo, la soluzione, idonea forse in teoria, si

mostrò inefficace in pratica.

- L’obiettivo dichiaratamente perseguito da Mancini e dalla Commissione era di tutelare

pienamente i diritti dei cittadini e, contemporaneamente, garantire che l’amministrazione

potesse agire in piena “libertà” nell’assolvimento dei suoi compiti. Per questo secondo

scopo, per “garantire l’indipendenza dell’autorità amministrativa”, “per evitare il pericolo di ogni eccesso

ed invasione” da parte dei giudici, furono adottate alcune misure, che Mancini denomina

“cautele”: 1°, il divieto per il giudice di eliminazione dell’atto amministrativo, che Mancini

intende, correttamente, come divieto di “pronunciare sul merito degli atti amministrativi”; 2°, la

possibilità di elevare conflitti di attribuzione, lasciandone la soluzione al Consiglio di Stato,

organo allora schiettamente amministrativo, con membri non inamovibili; 3°, la possibilità

per l’amministrazione di esecuzione, “a titolo d’urgenza, dell’atto o dell’opera amministrativa anche

durante il giudizio, salvi i diritti delle parti al suo esito definitivo”.

- A queste cautele se ne aggiunsero altre in materia di imposte: la esclusione della competenza

dei Tribunali ordinari, e, quindi, della tutela giurisdizionale, per le cause di estimo; la

previsione generalizzata della regola del solve et repete.

- Il dato più rilevante, che Mancini non nascose, ma nemmeno sottolineò, attiene alla

struttura della controversia, per come doveva essere presentata al giudice: essa non

riguardava l’atto amministrativo, in sé considerato, bensì soltanto i suoi effetti, se fossero

lesivi, in violazione della legge, del diritto dell’attore. L’atto, come tale, rimaneva fuori dal

perimetro della materia del contendere: il giudice non solo non poteva conoscerne il merito,

ma poteva sindacarne la legittimità solo in via incidentale, al fine di disapplicarlo.

- Questa limitazione dei poteri di cognizione e di decisione del giudice ha portato la dottrina a

dare una valutazione non pienamente positiva della legge. Molti commentatori, antichi e

moderni hanno stigmatizzato tale limitazione, soprattutto dopo che il principio della

separazione dei poteri è stato interpretato in modo meno rigido.

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- Molti decenni dopo l’approvazione della legge abolitiva, uno studioso di grande

autorevolezza, Feliciano Benvenuti (Per un diritto amministrativo paritario, (1975), ora in

Scritti giuridici, IV, Milano, 2006, 3224-3225), scriveva che la legge del 1865, “che sembra a

noi oggi il principio del riconoscimento della posizione del cittadino nei confronti dell’amministrazione ma

che fu, al contrario, la riaffermazione della indipendenza dell’amministrazione di fronte al giudice”.

Effettivamente la limitazione dei poteri giurisdizionali, insieme alle numerose “cautele”,

mettono in luce ciò che, d’altronde, non venne affatto nascosto, ossia che si cercò di non

compromettere la “libertà” dell’amministrazione: si mise molta attenzione per fare in modo

che il giudice non potesse interferire con il “libero” esercizio dei poteri amministrativi.

Tuttavia la garanzia della indipendenza dell’amministrazione non era (o non apparve) in

contrasto con la garanzia della tutela dei diritti dei cittadini, che i legislatori ritennero di

rendere effettiva mediane la sua devoluzione a giudici indipendenti ed imparziali.

- Un altro appunto è stato mosso alla legge, ed è che l’obiettivo della unità della giurisdizione

non fu raggiunto. Osservò Antonio Salandra (381), all’inizio del XX secolo, che rimase

aperta la strada per “un novello contenzioso amministrativo; e ciò per opera di una generica disposizione

della stessa legge abolitiva”: il riferimento è all’art. 12 della legge, che lasciava sopravvivere,

non solo la giurisdizione della Corte dei conti, ma anche “le attribuzioni contenziose di altri

corpi e collegi derivanti da leggi speciali”. Si pensi, ad esempio, al contenzioso elettorale,

che riguardava (e riguarda) uno dei più significativi diritti politici. Il numero dei “corpi

contenziosi” andò anzi aumentando, come si ricava dall’allegato alla relazione Costa sul

progetto di legge Crispi del 1887 sulla modificazione alla legge sul Consiglio di Stato. Da

qui il giudizio di Salandra: “le audacie teoriche degli stessi propugnatori della riforma si spuntarono o si

stancarono di fronte alle necessità pratiche della formulazione legislativa: in parte furono infrenate dalle

esigenze dell’amministrazione che si veniva in quel tempo costituendo e che – com’è naturale negli Stati nuovi

– ripugnava ad assoggettare l’energia dell’azione sua a forme ed a freni ad essa estrinseci. In parte

l’incremento stesso, straordinario in quel tempo di formazione dello Stato, della materia delle controversie

amministrative, imponendo la necessità di giudizi tecnici e possibilmente rapidi e semplici, generava una

tendenza verso le giurisdizioni speciali (…), non meno efficace in realtà della tendenza verso la giurisdizione

unica professata dalla grande maggioranza dei giureconsulti liberali”.

- Bisogna, tuttavia, considerare che i legislatori del 1865 non si posero affatto l’obiettivo di

eliminare tutti i giudici speciali (o gli organi contenziosi) allora operativi. Intesero

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affermare un diverso principio, ossia che la tutela dei diritti, sia che fossero vantati nei

confronti di privati cittadini, sia che lo fossero nei confronti delle autorità amministrative,

dovevano essere tutelati da un solo ordine giudiziario: questo vollero e questo ottennero.

- Non è fortunatamente questa la sede per valutare la legge abolitiva del contenzioso

amministrativo. Tuttavia va riconosciuto che, nella discussione che ha preceduto la sua

approvazione da parte della Camera, sono emersi tutti i problemi che affaticheranno nei

decenni successivi teorici e pratici: ad esempio, gli atti amministrativi, la loro esecutività e

le loro specie (in particolare, atti d’impero e di gestione); l’oggetto e i limiti del sindacato da

parte del giudice (violazione di legge o anche sindacato sulla necessità e utilità degli atti

lesivi di interessi, ossia eccesso di potere); la eliminazione dell’atto illegittimo sopravvissuto

(anche se disapplicato) alla sentenza, e il modo di ottenerla nel caso in cui l’amministrazione

non intendesse conformarsi al giudicato dei Tribunali (il giudizio di ottemperanza); più

rilevante di tutti, il modo per assicurare tutela agli interessi non elevati a diritti (donde la

istituzione della Sezione per la giustizia amministrativa presso il Consiglio di Stato).

- Non solo: si stabilì con chiarezza che il potere amministrativo, anzi il potere esecutivo, era

soggetto alla legge; e i suoi atti potevano essere portati ad effetto soltanto se conformi alle

disposizioni di legge: si realizzava il principio fondamentale dello Stato di diritto; ed erano

tempi in cui le prassi del Governo e dell’amministrazione non si erano ancora assuefatte

all’idea, ed interpretavano il principio di legalità nel senso che la legge poteva sì porre limiti

all’esercizio del potere, ma laddove tali limiti non ci fossero, l’amministrazione restava

“libera” di operare.

- Si aggiunga (e non è da sottovalutare) che si tratta di una legge che, insieme alla successiva

legge Crispi del 1889, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, fu oggetto di

particolare considerazione in Assemblea costituente, che la mantenne in vigore ed anzi la

pose alla base del sistema costituzionale delle tutele nei confronti dell’amministrazione.

- Si chiede di recente Fabio Merusi (Consiglio di Stato (all. D) e abolizione del contenzioso

(all.E), in Storia amministrazione Costituzione, Bologna, 2015, 225 ss.) se la soluzione

tenacemente voluta dal liberali del 1865 sia veramente stata una conquista liberale; e

rammenta che la devoluzione della tutela dei diritti dei “particolari” agli organi

giurisdizionali era stata raccomandata, per il Ducato di Parma, da Francesco I, Imperatore

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d’Austria, che di certo non poteva considerarsi un propugnatore di idee liberali progressiste.

Nelle intenzioni dei legislatori del 1865, tuttavia, la soluzione che fecero trionfare era

consapevolmente diretta alla migliore tutela dei diritti soggettivi; e questo, data l’epoca, fu

certamente un fatto rivoluzionario di stampo autenticamente liberale.

- Restando al tema, che concerne l’apporto di Mancini alla riforma della giustizia

amministrativa, a parte la sua fede incrollabile nelle idee del c.d. costituzionalismo liberale,

e nel principio, rigorosamente inteso, della separazione dei poteri, non messa in dubbio da

alcuno, bisogna considerare che egli, di fronte al modo in cui la legge venne in seguito

concretamente applicata, pur essendone stato uno strenuo sostenitore, si rese presto conto

che essa non aveva centrato gli obiettivi per i quali egli l’aveva così validamente sostenuta.

Ed è questa, io credo, la ragione, o almeno una tra le ragioni principali, per la quale egli si

votò, con particolare sollecitudine e particolare impegno, in sede scientifica e parlamentare,

alla modifica della legge sui conflitti di attribuzione; la quale fu approvata, nel 1877, quando

egli era Ministro di grazia e giustizia e dei culti nel primo Governo De Pretis. Sperava che,

affidando la soluzione dei conflitti alla Corte di cassazione romana, a Sezioni Unite, ossia al

massimo organo giurisdizionale, togliendola al Consiglio di Stato, organo autorevolissimo

ma amministrativo, l’orientamento molto timido seguito per l’innanzi dai giudici (ordinari)

sarebbe potuto diventare più rigoroso. Non fu così: le convinzioni dei giureconsulti teorici e

pratici dell’epoca non lo consentirono.

- Questo non sminuisce certo l’impegno costante che Mancini dette alla affermazione in

concreto delle idee del liberalismo riformista, e non può far dimenticare che, comunque, egli

fu uno dei principali artefici di una legge che resta in vigore ancora oggi, dopo oltre un

secolo e mezzo. Nella relazione del 16 giugno 1875 sul progetto di legge sui conflitti, da lui

presentato, Mancini scriveva: “lo Stato moderno non può ammettere che una sovranità, una giustizia a

tutti comune e perciò una giurisdizione moderatrice di tutti gli altri poteri, limite ed impedimento insuperabile

ad ogni eccesso di autorità”. Ѐ questo, io credo, il suo testamento di ordine costituzionale.

- A conclusione, prendo a prestito il giudizio di Salandra (421) sul valore dell’opera di

Mancini per la giustizia amministrativa: Pasquale Stanislao Mancini fu “il più illustre fra i

moderni giuristi italiani della scuola liberale ed il più valido propugnatore tanto della riforma del 1865, quanto

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di quella del 1877”. Approssimandosi, il 17 marzo, il doppio centenario dalla nascita, questo

giudizio rimane pienamente valido.

Palazzo Spada, sala Pompeo, 6 febbraio 2017.

Franco Gaetano Scoca

Professore emerito di diritto amministrativo nell'Università La Sapienza di Roma

Pubblicato il 13 febbraio 2017

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