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Pasquale Stanislao Mancini e la giustizia amministrativa
- Finchè fu membro della Camera dei deputati, Mancini si occupò intensamente della tutela
dei cittadini nei loro rapporti con l’amministrazione: fu protagonista nel dibattito che portò
alla legge del 1865, sull’abolizione dei Tribunali del contenzioso amministrativo; lo fu
ancora nei lavori preparatori della legge del 1877, che trasferì la soluzione dei conflitti di
attribuzione dal Consiglio di Stato alle Sezioni Unite della Corte di cassazione romana. Non
prese parte agli eventi successivi, e, in particolare, alla discussione che portò alla istituzione
della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, perché nel 1885 si era dimesso da deputato, per
contrasti sulla spedizione a Massaua, da lui caldeggiata, e avversata dalla maggioranza. Si
era ritirato a Napoli, nella villa reale di Capodimonte, messagli a disposizione da Umberto I,
del quale era stato precettore.
- Come introduzione, e quasi frontespizio, di questo breve ricordo del suo contributo al
sistema della giustizia amministrativa, mi sembra necessario riportare per esteso il celebre
passaggio del primo discorso che Mancini pronunciò nel dibattito sul progetto di legge per
l’abolizione dei Tribunali del contenzioso amministrativo; passaggio che, per il suo
contenuto (deciso, quasi brutale, ma estremamente significativo), viene riportato tuttora nei
manuali di giustizia amministrativa: consente di apprezzare con chiarezza quale fosse il
pensiero di Mancini sui rapporti tra l’amministrazione e i cittadini e sul come dovessero
essere risolte le relative controversie.
- Siamo al 9 giugno 1864, il primo giorno della discussione parlamentare sul progetto di legge
presentato dal ministro Ubaldino Peruzzi l’anno precedente 1863; discussione che durerà
con intensità, direi con foga, fino al 22 giugno successivo: Mancini, membro della
Commissione che aveva compiuto l’esame preliminare del testo governativo, rispondendo a
Cordova, che era contrario alla abolizione dei Tribunali amministrativi, si espresse nel modo
che segue: - “sia pure che l’autorità amministrativa abbia fallito alla sua missione, che non abbia provveduto con
opportunità e saggezza, che non abbia saputo ottenere la massima somma di prosperità e di sicurezza pubblica
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mercè i suoi atti; sia pure che essa abbia, e forse anche senza motivi, rifiutato ad un cittadino una permissione,
un vantaggio, un favore, che ogni ragione di prudenza e di buona economia consigliasse di accordargli, ovvero
gli abbia ordinato di concorrere con soverchio e non necessario disagio allo scopo di un pubblico servigio, cui
abbia potestà di provvedere con l’opera gratuita dei privati; sia pure che questo cittadino è stato in conseguenza
ferito, e forse anche gravemente, nei propri interessi: che perciò? Ed ecco, o signori, a questo punto sorgere il
criterio proposto da più illustri pubblicisti, e adottato dalla Commissione. Che cosa ha sofferto il cittadino in
tutte le ipotesi testè discorse? Semplicemente una lesione degl’interessi? Ebbene, ch’ei si rassegni”.
- “ch’ei si rassegni”!: su questo passaggio e su questa espressione si appunteranno le lodi e le
critiche all’azione riformatrice di Mancini. Vedremo poi che significato occorre
effettivamente attribuire a questa troppo secca affermazione.
- Pasquale Stanislao Mancini, conte avellinese (di Castel Baronia), giurista eclettico, esperto
di diritto costituzionale, internazionale, processuale, allora professore alla Università di
Torino, fu indubbiamente il protagonista del dibattito, l’alfiere degli abolizionisti, e si
scontrò a più riprese con Filippo Cordova, barone ennese (di Aidone), consigliere di Stato,
campione dei riformisti non abolizionisti: tra i due si sviluppò un “duello oratorio”, che,
secondo Antonio Salandra (La giustizia amministrativa nei Governi liberi, Torino, 1904,
328), “restò memorabile nei fasti del Parlamento italiano”, e non fu privo di tratti
formalmente corretti ma sostanzialmente acrimoniosi. Anche prescindendo dalla novità delle
tesi giuridiche che furono poste in campo, dalla ricchezza degli argomenti e dalla forza
dialettica impiegata per sostenerle, dalla appropriatezza degli esempi portati a chiarimento, i
ripetuti interventi dei due duellanti si segnalano anche per la profondità delle ricostruzioni
storiche dell’istituto del contenzioso amministrativo e per l’ampio esame critico della
legislazione comparata.
- Ci furono, ovviamente, molti altri partecipanti di spessore al dibattito: basti rammentare
Rattazzi, Crispi, l’apprezzato avvocato milanese Antonio Mosca, il ministro Peruzzi; ma il
“duello oratorio” tra i due campioni restò centrale e fu determinante.
- Il 9 giugno 1864 la discussione parlamentare ebbe inizio con un (inatteso) colpo di scena: il
testo presentato alla Camera dal ministro Peruzzi era stato profondamente cambiato dalla
Commissione cui era stato affidato l’esame preliminare: da progetto moderatamente
riformatore del sistema del contenzioso amministrativo era diventato un progetto
rivoluzionario: ne prevedeva la totale abolizione. Il ministro, “con un’arrendevolezza certamente
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singolare” (dirà Urbano Rattazzi, tornata del 13.VI, 5223), aveva espressamente consentito
che fosse messo come oggetto della discussione il testo elaborato dalla Commissione
parlamentare e non quello che egli stesso aveva precedentemente presentato; portando, in tal
modo, la Camera a pronunciarsi sull’abolizione, e non sulla riforma, del contenzioso
amministrativo.
- In effetti, il testo ministeriale era stato redatto sulla base di un precedente progetto,
presentato nel 1862 da Rattazzi, allora Presidente del Consiglio dei ministri, il quale era
personalmente assolutamente contrario alla abolizione dei Tribunali amministrativi; Peruzzi,
ministro dell’interno del subentrato Governo Minghetti, era invece favorevole alla loro
abolizione, e, pur avendo presentato un progetto di legge non molto diverso da quello di
Rattazzi, mostrò chiaramente le sue idee nel corso della discussione.
- Quali i temi del dibattito, sui quali Mancini fece valere la sua valentìa e la sua facondia? La
necessità, o utilità, di una legge sul contenzioso amministrativo; la opportunità
dell’abolizione di un istituto, di lontana provenienza francese, che era presente in quasi tutte
le esperienze preunitarie; il criterio del riparto delle controversie già proprie dei Tribunali
del contenzioso amministrativo tra giudice e “amministrazione pura” (ovvero, a seconda
delle tesi, tra Tribunali ordinari e Tribunali del contenzioso amministrativo); i mezzi di
tutela degli interessi-non-diritti e la loro adeguatezza; la salvaguardia della “libertà”, come
allora si diceva, dell’amministrazione.
- Sul primo tema, sulla necessità dell’intervento legislativo, non ci furono dissensi: fu
generale la convinzione che il problema dovesse essere affrontato, per porre rimedio alle
differenti discipline ancora in vigore nelle varie province del Regno: occorreva con ogni
urgenza che si giungesse ad una disciplina uniforme per l’intero territorio nazionale.
- Nelle varie parti del Regno erano in vigore le antiche discipline; cosicché la situazione che
si presentava al legislatore unitario era profondamente variegata; ed era anche, ove si
considerino le diverse rappresentazioni che ne vennero fatte nel corso della discussione,
imperfettamente conosciuta: i deputati che intervennero nel dibattito conoscevano bene il
sistema in vigore nella loro provincia di provenienza, conoscevano approssimativamente i
sistemi in vigore nelle altre province.
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- Vi erano province in cui il contenzioso amministrativo era stato abolito, sia pure di recente
(Umbria e Romagne); province in cui il contenzioso vigeva, da più o meno lungo tempo,
disciplinato in modi diversi, per competenze (più larga a Napoli, più ristretta a Torino), per
procedure (più compiuta a Napoli, più grezza a Torino), per natura delle decisioni
(decisione definitiva a Torino, semplice “avviso” per il Re, a Napoli). Vi erano province in
cui il contenzioso aveva dato buon esito, ed era ben valutato (Ducato di Parma) e dove,
viceversa, era valutato negativamente (Regno delle Due Sicilie).
- Lo scontro si ebbe su tutti gli altri temi sopra elencati, in primo luogo sulla opportunità di
abolire completamente il sistema del contenzioso amministrativo: gli argomenti di contrasto
furono di ordine teorico e di carattere pratico. Mancini, come la maggioranza dei
componenti della Camera, era fortemente attratto dalle tesi del Duca de Broglie, esposte nel
suo notissimo articolo del 1828 (De la juridiction administrative, in Revue française), ed era
un conoscitore e ammiratore della esperienza belga: il testo della Commissione venne
redatto sostanzialmente ricopiando alcuni articoli (92, 93, 107) della Costituzione belga del
1831. Cordova aveva una lunga esperienza di avvocato ed era membro, allora, del Consiglio
di Stato: aveva una cognizione ampia e concreta dei vantaggi che il sistema del contenzioso
amministrativo, se ben disciplinato, poteva arrecare alla tutela effettiva dei cittadini. Non fu
un contrasto tra un eminente teorico ed un attrezzatissimo pratico, ma la differenza di
impostazione risulta evidente; e più lo diverrà quando la legge, redatta secondo lo schema
della Commissione, messa in applicazione, affronterà l’interpretazione giurisprudenziale e i
commenti dottrinali.
- Cordova intendeva conservare il contenzioso amministrativo. A suo giudizio occorreva
soltanto eliminare, come disse, la “esuberanza di attribuzioni nell’amministrazione attiva a danno
dell’amministrazione contenziosa” e la “esuberanza, eccedenza da parte dell’amministrazione contenziosa a
danno dell’amministrazione giudiziaria” (9.VI, 5137). Voleva riequilibrare l’ordine delle
competenze, trasferendo al giudice la tutela dei “veri” diritti (proprietà, libertà, stato delle
persone), lasciando ai Tribunali del contenzioso amministrativo la cognizione di quelli che
egli chiamava i “diritti minori”; minori perché subordinati alle determinazioni
dell’amministrazione circa la necessità e l’utilità pubblica.
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- Mancini riteneva, invece, che la tutela effettiva dei diritti, di tutti i diritti, dei cittadini
potesse essere fornita soltanto in sede giurisdizionale, ossia da giudici indipendenti
dall’amministrazione ed inamovibili; e considerava il contenzioso amministrativo come un
“imperfettissimo mezzo di difesa de’ cittadini”, una “larva di giustizia” (9.VI, 5144), “un sistema ibrido e
ipocrita, che afferma e nega, concede e ritoglie” (9.VI, 5158). Si notino le espressioni pesantemente
colorite! Mancini poneva una alternativa secca: “o la giustizia amministrativa è parte legittima
dell’amministrazione, e non ha ragione alcuna di aver esistenza separata e propria. O no, ed appartiene alla
vera funzione di giudicare”(ivi): tra il giudice e l’amministratore non c’era spazio per un
amministratore-giudice.
- In questa alternativa è il nocciolo delle due diverse, anzi opposte, concezioni: per Cordova
giudicare l’amministrazione era ancora amministrare: si trattava ancora di una funzione
eminentemente amministrativa. Egli non voleva affatto amministratori-giudici. Lo specificò
chiaramente: il Consiglio di Prefettura “non è un giudice, voglio che l’amministrazione soltanto cerchi
di trovare la verità con metodi acconci; che le si conferisca una certa responsabilità con la pubblica
discussione; voglio delle forme che diano agio ai cittadini che credono lesi i loro interessi a far valere le loro
ragioni”. Né perciò – aggiungeva – “l’amministrazione si converte in giudice; non è la pubblicità, non è
il collegio, non è il rito che fa il giudice; ma lo fa la missione di pronunciare nella materia dei diritti privati,
l’essere inamovibile, indipendente, non potere in conto alcuno pronunziare in via di disposizione generale di
regolamento, non poter ritardare la sentenza sotto pretesto di silenzio della legge” (13.VI, 5270). Il
contenzioso amministrativo “non è altro che l’amministrazione stessa” (14.VI, 5310): doveva
assicurare solo garanzie formali (l’esame collegiale, il contraddittorio, la discussione orale)
nell’esercizio di una funzione che permaneva amministrativa: la soluzione delle controversie
restava pienamente nell’ambito dell’amministrazione; pertanto gli organi del contenzioso
dovevano fornire soltanto pareri, spettando la decisione ai vertici amministrativi; e i membri
dei Tribunali del contenzioso non dovevano affatto essere inamovibili. Egli si ispirava, più o
meno, al sistema in vigore nelle province meridionali, che considerava, almeno sulla carta, il
meglio disciplinato.
- All’opposto Mancini era convinto che la tutela dei diritti soggettivi abbisognasse di giudici
inamovibili, indipendenti dall’amministrazione, imparziali: non poteva, quindi, che
combattere con decisione i Tribunali del contenzioso amministrativo, che considerava un
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“potere giudicante il quale non ne avrebbe che il nome” (9.VI, 5146). Riteneva che potesse
logicamente concepirsi soltanto quella che allora si designava come amministrazione
“pura”, cui spettava la cura degli interessi generali. La tutela dei diritti, la soluzione delle
controversie giuridiche, in particolare delle controversie con l’amministrazione, che fossero
giuridiche, ossia relative a diritti, spettava al giudice. Rinfacciava a Cordova la
prospettazione e la difesa di una tesi timida e insoddisfacente: “non seppe richiedere – disse – nel contenzioso amministrativo altre guarentìe che la collegialità e la pubblicità della discussione, ma non la
inamovibilità, né l’assoluta indipendenza dei giudici” (9.VI, 5146). Era pienamente convinto che i
“diritti, siano essi civili e di ragione privata, siano politici, sono [dovevano essere] fatti salvi in faccia alla
potestà pubblica e amministrativa; essi rimangono [dovevano rimanere] sottratti all’azione di questa, e
debbono [dovevano] essere dalla medesima rispettati e lasciati integri ed incolumi, ad eccezione degli
specialissimi casi e modi in cui una espressa disposizione di legge permetta all’amministrazione pubblica di
chiederne dal privato il sacrificio” (9.VI, 5149).
- La differenza delle posizioni sta tutta nella individuazione degli organi dell’amministrazione
(organi di amministrazione attiva ovvero organi di amministrazione contenziosa) cui
devolvere la tutela degli interessi (o diritti minori), dato che questi interessi, per generale
convincimento, non potevano godere di tutela giurisdizionale. Né la impossibilità di tutelare
in giudizio semplici interessi deve meravigliare: resterà tra gli assiomi giuridici per molti
anni e anche la dottrina avrà difficoltà a superarlo. Lo farà soltanto quando vi sarà costretta,
ossia dopo che la tutela degli interessi sarà stata affidata al Consiglio di Stato e la tutela sia
stata riconosciuta come giurisdizionale: intorno all’inizio del secolo ventesimo.
- Le tesi, pur così diverse, venivano giustificate, entrambe, alla luce del principio della
separazione dei poteri, ritenuto a quel tempo il pilastro centrale e fondamentale dello Stato
di diritto. Mancini partiva dall’idea che “amministrare è una funzione essenzialmente diversa da quella
del giudicare”; proclamava “il doppio principio della separazione e della reciproca indipendenza dei due
poteri, amministrativo e giudiziario”; e, pertanto, concludeva che “l’amministrazione non può farsi
giudice senza arrogarsi una funzione che non le spetta” (9.VI, 5149-5150). Per Cordova, invece,
lasciare che il giudice sindacasse le valutazioni di necessità ed utilità compiute
dall’amministrazione comportava l’ingerenza della giurisdizione in ciò che spettava
all’amministrazione, e ciò contrastava, quindi, con il principio della separazione dei poteri.
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Risulta evidente che si fronteggiavano due diversi modi di intendere il principio: l’uno lo
interpretava in modo oggettivo, come distinzione di funzioni; l’altro lo interpretava, in modo
soggettivo, come separatezza degli apparati di potere.
- Lo scontro continuò, anzi si fece più serrato (e per noi più interessante), sul criterio di
riparto tra controversie da attribuire, o “restituire” (come era scritto nel precedente progetto di
legge Rattazzi del 1862) al giudice e controversie da attribuire all’amministrazione:
all’amministrazione “pura”, secondo l’intento della Commissione e di Mancini, ovvero
all’amministrazione contenziosa, secondo il contro-progetto presentato da Cordova.
- Quest’ultimo, ispirandosi al progetto ministeriale (presentato, ma non sostenuto, da Peruzzi),
molto simile al precedente progetto Rattazzi, riteneva adeguato utilizzare, per il riparto, il
criterio della enumerazione, elencando sia le questioni da affidare al giudice sia quelle da
affidare ai Tribunali del contenzioso amministrativo. La Commissione aveva, invece, optato
per l’utilizzo di una clausola generale, fondata sulla differenza fra diritti e interessi: Mancini
era convintissimo che questo fosse l’unico criterio razionale, e lo difese a spada tratta,
sostenendo che la differenza tra le nozioni di diritto e di interesse era già conosciuta e
illustrata nei manuali di diritto amministrativo, che era chiara e semplice, ed avrebbe
eliminato, o fortemente ridotto, i conflitti di attribuzione.
- Mancini si ispirava a nozioni comunemente accettate nelle sedi dottrinali dell’epoca:
riteneva, ed affermò con vigore, che, tranne casi specialissimi, espressamente stabiliti per
legge, non poteva esserci incontro (e scontro) tra i diritti dei cittadini e i poteri
dell’amministrazione: i primi appartenevano ad un settore dell’ordinamento giuridico in cui
non vi erano poteri; i secondi rientravano in un settore in cui non vi erano diritti: a fronte dei
poteri amministrativi potevano esserci solo interessi, ossia entità prive di rilevanza giuridica.
Nel settore dei diritti l’amministrazione non poteva legittimamente entrare; se vi entrava,
violava la legge e, pertanto, poteva essere convenuta dinanzi al giudice dei diritti, di ogni
diritto; viceversa, nel settore dei poteri amministrativi, l’amministrazione, nel perseguimento
del bene pubblico, non essendoci diritti da rispettare, non doveva trovare soverchi ostacoli
negli interessi individuali o collettivi. Dunque, secondo tale impostazione, Mancini poteva
dichiarare che “l’amministrazione ha bensì il mandato di esercitare le funzioni che le spettano, e di
compiere tutti gli atti che tendono al conseguimento dei suoi fini: ma sotto la condizione di non eccedere in
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quell’esercizio e nella scelta dei suoi atti tali limiti, cioè di non violare alcun diritto, di adempiere ai propri
obblighi, di non infrangere alcuna legge” (9.VI, 5149).
- I diritti dei cittadini erano considerati il limite invalicabile posto all’amministrazione; entro
tale limite l’amministrazione doveva godere di “indipendenza assoluta” (ivi), dato che “nulla può
esservi di contenzioso, dove non è doglianza propriamente di alcun diritto violato, né di alcuna legge infranta”
(9.VI, 5150). Ne derivava che le decisioni amministrative che intercettavano semplici
interessi “saranno definitive, obbligatorie, intangibili, e soprattutto la giustizia dei tribunali non avrà alcun
titolo per immischiarvisi; e se il facesse commetterebbe una invasione ed usurpazione di poteri, un attentato
alla legittima indipendenza dell’autorità amministrativa” (ivi).
- Lo schema teorico era limpido: per i diritti, ossia per gli interessi giuridicamente rilevanti,
era indispensabile, irrinunciabile, la tutela giurisdizionale; per gli interessi giuridicamente
irrilevanti, la tutela giurisdizionale era di contro perfino inconcepibile: ove gli interessi
venissero lesi, ci si doveva rassegnare, o, meglio, si poteva ricorrere a mezzi di tutela di
ordine schiettamente amministrativo; mezzi, quindi, propri dell’amministrazione “pura”.
Non vi era alcuno spazio per la c.d. amministrazione contenziosa.
- La costruzione manciniana era condivisa da tutta la Commissione e dalla maggioranza dei
deputati: significativo è il forte intervento del magistrato torinese Carlo Bon-Compagni di
Mombello, nella seduta del 10 giugno, nell’ambito del quale, tra l’altro definì il potere
discrezionale (è interessante per la sua singolarità) come una “parola barbara” (5201).
Altrettanto rilevante è la presa di posizione del magistrato ferrarese Francesco Borgatti,
relatore per la Commissione; che, richiamando la dottrina francese, e, in particolare il
Vivien, affermò che “prima tra queste regole di giurisprudenza è appunto la distinzione fra i diritti e
gl’interessi, distinzione che in questo recinto [ossia nell’aula parlamentare], da uomini gravi [pensando a
Cordova, ma anche a Rattazzi], è stata derisa e tacciata di sottigliezza e di futilità scolastica” (13.VI, 5259).
Va sottolineato che la medesima convinzione era condivisa anche dalla maggior parte degli
amministrativisti teorici italiani dell’epoca.
- Non può negarsi, tuttavia, che la costruzione avesse, nella sua eleganza formale, un che di
schematico, nel senso che non interpretava appieno la complessa realtà delle cose,
soprattutto per quanto riguardava la vastità e la sostanza economica degli interessi non
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elevati a diritti. Per questo fu contestata dai sostenitori del contenzioso amministrativo, sia
dal punto di vista teorico, sia per le sue conseguenze pratiche.
- In primo luogo si mise in dubbio, ma credo a torto, la distinzione tra diritti e interessi: si
disse trattarsi di una “distinzione assai nominale, e tutt’al più ristretta e relativa” (Serafino Soldi,
avvocato irpino, 10.VI, 5186); si affermò che non fosse una distinzione ben comprensibile:
“non so capire – argomentò Francesco Crispi – “l’esercizio di un diritto privo d’interesse, come non so
capire che possa esistere un interesse senza che vi si leghi un diritto” (10.VI, 5190). Lo stesso Rattazzi
sostenne che non fosse “ancora ben definita la linea che in molti casi separa l’interesse ed il diritto”
(11.VI, 5227), e riteneva, pertanto, che fosse incongruo farvi riferimento. L’avvocato
avellinese Luigi Minervini fu più crudo: esagerando, parlò di “screditata distinzione d’interessi e
diritti; distinzione che non è logica, né legale”; e se la prese con l’avvocato milanese Antonio
Mosca, che aveva cercato di “difenderla con l’autorità dei trattatisti” (14.VI, 5304)
- Fu peraltro ancora Cordova che introdusse l’argomento più nuovo e rilevante, sostenendo
che, accanto ai “veri” diritti, i diritti maggiori, esistevano i “diritti minori”, quelli che “Broglie
pensò di chiamare (…) interessi legittimi, intérêts à apprécier”. Cosa sono, si chiedeva Cordova,
questi interessi ad apprezzare, questi interessi a valutare, “che cosa sono se non diritti? Non vi è
altra differenza fra questi diritti e quelli che sono confidati alla tutela dell’autorità giudiziaria, se non che si
tratta di diritti che sono subordinati alla considerazione dell’utilità pubblica, di diritti minori, diritti
subordinati” (13.VI, 5265). Li chiamo diritti, aggiunse, “perché ogniqualvolta vi è un interesse
legittimo fondato, un interesse a far conseguire giustizia, vi ha un diritto naturale ad ottenerla” (ivi). Si
tratta, com’è evidente, di una significativa anticipazione delle tesi di Ranelletti sul diritto
compresso, poi ridenominato diritto affievolito.
- Questi diritti, che corrispondevano a quelli che Mancini ed altri denominavano
semplicemente interessi, erano subordinati all’utilità pubblica, diremmo oggi al pubblico
interesse; ma anche per loro, sostenevano Cordova e gli altri oppositori della totale
abolizione, occorreva predisporre adeguati mezzi di tutela, perché potesse realizzarsi la
massima di Romagnosi, a cui tutti credevano, di raggiungere “la massima possibile sicurezza ed
utilità pubblica col minore sacrificio possibile della privata proprietà e libertà” (ivi). Pertanto al cittadino
è dovuta “la prova” della “utilità pubblica”, quando l’amministrazione lo voglia privare “del possesso o
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dell’uso intiero della cosa sua”: “avvi quindi un esame di utilità, che modifica il diritto del cittadino, e che è di
suo interesse” (14.VI, 5310).
- A questo punto si virò, pertanto, a considerare le conseguenze pratiche della distinzione tra
diritti ed interessi: e ci si chiese perché ai primi si assicurava la tutela giurisdizionale e ai
secondi non si assicurava alcuna tutela contenziosa. Perché, si disse, non lasciare il sistema
del contenzioso amministrativo almeno per le controversie sugli interessi, considerati dal
Cordova diritti minori? Si chiedeva Rattazzi se fosse “meglio permettere che provvedano gli
amministratori in via gerarchica a porte chiuse, senza sentire coloro che sono interessati, o non piuttosto
circondare i reclami, che possono sorgere, di quelle più grandi e necessarie cautele che presentano la pubblica
discussione, ed i giudici che decidono collegialmente” (11.VI, 5230). E Cordova aggiungeva: “c’è una
parte viva, ed è grandissima, ed è precisamente quella parte che concerne l’esame dell’opportunità, della
necessità che colpisce gli interessi, quelli che io chiamo diritti subordinati, la quale non dev’essere sfornita
delle garanzie del contenzioso amministrativo” (13.VI, 5267). E si chiedeva: “chi sarà che pronunzierà sopra la
questione di utilità?”, rispondendosi: “non può essere nessun altro che l’autorità amministrativa” (14.VI,
5310). A sua volta l’avvocato pavese Pietro Mazza insisteva: “anche trattandosi di meri interessi,
siccome si possono trovare interessi gravissimi sì di comuni, sì di altri corpi morali e sì di privati, i quali
abbiano una grandissima importanza (…), io non vedo veramente perché con un tratto di penna si sia voluto
sopprimere il tribunale amministrativo quanto al giudizio dei reclami su quest’ordine di interessi” (15.VI,
5363).
- A queste perplessità fa eco l’autorevole voce di Massimo Severo Giannini, che, quasi un
secolo e mezzo dopo, “a mente rasserenata”, considerava “misterioso” e “incomprensibile come i pur
validi giuristi del 1865 non si siano resi conto che il ricostituito omaggio al giudice ordinario della legge
sull’«abolizione» del contenzioso amministrativo significava lasciare senza giudice oltre metà delle possibili
controversie contro l’amministrazione pubblica” (Ha un futuro la nozione d’interesse legittimo?,
(1993) ora in Scritti, vol. IX, Milano, 2006, 286).
- Mancini stesso riconosceva l’esistenza di “interessi ragionevoli, rispettabili, legittimi nell’ordine delle
convenienze e delle utilità private e sociali”, che potevano essere pregiudicati dall’amministrazione
nell’esercizio della sua missione mirante alla soddisfazione dell’interesse pubblico; ma,
siccome tali interessi non risultavano “assicurati da una legge che li innalzi al grado di diritti e crei in
loro favore una azione esperibile in giudizio” (13.VI, 5270), non potevano che essere lasciati alla
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discrezione dell’amministrazione. Era la logica stessa della riforma, la ferrea interpretazione
del principio della separazione dei poteri, che impediva altra soluzione.
- Possiamo domandarci se Mancini, e con lui tutti coloro che approvarono l’abolizione del
contenzioso amministrativo, fossero realmente così ciechi, o così insensibili, nei confronti
del problema che, con l’abolizione del sistema del contenzioso, veniva a determinarsi: la
riduzione delle garanzie per gli “affari” (art. 3), nei quali non “si faccia questione d’un
diritto civile o politico”. La risposta, almeno per quanto riguarda Mancini è a suo favore: lo
scagiona dalla pesante contestazione.
- Vi sono, in proposito, tre argomenti da considerare. Il primo è che Mancini era pienamente
convinto che, aboliti i Tribunali del contenzioso amministrativo, tutte le controversie di loro
competenza sarebbero passate, in blocco, al giudice: “abbiamo diligentemente procurato – si legge
nel suo primo discorso – e confidiamo che per effetto di questa legge nessuna parte di tali materie [quelle già
affidate al contenzioso amministrativo] (salve alcune eccezioni espressamente dichiarate) passerà nell’assoluta
balìa della pura amministrazione, e rimarrà spogliata anche di quelle imperfette garanzie che oggi la
circondano” (9.VI, 5158). Questa, se non era una convinzione pienamente esatta, non era
nemmeno totalmente infondata: nello stesso dibattito sulla legge abolitrice alcuni
intervenienti sottolinearono che i Tribunali amministrativi, dove più dove meno nelle
diverse province del Regno, si dichiaravano incompetenti quando nelle deduzioni del
ricorrente non ravvisavano la lesione di diritti soggettivi o la violazione di specifiche
disposizioni di legge.
- Se, in seguito, l’applicazione delle disposizioni della legge abolitiva dimostrò il contrario, in
larga parte dipese da una restrittiva, ma restrittiva fino alla loro sostanziale violazione, di
quelle disposizioni. Ad esempio non si tenne adeguato conto della disposizione che
consentiva al giudice di trattare e decidere le cause, anche se fossero stati “emanati
provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa” (art. 2). Gli atti
amministrativi, tutti, senza distinzione, ad esempio tra atti d’impero e atti di gestione,
potevano (anzi: dovevano), in base alla legge, essere conosciuti dal giudice, il quale non
aveva il potere di revocarli o modificarli, ma poteva eliminarne gli effetti pregiudizievoli per
i titolari di diritti.
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- C’è un secondo argomento: alla tutela degli interessi veniva chiamata l’amministrazione
“pura”, ma si dettavano regole precise per l’esercizio dei suoi poteri: “ l’autorità amministrativa
provvede circondata da parecchie garanzie, cioè con decreto motivato, ammesse le deduzioni degli interessati,
ed uditi que’ Consigli amministrativi che le leggi rispettive, regolatrici de’ vari rami dell’amministrazione, ne’
diversi casi abbiano stabilito o saranno per stabilire” (13.VI, 5274). In effetti l’art. 3 della legge del
1865 stabilisce chiaramente che le autorità amministrative “provvederanno con decreti
motivati”, “ammesse le deduzioni e le osservazioni in iscritto delle parti interessate” e
“previo parere dei consigli amministrativi che pei diversi casi siano dalla legge stabiliti”.
- Tuttociò, si badi, prima dell’adozione del provvedimento che potesse ledere gli interessi,
ossia nel corso di ciò che sarà in seguito, decenni dopo, chiamato procedimento
amministrativo; prima ed a prescindere dall’eventuale, e comunque successivo, ricorso
gerarchico. Mancini e i suoi colleghi avevano preordinato, sia pure in bozzo, la
partecipazione degli interessati alle decisioni amministrative: la tutela degli interessi veniva
anticipata rispetto alla decisione dell’amministrazione, senza aspettare di doverla impugnare
dinanzi agli organi del contenzioso amministrativo. Essi avevano preconizzato ciò che si
realizzerà solo con la legge sul procedimento, nel 1990.
- Se le disposizioni allora dettate non furono poi attuate nella pratica amministrativa, non se
ne può ritenere responsabili i legislatori di allora.
- In terzo luogo, Mancini riteneva che non fosse la legge sull’abolizione del contenzioso
amministrativo la sede adatta per disciplinare a dovere il modo di esercizio delle funzioni
amministrative: “non è questa – osservò – la legge in cui dobbiamo e possiamo occuparci delle garantìe
dell’esercizio dell’amministrazione pura; aspettiamo che venga in discussione la legge sull’amministrazione
comunale e provinciale, e che si propongano più tardi leggi regolatrici degli svariati rami speciali
dell’amministrazione. Ivi determineremo quali esser dovranno i modi di esercizio delle funzioni puramente
amministrative; e se si troverà che i prefetti ed i ministri, prima di emanare provvedimenti nelle materie di
competenza dell’amministrazione, debbano chiamare a contraddittorio le parti, elevare una specie di tribunale
e forse anche discutere pubblicamente, e col sussidio di un voto collegiale; allora chi vorrà anche in materie
simili limitare, almeno con mezzo indiretto, i poteri dell’amministrazione”, potrà fare le sue proposte: “la
Camera vedrà allora se un’amministrazione veramente libera ed idonea ad operare il bene sia possibile con
forme somiglianti; deciderà soprattutto intorno al problema, a mio avviso insolubile, della conciliazione della
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libertà e della responsabilità dell’amministrazione (…) con l’obbligo che allo stesso amministratore volesse
imporsi di sottostare necessariamente alla decisione di altre autorità che debba consultare” (13.VI, 5274).
- Si può, in definitiva, essere certi che Mancini il problema di una efficace tutela degli
interessi, che non assurgevano alla dignità di diritti, se lo pose e ritenne di averlo
adeguatamente risolto. Anche se, occorre riconoscerlo, la soluzione, idonea forse in teoria, si
mostrò inefficace in pratica.
- L’obiettivo dichiaratamente perseguito da Mancini e dalla Commissione era di tutelare
pienamente i diritti dei cittadini e, contemporaneamente, garantire che l’amministrazione
potesse agire in piena “libertà” nell’assolvimento dei suoi compiti. Per questo secondo
scopo, per “garantire l’indipendenza dell’autorità amministrativa”, “per evitare il pericolo di ogni eccesso
ed invasione” da parte dei giudici, furono adottate alcune misure, che Mancini denomina
“cautele”: 1°, il divieto per il giudice di eliminazione dell’atto amministrativo, che Mancini
intende, correttamente, come divieto di “pronunciare sul merito degli atti amministrativi”; 2°, la
possibilità di elevare conflitti di attribuzione, lasciandone la soluzione al Consiglio di Stato,
organo allora schiettamente amministrativo, con membri non inamovibili; 3°, la possibilità
per l’amministrazione di esecuzione, “a titolo d’urgenza, dell’atto o dell’opera amministrativa anche
durante il giudizio, salvi i diritti delle parti al suo esito definitivo”.
- A queste cautele se ne aggiunsero altre in materia di imposte: la esclusione della competenza
dei Tribunali ordinari, e, quindi, della tutela giurisdizionale, per le cause di estimo; la
previsione generalizzata della regola del solve et repete.
- Il dato più rilevante, che Mancini non nascose, ma nemmeno sottolineò, attiene alla
struttura della controversia, per come doveva essere presentata al giudice: essa non
riguardava l’atto amministrativo, in sé considerato, bensì soltanto i suoi effetti, se fossero
lesivi, in violazione della legge, del diritto dell’attore. L’atto, come tale, rimaneva fuori dal
perimetro della materia del contendere: il giudice non solo non poteva conoscerne il merito,
ma poteva sindacarne la legittimità solo in via incidentale, al fine di disapplicarlo.
- Questa limitazione dei poteri di cognizione e di decisione del giudice ha portato la dottrina a
dare una valutazione non pienamente positiva della legge. Molti commentatori, antichi e
moderni hanno stigmatizzato tale limitazione, soprattutto dopo che il principio della
separazione dei poteri è stato interpretato in modo meno rigido.
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- Molti decenni dopo l’approvazione della legge abolitiva, uno studioso di grande
autorevolezza, Feliciano Benvenuti (Per un diritto amministrativo paritario, (1975), ora in
Scritti giuridici, IV, Milano, 2006, 3224-3225), scriveva che la legge del 1865, “che sembra a
noi oggi il principio del riconoscimento della posizione del cittadino nei confronti dell’amministrazione ma
che fu, al contrario, la riaffermazione della indipendenza dell’amministrazione di fronte al giudice”.
Effettivamente la limitazione dei poteri giurisdizionali, insieme alle numerose “cautele”,
mettono in luce ciò che, d’altronde, non venne affatto nascosto, ossia che si cercò di non
compromettere la “libertà” dell’amministrazione: si mise molta attenzione per fare in modo
che il giudice non potesse interferire con il “libero” esercizio dei poteri amministrativi.
Tuttavia la garanzia della indipendenza dell’amministrazione non era (o non apparve) in
contrasto con la garanzia della tutela dei diritti dei cittadini, che i legislatori ritennero di
rendere effettiva mediane la sua devoluzione a giudici indipendenti ed imparziali.
- Un altro appunto è stato mosso alla legge, ed è che l’obiettivo della unità della giurisdizione
non fu raggiunto. Osservò Antonio Salandra (381), all’inizio del XX secolo, che rimase
aperta la strada per “un novello contenzioso amministrativo; e ciò per opera di una generica disposizione
della stessa legge abolitiva”: il riferimento è all’art. 12 della legge, che lasciava sopravvivere,
non solo la giurisdizione della Corte dei conti, ma anche “le attribuzioni contenziose di altri
corpi e collegi derivanti da leggi speciali”. Si pensi, ad esempio, al contenzioso elettorale,
che riguardava (e riguarda) uno dei più significativi diritti politici. Il numero dei “corpi
contenziosi” andò anzi aumentando, come si ricava dall’allegato alla relazione Costa sul
progetto di legge Crispi del 1887 sulla modificazione alla legge sul Consiglio di Stato. Da
qui il giudizio di Salandra: “le audacie teoriche degli stessi propugnatori della riforma si spuntarono o si
stancarono di fronte alle necessità pratiche della formulazione legislativa: in parte furono infrenate dalle
esigenze dell’amministrazione che si veniva in quel tempo costituendo e che – com’è naturale negli Stati nuovi
– ripugnava ad assoggettare l’energia dell’azione sua a forme ed a freni ad essa estrinseci. In parte
l’incremento stesso, straordinario in quel tempo di formazione dello Stato, della materia delle controversie
amministrative, imponendo la necessità di giudizi tecnici e possibilmente rapidi e semplici, generava una
tendenza verso le giurisdizioni speciali (…), non meno efficace in realtà della tendenza verso la giurisdizione
unica professata dalla grande maggioranza dei giureconsulti liberali”.
- Bisogna, tuttavia, considerare che i legislatori del 1865 non si posero affatto l’obiettivo di
eliminare tutti i giudici speciali (o gli organi contenziosi) allora operativi. Intesero
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affermare un diverso principio, ossia che la tutela dei diritti, sia che fossero vantati nei
confronti di privati cittadini, sia che lo fossero nei confronti delle autorità amministrative,
dovevano essere tutelati da un solo ordine giudiziario: questo vollero e questo ottennero.
- Non è fortunatamente questa la sede per valutare la legge abolitiva del contenzioso
amministrativo. Tuttavia va riconosciuto che, nella discussione che ha preceduto la sua
approvazione da parte della Camera, sono emersi tutti i problemi che affaticheranno nei
decenni successivi teorici e pratici: ad esempio, gli atti amministrativi, la loro esecutività e
le loro specie (in particolare, atti d’impero e di gestione); l’oggetto e i limiti del sindacato da
parte del giudice (violazione di legge o anche sindacato sulla necessità e utilità degli atti
lesivi di interessi, ossia eccesso di potere); la eliminazione dell’atto illegittimo sopravvissuto
(anche se disapplicato) alla sentenza, e il modo di ottenerla nel caso in cui l’amministrazione
non intendesse conformarsi al giudicato dei Tribunali (il giudizio di ottemperanza); più
rilevante di tutti, il modo per assicurare tutela agli interessi non elevati a diritti (donde la
istituzione della Sezione per la giustizia amministrativa presso il Consiglio di Stato).
- Non solo: si stabilì con chiarezza che il potere amministrativo, anzi il potere esecutivo, era
soggetto alla legge; e i suoi atti potevano essere portati ad effetto soltanto se conformi alle
disposizioni di legge: si realizzava il principio fondamentale dello Stato di diritto; ed erano
tempi in cui le prassi del Governo e dell’amministrazione non si erano ancora assuefatte
all’idea, ed interpretavano il principio di legalità nel senso che la legge poteva sì porre limiti
all’esercizio del potere, ma laddove tali limiti non ci fossero, l’amministrazione restava
“libera” di operare.
- Si aggiunga (e non è da sottovalutare) che si tratta di una legge che, insieme alla successiva
legge Crispi del 1889, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, fu oggetto di
particolare considerazione in Assemblea costituente, che la mantenne in vigore ed anzi la
pose alla base del sistema costituzionale delle tutele nei confronti dell’amministrazione.
- Si chiede di recente Fabio Merusi (Consiglio di Stato (all. D) e abolizione del contenzioso
(all.E), in Storia amministrazione Costituzione, Bologna, 2015, 225 ss.) se la soluzione
tenacemente voluta dal liberali del 1865 sia veramente stata una conquista liberale; e
rammenta che la devoluzione della tutela dei diritti dei “particolari” agli organi
giurisdizionali era stata raccomandata, per il Ducato di Parma, da Francesco I, Imperatore
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d’Austria, che di certo non poteva considerarsi un propugnatore di idee liberali progressiste.
Nelle intenzioni dei legislatori del 1865, tuttavia, la soluzione che fecero trionfare era
consapevolmente diretta alla migliore tutela dei diritti soggettivi; e questo, data l’epoca, fu
certamente un fatto rivoluzionario di stampo autenticamente liberale.
- Restando al tema, che concerne l’apporto di Mancini alla riforma della giustizia
amministrativa, a parte la sua fede incrollabile nelle idee del c.d. costituzionalismo liberale,
e nel principio, rigorosamente inteso, della separazione dei poteri, non messa in dubbio da
alcuno, bisogna considerare che egli, di fronte al modo in cui la legge venne in seguito
concretamente applicata, pur essendone stato uno strenuo sostenitore, si rese presto conto
che essa non aveva centrato gli obiettivi per i quali egli l’aveva così validamente sostenuta.
Ed è questa, io credo, la ragione, o almeno una tra le ragioni principali, per la quale egli si
votò, con particolare sollecitudine e particolare impegno, in sede scientifica e parlamentare,
alla modifica della legge sui conflitti di attribuzione; la quale fu approvata, nel 1877, quando
egli era Ministro di grazia e giustizia e dei culti nel primo Governo De Pretis. Sperava che,
affidando la soluzione dei conflitti alla Corte di cassazione romana, a Sezioni Unite, ossia al
massimo organo giurisdizionale, togliendola al Consiglio di Stato, organo autorevolissimo
ma amministrativo, l’orientamento molto timido seguito per l’innanzi dai giudici (ordinari)
sarebbe potuto diventare più rigoroso. Non fu così: le convinzioni dei giureconsulti teorici e
pratici dell’epoca non lo consentirono.
- Questo non sminuisce certo l’impegno costante che Mancini dette alla affermazione in
concreto delle idee del liberalismo riformista, e non può far dimenticare che, comunque, egli
fu uno dei principali artefici di una legge che resta in vigore ancora oggi, dopo oltre un
secolo e mezzo. Nella relazione del 16 giugno 1875 sul progetto di legge sui conflitti, da lui
presentato, Mancini scriveva: “lo Stato moderno non può ammettere che una sovranità, una giustizia a
tutti comune e perciò una giurisdizione moderatrice di tutti gli altri poteri, limite ed impedimento insuperabile
ad ogni eccesso di autorità”. Ѐ questo, io credo, il suo testamento di ordine costituzionale.
- A conclusione, prendo a prestito il giudizio di Salandra (421) sul valore dell’opera di
Mancini per la giustizia amministrativa: Pasquale Stanislao Mancini fu “il più illustre fra i
moderni giuristi italiani della scuola liberale ed il più valido propugnatore tanto della riforma del 1865, quanto
16
di quella del 1877”. Approssimandosi, il 17 marzo, il doppio centenario dalla nascita, questo
giudizio rimane pienamente valido.
Palazzo Spada, sala Pompeo, 6 febbraio 2017.
Franco Gaetano Scoca
Professore emerito di diritto amministrativo nell'Università La Sapienza di Roma
Pubblicato il 13 febbraio 2017
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