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Cooperazione ed Economia dello Sviluppo Parte prima L’economia dello sviluppo Capitolo 1 Lo sviluppo ....................................... Pag. 8 1. Introduzione all’economia dello sviluppo: oggetto di studio ed origini. - 2. Lo “sviluppo” nella storia del pensiero economico. - 3. Crescita economica e sviluppo. - 4. Significato del termine sviluppo e sue principali accezioni. - 5. Sviluppo economico degli anni Duemila e successiva crisi mondiale. Capitolo 2 Il sottosviluppo ............................ Pag. 22 1. Le origini storiche del sottosviluppo. - 2. Il sottosviluppo nell’era del capitalismo. - 3. Le caratteristiche dei Paesi sottosviluppati. - 4. Sottosviluppo: uno sguardo al presente. Capitolo 3 Le teorie economiche dello sviluppo ..... Pag. 33 1. Introduzione: i paradigmi di crescita. - 2. Il modello di crescita di Harrod e Domar. - 3. Critiche al modello di crescita di Harrod e Domar. - 4. Il modello di Lewis. - 5. Limiti del modello di Lewis. - 6. Le teorie della dipendenza. - 7. Le teorie neoclassiche: il modello di Solow. - 8. La recente teoria dello sviluppo e della crescita endogena. Capitolo 4 Le variabili dello sviluppo ............. Pag. 50 1. Quadro generale dei fattori di sviluppo. - 2. La crescita demografica e la trappola malthusiana. - 3. Il pro- gresso tecnico. - 4. Il capitale umano. - 5. Il commercio internazionale. - 6. La distribuzione del reddito. - 7. Le istituzioni.

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Cooperazioneed Economia

dello Sviluppo

Parte primaL’economia dello sviluppo

Capitolo 1 Lo sviluppo ....................................... Pag. 8

1. Introduzione all’economia dello sviluppo: oggetto di studio ed origini. - 2. Lo “sviluppo” nella storia del pensiero economico. - 3. Crescita economica e sviluppo. - 4. Significato del termine sviluppo e sue principali accezioni. - 5. Sviluppo economico degli anni Duemila e successiva crisi mondiale.

Capitolo 2 Il sottosviluppo ............................ Pag. 22

1. Le origini storiche del sottosviluppo. - 2. Il sottosviluppo nell’era del capitalismo. - 3. Le caratteristiche dei Paesi sottosviluppati. - 4. Sottosviluppo: uno sguardo al presente.

Capitolo 3 Le teorie economiche dello sviluppo ..... Pag. 33

1. Introduzione: i paradigmi di crescita. - 2. Il modello di crescita di Harrod e Domar. - 3. Critiche al modello di crescita di Harrod e Domar. - 4. Il modello di Lewis. - 5. Limiti del modello di Lewis. - 6. Le teorie della dipendenza. - 7. Le teorie neoclassiche: il modello di Solow. - 8. La recente teoria dello sviluppo e della crescita endogena.

Capitolo 4 Le variabili dello sviluppo ............. Pag. 50

1. Quadro generale dei fattori di sviluppo. - 2. La crescita demografica e la trappola malthusiana. - 3. Il pro-gresso tecnico. - 4. Il capitale umano. - 5. Il commercio internazionale. - 6. La distribuzione del reddito. - 7. Le istituzioni.

Parte prima L’economia dello sviluppo

Capitolo 1 Lo sviluppoSommario 1. Introduzione all’economia dello sviluppo: oggetto di studio ed origini.

- 2. Lo “sviluppo” nella storia del pensiero economico. - 3. Crescita economica e sviluppo. - 4. Significato del termine “sviluppo” e sue principali accezioni. - 5. Sviluppo economico degli anni Duemila e suc-cessiva crisi mondiale.

1. Introduzione all’economia dello sviluppo: oggetto di studio ed origini

A) Concetto

L’economiadellosviluppo, nata come ramo dell’economia politica, poi affermatasi come disciplina autonoma, hacomeoggettodistudioleeconomiemenosviluppate, analizzando in particolare la loro evoluzione e trasformazione nonché gli squilibriesistenti tra queste e le economie più avanzate.Tale settore di studi, partendo da un’analisi empirica dei fattori che determinano il processo di sviluppo, si sofferma sui meccanismi economici, sociali, politici ed istitu-zionali (sia pubblici che privati) che ne sono alla base e mira all’elaborazionediteo-rieemodelliimprontatialladeterminazionedipoliticheepraticheche, a livello nazionale ed internazionale, possanoconsentireilpassaggiodaunacondizionedisottosviluppoadunadisviluppo per un conseguente miglioramento degli standard di vita delle popolazioni del cd. “TerzoMondo” (1).Gli economisti dello sviluppo ricorrono, per le loro ricerche, a metodi matematici propri dell’economia classica (quantitativi e qualitativi) senza, però, trascurare l’im-patto dei fattori sociali e politici. Per questo motivo l’economia dello sviluppo è inqua-drata nella più ampia categoria di discipline che compongono i “DevelopmentStudies”.

B) Sviluppo storico

La povertà diffusa e il divario tra ricchi e poveri rappresenta un problema politico di ogni tempo: il sistema tributario dell’antica Roma prevedeva che una parte delle en-trate fosse destinata al mantenimento della plebe; l’Inghilterra del Settecento tutelava

(1)  L’espressione «Terzo Mondo» è stata coniata nel 1952 dall’economista e sociologo francese Alfred Sauvy per riferirsi ai Paesi meno sviluppati parafrasando l’espressione «Terzo Stato» utilizzata dall’abate Emmanuel Joseph Sieyès in occasione della Rivoluzione francese (1789); quest’ultima faceva riferimento al ceto dei bor-ghesi, degli operai e dei contadini nell’Ancien Régime, ossia a quegli strati sociali che, pur costituendo la quasi totalità della popolazione, vedevano riconoscersi un peso politico pressoché ininfluente nella Francia prerivolu-zionaria, dominata dai due ceti del clero e della nobiltà.

Edizioni Simone - Vol.44/7 Compendio di Cooperazione ed Economia dello Sviluppo

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anche i ceti più poveri, così come le politiche sociali attuate nella seconda metà dell’Ot-tocento dalla Germania bismarckiana; il più antico concetto di solidarietà sviluppato da tutte le grandi religioni è direttamente collegabile al dovere morale di aiutare gli individui e i gruppi sociali meno fortunati.Sebbene, quindi, la consapevolezza dell’esistenza di individui, comunità e popoli ricchi e poveri non sia sorta nell’età contemporanea, solodopolasecondaguerramondia-le(1945)l’economiadellosviluppohaassuntoicaratteridiautonomadisciplina.Con l’inizio del processo di decolonizzazione e in seguito all’adesione dei nuovi Stati alle Organizzazioni internazionali, infatti, si è accentuato il divario tra pochi Paesi ricchi e il resto del mondo e sono emerse, con maggior evidenza, le problemati-che connesse all’attuale “gap” mondiale.Nella seconda metà degli anni Quaranta e Cinquanta del XX secolo si sono diffusi i concetti di “sviluppo”e“sottosviluppo” così che la disciplina ha assunto importanza crescente con l’aspirazione di influenzare le politiche di sviluppo nazionali ed interna-zionali.Tale aspirazione, in realtà, non si è tradotta in risultati concreti di rilievo: dopo il primo decennio degli anni Duemila fare il punto delle politiche mondiali e dei risultati che ha importato il processo di “sviluppo” porta a conclusioni deludenti… i poveri in tutto il mondo sono sensibilmente aumentati ed è emersa chiara la prevalente matrice politica alla base delle varie iniziative intraprese in questo settore, a dispetto delle intenzioni solidali e di crescita globale emerse già dal secondo dopoguerra.

2. Lo “sviluppo” nella storia del pensiero economico

A) Introduzione

Prima dell’affermazione dell’“economiadellosviluppo” come disciplina autonoma, le problematiche legate allo sviluppo e alle sue cause non sono stati del tutto ignorate dagli economisti.AdamSmith, che con la pubblicazione dell’Indagine sopra la natura e le cause della ricchezza delle Nazioni (1776), è considerato il padre della moderna teoria economica, affronta il tema dello sviluppo introducendo argomentazioni ancora attuali e tenute presenti dai moderni studiosi.Lo stesso interesse si riscontra in altri economisticlassici come RicardoeMalthus; solo con l’affermazione del paradigmaneoclassico l’attenzione alle problematiche connesse allo sviluppo va scemando.Nel corso degli anni cambia il significato che si dà allo sviluppo (e, di conseguenza anche ai fattori che lo determinano) dal momento che per lungo tempo esso viene identificato e confuso con il fenomeno della crescitaeconomica e con la sola cresci-tadelProdottoNazionaleLordo(PNL). Questa identificazione tra i due concetti (sviluppo = crescita economica) è oggi da considerarsi semplicistica e, comunque, superata.

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Diamo di seguito un excursus nella storia del pensiero economico in relazione all’evo-luzione del concetto di sviluppo.

B) Gli economisti classici (Smith, Malthus e Ricardo)

Gli economisti classici concentrano la propria analisi sui meccanismi di produzione, incremento e distribuzione della ricchezza delle nazioni partendo dalla considerazione che ogni società è divisa in classi e che ladimensionestorica,socialeedistituziona-lenonèseparabiledaquellaeconomica. L’attenzione degli studiosi è, così, concen-trata non sul singolo individuo, ma sulla classe o categoria economica di appartenenza.

Secondo AdamSmith (1723-1790), lo sviluppo trova il suo fondamento nella divi-sionedellavoro, che si distingue in produttivo ed improduttivo.Il lavoro manifatturiero, “che aggiunge valore a quello della materia cui è applicato”, è da considerarsi produttivo. Il lavoro svolto da altre categorie di prestatori come, ad esempio, domestici, impiegati pubblici, professionisti, “che non si fissa in un oggetto”, è, al contrario, da considerarsi improduttivo.Secondo lo studioso scozzese mentre i lavoratori spendono il loro salario per la sus-sistenza e le rendite dei proprietari terrieri vengono utilizzate sia per il sostentamento che per l’acquisto di beni di lusso, sono esclusivamente gli imprenditoricapitalisti che, dopo aver soddisfatto i loro bisogni economici, investono il restante sovrappiù in nuove attività che portano ad impiegare lavoratori produttivi, innescando così un processo di crescita globale. In altre parole, l’ipotesi sviluppata dall’autore è che l’ac-cumulazione del capitale sia condizionata dalla preferenza per il risparmio che con-traddistingue le classi ricche, in particolare quella imprenditoriale. Il capitale, infatti, non solo permette di accrescere la produttività del lavoro, ma anche di aumentare il numero di lavoratori produttivi facilitando il progresso e l’aumento della produzione nazionale.La divisione del lavoro (2), tipica dei sistemi produttivi avanzati, accresce sia la pro-duttività del lavoro stesso, riducendo i costi di produzione, sia il volume complessivo dei profitti, degli investimenti, della domanda e dei salari. Si innesca in tal modo un circolo virtuoso di crescita che conduce all’arricchimento di un Paese.Smith rispetto ai suoi predecessori rappresenta un grande innovatore perché per la prima volta considera la ricchezza di un Paese in termini di prodotto pro capite e non di ricchezza del sovrano o di prodotto aggregato, individuando quali fattori di crescita (ritenuti tali anche dalla successive teorie economiche):

—  l’impiego del capitale risparmiato nell’occupazione di lavoratori produttivi;—  il capitale umano;—  il progresso tecnico.

(2)  È data dalla specializzazione del lavoratore in una particolare fase del processo produttivo: quanto più una operazione viene scissa nelle sue componenti elementari affidate ai singoli operai, tanto più il lavoratore prepo-sto diviene esperto, specializzato e rapido abbassando, così, i costi di produzione. Da tale assioma successi-vamente è nato il sistema della “catena di montaggio” introdotto nelle moderne industrie da Henry Ford.

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In una visione ottimistica del futuro, nella sua monumentale opera Indagine sopra la natura e le cause della ricchezza delle Nazioni Smith postula che l’ampliamento del mercato internazionale determini anche lo sviluppo dei popoli precedentemente oggetto di sfruttamento da parte dei ricchi Paesi europei. Smith, dunque, sebbene sia sostenitore del libero mercato, non nega l’importan-za dell’intervento delle istituzioni nel processo di sviluppo.

Come Smith anche Malthus (1766-1834) nel Saggio sul principio della popolazione (1798) fonda i suoi studi sul convincimento circa il poteredelleistituzioninel deter-minare la crescita di un Paese.La visione di Malthus però è più pessimistica: gli investimenti, sostenuti dall’accumu-lazione degli imprenditori, generano inizialmente una crescita della produzione che induce sì ad un incremento della domanda di lavoro e, di conseguenza, ad un aumento dei salari, ma tale maggiore disponibilità economica dei lavoratori innesca un proces-so di crescitademografica a cui segue un innalzamento del prezzo dei beni necessari che fanno diminuire il potere d’acquisto reale del salario.La miseria degli strati sociali più deboli deriverebbe, pertanto, dal fatto che la popola-zione tende ad aumentare più rapidamente dei mezzi di sussistenza, ossia da un livel-lo di produzione insufficiente rispetto alla domanda.Uno dei rimedi suggeriti da Malthus era quello di favorire, soprattutto fra i poveri, una limitazione volontaria delle nascite.

Un altro economista classico che apporta un notevole contributo alle moderne teorie dello sviluppo è David Ricardo (1772-1823). L’autore londinese ritiene nella sua opera più famosa Principi dell’economia politica e della tassazione (1817) che la di-stribuzionedelreddito tra capitalisti, lavoratori e proprietari terrieri ha conseguenze importanti per lo sviluppo di un Paese. La crescita dipende dall’accumulazionedicapitale, determinato, a sua volta, dal livello di profitto dei capitalisti e dalle inciden-ze delle imposte su di esso.Come nell’analisi smithiana, infatti, anche in quella ricardiana gli imprenditori costi-tuiscono il motore dell’economia in quanto reinvestono i loro profitti per creare ulte-riore ricchezza, mentre la parte di reddito nazionale spettante ai lavoratori è fissata al salario di sussistenza e i redditieri spendono completamente quello che percepiscono in consumi improduttivi.Il profitto, in particolare, è rappresentato dal redditototalemenolerenditeedisalari.Nel corso del processo di sviluppo con l’aumentare della popolazione cresce la do-manda di beni alimentari. Una domanda crescente, in una società chiusa, cioè non aperta al commercio con l’estero, può essere soddisfatta solo mettendo a coltivazione terre progressivamente meno fertili e/o più lontane dai mercati, con la conseguenza che su tali terreni il rapporto produzione/materie prime impiegate risulta più oneroso.La concorrenza tra gli imprenditori agricoli (fittavoli) per accaparrarsi le terre miglio-ri dapprima genera e poi fa aumentare le rendite da corrispondere ai proprietari terrie-ri. In sostanza, la messa a coltura di terre sempre meno fertili provoca un continuo aumento delle rendite (cd. rendite ricardiane) che, muovendosi in contrapposizione ai

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profitti dei fittavoli, ostacolano la crescita economica portando il sistema economico ad un livello stazionario.Da quanto appena detto si comprende anche la posizione di Ricardo contro i dazi posti sui beni agricoli e la sua idea che l’importazione di cereali stranieri costituisse un sistema sicuro per an-nullare gli effetti, poc’anzi descritti, relativi alla crescita della popolazione.

C) La teoria marxista

Più complessa ed articolata è la teoria economica di Marx (1818-1883) che, ponendo-si in posizione critica nei confronti degli altri economisti classici, condivide con essi il concetto di “sovrappiù”. Il filosofo di Treviri concentra la sua attenzione sullo svi-luppo di una determinata modalità di produzione che influenza l’intera organizzazione della società e dell’economia e sulla quale si fonda il cd. “sistemacapitalistico”.Anche Karl Marx ritiene che la società sia divisa in classi e che le mutazioni socio-economiche derivino da una costante conflittualità tra le stesse (la cd. lotta di classe): secondo Marx, se una classe sociale assume un ruolo dominante, un’altra, portatrice di interessi di natura opposta, ne insidierà il potere fino a diventare essa stessa classe dominante e ad avere, a sua volta, una classe emergente come propria antagonista.Nel momento storico in cui Marx elabora le sue argomentazioni la classe dominante è quella dei capitalistiindustriali, titolari dei mezzi di produzione, a cui si contrappone quella dei proletari, che dispongono solo della propria forza-lavoro (ossia della capa-cità di lavorare).I capitalisti investono il proprio capitale nella produzione di beni, corrispondendo un sa-lario ai proletari; il valore delle merci è dato dal lavoro impiegato per la loro produzione, ma in realtà esse vengono vendute ad un prezzo maggiore rispetto ai salari pagati affinché il capitalista possa trarne un profitto: la differenza tra il salario e il prezzo della merce, che Marx chiama plusvalore, è dunque lucrata dall’imprenditore, e costituisce l’aspetto più evidente dello sfruttamento dei lavoratori che caratterizza il sistema capitalistico.Marx individua, rispetto ai suoi predecessori, altri fattori di sviluppo dell’economia capitalista quali il progressoscientifico, la moneta e il commerciointernazionale.Come Smith, non ignora il divario tra i Paesi industrializzati e quelli colonizzati, ma ritiene che il colonialismo, malgrado tutto, debba essere considerato necessario, anzi fattore storicamente e temporaneamente indispensabile di crescita economica, in gra-do di innescare nelle economie arcaiche tecniche produttive più avanzate.

D) I neoclassici, Schumpeter e Keynes

Alla fine del XIX secolo, con l’affermazione delle teorie economiche neoclassiche, lo studio dello sviluppo e delle problematiche ad esso legate assume scarso rilievo.Tratti comuni alla scuolaneoclassicasono l’individualismometodologico, ossia la convinzione che i fenomeni economici siano sempre riconducibili alle sceltedegliindividui(l’attenzione non è più concentrata, dunque, sulle classi sociali), e il nuovo principio secondo cui ilvalorediunprodottonon è legato alla quantità di lavoro in

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esso incorporato, come avevano affermato i classici, né risiede solo nell’utilità attri-buita dal consumatore all’ultima unità acquistata o consumata (cd. utilità marginale), come sostenuto dai marginalisti, ma dipende contemporaneamentedal costodiproduzioneedall’utilitàche i consumatori gli attribuiscono.Per i neoclassici le istituzioni, i rapporti sociali e il contesto storico non influenzano l’economia, in relazione alla quale è così possibile formulare leggi e teorie universali, valide cioè oltre il tempo e lo spazio.Non crede, invece, nell’esistenza di leggi esatte e immutabili JosephSchumpeter (1883-1950), che rappresenta una figura ibrida nel panorama delle scienze economiche e sociali. Discostandosi dai neoclassici, Schumpeter affronta il problema dello svilup-ponella sua Teoria dello sviluppo economico, ritenendolo un elemento tipico del processo economico capitalistico e affermando che esso non è semplice crescitaeconomica,matrasformazioneprofondadelsistema, che investe anche le scelte del singolo, i rapporti sociali e i metodi di produzione.Fondamentali per lo sviluppo sono le figure carismatiche del produttore-innovatore, ossia di colui che è capace di introdurre innovazioni tecnologiche nel processo produt-tivo, e del banchiere, che con altrettanto intuito e senso di lungimiranza ha il compito di selezionare, tra tutte le richieste di finanziamenti, quelle riferite a innovazioni mag-giormente improntate al successo.Le precedenti teorie vengono parzialmente superate, a partire dalla prima metà del XX secolo, dal pensiero di JohnMaynard Keynes (1883-1946) che, seppure nelle sue opere principali non si occupi direttamente di sviluppo, risulta determinante per il contributo dato alla nascita di questo moderno ramo dell’economia.Gli investimenti, che egli ritiene importanti per la crescitadelredditonazionale, dai suoi successori saranno considerati determinanti per innescare o sostenere il processo di sviluppo anche dei Paesi arretrati.Allo stesso modo l’insuperato economista britannico richiama l’attenzione alla fonda-mentale importanzadelle politichemacroeconomicheedell’interventopubblico per compensare gli squilibri del mercato.L’interventismodelloStatonell’economia, in particolare, influenzerà i primi pro-grammi di sviluppo del dopoguerra (1945).

3. Crescita economica e sviluppo

A) Le definizioni

Prima di addentrarsi nello studio della materia è opportuno chiarire due concetti fon-damentali spesso confusi e ricondotti ad un unico significato.Nel linguaggio comune, ma anche in quello economico, il termine sviluppo è spesso usato come sinonimo di crescita.Lacrescitaeconomicarappresentasolounadimensionedelpiùcomplessofenomenodellosviluppoin quanto si limita a generare un aumento della produzione e/o del reddito.

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Lo sviluppo, invece, oltre alla crescita come ora descritta comporta anche cambia-mentistrutturali, istituzionaliequalitativi, derivanti dall’espansione delle capacità produttive di un sistema economico.Per sviluppo, dunque, si intende l’insiemedeiprocessidi trasformazionedi tipoeconomico,socialeedistituzionalecapacidicondurreversounacondizionedivitamigliorerispettoaquellavissutainprecedenza.Lacrescita,dasola,ècondizionenecessaria,manonsufficienteperchésigenerilosviluppo: un aumento del Prodotto Interno Lordo (PIL) di un dato Paese non com-porta automaticamente un miglioramento economico e sociale per i singoli se, ad esempio, ad esso non si accompagna anche un incremento del Benessere Interno Lor-do (BIN), inteso come somma del benessere dei singoli cittadini e risultante da una molteplicità di fattori (efficienza nei servizi, igiene ambientale etc.).Il diverso significato dei due termini crescita e sviluppo risulta più evidente ed immediato alla luce dell’analogia con il corpo umano: “la crescita interessa gli aggregati principali, come l’altezza o il peso, mentre lo sviluppo implica cambiamenti nelle capacità funzionali, di coordinazione fisica, di capacità di apprendimento o di adattamento ai mutamenti” (Herrick e Kindleberger).

B) I modelli economici

Il diverso significato attribuito ai termini “crescita” e “sviluppo” dà luogo alla creazio-ne di modelli della teoria economica tra loro difformi:— i modellidicrescitaeconomica prendono in considerazione un numero limitato

di prodotti e fattori produttivi (tra questi ultimi natura, capitale, lavoro etc.); inol-tre tutte le relazioni sono espresse in termini matematici e sonoempiricamenteverificabili (ROMANO).

Questi modelli sono alla base degli studi economici compiuti tra gli anni Quaranta e Cinquanta e sono stati impiegati per analizzare le condizioni che possono assicu-rare, per esempio, la crescita del PIL in sistemi economici già sviluppati in quanto elaborati guardando all’evoluzione storica di tali contesti;

— i modelli di sviluppo economico ricorrono a variabili non immediatamentequantificabili, come, ad esempio, la povertà o i rapportitracittàecampagna, il benesserecollettivo, e si rivelano più idonei a cogliere globalmente le peculia-rità delle diverse condizioni del Terzo Mondo.

Per poter studiare lo sviluppo è necessario innanzitutto circoscrivere l’oggetto di cui si intende osservare il mutamento, che deve riferirsi ad un’entitàconcreta(e non a un modello astratto), come un Paese o una regione.Bisogna poi fissare determinati criteridimisurazione, che differiscono a seconda delle diverse teorie economiche e, infine, valutare il puntodiarrivochesivuoleraggiungerestimolandoilprocessodisviluppo.

15 Capitolo 1 Lo sviluppo

4. Significato del termine “sviluppo” e sue principali accezioni

Dal momento che, come già accennato in precedenza, lo sviluppo è un concetto più ampio e complesso rispetto a quello di crescita, che oltre a grandezze puramente eco-nomiche (PIL, reddito pro capite etc.) si riferisce anche ai mutamenti sociali e istitu-zionali all’interno di un sistema economico, il tentativo di individuare una definizione unanimemente accettata non ha condotto a risultati soddisfacenti.In Economia tresonoiprincipalisignificati che vi si possono attribuire.

A) Lo sviluppo come fattore di crescita del Prodotto Nazionale

Prima degli anni Settanta lo sviluppo è stato visto solo come un semplice fenomeno di crescita del ProdottoNazionaleLordo (PNL) o del ProdottoInternoLordo (PIL), dun-que ancora seguendo una prospettiva di analisi che identificava lo sviluppo con la crescita economica, in particolare con la crescita del reddito nazionale (MONTALBANO-TRIULZI).La misurazione dello sviluppo limitato a tali indicatori mostra evidenti punti di incom-pletezza perché non è in grado di valutare con precisione la situazione globale (politi-ca, sociale ed conomica) dei “Paesi sottosviluppati”, caratterizzati da un’economia “informale” o “sommersa” che, come tale, non è misurabile da detti indici.PNL e PIL, inoltre, perdono di attendibilità ed efficacia se vengono utilizzati per con-frontare Stati con strutture socioeconomiche non omogenee.Gli eventi storici confermano tali limiti: negli anni Cinquanta e Sessanta, infatti, la crescita economica di alcuni Stati del Terzo Mondo non è stata accompagnata da un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, né sono diminuite la pover-tà, le ineguaglianze o la disoccupazione.

Al PIL ed al PNL si affianca un altro indicatore di sviluppo, il Prodottoprocapite, che indical’ammontarediproduzioneoredditoassegnabileadogniabitantediundatoPaese. Tale criterio, pur permettendo una visione più realistica del potere di acquisto di ogni singolo individuo, presenta, come gli altri strumenti di misurazione, alcuni graviinconvenienti:— il Prodotto, o Redditopro capite, essendo una misura media della ricchezza

prodotta da una nazione, nonconsentediassumereinformazionirealiinrela-zioneaidiversistratidellapopolazione. Negli anni Cinquanta con il predominio della teoria del trickledown (sgocciolamento) si pensava che gli iniziali benefici della crescita economica, prima a vantaggio di pochi, si sarebbero poi estesi indi-stintamente a tutta la popolazione;

— nei Paesiinviadisviluppo (PVS) i dati censuari e, in generale, gli studi statistici inerenti alla popolazione rischiano di essere imprecisi e incompleti e presentano spesso margini di errore molto ampi;

— come per il PIL ed il PNL, il Prodotto pro capite non tiene conto della produzione destinata all’autoconsumo e/o derivante dall’economia informale ove spesso as-sume un carattere rilevante non quantificabile;

16 Parte prima L’economia dello sviluppo

— il Reddito pro capite è generalmente espresso in un’unitàmonetariacomune che è il dollaro USA; quando espresso in moneta nazionale, è riportato al tasso di cambio ufficiale. I valori così ottenuti però sono influenzati dalle politiche econo-miche degli Stati sottosviluppati, che possono fissare (es.: per favorire le esporta-zioni) un tasso di cambio ufficiale diverso da quello effettivo di mercato; da ciò può derivare una sopravvalutazione o più spesso una sottovalutazione del valore della moneta nazionale.

Si noti, inoltre, che il tasso di cambio dipende dall’offerta e domanda di moneta determinato dai movimenti di capitale e dagli scambi di merci (tradable) sul mer-cato mondiale (VOLPI): ne deriva che il reddito pro capite espresso in dollari è generalmente sottostimato per i Paesi meno avanzati (PMA) dato che si tiene con-to solo dei prezzi delle merci e servizi oggetto di commercio internazionale.

SeilredditodiunPaesedelTerzoMondoèespressoindollari,talereddito,inassenzadifattoricompensativi,finisceconrisultarestatisticamentepiùpove-rodiquantolosiarealmente.

Per ovviare a quest’ultimo inconveniente,  la Banca Mondiale (BM) e  l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) hanno promosso l’international Comparison Program (ICP), finalizza-to ad individuare metodi che rendano le stime relative ai diversi Paesi più aderenti alla realtà nel momento in cui le si confronta a livello internazionale.L’ICP, tenendo conto della media ponderata dei prezzi di 151 categorie di beni, dà vita ad una nuova unità di valore artificiale, chiamata dollaro internazionale, cui viene attribuito pari po-tere d’acquisto (PPA) in tutti i Paesi. Esso indica la quantità di beni che la moneta locale può acquistare nel Paese invece che il numero di dollari acquistabili sul mercato inter-nazionale. Utilizzando il dollaro PPA per misurare il reddito pro capite il divario tra Paesi ricchi e poveri si riduce rispetto alla stessa misurazione espressa in dollari USA.

Gli indicatori a cui si è fatto cenno confermano che lacrescitaeconomicarappresen-tasolounadimensionedellosviluppo, ma non consentono di rilevare gli effettivi miglioramenti delle condizioni di vita di una popolazione (questi ultimi valutabili solo attraverso ulteriori parametri quali la scolarizzazione, il progresso tecnologico, il quo-ziente di mortalità etc.).Nonostante ciò, PIL, PNL e Redditoprocapite continuano ad essere tra gli indica-tori di sviluppo più usati nelle statistiche internazionali perché ritenuti estremamente sintetici e di immediato valore esplicativo e comparativo: essi, inoltre, consentono una visione generale del divario che separa i Paesi ricchi da quelli poveri, fornendo un quadro complessivo sull’andamento della crescita di uno Stato nel corso del tempo.Il passaggio delle singole economie da “tradizionali” a “monetarie” aumenta la veri-dicità di tali indicatori.

B) Lo sviluppo come modernizzazione o cambiamento strutturale (Rostow)

Il concetto di sviluppo coincide in molti punti con quello di modernizzazione, proprio delle scienze sociali, se viene identificato con il cambiamentostrutturale, ossia con

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il passaggiodaun’economiatradizionale, caratterizzata da agricoltura e artigianato come attività prevalenti, modesto impiego di capitale, produzione finalizzata all’auto-consumo e rudimentale sistema creditizio, ad un’economiamoderna, tipica dei Pae-si sviluppati.Una delle più note teorie strutturaliste è la “Teoria degli stadi di sviluppo” elaborata negli anni Sessanta da WaltWithmanRostow (1916-2003).

Il noto economista e sociologo, nel suo volume The stages of Economic Growth, af-ferma che losvilupporappresentaunprocessoevolutivounidirezionale,nelcorsodelquale,attraversocinquediversefasi(stages),ogniPaesepassa(opasserà)daunasituazioneoriginariadi sottosviluppoadunasuccessivadipienosviluppo (VOLPI):— il primostadio, tipico delle societàtradizionali, è caratterizzato dalla presenza di

un’economia di sussistenza, vale a dire dall’assenza di un settore industriale e da scarsa produttività del lavoro;

— il passaggio al secondostadio, detto di transizione, si ha quando la società o un gruppo di individui che la compongono, spinti da motivazioni economiche o so-ciali, desiderosi di incrementare il proprio guadagno, cominciano a cimentarsi in attività commerciali;

— si passa alla terzafase, di decollo, solo se la società investe in un buon sistema di istruzione, emana leggi certe, può contare su un accettabile sistema bancario e fi-nanziario. Completata la fase di transizione, secondo Rostow, in meno di cin-quant’anni un Paese può assistere al suo decolloeconomico, contrassegnato da un’espansione della crescita economica a tutti i settori e dall’avvenuto passaggio da un’economia tradizionale ad una moderna;

— segue la fase dell’economiamatura (quartostadio), ove la società, la struttura produttiva e le istituzioni consentono uno sviluppo che si autoalimenta: si afferma-no nuovi settori (banche, quaternario), si assiste ad un miglioramento degli standard di vita per la maggioranza della popolazione;

— l’apice del processo di modernizzazione viene raggiunto, però, solo nel quintostadio, che si identifica con la societàmoderna, l’età del benessere, caratterizzata da elevata produzione, consumi di massa e continua crescita economica (VOLPI).

Rostow espone, così, una panoramica a 360 gradi dell’economia europea e della sua transizione verso la modernizzazione, evidenziando l’importanza di una serie di pre-condizioniallo sviluppo: per giungere ad una situazione di crescita autosostenuta (che caratterizza la fase di decollo), infatti, occorrono “non solo un aumento della quota di risorse dedicate agli investimenti, ma anche (…) un quadro istituzionale, politico e sociale capace di sostenere adeguatamente tali investimenti, nonché la presenza di buone regole di condotta pubblica” (MONTALBANO-TRIULZI).

Non mancano però voci critiche: tale teoria non spiega quali siano i meccanismi che permettono il passaggio da uno stadio all’altro, inoltre è difficile pensare che il pro-

18 Parte prima L’economia dello sviluppo

cesso di sviluppo possa procedere automaticamente e in maniera lineare in ogni Paese e, soprattutto, si tratta di un modello che tiene conto dell’esperienza di sviluppo delle sole economie occidentali.Lo studioso non valuta, infine, che i PVS presentano realtà strutturali ed assetti istitu-zionali diversi dalla realtà dell’Europa Occidentale, mentre la sua teoria presuppone un’unicitàdelpercorsodisviluppo; ciò spiega perché essa oggi non incontra più i favori della dottrina.

C) Lo sviluppo come fattore di miglioramento della qualità della vita: l’HDI

La crescita economica nonrappresentail fineultimo che le società sottosviluppate devono raggiungere, masolounmezzo per realizzare diversi e più articolati obiettivi.L’aumento del reddito e di altre grandezze economiche, infatti, deve tradursi in un più significativo miglioramentodellecondizionidivitadella popolazione, ossia in un fenomeno non meramente quantitativo; misurare tale miglioramento, con ciò definendo lo sviluppo in termini di standard di vita, si rivela pertanto un’operazione complessa.Negli anni Settanta si affermò la teoria dei Basic Needs (bisogni essenziali), secondo cui sviluppo significa innanzitutto soddisfacimentodeibisogniprimariper l’intera collettività: lacrescitaeconomicadeveinnanzituttogarantireatuttigliindividuileminimequantitàdicibo,acquapotabile,vestiariopercoprirsieripararsidalfreddo,unalloggio,l’accessoallasanitàeall’istruzione.Il principale limite di tale teoria è l’impossibilità di trovare degli indici di misurazione oggettivi: i bisogni, infatti, variano da persona a persona e sono diversi a seconda dell’ambiente (sociale, geografico etc.) in cui l’individuo vive.

Il ProgrammadelleNazioniUniteperloSviluppo (United Nations Development Program, UNDP) si propone di superare tale limite ed analizzare in maniera compa-rativa lo sviluppo socio-economico su scala mondiale: nel suo annuale HumanDeve-lopmentReportclassifica i Paesi membri dell’Organizzazione in base ad un IndicediSviluppoUmano (Human Development Index, HDI).

Tale indice è composto da tre indicatori elementari:— il PILprocapite espresso in dollari PPA;— la speranzadivitaallanascita;— il livellodiistruzione.

Ancora oggi numerose indagini statistiche finalizzate alla misurazione dello sviluppo continuano a tener conto degli indicatori classici come il prodotto pro capite, ma ad esso affiancano altri indicatori di tipo politico e sociale.

19 Capitolo 1 Lo sviluppo

Tabella 1.1 – I 30 Paesi con il più alto indice di sviluppo umano

Paesi  1990 2000 2005 2011 Basso livello di sviluppo umano: 0,0 ≤ HDI ≤ 0,50

Norvegia 0,844 0,913 0,938 0,943

Australia 0,873 0,906 0,918 0,929 Medio livello di sviluppo umano: 0,51 ≤ HDI ≤ 0,79

Paesi Bassi 0,835 0,882 0,890 0,910

Stati Uniti 0,870 0,897 0,902 0,910 Alto livello di sviluppo umano: 0,80 ≤ HDI ≤ 1,00

Nuova Zelanda 0,828 0,878 0,899 0,908

Canada 0,857 0,879 0,892 0,908

Irlanda 0,782 0,869 0,898 0,908

Liechtenstein -- -- -- 0,905

Germania 0,795 0,864 0,895 0,905

Svezia 0,816 0,894 0,896 0,904

Svizzera 0,833 0,873 0,890 0,903

Giappone 0,827 0,868 0,886 0,901

Hong Kong 0,786 0,824 0,850 0,898

Islanda 0,807 0,863 0,893 0,898

Corea 0,742 0,830 0,866 0,897

Danimarca 0,809 0,861 0,885 0,895

Israele 0,802 0,856 0,874 0,888

Belgio 0,811 0,876 0,873 0,886

Austria 0,790 0,839 0,860 0,885

Francia 0,777 0,846 0,869 0,884

Slovenia -- 0,805 0,848 0,884

Finlandia 0,794 0,837 0,875 0,882

Spagna 0,749 0,839 0,857 0,878

Italia 0,764 0,825 0,861 0,874

Lussemburgo 0,788 0,854 0,865 0,867

Singapore -- 0,801 0,835 0,866

Repubblica Ceca -- 0,816 0,854 0,865

Regno Unito 0,778 0,833 0,855 0,863

Grecia 0,766 0,802 0,856 0,861

Emirati Arabi Uniti 0,690 0,753 0,807 0,846

FonTe: Human Development Report Maggio 2011

Approfondimento n. 1: Calcolo dell’Indice di Sviluppo Umano (HDI)

L’Indice di Sviluppo Umano (Human Development Index, HDI) è stato formulato dall’econo-mista pakistano Mahbub ul-Haq nel 1990 con il supporto, tra gli altri, del Premio Nobel per l’economia Armartya Sen, e dal 1993 viene utilizzato dallo United Nations Development Program (UNDP) come indicatore del grado di sviluppo dei Paesi che sia sì immediato e sintetico, ma tenga conto di altre variabili oltre a quella meramente economica.Il grado di sviluppo viene espresso attraverso un valore numerico compreso tra 0 (minimo grado di sviluppo umano) e 1(massimo grado di sviluppo umano).

20 Parte prima L’economia dello sviluppo

Si arriva a tale valore attraverso un calcolo matematico che dal 2010 prende in considerazione tre dimensioni:

—  una vita lunga e sana, misurata dall’aspettativa di vita (AV) alla nascita;—  l’accesso all’istruzione, misurato dagli anni medi di istruzione (AMI) e dagli anni previsti di 

istruzione (API);—  uno standard di vita dignitoso, misurato dal reddito nazionale lordo pro capite (RNLpc) in 

termini di PPA in dollari USA.

Gli indici relativi a tali dimensioni vengono calcolati nel modo seguente:

—  indice di aspettativa di vita (IAV) = MAX - 20AV - 20

—  indice di istruzione (II) = MAX - 0

IAMI $ IAPI - 0

—  indice di reddito (IR) = ln M AX^ h - ln M IN^ h

ln R NL pc^ h - ln M IN^ h

MAX e MIN indicano, rispettivamente, i valori massimi e minimi relativi alla dimensione consi-derata, mentre IAMI (Indice anni medi di istruzione) e IAPI (Indice anni previsti di istruzione) sono pari a:

IAMI = MAX - 0AMI - 0 IAPI = MAX - 0

API - 0

L’HDI è calcolato come media geometrica degli indici IAV, II e IR secondo la formula:

H DI = IA V $ II $ IR3

Tabella 1.2 – Elenco dei Paesi con il più basso indice di sviluppo umano

Paesi 1990 2000 2005 2011

Haiti 0,397 0,421 0,429 0,454

Mauritania 0,353 0,410 0,432 0,453

Lesotho 0,470 0,427 0,417 0,450

Uganda 0,299 0,372 0,401 0,446

Togo 0,368 0,408 0,419 0,435

Comore -- -- 0,428 0,433

Zambia 0,394 0,371 0,394 0,430

Gibuti -- -- 0,402 0,430

Ruanda 0,232 0,313 0,376 0,429

Benin 0,316 0,378 0,409 0,427

Gambia 0,317 0,360 0,384 0,420

Sudan 0,298 0,357 0,383 0,408

Costa d’Avorio 0,361 0,374 0,383 0,400

Malawi 0,291 0,343 0,351 0,400

Afghanistan 0,246 0,230 0,340 0,398

Zimbabwe 0,425 0,372 0,347 0,376

Paesi 1990 2000 2005 2011

Etiopia -- 0,274 0,313 0,363

Mali 0,204 0,275 0,319 0,359

Guinea- Bissau -- -- 0,340 0,353

Eritrea -- -- -- 0,349

Guinea -- -- 0,326 0,344

Rep. Centr.Africana

0,310 0,306 0,317 0,343

Sierra Leone 0,241 0,252 0,306 0,336

Burkina Faso -- -- 0,302 0,331

Liberia -- 0,306 0,300 0,329

Chad -- 0,286 0,312 0,328

Mozambico 0,200 0,245 0,285 0,322

Burundi 0,250 0,245 0,267 0,316

Niger 0,193 0,229 0,265 0,295

Rep. Dem.del Congo

0,289 0,224 0,260 0,286

FonTe: Human Development Report Maggio 2011

21 Capitolo 1 Lo sviluppo

5. Sviluppo economico degli anni Duemila e successiva crisi mondiale

Tra il 2003 e il 2007 i PVS hanno registrato una crescitaeconomicaad un ritmo an-nuale di circa il 7%, contro il 2,7 dei Paesi industrializzati.Tale crescita è stata più decisa e marcata nei grandi giganti asiatici (Cina e India), di medie proporzioni nel Sudamerica e nelle zone caraibiche, di quasi nessun effetto nell’Africa Sub-Sahariana.I Paesi emergenti, al contrario di quelli meno avanzati (PMA), sono stati oggetto di eccezionali investimenti esteri da parte di attori e Paesi terzi, che hanno portato ad una grande espansione del commercio internazionale, accompagnata da significativi flussi di rimesse degli emigrati.Dopo il 2007, però, ridottisi o venuti meno movimenti e flussi di ricchezza (calo ini-zialmente legato alla crisi dei mutui negli Stati Uniti), e con l’ulteriore crisi USA del settembre 2008, è iniziato un periodo di recessione globale che ha colpito, in modo particolare, i Paesi europei.La crisi è proseguita anche negli anni successivi, aggravata dal collasso di alcune istituzioni finanziarie d’oltreoceano (es.: Lehman Brothers) e, a partire dal 2009, da una riduzione dei crediti bancari alle imprese che ha drasticamente ridimensionato la capacità produttiva di queste ultime. Ciò ha inciso negativamente, a sua volta, sulla domanda e sui consumi dei privati, e generato bolle speculative che hanno ulterior-mente depresso i mercati dei Paesi industrializzati considerati da sempre la locomoti-va del sistema economico mondiale.Tale instabilità ha finora toccato solo marginalmente i Paesi asiatici (Cina e India), benché anche nel loro caso si stia recentemente verificando un rallentamento della crescita economica, mentre i PVS hanno duramente risentito del contraccolpo suben-do drastiche riduzioni delle esportazioni, caduta della domanda interna e aumenti dei prezzi di prima necessità.

90 Parte seconda La cooperazione internazionale

5. Gli anni Ottanta: debito estero, aggiustamento strutturale e neoli-berismo

A) Gli eventi che portarono all’affermazione del neoliberismo

Gli anni Ottanta da alcuni economisti sono stati definiti come un decennio“perso”per lo sviluppo; in realtà si è trattato solo di un periodo segnato da un radicale cam-biamento del paradigma della cooperazione.La teoria dei bisogni fondamentaliperde la sua importanza e si afferma incontrastato il neoliberismo, dottrina economica che riprende, in parte riformulandolo, il liberismo di matrica classica.

Gli eventi e le situazioni che assicurano il ritorno all’ideologia liberista possono così sintetizzarsi:— irrealizzabilità di modelli storici alternativi (il Cile di Allende, la Tanzania di

Nyerere), fondati su nazionalizzazione delle industrie private a danno delle multi-nazionali, riforma agraria, sospensione del pagamento del debito estero etc.;

— fallimento delle ideologie marxiste-leniniste, mostratesi incapaci di realizzare e mantenere l’aderenza ai principi ispiratori (crolla, dopo quello dell’URSS, anche il mito della Cina maoista e di Cuba, inizialmente presi ad esempio come modelli di sviluppo economico, sociale e politico garanti di società egualitarie);

— crisipetroliferadel 1973 e del 1979;— crescita dell’inflazionea livello internazionale;— crisideldebito. Nel 1982 il Messico, oppresso dall’insostenibilitàdeldebito,

dichiara l’insolvenza. Evento che diventa preoccupante quando altri Paesi seguono la strada messicana facendo temere un nuovo tracollo economico simile a quello del 1929. La crisi debitoria genera nell’immediato una perdita della capacità nego-ziale dei PVS;

— affermazione di governiconservatorinel mondo anglosassone (Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Inghilterra) favorevoli ad una riduzione dell’intervento pubblico e alla rinascita su grande scala dell’imprenditorialità privata, dunque contrari all’idea di uno Stato assistenziale. Tali governi esprimono aperta condannaperlepolitichediwelfare ispirate al modellokeynesiano;

— successoeconomicodelle“tigriasiatiche”, inizialmente attribuito solo alle poli-tiche di apertura internazionale a dispetto del forte peso dell’interventismo statale;

— fallimentodellepoliticheprotezioniste edi sostituzionedelle importazioni, considerate portatrici solo di inefficienza, parassitismo e scarsa competitività.

In questo periodo gli studi di DaniRodrik, economista turco e docente presso l’università di Harvard, tentano di dimostrare che questo tipo di politiche, adottate soprattutto in America Latina negli anni Cinquanta e Sessanta, non sono state inefficienti né dal punto di vista quantitativo né qualitativo, ma non vengono presi in seria considerazione.

91 Capitolo 1 L’evoluzione della politica di cooperazione allo sviluppo dagli anni ‘50 al nuovo millennio

B) Le conseguenze

Conseguenze immediate del mutato scenario internazionale sono:— crollo della fiducia nelle potenzialità delle politiche dicooperazione di garantire in

tutto il mondo benessere e sviluppo generalizzato;— tramontodelruolodelloStatonelprocessodisviluppo. Lo Stato è in questi anni

l’istituzione più vilipesa e demonizzata, soprattutto nel continente africano (2), disprezzato per la sua debolezza, per la sua interferenza nei meccanismi di merca-to, per la sua natura clienterale, patrimoniale, non solidale etc.;

— piena fiducia nel libero mercato e affermazionediunincontrastatoneoliberismofondato sull’errata convinzione che iproblemideiPVSpossonoessererisoltiesclusivamentedall’equilibriodimercato e dalla sua efficienza.

Il neoliberismo si nutre del diffuso malcontento nei confronti del dispendioso Welfare State degli Stati più avanzati, nonché dell’alto tasso di inflazione generata dalle manovre in passato proposte da Keynes;

— difficoltà di teorizzazioni e politiche alternative, oscurate dall’imperante neolibe-rismo.

Nonostante la debolezza di alternative, in questi anni si assiste ad un connubiotraeconomia,politicaedetica; nel rapporto Our Common Future della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo, istituita nel 1983, si comincia infatti a parlare di svilupposostenibile, inteso come modello di utilizzo delle risorse naturali che miri a soddisfare i bisogni umani preservando l’ambiente, in modo tale da consentire anche alle generazioni future di soddisfare le medesime esigenze.

C) L’introduzione dei PAS

La crisi debitoria di molti Paesi e il mutato contesto politico internazionale degli anni Ottanta trasformano profondamente la natura delle politiche di cooperazione allo svi-luppo e degli aiuti internazionali.Gli Stati donatori, dinanzi all’insolvenza di vari Paesi sottosviluppati, ritengono prio-ritaria rispetto al problema dello sviluppo la restituzionedeldebitoodipartedeisuoiinteressi.La Banca Mondiale (BM) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) intervengono con i famosi ProgrammidiAggiustamentoStrutturale (PAS) che traducono in realtà le ideologie liberiste sintetizzate in tre parole chiave: liberalizzazione, derego-lamentazione e privatizzazione.Questi Programmi hanno come obiettivo una stabilizzazionemacroeconomica col-legata ad una serie di riformestrutturali. IPAS rappresentano,infatti,interventi

(2)  Si tenga presente che numerosi Stati africani sono nati attraverso la conquista dell’indipendenza da parte delle precedenti colonie, i cui confini non riflettevano la distribuzione sul territorio delle varie etnie locali, essen-do stati “tracciati a tavolino” nell’Ottocento dalle potenze colonizzatrici. Ciò ha sempre impedito l’emergere di un comune senso di identità nazionale e di attaccamento alle istituzioni statali, contribuendo in gran parte alla loro delegittimazione.

92 Parte seconda La cooperazione internazionale

suibilanciesulleeconomiedeiPaesifortementeindebitatialloscopodiridurreilpesodeldeficit.

L’adesione ad essi viene imposta ai PVS come condizione per l’accesso ai prestiti elargiti dalle principali Istituzioni internazionali (FMI, BM) e prevedono, all’interno del singolo Paese:— forti tagli alla spesa pubblica;— abolizione delle barriere doganali;— privatizzazione di alcuni settori produttivi e servizi di pubblico interesse;— eliminazione di sussidi e sovvenzioni statali allo scopo di favorire la liberalizza-

zione dei mercati locali di lavoro e capitale.

Approfondimento n. 2: Le conseguenze negativedei Programmi di Aggiustamento Strutturale (PAS)

Lo shock petrolifero del 1973, seguito da quello del 1979, e l’impossibilità per i Paesi in via di sviluppo di onorare i debiti contratti nei confronti dei Paesi occidentali creano notevoli preoc-cupazioni  in  seno alle  Istituzioni  finanziarie  internazionali  create a Bretton Woods e  tra gli Stati donatori.Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale intervengono per garantire che i Paesi indebitati rispettino l’impegno di restituire i prestiti e, allo stesso tempo, cercano di individuare misure atte ad arginare la sempre più dilagante povertà.Vengono, così, introdotti i noti Programmi di Aggiustamento Strutturale (PAS), che consi-stono in interventi sui bilanci e sulle economie dei Paesi indebitati, e ne viene imposto il rispet-to assoluto ai PVS come condizione per ottenere l’accesso ai fondi di BM e FMI.

Senza tener conto delle peculiarità di ciascun Paese e della loro economia, una delle condi-zioni iniziali richiesta agli Stati indebitati per accedere ai PAS è la svalutazione della moneta, provvedimento che genera le seguenti conseguenze:

—  favorisce l’esportazione di materie prime, soprattutto verso gli Stati che hanno una mone-ta forte, avvantaggiando le grandi aziende interne al Paese che commerciano prevalente-mente  prodotti  agro-industriali  e  fibre.  Questa  circostanza  provoca  un  aumento  della concorrenza tra i PVS, produttori delle stesse merci i cui prezzi crollano vertiginosamente sul mercato internazionale;

—  aumento dei prezzi all’interno di ciascun PVS, soprattutto di beni di prima necessità, ali-menti, medicinali e combustibili;

—  diminuzione dei salari;—  riduzione del potere di acquisto del denaro;—  conseguente calo dei consumi interni;—  fuga di capitali investiti esteri ed interni.

Ulteriori condizioni chieste o imposte ai PVS per l’aggiustamento strutturale sono:

—  la riduzione della spesa pubblica. Tale misura tocca i servizi strutturali di base di ciascu-no Stato e trova giustificazione nella necessità di garantire l’“efficacia dei costi”. I risparmi così ottenuti sono devoluti al pagamento del debito estero.

  La riduzione va a danno soprattutto dell’istruzione (cala infatti  il  livello e il numero degli alfabetizzati e delle strutture scolastiche) e della sanità: si registra una diminuzione globa-le dell’assistenza medica e si riduce la disponibilità di medicinali, molti dei quali importati, si  aggrava  la  situazione  delle  malattie  endemiche  così  come  la  situazione  alimentare, anch’essa  legata  alla mancanza  di  prodotti  importati.  Il  peggioramento  della  rete  delle 

93 Capitolo 1 L’evoluzione della politica di cooperazione allo sviluppo dagli anni ‘50 al nuovo millennio

comunicazioni (es. per scarsa manutenzione) causa un crollo dei trasporti e del commercio interno a ciascun Paese;

—  la liberalizzazione dei prezzi e degli scambi commerciali, da cui deriva una riduzione delle entrate doganali dello Stato che, per compensare tali perdite, è costretto in molti casi ad inasprire (dove e come può) la pressione fiscale (diretta o indiretta) sui cittadini;

—  la privatizzazione.  La  svendita delle  terre demaniali  o  di  aziende  statali  o  parastatali, fatta dai governi a società private o transnazionali, costituisce un’altra misura per onorare il pagamento del debito. Le società a capitale straniero che si insediano nel sistema pro-duttivo del Paese sottoposto ad “aggiustamento” spesso godono di generose agevolazio-ni fiscali e sono incoraggiate a produrre beni non tanto per il commercio interno, ma pre-feribilmente per l’export.

D) Conclusioni

Le stessericettevengonoimposteaPaesimoltodiversi traloro.Non si tiene conto della diversità delle culture dei popoli; dell’adattabilità di questi ul-timi a nuove tipologie di organizzazione economica; del grado di istruzione delle comu-nità locali, dei diversi costi e dell’impatto sociale che l’adozione dei PAS comporta.In alcuni dei Paesi sottoposti ai Piani di Aggiustamento Strutturale, come detto, si registra un peggioramentodellecondizionidivitadellapopolazione dovuta ad una netta diminuzione del volume della spesa pubblica per il sociale, soprattutto a scapito dei gruppi più vulnerabili e bisognosi delle società sottosviluppate (indigenti, donne, anziani e bambini).La sanità e l’istruzione sono i settori che risentono per primi dell’obbligo di pagare il debito estero.Nel 1987 l’UNICEF (United Nations Children’s Fund) propone un modello di aggiu-stamentosocialedalvoltopiùumano e di lì a poco anche la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale riconoscono la necessità di considerare le conseguen-zesocialidellepolitichediaggiustamento.Gli stessi aiuti internazionali assumonofinalitàdiverse, non più di sostegno al welfare e di alleviamento della povertà come negli anni Settanta ma, così come negli anni Cinquanta e Sessanta, funzionali a “tapparefallefinanziarie” (per consentire ai Paesi insolventi di onorare il debito estero).La generale sfiducia nei confronti dell’istituzione Stato coinvolge anche la gestionedegliAiutiPubblicialloSviluppo (APS), che da Organismi internazionali e governi donatori vengono canalizzati verso le ONG e il settore privato.

6. Gli anni Novanta: riflessioni su cinquant’anni di politiche di sviluppo

A) Il nuovo ruolo assunto dall’ONU

La fine della guerra fredda fa temere l’epilogo della cooperazione allo sviluppo, in-fatti questo periodo è definito di aid fatigue (fatica negli aiuti) per indicare il forte calo degli APS registratosi dopo il 1992.

94 Parte seconda La cooperazione internazionale

Il crollo del blocco sovietico pone fine ad una delle motivazioniprincipaliallabasedell’erogazionedegliaiutidaiPaesicapitalisticiaquellimenoabbienti,dicarat-terepoliticostrategico.La caduta del muro di Berlino porta nella comunità internazionale un senso di incer-tezza che rischia di far venir meno le ragioni fondanti della cooperazione allo sviluppo.In questo contesto gioca un ruolo importante l’ONU, che riafferma la propria vocazio-ne a promuovere attivamente la pace e il raggiungimento dello sviluppo per tutti i popoli del pianeta.Attraverso una serie di Conferenzetematiche(sull’infanzia, su ambiente e sviluppo, sui diritti umani, su popolazione e sviluppo, sulle donne, sull’alimentazione) le Nazio-niUniterivitalizzanolacooperazioneinternazionale, riaffermano valori, strategie ed obiettivi, stabiliscono termini per gli impegni assunti dagli Stati membri ed indivi-duano criteri e strumenti per valutare i risultati conseguiti.Si abbandona anche la ricerca di una ricetta universaleper lo sviluppo e soprattutto si ribadisce la necessità che l’obiettivo della crescitaeconomica sia perseguito contem-poraneamente a quelli dello svilupposociale e della sostenibilitàambientale.

IconcettichiavedellacooperazioneneglianniNovantasono:— democrazia;— dirittiumani;— egood governance;— protezionedell’ambiente.

In un clima di accresciuta globalizzazione, gli Organismi internazionali cercano di valutare i risultati conseguiti dalle politiche di cooperazione allo sviluppo per indivi-duare i fattori di successo, ma anche quelli causa di fallimento.Si prende, infine, atto degli scarsi risultati ottenuti dalla ricette imposte dal Consenso diWashington(così definite le decisioni degli anni Ottanta di FMI e BM) attraverso i Programmi di Aggiustamento Strutturale, che nel decennio 1980-1990 hanno accen-tuato il divario economico tra i Paesi industrializzati e l’Africa Sub-Sahariana e si sono mostrati incapaci di migliorare la situazione economica anche in molti Paesi dell’Ame-rica Latina e dell’Asia; a tali considerazioni, tuttavia, non fa seguito l’individuazione di nuove forme di cooperazione allo sviluppo, dal momento che i PAS continuano ad essere lo strumento privilegiato dai Paesi donatori e dalla comunità internazionale nel suo complesso.

B) Le politiche di sviluppo del “Post Washington Consensus”

Le componenti principali del nuovoparadigmadello sviluppo, definito del “Post Washington Consensus”, sono così riassumibili:— occorreperseguirepolitichemacroeconomichevirtuosetendentiallariduzio-

nedellapovertà, intesa in un’accezione ampia ed inclusiva di diritti umani, istru-zione, ambiente, aspirazione a una vita dignitosa. Le politiche di sviluppo, dunque,

95 Capitolo 1 L’evoluzione della politica di cooperazione allo sviluppo dagli anni ‘50 al nuovo millennio

devono promuovere non solo la crescita quantitativa del PIL, ma il miglioramento qualitativo delle condizioni di vita;

— losviluppodeveesseresostenibile. Il processo di crescita economica e sociale non deve, cioè, arrecare danno all’ambiente e alle risorse naturali dalle quali dipen-de il futuro dell’uomo. Lo sviluppo deve essere in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere le possibilità per le generazioni successive di soddisfare i propri;

— vapromossounnuovoruolodelloStatonelprocessodisviluppo. Lo Stato non deve limitarsi a gestire imprese economiche, ma è chiamato a definire le più op-portune strategie per la riduzione della povertà e a garantire a tutti i benefici deri-vanti dalla crescita. Viene a cadere, così, l’idea che l’eccessivo intervento dello Stato in economia costituisca la causa del sottosviluppo, così come l’idea liberista secondo cui il mercato, privo di correttivi, sia da solo in grado di garantire benes-sere e sviluppo a livello generalizzato.

In questi anni un’attenta analisi del successo economico del Sud-Est asiatico con-ferma che la presenza di uno Statoautorevolee di un sistemaistituzionaleeffi-cientesi rivela fondamentale allo sviluppo;

— losviluppodeveessereperseguitoattraversoundiversorapportodipartena-riatotraPVSeStatiindustrializzati.

I Paesi sottosviluppati devono concorrere attivamente all’elaborazione delle politi-che di sviluppo che li riguardano, migliorare la governance, garantire la trasparen-za dei processi di sviluppo e coinvolgere in essi tutte le loro componenti sociali.

I donatori, dal canto loro, non devono limitarsi al controllo della quantità di fondi da erogare, ma garantire la coerenza delle proprie politiche nazionali (ed interna-zionali) con gli obiettivi dello sviluppo;

— lepolitichedicooperazionedevonofinanziarelaformazionedellerisorseuma-ne dal momento che l’investimento in capitale umano influenza direttamente la crescita economica, permettendo una migliore qualità del lavoro e della produzione;

— lepolitichedisvilupponondevonocontinuareadignorareil“capitalesociale”, inteso come l’insieme delle istituzioni, delle norme sociali, delle reti di relazioni formali ed informali che favoriscono l’azione collettiva e costituiscono, perciò, una importante risorsa per la produzione di benessere;

— ladimensionelocaledeveassumerepienacentralitànelprocessodisviluppo affinché siano possibili politiche di sviluppo bottom-up, cioè promosse dal basso e non “calate dall’alto” (top-down) dai Paesi “donatori” o dalle Organizzazioni internazionali;

— lepolitichedevonocoinvolgerenellosviluppodiversiattori: lo Stato, le istitu-zioni decentrate, la società civile ed il settore privato.

C) I programmi settoriali

Dal punto di vista operativo anche negli anni Novanta lo strumentodiinterventoèri-mastol’aiuto, anche se, rispetto al passato, è stata preferita la formuladi aiutoapro-

96 Parte seconda La cooperazione internazionale

grammisettoriali (sanità, istruzione etc.) piuttosto cheaprogetti, che in molti casi sono risultati troppo numerosi ed ingestibili da parte delle fragili amministrazioni dei PVS.Nel corso di circa cinquant’anni di politiche di cooperazione allo sviluppo nessuno strumento o obiettivo, progressivamente emerso, è stato del tutto rimpiazzato da quel-li successivi, ma gli stessi si sono confusamente cumulati tra loro.Questo meccanismo è valso anche per le condizionalitàimposte dai Paesi donatori ai PVS per ricevere gli aiuti: negli anni Ottanta beneficiano di APS gli Stati che hanno adottato i Piani di Aggiustamento Strutturale, nel Novanta ai beneficiari viene anche imposto di rispettare i principi democratici e della good governance, in seguito le condizionalità aumentano ulteriormente vincolando l’erogazione dei fondi a determi-nati settori (sanità, istruzione, accesso all’acqua potabile).Il rischio di tale logica è che possano nascere contraddizioni tra gli obiettivi di volta in volta stabiliti con la conseguente polverizzazione degli aiuti.

7. Le sfide del nuovo millennio

A) La Dichiarazione del Millennio e la Conferenza di Monterrey

Il nuovo millennio si apre all’insegna di un rinnovato impegno della comunità inter-nazionale verso lo sviluppo.

Nel settembre del 2000 l’Assemblea Generale dell’ONU adotta la DichiarazionedelMillennio(vedi Cap. 2),nella quale si ribadiscono gli obiettivi (MilleniumDevelop-mentGoals,MDGs) prioritari dell’agenda internazionale per lo sviluppo:1. dimezzare la percentuale di popolazione che vive in condizioni di estrema povertà

e che soffre di insufficienza alimentare;2. diffondere l’istruzione primaria su scala universale;3. eliminare le disparità tra sessi nel campo dell’istruzione e promuovere il ruolo

delle donne;4. ridurre di 2/3 la mortalità infantile;5. ridurre di ¾ la mortalità materna;6. bloccare la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie endemiche;7. integrare i principi dello sviluppo sostenibile nelle strategie nazionali di sviluppo

ed invertire la tendenza al deterioramento delle risorse naturali;8. realizzare un partenariato globale per lo sviluppo fondato su un sistema commer-

ciale e finanziario aperto, non discriminatorio, regolamentato e prevedibile.

La novità di tale Dichiarazione, che tenta di dare sistematicità complessiva all’elabo-razione strategica in merito alle priorità della cooperazione (MONTALBANO-TRIUL-ZI), è che per la prima volta viene data una scadenzaalla realizzazionedegli 8obiettivi appena enunciati, fissata al 2015.Ciascun obiettivo (goal), inoltre, è a sua volta suddiviso in 18 obiettivi più specifici (targets), misurati mediante 48 indicatoriche consentano di monitorare i progressi di ogni Paese.

97 Capitolo 1 L’evoluzione della politica di cooperazione allo sviluppo dagli anni ‘50 al nuovo millennio

Dopo l’elaborazione dei MDGs, nel 2002 i vertici dell’ONU, della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale (insieme ai capi di Stato e di governo di circa sessanta Paesi) si sono riuniti a Monterrey per dibattere circa il finanziamento dello sviluppo e la necessità di individuare fonti di finanziamento (sia pubbliche che priva-te) innovative ed alternative rispetto all’Aiuto Pubblico allo Sviluppo.

I temi principali affrontati dalla ConferenzadiMonterrey sono tre:— stabilizzare i mercati finanziari internazionali e orientare gli investimenti esteri e

il commercio a fini di sviluppo;— stabilire e garantire tempi certi per gli impegni finanziari che governi, istituzioni e

organizzazioni si sono assunti. Da anni si auspica che ciascun Paese donatore desti-ni lo 0,7 % del suo RNL all’APS, ma, ad oggi, la maggior parte degli Stati (com-presa l’Italia) sono ancora lontani da tale meta;

— individuare e attuare nuove politiche di riduzionedeldebitoestero (MELLANO-ZUPI).

B) Le soluzioni proposte per affrontare le nuove “sfide”

Per il raggiungimento dei Millenium Develepment Goals, secondo BONAGLIA, do-natori e Paesi in via di sviluppo in questo nuovo millennio si trovano a fronteggiare cinque sfide che così possono sintetizzarsi:— finanziare losviluppo. Il reperimento delle risorse finanziarie necessarie per il

raggiungimento dei MDGs è il problema maggiore della comunità internazionale. Da anni sono al vaglio delle istituzioni modalità innovative ed alternative rispetto

all’APS per finanziare lo sviluppo del Terzo Mondo. Varie e molteplici sono state le proposte: da una TobinTax (tassa sui movimenti di capitali) a tasse sull’esportazione di beni di lusso o armi, dall’istituzione di garanzie pubbliche sugli investimenti priva-ti esteri ad imposte sui biglietti aeroportuali (modalità adottata da Francia e Regno Unito dal 2006), da lotterie internazionali per sostenere la realizzazione degli obiettivi del Millennio alla de-tax, proposta dal governo italiano, per destinare l’1% del valore degli acquisti al dettaglio del consumatore a progetti di cooperazione allo sviluppo.

Francia e Regno Unito hanno proposto l’istituzione di un nuovo meccanismo di finan-ziamento internazionale e la valorizzazione delle rimesse dei migranti ai fini dello sviluppo.

Nonostante la varietà di proposte enunciate a tutt’oggi non è stato ancora predispo-sto uno strumento diverso dall’APS per garantire un flusso di finanziamento stabi-le per lo sviluppo;

— migliorare l’efficaciadegli aiuti. Nella DichiarazionediRoma, del febbraio 2003, i donatori (Stati ed istituzioni) hanno sottoscritto l’impegno per l’armoniz-zazione delle politiche, delle procedure e delle pratiche operative con quelle dei Paesi partner per migliorare l’efficacia dell’assistenza allo sviluppo, per consegui-re la quale sono state proposte le seguenti modalità:a) appropriazionedellepolitichedisviluppodapartedeiPVS (ownership);b) rispettodapartedeidonatoridelleprioritàindividuatedaibeneficiari;

98 Parte seconda La cooperazione internazionale

c) semplificazione ed armonizzazionedelle proceduredi erogazionedegliaiuti.

Ci si è resi conto, dunque, che il solo aumento del volume degli aiuti non è suffi-ciente per lo sviluppo, è anche necessario che i Paesi donatori riducano gli sprechi e le spese di gestione degli aiuti stessi, semplifichino le procedure amministrative per accedervi, supportino i PVS nel loro impegno di migliorare le proprie capacità umane e istituzionali e limitino gli aiuti legati (che vincolano il Paese beneficiario ad acquistare beni e servizi da quello donatore).

Dall’altro lato i PVS sono tenuti ad individuare le reali priorità da finanziare at-traverso gli aiuti, a rendere i loro conti pubblici più trasparenti e a permettere il monitoraggio sull’impiego delle risorse;

— aumentarelacoerenzadellepolitichecongliobiettividisviluppo.Le politiche attuate dai donatori in vari settori (come il commercio internazionale, l’agricoltura, gli investimenti, la sicurezza, l’ambiente, la tutela della proprietà intellettuale, l’emigra-zione) devono essere coerenticon quelle di cooperazione allo sviluppo. Aumentare il volume degli aiuti serve a poco se permane l’incoerenza tra le politiche che hanno un impatto sui PVS. Svezia ed Olanda hanno creato un apposito meccanismo istitu-zionale per valutare la coerenza tra le proprie politiche governative e l’impatto di queste sui PVS destinatari degli aiuti. Anche i Paesi beneficiari devono impegnarsi a garantire la convergenza delle loro politiche interne con gli obiettivi dello sviluppo;

— ridurrelavulnerabilitàdeiPVS. Crisi economiche, disastri naturali e conflitti armati spesso vanificano l’efficacia degli aiuti destinati alla lotta contro la povertà. Le cause di questi fattori di vulnerabilità possono essere rimosse (o almeno alle-viate) attraverso corrette politiche dei PVS e con la collaborazione dei donatori.

Le crisi economiche, infatti, sono nella maggior parte dei casi originate dal crollo del prezzo dei pochi beni (materie prime o prodotti agricoli) che i PVS esportano: una diversificazionedell’economia nei PVS potrebbe rappresentare una soluzio-ne ottimale a questa problematica.

Gli effetti disastrosi delle calamità naturali possono essere mitigati facendo ricorso a politiche di prevenzione, creando sistemi di monitoraggio, di allarme e condivi-sione delle informazioni.

Questi progetti (da realizzare con gli aiuti provenienti dall’estero) devono essere ac-compagnati anche dall’impegno dei Paesi beneficiari in termini di politiche di piani-ficazioneurbanaeterritoriale in modo da rendere il territorio meno vulnerabile.

Poiché squilibri nella distribuzione della ricchezza e discriminazioni su base religio-sa, etnica o sociale sono spesso causa di conflitti interni, la comunità internazionale deve introdurre un sistema di prevenzionee controllodei conflitti anche nelle politiche per lo sviluppo, promuovendo la tutela dei diritti umani, la democrazia, nonché programmi che supportino lo sviluppo sociale insieme a quello economico;

— sensibilizzare ed educare lemasseallo sviluppo. La stragrande maggioranza degli abitanti del globo possiede conoscenze assai limitata delle politiche di coo-perazione allo sviluppo, che spesso vengono confuse con gli interventi umanitari.

99 Capitolo 1 L’evoluzione della politica di cooperazione allo sviluppo dagli anni ‘50 al nuovo millennio

Conoscere le problematiche dello sviluppo non è importante solo per accrescere le donazioni da parte di privati, ma anche per garantire un controllo dell’opinione pubblica sul rispetto degli impegni assunti in materia di cooperazione.

Negli anni Novanta, l’ONU ha promosso grandi campagne di sensibilizzazione ai problemi della povertà che, però, non hanno avuto effetti duraturi nel tempo dal momento che, una volta calati i riflettori, i governi tendono ad allontanarsi dall’obiet-tivo della lotta alla povertà e a concentrare i loro sforzi economici verso altre priorità contingenti.

Un siffatto atteggiamento può essere evitato solo attivando campagnedisensibi-lizzazione interne e introducendo nei programmi scolastici una disciplina che abbia come scopo l’educazioneallosviluppo.

Approfondimento n. 3: Le politiche di riduzione del debito estero dei Paesi poveri

Negli anni Ottanta, molti Paesi poveri continuano ad incontrare difficoltà nel pagare il debito accumulato ed i relativi interessi.Movimenti di sensibilizzazione dell’opinione pubblica mondiale e campagne di solidarietà invi-tano  i donatori a  ridurre unilateralmente  il debito, divenuto  insostenibile per molti Stati, e a destinare gli interessi ai nuovi programmi per la lotta contro la povertà.Nel 1996, il G7 e le Istituzioni internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazio-nale), lanciano l’iniziativa Heavily Indebted Poor Countries (HIPC) per la cancellazione del debito dei Paesi fortemente indebitati. Per la prima volta si affronta la possibilità di ridurre il debito estero maturato non solo nei confronti dei governi creditori ma anche delle Istituzioni internazionali.Per accedere alla procedura vengono richiesti determinati requisiti e il rispetto di specifiche condizioni; occorre anzitutto che i Paesi richiedenti dimostrino di poter ricevere prestiti a con-dizioni molto agevolate da parte dell’IDA (International Development Association) e di avere un debito insostenibile secondo le analisi finanziarie effettuate da BM e FMI.

La procedura di cancellazione si articola in quattro fasi:

—  il Paese debitore deve adottare un Programma di Aggiustamento Strutturale, concordato con BM e FMI, finalizzato alla stabilità economica e alla promozione dello sviluppo soste-nibile;

—  dopo un periodo di massimo tre anni, BM e FMI valutano i progressi del Programma adot-tato e in caso di valutazione positiva dichiarano l’eleggibilità del Paese all’iniziativa (il cd. decision point), avviando un programma di assistenza finanziaria;

—  il Paese adotta una strategia nazionale di riduzione della povertà, supportato da BM, FMI e dal Club di Parigi;

—  dopo un altro triennio, se si ritiene che la fase tre si sia conclusa con successo, FMI e BM dichiarano il raggiungimento del completion point. A questo punto lo Stato debitore può beneficiare della cancellazione del 100% del debito eleggibile.

Pur riconoscendo l’importanza di una simile iniziativa, molte sono state le critiche relative alla lentezza delle procedure stabilite, all’esiguità del debito complessivo sino ad ora cancellato, al limitato numero dei potenziali beneficiari, ai criteri di sostenibilità stabiliti (MELLANO-ZUPI).

Parte seconda La cooperazione internazionale

Capitolo 4 Il diritto allo sviluppo

Sommario 1. Il binomio “sviluppo e diritti umani”. - 2. Il diritto allo sviluppo nel diritto internazionale. - 3. Diritto allo sviluppo individuale e collettivo. - 4. Il concetto di sviluppo nel diritto dell’Unione europea.

1. Il binomio “sviluppo e diritti umani”

Sempre più spesso nella comunità internazionale il dibattito sulla promozione dello sviluppo e sull’instaurazione di una cooperazione tra Stati a ciò finalizzata si intreccia con quello relativo alla tutela dei diritti umani: è infatti innegabile che esista una stretta interdipendenza tra i concetti di “sviluppo” e “diritti umani” (questi ultimi intesi come diritti sia civili e politici, sia economici, sociali e culturali), non solo per-ché il grado di sviluppo di un Paese incide direttamente sulla vita dei cittadini e sulla realizzazione della loro persona, ma anche (e soprattutto) perché i diritti umani si ri-velano elementi indispensabili a garantire la pace, il processo di democratizzazione e, dunque, lo sviluppo nel suo complesso, concepito in termini socio-istituzionali oltre che meramente economici.

È per tale ragione che le Nazioni Unite, seguite da altri Organismi internazionali, hanno tentato di dare al binomio “sviluppoedirittiumani” una dimensionegiuri-dica, ossia di affermare l’esistenza in ambito internazionale di un vero e proprio dirit-toallosviluppo, garantito da norme giuridiche,quale valore fondamentale e impre-scindibile per la vita dell’essere umano; ciò costituirebbe un traguardo di indubbio valore, implicando:— per gli individui, la facoltà di esercitare tale diritto dinanzi ad organi giurisdiziona-

li nazionali ed internazionali reclamando la sua giustiziabilità;— per gli Stati, un obbligo di predisporre tutti gli strumenti necessari a garantirne la

tutela, dalla cui violazione discenderebbe una vera e propria responsabilità per commissione di un illecito internazionale.

Attraverso studi e ricerche diverse Organizzazioni internazionali si sono, inoltre, im-pegnate nel comprendere la portata e la natura dell’eventuale diritto allo sviluppo, se, cioè, una volta accertata la sua esistenza esso possa qualificarsi come diritto umano (riferibile cioè alla persona e non allo Stato), inalienabile, individuale e/o collettivo, se sia tutelato da norme di carattere convenzionale o consuetudinario etc.

Edizioni Simone - Vol.44/7 Compendio di Cooperazione ed Economia dello Sviluppo

132 Parte seconda La cooperazione internazionale

2. Il diritto allo sviluppo nel diritto internazionale

A) Dallo Statuto ONU ai progressi dei primi anni Settanta

Per accertare l’esistenza del “diritto allo sviluppo” e comprenderne la natura occorre analizzare la normativa internazionale vigente in materia di tutela dei diritti umani e la prassi dell’ONU in tema di sviluppo umano.Nello Statuto delleNazioniUnite non si fa esplicito riferimento al diritto allo svilup-po in quanto tale, ma emerge il binomio “sviluppo e diritti umani” nella misura in cui l’art. 1, par. 3 elenca tra i fini dell’Organizzazione quello di “conseguire la coopera-zione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economi-co, sociale e culturale od umanitario, e nel promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione”. Emerge, in altre parole, il nesso di interdipendenza tra i due concetti, dal momento che lo stesso articolo promuove la cooperazione tanto in campo economico e sociale quanto in materia di tutela dei diritti umani.Dello stesso tenore è l’art. 55, che sancisce il ruolo delle Nazioni Unite nel promuove-re: “a) un più elevato tenore di vita, il pieno impiego della mano d’opera, e condizioni di progresso e di sviluppo economico e sociale; b) la soluzione dei problemi internazio-nali economici, sociali, sanitari e simili, e la collaborazione internazionale culturale ed educativa; c) il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”.Dall’adozione dello Statuto ONU si sono susseguite una serie di Dichiarazioni di prin-cipi che, in alcuni casi, hanno richiamato espressamente un vero e proprio diritto allo sviluppo; benché, tecnicamente, siano state adottate sotto forma di risoluzioni, ossia di raccomandazioni dalcaratterenonvincolante, esse hanno comunque un innegabile valoreetico-politico e, data l’adesione di un ampio numero di Stati, potrebbero contri-buire alla nascita di una norma consuetudinaria che riconosce il diritto allo sviluppo.La Dichiarazione universaledeidirittidell’uomo solennemente proclamata nel 1948 afferma, al punto 22, che ogni individuo “ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale … , dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità”; sancisce poi, al successivo punto 25.1, il diritto di ogni individuo “ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari”, il diritto all’assistenza sanitaria per la maternità e l’infanzia e il diritto di tutti i bambini alla protezione sociale (punto 25.2), nonché il diritto all’istruzione, che “deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana e al rafforzamento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (punto 26.2).Come si nota, il diritto allo sviluppo è qui solo implicitamente richiamato, facendosi piuttosto riferimento agli ulteriori e più specifici diritti in cui esso si articola; la Di-chiarazione sulprogressosocialeelosviluppo del 1969 (adottata con Ris. n. 2542 (XXIV)) si è spinta un po’ più oltre, riconoscendo il diritto per tutti (nel rispetto del

133 Capitolo 4 Il diritto allo sviluppo

principio di non discriminazione) ad una vita dignitosa e la libertà di trarre beneficio dal progresso sociale per uscire dalle condizioni di povertà e malnutrizione.È, tuttavia, solo con la Dichiarazione per l’eliminazionedefinitivadella fameedella malnutrizione, proclamata in occasione della Conferenza Mondiale sull’Ali-mentazione promossa dall’ONU nel 1973 (in un periodo, dunque, in cui emergevano con sempre maggior vigore le richieste degli Stati sorti dal processo di decolonizza-zione di dar vita ad un Nuovo Ordine Economico Internazionale) che si è iniziato a parlare di “dirittoinalienabile”, per ogni uomo, donna e bambino, di “essere libero dalla fame e dalla malnutrizione al fine di sviluppare pienamente e mantenere le proprie facoltà fisiche e mentali”. È sembrata aprirsi, così, la strada al riconoscimento di un diritto fondamentale allo sviluppo individuale, sebbene riferito, per il momento, solo al superamento di problemi di fame e malnutrizione.

Due ulteriori progressi erano stati compiuti qualche anno prima:— nel 1966, con l’adozione del Patto suidirittieconomici,socialieculturali, la

tutela dei diritti che concorrono a formare il più generale diritto allo sviluppo ve-niva inserita per la prima volta in un attovincolante (un accordo internazionale), che ex art. 11 impegna gli Stati firmatari a riconoscere ai propri cittadini gli stessi diritti enunciati dal punto 25.1 sopra richiamato della Dichiarazione del 1948, nonché ad adottare misure idonee ad assicurarne l’attuazione, riconoscendo “l’im-portanza essenziale della cooperazione internazionale, basata sul libero consenso”;

— nel 1968 l’interdipendenza tra diritti umani e sviluppo economico veniva esplici-tamente affermata dalla Conferenza diTeheransuidirittiumani, che individua-va una responsabilità collettiva della comunità internazionale di garantire uno standard minimo di vita ad ogni essere umano.

Poste queste premesse, dalla fine degli anni Settanta ha iniziato ad affermarsi la nozione di “dirittoallo sviluppo” (ancora una volta attraverso l’adozione di Dichiarazioni di principi), la cui definizione è stata demandata al Segretario Generale delle Nazioni Unite.

B) L’affermazione del diritto allo sviluppo alla fine degli anni Settanta. La Dichiarazione sul diritto allo sviluppo del 1986

Nel 1977 la Commissione deidirittiumani dell’ONU (organo sussidiario del Con-siglio Economico e Sociale poi trasformatosi in Consiglio deidirittiumaninel 2006) ha qualificato il diritto allosviluppocomedirittoumano, riconoscendone la centra-lità nel quadro dei diritti economici, sociali e culturali.

Al SegretarioGenerale è stato demandato il compito di definire la dimensione inter-nazionale di tale diritto in relazione agli altri diritti umani fondati sulla cooperazione internazionale; il risultato, emerso dal suo Rapportodel1979, è sintetizzato dai se-guenti punti:— scopo centrale dello sviluppo è la realizzazione delle potenzialità dell’essere uma-

no in armonia con la comunità di appartenenza;

134 Parte seconda La cooperazione internazionale

— l’essere umano deve essere soggetto attivo, e non oggetto, del processo di sviluppo;— il processo di sviluppo non può prescindere dal rispetto dei diritti umani, in virtù

della loro stretta interdipendenza.

Su questa scia, e sulla base di ulteriori studi compiuti da un Gruppo di lavoro ad hoc della Commissione dei diritti umani, nel 1986 l’Assemblea Generale ha adottato la Dichiarazionesuldirittoallosviluppo, che per la prima volta ha sancito tale diritto come “dirittoinalienabile” di cui ogni essere umano deve essere soggetto attivo e beneficiario sia individualmente, sia collettivamente.Nonostante la sua natura non vincolante, la Dichiarazione ha assunto un ruolo fonda-mentale nella definizione del diritto allo sviluppo, sia per la fermezza e chiarezza con cui esso è stato enunciato, sia perché l’ampio numero di voti favorevoli all’approva-zione della Dichiarazione (146, a fronte di 8 astensioni e solo 1 voto contrario da parte degli USA) ha mostrato l’emergere di un consenso generalizzato circa l’esisten-za di tale diritto, consenso che potrebbe costituire la base per la nascita di una con-suetudine internazionale in materia.Già nel Preambolo la Dichiarazione esplicita il binomio “sviluppo e diritti umani”, affermando che “l’eliminazione delle violazioni massicce e flagranti dei diritti fonda-mentali dei popoli e degli individui … contribuirebbe a creare condizioni propizie allo sviluppo per larga parte dell’umanità” e che “per promuovere lo sviluppo, occorrereb-be accordare pari ed urgente attenzione all’attuazione, alla promozione e alla protezio-ne dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali”.Il Preambolo, peraltro, individua quali cause delle massicce violazioni dei diritti umani il coloniali-smo, il neocolonialismo, l’apartheid, il razzismo, la discriminazione razziale, il dominio e l’occupa-zione straniera, l’aggressione, le minacce contro la sovranità nazionale, l’unità nazionale e l’inte-grità territoriale e le minacce di guerra.

I doveri degli Stati contenuti nella Dichiarazione del 1986

Il testo enuncia un’ampia serie di “doveri” e “responsabilità” degli Stati, che sono tenuti a:

•  formulare adeguate politiche di sviluppo nazionale (art. 2, par. 3);•  creare le condizioni nazionali e internazionali atte a promuovere la realizzazione del diritto 

allo sviluppo (art. 3, par. 1);•  rispettare i principi del diritto internazionale riguardanti le relazioni amichevoli e la coopera-

zione tra Stati, in conformità allo Stato ONU (art. 3, par. 2);•  collaborare per garantire lo sviluppo rimuovendo gli ostacoli che ne impediscono l’afferma-

zione, ed esercitare i loro diritti e doveri in modo da promuovere un nuovo ordine economi-co internazionale più equo (art. 3, par. 3);

•  adottare, separatamente e congiuntamente, misure per formulare politiche internazionali di sviluppo (art. 4, par. 1);

•  adottare misure decisive per eliminare le violazioni massicce e flagranti dei diritti umani (art. 5);

•  collaborare per promuovere, incoraggiare e rafforzare il rispetto universale ed effettivo dei diritti e delle libertà fondamentali (art. 6, par. 1);

•  promuovere l’instaurazione, il mantenimento e il rafforzamento della pace e della sicurezza internazionali (anche attraverso il disarmo generale) (art. 7);

135 Capitolo 4 Il diritto allo sviluppo

•  adottare a livello nazionale le misure necessarie alla realizzazione del diritto allo sviluppo, in particolare impegnandosi a garantire l’uguaglianza di opportunità per tutti nell’accesso alle risorse di base, all’istruzione, ai servizi sanitari, all’alimentazione, all’alloggio, all’impiego e ad un’equa ripartizione del  reddito, nonché  la più ampia partecipazione delle donne e  la partecipazione popolare al processo di sviluppo (art. 8).

C) Gli anni Novanta e la situazione attuale

Gli atti internazionali successivi alla Dichiarazione del 1986 hanno ripreso il concetto di “diritto allo sviluppo” affermandone il carattere universale e inalienabile; tra questi, la DichiarazionefinaledellaConferenzamondiale suidirittiumani, tenu-tasi a Vienna nel 1993, che al suo par. 10 lo ha riconosciuto come “parte integrante dei dirittifondamentali della persona umana”.Parallelamente è emersa la necessità di sollecitare gli Stati a garantire l’effettivo godi-mento di tale diritto, che a livello internazionale è oggetto di enunciazioni di principio, ma non di strumenti giuridici vincolanti che istituiscano obblighi in capo agli Stati, meccanismi sanzionatori, strumenti per la sua giustiziabilità etc.A tale esigenza è stato dato un rilievo particolare in occasione del Vertice mondiale perlosvilupposociale (Copenaghen, 1996) alla luce del particolare momento storico, in cui “la globalizzazione economica ha cominciato a creare vantaggi e svantaggi per gli Stati, per i popoli e per ogni persona umana distribuendo diversamente costi e be-nefici” (SPATAFORA).Nella DichiarazionediRiodeJaneirodel1992 il tema dello sviluppo umano è af-frontato nel contesto del diritto internazionale dell’ambiente, che determina la na-scita della nozione di “sviluppo sostenibile”: ai sensi del Principio n. 3 della Dichia-razione, è da intendersi tale lo sviluppo che soddisfa le esigenze delle generazioni presenti senza compromettere – attraverso uno sfruttamento indiscriminato delle risor-se disponibili – il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni future.Ciò implica, ancora una volta, un nesso di interdipendenza e complementarietà tra la tutela dei diritti dell’uomo, lo sviluppo economico e la tutela dell’ambiente, in quanto uno svolgimento delle attività economiche che adotti tutte le misure necessarie ad evitare danni ecologici garantisce, allo stesso tempo, un’adeguata tutela degli interes-si delle collettività umane; implica, inoltre, un’interpretazione dinamica del concetto di sviluppo sostenibile, che coinvolgendo le generazioni future richiede una raziona-lizzazione nel lungo periodo dello sfruttamento delle risorse naturali, degli investimen-ti, dello sviluppo tecnologico e dei mutamenti istituzionali, e mette in luce il caratte-re multidimensionale dellosviluppo, alla cui base vi sono fattori politici, economici, sociali, culturali, commerciali e ambientali.Sulla base delle indicazioni fornite dal “Gruppo di lavoro di esperti” istituito dalla Commissione dei diritti umani, l’Assemblea Generale ONU ha adottato, nel 1997 e nel 1998, altre due Dichiarazioni suldirittoallosviluppo, che riaffermano, oltre al carattere universale e inalienabile del diritto allo sviluppo, la centralità dell’essere umano come attore del processo di sviluppo.

136 Parte seconda La cooperazione internazionale

Al 1998 risale anche la nomina, da parte della Commissione dei diritti umani, di un nuovo Gruppo dilavorosuldirittoallosviluppo e di un Espertoindipendente, per rilevare i progressi compiuti dagli Stati nell’applicazione della Dichiarazione del 1986 sulla base di rapporti e informazioni da essi stessi inviate, formulare raccomandazioni in materia e presentare una relazione sulla realizzazione del diritto allo sviluppo all’Al-to Commissario delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo.I lavori hanno messo in evidenza un quadro poco confortante, caratterizzato da scarso sviluppo e sottosviluppo nella maggior parte dei Paesi (anche in conseguenza delle ineguaglianze prodotte dalla globalizzazione); ciò ha indotto l’Assemblea Generale ONU a proporre l’adozione di un “Pattoperlosviluppo”, i cui elementi essenziali sono stati indicati dall’Esperto indipendente nel suo Quintorapportodel2002.

Occorre, in particolare, che tale Patto:— proponga un programma di sviluppo fondato sul rispetto dei diritti umani;— tenga conto dell’interazione tra gli obiettivi relativi alla riduzione della povertà e

gli indicatori sociali;— fondi gli obblighi dei PVS e della comunità internazionale sul principio di reciprocità;— introduca un meccanismo di controllo ad hoc per valutare la concreta realizzazione

del diritto allo sviluppo.

Allo stato attuale l’intento di adottare un Patto sul diritto allo sviluppo, dunque di im-porre agli Stati il rispetto di uno strumento giuridico vincolante, fonte di obblighi inter-nazionali, non ha ancora portato a risultati concreti di rilievo, ma si è più limitatamente tradotto nell’approvazione, da parte del Consiglioperidiritti umani (nuova denomi-nazione assunta nel 2006 dalla precedente Commissione), della Ris.n. 4/4del 30marzo2007, contenente linee direttrici e criteri di valutazione da seguire per l’adozione di una normativa internazionale completa e coerente in materia di diritto allo sviluppo.

D) Conclusioni

Da quanto detto emerge che il diritto allosviluppo in quanto tale, benché definito “diritto universale e inalienabile”, è attualmentesancitodaDichiarazionidiprincipima non da atti internazionalmente vincolanti, e che tali Dichiarazioni, benché adottate a larghissima maggioranza da parte degli Stati, non consentono ancora di parlare di una norma consuetudinaria già formatasi ma, più correttamente, di una prassichepotrebbecondurreallanascitadiundirittoconsuetudinarioin materia.Al riconoscimento del diritto allo sviluppo può, però, giungersi per altra via, vale a dire seguendo l’approccio degli strumenti internazionali sopra richiamati che conside-rano il diritto allosviluppoparteintegrante dei diritticivili,politici, economici,sociali e culturali già tutelati da molteplici accordi internazionali (in primis dallo Statuto ONU e dal Patto sui diritti economici, sociali e culturali del 1966). A ciò si aggiunga che il 10 dicembre 2008 l’Assemblea Generale ONU ha adottato un Proto-colloaddizionale al Patto sui diritti economici, sociali e culturali per consentire a

137 Capitolo 4 Il diritto allo sviluppo

individui o gruppi di individui di presentare ricorsi ad un Comitato ad hoc contro eventuali violazioni del Patto da parte degli Stati. Una volta entrato in vigore, tale Protocollo renderebbe internazionalmente giustiziabili i diritti sanciti dal Patto, di cui, si ribadisce, il diritto allo sviluppo deve ritenersi parte integrante.

3. Diritto allo sviluppo individuale e collettivo

Tutti gli strumenti internazionali sopra richiamati qualificano il diritto allo sviluppo come dirittoindividuale, ossia riferibile agli esseri umani considerati nella loro indi-vidualità nel rispetto del principio di non discriminazione.La Dichiarazione suldirittoallosviluppo del 1986, tuttavia, attribuisce ad esso una dimensioneanchecollettiva, complementare a quella precedente: l’art. 1, infatti, ri-conosce il diritto allo sviluppo come “diritto inalienabile dell’uomo in virtù del quale … tutti i popoli hanno il diritto di partecipare e di contribuire ad uno sviluppo econo-mico, sociale, culturale e politico” (par. 1), ed afferma che il suo godimento “presup-pone altresì la piena realizzazione del dirittodeipopoli all’autodeterminazione, che comprende … l’esercizio del loro diritto inalienabile alla piena sovranità su ogni loro ricchezza e risorsa naturale” (par. 2); ancora, il successivo art. 2, par. 2 pone in capo a tutti gli esseri umani la responsabilità dello sviluppo su un piano sia individuale, sia collettivo.

Quanto appena detto, in realtà, non deve indurre a ritenere che il diritto allo sviluppo sia un dirittocollettivotout court, di cui sono direttamente titolari i popoli; la sua dimensione collettiva va più correttamente circoscritta al fatto che i popoli sono:— beneficiari dello sviluppo, nella misura in cui il diritto allo sviluppo, garantito al

singolo individuo attraverso la promozione dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali, ha inevitabilmente ricadute positive sull’intera collettività;

— attori dello sviluppo, essendo titolari del diritto di disporre delle proprie ricchezze e risorse naturali ricompreso nel più ampio diritto all’autodeterminazione.

4. Il concetto di sviluppo nel diritto dell’Unione europea

A) La nozione multidimensionale di sviluppo

In linea con l’orientamento delle Nazioni Unite e degli altri Organismi internazionali, sotto il profilo giuridico l’Unione europea ha accolto una nozionemultidimensiona-ledi sviluppo.Il Trattato sulla Comunità europea (TCE), infatti, nella versione adottata a Maastricht nel 1992, riconosceva accanto alla tradizionale dimensione socio-economica dello sviluppo anche una dimensione umana, vale a dire l’interdipendenza tra sviluppo, da una parte, e democrazia, Stato di diritto e diritti umani, dall’altra (art. 177, par. 2).

138 Parte seconda La cooperazione internazionale

La stessa Corte di Giustizia, nella sentenza del 3 dicembre 1996 relativa al caso Accor-do di cooperazione CE-India, riteneva fosse competenza dell’allora Comunità europea l’inclusione di clausole sui diritti umani negli accordi di cooperazione e, più in gene-rale, “l’importanza dei diritti dell’uomo nell’ambito della cooperazione allo sviluppo”.Con l’entrata in vigore del TrattatodiLisbona (1° dicembre 2009) tale impostazione è stata riconfermata, se non migliorata attraverso l’introduzione di una nozionedisviluppopiùampiaecoerente di quella previgente: i due nuovi Trattati, rispettiva-mente sull’Unione europea (TUE) e sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), infatti, sanciscono che la politica di cooperazione “è condotta nel quadro nel quadro dei principi e degli obiettivi dell’azione esterna dell’Unione” (art. 208, par. 1 TFUE) e che questi ultimi, oltre alla promozione della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti umani, al mantenimento della sicurezza internazionale e alla prevenzione dei conflitti, includono quello di “favorire lo sviluppo sostenibile dei Paesi in via di svi-luppo sul piano economico, sociale e ambientale, con l’obiettivo primo di eliminare la povertà” (art. 21, par. 1, lett. d) TUE).

B) Il principio di condizionalità

Il binomio“sviluppoedirittiumani” è stato affermato nell’ambito dell’Unione eu-ropea anche introducendo nel quadro della politica di cooperazione allo sviluppo il cd. principiodicondizionalità, in virtù del quale “le politiche e le azioni di sostegno allo sviluppo sono correlate al riconoscimento delle libertà fondamentali da parte dei Pae-si beneficiari, nel senso che in base alle scelte e ai comportamenti di questi ultimi in tale ambito i Paesi donatori si riservano di modificare i contenuti del rapporto di coo-perazione” (RASPADORI).La politica di condizionalità, emersa dalla seconda metà degli anni Novanta nei rap-porti tra l’UE e i Paesi terzi (in particolare i PVS e i PECO), utilizza quale strumento giuridico tipico la clausoladicondizionalità, che fa discendere dal rispetto dei dirit-ti umani da parte dei Paesi terzi il rispetto, da parte dell’Unione, degli impegni assun-ti nei loro confronti.Detta clausola può essere inserita sia unilateralmente dall’UE in un atto normativo sugli aiuti allo sviluppo, sia negli accordi commerciali, di associazione e di coopera-zione conclusi con gli Stati terzi (nel qual caso assume un fondamento giuridico di natura pattizia), e può avere conseguenze sia positive, se la realizzazione di un pro-gresso nella tutela dei diritti umani nel Paese beneficiario degli aiuti determina un miglioramento dei termini della cooperazione, sia negative, se la politica di condizio-nalità si trasforma in un meccanismo sanzionatorio per punire il mancato rispetto delle condizioni previste (CADIN).La prassi dell’Unione europea attualmente dimostra, purtroppo, il prevalere dell’at-teggiamentosanzionatorio nell’applicazionedellaclausoladicondizionalità, so-prattutto nei confronti dei Paesi ACP, che andrebbe superato sviluppando una politica di cooperazione capace di promuovere i diritti umani attraverso l’instaurazione di un dialogo politico.

152 Sigle e glossario

— predisporre adeguate strategie di sviluppo per la riduzione della povertà;— intensificare la cooperazione economica e commerciale con il contributo del “Fondo

europeo di sviluppo” e mediante la conclusione di nuovi accordi basati sull’abolizione progressiva degli ostacoli agli scambi commerciali;

— avviare una riforma finanziaria nei Paesi interessati con il supporto della BEI (Banca europea degli investimenti).

Rientrano tra i PaesiACP: Angola, Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Benin, Botswana, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Capo Verde, Repubblica Centroafricana, Ciad, Congo (Brazzaville), Costa d’Avorio, Cuba, Gibuti, Repubblica Dominicana, Eritrea, Etiopia, Fidji, Gabon, Gambia, Ghana, Grenada, Guinea, Guinea Bissau, Guinea equato-riale, Guyana, Haiti, Giamaica, Kenya, Kiribati, Lesotho, Liberia, Madagascar, Malawi, Mali, Mauritania, Isole Cook, Isole Marshall, Isole Maurizio, Mozambico, Namibia, Nau-ru, Niue, Niger, Nigeria, Palau, Papua-Nuova Guinea, Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, S. Kitts e Nevis, S. Lucia, Samoa occidentali, St. Vincent e Grenadines, S. Tomé e Principe, Senegal, Seychelles, Sierra Leone, Isole Salomone, Somalia, Stati federati della Micronesia, Sud Africa, Sudan, Suriname, Swaziland, Tanzania, Timor Est, Togo, Isole della Tonga, Trinità e Tobago, Tuvalu, Uganda, Unione delle Comore, Vanuatu, Zam-bia, Zimbabwe.

ADB(sigla di AsianDevelopmentBank, in italiano BAS, Banca Asiatica per lo Sviluppo): istituzione finanziaria multilaterale, con sede a Manila (Filippine), istituita nel 1966 per promuovere lo sviluppo economico e sociale dell’area Asiatica e del Pacifico mediante prestiti, sovvenzioni, assistenza tecnica e investimenti, oltre che incoraggiando il dialogo politico.Gli investimenti, in particolare, sono diretti alla realizzazione di infrastrutture, alla predi-sposizione di un adeguato sistema sanitario e di un’amministrazione pubblica efficiente, al miglior sfruttamento delle risorse naturali etc. Oggi si compone di 67 Stati membri.

AfDB (sigla di AfricanDevelopmentBank, in italiano, Banca Africana di sviluppo): istituzione finanziaria multilaterale fondata nel 1964 allo scopo di promuovere lo sviluppo economico e il progresso sociale in Africa. Il suo capitale è attualmente sottoscritto da 77 Stati membri, di cui 53 africani (definiti “membri regionali”) e 24 non africani (“membri non regionali”).L’AfDB costituisce l’Organizzazione madre del cd. GruppodellaBancaAfricanadiSviluppo, che comprende il Fondo Africano di Sviluppo (a cui partecipano, oltre ai 77 Paesi dell’AfDB, anche gli Emirati Arabi Uniti) e il Fondo Fiduciario della Nigeria.

Aidtotrade (cooperazione al commercio): serie di concessioni, da parte di BM, UE, FMI, UNCTAD e Paesi economicamente avanzati (in primis USA) in favore dei PVS allo scopo di agevolarne le attività commerciali impedendo, così, la loro esclusione dal processo di globalizzazione. Rientrano tra le iniziative previste l’abbattimento di barriere doganali, l’accesso agevolato per i prodotti provenienti dai Paesi poveri ai principali mercati inter-nazionali, la possibilità di beneficiare di tecnologia d’avanguardia, nuovi investimenti.

153 Sigle e glossario

Aiutiumanitariediemergenza: iniziative che mirano ad eliminare, o quanto meno ri-durre, le conseguenze negative di un’emergenza congiunturale sul soddisfacimento dei bisogni fondamentali e sulle prospettive di sviluppo del Paese beneficiario.Giustificati dalla richiesta del Paese dove è avvenuto l’evento eccezionale e dal riconosci-mento da parte della comunità internazionale dello stato di crisi, tali aiuti vedono coinvol-ti una pluralità di attori, in particolare l’ONU con funzioni di coordinamento (attraverso l’OCHA, l’UNHCR, l’UNICEF, il WFP etc.) e le ONG con compiti operativi ed esecutivi.Gli interventi consistono in invio di missioni di soccorso, cessione di beni, attrezzature e derrate alimentari, concessione di finanziamenti in via bilaterale.Non rientrano in questa categoria aiuti destinati a far fronte a situazione endemiche di povertà diffusa.

Aiutoalbilancio(in inglese budgetsupport): forma di aiuto che finanzia direttamente non un progetto specifico, bensì il bilancio pubblico del Paese ricevente. Può essere con-cesso sotto forma di aiuto generico, se destinato al bilancio generale dello Stato, o setto-riale, quando interessa settori specifici (sanità, istruzione etc.) il cui rilancio è ritenuto necessario allo sviluppo. Benché comporti per i Paesi donatori costi di pianificazione ridot-ti, rappresenta ancora una forma di aiuto allo sviluppo poco utilizzata a livello mondiale.

Aiutoallabilanciadeipagamenti: in base ad esso il Paese donatore fornisce al Paese ricevente risorse finanziarie (a titolo di dono o prestito) in valuta convertibile per le impor-tazioni di beni strumentali, tecnologie etc. indicate dal Paese ricevente.

Aiutoalprogramma: aiuto alla bilancia dei pagamenti di un Paese, concesso sotto forma di dono e consistente nel finanziamento di importazioni di beni strumentali destinati ad uno specifico programma o settore dell’economia (si distingue in questo dal Commodity aid, destinato a settori prioritari generici).

Aiutoaprogetti: aiuto che mira alla realizzazione di specifici progetti di sviluppo elabo-rati dal Paese donatore e negoziati con il Paese ricevente, nel quadro di un generale Pro-gramma-Paese che definisce il quadro complessivo degli interventi di cooperazione allo sviluppo.

AP(sigla di AiutoPubblico, in inglese OA, Official Assistance): trasferimento finanziario che ha gli stessi termini e condizioni dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo, ma non è diretto ai PVS, bensì ai Paesi con un reddito pro capite superiore a quello dei Paesi e territori classificati dal DAC a reddito medio alto. I beneficiari dell’AP costituiscono, pertanto, Paesi in transizione, e in passato venivano collocati dal DAC nella seconda parte della Lista dei Paesi recettori di aiuti (parte abolita nel 2005).

APE(AccordidiPartenariatoEconomico, in inglese EPAs, Economic Partnership Agre-ements): serie di Accordi previsti dall’Accordo di Cotonou per creare, una volta stipulati, un’areadiliberoscambiotral’UEeiPaesiACP fondata sul principio di reciprocità e porre, così, fine al regime preferenziale attualmente esistente per i prodotti importati dalle

154 Sigle e glossario

ex colonie europee (ritenuto discriminatorio e, per questo, incompatibile con i principi dell’OMC). I Paesi ACP dovrebbero aderire a tali Accordi raggruppati su base regionale (i raggruppamenti formati sino ad ora sono sette: la Comunità economica degli Stati africani occidentali; la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale; la Comunità per lo sviluppo dell’Africa meridionale; la Comunità dell’Africa orientale; l’Africa orientale e meridionale; Comunità caraibica e Repubblica dominicana – CARIFORUM; la Regione pacifica).

APS(acronimo di AiutoPubblicoalloSviluppo, in inglese ODA, Official Development Assistance): complesso di doni e prestiti agevolati ai PVS (ossia ai Paesi e territori inclusi nella Lista dei recettori di aiuti compilata dal DAC) erogati dal settore pubblico (inclusi gli enti locali) dei Paesi più avanzati. L’APS è tale se soddisfa le seguenti condizioni:— ha l’obiettivo di promuovere lo sviluppo economico ed il benessere dei PVS;— è a condizioni agevolate;— contiene un elemento di dono pari al 25%.

ASEAN (sigla di Association of South East Asian Nations, in italiano AssociazionedelleNazionidell’AsiaSudorientale): Associazione istituita nel 1967 tra i Paesi del Sud-est asiatico che ha come scopo principale quello di favorire una più stretta collaborazione economica e politica tra i Paesi aderenti (Brunei, Filippine, Indonesia, Malaysia, Singapo-re, Thailandia, Vietnam, Laos, Cambogia e Myanmar).Al fine di accelerare l’integrazione economica tra gli Stati membri, che hanno conosciuto negli ultimi anni tassi di sviluppo molto elevati grazie anche alla loro capacità di attrarre capitali stranieri e al basso costo della manodopera, nel 1992 è stata decisa la creazione di una zona di libero scambio (l’AFTA – Asian Free Trade Area) fondata su una progressiva riduzione dei diritti doganali fino all’introduzione di una tariffa doganale comune (CEPT – Common Effective Preferential Tariff).

Assistenzatecnica: intervento consistente sia nell’invio di consulenti, consiglieri, perso-nale tecnico, educatori e amministratori dai Paesi donatori (che sostengono i costi anche delle eventuali attrezzature necessarie) ai PVS, sia nelle attività di educazione e formazio-ne dei cittadini dei PVS.

BEI(sigla diBancaEuropeadegliInvestimenti, in inglese EIB, European Investment Bank): istituto finanziario dell’UE che ha il compito di contribuire, facendo appello al mercato dei capitali ed alle proprie risorse, allo sviluppo equilibrato dell’Unione. Dispone di un proprio capitale, sottoscritto fin dall’inizio dagli Stati membri e periodicamente au-mentato. Istituita con il Protocollo del 25 marzo 1957, tale Banca appoggia quelle iniziati-ve economiche dei singoli Stati membri che i governi nazionali non sono in grado di finan-ziare ma la cui realizzazione si rivela opportuna al fine di attenuare gli squilibri esistenti tra regioni o settori produttivi all’interno dell’UE.La BEI non ha fini di lucro e può concedere prestiti sia ai governi che ai privati è dotata di propria personalità giuridica distinta da quella dell’Unione, pur rientrando nel suo quadro organizzativo ai sensi dell’art. 13 TUE ed essendo disciplinata dagli artt. 308-309 TFUE,

155 Sigle e glossario

ed è retta dal Consiglio dei Governatori (responsabile degli indirizzi creditizi), dal Consi-glio di amministrazione (che approva i finanziamenti) e dal Consiglio direttivo (che cura l’attività operativa).

Beneficiari: sono così definiti gli individui, gruppi od organizzazioni che, indipendente dal fatto che siano stati identificati come destinatari dell’intervento di sviluppo, ne traggono beneficio diretto o indiretto (IANNI).

BERS: (sigla di BancaEuropeaperlaRicostruzioneeloSviluppo, in inglese EBRD, European Bank for Reconstruction and Development): istituzione creata nel 1991 dall’al-lora Comunità europea allo scopo di accelerare la transizione verso un’economia aperta di mercato e di promuovere l’iniziativa privata ed imprenditoriale nei Paesi dell’Europa cen-trale e orientale e in quelli dell’ex Unione sovietica.Organi della BERS sono:— il Consiglio dei Governatori;— il Consiglio di amministrazione, a cui è affidata la direzione generale delle attività

svolte dalla Banca ivi compresa la scelta dei progetti da finanziare;— il Presidente, eletto per un periodo di 4 anni;— uno o più Vicepresidenti.La BERS si compone di 61 Stati membri più l’Unione europea e la BEI.I suoi obiettivi fondamentali sono:— promuovere gli investimenti produttivi e concorrenziali nei Paesi dell’Europa centro-

orientale (PECO);— agevolare il passaggio ad un’economia di mercato;— attuare riforme economiche strutturali e territoriali.Gli strumenti più comunemente usati per raggiungere tali obiettivi sono:— la concessione di prestiti;— la fornitura di garanzie;— le partecipazioni dirette in investimenti azionari.Sul piano concreto, la BERS ha delineato le seguenti priorità:— garantire un aiuto tecnico alle autorità nazionali e locali, affinché le stesse possano

approntare idonei strumenti economici di sviluppo;— promuovere investimenti diretti, nonché forme di associazione (joint-ventures) con

imprese che svolgono attività compatibili con l’ambiente;— mettere in atto un approccio globale per le regioni transfrontaliere gravemente colpite

dal degrado ecologico;— diffondere una migliore informazione sui problemi ecologici.

BIRS (sigla di BancaInternazionaleperlaRicostruzioneeloSviluppo, in inglese IBRD, International Bank for Reconstruction and Development): nucleo del Gruppo della Banca Mondiale, è un istituto di credito internazionale con sede a Washington, creato nel 1945 con l’entrata in vigore degli Statuti della Conferenza di Bretton Woods.Scopo principale della BIRS è la concessionedimutuiagliStatimembri(o a privati ma con garanzia prestata da uno Stato membro) per investimenti produttivi.

189 Sigle e glossario

STABEX(dal francese Système de Stabilisation des Recettes d’Exportation): meccanismo di stabilizzazione dei proventi relativi alle esportazioni di beni dai Paesi ACP con cui, in pratica, l’allora Comunità economica europea assicurava un proprio contribuito nell’ipo-tesi in cui, per una crisi congiunturale, tali Paesi avessero subito una riduzione dei loro introiti al di sotto di un certo limite. Introdotto dalla Convenzione di Lomé nel 1975 in relazione a determinati prodotti agricoli, fu poi abolito dall’Accordo di Cotonou del 2000.

Sussidarietà: principio volto a garantire che le decisioni siano adottate il più vicino possi-bile al cittadino, lasciando che il potere di livello superiore si occupi solo delle materie che non possono essere trattate meglio ad un livello inferiore (ad esempio dalle autorità locali).Conformemente a tale principio l’Unione europea interviene in quei settori che non sono di sua esclusiva competenza soltanto quando la sua azione è considerata più efficace di quella intrapresa a livello nazionale (art. 5, par. 3 TUE).

Sussistenza: indica il livello minimo di reddito o di consumo, al di sotto del quale è im-possibile la sopravvivenza di un individuo.

Svalutazionemonetaria: consiste nel deprezzamento della moneta, ossia nella diminuzione della sua capacità d’acquisto, rispetto a parità fissate in termini di altre monete oppure con riferimento al valore dell’oro.La svalutazione monetaria comporta un aumento del cambio, aumenta cioè la quantità di moneta nazionale necessaria per acquistare un’unità di moneta estera (ad esempio, occorreranno più euro per acquistare un dollaro).In regime di cambi fissi, stabiliti cioè dalle autorità monetarie internazionali o dei singoli Paesi, la svalutazione monetaria è conseguenza di decisioni politiche che determinano la variazione del tasso di cambio tra le diverse divise nazionali.In regime di cambi flessibili invece, la svalutazione opera automaticamente attraverso variazioni giornaliere del tasso di cambio dovute alle differenze tra l’offerta e la domanda della moneta: in questo caso si parla, più propriamente, di deprezzamento della moneta.Nel linguaggio comune il termine svalutazione è usato altresì per indicare il deprezzamento della moneta nazionale in conseguenza dell’inflazione. In tal caso il valore della moneta risulta diminuito rispetto a taluni parametri, quali ad esempio un certo paniere di beni.La svalutazione è spesso considerata il rimedio principale per arginare una situazione di disavanzo della bilancia commerciale. Infatti, comportando un aumento del cambio, la svalutazione riduce i prezzi, in moneta estera, dei beni esportati favorendo le esportazioni e aumenta il prezzo, in moneta nazionale, dei beni importati riducendo le importazioni.Si suole parlare di svalutazioni monetarie mascherate quando le autorità monetarie di un Paese, pur non ufficializzando la svalutazione, adottano misure tali (ad esempio inasprimenti fiscali che riducono il potere d’acquisto) da produrre effetti analoghi.

Sviluppo: crescita economica e sociale di un Paese. Mentre la crescita è un fenomeno prevalentemente quantitativo, relativo a grandezze economiche come il PIL o il reddito pro capite, lo sviluppo è un concetto più ampio, che siriferisceancheaimutamentisocialiedistituzionaliall’internodiunsistemaeconomico.

190 Sigle e glossario

Proprio perché si tratta di un fenomeno così complesso, il ricorso a semplici indicatori monetari per misurare il grado di sviluppo di un Paese appare inadeguato. Per questo motivo alcuni Organismi internazionali, l’UNDP ad esempio, preferiscono utilizzare altri indicatori, più complessi, che tengano conto della qualità (oltre che della quantità) di risorse a disposizione delle popolazioni: grado di istruzione, quoziente di mortalità, disponibilità di servizi essenziali etc.Sui temi dello sviluppo si sono confrontate le teorie di numerosi economisti: da Malthus a Marx, da Schumpeter a Sen. Per la complessità del fenomeno non è possibile individuare un’unica ricetta ma, fra i fattoricheinfluenzanolosviluppo, si possono senz’altro ricordare:— l’aumento della popolazione: può essere un elemento favorevole o sfavorevole, a seconda

di dove e quando si realizzi. L’incremento demografico, infatti, accresce un importante fattore produttivo di base, la manodopera, e genera, di conseguenza un’espansione degli stocks prodotti.

Per contro, può determinare uno sfruttamento troppo elevato delle risorse naturali ed ostacolare il consolidarsi di metodi di produzione più efficienti che non utilizzino il fattore umano;

— l’accumulazione di capitale, quest’ultimo definibile come l’insieme dei mezzi di produzione (immobili, macchinari, strumenti, scorte di magazzino) a disposizione dei soggetti economici in un dato momento; l’accumulazione è l’aumento della disponibilità di tali beni che avviene tramite l’investimento (cioè la destinazione di una parte del capitale non al consumo, ma al miglioramento e all’aumento del capitale stesso).

La quantità e qualità degli investimenti, che caratterizzano l’era industriale, determinano la differenza tra i Paesi ad economia avanzata e quelli sottosviluppati: agli investimenti è legata infatti la possibilità migliorare le tecnologie e di aumentare la produzione.

Naturalmente l’accumulazione di capitale, oltre ad offrire vantaggi, implica dei costi, rappresentati dalla rinuncia al consumo presente (risparmio);

— il progresso tecnologico, ovvero l’applicazione ai processi produttivi delle conquiste della ricerca scientifica; fondamentale importanza, da questo punto di vista, assume l’opera degli imprenditori dotati di spirito innovativo.

Svilupposostenibile: è da intendersi tale lo sviluppo che soddisfa le esigenze delle gene-razioni presenti senza compromettere – attraverso uno sfruttamento indiscriminato delle risorse disponibili – il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni future. In pratica si tratta di predisporre le condizioni più idonee affinché lo sviluppo economico a lungo ter-mine avvenga nel rispetto dell’ambiente.Tale principio è contenuto in numerosi documenti internazionali tra cui, ad esempio, la Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 (Principio n. 3) e l’art. 11 TFUE.

TACIS(Technical Assistance to the Commonwealth of Independent States): programma di assistenza dell’Unione europea agli Stati partner dell’Europa Orientale e dell’Asia Centrale il cui obiettivo primario consisteva nel promuovere la democratizzazione, il consolidamento dello Stato di diritto e la transizione verso l’economia di mercato dei cd. Nuovi Stati Indipen-denti (NSI) sorti in seguito al collasso dell’URSS. Ad esso si ispirava il programma MEDA, strumento della cooperazione economica e finanziaria del Partenariato Euromediterraneo.

191 Sigle e glossario

Dal 1° gennaio 2007 entrambi sono stati sostituiti dallo Strumento Europeo di Vicinato e Partenariato (ENPI).

Tariffadoganale: consiste in un’elencazione dellemerciassoggettabilialpagamentodeldazio, con la specificazione delle relative aliquote che colpiscono i singoli beni.La tariffa doganale può assumere varie configurazioni a seconda degli accordi che regola-no i rapporti con gli Stati stranieri. In particolare essa può essere:— generale, quando si applica alle merci spedite da Stati con i quali non esistono trattati

commerciali. In questo caso è denominata anche tariffa doganale autonoma, in quanto lo Stato la compila in via unilaterale;

— convenzionale, che si applica alle merci di quei Paesi con i quali sono state stipulate particolari convenzioni commerciali;

— differenziale, che comporta l’applicazione di dazi superiori a quelli della tariffa gene-rale nell’intento di colpire le merci provenienti da alcuni Paesi (ad esempio da quelli con cui sono sorte controversie relative ai diritti doganali);

— preferenziale, ossia quella che prevede aliquote daziarie inferiori alle normali e si ap-plica nei confronti delle merci provenienti da Paesi ai quali si vuole accordare un trattamento di favore per motivi politici, umanitari o di altra natura.

Tassodicambio: quotazione della valuta di un Paese espressa in termini di valuta di un altro Paese. Se è l’unità di valuta nazionale ad essere scambiata contro un’unità di valuta estera (come accade in Italia, nella maggior parte dei Paesi europei ed in Giappone) si suole dire che il cambio viene quotato incerto per certo. Pertanto, la quotazione della sterlina inglese rileva-ta alla Borsa di Milano, indica la quantità di euro (moneta nazionale, cioè incerto) occorrente per acquistare una quantità fissa (un’unità) di sterline inglesi (moneta estera, ossia certo).Una seconda modalità di quotazione, utilizzata negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, è detta certo per incerto. In tal caso il tasso di cambio è espresso in unità di valuta estera per un’unità di valuta nazionale; ad esempio se il cambio dell’euro a Londra è pari a 1,44, ciò significa che sono necessari 1,44 euro (moneta estera, ossia certo) per acquistare una ster-lina (moneta nazionale ovvero incerto).Il tasso di cambio è fissato sul mercato dei cambi dalla domanda e offerta delle valute in-teressate alle contrattazioni che, a loro volta, dipendono dal saldo della bilancia dei paga-menti. Poiché quest’ultimo è dato dal saldo della bilancia commerciale sommato algebri-camente al saldo dei movimenti di capitale, ne deriva che il tasso di cambio discende, in definitiva, dal volume degli scambi internazionali di merci e servizi, dall’andamento del tasso d’interesse interno rispetto a quelli esteri e dalle aspettative di fluttuazione degli stessi cambi.

TDC(tariffadoganalecomune): sigla con cui venivano indicati tutti quei diritti di dogana applicati sul territorio comunitario alle merci provenienti dai Paesi terzi e che si sostituivano alla tariffa doganale applicata da ciascun Stato membro.Nel 1988 la TDC è stata sostituita dalla TARIC che ha reso più agevole l’importazione di merci da Paesi terzi e più rapide le procedure necessarie ad individuare le relative tariffe doganali da applicare.