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1. Gli albori della civiltà greca: mito e religione 5 PARTE PRIMA Dalla filosofia antica alla crisi della scolastica 1. Gli albori della civiltà greca: mito e religione Di cosa parleremo La filosofia, affonda le sue radici nella cultura e nelle civiltà greche. La civiltà greca si caratterizza per un profondo pluralismo di pensiero in tutte le sue forme culturali, religiose e politiche. Il punto di partenza è una religione politeista i le cui divinità, in assenza di una classe sacerdotale dominante, hanno il compito di assicurare verità e sacralità alla vita quotidiana. Da un punto di vista filosofico tra le divinità, assumono particolare importanza le figure di Apollo e Dioniso: soprattutto il culto di quest’ultimo, praticato in riti col- lettivi di carattere musicale-estatico, acquisirà una rilevanza notevole nella cultura greca. Legate a Dioniso sono, infatti, anche altre complesse forme di religiosità, note come «misteriche» ed «orfiche»: in esse viene teorizzata la possibilità di raggiun- gere la salvezza della propria anima al culmine di un lungo ciclo di reincarnazioni. Tra gli dèi più venerati si pongono anche Afrodìte ed Eros, le cui figure sono tuttora oggetto di numerose composizioni liriche. 1) Le origini della civiltà ellenica La civiltà greca (o ellenica) assume tratti definiti attorno all’800 a.C., dopo il declino della civiltà achea (o micenea) che possiamo datare intorno al 1200 a.C. Dal disfacimento di questa civiltà viene progressivamente sviluppandosi una nuova cultura, stimolata sia del trascorso splendore degli achei, sia dal contatto con il mondo fenicio che in quegli stessi secoli stava conoscendo il suo maggiore sviluppo. Dai fenici l’embrionale civiltà greca trasse da un lato l’alfabeto e, dall’al- tro, uno spirito di avventura che la condurrà sin sulle coste della Ionia, e dell’Asia minore, luoghi ove inizia quella «colonizzazione» che giocherà un ruolo decisivo per lo sviluppo della cultura greca e occidentale in genere. Proprio nella Ionia, infatti, nascerà la filosofia.

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Parte PrimaDalla filosofia antica alla crisi della scolastica

1. Gli albori della civiltà greca: mito e religione

Di cosa parleremo

La filosofia, affonda le sue radici nella cultura e nelle civiltà greche. La civiltà greca si caratterizza per un profondo pluralismo di pensiero in tutte le sue forme culturali, religiose e politiche. Il punto di partenza è una religione politeista i le cui divinità, in assenza di una classe sacerdotale dominante, hanno il compito di assicurare verità e sacralità alla vita quotidiana. Da un punto di vista filosofico tra le divinità, assumono particolare importanza le figure di Apollo e Dioniso: soprattutto il culto di quest’ultimo, praticato in riti col-lettivi di carattere musicale-estatico, acquisirà una rilevanza notevole nella cultura greca. Legate a Dioniso sono, infatti, anche altre complesse forme di religiosità, note come «misteriche» ed «orfiche»: in esse viene teorizzata la possibilità di raggiun-gere la salvezza della propria anima al culmine di un lungo ciclo di reincarnazioni. Tra gli dèi più venerati si pongono anche Afrodìte ed Eros, le cui figure sono tuttora oggetto di numerose composizioni liriche.

1) Le origini della civiltà ellenica

La civiltà greca (o ellenica) assume tratti definiti attorno all’800 a.C., dopo il declino della civiltà achea (o micenea) che possiamo datare intorno al 1200 a.C.

Dal disfacimento di questa civiltà viene progressivamente sviluppandosi una nuova cultura, stimolata sia del trascorso splendore degli achei, sia dal contatto con il mondo fenicio che in quegli stessi secoli stava conoscendo il suo maggiore sviluppo.

Dai fenici l’embrionale civiltà greca trasse da un lato l’alfabeto e, dall’al-tro, uno spirito di avventura che la condurrà sin sulle coste della Ionia, e dell’Asia minore, luoghi ove inizia quella «colonizzazione» che giocherà un ruolo decisivo per lo sviluppo della cultura greca e occidentale in genere. Proprio nella Ionia, infatti, nascerà la filosofia.

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La frammentazione geografica non impedirà ai Greci di conservare la coscienza della propria unità di popolo, al punto che uno dei più grandi storici dell’antichità, Erodoto (484-430 ca. a.C.) nelle sue Storie potrà parlare, a proposito delle «stirpi elleniche», di «comunanza di sangue e di lingua», di «comuni templi degli dèi», di «riti e costumi affini» per tutti gli appartenenti alla Magna Grecia.

2) Le forme religiose

La notevole varietà culturale della civiltà greca si manifesta soprattutto nella dimensione religiosa, che viene definita sapienziale, poiché il concetto moderno di «religione» è del tutto assente nell’antica Grecia, ove non esisteva alcun corpo dottrinale di norme o insegnamenti confessionali autonomi rispetto agli altri ambiti del pensiero e della cultura.

In Grecia, ad esempio, non ritroviamo una letteratura o un’arte strettamente sacre, né una classe sacerdotale distinta dalle altre caste. Ciò, generò una no-tevole multiformità, della concezione e dell’immagine degli dèi, sia rispetto alle credenze che, nei culti che nelle stesse esperienze religiose dei singoli.

Tutte le prime forme di sapienza greca — da cui poi si svilupperà il pen-siero filosofico in senso stretto — trovano origine nel campo religioso, con i tentativi di spiegazione dell’origine degli dei (le cosiddette teogonie) e l’indagine sulla genesi del cosmo (cosiddette cosmogonie).

Su queste basi, possiamo definire i caratteri generali della religione greca:

— si tratta anzitutto di una religione politeista. La Grecia non respinge le altre civiltà antiche, che prevedono un panthe-

on (cioè un insieme di dèi) assai differenziato, proprio per tener presente tutti gli orientamenti e comportamenti umani. Zeus ad esempio, in quan-to dominatore degli dèi, costituisca il modello simbolico di giustificazione del potere;

— si tratta in secondo luogo di una religione an-tropomorfica: ove il comportamento degli dei riflette i «difetti» o i caratteri della società umana.

Al mondo degli dèi si affianca una complessa mitologia che attribuisce al mondo divino alcuni

momenti della vita degli uomini: si pensa ai cibi e alle bevande particolari di cui si nutrono (l’ambrosia, il «nettare» degli dèi) o sullo stesso sangue divino (l’ìcore), diversi da quello umano.

Antropomorfismo: tenden-za a rappresentare la natura e l’azione della divinità in analogia con la natura e l’azione degli uomini.

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3) Dèi, eroi, uomini: l’areté

In questa dimensione di simultanea continuità e alterità tra mondo umano e mondo divino, l’individuo greco, dal punto di vista del comportamento, è tenuto a non oltrepassare i confini della propria umanità.

Il complesso rapporto di distanza e affinità che gli dèi intrattengono con gli uomini, costituisce anche l’elemento centrale del culto degli eroi (detti anche «semidèi»). Si tratta di figure di mediazione tra i due mondi: in quanto secondo la mitologia greca sono figli di un dio e di un mortale, gli «eroi» vei-colano spesso, nella poesia e nell’immaginario collettivo dei greci, modelli ambivalenti: forza e potere da un lato, volontà di d’infrangere i limiti della natura dall’altro.

La rappresentazione poetica del mondo degli eroi a noi è nota per i poemi omerici (Iliade e Odissea, VIII sec. a.C. circa) in cui funziona come espres-sione dell’antico mondo della civiltà achea; anche se raggiungerà risultati di altissimo livello soprattutto nelle tragedie di Eschilo (525-456 a.C.), Sofocle (497-406 a.C.), Euripide (480-406 a.C.), le quali, nonostante le differenze di stile e di personalità degli autori, trova un elemento comune proprio la raf-figurazione di eterne forze in contrasto e sofferenze che drammaticamente colpiscono gli eroi.

Questo mondo è permeato di spirito agonistico, desiderio di imporsi, importante momento della cultura greca. Le feste religiose, infatti, erano in Grecia spesso segnate dalla presenza di agoni e sfide di ogni genere: atleti-che, ludiche, musical-teatrali, poetiche, fisico-estetiche: sullo sfondo di queste forme di lotta si impone il culto dell’areté, della «virtù» intesa come eccellenza psicofisica, come profonda auto-realizzazione del modello di «eroe» greco.

4) Il potere della poesia: educazione e virtù

L’assenza di una classe sacerdotale unitaria centrale che funzionasse come depositaria della coscienza e delle pratiche religiose talvolta viene affiancata nella funzione sacrale dall’arte rappresentata dalla figura dell’artista, e più specificamente del poeta.

La poesia possiede in Grecia un potere che, oltre alla celebrazione del mon-do divino, persegua anche e soprattutto un fine di educazione dell’umano. Questo è il motivo per cui i poemi omerici svolsero a lungo un ruolo didascalico centrale nell’educazione greca. Sintesi del sapere, specchio sociale profondo della società arcaica, l’Iliade e l’Odissea coltivano i valori ed ebbero notevole influsso sulle pratiche educative elleniche.

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Tra questi valori, prioritari ma non unici sono quelli militari, sintesi di eroismo, lealtà, destrezza, disprezzo della viltà.

Si tratta di un complesso di abilità che i greci definiscono, come abbiamo già detto, col termine areté, sintesi dell’unità psicofisica della persona.

Da questo genere di ideale dell’epica omerica la forza e lo sviluppo della corporeità e della potenza è unito alla dimensione del rispetto del

giusto limite: il «nobile» omerico (esthlós) è capace di rispettare l’avversario, di riconoscerne l’onorabi-lità. In questo senso l’areté si trasforma anche su-bito kalokagathía, cioè intreccio di splendore fisi-co (kalós) e altezza spirituale (agathós). L’eroe è pervaso dall’aspirazione ad una saggezza profonda, che importa il dominio di sé, il controllo delle passioni: elementi centrali della storia dell’educa-zione greca e dalla nozione di paidéia.

5) Apollo, Dioniso, Afrodite

Oltre alle Muse cantate dagli dèi, nel pantheon greco, due grandi figure divine si impongono sulle altre, Apollo e Dionisio.

Apollo. Dio del sole, dell’equilibrio, dell’armonia musicale ma soprattutto dio della mantica, cioè della divinazione (il cui culto partendo dal tempio di Apollo di Delfi si diffuse ovunque attorno al 700 a.C).

La mantica consisteva principalmente nella previsione del futuro: se-condo la formula omerica l’esperto di questa «arte» è in grado di conoscere «sia ciò che è, sia ciò che sarà, sia ciò che è stato» (Iliade).

Il rapporto di Apollo con il mántis viene inteso dai Greci come una qualità in grado di stimolare la conoscenza della realtà nella sua interezza. Platone al riguardo, ci fornisce qui un passo esemplare sul lato irrazionale della re-ligiosità mantica:

I maggiori beni ci giungono per mezzo di una follia (manía), concessa per un dono divino. Nel momento della «follia» la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodòna, hanno regalato alla Grecia molte belle cose, mentre invece quando erano «assennate» poco o nulla.Anche tra gli antichi, quelli che imposero i nomi non giudicarono la follia un male o una vergogna, altrimenti non avrebbero chiamato proprio con il nome di «folle» (maniké) l’arte più bella, quella per cui si giudica il futuro. (…)

Paidéia. Il termine deriva da pais, «fanciullo», e signi-fica educazione, formazione culturale e spirituale in senso generale, oltre che trasmissione del sapere e delle norme di comportamento all’interno di un sistema di credenze e di valori condivisi.

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Così l’indagine del futuro gli uomini «assennati» lo realizzano attraverso l’interpretazione del volo d’uccelli e svelando altri segni, poiché con la ragione cercano di dare alla congettura umana intuizione e conoscenza, la chiamarono «conoscitivo-congetturale». (…) Ora, quanto è degna di lode è l’arte «folle» (…) di tanto gli antichi testimoniano che la follia che è divina è più bella dell’assennatezza (Fedro, 244 a6 d5).

L’altro dio che ha influenzato la cultura dalla Grecia a Nietzsche, nell’im-maginario collettivo, nell’arte e nella psicologia dei greci è Dioniso che è opposto al luminoso, equilibrato, rasserenante Apollo in ragione dei suoi tratti oscuri e misteriosi.

I due dei vengono spesso rappresentati in stretta connessione: è storica-mente provato che nei mesi invernali Dioniso sostituiva regolarmente Apollo nel santuario di Delfi, ed è altrettanto certo che alcune tradizioni giungono addirittura all’identificazione delle due divinità.

Come Apollo è il dio della mantica, così Dioniso è il dio della possessione «iniziatica», trasgressiva, musicale esercitata nei riti collettivi. Tale possessio-ne viene vissuta anzitutto dalle «baccanti» (o «mènadi»), figure femminili che onorano il dio in uno stato estatico, caratterizzate da una notevole alterazione della loro psiche.

A livello della religiosità popolare, il primato non spetta tuttavia né ad Apol-lo né a Dioniso, quanto ad Afrodìte, dea dell’amore, ed alla sua controparte maschile, Eros. Quest’ultimo viene annoverato (ad esempio) da Esiodo tra le divinità primordiali, e definito come «il più bello tra gli immortali, che scioglie le membra, e di tutti gli dèi e tutti gli uomini sovrasta nel petto il pensiero e il saggio consiglio» (Teogonia): ad eros non viene infatti attribuita una genealogia propria a dimostrazione della sua universalità, della sua capacità di esprimete la forza cosmica, il principio vitale di tutti i viventi.

6) La religione dei misteri e l’orfismo

Il culto di Dioniso presenta intensi legami con alcuni riti celebrati presso Elèusi (e per questo detti eleusini) sotto la protezione delle dèe Demetra e Persefone, riti che prendevano il nome di mystéria.

Si tratta di sostanzialmente di riti di passaggio, presenti in molte civiltà primitive, cioè manifestazioni sacrali finalizzate a consentire il transito, dalla fanciullezza all’età matura. La più antica testimonianza di questo genere di religiosità misterica si trova nell’Inno a Demetra attribuito ad Omero, nel

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quale viene anche esplicitato il carattere di rigorosa segretezza che doveva circondare i mystéria:

Demetra a tutti mostrò i riti (órgia) santi, che non è permesso trasgredire né apprendere né dire, ché il grande rispetto per gli dèi impedisce la voce. Felice chi tra gli uomini terrestri ha visto queste cose. Ma chi è senza inizia-zione ai sacri riti e senza questa sorte, mai avrà uguale destino, da morto, nelle umide tenebre (Inno a Demetra, 476-482).

7) Dall’eroe alla giustizia

7.1) Le virtù degli eroi omerici

I modelli di virtù presenti nella Grecia antica vengono espressi per la prima volta da Omero. L’Iliade e l’Odissea, infatti, costituiscono due strumenti privile-giati per l’educazione dei giovani e presentano una didattica etica basata sulla nobiltà d’animo e sulla virtù universale dei singoli protagonisti, a prescindere dalla loro «appartenenza» politica.

I due poemi descrivono, però, anche un sistema di valori complesso e fragile.La morale eroica, fondata sulla forza fisica, astuzia e onore, risulta

inconciliabile con il concetto di razionalità del diritto e dello Stato.

Una prima risposta alla contrapposizione tra la forza del singolo eroe e la virtù razio-nale si trova nel lento e graduale affermarsi dell’idea di giustizia.Themis (giustizia) incarna un ordine, una regola comune sia al macrocosmo che al microcosmo ed esprime un ordine giuridico che è nello stesso tempo divino e reli-gioso.Questa visione, ancora mitologica, viene progressivamente sostituita da una concezio-ne della giustizia come dike: ragione oggettiva, consolidata nella memoria collettiva (cioè comune a tutti gli esseri umani) in grado di risolvere i conflitti attraverso un com-promesso dialettico tra posizioni contrastanti.La laicizzazione dell’idea di giustizia si accompagna al sorgere dell’idea di colpa in-dividuale. Non dovendo più farsi carico dei destini di tutta la sua stirpe, il singolo in-dividuo è responsabile solo di sé e delle sue azioni, venendo così meno la conce-zione dello «ftonos ton téon» in base alla quale, spesso, i figli nella vita terrena scon-tavano la colpa degli antenati.

7.2) L’ideale di «giustizia» da esiodo a Solone

Un definitivo abbandono della morale eroica si trova in Esiodo. Il sistema di valori proposto nelle Opere e i giorni, esalta la funzione etica delle attività produttive, forma una sorta di epos del mondo contadino e trova nell’idea di giustizia la caratteristica principale dell’essere umano.

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La necessità di far venir meno la concezione della «giustizia» fondata sull’«ordine di-vino» si afferma decisamente con Eschilo. Il carattere paradossale dell’idea di giustizia divina è rappresentato nell’Orestea, un ciclo di tragedie che narra del ritorno in patria di Agamennone e si conclude con l’istituzione di un tribunale umano – l’aeropago – che lascia prevalere la saggezza giuridico-politica della città sulla «giustizia divina».Lo scopo di Eschilo è quello di magnificare le istituzioni politiche di Atene e mostrare come esse, pur essendo di natura laica, avessero origine divina.

L’idea di Eschilo si conferma nell’ordinamento politico della città di Atene proposto da uno dei sette sapienti: Solone, arconte nell’anno 594 a.C.

Lo statista, noto per le sue coraggiose scelte legislative democratiche, rappresenta l’alfiere della cosiddetta eunomia (buon governo), in cui la legge (nomos) di Atene viene definita «buona» (eu) perché, pur presentandosi come legge umana, è somigliante a quella naturale o divina.

Lo scopo dell’ordinamento di Solone è la concordia cioè conciliare gli interessi e le posizioni contrastanti tra le classi sociali evitando in tal modo la guerra civile e le continue lotte tra aristocrazia e popolo (demos).

Solone, dunque, oscilla tra un mantenimento dello status quo e una serie di rifor-me che tutelano gli strati più bassi della comunità: liberazione della terra, abolizione della schiavitù e abolizione delle ipoteche per debiti.Il governo di Solone spinge i membri della città a riconoscere la supremazia imper-sonale di una legge ed evidenzia il problema della pluralità delle forme di governo e quello della scelta della forma ottimale per governare una città.

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2. Il pensiero ionico e l’origine della filosofia

Di cosa parleremo

La parola filosofia significa etimologicamente «amore della sapienza» ed indica comunemente la riflessione sui principi generali (fisici, logici, etici) del mondo. Il pensiero filosofico nacque e si sviluppò nelle colonie delle Ionia situate sulle coste dell’Asia Minore (l’attuale Turchia) perché le località coloniali poste ai confini del mare furono segnate da un crescente dinamismo intellettuale, agevolato dall’incre-mento delle attività commerciali e da una mentalità più duttile e aperta.Con la nascita della filosofia e della scienza al centro della cultura greca viene posta la razionalità, l’uso metodico dell’intelletto che si sviluppa in forme critiche e che viene a collocarsi al centro di ogni attività sociale. I primi filosofi, esponenti della «scuola ionica», sono anche i primi scienziati del pensiero occidentale («fisici e fisiologi» li chiamerà Aristotele) e la loro riflessione si rivolge, a spiegare le cause prime dei fenomeni naturali.In particolare: nei paragrafi 2 e 3 analizzeremo:— i filosofi ionici ricercano le cause materiali dell’univeso e l’elemento primordiale

(archetipo) che ad esso ha dato origine;— pitagorici si rifanno ad un elemento più astratto: il numero, introducendo così,

il concetto che la matematica e la musica (scienze astratte) nell’ordine univer-sale della realtà;

— gli eleatici (Parmenide, Zenone, Melissa) hanno introdotto il problema «onto-logico», lo studio dell’Essere in quanto le «cose» prima di tutto «sono» e «si manifestano» nella loro statica universalità;

— Eraclito che nega la staticità dell’essere e identifica la vita nel divenire e nel fuoco l’archetipo della vita e come elemento primordiale.

Seguono poi tre altre scuole di pensiero (Empedocle, Anassagora e gli anatomisti: Democrito e Leucippo) che tentano di conciliare l’essere eleatico con il divenire di Eraclito.Il merito di queste ultime correnti è di avere spostato il problema centrale filosofico dal come e quali sono gli elementi primordiali (dei primi filosofi ilozoisti), al perché tali elementi esistono, si conciliano, si contrappongono.Le risposte sono differenti: dal contrato dell’«Amore con l’odio» (Empedocle), all’esi-stenza di una «mente superiore» alla superiorità dell’«uno» come elemento immate-riale (Pitagora).Non si cerca, dunque, più solo la mera «materialità» degli archetipi, ma soprattutto le cause prima dell’ordine e l’armonia delle cose che ci circondano.

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1) Talete: l’acqua come fonte e foce di vita

Nacque e visse a Mileto tra il VII ed il VI secolo a.C. Di lui si hanno solo testimonianze orali indirette poiché probabilmente non scrisse alcuna opera.

Nel primo libro della Metafisica, Aristotele scrive che Talete è il primo pensatore che si sia rivolto alla ricerca delle cause e del principio (arché) da cui sarebbe derivata l’intera realtà nelle sue molteplici manifestazioni.

Secondo Talete, l’archetipo, il principio di tutto è costituito dall’acqua.Oggi non riusciamo con precisione a determinare cosa Talete intendesse

con questa affermazione. Probabilmente si riferiva ad un principio di valore universale che vivifica le cose e le trasforma, rendendole molteplici, pur rimanendo sempre unico e identico a se stesso.

L’acqua, in particolare, è da un lato sostanza (in greco: «ciò che sta sotto», upokéimenon) dall’altro essenza (in greco «ciò che è», ousia): l’acqua, infatti, al di là del continuo mutamento (dal ghiaccio al vapore all’umidità, ecc.) per-mane identica. L’acqua, per il pensatore di Mileto, è fonte e foce di tutte le cose. Tale principio originario pervade la natura; di qui la celebre affermazione attribuita a Talete: «Tutto è pieno di dèi».

Assistiamo dunque qui ad una prima, embrionale, espressione di astrazione del pensiero filosofico nel tentativo di chiarire razionalmente e scientificamente il sostrato comune degli infiniti fenomeni della natura.

2) Anassimandro e l’apeiron

La tradizione vuole che Anassimandro fosse discepolo di Talete.Nacque a Mileto nel 610 circa a.C. e morì intorno alla metà del VI secolo

a.C. Come Talete, il pensatore di Mileto si volge alla ricerca dell’elemento primordiale dell’universo, o arché.

Tuttavia, a differenza di Talete, Anassimandro considera come principio primo l’apeiron, che letteralmente significa «senza» (-a) «limite» (-péras) e che possiamo tradurre con l’«illimitato», l’«indeterminato» l’«inconoscibile».

Anassimandro ha il pregio di aver individuato la genesi dei fenomeni non in un qualche elemento fisico (come l’acqua di Talete) o materiale, bensì in una realtà soprasensibile, non delimitabile, una sorta di origine comune dei fenomeni.

L’apeiron è all’origine delle «qualità contrarie» che determinano tutti i fenomeni (pensiamo al contrasto caldo/freddo, secco/umido, ecc.), proprio in quanto ad ogni elemento naturale corrisponde una determinata qualità (il fuoco rimanda al caldo, l’acqua al freddo e così via).

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Non è un caso che nell’universo secondo Anassimandro ogni cosa sia dotata di limiti precisi: dalla realtà illimitata (apeiron) prendono vita, infatti i vari elementi, ciascuno dei quali diventa, nascendo, un limite per tutti gli altri. Possiamo pertanto intendere l’apeiron come quel sostrato originario da cui provengono tutte le distinzioni e le determinazioni della realtà: in quanto essa rappresenta principio da cui tutto deriva.

3) Anassimene e l’aria (nebulosità)

Discepolo e amico di Anassimandro, Anassimene di Mileto visse tra il 585/80 e il 528/4 a.C. Secondo i pochi frammenti pervenutici, l’arché da cui tutto deriva è qui rinvenuta nell’aria, o meglio (se guardiamo all’accezione predominante nel termine greco arcaico) nella nebulosità.

Secondo Anassimene, l’aria opera sia a livello cosmico/fisico, sia a livello umano e costituisce la nascita e la vivificazione tanto degli uomini quanto l’universo nella sua totalità.

Per spiegare il processo di derivazione degli altri elementi (terra, acqua, fuoco) dall’aria, il filosofo di Mileto fa riferimento a due processi contrari: la rarefazione e la condensazione. Il caldo e il freddo non sono qualità auto-

nome (come nell’ipotesi di Anassimandro), ma esiti del movimento: in questo senso Anassimene sembra anticipare una concezione meccanicistica* dell’uni-verso, riducendo le differenze qualitative tra gli elementi a pure differenze quantitative. (La Terra, ad esempio, vista come risultato della condensa-

zione, è una superficie piatta sospesa nell’aria, attorno a cui ruotano gli astri, a loro volta interpretati come risultato della rarefazione).

Anassimene, porta alle estreme conseguenze il motivo della forza cosmica dell’universo già presente in Anassimandro. Cioè la concezione di un tutto ordinato organicamente in cui ciascuna parte è in funzione dell’altra e del tutto. Il concetto di «aria» rimanda in questo senso anche a profondi significato cosmico-religiosi: essa è interpretabile come pneuma, cioè come «soffio vita-le», «anima del mondo», proprio a convalidare l’ipotesi di un principio vitale e organico, in perenne movimento, da cui tutto si origina e sviluppa.

Per riassumere, diamo uno schema che propone i principi generatori del mondo secondo i protagonisti della scuola di Mileto sono:

Talete ➝ acquaAnassimandro ➝ ápeiron

Anassimene ➝ aria (nebulosità)

Meccanicismo: concezione filosofica ed epistemologica, tipica della filosofia moderna tra il XVII e il XVIII secolo, che riduce la realtà a due soli elementi: materia e movimento.

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4) Pitagora, la scuola pitagorica e il numero

La scuola pitagorica prende il nome da Pitagora (571-697 a.C. circa) che, nato a Samo (isola ionica), si trasferì nella Magna Grecia, a Crotone, dove fondò una comunità religiosa che coltivava interessi filosofici e scientifici.

La tradizione lo descrive circondato da un fascino misterioso, quasi divino, come il «maestro al quale si deve assoluta riverenza e obbedienza».

I discepoli di Pitagora si attenevano rigorosamente all’autorità della dot-trina professata dal maestro. Secondo la tradizione, i Pitagorici conducevano vita in comune, osservavano particolari norme condivise nel modo di vestire e nell’astinenza da alcuni cibi e rispettavano il principio della comunione dei beni.

Il numero, considerato il principio primordiale (archétipo) secondo questa dottrina, pur non essendo una realtà intellettiva, esprime un maggior livello di astrazione rispetto e agli altri «archetipi» della filosofia ionica. Secondo i pitagorici, infatti, il principio fondamentale delle cose non può essere costituito da un elemento materiale.

La realtà, però, non è statica come quella eleatica (v. infra), ma è in continuo mutamento come in eraclito, così come le sue qualità.

Di conseguenza, il principio fondante dell’universo non può avere natura qualitativa, ma quantitativa. Ciò significa che al di là dei mutamenti qualitativi, permane immutato nella realtà un rapporto quantitativo, che è espressione dell’armonia di tutto l’universo.

Le cose dunque si differenziano in base al loro numero e alla loro mi-surabilità: razionale è tutto ciò che è misurabile, calcolabile; irrazionale tutto ciò che resta incommensurabile, incalcolabile.

Di qui il nascere degli opposti: pari/dispari, limitato/illimitato, quiete/movimento. E poiché l’unità, il dispari, è principio di misura e di armonia (armonia intesa come «rapporto» tra numeri) viene identificato con il bene; all’opposto, dal pari, nasce la molteplicità, la disarmonia, e dunque il male.

L’armonia a livello universale si riflette a livello particolare nell’idea che l’anima costituisca un’essenza armonica e immortale.

L’anima, che nel corpo è prigioniera, si purifica attraverso successive tra-smigrazioni da un corpo a un altro (secondo la dottrina della metempsicosi*) finché non diventa degna di ricongiungersi all’Uno, principio divino di tutta la realtà.

Di pitagorici si deve anche l’introduzione del concetto di Kosmos (cosmo), per definire l’universo ove tutto è ordine perché determinato del numero e nel quale l’uno è Dio.

Metempsicosi: credenza nel-la trasmigrazione, purificazione e reincarnazione delle anime dopo la morte.

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I «numeri» per i pitagorici:— sono l’archétipo di tutte le cose perché misurano tutto ciò che ci cir-

conda e giustificano le qualità del mondo;— hanno valore simbolico, magico e armonico: la loro armonia genera

la musica.

5) Eraclito: il logos e il fuoco

La tradizione ci ha tramandato la figura di un Eraclito filosofo oscuro e solitario, cinico e anticonformista il cui pensiero, complesso ed enigmatico, ha affascinato gli interpreti di tutti i tempi.

Della sua vita sappiamo pochissimo. Sembra sia nato ad Efeso, città della Ionia, e che sia vissuto tra il 540 e il 475 a.C. circa. Discendente dai re di Efeso, si ritirò dalla vita politica della sua città, dominata dai persiani, quando gli abitanti di efeso si ribellaro-no all’aristocratico Ermodoro, del partito di Dario, amico di Eraclito.

Del suo scritto, Sulla natura (perì fuseos), composto probabilmente non prima del 478 a.C., sono rimasti 140 frammenti. Ancora oggi risulta estre-mamente difficoltoso comprendere l’essenza, o il messaggio autentico, di quest’opera costituita da aforismi. Con Eraclito, infatti, ha inizio quell’intrec-cio di forma e contenuto che caratterizzerà la storia «stilistica» della filosofia occidentale: contenuti complessi vengono espressi attraverso uno stile a tratti quasi inafferrabile.

Il logos. L’idea dominante della sua filosofia è che l’intera realtà sia retta da un principio unitario (così come per i Milesi), a cui tutto risulta collegato.

Tale principio è il logos. Si tratta di un termine dai molti significati: si riconnette al verbo greco legein, che significa «legare» ma anche «parlare», «discutere», «raccordare» elementi diversi. Partendo da questa etimologia, il termine assunse successivamente anche il significato di «discorso interiore», di «dialogo interno». Di qui il passaggio al significato di «ragionamento» e soprattutto a «ragione», ossia la facoltà di effettuare connessioni logiche, riflessioni interiori.

Per Eraclito i significati della parola logos sono essenzialmente tre, tutti tra loro connessi. Logos è anzitutto:

1) la «ragione» che governa l’universo, la sua legge universale;2) il «pensiero» che coglie tale ragione universale; 3) il «discorso» che esprime questa conoscenza.

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Il fuoco. Sebbene egli affermi che il «principio è il logos», un’entità as-solutamente astratta dunque, tuttavia sente ancora il bisogno, come Talete, di concretizzare tale principio in qualcosa di empirico, di materiale: più preci-samente, nel fuoco, archetipo più fluido ed etereo degli altri elementi primi.

L’universo in questo senso non è il prodotto di dei o degli uomini, ma rappresenta un ordine universale unico ed eterno.

Il fuoco di Eraclito non costituisce, come l’acqua o l’aria, esclusivamente un «elemento naturale», ma il segno di un ordine nel movimento naturale: il fuoco si accende e si spegne regolarmente, come dimostra anche il sole, che brilla (di giorno) e si spegne (di notte) e tende sempre in alto.

La vicenda cosmica in tutti i suoi aspetti e nelle sue continue trasfor-mazioni non rappresenta un divenire disorganico o caotico, ma è regolata secondo ritmi, regole, leggi ben precisi. Ciò si spiega anche la metafora fondamentale di Eraclito dell’allusione al logos come polemos, cioè come «conflitto», che diventa il simbolo di tutte le lotte e trasformazioni che ac-cadono nell’universo, e della loro superiore unità che consiste nell’identità degli opposti in tensione tra loro.

Questa forma di «guerra» che è ovunque («Polemos è signore di tutte le cose», scrive Eraclito) è il segno di una incessante mutazione dell’essere: il divenire di tutte le cose, di cui parla Eraclito, è l’esito dell’eterno conflitto che investe il tutto e che si esprime nella continua tensione e trasformazione di un contrario nell’altro.

Il fuoco in questo senso suggerisce l’idea di dinamicità, di trasformazione e, infine, di armonia degli opposti: dove c’è fuoco c’è la vita ma anche morte (similmente, in greco, il termine «bios» denota sia la vita che la sua interruzione).

Critica a Pitagora. Nella visione di Eraclito, il divenire si esplica nel pas-saggio incessante da un contrario all’altro (guerra / pace, amore / odio, fame / serietà). Nell’alternarsi, i contrari vivono in una perenne dimensione di guerra e armonia.

Su queste basi, si apre la polemica di Eraclito contro la scuola pitagorica: Pitagora viene giudicato «inventore di coltelli», vale a dire dell’arte pericolosa della retorica, il cui unico scopo è affascinare e sedurre l’ascoltatore con dialoghi raffinati ma privi di verità. Della concezione pitagorica viene, inol-tre, contestata sostanzialmente l’idea di un’armonia dei contrasti che si evidenzia nella natura e nella struttura numerica e musicale della realtà.

Al contrario di Pitagora, la vera armonia è per Eraclito sempre e costante-mente tensione tra i contrasti. «Divenire» significa proprio transitare da un opposto all’altro. Ancora in questo senso infine è da interpretare il più celebre frammento eracliteo.

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«Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo», che va inteso come attestazione dell’eterno fluire delle cose (principio del «tutto scorre», pànta rhèi) quanto come conferma dell’idea di coincidenza degli opposti: immersi in un fiume, siamo e, al contempo, non siamo in esso ma non ci bagnamo mai nella stessa acqua per il continuo fluire della stessa.

La celebre frase del pànta rhèi sintetizza la visione eraclitea di un perpetuo divenire che procede per continui passaggi da un opposto all’altro.