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UNA SVOLTA PER LA RAPPRESENTANZA

PAPER CISL FP

Luglio - Agosto 2015 4

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Contrattazione e innovazione organizzativa

Una SvoLta Per La raPPreSentanza

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Contrattazione e innovazione organizzativa

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CONTRATTAZIONE E INNOVAZIONE ORGANIZZATIVA

Amministrazioni pubbliche che sono per il Paese ciò che la Fca è, oggi, per il mercato dell’auto. Cioè players innovativi e avanzati del settore pubblico per prodotti/servizi, organizzazione, processi. “Pomigliano pubbliche” gestite come punti di snodo di una piattaforma integrata di servizi, che mette al centro del rilancio produttivo 3 milioni e oltre di lavoratori competenti, motivati, coinvolti nella riorganizzazione, legati da un’identità di servizio. Va in questa direzione lo slancio progettuale e innovativo che i lavoratori pubblici, nel rivendicare l’apertura immediata delle trattative per il rinnovo del contratto e una riforma partecipata della Pa, hanno chiesto al Governo nelle assemblee di Milano, Roma e Bari, culminate nella manifestazione nazionale del 29 luglio scorso. Cioè meno sprechi, meno burocrazia, meno gerarchia e più innovazione organizzativa, più investimento in competenze, più partecipazione al cambiamento dei servizi che chiedono cittadini ed imprese. Nel disegno di legge Madia non vi è traccia di risposte esaustive alle legittime istanze avanzate dal pubblico impiego. Ancora una volta si percorrono strade giù battute in passato invocando la funzione taumaturgica delle norme (rilegificazione del rapporto di lavoro, maggiore unilateralità decisionale, riduzione degli spazi di negoziazione, inasprimento dei controlli di merito e di compatibilità economico-finanziaria dei contratti). Ancora una volta, cioè, manca il coraggio di agire sui processi di produzione dei servizi e sulle persone, invertendo l’asimmetria tra aziende che innovano, investono, competono, rischiano/ persone che chiedono tutela, sostegno al reddito e alle non autosufficienze e amministrazioni che frenano, drenano

risorse, frammentano procedure e autorizzano in tempi diversi. Il rischio, al netto dell’ennesima riforma, è quello di consegnare al Paese una Pa, autoreferenziale, volutamente disorganizzata, costruita per legge e complicazioni normative calate dall’alto. Concepita come erogatore di procedure e “pratiche” sconnesse, piuttosto che come piattaforma di servizi governata dalle competenze dei lavoratori, capace di intercettare e anticipare la domanda, rispondendo con un’innovazione organizzativa che garantisce qualità, appropriatezza, velocità, sostenibilità. In una parola, votata alla “presa in carico” dei bisogni.

Le ragioni della protesta

Allo stato attuale, quello del governo è un intervento di manutenzione della facciata, che non entra nel cuore del problema, non segue un disegno vero di cambiamento; un’altra riforma per apparati, non per politiche e servizi, per “costo”, non per “asset” e funzioni. Visione che peraltro preclude, quasi ideologicamente, la possibilità di concepire il dialogo sociale, la concertazione e le sedi negoziali come strumenti di confronto sui grandi temi (riorganizzazione dei processi, valorizzazione professionale etc.). C’è un fil rouge che lega i sei anni di blocco contrattuale alla scelta, messa nero su bianco nel testo dell’art. 13 del disegno di legge, di “blindare” materie e sedi negoziali: il dialogo sociale è un costo, la partecipazione dei lavoratori è debolezza datoriale, la contrattazione è mero strumento di concessione salariale. Assunti sbagliati questi: non per difesa corporativa e affezione ideologica alle rivendicazioni sindacali. Ma perché a sostenerne l’infondatezza, oltre ai numeri, sono due massimi organi dello Stato.

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La Corte dei Conti, a maggio 2015, afferma a chiare lettere che “esaurita la fase più severa della crisi economica (...) occorre, riprendere il percorso di definizione di una ordinaria politica di personale in grado di intervenire sulle debolezze e sulle criticità di sistema, in parte acuite da un approccio fortemente condizionato dalle esigenze di rispettare i vincoli di bilancio. In tale contesto la fisiologica ripresa dell’attività negoziale - da condurre sulla base di parametri di crescita retributiva

La voce “redditi da lavoro dipendente” continua a scendere (unico caso di trend negativo tra le voci in uscita dalle casse dello Stato) registrando nel 2014 un valore di 163,8 miliardi (il 10,1 % del PIL (Tab. 1)). Il risultato? Produttività ferma, sviluppo professionale al palo, innovazione organizzativa assente, offerta di servizi sempre più ridotta a fronte di una dinamica crescente della spesa pubblica attestatasi a quota 826 miliardi (+ 27 miliardi dal 2011)(Grafico 1).

TABELLA 1. SPESA PUBBLICA DISAGGREGATA

milioni di euro in % di PIL

2012 2013 2014 2012 2013 2014Redditi da lavoro dipendente 166.130 164.910 163.874 10,3 10,2 10,1Totale spese finali 820.041 819.934 826.262 50,8 50,9 51,1

(Elaborazione su dati Mef, DEF 2015)

compatibili con il quadro programmatico dell’evoluzione della finanza pubblica - dovrà essere accompagnata da un riequilibrio nella composizione delle retribuzioni oggi caratterizzate dalla assoluta prevalenza delle componenti fisse e continuative, con minime disponibilità per una politica di personale incentrata sulla premialità e sulla valorizzazione del merito individuale” (Cfr. Corte dei Conti, Rapporto sul coordinamento della Finanza pubblica 2015). Sempre

GRAFICO 1. LA DINAMICA DELLA SPESA PUBBLICA

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secondo la Corte “Il lungo periodo di blocco della contrattazione di parte economica non è stato, utilizzato, diversamente da quanto auspicato, per la necessaria ridefinizione e per il completamento del vigente quadro normativo (...) allo stato restano da definire aspetti importanti, prodromici alla ripresa dell’attività negoziale (...) come la revisione della cornice ordinamentale, relativa al concreto svolgimento della contrattazione collettiva, derivante dall’accordo di maggio 2009 sull’assetto delle relazioni sindacali nel pubblico impiego e dalla normativa, non sempre coordinata, contenuta nel successivo d.lgs. n. 150 del 2009”.Si tratta di considerazioni condivise anche dal Rapporto finale dell’allora Commissario per la revisione della spesa pubblica, Carlo Cottarelli, che sottolineava come la riduzione del numero degli addetti (- 222.000 dal 2006) e il congelamento dei trattamenti economici – benché indubbiamente efficaci in termini di assestamento della finanza pubblica, non potevano essere reiterate in condizioni normali tanto da invocare “l’urgenza di una strategia post crisi”.Strategia che l’Esecutivo ha risolto nella reiterazione del blocco contrattuale e in una più generale negazione del confronto e della partecipazione. E’ stata, da ultimo, la Corte Costituzionale, con sentenza 178/2015 del 24 giugno scorso, ad aver confermato la fondatezza (in via di fatto e di diritto) delle istanze avanzate da 3 milioni di lavoratori pubblici e dalle loro rappresentanze. Ciò che viene sanzionato non è il blocco della contrattazione in quanto tale, che può determinarsi se condizioni gravi di finanza pubblica lo ipotizzano come possibile, parziale e temporanea soluzione, ma il fatto che il suo protrarsi per un periodo prolungato e indeterminato gli facciano perdere quei caratteri di provvisorietà ed eccezionalità che sono i soli a consentire la sospensione di un diritto costituzionalmente riconosciuto.

Quel diritto è la “libertà sindacale”, ed è cristallizzato all’art. 39 della Costituzione. La Corte afferma che “il carattere ormai sistematico di tale sospensione sconfina, dunque, in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale (art. 39, primo comma, Cost.), indissolubilmente connessa con altri valori di rilievo costituzionale e già vincolata da limiti normativi e da controlli contabili penetranti (artt. 47 e 48, d.lgs. n. 165 del 2001), ed esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa, all’interno di una coerente programmazione finanziaria (art. 81, primo comma, Cost.). Il sacrificio del diritto fondamentale tutelato dall’art. 39 Cost., proprio per questo, non è più tollerabile”.Oltre ad una perdita retributiva consistente (Tab. 2), ciò che si evince a chiare lettere dal dispositivo della sentenza è che il principale bene compromesso sono gli effetti positivi che la contrattazione collettiva avrebbe potuto avere in questi anni di blocco sui processi di lavoro e, in ultima analisi, sulla qualità dei servizi. Viene confermato, cioè, un assunto che il Governo continua a negare: la contrattazione ha un ruolo fondamentale, non solo per la retribuzione ma anche per il merito e le altre condizioni di lavoro che incidono su aspetti organizzativi inerenti i servizi. La sentenza, per la prima volta, travalicando la sola dimensione retributiva della contrattazione, valorizza indirettamente il ruolo di rappresentanza e tutela svolto dalle organizzazioni sindacali, riconosce il valore strategico della partecipazione, da forza e solidità alla richiesta di riaprire le trattative per il rinnovo del contratto e per una riforma della Pa fatta insieme ai lavoratori: con meno sprechi, meno burocrazia, meno gerarchia e più innovazione organizzativa, più investimento in competenze, più partecipazione dei lavoratori al cambiamento dei servizi che chiedono cittadini ed imprese.

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Il blocco dei rinnovi dei ccnl, peraltro, ha avuto effetti perversi anche rispetto ai contratti integrativi, che in gran parte non sono stati adeguati, e alle risorse da destinare alla contrattazione integrativa. Cosi, oltre al danno economico per i lavoratori a rimetterci è la produttività perché: si depotenzia la principale leva di

modernizzazione della Pa impedendo il consolidamento di procedure, competenze e professionalità, con inevitabili, negativi riflessi sulla quantità e sulla qualità dei servizi;

In base ai dati del Ministero delle Finanze e della Ragioneria dello Stato, i lavoratori pubblici in busta paga hanno perso, in 5 anni, dai 3 ai 4 mila euro ciascuno a seconda dei comparti: per la precisione 4.900 euro in media per un dipendente degli Epne, 4.000 nelle Agenzie fiscali, 3.400 nella sanità, 3.100 nelle Regioni e autonomie locali, 3mila nei ministeri. In termini di potere d’acquisto, significa una perdita di 8,5 punti percentuali (al 2013).

TABELLA 2. PERDITA RETRIBUTIVA PER MANCATI RINNOVI CCNL, PERSONALE NON DIRIGENTE

COMPARTO retribuzione media 2009

perdita 2010- -2012

perdita 2013- -2015

totale importi persi per mancati rinnovi

scuola 25.959,02 1.829,57 1.179,64 3.009,21

ist. form.ne art.co mus.le 35.250,99 2.484,46 1.601,89 4.086,35

ministeri 28.180,96 1.986,17 1.280,61 3.266,78

presidenza consiglio ministri 50.750,04 3.576,82 2.306,21 5.883,03

agenzie fiscali 35.263,05 2.485,31 1.602,44 4.087,75

enti pubblici non economici 42.851,96 3.020,17 1.947,30 4.967,47

enti di ricerca 34.745,03 2.448,80 1.578,90 4.027,70

università 26.881,00 1.894,55 1.221,54 3.116,09

servizio sanitario nazionale 30.179,00 2.126,99 1.371,41 3.498,40

regioni ed autonomie locali 28.410,95 2.002,38 1.291,07 3.293,45

regioni a statuto speciale 33.138,03 2.335,54 1.505,87 3.841,41

autorità indipendenti 66.283,01 4.671,57 3.012,06 7.683,63

enti art.70, c. 4 - - d.lgs 165/2001 51.478,06 3.628,13 2.339,28 5.967,41

enti art.60, c. 3 - - d.lgs 165/2001 29.237,01 2.060,60 1.328,60 3.389,20

Fonte: Cisl Fp

si allontanano le sedi decisionali dal posto di lavoro. Non è un caso che il disegno di legge delega sulla riforma delle amministrazioni da un lato rafforza il potere centrale (creando un legame più forte tra Aran e Dipartimento della Funzione pubblica) dall’altro restringe gli spazi negoziali a livello decentrato;

visti i numerosi rapporti che intercorrono tra settore pubblico e privato non si considera l’influenza reciproca e, in ultima analisi, le ricadute negative sulla competitività del sistema.

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Il coraggio di innovare

La riforma della Pa sconfessa i principi enunciati nella sentenza. Riduce la contrattazione a strumento di scambio salariale, guarda al lavoro pubblico con occhi disillusi, accentua il verticismo gerarchico e, ciò che più conta, nega il valore del contratto collettivo come patto sociale tra il Paese e i 3.232.954 lavoratori pubblici, appartenenti a 584 profili professionali diversi In più, si accentua e si formalizza per legge, lo stato di “libertà vigilata” nel quale dal 2010 ad oggi versa anche il secondo livello contrattuale. Quanto di più distante, dunque, dall’idea di “relazioni sindacali per valorizzare le risorse umane, ampliare i momenti di dialogo, ridurre le occasioni di conflitto” e dall’intenzione di “individuare il metodo partecipativo quale strumento efficace per trovare soluzioni coerenti con gli obiettivi condivisi di tutela e coinvolgimento dei lavoratori, miglioramento delle loro condizioni e tutela della competitività aziendale” (Cfr. Contratto collettivo specifico di lavoro tra Fca e Cnh e le OO.SS firmatarie, 7 luglio 2015). Si tratta di principi e linee guida, fissati in sede negoziale, che provengono dalla parte più avanzata del settore privato, laddove, il miglioramento della competitività dell’unità produttiva (e gli incrementi salariali che ne conseguono) passano attraverso professionalità, valorizzazione delle competenze, ergonomia, benessere organizzativo, welfare aziendale, condivisione e miglioramento degli indicatori gestionali. E ancora, dove in tema di crescita professionale si promuove la valorizzazione e l’utilizzazione delle capacità professionali dei lavoratori al fine di favorirne la proattività e la propositività rispetto alle decisioni aziendali e si eroga una formazione diretta non solo al potenziamento delle competenze tecniche ma anche al miglioramento

dei comportamenti organizzativi. In una parola, si mette la persona al centro del processo produttivo.

Il progetto di riforma della PA presentato dall’esecutivo si muove in direzione opposta: affida la rilevazione delle competenze alla legge, riduce materie e sedi negoziali, accentua piuttosto che attuarlo il processo di rilegificazione del lavoro pubblico, non mette in discussione l’assetto strutturale e non affronta il nodo critico dell’impatto delle norme sul comportamento di attori e decisori ai diversi livelli. Nel privilegiare lo strumento legislativo, infatti, riproduce una serie di errori del passato: la prevalenza di principi astratti di cui le conseguenze operative sono oscure e ingovernabili; una attenzione alla ripartizione di competenze basata su evidenze meramente formali, che non considerano la reale prassi in atto nelle strutture di base; una ricerca di efficienza ed efficacia prevalentemente per linee verticali, che non sviluppa una visione sistemica e di rete e non considera adeguatamente i rapporti di integrazione e possibile ristrutturazione per linee orizzontali.C’è una carenza di realismo, una pretesa di poggiare l’azione su un astratto “dover essere”, senza una sufficiente consapevolezza del grado di complessità di realtà tanto diversificate come quelle degli uffici pubblici, nei quali una gestione del sistema decentrato di relazioni sindacali fondata esclusivamente su basi autonomistico-discrezionali (e dunque, di fatto, neo-autoritarie), rischia di generare una inefficienza diffusa. La riforma rifugge nell’astrattezza delle regole generali, ripropone quella eccessiva distanza fisica, culturale, organizzativa e psicologica, che separa i tavoli di progettazione governativa dalla vita concreta degli enti.

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Al contrario, la parte più avanzata del settore privato ci insegna che la produttività è insita nei luoghi di produzione: è in questa sede, quindi, che va regolato il suo incremento, nonché la ripartizione dei benefici economici che ne derivano. E’ soltanto a questo livello che possono essere governate le esigenze di flessibilità organizzativa che la legge, operando in modo omogeneo e astratto, non può per sua natura cogliere e stabilire.

Investire sulle persone

Se è vero che la pubblica amministrazione si trova al centro di un progetto di cambiamento strutturale che interessa il livello centrale e locale, è irrealistico prescindere da un rinnovamento e dalla valorizzazione degli skills dai quali dipenderà, in ultima istanza, la tenuta del nuovo sistema. Perchè se si vuole riformare le infrastrutture istituzionali, alleggerendo l’impianto organizzativo e ridisegnando funzioni e servizi, è quanto mai opportuno mappare, valorizzare e formare, laddove mancanti, le competenze atte a supportare e veicolare in termini produttivistici il cambiamento. In questa ottica, la stessa mobilità intercompartimentale, oggi intesa secondo una accezione negativa, assumerebbe i connotati di uno strumento organizzativo funzionale al riordino. Il che significa, semplicemente, che la grande sfida è trasformare la crisi del settore pubblico in una straordinaria occasione di sviluppo.Per coglierla, uscendo dalla spirale recessiva blocco della produttività – diminuzione della competitività – aumento delle disuguaglianze sociali, si deve tornare ad investire sulle persone, creando le condizioni perché chi lavora per migliorare i servizi pubblici possa essere riconosciuto, valutato e premiato.

La crisi del modello di produzione taylor-fordista che ha interessato il mercato dei prodotti ha coinvolto anche quello dei servizi pubblici, favorendo, parallelamente, lo sviluppo di nuove identità professionali: le professioni dei servizi, in grado di proporre le proprie competenze ai clienti finali e intermedi, e di condividere all’interno dell’azienda le proprie conoscenze, creando in tal modo un modello operativo a rete che ha trasformato le aziende in organizzazioni più flessibili, innovative e competitive (cfr. F. Butera, Futuro professionale: dal taylor-fordismo a nuovi modi di produzione, Working paper IRSO, n. 1/2015). Tra i profili professionali, che compongono, complessivamente, l’universo della PA, oltre 47o sono quelli rappresentati dal nostro sindacato. Nei rispettivi comparti di appartenenza, questi rispondono ad una fetta molto ampia di offerta di servizi pubblici: dalla manutenzione logistica, ai servizi informatici, contabili, gestionali; dai servizi educativo-scolastici, alla sicurezza; dalla conservazione e promozione dei beni culturali, ai servizi amministrativi; dai servizi sanitari, tecnico-sanitari, socio-assistenziali e di assistenza, a quelli ricettivi; dalla formazione, all’assistenza giudiziaria, legale e statistica; dai servizi di promozione e comunicazione alla manutenzione, cura, tutela e promozione del territorio. Si tratta di profili ad alto contenuto di conoscenza che offrono servizi ad un utente finale, individuale o collettivo (persone, famiglie, imprese) ma anche capaci di “vendere” il proprio know how a unità organizzative intermedie, come le strutture interne alle amministrazioni pubbliche e che con esse si integrano per chiudere un processo organizzativo primario (professioni dell’ICT, progettisti di prodotto e servizio, etc.). Sono figure professionali che operano nella PA,

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imbrigliati in sistemi di inquadramento e declaratorie ormai obsolete, strutturate per aggregati di mansioni e non di responsabilità e competenze, privati della possibilità di esprimere il loro potenziale, trattati alla stregua di numeri e centri di costo, più che di risorse sulle quali fare leva per costruire una strategia di rilancio della produttività. L’azione di rappresentanza del lavoro pubblico, oggi, deve ripartire da qui: dal dare un volto specifico, un nome, un riconoscimento contrattuale a quell’universo poliedrico e knowledge intensive dei professionisti dei servizi. Lavoratori che vanno valorizzati e inseriti in forme di organizzazione del lavoro che ne potenzino la produttività, la creatività e la capacità di fare rete, sviluppando servizi di qualità, veloci e a basso costo, in una sana relazione con i territori e le imprese. Il primo passo per attuare tale progetto è riconquistare la piena agibilità dello strumento contrattuale, abbandonando ogni velleità corporativa o conservativa (di ritorno anacronistico al pan-contrattualismo), per assumere un atteggiamento propositivo. In tal senso serve un’idea chiara su quale “prodotto-servizio pubblico” si voglia offrire; e se il Governo difetta di progettualità e non delinea un disegno organico, è la rappresentanza, nel suo agire concreto e capillare a dover indicare la strada dell’innovazione, non come esercizio episodico ed emergenziale, ma come impegno costante e strutturale delle singole unità amministrative. A partire proprio dalla formazione e formalizzazione di un repertorio di “professioni strategiche” che deve poter contare su sistemi di inquadramento adeguati, strumenti di sviluppo professionale e modelli organizzativi capaci di supportare processi di servizio complessi.

#Contratto subito

Svilire la rappresentanza e il suo principale strumento di espressione, la contrattazione, intesa come luogo di responsabilità, progettualità e positivo protagonismo, significa non saper cogliere un segno dei tempi. Perché se oggi si chiede alle amministrazioni pubbliche di migliorare la qualità del servizio con risorse sempre più scarse, al pari di un’impresa privata soggetta alle turbolenze del mercato, occorre metterle nelle condizioni di poter operare una riorganizzazione interna. Per questo, con le manifestazioni culminate nell’assemblea del 29 luglio scorso, i lavoratori pubblici hanno chiesto la riapertura immediata della stagione contrattuale, per discutere di organizzazione del lavoro, efficienza dei servizi pubblici, innovazione, formazione, risparmi nella pubblica amministrazione, a livello centrale e locale, per un concreto riordino della Pa fondato su una partecipazione attiva e responsabile dei lavoratori. La piattaforma per i rinnovi contrattuali presentata nelle assemblee unitarie di Roma, Bari e Milano si muove in questa direzione, chiedendo: il recupero di spazi di partecipazione per i

lavoratori (“il vero potenziale da liberare”); un CCNL nazionale, per tutelare il

lavoro dalle interferenze della legge e per garantire diritti economici e normativi generalizzati ed esigibili;

il rafforzamento del ruolo del contratto integrativo, per garantire nel dettaglio voci quali: orari, organizzazione del lavoro, formazione professionale, innovazione nei prodotti e nei processi, valutazione e performance, riconoscimento economico e professionale, dignità e sicurezza dei luoghi di lavoro;

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nuovi sistemi di classificazione per le 584 professioni della PA;

tutela occupazionale e criteri per una mobilità condivisa;

inclusione di materie quali formazione professionale, benessere organizzativo, trasparenza sugli appalti all’interno degli accordi tra le parti.

I tavoli contrattuali non sono solo una sede di redistribuzione di risorse economiche. Sono il luogo dove, a partire dalle competenze dei lavoratori, si costruiscono le basi di un welfare più veloce, moderno ed efficiente. Dove si concretizzano modalità innovative di integrare la tutela del lavoro con l’eliminazione degli sprechi di risorse pubbliche. Per questo, a salvaguardia dell’autonomia e della libertà del soggetto sindacale, l’esperienza di rappresentanza dovrà cimentarsi su terreni che si collocano a monte e non più a valle delle decisioni finanziarie delle amministrazioni, attivando strumenti ed alleanze che abbandonino la gestione domestica del confronto e che integrino la tutela del lavoro (ricerca delle risorse) con quella sociale (eliminazione della spesa improduttiva e degli sprechi).

La mission, infatti, non è più solo quella di decidere come utilizzare le risorse in modo equo e ottimale, ma anche di individuare sacche di spesa improduttiva con cui finanziare l’azione di rappresentanza. Non interessa una contrattazione concessiva o difensiva. Il baricentro va spostato a livello aziendale dove si vede quanto si lavora, come e con quali risultati. E dove bisogna costruire piani industriali di ente, per aumentare flessibilità organizzativa e produttività. Cioè competitività delle aziende pubbliche che premia la performance e il merito.

Si tratta di promuovere un approccio

partecipativo e collaborativo alle relazioni sindacali passando dal conflitto contrattuale sindacale nazionale alla partecipazione ai risultati/utili ottenuti con la riorganizzazione innovativa e dall’antagonismo al partenariato aperto, collaborativo, creativo, innovativo. Ridefinendo un nuovo equilibrio tra i due livelli di contrattazione, per coniugare il ruolo unificante di cornice normativa ed economica del contratto collettivo nazionale (diritti economici e normativi omogenei, esigibili su tutto il territorio nazionale) e la funzione organizzativa del contratto integrativo che definisce parametri, criteri, percorsi di riorganizzazione, individua gli spazi di spesa improduttiva, recupera risorse economiche per finanziare programmi di produttività collegati a riconoscimenti retributivi, valorizza gli aspetti territoriali e/o aziendali dell’organizzazione del lavoro e dei servizi flessibilizza i modelli operativi orientadoli a qualità, velocità, misurazione, trasparenza. Per questo occorre aggiungere nel concreto e fuori da modelli rigidi di riferimento, altre “materie” al sistema di relazioni sindacali in via di costruzione. Poiché nel processo di cambiamento elementi di conoscenza organizzativa (come allocazione delle risorse nei servizi, struttura del bilancio, dotazioni organiche e politiche occupazionali, trasparenza negli appalti) sono indispensabili per definire assetti che poi avranno conseguenze anche sul rapporto di lavoro in termini di professionalità (posseduta o da formare), orario, dislocazione della sede lavorativa (mobilità). Alle relazioni sindacali di secondo livello, inoltre, vanno demandati le modularità degli orari, la crescita professionale, il salario aggiuntivo a quello definito nel CCNL, la valutazione della performance organizzativa e la contestuale definizione di criteri di qualità e di servizio.

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E ancora, chiediamo di riportare al centro i bisogni della persona, trasformando enti, aziende, agenzie locali e centrali delle amministrazioni pubbliche e soggetti privati, che operano come isole non connesse (con costi e passaggi burocratici aggravati, responsabilità poco chiare, scarsa trasparenza) in reti integrate di servizi veloci e professionali. E’ un processo che richiede di guardare a tutti i soggetti coinvolti nell’erogazione dei servizi, siano essi pubblici o privati, con una nuova strategia contrattuale: i contratti di filiera. Per questo

abbiamo proposto l’avvio di un confronto tra le parti per arrivare, nell’arco di tre tornate contrattuali, a contratti unici per le funzioni centrali, i servizi locali, la sanità, i servizi socio-sanitario assistenziali in cui pubblico e privato convergano, promuovendone l’integrazione come deterrente ai fenomeni di dumping tra lavoratori che svolgono le stesse funzioni. In una parola, l’obiettivo è quello di innovare il modello operativo della Pa, transitando dalla prestazione autoreferenziale ad una piattaforma integrata di servizi.

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