Paolo D'Alessandro & Andrea Potestio - Filosofia della Tecnica

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INTRODUZIONE Ritenere che una ‘filosofia della tecnica’ possa proporre la considerazione critica su uno specifico oggetto, significa cadere nell’equivoco di intendere in modo riduttivo la ‘tecnica’ come un oggetto, puro e semplice. Si pensa inoltre, e di conseguenza, agli stessi strumenti tecnici come enti neutrali, inerti e oggettivi, totalmente disponibili ai comandi dei loro fruitori, in vista di precise finalità, che con essi s’intendono conseguire. Tale considerazione pregiudiziale è da ritenere, a nostro avviso, come ingenua e fuorviante, perché non arriva neppure a sfiorare il problema filosofico, in- capace com’è di operare il necessario approfondimento teoretico, che valuti la tecnica in conformità con il nostro essere e imponga così l’attenzione alla riflessione biunivoca, che intercorre tra uomo e suo mondo. Nella sua esistenza, infatti, l’uomo è da sempre determinato dal conte- sto ambientale storico-sociale in cui viene a trovarsi, per cui la definizione heideggeriana di in der Welt Sein non comporta il fatto che un ente sia da in- serire o da localizzare in un altro ente, come se si trattasse di un contenuto nel proprio contenente. Non vengono pertanto messi in relazione due enti, che sono già dati nella propria identità, ma piuttosto si prende atto di una totalità nella quale è possibile, e solo in seconda istanza, dipanare la coim- plicazione e la confusione, tale per cui ciascuna entità è in grado di determi- nare l’atto stesso del costituirsi identitario del proprio essere, solo mediante la relazione che si instaura con l’altra entità. Il nostro essere qui e ora (Dasein, l’esserci), dunque, si caratterizza come ‘mondano’. Ma che mondo è mai il nostro? Siamo oggi testimoni di un formidabile processo di globalizzazione, che arriva a caratterizzare un mondo comune. Proprio facendo perno su un indubbio progresso scientifico, infatti, l’Occidente impone in ogni dove, con ogni mezzo e a chiunque la propria Weltanschauung, per lo più legata al mercato, assieme alla propria cultura. Almeno per il momento, dunque, è il nostro il mondo dominante, i cui caratteri sono determinati da scienza e da tecnica; meglio ancora la tecnica, e più specificamente oggi le tecnologie telematiche, orienta, indirizza e so- 7

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INTRODUZIONE

Ritenere che una ‘filosofia della tecnica’ possa proporre la considerazionecritica su uno specifico oggetto, significa cadere nell’equivoco di intenderein modo riduttivo la ‘tecnica’ come un oggetto, puro e semplice.

Si pensa inoltre, e di conseguenza, agli stessi strumenti tecnici comeenti neutrali, inerti e oggettivi, totalmente disponibili ai comandi dei lorofruitori, in vista di precise finalità, che con essi s’intendono conseguire. Taleconsiderazione pregiudiziale è da ritenere, a nostro avviso, come ingenua efuorviante, perché non arriva neppure a sfiorare il problema filosofico, in-capace com’è di operare il necessario approfondimento teoretico, che valutila tecnica in conformità con il nostro essere e imponga così l’attenzione allariflessione biunivoca, che intercorre tra uomo e suo mondo.

Nella sua esistenza, infatti, l’uomo è da sempre determinato dal conte-sto ambientale storico-sociale in cui viene a trovarsi, per cui la definizioneheideggeriana di in der Welt Sein non comporta il fatto che un ente sia da in-serire o da localizzare in un altro ente, come se si trattasse di un contenutonel proprio contenente. Non vengono pertanto messi in relazione due enti,che sono già dati nella propria identità, ma piuttosto si prende atto di unatotalità nella quale è possibile, e solo in seconda istanza, dipanare la coim-plicazione e la confusione, tale per cui ciascuna entità è in grado di determi-nare l’atto stesso del costituirsi identitario del proprio essere, solo mediantela relazione che si instaura con l’altra entità.

Il nostro essere qui e ora (Dasein, l’esserci), dunque, si caratterizzacome ‘mondano’. Ma che mondo è mai il nostro?

Siamo oggi testimoni di un formidabile processo di globalizzazione,che arriva a caratterizzare un mondo comune. Proprio facendo perno su unindubbio progresso scientifico, infatti, l’Occidente impone in ogni dove,con ogni mezzo e a chiunque la propria Weltanschauung, per lo più legata almercato, assieme alla propria cultura.

Almeno per il momento, dunque, è il nostro il mondo dominante, i cuicaratteri sono determinati da scienza e da tecnica; meglio ancora la tecnica,e più specificamente oggi le tecnologie telematiche, orienta, indirizza e so-

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Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

stanzia il progresso stesso delle nostre scienze. Proviamo qui a pensare allacapacità omnipervasiva dei sistemi computerizzati, non soltanto nell’ambitodella produzione, con l’alta tecnologia e la robotica, ma ormai anche nellavita di tutti i giorni, con macchinari elettronici delegati all’utilizzo e alla si-curezza di automobili, così come delle apparecchiature e degli utensili pre-senti nelle nostre abitazioni.

C’è permesso di agire anche se soltanto virtualmente presenti; in altreparole agiamo a distanza, mediante telecomando e in rete, per via telefonica.In un futuro, ormai prossimo, si prevede la possibilità di marcare e di identifi-care con un microchip qualunque oggetto, utensile, merce, che sarebbe in talmodo costantemente identificabile e controllabile anche in nostra assenza; maanche senza voler fantasticare sull’uomo cyborg prossimo venturo, non pos-siamo non tenere in debito conto il fatto che il nostro stesso corpo naturale siricostituisce, si riformula e si identifica con protesi e con supporti artificiali.

L’intento di voler comprendere ‘chi siamo?’, vale a dire il nostro inesse-re, comporta dunque una necessaria riflessione sul mondo in cui ci trovia-mo a essere, il mondo che ci appartiene, ma anche quel mondo che ci com-prende e al quale noi apparteniamo: data, però, la coimplicazione di uomo edi mondo, che s’identificano e si costituiscono nel loro essere tramite la re-lazione reciproca, non si potrà mai arrivare a sostenere che il mondo è unnostro possesso, come anche non sarà al tempo stesso neppure vero che è ilmondo a possederci.

Quando dunque una ‘filosofia della tecnica’ prende in considerazionecritica il suo oggetto, si deve essere ben consapevoli che esso non può esse-re ingenuamente proposto come qualcosa che sta davanti a noi (il Gegen-stand, l’oggetto come ‘quel che sta contro’), al cospetto di un soggetto cheindaga, ma piuttosto, essendo la tecnica inerente e coimplicata con il nostrostesso inessere, che soggetto e oggetto della ricerca teoretica vengono in cer-to qual modo a coincidere.

Si tratta allora di guadagnare il topos teoretico di una prospettiva erme-neutica, mediante un punto di vista che sia interno alla stessa ricerca che siva facendo e con tutta la difficoltà di una presa di distanze, che si rivelasempre necessaria in vista di un’indagine critico-teoretica, che non sia diparte o per lo meno che non rimanga inconsapevolmente tale. La prospetti-va ermeneutica comporta dunque la presa d’atto e l’accettazione di un pun-to di vista e della dialettica propria del circolo ermeneutico, che comportaproprio come caratteristico il fatto che riflettendo sulla tecnica noi portia-mo l’indagine su noi stessi che riflettiamo, dal momento che siamo pervasie condizionati a tal punto dalla tecnica nella nostra stessa struttura intelletti-va, laddove il medium di indagine che si protende verso gli enti intramonda-ni modifica lo stesso fruitore e nel contempo anche se stesso.

Introduzione

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Il circolo ermeneutico, che si tende nella dinamica precomprensio-ne/comprensione, per cui arriva a comprendere solo chi ha già (si è già)compreso, è però da intendere bene, come ammonisce Heidegger. Si trattainfatti di rimanere in esso nella maniera giusta: soltanto continuando a por-tare la riflessione teoretica su quel che è tecnico, e non certo spostandosi in‘altro luogo’ in atteggiamento di fuga o per acquisire qualche rifugio conso-latorio, evitando così il problema stesso, potremo sperare di ottenere rispo-sta adeguata alla questione che si va ponendo, circa la tecnica.

Il presente volume raccoglie i testi proposti nel Lab_ET (Laboratorioelettronico e telematico per la cultura umanistica) 1 del 2005, che si propone-va di indagare sul problema della tecnica e sui suoi influssi nella società con-temporanea, con l’obiettivo di delineare una riflessione teoretica, che emer-gesse dal confronto col terreno operativo della stessa prassi tecnologica.

I diversi saggi affrontano il problema critico da prospettive diverse, lafenomenologica, la storico-sociale e l’antropologica, ma con il comune de-nominatore di voler fare i conti, in ultima istanza, con il saggio heideggeria-no su La questione della tecnica, che può senza alcun dubbio considerarsi pie-tra miliare, come pure pietra di (possibile) inciampo, in vista di una conside-razione decisamente teoretica, l’unica in grado di delineare, pertanto, l’ela-borazione di un’autentica ontologia della tecnica.

Emerge dal testo un’interpretazione, che concepisce ‘la tecnica’ comela capacità pratica e razionale che ha permesso all’uomo di superare i suoilimiti biologici durante il processo evolutivo. Essa può dunque considerarsicome l’essenza di quel vivente che non sarebbe sopravvissuto senza la capa-cità di adattarsi all’ambiente e senza la possibilità di utilizzare gli enti natura-li come strumenti.

Viene pertanto trattato il tema della trasformazione della natura in ri-sorsa energetica, assieme a quello di un ‘impianto’ della tecnica quale cate-goria che costituisce la traduzione ontologica delle pratiche e del sapereumani (Ciastellardi), con la proposta di una fenomenologia dell’oggettivitàtecnologica, che tenga in debito conto dei complessi sistemi di forza e di re-lazione in gioco nella stessa tecnica, senza scivolare però nelle ideologie enei pregiudizi sulla positività o negatività delle pratiche tecniche (Papi); sisottolineano poi i pericoli della ‘società del rischio’, che sembra coincidere

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Introduzione

1 Il Lab_ET è nato nel 2003 come progetto di ricerca universitaria per proporre unambito di discussione e di confronto permanente sull’interazione tra i saperi della tradizioneculturale occidentale, l’innovazione tecnologica e la trasformazione dei mezzi di comunica-zione. Il ciclo di conferenze organizzate durante l’anno 2003/2004 ha avuto lo scopo di inda-garne alcune linee.

Informazioni sulle attività del Lab_ET sono presenti all’indirizzo internet http://la-bet.hermesnet.it.

con la nostra epoca immersa nelle trasformazioni imposte dalla tecnica, chediviene, così, il modo in cui l’uomo si relaziona, trasformando la natura inmodo scientifico (Natoli). Con la proposta di una lettura heideggeriana deitesti di Marx, si perviene infine a una concezione tradizionale di filosofia,che si dissolve nella pratica e nella tecnica (Morfino), con la conseguentetrasformazione antropologica che sta a suggerire un’idea ben diversa diidentità soggettiva, di libertà e di scelta per l’uomo (Potestio), come ancheuna diversa interpretazione della realtà, nella simulazione virtuale che è pro-pria della tecnologia digitale (D’Alessandro).

Filosofia della tecnica si inserisce in un vivo dibattito nell’attuale pano-rama filosofico sui diversi significati e sulle possibili interpretazioni dellostesso termine ‘tecnica’; tale dibattito non può prescindere sia dalle rifles-sioni di Martin Heidegger sia da quelle di Marshall McLuhan e dalle rielabo-razioni critiche, che le loro posizioni sul ruolo dei mezzi di comunicazionehanno provocato negli ultimi decenni.

Si riflette così sulla costituzione stessa del supporto materiale, che per-mette la comunicazione e il messaggio, divenendo così la condizione di pos-sibilità del linguaggio, tramite l’intreccio di pratiche diverse (Sini); si indivi-duano i modi in cui le tecnologie dell’informazione, vale a dire gli artefattidi registrazione, elaborazione e trasmissione delle notizie, modificano leidee di identità e di tempo, ridefinendo i nostri vissuti lavorativi, produttivi,emozionali e comunicativi (Merlini); mediante un’attenta analisi fenomeno-logia e una ‘lettura critica’ si delineano infine gli aspetti decisivi e i limiti deldibattito attuale sulla comunicazione (Cassinari) e si crede di poter superarel’idea ideologica della comunicazione e dell’essenza della tecnica come datooriginario (Domanin).

In Appendice il volume propone una Bibliografia di filosofia della tecnica,curata da A. Potestio, nella quale si individuano i testi più significativi, che sioccupano della tecnica in relazione a diversi problemi teoretici di attualità.

Paolo D’Alessandro Università degli studi di MilanoAndrea Potestio ottobre 2006

Introduzione

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PER UNA FENOMENOLOGIA DELLE TECNOLOGIE

Aprire un discorso sulle tecnologie che appartenga alla tradizione filosoficacomporta, quasi necessariamente, il passaggio attraverso due temi essenzialidel pensiero heideggeriano che, negli ultimi trent’anni, hanno avuto un’ecostraordinaria e numerose e importanti rielaborazioni. Il primo è il tema del-la trasformazione della natura in risorsa energetica, dall’estrazione del car-bone prima, del petrolio poi e, infine, alla scomposizione dell’atomo, peruna forma di civiltà che è condizionata dalla necessità e dall’uso sempremaggiore di energia al fine della riproduzione e dell’ampliamento della pro-pria forma sociale. Aggiungiamo che il luogo terminale di questa esigenzadi energia è il sistema dei consumi che gli studi più recenti hanno mostratoin espansione dall’occidente ai paesi che la globalizzazione economica haportato a un rapido sviluppo come la Cina e l’India. Le conseguenze a livel-lo della compatibilità con l’eco-sistema planetario sono allarmanti, ma quiimporta solo, sulla scia heideggeriana, ripetere il tema della rottura epocaledella modernità nei confronti di un’idea di natura come ‘physis’ che fa na-scere, fa crescere, si autoalimenta secondo una propria finalità immanente,e, quando viene utilizzata dall’uomo per i suoi scopi, questo processo avvie-ne conservando, nella trasformazione, la modalità finalistica del suo esserenatura. La focalizzazione di questa trasformazione del modo di considerarela natura come risorsa energetica per la costruzione dell’artificialità del no-stro mondo sociale è parallela a quel ‘passaggio ad occidente’, come proces-so di razionalizzazione e di calcolo che Max Weber aveva considerato comelinea progressiva nel tempo e nello spazio del mondo. Questo patrimonio diintelligenza critica ha aperto numerose linee di pensiero che hanno radicipiù lontane nella filosofia romantica. La considerazione che lo sfruttamentodella natura è un evento storicamente prioritario rispetto allo sfruttamentodell’uomo e lo favorisce, è un tema francofortese che muta la concezione

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tradizionalmente marxiana intorno a una neutralità sociale dell’uso indefini-to delle risorse naturali. L’uomo faustiano, emblema della modernità, gloriaantropologica nel suo senso dominante come soggetto di una nuova magia,è stato capovolto in una anonima e insensata volontà di potenza che, nelpensiero di intonazione religiosa, è stata rovesciata in un peccato di origine,una superba e arrogante concezione di sé come signore assoluto del mondonaturale. Varianti raffinate di questo clima intellettuale sono le critiche aquella concezione della natura che, al suo uso come risorsa economica edenergetica, fa corrispondere la sua visione come opera d’arte, proprio nelsuo apparire sensibile come paesaggio. Manipolazione produttiva e idealiz-zazione estetica fanno parte, in modi differenti e opposti, della medesimacentralizzazione di un soggetto che si valorizza nella persuasa contempla-zione della sua potenza. La natura, al contrario, appartiene alle virtù del-l’ascolto, una modalità che trasferisce il rapporto in una dimensione dellasensibilità che non trasforma e non finalizza. Credo che a queste concezio-ni reattive rispetto alla forza impositiva della modernità – su cui tornerò allafine – faccia positivo riscontro la valorizzazione propria della conoscenzaantropologica di alcune popolazioni, cosiddette primitive, che concepisconoil proprio rapporto con l’ambiente naturale come una ospitalità che ha lesue regole di rispetto.

L’altro punto centrale heideggeriano è il Ge-Stell, l’ordinamento, l’ap-parato: una categoria che costituisce la traduzione ontologica della descri-zione della mobilitazione generale del lavoro, del sapere, del saper fare arti-ficiale che divengono un processo organico di autofinalizzazione, di desti-nazione ontologica. Una categoria, che, nella forza della sua testualizzazio-ne, ha l’effetto di una apertura di una scena filosofica che essenzializza unaserie di fattori sociali tra loro connessi, e quindi con un felice accesso a unageneralità filosofica, ma con il difetto di oscurare, nella sintesi operata dallinguaggio della tradizione filosofica, l’insieme delle relazioni conoscitive,operative e sociali, ciascuna delle quali consente di comprendere, in un gio-co di rinvii, il significato immanente delle altre. La costellazione teorica incui il concetto si inserisce ha a che vedere con un lessico potente e selettivo,dove dominano le figure dell’epoca e della verità e dove risulta di fatto uni-formata ogni figura della soggettività, dominata da una oggettiva potenzaautoproducentesi nella quale la forma medesima del soggetto, se si escludela dimensione del pensiero poetante del filosofo, vi appare solo come fun-zione e quindi come uniforme ethos pubblico.

Tento ora di decostruire questa categoria secondo gli elementi dellasocialità obiettiva che più o meno consapevolmente la costituiscono. Ne de-riva questo quadro. Una tecnologia fordista costituita dalla unità manifattu-riera che funziona secondo i patrimoni scientifici della meccanica, della elet-

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tricità e della chimica, la catena di montaggio come tecnologia organizzati-va, massimizzante l’effetto produttivo del tempo, il lavoro ‘astratto’ comeforma sociale del lavoro stesso, la organizzazione di economie di scala, lacostituzione di un bilancio finanziario relativo all’attività dell’unità produtti-va, il sistema di leggi dello stato che regolano i rapporti di lavoro, i contrat-ti a livello nazionale secondo le categorie produttive, un intervento keyne-siano sulla spesa pubblica, il tipo di sapere necessario per i diversi livelli del-la forza-lavoro attraverso competenze contigue, il rapporto culturale e ge-rarchico tra i diversi livelli dell’apparato produttivo, l’oscillazione del rap-porto tra capitale fisso e capitale variabile e una vita sociale finalizzata dauna pubblica generalità che sintetizza l’insieme di questi fattori in un terri-torio omogeneo in quanto territorio statuale.

Un concetto filosofico, quello di Ge-Stell, che oggi non sintetizza piùuna condizione ontologica dato che se guardiamo alla modalità produttiva, airapporti di lavoro, alle modalità tecnologiche, alle forme di comunicazione,ai comportamenti pubblici, alle mode, alla dispersione delle temporalità, nonc’è più nulla che assomigli a un ordinamento omogeneo. Persino le tecnolo-gie funzionano senza derivare necessariamente da elaborazioni teorico-scien-tifiche attraverso una proliferazione di innovazioni e di incrementi locali, alcontrario delle tecnologie produttive dell’800 che derivavano da un saperescientifico datato almeno un secolo indietro. Queste considerazioni tuttaviadi fatto non tolgono per niente l’effetto emotivo di verità di una costruzioneontologica, più di quanto un fatto empirico tolga valore di verità a una teoriascientifica in quanto risulti dissonante rispetto a quella costruzione. E allora,individuato questo problema, tornerei brevemente nell’habitat heideggerianoe verso una possibile interpretazione del permanere del concetto di Ge-Stell.

A costo di un piccolo scandalo teoretico, forse però d’altri tempi, vie-ne da domandarsi per quale figura di destinatario il Ge-Stell si mostri, e pos-sa definirsi come ordinamento globale, così come, commentando l’ultimoMerleau-Ponty, è del tutto normale chiedersi a chi appaia l’ontologia dellacarne. Per rispondere a questa domanda mi pare sia necessario intrattenersiancora sull’insieme di elementi che coagulano in quel concetto. Forse il Ge-Stell è il lessico filosofico che illumina il disegno apparso nell’oscura memo-ria del filosofo che ricorda una prassi sociale differente, un’epoca delle atti-vità artigianali dove lo scambio dei manufatti era simile allo scambio dei sa-luti, pieni di sensi della terra e del cielo, dei mortali e dei divini. Oppure, alcontrario, si afferma una visione in cui il presente si specchia vanamentenell’indefinito orizzonte del futuro, come un destino prossimo solo immagi-nario, anzi parassitario, che appare come l’eccesso di un pensiero che ha lapresunzione di prefigurare l’essere. Un modello di pensiero che conduce alcompimento della visibilità filosofica e al fallimento sociale di un ordine

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umanistico del mondo e racchiude già in se stesso tutte le risorse delle fan-tasmagorie del post-moderno. Un pensiero che vede negli strumenti che,governati da una intelligenza collettiva, dovevano consentire il dominio diuna libertà sociale, la violazione della terra, l’inganno di una soggettivitàprogettuale secondo una illusione filosofica superficiale e malvagia. Il pro-getto storico è un fallimento perché capitalismo e comunismo hanno il me-desimo volto nihilista della cieca determinazione produttiva e mostranocosì una attiva solidarietà in una guerra quotidiana per il dominio terrestre.

Anche su questi temi la verità storica ha mostrato altri orizzonti, ma,come tutti sanno, dal punto di vista filosofico, questo destino dipinto daHeidegger ha complicità più lontane, da quando il pensiero si è paralizzatoin pensiero dell’ente, della presenza, e quindi, per un necessario dirupo del-la filosofia, forma scientifica e tecnica, epilogo della mente metafisica.

Se restiamo ancora un momento prossimi ai testi heideggeriani, malontani dall’auto-interpretazione che l’autore ha dato dei suoi tornanti filo-sofici, potremmo anche dire che questa è la destinazione finale che toglie al-l’ex-sistere il processo di temporalizzazione dell’esistenza, e impone all’esi-stente la forma di un ente la cui temporalità è regolata dallo stesso ordina-mento globale. Questa è la fine, come tutti sanno, di qualsiasi valorizzazioneantropologica di Essere e tempo. E tuttavia è necessario domandarci, molto aldi là della semplice razionalizzazione interpretativa che ho proposto, qualenecessità ci intrattiene ancora in questo racconto ontologico che, in unascena filosoficamente potente, sintetizza, e, come in ogni sintesi, traduce eriduce Spengler, Junger, Weber, Marx. Come nasce, guardando un poco piùa fondo nei motivi dell’esservi coimplicati come sospetto distruttivo del-l’esistenza, il nostro umbratile assenso, al di là di ogni ragionevolezza reali-stica? A quale bisogno, ribellione, identità, malessere, mimesi, verità corri-sponde? Credo che il concetto ontologico, per quelle mutazioni che appar-tengono alla psicologia delle culture, si sia trasferito a livello di una auto-percezione intellettuale.

Probabilmente vi è un ‘noi’ che percepisce il variare delle contingen-ze, il mutamento, la carenza di immaginazione temporale, la richiesta diuna continua flessibilità dell’esistenza quotidiana, l’accentuazione dell’anti-co rapporto tra l’essere e l’apparire, tutto spostato dalla parte di indefiniteapparizioni vissute come identità, la precarietà emotiva, l’assenza di model-li educativi capaci di convinzione, la richiesta di continue abilità perifericheche condizionano il se stessi, vi è un ‘noi’ che percepisce tutto questocome una frammentazione dell’essere simile a un destino anonimo. Unapaura di perdita di senso, quel senso che, laicizzato rispetto alla sua anticaprovenienza religiosa, ha accompagnato la modernità come dotazione es-senziale dell’esistenza.

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La mancanza teorica di ogni fondamento diviene carenza emotiva dopol’elaborazione euforica di una liberazione. Credo sia stato molto ben pensatoil dire che il nostro essere uomini dal punto di vista tecnologico è in una con-tinua situazione evolutiva della quale si possono indicare solo alcuni elementiche derivano da un facile paragone con il passato. Gli uomini si evolvono tec-nologicamente, incorporano – letteralmente mettono nel corpo – le tecnolo-gie che emergono nella vita quotidiana. Per avere un’idea dell’aspetto evoluti-vo, basta pensare alle differenti qualità sensorie che esistono nelle diverse cul-ture che conosciamo o che abbiamo conosciuto. Questa è una constatazioneche è in grado di prevedere ragionevolmente molto poco poiché l’accaderedelle trasformazioni che agiscono sull’evoluzione dell’artificialità che viene in-corporata è quasi del tutto fuori dalle possibilità di pensiero. Credo sia questoil clima che trasforma l’antico Ge-Stell ontologico nel suono emotivo di unaindefinita estraneità che agisce, al di là di ogni possibile controllo, nel profon-do della propria esistenza, qualcosa come l’essere chiamati al non-senso, allasua assunzione come stile dell’esistenza.

Tuttavia dal punto di vista filosofico dobbiamo, sino a che possiamo,porci la domanda: quali sono le condizioni astratte che rendono possibile everosimile questo discorso? È sempre la centralità dell’uomo come essenzaevolutiva, l’analisi della sua autopercezione. Questo è un punto di vista checonsente, nel suo racconto, un’ampia visibilità, e tuttavia la relazioneuomo/tecnologie è considerata come fosse un rapporto isolabile rispetto adaltre relazioni obiettive che lo fanno essere così come può venire racconta-to. Il racconto ha spesso il valore di una rivelazione, o una parabola che hail suo effetto sull’emozione morale, arricchisce la percezione dell’esistenza,smuove orizzonti fissi e, tuttavia, come tutti i racconti consente una visionecircoscritta che deriva dai personaggi coinvolti nella vicenda.

L’andare oltre come tentativo teorico comporta l’adozione di una pro-spettiva fenomenologica della tecnologia, quella che cerca di far apparire letecnologie nelle loro relazioni complessive nel mondo, o nei mondi. Occor-re tuttavia sapere subito che quivi è in gioco una ricerca che è nello spaziofinalistico della verità, non un compito che possa essere assolto in modoanche lontanamente esaustivo. Per sviluppare questo discorso ricominceròdalla classica proposizione heideggeriana secondo cui il sapere della tecnicanon comprende certamente l’essenza della tecnica. Credo di condividerequesta considerazione, ma la distanza sta tutta nel significato da dare ad ‘es-senza’ che non consiste nel personaggio epocale della narrazione filosofica,ma nell’insieme molto complesso di relazioni che non la tecnica, ma chetecnologie realmente esistenti intrattengono con altre relazioni. In questamutata prospettiva si può tentare la rinascita delle celebre domanda kantia-na «che cosa posso conoscere»? Questa interrogazione non riguarda il

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‘come’ circoscritto, scientifico o solo operativo, sia stata possibile l’una ol’altra tecnologia, la radio piuttosto che il jet, ma proprio quale sia l’essenzadelle tecniche plurali nelle loro relazioni plurali con il mondo. Se questo è ilcampo della domanda si può rispondere solo con una mutazione stilistica dipensiero che valorizzi genealogia e analisi. La genealogia in quanto ogni tec-nologia ha una sua congiuntura che la rende non solo possibile, ma necessa-ria. Possibile fa riferimento alla sua costruzione come invenzione relativa aun sistema di scopi, necessaria fa riferimento all’insieme di forze obiettive chenella relazione sociale in cui accade quella tecnologia ne realizza l’efficacia eil senso sociale. Una piccola storia, per esempio, del telaio a vapore mostre-rebbe, suppongo, la validità di questa prospettiva. L’analisi ha i medesimi ri-sultati relativamente al presente: in ogni modalità tecnologica sono sempresolidali una quantità di variabili differenti, ma determinabili, se si usa la me-desima forma della concausalità con cui si spiegano i fatti storici.

Se dovessimo analizzare la costruzione delle prime bombe atomicheche sono una tecnologia della guerra quanto lo erano, in altre epoche, i fuci-li ad avancarica o le macchine d’assedio per le città, dovremmo tenere con-to della combinazione tra elementi immanenti e finalistici. Per quanto ri-guarda il finalismo della costruzione delle bombe, vi sono due interpreta-zioni storiche che, con il passare degli anni, non mi sembrano confliggenti,ma piuttosto compatibili tra loro: per un verso si dice che la bomba fu l’ini-zio della politica estera americana nei confronti dell’URSS, per altro verso sidice che fu il modo per affrettare la fine della guerra e ridurre così al mini-mo il sacrificio di soldati americani che sarebbe stato molto elevato doven-do attaccare ogni isola giapponese. Queste spiegazioni finalistiche non han-no niente a che vedere con le ricerche della fisica nucleare del tempo, chefurono certamente fondamentali dal punto di vista dell’immanenza scienti-fica rispetto al problema militare; ma ricerche che, senza quella congiuntura,avrebbero potuto prendere tutt’altra direzione.

In generale l’usare il criterio genealogico delle congiunture è tutt’altracosa che unificare la concezione delle tecnologie sia dal punto di vista diun incremento progressivo e storico (poiché non vi è alcuna storia dellatecnologia, come non vi è alcuna storia della filosofia), sia dal punto di vi-sta metafisico che riferisce sempre gli eventi tecnologici ad altre figureconcettualmente sintetiche come l’uomo, la storia, l’intelligenza, il destino.Bisogna aggiungere che queste figure del pensiero non sono nulla di de-plorevole, ma piuttosto come avrebbe detto il vecchio Kant, idee trascen-dentali che sebbene non abbiamo un preciso valore conoscitivo, sono tut-tavia criteri che hanno una fortissima influenza sulla persuasione pubblicae costituiscono spesso sintesi rilevanti in cui elementi conoscitivi e modali-tà interpretative immaginarie costituiscono nella loro unione credenze

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pubbliche, tutt’altro che trascurabili. Fabbriche spesso sofisticate di illusio-ni pubbliche che, direi con Spinoza, appartengono al primo genere di co-noscenza, cioè all’immaginazione.

Ora non traccerò la vicenda filosofica che narra dell’uomo come unicovivente necessariamente e positivamente tecnologico che va da Lucrezio aBruno e che nell’epoca contemporanea ha il suo capolavoro nell’opera diGehlen. Prenderò piuttosto in considerazione quello che è stato il rovescia-mento critico della gloria tecnologica proprio nel momento della sua massi-ma celebrazione. A questo scopo collaborano tre concezioni teoriche soli-dali tra loro. L’una è la critica alla concezione meccanica del mondo a van-taggio di una concezione organica del vivente, l’altra l’idea dell’uomo comeautodeterminazione e libertà originaria. Infine una critica alla macchina chele sintetizza entrambe: la macchina stravolge i ritmi originari antropologicisecondo la necessità delle prestazioni della macchina, e quindi tramite unadeformazione dell’uomo. Sono i temi del giovane Marx che hanno il lorocentro nella opposizione tra Arbeit, lavoro comandato, e Tätigkeit, attività li-bera. Una opposizione che ripete l’antinomia tra meccanico e biologico, tragenialità artistica e intelletto astratto, tra necessità e libertà. Dal punto di vi-sta formale è la medesima opposizione che si ripete tra lavoro vivo e lavoroastratto, quello che è comandato dalla relazione sociale che ha la sua realtànel rapporto tra corpo vivente e macchina meccanica, tra il tempo della vitae il tempo dell’artificio tecnologico. Tutte opposizioni romantiche che crea-no lo sfondo per la forma della dialettica storica tra necessità e libertà. Sonotemi che se venissero riflessi in una ricerca sull’essenza delle tecnologiecondurrebbero ad una regressione teorica.

Differente l’analisi economica che considera l’investimento produttivodi natura tecnologica come capitale fisso fuori da una prospettiva antropolo-gica, ma anche come incremento storico che vale in assoluto, e attende solodi poter essere uno strumento di progressiva liberazione dalla necessità inuna società che abbia portato a compimento la dialettica storica che la costi-tuisce. Sono temi di un altro tempo, illusioni che noi possiamo solo com-prendere. In generale dobbiamo osservare che i due pensieri opposti secon-do cui una tecnologia comporta una potenza assoluta, priva di qualsiasi sog-gettività, o, al contrario, che esiste sempre una soggettività capace di guidareal proprio fine l’efficacia tecnologica, sono entrambi pensieri che apparten-gono agli umori profondi del pessimismo o dell’ottimismo storico, sentimen-ti che segnano, in un sentire diffuso, il tramonto di una civiltà della storia.

Una analisi filosofica si trova sempre di fronte al problema positivo diuna o più tecnologie esistenti con le loro relazioni sociali determinate, con iloro effetti pubblici sul lavoro, sul costume, sulla psicologia. Lo stato delletecnologie nel mondo è una questione molto più complessa di quanto non

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sia possibile pensare all’ombra di una metafisica. L’intelligenza tecnica hauna pluralità di storie proprio in quanto nasce da una pluralità di effetti chehanno a loro volta una durata che può essere molto lunga, ma anche moltobreve. Guardiamo da questo punto di vista alcune forme di tecnologie: latecnologia scrittoria dell’alfabeto, la macchina a vapore della rivoluzione in-dustriale, le tecnologie degli innesti biologici, le immense opere idraulichedell’impero cinese (che furono il tema d’inizio dei francofortesi). La tecno-logia scrittoria dell’alfabeto diviene consustanziale (per usare la parola teo-logica) a un’intera civiltà, orienta il modo di pensare il mondo, e già questomio modo di discorrere vi appartiene. All’estremo opposto vi è la tecnolo-gia effimera delle macchine ludiche, proprie di una occasione tutta giocatasulla esteticità della situazione. È sufficiente pensare alla figura e alle presta-zioni di Leonardo alla corte sforzesca di Milano. Le tecnologie idraulichedell’impero cinese furono in relazione alla forma imperiale del potere cen-trale, ai modi della tassazione del lavoro e della produzione agricola. Daquesti pochi esempi viene ovvio spiegare una tecnologia nella sua genealo-gia, il che vuol dire vedere quanto essa incorpora di sapere, di potere, di re-lazioni sociali, di finalità pragmatiche. Una tecnologia, proprio per l’intrec-cio di queste ragioni, ha motivi plurali per la propria deperibilità, come puòavere motivi profondi per la propria durata.

L’atteggiamento teorico che è proprio per il passato, si riflette anchenel presente come analisi di una qualsiasi tecnologia dominata a sua volta daun sistema di fini, e, ovviamente, da condizioni di possibilità che escludonola tecnologia immaginaria delle fiction filosofiche. Una qualsiasi tecnologiamilitare ha una potenza che è resa possibile dal livello delle conoscenzescientifiche, dal precedente grado di sviluppo della tecnologia, dagli investi-menti economici che sono necessari. A sua volta la richiesta e l’applicazionedi questa potenza appartiene a una finalità politica. L’esistenza materiale diquesta tecnologia è resa possibile dalla collaborazione di possibilità e finali-tà. Se il fine della politica, per ipotesi, dovesse modificarsi, queste ricerchetecnologiche non avrebbero ragione di esistenza.

Così è possibile produrre una descrizione molto generale delle struttu-re tecnologiche attuali: vi sono tecnologie di diverso impiego ed efficaciasociale che appartengono al mercato degli investimenti produttivi di modoche il loro impiego abbia un riferimento diretto alla più efficiente e rapidariproduzione allargata del capitale impiegato. Vi sono microtecnologie deri-vate che appartengono più direttamente al consumo sociale e che hanno lasorte di tutte le altre merci dal loro valore simbolico alla loro efficacia ope-rativa. Vi sono tecnologie che hanno finalità umanitarie, che tuttavia, per laloro estensione sociale, nella più parte dei casi, devono seguire la medesimasorte economica: ma in casi particolari vi possono essere eccezioni che soli-

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tamente derivano o da capitale pubblico o da investimenti umanitari, en-trambi non remunerati. In questo caso si tratta di tecnologie che hanno unampio consenso etico.

Vi sono tecnologie che sono affette immediatamente da valutazionimorali, per esempio tutte quelle che ricadono nell’orizzonte bioetico, e altreche non lo sono affatto e invece meriterebbero di esserlo. Ma questa diffe-renza non dipende dal tipo di tecnologie di per se stesse, ma dalla sensibili-tà e dalla conoscenza pubblica che provocano la valutazione di quelle tec-nologie. Il giudizio nasce sempre dagli effetti ed è connesso con un tessutomorale che ha a che vedere con visioni del mondo e con il loro potere so-ciale. Procedere in questo tipo di analisi delle congiunture tecnologiche mo-stra che non ha senso alcuna storia delle tecnologie, a meno che non si as-suma un campo molto omogeneo e per di più miniaturizzato. Ma questeconsiderazioni che hanno a che vedere con un giudizio motivato sull’insie-me di fattori che concorrono in una tecnologia conducono all’apertura diun giudizio che appartiene sempre a un campo di soggettività come modo‘politico’ di essere nel mondo.

Se si collocano al primo posto di una politica su scala planetaria ilcibo, la salute, l’istruzione, l’acqua, la cura dell’ambiente naturale, di fatto siopera un giudizio etico che ha un effetto selettivo sulle tecnologie, sul loroimpiego, sui loro effetti. E quindi in generale sulla loro essenza. Quandoventi anni or sono la Banca mondiale, il F.M.I. e l’istituzione preposta alcommercio mondiale diedero luogo a una politica economica che affidavaalla positività propulsiva del mercato la leva dello sviluppo, questi organi-smi, che si occupano di flussi finanziari, in realtà diedero un giudizio di pre-ferenza intorno a determinati incrementi tecnologici, anche se nei loro do-cumenti questo era un tema inesistente. Questa considerazione mostracome sia complicato individuare l’essenza della tecnologia.

Lo sviluppo tecnologico non è nemmeno una specie di intelletto col-lettivo dell’umanità, esistono disuguaglianze negli impieghi tecnologici chenon hanno a che vedere con le astratte possibilità immanenti di produzio-ne tecnologica, ma con altri fattori locali, politici, culturali, ambientali, eco-nomici. Per esempio anche nel caso di una cessione non mercantile delletecnologie l’operazione non è neutra, occorre invece tenere conto che l’ac-quisizione di una tecnologia è condizionata da una pluralità di modalitàculturali dell’ambiente. È una prospettiva che noi, abituati alla coesistenzadi differenti artifici tecnologici nel medesimo spazio sociale, facciamo fati-ca a comprendere.

Non si può nemmeno credere ingenuamente che ogni possibile tecnolo-gia valutata positivamente nei suoi effetti abbia un immediato ingresso nelmondo. In un mondo caratterizzato da profonde differenze, disuguaglianze,

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poteri, la valutazione intorno alla positività o meno dipende, per dire in breve,dal luogo e dal soggetto della enunciazione. In generale si può dire che esisteun più o meno ideale marketing delle tecnologie che può misurare la positivi-tà merceologica di qualsiasi incremento tecnologico poiché, come diceva giàMax Weber nella sua sociologia storica, la modernità è dominata dall’agireeconomico nelle prevalenti forme di relazione, e, in particolare la positività diquesto agire, nella dimensione del mercato, è misurabile con il profitto.

Credo abbia ragione Badiou quando afferma che c’è bisogno di piùtecnologia nel mondo. Il che non vuol dire solo ampliare, accelerare i dispo-sitivi tecnologici per ottenere una migliore performance rispetto a quella attua-le, misurabile con criteri quantitativi, ma vuol dire l’estensione di possibilitàtecnologiche laddove sono carenti per scopi e bisogni che, a loro volta,sono individuabili attraverso un giudizio morale. Può sembrare strano ma letecnologie che hanno per così dire il massimo di oggettività sollecitano,quanto al tema della loro essenza, il massimo di intervento morale: il che fadella loro essenza un motivo di controversia.

Dal punto di vista filosofico credo che la mia analisi possa essereconfigurata come una fenomenologia dell’oggettività tecnologica che tieneconto dei complessi sistemi di relazione e di forza che agiscono su queipiani di oggettività. È il contrario rispetto a quel pregiudizio diffuso che at-tribuisce ad ogni incremento tecnologico un’idea di bene e ritiene che perogni guasto tecnologico esista certamente una tecnologia riparatrice capacedi provocare effetti benefici. Umanesimo enfatico e ideologia positivistadiventano per lo più formatori di messaggi ideologici di tipo mediatico. Eallora si può dire che la critica si contrappone, ancora una volta, alla parzia-lità di ideologie cieche.

Riprendo il tema di quello che potrei chiamare il vissuto tecnologico. Il‘noi’ contemporaneo vive in un sistema di relazioni tecnologiche che si im-plementano reciprocamente e selezionano possibilità di vita, nuove formefenomenologiche dell’‘essere qui’, trasformandole secondo quella potenzaduttile e plastica che è propria della forma uomo, mutevole nella valorizza-zione del proprio desiderio, e quindi soggetto a mutare in modo rilevante lafamosa Gattungwesen che, nei giovani hegeliani, parve una grande mossa con-tro l’antico maestro. Sarebbe anche una parzialità filosofica pensare alla tec-nologia in generale nel quadro del ‘mondo della vita’ husserliano, rispetto alquale le tecnologie agiscano come protesi inscritte in un sistema dato di fina-lità proprio del corpo umano. Il corpo umano, considerato nella prospettivadel suo corredo di abilità, è in realtà un elemento evolutivo e non statico. Cisono certamente tecnologie, per lo più le più semplici, che appartengono al-l’invenzione di un uomo che vuole e sa ampliare le possibilità di relazionicon il mondo. E ci sono invece tecnologie, quelle più prossime a noi, che ri-

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chiedono mutazioni, in superficie poco percettibili, delle disponibilità corpo-ree in relazione alle stesse forme tecnologiche. Anche se sarebbe fuori luogopensare che tra i due elementi agli estremi, il corpo e la tecnologia, vi sia inogni caso un equilibrio: anzi, esistono patologie che caratterizzano questa re-lazione tra tecnologie e possibilità acquisitive del corpo.

Anche se, come diceva Braudel, il capitalismo non avrebbe avuto unacosì vittoriosa capacità di diffusione se non vi fosse stata anche un’ampliacomplicità sociale: la stessa cosa si può ripetere per la diffusione delle tec-nologie. Il fenomeno luddista fu una eccezione che riguardò la disperazionedegli artigiani inglesi che nella produzione macchinista vedevano sfumare lapropria identità di lavoro e di vita come artigiani. Vinsero i manchesteriani,il che fu un momento decisivo per la storia del capitalismo e della ricercatecnologica che vi era connessa. Quanto alle nostre naturali (‘naturali’ insenso husserliano) abitudini tecnologiche, non si possono certo omologareforme di intelligenza, comportamenti sociali indotti, addestramento ai gio-chi elettronici, con il funzionamento del ciclotrone di Ginevra. Il pluralenell’accostamento del mondo tecnologico mi pare fondamentale.

Riprenderei, in una diversa prospettiva, il tema fenomenologico delmondo della vita, per lo meno nel senso che ha assunto in Habermas piut-tosto che nell’originale husserliano. Vorrei solo accennare come, proprio nelvissuto quotidiano delle tecnologie che chiamano a uno stile di esistenza, visono reazioni culturali molto potenti che vanno molto al di là del risenti-mento proprio della emarginazione generazionale (che pure esiste). Questareazione, rispetto alla mondanità nihilista degli artifici che proliferano su sestessi, richiama al pensiero filosofico l’originaria appartenenza alla terra,l’oblio delle radici, i valori simbolici della vita, denuncia le forme di intelli-genza dominante e omologante e il declino di modalità dell’esistenza chehanno costituito il patrimonio di sapere di cultura, e hanno modellato perlungo tempo nell’occidente quello che ormai usa chiamare, con linguaggioantropologico, una «figura d’uomo».

Rispetto a questo disagio filosofico assumere un obiettivo darvinismosociale come fosse un dono della provvidenza mi pare un’altra poco re-sponsabile violenza, soprattutto perché questa tesi estrema non deriva affat-to dalla cultura tecnologica, ma dalla ideologia di un potente potere mercan-tile che incorpora la tecnologia alle proprie finalità e le traduce spesso in unprocesso omologo alla famosa progettazione economica secondo cui i dueterzi della popolazione hanno una favorevole identità sociale, e l’altro terzocostituisce una anomalia sociale permanente.

In una situazione del genere mi pare del tutto comprensibile che, ri-spetto alla chiamata tecnologica, vi sia, qui in occidente, una specie di «co-scienza infelice» diffusa che elabora simbolicamente la propria infelicità, fa-

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cendo ricorso a forme di sapere ecologico, ambientale, psicologico, socialeche, molto al di là dell’individualistico fenomeno del new age, costituisconoun ethos pubblico molto ragguardevole. Dal punto di vista filosofico sonoconvinto che gli effetti culturali e politici che sono derivabili dalla mia pro-spettiva analitica e genealogica siano compatibili con i problemi che mettein primo piano la reattività della diffusa «coscienza infelice», e anche conl’analisi che le disuguaglianze nel mondo provocano a livello del giudiziosulle tecnologie. Direi però che questa compatibilità tra la analisi delle tec-nologie, estranea da ogni metafisica del male, e la critica emotiva e sociale,non è rappresentabile in una omogenea concettualizzazione. Il concetto de-limita nella sua determinazione, provoca una visibilità delle cose, ma ancheun oscuramento che investe l’insieme di relazioni del suo oggetto. Il concet-to non è il traduttore in una sintassi universale.

Il problema della compatibilità è più facilmente solubile trasportando-lo dalla forma concettuale a quella narrativa che pure avrebbe un suo valoreteorico. Ma questo è un altro tema di teoria. La conclusione per ora è che lacompatibilità di un sapere critico delle tecnologie e la diffusa cultura dellareattività è leggibile, più che in un disegno concettuale, in una disposizioneetica e politica nei confronti del mondo.

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TECNOLOGIE, IDENTITÀ, TEMPO

1. DEFINIZIONI

Desidero precisare, innanzi tutto, il significato dei lemmi che compongonoil titolo del presente contributo.

‘Tecnologie’ indica il paradigma tecnologico inaugurato dall’afferma-zione, e dalla conseguente diffusione, delle tecnologie dell’informazione.Vale a dire, di quegli artefatti di registrazione, elaborazione e trasmissionedell’informazione e della comunicazione che condividono il duplice proces-so di digitalizzazione dei loro linguaggi e di reticolarizzazione delle loro logicheinterattive. È, per intenderci, il paradigma informazionale dei nostri attualiambienti comunicativi, lavorativi e produttivi – quel paradigma che permet-te di definire le odierne società occidentali come realtà fondate su una for-ma di accumulazione in cui il capitale è costituito sempre più dalla gestionee dalla crescita della conoscenza. La forma plurale del termine (‘tecnologie’)intende, poi, sottolineare la prospettiva da cui guarderò a questo paradigma;non la tecnologia o la tecnica in generale come istanza all’origine di unmodo di accadere epocale che predefinisce univocamente, nel suo sensoobbligato, qualsiasi possibilità di essere (per l’individuo, l’ambiente, gli og-getti, ecc.), bensì come disegno plurale di effetti derivati da pratiche chesono, sì, omologabili, ma solo per il fatto, e non oltre il fatto, di essere mediate tecno-logicamente. Il che significa evitare di chiudere il discorso, prima ancora diaverne affrontato l’oggetto attraverso le diverse direzioni che gli sono pro-prie. Non c’è pensiero della tecnica in grado di saturare l’analisi puntualedelle tecnologie, perché le differenti logiche del loro funzionamento (che èlo spazio preciso in cui ci è dato di incontrarle – come utilizzo, fruizione,implementazione, integrazione di strumenti non necessariamente equivalen-ti), comportano una dispersione del campo di esperienza, tale da inibirequalsiasi concettualizzazione unitaria.

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Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

Con ‘identità’ intendo qui la forma di vita che prende corpo in questocampo di esperienza. La diffusione e la pervasività dei mezzi informatici etelematici inaugurano, in altre parole, un campo di esperienza plurale dovel’affermazione di nuove pratiche interviene a ridefinire i nostri vissuti quoti-diani (lavorativi, produttivi, comunicativi, emozionali, evasivi) e, con loro,noi stessi: è il mondo in cui troviamo determinate possibilità di essere, men-tre altre vengono meno. Da questo punto di vista possiamo affermare che ilmondo, quale emerge dal tipo di relazioni, di oggetti, di conoscenze media-to dalle tecnologie di accesso alla rete, delinea una ontologia a cui corri-sponde una particolare antropologia. Per come sarà affrontata in queste pa-gine, l’identità è quindi quell’identità che si definisce in ragione della propriaadesione a pratiche che danno appunto corso, come detto, a particolari rela-zioni, oggetti, conoscenze, ridisegnando l’abitabilità stessa del mondo. L’in-sistenza sulla nozione di ‘pratica’, come insieme di gesti e di discorsi inter-soggettivi che permettono lo stabilizzarsi di un mondo comune, quel mon-do comune interessato dal perimetro della loro azione (fattuale e simbolica),dovrebbe essere già sufficiente a mettere al riparo il discorso da qualsiasiprospettiva relativa al cosiddetto determinismo tecnologico. L’incidenza tra-sformativa delle tecnologie sulla società e sugli individui è innegabile, il chenon significa però che tale incidenza sia di ordine causale. Il fatto è che tratecnica, società e individui vi è un rapporto molto meno lineare di quantorisulti allorquando li si pensa in base a una astratta relazione di autonomiagenerativa: come se lo sviluppo delle tecniche fosse ricostruibile indipen-dentemente dalle logiche (politiche, economiche, mercantili, ecc.) della so-cietà. Oppure, come se, ignorando la lezione di A. Gehlen, esse fosseroconcepibili in opposizione alla natura umana, o al contrario al suo servizio,e non invece quali condizioni imprescindibili della sua esistenza, insite «nel-l’essenza stessa dell’uomo» 1. Prima dunque di essere per o contro l’uomo,l’universo delle tecnologie è il medium delle sue possibilità storiche di essere.Non quindi: ciò che lo determina causalmente, ma ciò senza il quale non sa-rebbe nemmeno possibile parlare di ‘uomo’, in quanto specie distinta biolo-gicamente dalle altre specie. In tal senso, non vi è alcun primato delle tecno-logie sull’uomo, così come non si dà alcun primato dell’uomo sulle tecnolo-gie. L’universo tecnico si presenta allora come la ‘seconda natura’ dell’uo-mo 2. L’unica causalità che è semmai possibile riconoscere nella costellazionetecnologie/società/individui è una causalità di tipo circolare 3. Concludo su

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1 A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Milano, Sugarco, 1984, p. 12.2 Cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 345.3 Cfr. T. Maldonado, Memoria e conoscenza. Sulle sorti del sapere nella prospettiva digitale, Mila-

no, Feltrinelli, 2005, pp. 227-238.

questo punto, dicendo che l’‘identità’ che c’interesserà qui è quella cheemerge da una certa praticabilità del mondo, ossia dalle azioni attraverso cuisi afferma il nostro orizzonte quotidiano, con le sue resistenze, le sue po-tenzialità, i suoi ritmi e i suoi spazi di percorrimento. Si tratta di ‘azioni’ reseoggi possibili, in gran parte, dall’uso delle nuove tecnologie, e organizzateda questo stesso uso, secondo direttrici che riconfigurano forme di vita,ambienti comunicativi e saperi operazionali. La qualità di questa riconfigu-razione, la sua ‘natura’, ha direttamente a che vedere con il terzo lemma cherimane ora da esplicitare.

‘Tempo’: in queste pagine, il termine alluderà a quel che rimane oggidell’identificazione tra Storia e tempo umano, ossia a quel che rimane oggidi quell’esperienza del tempo che la cosiddetta Modernità ha individuato epromosso come articolazione processuale della realtà stessa 4. Naturalmente,per come lo userò, si può anche intendere il termine al di fuori di questa ‘fi-liazione’, che senza volerlo sembra riferirsi alla cattiva amministrazione diun’eredità, quasi si trattasse di una modalità temporale derivata da una co-struzione simbolica a cui non si è voluto o non si è stati in grado di assicura-re un futuro. Vediamo allora di chiarire bene perché non è così. L’esperienzadel tempo cui ci si riferirà qui, pensata indipendentemente dall’esperienzadel tempo consustanziale alla Modernità, emerge, come vissuto temporale,dalla frequentazione di pratiche di relazione, di produzione e di consumoche introducono gli individui (di fatto, quel 10% della popolazione mondia-le che ha accesso a Internet) in una nuova economia dell’informazione. È iltempo quale si dà in un regime informazionale, dove la comunicazione sifonda su di un dispositivo a rete che struttura le attività produttive in modoflessibile, decentralizzato e globalizzato 5. È il tempo accelerato dei nostricompiti quotidiani; il tempo puntiforme del sistema mediatico-informativo; iltempo discontinuo dei contenuti d’esperienza; il tempo indifferenziato 6 delle at-tività lavorative: sono tutte determinazioni di una figura del tempo attraver-so cui viene ridisegnata la nostra tradizionale relazione di senso con il passa-to e con il futuro. Ma, domandiamoci, con ‘tradizionale’ che cosa bisognaintendere esattamente? Se vogliamo comprendere in che modo si presentioggi, la relazione di senso con il passato e con il futuro, occorre tenere pre-

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Tecnologie, identità, tempo

4 Cfr. in proposito F. Cassinari, Tempo e identità. La dinamica di legittimazione nella storia enel mito, Milano, FrancoAngeli, 2005, passim.

5 Cfr. I. Domanin, Prendere sul serio la tecnologia, in F. Merlini (a cura di), Nuove tecnologie enuove sensibilità, Milano, FrancoAngeli, 2005, p. 55.

6 L’aggettivo si riferisce alla confusione tra tempo professionale e tempo privato, in-dotta dall’attuale riorganizzazione delle fasce orarie lavorative, comprendenti il mezzogiorno,la sera, la notte, il fine settimana. Sulle implicazioni sociali del fenomeno, cfr. G. Gasparini,Tempo e vita quotidiana, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 47-53.

sente la forma che essa ha assunto nell’epoca della Modernità. In questocaso ciò che appare come ‘tradizionale’ altro non è se non una possibilitàcollettiva di esperire il tempo umano, che ha appunto nella Modernità, cioènel modo in cui l’epoca moderna ha storicizzato l’agire e le produzioni del-l’uomo 7, la sua data di nascita. Una parte considerevole delle determinazio-ni (e sicuramente tutte quelle utilizzate qui) in grado di definire l’esperienzaodierna della temporalità intersoggetiva è trovata, infatti, in antitesi alle de-terminazioni (linearità, cumulatività, progressione, continuità, unità, ecc.)che qualifica il tempo-Storia della Modernità. Di fatto, guardiamo all’odier-no vissuto temporale dal punto di vista dell’antropologia del soggetto dellaStoria: nella differenza tra una costruzione simbolica 8 del tempo e l’altra, opiù precisamente nella negazione dei caratteri dell’una, quella ‘tradizionale’,da parte dell’altra, quella attuale, si raccolgono le ragioni dei nostri timori ri-guardo alle forme di identità che ne conseguono (quando ciò è interpretatocome una perdita) o, al contrario, del nostro compiacimento (quando l’inter-pretazione vi legge invece un guadagno). Non è dunque un caso se le duediverse interpretazioni alimentano il dibattito odierno sugli effetti sociali (re-gressivi o emancipativi) delle tecnologie di comunicazione, in ambito lavora-tivo, produttivo, espressivo e conoscitivo.

Sulla base di queste precisazioni, desidero ora affrontare il tema dellarelazione tra identità e tempo, chiedendomi quale profilo identitario defini-scano i vissuti temporali istruiti, per così dire, dall’odierna prassi informa-zionale. Per affrontare questa questione, mi interrogherò dapprima sulle ra-gioni del declino dell’idea di rivoluzione in quanto fattore regolativo delcorso della storia universale: una nozione, come vedremo, strettamente con-giunta con l’autocomprensione stessa della Modernità.

Utilizzerò, poi, in seconda battuta i risultati di questa analisi per tema-tizzare quello che mi sembra essere un carattere precipuo della forma attua-le della temporalità, vale a dire la sua chiusura, nonostante il continuo appello al-l’innovazione, a qualsiasi orizzonte che non sia la conferma o la ripetizione o la radica-lizzazione di ciò che già si è affermato nel presente, come ciò che solo ha diritto di essere,proprio in quanto ‘esistente’. L’innovazione definisce, in tal senso, una sequenzadi cambiamenti continui che non mediano però alcuna trasformazione so-stanziale. Paradossalmente, è proprio questo «ininterrotto scuotimento»,come avrebbe detto il Marx del Manifesto 9, a riprodurre ogni volta di nuovo il

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7 Ho affrontato la questione della relazione tra Modernità e nascita della coscienza sto-rica in Incanti della Storia e patologie della memoria. Studi sulla trasformazione 1, Milano, Guerini eAssociati, 1997.

8 Sull’idea di tempo come modalità simbolica del vissuto, si veda F. Papi, Figure del tem-po, Milano, Mimesis, 2002.

9 K. Marx - F. Engels, Manifesto del partito comunista, Torino, Einaudi, 1998, p. 11.

medesimo quadro contestuale, quello appunto che legittima l’innovazionequale (presunta) misura decisiva del progresso sociale. Cambiano gli oggetti,le forme della relazionalità intersoggettiva, le modalità produttive, la logicadelle mediazioni conoscitive. Rimangono invece invariati i rapporti di pro-duzione. L’accelerazione e la frantumazione del tempo non mettono in gio-co nessuna differenzialità: è un tempo che si accentra nella dimensione delpresente, girando vertiginosamente su se stesso.

Come questa figura della temporalità si traduca nei nostri vissuti quo-tidiani, è una questione a cui cercherò di rispondere attraverso alcune pagi-ne della grande opera di Kierkegaard. Il modello di vita estetico descrittodall’autore di Enten–Eller, illustra i caratteri di un’esistenza dominata dal-l’imperio dell’attimo. L’odierna riduzione del passato e del futuro all’attimopresente è, come vedremo, prodotta da meccanismi completamente diversi.Tuttavia, ciò che sarà possibile mettere a fuoco di questi meccanismi, lodevo in buona parte alla lettura kierkegaardiana, perché di qui provengonole nozioni e i concetti con i quali delineerò, per differenza, un profilo plausibi-le della questione.

L’idea invece di una figura del tempo che si annulla nella puntualità delpresente, inibendo qualsiasi apertura differenziale rispetto alla trama onto-logica di cui essa si compone, sarà sviluppata attraverso un confronto conalcune osservazioni di Walter Benjamin sul rapporto tra innovazione tecno-logica e immobilismo sociale. Anche qui, non tanto per il piacere di com-mentare un classico, ma per guadagnare un punto di vista da cui guardare ilfenomeno, cogliendone la specificità.

2. LEZIONI DAL PASSATO

La questione del rapporto tra rivoluzione e temporalità si pone non appenariconosciamo l’esistenza di una solidarietà profonda tra la trasformazionerivoluzionaria, nella sua possibilità e nella sua legittimità, e il processo stori-co; tra cambiamento radicale e Storia, quest’ultima intesa quale verità (pocoimporta se occultata, trascurata o contrariata) del mondo e del tempo uma-ni. Vi è dunque (è la prima osservazione da fare) un senso molto generale incui ‘rivoluzione’ significa affermazione della Storia, liberazione dal suo si-mulacro, partecipazione piena alla verità del processo di civilizzazione.

Il punto, allora, è quello di capire dapprima in che modo l’idea della rivo-luzione lavori e rilavori il tempo, al fine di fare proprio questo significato ‘af-fermativo’, e secondariamente in quale misura essa risulti tributaria della Storiain quanto ‘invenzione’ stessa (il sostantivo è di Leo Strauss) della Modernità.

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Tecnologie, identità, tempo

Il rapporto tra rivoluzione e temporalità solleva immediatamente laquestione del singolare collettivo ‘Storia’ 10, poiché l’esperienza che si vuolerivoluzionaria presuppone in linea di principio non solo una certa compren-sione del mondo storico (teologica, idealista, materialista, dialettica ecc.), maanche, e più radicalmente, la Storia stessa, il «mito della storia» (l’espressio-ne è di Michel Foucault) quale costruzione simbolica di un orizzonte uni-versale e trascendentale che accoglie, conserva e mette a frutto l’operareumano. Molto prima di appartenere a un medesimo movimento di emanci-pazione, rivoluzione e Storia appartengono a un medesimo movimento ge-nealogico: nessuna azione rivoluzionaria, senza soggetto della storia. La ri-voluzione «accompagna» la Storia, perché il dinamismo temporale in giocoin questo modello possiede una notevole capacità di autoregolazione; è ingrado, in situazioni estreme, di produrre capovolgimenti radicali. La rivolu-zione, allora, non è che un prodotto della Storia, che si afferma, come di-rebbe il Marx del primo libro del Capitale, con l’ineluttabilità di un processonaturale 11, in cui il ruolo del soggetto è tutt’al più determinato dalla sua fa-coltà di accelerare un cambiamento comunque già in atto.

Ma la rivoluzione accompagna la Storia anche in un altro senso, sugge-rito dal suo presentarsi come emendazione di un dinamismo corrotto (il dive-nire ottuso e irreversibile di Nietzsche o il continuum di Benjamin): qui, allo-ra, è piuttosto il caso di una Storia che si vede costretta a riaffermare i suoidiritti attraverso un atto rivoluzionario; si tratta di qualcosa come un’assicu-razione contro se stessa, cioè contro il rischio, mai definitivamente scongiu-rato, dell’affossamento di quella figura mobile, differenziale ed emancipativadel tempo che dovrebbe sempre esserle propria. In questa seconda declina-zione dell’idea di rivoluzione, è possibile riconoscere l’espressione di un’on-tologia del tempo che ha attraversato la Modernità come progetto politico,compito etico, impegno sociale.

Per concludere su questo aspetto, è possibile dire che il tempo pensatoattraverso la figura della rivoluzione, non è che il tempo storico riguadagna-to alla sua propria vocazione; ciò che dal punto di vista degli uomini(l’Umanità), significa assistere all’affermazione, qui e ora o progressivamen-te, di quel tempo (la Storia) che è loro dovuto: questione centrale della Mo-dernità, se ve n’è una.

Non è dunque un caso, ricordiamolo tra parentesi, se ciò che abbiamochiamato ‘Modernità’, per le pagine iniziali del Manifesto di Marx ed Engels,autori che sono qui convocati in ragione del valore paradigmatico dei loro

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10 Cfr. R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, Marietti,1986, passim.

11 Cfr. K. Marx, Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 1980, vol. I, p. 826.

scritti, è in primo luogo l’«epoca borghese», vale a dire l’età di quella classein ascesa il cui ruolo nella Storia è giudicato come «estremamente rivoluzio-nario»: capovolgimento delle condizioni di vita feudali e dei suoi legami ge-rarchici; annientamento della devozione religiosa; trasformazione radicaledei rapporti sociali; spiegamento delle forze produttive 12. Allorquando i dueautori si interrogano sull’identità del soggetto storico, non possono evidente-mente che imbattersi nella borghesia. Non solo per il fatto che la borghesiaè la classe che ha saputo imporre alla civiltà un nuovo ordine (modernizza-zione) sociale, costruito attorno ai suoi interessi, ma soprattutto perché essatrova la sua condizione d’esistenza in un’incessante rivoluzione planetaria:quella dei mezzi e dei rapporti di produzione. La borghesia attribuisce, così,al tempo storico quel dinamismo che gli spetta, anche se, paradossalmente,il telos di questo dinamismo finirà con l’operare in direzione del suo supera-mento: rivoluzione della rivoluzione, negazione della negazione. La classestorica (borghesia) genera la classe rivoluzionaria (proletariato). In questo sen-so, l’irruzione della Modernità coincide precisamente con l’irruzione dellaStoria, poiché è la borghesia a temporalizzare la civiltà attraverso un movi-mento storico incessante che Marx e Engels riconoscono come ‘eterno’:

la borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di pro-duzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione diesistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimentodel vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione,l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eter-ni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvonotutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e vene-randi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. 13

Nell’Ideologia tedesca, un testo di qualche anno precedente, questo movimen-to eterno è presentato in tutta la sua discontinuità, come occasione dellarealizzazione di una conversione radicale che reagisce con un «movimentopratico» (la rivoluzione, appunto) all’inevitabile metamorfosi delle forzeproduttive in forze di distruzione della vita sociale e individuale 14.

Se vi è storia propriamente umana, si tratta di una storia che si orga-nizza attorno alla definizione di un nuovo orizzonte di attese, dove l’idea dirivoluzione (nel bene e nel male) si presenta come uno degli elementi topiciche hanno contribuito a informare l’immaginario moderno. Rivoluzione edevoluzione storica sono due termini che la Modernità, con la sua insistenzasull’emancipazione sociale del genere umano (l’hegeliano «dominio del sog-

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Tecnologie, identità, tempo

12 Cfr. K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista cit., pp. 9-14.13 Ivi, p. 10 (il secondo corsivo è nostro).14 Cfr. K. Marx, F. Engels, Ideologia Tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1956, pp. 67-68.

getto su se stesso»), concepisce, in diverse circostanze, come sinonimi: farela storia è fare la rivoluzione.

È significativo, a questo riguardo, che allorché Kant dieci anni dopo larivoluzione francese, s’interroga sull’evoluzione del genere umano («il con-tinuo progresso verso il meglio») 15, comprova questa tendenza fondandolasu un fenomeno che egli reputa indicativo della capacità dell’Uomo di pre-sentarsi come la ‘causa’ e l’‘autore’ del progresso 16. E quale migliore occa-sione della rivoluzione per il manifestarsi di questo fenomeno? Intendiamo-ci, il fenomeno interrogato da Kant non viene immediatamente assimilatoalla Rivoluzione, concerne piuttosto la qualità assiologica della sua ricezione:la generale reazione d’entusiasmo disinteressato che essa ha saputo suscitarepresso il pubblico non direttamente coinvolto:

si tratta del modo di pensare degli spettatori che in questo gioco di grandiose trasfor-mazioni si palesa pubblicamente e manifesta a gran voce una disinteressata simpatia per igiocatori di una parte contro quelli dell’altra, […] così questo atteggiamento mostra(per via della sua generale diffusione) un carattere dell’umanità nel complesso, e ad untempo prospetta (per il suo disinteresse) un carattere morale del genere umano, alme-no nella disposizione di base, che non solo fa sperare nel progresso verso il meglio,ma lo è già esso stesso, per quanto è ora possibile. 17

Tale partecipazione emotiva, che presuppone, osserva Kant, una disposizio-ne morale intrinseca al genere umano, e che Hegel nelle sue lezioni sullaStoria chiamerà «sublime commozione» 18, da un punto di vista storico, maanche antropologico, indica una tensione verso il meglio che supera qualsia-si possibile interpretazione degli eventi umani passati e presenti. Dal puntodi vista di questa evoluzione progressiva, la rivoluzione secondo la lettura diKant è l’epifenomeno di una disponibilità morale della natura umana al tra-scendimento dei meri interessi individuali. E questo, proprio nella misura incui la rivoluzione è in grado di risvegliare un’approvazione disinteressata, una

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15 I. Kant, Si ripropone la questione se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in Ilconflitto delle facoltà, Brescia, Morcelliana, 1994, pp. 157-177.

La questione alla quale risponde Kant in questo saggio mette in gioco la possibilità diuna storia morale dell’Uomo, dove per «storia morale» dobbiamo intendere quel diveniretemporale storico-umano che nelle pagine precedenti, sulle orme di Koselleck, abbiamo iden-tificato con il singolare collettivo ‘Storia’: «quando si domanda se il genere umano (nel com-plesso) progredisca costantemente verso il meglio, non è in questione la storia naturale del-l’uomo (se per esempio potranno sorgere in futuro nuove razze umane), ma la storia morale,considerata non in base al concetto delle specie umane (singolorum), ma alla totalità degli uo-mini uniti in società sulla terra e divisi in popoli diversi (universorum)» (ivi, p.157).

16 Troviamo scritto: «il genere umano deve imbattersi in qualche esperienza che, comeavvenimento, indichi una sua disposizione e capacità ad essere causa del progresso verso ilmeglio e suo autore» (ivi, p. 164).

17 Ivi, p. 164.18 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 362.

disposizione d’animo che in quanto entusiasmo («partecipazione emotiva albene») non può che mettere in gioco qualcosa di ideale, in questo caso: lanozione di diritto del popolo, il diritto di darsi un’organizzazione civile (lacostituzione repubblicana) conforme al diritto naturale. Qui, dunque, è veroche ‘evoluzione’ e ‘rivoluzione’ non sono termini interscambiabili. Se esisteuna visibilità dell’evoluzione storica, essa non va ricercata nei fatti racconta-ti dalla storiografia. La visibilità è tutta dal lato dei sentimenti prodotti dallarivoluzione, o meglio dal ‘ricordo’ di questi sentimenti e del loro significatoantropologico: lo svelamento di una propensione della natura umana al pro-gresso 19. La visibilità è tutta dal lato dell’Uomo.

Se abbiamo affrontato da questa angolatura l’idea moderna di rivolu-zione, è perché la questione che ci preme riguarda l’obsolescenza del termi-ne nel contesto della cultura politica attuale. Tre sono le domande che si in-trecceranno nelle pagine seguenti. Come spiegare il declino della progettua-lità rivoluzionaria, senza arrestarsi al consueto argomento delle impietose«repliche della Storia»? Quale significato assegnare, dal punto di vista dellarappresentazione sociale del tempo umano, al declino dei discorsi sul «dirit-to del popolo di fare la rivoluzione» (stando al titolo di un’opera del kantia-no J.B. Erhard) 20? E infine: per quali motivi nelle nostre democrazie, oltre aessere venuta del tutto meno la verosimiglianza di tali discorsi, è venuta an-che meno la loro persuasività?

Si tratta, diciamolo subito, di una svalutazione dietro la quale è possi-bile cogliere il fenomeno della destrutturazione del tempo della Modernitàe, in una certa misura, anche il fenomeno del declino delle forme delle sog-gettività che le erano proprie.

L’ontologia del tempo mediata dalle nostre pratiche contemporanee (idiscorsi che scambiamo, le azioni che compiamo, i gesti nei quali ci rappre-sentiamo, ecc.), si organizza oggi attraverso un’articolazione del rapportotra passato, presente e futuro che fa saltare (con alcuni rilevanti effetti sul-l’identità) la dialettica tra continuità e discontinuità propria della Modernità.

Siamo tutti più o meno partecipi di una temporalità che sostituisce aldinamismo storico un ‘pointillisme’ topologico. È come se non vi fosse piùfuturo, perché il nostro presente, con le sue incredibili risorse e potenzialitàtecniche, concepisce se stesso nell’immobilità di un tempo che ha già supe-rato, o meglio sopravanzato, le attese ‘soteriologiche’ del futuro. Ma è anchecome se non vi fosse più passato, perché la memoria cessa di avere un ruo-lo decisivo in questa figura del presente, che pretende di occupare e di esau-rire tutta quanta l’estensione del tempo.

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19 Cfr. I. Kant, Si ripropone la questione se il genere umano…cit., pp. 168-173.20 Cfr. J.B. Erhard, Über das Recht des Volks zu einer Revolution, München, Carl Hanser

Verlag, 1976.

Dietro la prospettiva rivoluzionaria (come discorso sull’esercizio diun diritto, e sovente anche sul compimento di un dovere) è possibile rico-noscere l’idea che è proprio del tempo storico il fatto di svilupparsi secon-do ritmi differenti. L’immagine moderna della rivoluzione è costruita, tral’altro, a partire da una concezione della storia per la quale vi è la possibili-tà che l’evoluzione delle società umane, per ragioni di ordine politico, cul-turale o economico, venga meno alla scansione ‘naturale’ del suo corso. Ilcorso dell’evoluzione può così subire delle accelerazioni o, al contrario, es-sere rallentato, se non arrestato, da un processo improvviso di decelerazio-ne: tempo precipitato degli eventi versus tempo sospeso della stagnazione.È a seconda del caso, la manifestazione di una docilità, di un opportuni-smo, di una intemperanza e, in ogni caso, di una malleabilità del tempo chegiustifica l’irruzione sulla scena della Storia di un nuovo soggetto, capacedi vegliare sulle conseguenze politiche e sociali che ne possono derivare.La trasformazione del soggetto in soggetto rivoluzionario si produce allor-quando, a livello del corso storico, la prevalenza della velocità arbitraria deltempo sulla velocità legittima è tale da generare effetti distruttivi sul corpodella società o su una sua parte rilevante. Da questo punto di vista, esistedunque un tempo del compimento al quale viene a sovrapporsi un’altratemporalità, che può avere sia l’effetto di bloccarne la realizzazione, sia alcontrario di anticiparla.

Nel primo caso, la domanda è se, indipendentemente da qualsiasi riferi-mento alle condizioni date, è legittimo procedere alla liberazione del tempo,o se al contrario, il tempo non dispone esso stesso dei mezzi per sfuggire alsuo «raddoppio negativo»: per esempio, lasciandolo crescere fino al puntodialettico in cui, come abbiamo visto, sarà la stessa intensità assunta dallesue contraddizioni a sanzionarne la fine. Se la rivoluzione non può presen-tarsi come un gesto incondizionato, la ragione risiede nel fatto che la suapossibilità di successo dipende tanto dall’azione del popolo che da quelladella Storia stessa.

In Tocqueville, per esempio, questa coimplicazione assume un signifi-cato che illustra perfettamente l’idea del carattere plastico del tempo; la pos-sibilità di una stratificazione del tempo storico in rapporto a cui la rivolu-zione è interpretata come un’ulteriore traduzione (con altri mezzi) della sualogica immanente. Nel celebre studio pubblicato a Parigi nel 1876 21, Storiae Rivoluzione appartengono a uno stesso movimento di equiparazione dellecondizioni sociali che consente di stabilire un legame sostanziale tra il tem-po apparentemente continuo della prima e il tempo apparentemente discontinuodella seconda. L’«Ancien régime» appartiene già a una storia che la rivoluzione

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21 A. de Tocqueville, L’ Antico Regime e la Rivoluzione, Milano, BUR, 1996, p. 25.

non fa che rendere perfettamente visibile, o per meglio dire: esiste un livellodegli eventi all’interno della storia dell’«Ancien régime» che si serve della rivo-luzione per affermarne gli effetti a tutti i livelli della Storia. Tramite la con-centrazione amministrativa del potere politico realizzato a discapito dell’ari-stocrazia (ciò che F. Furet chiama «corruzione del principio aristocrati-co») 22, lo stato monarchico centralizzato realizza una rivoluzione storica chela «grande révolution» del popolo non farà che proseguire e radicalizzare. La ri-voluzione, a prescindere da qualsivoglia autointrepretazione, non dà luogo anessun inizio radicalmente nuovo, a nessuna frattura del tempo.

Lo sguardo dello storico riproduce allora qui la prospettiva dell’onto-logia della storia, per la quale non vi è alcuna cesura tra Storia e rivoluzione,poiché in quanto verità stessa della Storia, la rivoluzione, da questo punto divista, non fa che realizzare bruscamente ciò che essa ha da essere natural-mente. Per questo, l’intera questione ruota attorno alla tesi secondo cui la ri-voluzione (francese) sarebbe derivata quasi «spontaneamente [«comme d’elle-même»] dalla società che avrebbe distrutto» 23. ‘Spontaneamente’, ossia comeun fenomeno che deve la sua irruzione non tanto all’opera degli uomini,quanto alle leggi (‘fondamentali’ aggiunge Tocqueville) 24 dello sviluppo sto-rico. Se è vero che la rivoluzione imprime una direzione alla Storia attraversomodalità operatorie inedite, ciò non significa affatto che anche la direzione in se stes-sa debba automaticamente risultare inedita. Al contrario, se si considera larivoluzione in se stessa, dal punto di vista della sua essenza (dunque facen-do astrazione dagli «incidenti che ne mutarono per breve tempo la fisiono-mia nei diversi tempi e nei diversi paesi») 25, è possibile riconoscere fino ache punto una tale direzione non faccia che proseguire quello stesso lavorodi trasformazione che caratterizza lo sviluppo della società occidentale, ciòche Tocqueville identifica al progresso della civiltà 26.

I termini con i quali Tocqueville cerca di opporre una lettura correttadella rivoluzione a una lettura arbitraria sono, da questo punto di vista, assaisignificativi. Da un lato, troviamo l’idea della crescita (accroissement), delcompimento (complément), della conclusione (terminaison), della realizzazione(achèvement); dall’altro, quella della distruzione (destruction), del cambiamento(changement), dell’‘arresto’ (arrêt), dell’‘alterazione’ (altération) 27. Tutto lo sfor-zo storiografico di Tocqueville (ricerche di archivio sugli atti pubblici, sui

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22 F. Furet, M. Ozouf, Dictionnaire critique de la Révolution française, Paris, Flammarion,1988. Si veda alla voce ‘Tocqueville’.

23 A. de Tocqueville, L’ Antico Regime e la Rivoluzione cit., p. 28.24 Ivi, p. 55.25 Ibidem.26 Cfr. ibidem.27 Ivi, pp. 55-56.

processi verbali delle assemblee di stato e provinciali), si concentra così sul-la dimostrazione del carattere solo apparentemente radicale, e dunque noninnovativo, della convulsione rivoluzionaria. Nondimeno vi è, indubbia-mente, una realtà sulla quale si esercita con fervore qualcosa come un’azio-ne rivoluzionaria. Ma di che natura è questa realtà? Detto altrimenti, checosa ne è delle istituzioni aristocratiche e feudali nell’«Ancien régime»? Standoalla lettura di Tocqueville, si tratta di una realtà che si riproduce ancora solocome una sopravvivenza del passato senza efficacia, come una presenza vuotae senza alcuna reale portata: si tratta di una presenza che la logica della Sto-ria, con le sue trasformazioni dell’ordine sociale, si è già incaricata di supe-rare. Dal lato del ‘senso’ della rivoluzione, ciò significa che se vi è innova-zione, si tratta di una innovazione che, per mezzo di uno schema inusuale,agisce su una realtà già funzionalmente de-storicizzata, messa fuori gioco,dunque, ben prima dell’intervento della rivoluzione, grazie a quella transi-zione storica che, in questo caso, si è concretizzata nella centralizzazioneamministrativa, operata dalla concentrazione monarchica del potere. Èl’idea dell’«Ancien régime» come epoca che ha nutrito lo spirito rivoluziona-rio, o, se si preferisce, di una rivoluzione che ha colpito una realtà già colpi-ta, nel suo principio, dalla Storia stessa. Qui la Storia è la transizione, men-tre la rivoluzione interviene trasgredendo questo principio, con un’azioneviolenta e ‘dolorosa’ 28, senza tuttavia tradire minimamente i desiderata diquesta transizione. La rivoluzione non fa che accelerare gli effetti della tran-sizione; li presentifica qui e ora, ignorando del tutto la mediazione del tem-po: compiere «bruscamente, con uno sforzo convulso […], senza alcunatransizione, quanto si sarebbe compiuto a poco a poco da sé e in moltotempo» – è questa l’opera della vera rivoluzione 29.

Il secondo caso concerne precisamente questo punto: la natura della pos-sibile alleanza tra azione e Storia, in vista del successo del capovolgimentorivoluzionario. Anticipare il tempo del compimento attraverso l’accelerazio-ne del tempo non significa però forzare la Storia oltre i suoi limiti. Significapiuttosto lavorare su questi stessi limiti, emendando la sua provvisoria inca-pacità di rimanere fedele a se stessa. L’azione si fa Storia, così che quest’ul-tima possa di nuovo riconoscersi come Storia.

Si dà qui, per intenderci, quella stessa alleanza che dovrebbe anche ca-ratterizzare il rapporto tra arte e natura, secondo la prospettiva adottata dalretore di Lipzia J. A. Birnbaum contro le affermazioni del maestro di cap-pella e musicografo J.A. Scheibe, nel quadro di una polemica sulla tecnica

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28 Ivi, p. 56.29 Ibidem.

della composizione bachiana, scoppiata sulla rivista «Der Critische Musi-kus» nel 1737. Così come «gli obiettivi essenziali della vera arte» mirano nonsolo a imitare la natura, ma anche ad aiutarla là dove sia necessario 30, ossiaad assicurare una forma a ciò che ne è privo, allo stesso modo la precipita-zione degli eventi, il tempo accelerato dalle vicissitudine umane, è indice diun analogo ‘sostegno’ nei confronti delle debolezze fuorvianti della Storia.Da una parte si tratta della messa in forma artistica delle cose che la naturapresenta in modo informe 31, dall’altra della correzione rivoluzionaria del-l’assenza di forma provvisoria del corso storico ossia emendazione della ve-locità (o della direzione) ‘naturale’ del suo cammino.

La Storia ha dunque tempi suoi propri, legittimi e illegittimi. Saperecome, quando e, principalmente, se intervenirvi, ecco la questione fondamen-tale che si pone all’azione rivoluzionaria. Ora, se si guarda più da più vicinoil modello temporale fatto proprio dalla prospettiva dell’ontologia storica, sivede come ‘legittima’ sia quella figura del tempo che articola, secondo uncerto ordine, il rapporto tra passato, presente e futuro. Il passato è sempreciò che è passato di un certo presente, il quale a sua volta non può che pas-sare per consentire di condurre al futuro, lasciandolo così (a)venire al suoposto. Di contro, ‘illegittima’ è quella figura del tempo che interrompe ilflusso tra il presente e il futuro, obbligando così il presente a perpetrarsicome passato di se stesso. È passato del presente, nel primo caso; è presen-te del passato, nel secondo. Questa interruzione del flusso, corrisponde inun certo senso a una interruzione della Storia, poiché ciò che qui si inter-rompe è quello stesso movimento che produce la triplice scansione del pas-sato, del presente e del futuro; un presente che si riproduce come passato dise stesso, non è più in grado di aprire nessuna prospettiva al futuro, poichénon v’è avvenire che là dove il presente accetta di divenire, ossia là dove èpronto a passare, a trasformarsi nel passato. È qui che l’ontologia della Sto-ria riconosce alla Rivoluzione un ruolo legittimo. La rivoluzione, se propriodeve intervenire, lo deve fare agendo su quel presente che sbarra la strada alfuturo, imponendogli forzatamente un passato, o meglio investendolo comepassato, come ciò che deve passare.

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30 N. Harnoncourt, Der Musikalische Dialog. Gedanken zu Monteverdi, Bach und Mozart, Sal-zburg und Wien, Residenz Verlag, 1984, p. 57.

31 Ibidem.

3. VIRTUALITÀ TECNICHE E ORDINE SOCIALE:UNA RILETTURA DI WALTER BENJAMIN

Nel suo commento a ciò che viene presentato come il passo centrale deL’Eternité par les astres, quello in cui Auguste Blanqui, anticipando Nietzsche,afferma l’idea di un eterno ritorno in cui sono riprodotti instancabilmentegli stessi gesti, gli stessi costumi, gli stessi oggetti, le stesse circostanze, W.Benjamin scrive che «questa rassegnazione senza speranza è l’ultima paroladel grande rivoluzionario»; e conclude: «il [XIX] secolo non è stato in gradodi rispondere alle nuove virtualità tecniche con un ordine sociale nuovo» 32.

Oggi, se prestiamo attenzione al tempo che ci è dato, per quanto que-sta donazione non sia che l’effetto delle pratiche che concernono quotidia-namente le nostre esistenze, è possibile riconoscere come l’epoca attualemanifesti la stessa inattitudine sottolineata da W. Benjamin a proposito del-la prima Modernità: l’incapacità di produrre un ordine sociale nuovo a parti-re dalle nuove virtualità tecniche rese possibili dalla modernizzazione. Ciòche, beninteso, ai giorni nostri, non significa affatto ripetizione di uno stes-so profilo societario. Le immense trasformazioni sono sotto gli occhi di tut-ti: a livello dei ritmi sociali (accelerazione); a livello della percezione dellospazio e del tempo (duplicazione virtuale del reale, compressione delle mi-sure); a livello della relazione tra pubblico e privato (invasione dell’uno nel-l’altro); a livello delle nostre relazioni reciproche (performatività delle inte-razioni, da una parte, e crisi del legame sociale, dall’altra); a livello del no-stro rapporto con le cose (mercificazione degli oggetti) e con noi stessi(narcisismo). Senza dimenticare, ovviamente, il piano delle conoscenze, del-le tecniche e del loro potenziale, che è contemporaneamente costruttivo,trasformativo e distruttivo. Ma allora, in che senso è ancora possibile parla-re di una trasformazione che non veicola alcun ordine sociale nuovo?

Osserviamo, prima di tutto, che nel linguaggio di Benjamin, che qui in-terpreta il sentimento di rassegnazione del «grande rivoluzionario», l’aggetti-vo ‘nuovo’ assume il significato della redenzione del mondo, ossia di una li-berazione conseguita in virtù dell’applicazione al passato di una dialettica re-dentrice, capace di dare luogo a un’«apocatastasi storica», intesa qui comeriaffermazione del giusto ordine della Storia. È il riscatto mondano di unpresente posto nelle condizioni di spezzare definitivamente il continuum diquella storia addizionale e chiusa su se stessa che più tardi, nelle sue Tesi sullastoria, Benjamin identificherà con il «tempo omogeneo e vuoto» 33. Di per sé,

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32 W. Benjamin, Paris, Capitale du XIX siècle, in I «passages» di Parigi, Opere complete, vol.IX, Torino, Einaudi, 2000, pp. 34-35.

33 W. Benjamin, Sul concetto di Storia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 45; 47; 51; 53; 55.

«le virtualità tecniche» non assicurano alcuna trasformazione radicale dell’as-setto sociale, al contrario, al di là del loro apparente potere rivoluzionario,esse possono benissimo contribuire a perpetrare il tempo addizionale dellostoricismo. Si dà dunque il caso di trasformazioni (anche incessanti, com’è ilcaso oggi) che non sono però in grado di sottrarre il tempo alla chiusura sto-rica dissimulata dietro l’idea di progresso. Abbiamo, allora, la riaffermazionereiterata di una storia di novità (con la loro inevitabile obsolescenza) indiffe-rente a qualsiasi nuova storia. Oggi come ieri: almeno se è corretta la lettura ben-jaminiana dell’invecchiamento sempre più rapido delle innovazioni e delle in-venzioni del capitalismo, in quanto marca specifica della prima Modernità.

Riprendiamo ora, là dove l’abbiamo lasciato, il discorso sulla qualitàdel tempo, quale ci è dato oggi attraverso le nostre pratiche quotidiane:come si è anticipato si tratta di un orizzonte temporale che s’impone comepresente eterno, assoluto, in grado di saturare l’arco totale del tempo, rinun-ciando così a pensarsi quale segmento o ‘intervallo’ (per utilizzare un termi-ne agostiniano), cioè come una delle tre dimensioni del corso del tempo. Inbreve: non si riconosce più come tempo storico, sottraendosi di conseguenzaal divenire. L’eterno presente è appunto tempo che non diviene.

Non solo nelle sue celebri tesi sulla Storia, ma anche nei materiali e neiframmenti preparatori al grande progetto dei Passagenwerk, Benjamin ha ri-flettuto con insistenza sull’ambiguità del divenire storico esperito dalla Mo-dernità. Da una parte, potremmo dire, il mito moderno del progresso inau-gura una dimensione temporale aperta in modo immanente sul mondo(mondanizzazione), dove è questione di una qualità del tempo umano carat-terizzata dalla differenza, per quanto si tratti di una differenza contenuta al-l’interno dell’ordine mondano del tempo o del «secolo» (secolarizzazione). D’al-tra parte, visto che questa apertura è assicurata dal fatto che ogni istantetemporale, nello schema moderno del tempo, è in divenire, e definisce dun-que una successione irreversibile orientata (intendiamo dire: finalizzata allaproduzione del progresso come compimento del tempo degli uomini), nes-sun istante veramente differente può mai accadere, poiché tutti gli istanti chesi susseguono sono attraversati e organizzati da questa stessa logica chemira, appunto, alla produzione del futuro in quanto progresso: è la configura-zione del tempo come continuum. La logica del tempo come continuum, perpotersi assicurare nella sua struttura teleologica, è costretta, per così dire, aomogeneizzare il tempo della successione, ossia a svuotarlo di qualsiasi contenu-to radicalmente rivoluzionario (differenza tra ciò che procede e ciò che pre-cede), giacché nessun istante può arrogarsi il diritto di considerare il suo ac-cadere come finalità stessa del processo da cui deriva.

Questa impasse del tempo dello storicismo richiede un’altra considera-zione dell’istante, che Benjamin tematizzerà attraverso la nozione di Jetztzeit,

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la cui funzione dovrebbe essere quella di rompere con il «tempo omogeneoe vuoto», di liberare il tempo (nel senso di salvarlo) dalla sua chiusura, co-niugando così rivoluzione e messianismo, politica e teologia. Non seguiròperò Benjamin su questo punto.

Ciò che interessa ora è piuttosto osservare come la sua lettura dellacultura materiale del XIX secolo, il grande progetto incompiuto dei Passa-genwerk, discerna la medesima struttura equivoca del tempo storico anchenell’esperienza tipicamente moderna della trasfigurazione fantasmagoricasubita dai beni culturali all’epoca della loro mercificazione (il marxiano«tempo della venalità universale»), per esempio, nella rappresentazione in-cantata e scintillante attraverso cui gli oggetti si manifestano agli occhi me-ravigliati e pieni di desiderio dei passanti nei magasins de nuoveautés o nel vir-tuosismo della nuova architettura in acciaio e vetro dei passages parigini, deigiardini d’inverno, delle stazioni ferroviarie, dei mercati coperti, emblemadell’epoca tecnica ai suoi albori, che brilla a detrimento della denuncia del-le patologie del suo sistema produttivo o, ancora, nel gusto del collezioni-sta per la sua ultima acquisizione, che rinnova una serie di oggetti magica-mente affrancati dalla loro utilità pratica e dal loro valore di mercato. Tuttoquesto, agli occhi di Benjamin, non è che lo spettacolo fastoso e fantastico(la chimera), che dissimula la contraddizione del tempo della Modernità,vale a dire quel fenomeno paradossale per il quale è il carattere stesso dinovità assunto dalle cose, tipico di un regime in cui l’attenzione è insisten-temente catturata dal tempo delle novità, a ostacolare ogni modificazione so-stanziale del volto del mondo.

La fantasmagoria quindi, da questo punto di vista, è il segno di un’im-potenza del tempo, del tempo proprio di quell’epoca (il mondo borghese)che ha identificato il corso temporale alla Storia, aggirandone poi però lalogica mediante la naturalizzazione ideologica dei rapporti sociali e delleistituzioni che le sono proprie. Per intenderci, questo è il grande tema mar-xiano della non-storicità della concezione del mondo borghese. Si tratta diun’impotenza che si trasfigura in miraggio del progresso, con l’effetto direintrodurre l’utopia in un orizzonte oramai sottratto alla presenza del tem-po storico. Nulla a che vedere, dunque, con quell’effetto fantasmagoricoprodotto alla partenza dei treni della Stazione Saint-Lazare, dove una densafumata bianca rendeva tutto indistinguibile, che aveva così impressionatoClaude Monet alla fine degli anni 70 del XIX secolo, stando all’espressioneutilizzata («vera fantasmagoria») in una lettera al suo amico Renoir 34. Lafantasmagoria di Benjamin non ha più nulla di magico, se non la capacità di

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34 Citato in V. Gavioli (a cura di), Monet, Milano, Rizzoli-Skira, 2003, p. 40.

nascondere dietro la sua fumata di effetti imponenti e spettacolari la realtàdi un eterno ritorno dell’uguale.

Come scrive Benjamin in un’osservazione dei frammenti del Passagen-werk 35: ciò che è nuovo, ciò che si afferma come l’ultima novità, non produ-ce alcuna trasformazione del tessuto temporale, poiché, nel contesto delmondo della produzione moderna, il «nuovo», sotto ogni riguardo, rimane«sempre lo stesso», senza apportare alcuna modifica sostanziale alla defini-zione dei rapporti sociali. La nota che precede questa osservazione presentaproprio il paradosso, come definizione stessa del moderno, di una novitàche non incrina per nulla l’identità del tempo: il nuovo, scrive Benjamin,«nel contesto di ciò che è sempre già stato» 36.

Dunque, se come viene detto in un’altra nota 37, la Modernità corri-sponde a quell’epoca dove il nuovo è «sempre eternamente uguale», il tem-po in cui troviamo oggi le coordinante che informano le nostre pratichequotidiane, è un tempo che si definisce radicalizzando proprio questoaspetto: l’incessante produzione di novità che non dà luogo ad alcun even-to radicalmente nuovo. Le trasformazioni che, innegabilmente, ci coinvol-gono nella nostra possibilità di essere non contraddicono per nulla questaosservazione. Poiché la questione è proprio quella dell’affermazione diun’antropologia (una forma di vita), la cui emergenza è verificabile al livel-lo dei discorsi e dei gesti dominanti nei recenti contesti informazionali ecomunicazionali, che veicola appunto l’esperienza di un presente autosuffi-ciente, cioè radicalmente chiuso su se stesso. È un presente che si affermaripresentandosi senza sosta, attraverso l’imperativo della novità, dell’attua-lità, dell’innovazione perenne, un presente, ancora, dove la novità, l’attuali-tà e l’innovazione non cessano di sostituirsi a se stesse, nel quadro di unpassare che in ogni caso non è mai veramente passato, perché nulla avvieneveramente al di fuori di questa sostituzione reiterata. Del resto, può essercicambiamento radicale, là dove tutto invecchia così rapidamente; là dovetutto continua ad invecchiare incessantemente; là dove si è eternamente nel«va e vieni» di ciò che è attuale di ciò che è superato; infine, là dove il pri-mo, anziché sopravanzare il secondo, ne prende semplicemente il posto, inun gioco di rioccupazioni infinite?

La questione, oggi, non è però più quella sollevata da un divenire asto-rico incapace di produrre vera trasformazione, al quale Benjamin opponevala storicità rinnovatrice dello Jetztzeit. Una tale organizzazione lineare del tem-

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35 W. Benjamin, I «passages» di Parigi cit. S I, 5.36 Ivi, S 1, 4.37 Ivi, S 2, 2.

po si è frantumata, per ragioni che non hanno però nulla a che vedere conla teoria filosofica (e critica) della Storia. Ciononostante, il presente puntua-le che si attesta oggi sulle sue rovine non traduce alcuna storicità rinnovatri-ce. La questione è allora piuttosto quella sollevata da un presente che, alcontrario, nega il tempo, in ragione della sua pretesa di averlo già superato; un pre-sente così soddisfatto di se stesso che si immagina di poterlo sopravanzareincessantemente, grazie alla logica, ogni volta più spinta, delle sue performan-ce. Così, si riproduce il movimento ottuso di una trasformazione e di un’in-novazione continue, che investe oggetti, ambienti, contesti, persone, saperi,al quale però non segue alcun cambiamento effettivo: destino inevitabile,per una realtà che ha l’ambizione di «fare a meno» del tempo. La domandaè, infatti, se può ancora esserci passato, là dove esso non è che questo stes-so presente, solo con un grado di compimento inferiore: lo stesso, ma conuna forza minore, quanto a processi di razionalizzazione, di produzione, diconsumo, di informazione, di comunicazione e di virtualizzazione. E, quin-di, se può ancora esserci futuro, là dove l’avvenire si presenta ancora solo inquanto incremento e diffusione «a tutto campo» (globalizzazione) di ciò cheil presente contiene già come ciò che «ha da essere», come ciò che, proprioperché già realizzato, distrugge l’immagine di ogni altro «aver da essere» (sol-len): figura ultima del compimento, giacché assai più avanzato di qualsiasifuturo possibile, che oggi esiste ancora solo come spazio. È lo ‘Spazio’ diuna diffusione, il cui compito principale è di universalizzare, diffondendo alivello mondiale (mondializzazione), le conquiste del presente, cioè del pre-sente come conquista, nuova figura finale della Storia. È, allora, l’idea delfuturo come diffusione e ripetizione spaziale del presente, e del presentecome compimento temporale del futuro, di cui il passato non è che questostesso presente assoluto (il nostro presente) il quale, a tali condizioni, nonpuò mai veramente passare.

In un simile schema, la «storicità rinnovatrice», ben prima di cessare diessere una possibilità per il pensiero, cessa di essere una possibilità del tem-po, della forma del tempo attuale. Questo accade, però, non perché il tem-po (l’epoca) non si rappresenti più, o non possa più rappresentarsi, attraver-so un termine, un’esperienza, un’utopia che ha segnato profondamente l’au-tocomprensione della Modernità. Se l’idea della rivoluzione non costituiscepiù una possibilità per l’epoca, ciò deriva dal fatto che essa risulta estranea aquella struttura puntuale, autosufficiente e soddisfatta che informa il tempoattuale. Non vi è più rivoluzione perché, come è indicato quotidianamentedal linguaggio ordinario noi «non abbiamo più tempo». Quello che rimane èil presente, questo presente qui, e un presente spossessato del tempo nonpuò evidentemente riconoscere nessun’altra necessità, se non quella di ripro-dursi incessantemente.

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4. KIERKEGAARD E IL TEMPO TECNOLOGICO

Tale detemporalizzazione del presente, che corrisponde, piuttosto, a unaconfisca del passato e del futuro per opera dell’istante, non è da confonderecon l’imperio dell’‘attimo’, quale lo troviamo tematizzato nel celebre model-lo di vita estetico descritto da Kierkegaard. La vita che si disperde smemo-rata nei «moti eccentrici» 38 di una condotta improntata al piacere, fa certa-mente prova dell’incoerenza del suo percorso biografico. Ma la partecipa-zione totale al presente ha qui un significato del tutto diverso. È l’effetto diun’inquietudine ‘erotica’, che rinuncia a qualsiasi coerenza per aderire allacasualità e all’accidentalità delle occasioni della vita. E se qui, la vita, speri-menta incessantemente il rischio della dissoluzione nella molteplicità, comeperdita della «potenza che tiene uniti i legami della personalità» 39, lo fa acausa della priorità accordata all’istante: una priorità che afferma la vita nel-la sua pulsione indifferentemente desiderante. L’istante e il momento, nella loropuntualità episodica, assorbono completamente la vita estetica, vale a direquel modello di vita improntata al piacere a cui Kierkegaard guarda per de-scrivere l’esistenza risolta completamente nel presente, perché è questa lamisura temporale del godimento. Là dove ciò che orienta l’esistenza è l’af-fermazione del desiderio nella sua immediatezza irriflessa (la vita vissuta «infunzione del desiderio») 40, non può darsi poi elevazione alcuna al di sopradel presente vissuto 41. La molteplicità del desiderio diventa, così, vita di-spersa in una molteplicità senza limiti: l’esistenza propria di una personalitàche, come scrive Kierkegaard, «rimane nella sua immediatezza» 42. L’espe-rienza della discontinuità consegue, dunque, in questo caso, dalla non linea-rità del desiderio. Così, lo sguardo sprezzante dello stadio estetico dell’esi-stenza nei confronti dell’attivismo borghese, al di là dei motivi di superficieche lo alimentano, dipende dal fatto che nessuna operosità può avere senso,là dove la vita è priva di continuità 43.

Per contro, la questione che si pone oggi è proprio quella di un attivi-smo che produce discontinuità, il cui modo di operare è cioè tale da istitui-re quella esperienza della frammentazione che, come abbiamo visto nellepagine precedenti, eleva l’istante puntuale del presente immemore a para-digma stesso del tempo. Vi è in questo confronto qualcosa di illuminanteper il nostro discorso. La discontinuità nel modello della vita estetica è, per

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38 Cfr. S. Kierkegard, Enten-Eller, t. IV, Milano, Adelphi, 1981, p. 20.39 Ivi, t. V, p. 23.40 Ivi, t. V, p. 53.41 Ivi, t. V, p. 48.42 Ivi, t. V, p. 54.43 Ivi, t. V, p. 69.

così dire una discontinuità agita (per quanto non decisa); l’effetto di una ec-centricità dovuta in primis a una disposizione, per così dire, psicologica.Mentre nel modello odierno, si tratta piuttosto di una discontinuità patita,poiché il tempo assume qui questa forma frammentata in ragione di una di-sposizione che appartiene a una modalità dominate della prassi, e non a unsingolo stile di vita. Qui si tratta di un approccio discontinuo al mondo, làdi un modo collettivo di trovare il mondo nella discontinuità delle sue occa-sioni, delle sue urgenze, delle sue necessità.

Sono due antropologie che vivono l’esperienza temporale della di-scontinuità in modo profondamente diverso, come si vede molto benequando si fa riferimento alla questione della memoria. Il nostro presente è‘smemorato’, perché l’asse sul quale si muove è quello di un potenziamentoincessante delle proprie risorse, per realizzare il quale esso immagina di po-ter bastare, finalmente, a se stesso. Scompare, come ho avuto modo di ripete-re più volte, la linearità cumulativa della storia storicista. Nulla ha da esserericapitolato, là dove ciò che viene dopo, per potersi affermare, deve lasciarcadere, poiché inconsistente, il proprio debito con quanto lo ha preceduto.Lo stesso vale anche sul versante della storia individuale. Che cosa rimaneancora da ricordare, laddove il passato, o meglio il singolo racconto che loconfigura, la singola esperienza che ne deriva, la singola memoria che lo cu-stodisce, non sono più in grado di integrarsi produttivamente – al fine dialimentarlo – nel processo delle azioni e dei discorsi che danno corso alpresente? Perché ricordare, se un tale processo vive piuttosto della capacitàdei soggetti di reinvestirsi illimitatamente, senza mediazioni, in una mobili-tazione innovativa incessante, così da poter approfittare di mentalità, abilità,competenze e saperi incondizionati, privi cioè di quegli «elementi residuali»che continuerebbero a far esistere ciò che non è più, a tutto svantaggio diciò che deve ora essere?

Anche la vita estetica è smemorata, ma per una ragione diversa. Quil’oblio consegue dall’assenza di memoria in quanto dote psichica: una facoltà ir-rilevante per chi non ha occhi che per l’istante, cioè per quella misura ridot-ta e fugace del tempo in cui si accende e spegne la passione. Nessuna me-moria di sé dimora in chi non è in grado di dare alla propria esistenzaun’articolazione temporale che oltrepassi la puntualità del momento, quel-l’inesteso ‘intervallo’ di tempo in cui si esercita, scrive Kierkegaard, «lo zelodella passione» 44. L’esteta è smemorato perché «teme la continuità» 45, ossiateme di non cogliere ogni volta, nella più radicale frammentarietà, l’istanteche, irresistibile, possa introdurlo, sotto la spinta della passione, nella «pie-

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44 Ivi, t. V, p. 72.45 Ivi, t. V, p. 73.

na prassi» 46. L’oblio dell’esteta non concerne cose, persone, conoscenze; èappunto, come detto, oblio di sé, disinvestimento della propria esistenzapassata e dei suoi episodi salienti, a favore di un’adesione integrale allo statod’animo del momento. L’esperienza dell’incostanza, il giacere dell’esteta nel-le mere differenze, presuppone questo allentamento totale della memoria, ilquale, grazie appunto al venire in primo piano dello stato d’animo e al godi-mento che esso assicura, consente di porre in essere un presente irrelato,nella sua assoluta assenza di mediazioni, luogo sempre rinnovato dell’espe-rienza del piacere. È l’existentia risolta ogni volta nel singolo istante, ma èanche l’existentia che, in assenza di continuità, si periferizza incessantemente,senza trovare mai il centro in se stessa: essa vive fuori di sé.

L’istantaneità nel soggetto di oggi è invece un’esperienza di ordine feno-menologico; concerne cioè l’apparire stesso del mondo nelle sue relazioni disenso. È il fare esperienza di un modo di presentarsi delle figure della quo-tidianità (persone, oggetti, informazioni, luoghi, motivazioni, interessi,compiti), e in ultima analisi, appunto, del mondo stesso, in cui risulta fran-tumata la linearità del tempo che le palesa, come se la successione non co-stituisse più l’orizzonte prevedibile del loro accadere. Si tratta allora di unaddivenire che, per così dire, non «diviene più». Si è in uno stallo che ha,tuttavia, la forma del movimento innovativo, ma di un movimento i cuicambiamenti non inducono alcuna trasformazione, se con ‘trasformazione’intendiamo l’irrompere di un’alterità che sappia porsi in radicale alternativaalle logiche mediante cui oggi viene configurato l’ordine della realtà fattua-le 47. Per questo si può dire che è come se le ‘cose’ accadessero meno neltempo della successione che in quello della simultaneità, per quanto queste duemodalità dell’accadere rimandino l’una all’altra, essendo l’una il correlatodell’altra. L’istantaneità di cui stiamo parlando è, da questo punto di vista,l’affermazione di uno spazio di simultaneità che nega il tempo della succes-sione, per affermare l’idea di un tempo irrelato, sospeso e quindi sempreidentico a se stesso, tale da poter avocare a sé l’attributo dell’epocalità. Dovepossiamo cogliere meglio questo fenomeno, se non nel modo in cui la cono-scenza, il sapere e le informazioni tendono oggi a organizzare i loro conte-nuti? Si tratta di un ‘modo’ che è direttamente connesso con i mezzi attra-verso cui il nostro presente accede alla conoscenza, al sapere e alle infor-mazioni. Non è il caso, ora, di aprire una discussione sul destino del libro,

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Tecnologie, identità, tempo

46 Ibidem.47 Ugo Volli, che affronta la stessa questione dal punto di vista di quella che egli defini-

sce la nostra attuale «società del desiderio», parla di un cambiamento «limitato alla superficiedelle cose», incapace di «investire la loro organizzazione fondamentale, né in particolare lastruttura della società» (U. Volli, Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza, Milano, RaffaelloCortina editore, 2002, p.12).

quale strumento principale di questo accesso. Basti osservare come, e conquali effetti, si siano moltiplicati i canali che veicolano conoscenza, saperee informazione, sottraendo al libro il ruolo di loro «emblema unico» 48. Iltrasferimento del primato dal libro ad altri media («oggi la quantità di coseche sappiamo per averle lette da qualche parte è molto minore di trent’annifa») 49 interessa direttamente il nostro discorso, nella misura in cui compor-ta una trasformazione che, da un’angolatura specifica, coinvolge proprio ledue esperienze della successione e della simultaneità. Diciamo che questedue esperienze definiscono modi diversi in cui lavora l’intelligenza per ap-propriarsi dei significati. In una cultura dove domina il libro quale vettoreculturale di apprendimento privilegiato, conoscenza, sapere e informazionipossono essere acquisite, in linea di principio, a condizione di disporre diuna forma di intelligenza capace di trattare quella «serie lineare di simbolivisivi» di cui si compone il testo scritto 50. Qui è in gioco una capacità didecodifica che ha a che vedere con il tempo, perché il suo campo di appli-cazione è la successione degli stimoli. Raffaele Simone, che ha dedicato altema analisi approfondite, parla in questo caso di educazione alla «visionealfabetica» 51: un’educazione laboriosa che presuppone lo sviluppo di unaintelligenza di tipo sequenziale, capace appunto di operare «sulla successio-ne degli stimoli» disponendoli «in linea, analizzandoli e articolandoli» 52.Quando, allora, come accade oggi, si diffonde una cultura in cui la logicadel libro cede il passo a quella di altri canali, in ragione dello sviluppo edella diffusione dell’informatica e della telematica, ossia delle loro possibi-lità (multi)mediali, la domanda che occorre porsi è come si trasforma ilmondo dei significati e come si modifica lo stile della loro intelligibilità.L’innovazione tecnologica è alla base della diffusione di un genere di con-tenuti la cui appropriazione non richiede più necessariamente l’attivazionedell’intelligenza sequenziale, perché la natura della visione che interviene inquesto caso è «non-alfabetica» 53: televisione e video, con i loro linguaggiiconici, definiscono uno stile di presentazione dei contenuti, sempre piùestesa anche ad altri mezzi, che attiva forme di intelligenza centrate sullagestione della ‘simultaneità’. I diversi elementi si dispongono, per così dire,su una superficie l’uno accanto all’altro senza adottare uno schema di ap-parizione in cui, come osserva R. Simone, possa essere letta una successio-

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48 Raffaele Simone, La Terza Fase. Forme del sapere che stiamo perdendo, Roma-Bari, Later-za, 2003, pp. 71-122.

49 Ivi, p. XI.50 Ivi, p. 16.51 Ibidem.52 Ivi, p. 17.53 Ivi, p. 72.

ne ordinata «nel suo movimento» 54. Qui l’emergenza del significato cessadunque di essere una questione legata all’organizzazione lineare dei contenuti.

Ora, al di là della portata di questa trasformazione dei contenuti dellaconoscenza e delle forme di intelligibilità che i media odierni contribuisconoad affermare, ciò che importa sottolineare a questo punto è il suo significa-to ontologico. ‘Ontologico’ indica qui che quando è in gioco una trasforma-zione delle modalità del conoscere, e quindi del come i contenuti si rendo-no intelligibili, più complessivamente, quando è in gioco la forma dell’ac-cessibilità ai significati, è sempre anche in gioco il nostro modo di incontrare il mondo,il che, in ultima analisi, si riflette sulla percezione stessa della nostra identità.

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Tecnologie, identità, tempo

54 Ivi, p. 18.

Vittorio Morfino

MARX PENSATORE DELLA TECNICA

1. IL MARX DI AXELOS

Il titolo di questo articolo è un esplicito riferimento a un testo di un marxi-sta greco del secolo appena trascorso, Kostas Axelos, rifugiatosi in Franciadopo il colpo di Stato dei colonnelli: nel 1961 scrive appunto Marx penseurde la technique. Ho scelto questo testo come punto di avvio di questo percor-so interpretativo poiché Axelos presenta la singolare peculiarità di avere unaconoscenza molto dettagliata dei testi di Marx e allo stesso tempo di pro-porre un’analisi di essi da una prospettiva heideggeriana: in sintesi si trattadi una lettura heideggeriana di Marx, che mi è parsa di grande interesse nel-la prospettiva di interrogare la questione della tecnica in Marx.

Vediamo in primo luogo in che modo Axelos interroga i testi di Marx.Com’è noto Marx presenta una produzione estremamente disomogenea:troviamo tra i suoi scritti testi giornalistici, storici, economici e anche filoso-fici in senso stretto. Secondo Axelos, un unico pensiero domina in realtàtutti i testi: «lo sviluppo dei vari temi – scrive – vela l’unità che li regge» 1.L’autore Marx si rifrangerebbe come una essenza immutabile nella molte-plicità del variopinto fenomeno dei suoi testi. Questa essenza può essereracchiusa nella sintesi di un solo potente pensiero: «rovesciare la metafisicatradizionale dell’occidente, portare a compimento, sopprimere e superare lafilosofia, realizzarla nella pratica e nella tecnica» 2.

Dunque il pensiero di Marx sarebbe imperniato sulla tecnica e in que-sto senso continuerebbe e prolungherebbe la metafisica occidentale, sia purvolendola sopprimere. Axelos inserisce così il pensiero di Marx in una sto-ria della metafisica che propone in tre tappe:

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1 K. Axelos, Marx pensatore della tecnica, Milano, Sugarco, 1963, p. 10.2 Ibidem.

LED Edizioni Universitarie - www.ledonline.it
Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

1. il pensiero greco che pensa l’unità della totalità (presocratici, Platone,Aristotele);

2. il pensiero cristiano, in cui la totalità di ciò che è, è creata dall’essere pereccellenza, cioè Dio;

3. il pensiero europeo moderno che dissolve l’unità della physis e contestal’ordine della creazione, con il porre l’ego del soggetto umano come rescogitans cui contrapporre il mondo oggettivo come res extensa.

Rispetto a questo quadro interpretativo, che mi pare essere già unavolgarizzazione e un impoverimento di Heidegger, è interessante leggere unpassaggio di Axelos in cui è delineata la differenza tra la tecnica nell’età gre-ca e in quella moderna:

per il pensiero greco […] l’uomo è un essere della physis […]; egli soggiace a legami ‘fisici’e obbedisce al ritmo cosmico. Esplorando ciò che è, portandolo al linguaggio ed ele-vandolo al livello del sapere, mettendo in opera una techne coessenziale alla physis, gliumani non si pongono mai come signori del Cosmos; le loro opere non pretendono af-fatto di trasgredire il suo ordine. […]

Per il pensiero moderno […] l’uomo è quel soggetto (quasi assoluto) che, in con-nessione con gli altri uomini – la Società – lavora, fatica e costruisce oggetti, mettendoin moto le terribili forze della tecnica impegnata nella lotta contro la natura e destina-ta a divenire la leva che imprimerà movimento alla totalità del pianeta. 3

La tecnica greca sarebbe dunque l’espressione di un ritmo cosmico, mentrela tecnica moderna sarebbe invece creatrice del movimento cosmico stesso,«leva che imprime il movimento alla totalità del pianeta». In questo quadrointerpretativo diventa chiaro in che senso Marx possa essere inteso da Axe-los come il culmine della metafisica moderna: egli fa dell’azione (la prassi)del Soggetto sull’Oggetto la scena della Storia.

Si è detto che vi è un’unità essenziale che secondo Axelos sottendetutti gli scritti di Marx; si tratta ora di metterla in luce. In questo senso ilsottotitolo del libro è rivelatore: Dall’alienazione dell’uomo alla conquista del mon-do. Il concetto di alienazione è posto da Axelos al centro del pensiero diMarx e il movimento di disalienazione costituisce il senso della storia verso«il dispiegamento disalienato e totale della forza della tecnica» 4.

Un’interpretazione di questo genere per un lettore di Marx di inizioNovecento sarebbe a dir poco sorprendente. A una descrizione di tal gene-re, seppur non iscritta in un processo storico mondiale o planetario, comeama dire Axelos, corrisponde assai più la filosofia di Feuerbach nel suo nu-cleo più strettamente teorico, la critica dell’inversione del soggetto predica-to che dà luogo all’alienazione dell’essenza umana generica (Gattungswesen)

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3 Ivi, pp. 17-18.4 Ivi, p. 30.

nel Dio cristiano o nel logos hegeliano. In quegli anni Marx è noto per laconcezione materialistica della storia e per le analisi economiche del capita-lismo, oltre che, cosa forse più importante, come dirigente del movimentooperaio internazionale. Cosa è accaduto allora tra lo sguardo del lettore diinizio Novecento e lo sguardo di Axelos? Nel 1932 viene pubblicata daLandschut e Meyer, due allievi di Heidegger, una raccolta di scritti di Marxche sotto il titolo Der historische Materialismus. Die Frühschriften, comprende laCritica del diritto statuale hegeliano, i Manoscritti del ‘44 e l’Ideologia tedesca 5; nellostesso anno Adoratskij pubblica i volumi III, IV e V della prima serie delleMEGA (Marx Engels Gesamtausgabe) che comprendono, tra l’altro, i Mano-scritti del ‘44 e l’Ideologia tedesca 6. La pubblicazione di questi scritti cambia lapercezione dell’immagine di Marx (quantomeno nel mondo Occidentale):da essi emerge con forza il Marx filosofo, già conosciuto certo attraverso laSacra famiglia, ma in questi testi presente con tutt’altro spessore, specie nellostraordinario corpo a corpo con Hegel.

È dunque proprio questo Marx che Axelos prende in considerazione,come risulta chiaro dall’affermazione secondo cui la sua interpretazione sibaserà «principalmente sui Manoscritti del ‘44 e sulla prima parte dell’Ideologiatedesca» 7. Ma tra i due testi (non certo filosoficamente omogenei, ma su ciòAxelos è reticente) è il Marx del ‘44 che ha il primato:

fra tutti questi testi i Manoscritti economico-filosofici del 1844 occupano un posto assoluta-mente centrale e hanno un’importanza particolare, per il fatto di esprimere il pensieroglobale del giovane Marx lanciato alla conquista del suo pensiero in opposizione a He-gel. Del resto, il manoscritto del 1844 è e rimane il testo più denso di pensiero di tuttele opere marxiane e marxistiche. 8

A partire da questo presupposto l’interpretazione di Axelos si sviluppa inmodo facilmente prevedibile. Per facilitare il lettore la riassumo qui in quat-tro punti:

1. La differenza Hegel-Marx. In Hegel alienazione e oggettivazione sonouno nell’attività dello spirito, il suo farsi oggetto è un alienarsi; in Marx invecei due concetti si scindono: l’attività lavorativa è oggettivazione, mentre il con-cetto di alienazione serve a designare quella specifica attività lavorativa, quella

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Marx pensatore della tecnica

5 K. Marx, Der historische Materialismus. Die Frühschriften, hrsg. von S. Landshut und J.P.Mayer, Leipzig, Kröner, 1932.

6 K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, in Marx Engels Ge-samtausgabe, Abteilung I, Bd. 3, hrsg. von V Adoratskij, Marx-Engels-Archiv-Verlagsgesel-lschaft, Frankfurt a.M., 1932, pp. 29-172; K. Marx - F. Engels, Die Deutsche Ideologie, in MarxEngels Gesamtausgabe, Abteilung I, Bd. 5, hrsg. von V Adoratskij, Marx-Engels-Archiv-Verlag-sgesellschaft, Frankfurt a.M., 1932, pp. 1-544.

7 K. Axelos, Marx pensatore della tecnica cit. p. 36.8 Ivi, pp. 56-57.

specifica oggettivazione, in cui il prodotto e l’attività stessa si ergono comepotenze estranee di fronte al lavoratore. In questo contesto alla dialettica del-le figure della coscienza che conduce al sapere assoluto si sostituisce la dialet-tica di alienazione e disalienazione del lavoro che conduce al comunismo:

la collettività umana, la società comunista – che generalizza la potenza dell’ego del-l’uomo – diviene qui ciò che fonda tutto quanto è, e domina il pianeta; ed essa gover-na la totalità con mezzi pratici, cosciente di ciò che fa e senza perdersi nell’errare. 9

Se dunque il sapere assoluto è quella Erinnerung che interiorizza e raccogliein sé tutto il passato rendendolo infine trasparente, il comunismo, spostan-dosi sul piano della prassi, rende trasparente il futuro, abbracciando a untempo nella sua azione la totalità dell’essere.

2. L’uomo è il soggetto della storia. Axelos mette da parte le analisi del si-stema capitalistico presenti nel Capitale 10, per diluire il capitalismo nellagrande saga cosmica del lavoro alienato. In questa prospettiva il capitale è laforma compiuta della proprietà privata, il capitalismo è l’ultima tappa dellastoria delle lotte di classe e il denaro è l’essenza generica (Gattungswesen) del-l’uomo nella sua forma alienata. Il soggetto della storia è appunto questoente generico la cui alienazione dà luogo a un mondo capovolto dominatodalla divisione del lavoro, dal capitale e dal denaro. In questo quadro vieneletta anche la questione della tecnica: «il regno della macchina, della indu-stria e tutta la civiltà tecnicistica portano a compimento l’alienazione econo-mica e sociale dell’essere umano» 11.

Ora, poiché la storia nasce con la produzione e questa necessita dellostrumento, è precisamente quest’ultimo che «permette all’uomo di porsicome uomo e contrapporsi alla natura» 12. Lo strumento è dunque all’origi-ne della storia:

finché impiegavamo strumenti di produzione soprattutto naturali, per esempio l’ac-qua, gli uomini rimanevano subordinati alla natura, mentre i mezzi di produzioni crea-ti dalla civiltà, e creanti la civiltà tecnicistica, li aiutano a opporsi meglio alla natura;ma, pur sfruttando la natura, ora gli uomini si fanno sfruttare da altri uomini e riman-gono subordinati a ciò che essi stessi hanno prodotto. Lo sviluppo degli strumenti diproduzione condusse necessariamente alla creazione e allo sviluppo della macchina,giacché il lavoro che presupponeva una macchina si mostrò essere quello più suscetti-bile di sviluppo. 13

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9 Ivi, p. 62.10 Troviamo scritto che «tutti i problemi storici, economici e tecnici, studiati dettaglia-

tamente nel voluminoso Capitale, non saranno affrontati qui» (ivi, p. 88).11 Ivi, p. 93.12 Ivi, p. 93.13 Ivi, p. 95.

La macchina è il termine ultimo di sviluppo degli strumenti di produzione,la sintesi di tutti gli strumenti e il sommo grado di alienazione. Ma che cosaha reso possibile il mostruoso sviluppo delle macchine? Secondo Axelos, inMarx non vi è risposta; semplicemente afferma che divisione del lavoro,proprietà privata, denaro e macchina manifestano il lavoro alienato e che larivoluzione comunista libererà il lavoro, mettendo la tecnica sotto il control-lo della comunità umana.

3. Dualismo metafisico. Ogni altra alienazione (religiosa, politica, filosofi-ca, scientifica) è riportata ad alienazione economica. Marx è dualista nelsenso che fa del fisico il fondamento dello spirituale: capovolge la metafisi-ca restando però nella metafisica. In questo orizzonte la tecnica è il motoredel divenire, è un motore dialettico che conduce a disalienare e rivoluziona-re la tecnica stessa, facendo sì che l’uomo si riappropri della sua essenza.

4. Comunismo come riconciliazione. L’uomo è alienato fin dall’origine, lastoria umana è la storia dell’alienazione ed il comunismo coincide con lariappropriazione dell’essenza umana nel superamento della soggettivitàegoistica e dell’oggettività reificata: «la soppressione dell’alienazione sogget-tiva e di quella oggettiva renderà possibile l’appropriazione dell’essere (sog-gettivo e in pari tempo oggettivo) dell’uomo e delle cose» 14.

La storia è dunque, allo stesso tempo, sviluppo della tecnica e dell’alie-nazione, come anche preparazione della riconciliazione.

Su queste basi, cioè sulla base dei quattro punti analizzati, Axelos co-struisce la sua lettura heideggeriana di Marx. Marx non si sarebbe affatto li-berato della metafisica, in quanto il presupposto fondamentale del suo pen-siero è l’essenza umana generica:

il presupposto del pensiero marxiano e la limitata grandezza della sua visione sonometafisici, costituiscono anzi il punto culminante della metafisica occidentale. Que-st’ultima origina la scienza e la tecnica, le quali si apprestano a conquistare l’intero pia-neta in nome dell’uomo che lavora per appagare i suoi bisogni.

Pur volendo superare il soggettivismo e l’oggettivismo, l’idealismo e lo spiritua-lismo, il realismo e il materialismo, la dimensione metafisica del pensiero filosofico diMarx rimane imperniata sulla soggettività umana, ‘soggettività’ che si trova socializza-ta e su una certa concezione ‘materialistica’ della realtà. 15

Il pensiero di Marx sarebbe, secondo Axelos, un inconsapevole prolunga-mento della metafisica greca, della teologia giudaico-cristiana e della filoso-fia moderna:

i suoi presupposti sono materiali e reali, sensibili e pratici, empirici e universalmenteconcreti; essi discendono dalla osservazione e dalla constatazione di ciò che è. Così,

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Marx pensatore della tecnica

14 Ivi, p. 262.15 Ivi, p. 266.

per lo meno, il pensiero rivoluzionario di Marx interpreta se medesimo; ma i suoi verie profondi presupposti non si rivelano ai suoi occhi. Il pensiero di Marx non si rendeconto con sufficiente chiarezza di prolungare la metafisica greca, la teologia giudaico-cristiana e la filosofia moderna. Tuttavia, esso viene dopo la ‘dissociazione’ del logos edella physis, dell’idea e del fenomeno, della teoria e della prassi, della legge sociale e naturale,tutte queste «dissociazioni» non essendo sufficienti per illuminare il problema della te-chne. In secondo luogo, esso viene dopo la posizione di un Atto assolutamente primoe creatore – l’Atto divino della creazione umana – e dopo la storia rivelata del Dio fattouomo e morto per condurre l’umanità verso la Redenzione finale dei peccati, la quale sarà unaripresa della creazione e significherà la vittoria totale dello Spirito sulla Natura. Infine, essoviene dopo la scoperta dell’ego cogito, cioè della res cogitans, che opera sulla res extensa eprepara l’irrompere illimitato della volontà di potenza, della ratio e della coscienza dell’uo-mo, che si tramutano in scienza, in tecnica e in azione produttiva. Come abbiamo già indi-cato, il pensiero marxiano prolunga soprattutto questa terza epoca del pensiero occi-dentale, l’instaurazione del Soggetto. 16

Dunque per Axelos il soggetto assolutamente produttivo è il fondamentotanto del marxismo quanto della tecnica planetaria. Il marxismo rimane in-vischiato nel dualismo metafisico: lottando contro il feticismo, l’alienazionee la reificazione, soccombe in realtà a ciò che combatte. In questo senso ilcomunismo è l’apoteosi del soggetto oggettivo che produce e consuma og-getti: sopprimendosi la filosofia diviene mondo, ma come scienza di unmondo basato sulla tecnica, mentre in questo orizzonte di riconciliazionenon vi è più luogo per religione, arte, poesia e filosofia. Axelos ritiene dun-que di aver compreso Marx meglio di come si sia compreso egli stesso: «inMarx v’è ciò che nessuno osò vedere: una straordinaria passione per il nul-la» 17, il suo pensiero sarebbe pertanto la «forma avanzata di un grandiosonichilismo, di un nichilismo planetario» 18.

Se volessimo riassumere in una tesi il contenuto del libro di Axelos, po-trebbe essere la seguente: Marx è il culmine della storia della metafisica e inparticolare della metafisica moderna del soggetto. Se prendiamo in mano uncelebre passo dell’Anti-Dühring di Engels avendo presente il celebre saggio hei-deggeriano sull’Epoca dell’immagine del mondo, non sarà difficile cogliere la conti-nuità tra il cogito cartesiano, signore e padrone della natura, e il comunismo:

[nel comunismo] la cerchia delle condizioni di vita che circondano gli uomini e che si-nora li hanno dominati passa ora sotto il dominio e il controllo degli uomini, cheadesso, per la prima volta, diventano coscienti ed effettivi padroni della natura, perché,ed in quanto, diventano padroni della propria organizzazione in società. […] È questoil salto dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà. 19

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16 Ivi, p. 321.17 Ivi, p. 344.18 Ivi, p. 345.19 F. Engels, Anti-Dühring, in K. Marx, Engels, Opere, vol. XXV, Roma, Editori Riuniti,

1974, p. 273.

Ma al di là del fatto che il marxismo viene inserito in un quadro interpreta-tivo heideggeriano, che cosa dice specificamente Axelos su Marx e la tecni-ca? La macchina è alienata e alienante, perché funziona in un contesto dialienazione dell’essenza umana, mentre nel comunismo sarà disalienata.Quindi Marx proporrebbe il comunismo come pieno dispiegamento delsoggetto pratico, cioè che applica la tecnica, non cogliendo in ciò una for-ma ancora più radicale di reificazione e alienazione. Ma quale concetto ditecnica utilizza Axelos? Dai primi rudimentali strumenti alla grande indu-stria sembra ci sia solo differenza di grado nell’alienazione, e dunque la con-tinuità della storia della tecnica è posta dalla continuità dell’alienazione. Ilvero concetto assente nel libro di Axelos è il concetto di tecnica.

2. IL CONCETTO HEIDEGGERIANO DI TECNICAE LA STORIA DELL’ESSERE

Mi sono chiesto se una lettura di questo genere non solo non aiutasse acomprendere il concetto di tecnica presente in Marx, ma se esso non fosseanche al di sotto del concetto heideggeriano di tecnica. Se prendiamo inconsiderazione il suo celebre testo sulla tecnica, troviamo una precisa con-cettualizzazione della differenza tra la tecnica greca e quella moderna.

La tecnica greca è un modo del disvelamento. ‘Tecnica’ deriva dal gre-co techne, che indica il fare dell’artigiano e dell’artista, la sua poiesis, ma ancheil sapere incarnato in questo fare: la techne disvela ciò che non si produce dase stesso, ciò che non si produce physei, cioè da natura. Secondo Heideggerla tecnica moderna è diversa, perché si fonda sulle scienze esatte. La sua es-senza non è un produrre (poiesis), ma un provocare, un herausfordern, un trar-re dalla natura energia che possa essere estratta e accumulata:

quale tipo di disvelatezza – scrive Heidegger – è appropriata a ciò che ha luogo me-diante il richiedere pro-vocante? Ciò che così ha luogo è dovunque richiesto di restarea posto (zur Stelle) nel suo posto (auf der Stelle), e in modo siffatto da poter essere essostesso impiegato (bestellbar) per un ulteriore impiego (Bestellung). Ciò che così è impie-gato ha una sua propria posizione (Stand). La indicheremo con il termine Bestand, ‘fon-do’. Il termine dice qui qualcosa di più e di più essenziale che la semplice nozione di«scorta provvista» (Vorrat). La parola ‘fondo’ prende qui il significato di un termine-chiave. Esso caratterizza niente meno che il modo in cui è presente (anwest) tutto ciòche ha rapporto al disvelamento pro-vocante. Ciò che sta (steht) nel senso del ‘fondo’(Bestand), non ci sta più di fronte come oggetto. 20

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20 M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, p. 12.

Heidegger si chiede chi compia il richiedere provocante mediante il quale ilreale è disvelato come fondo. Forse l’uomo? In realtà l’uomo non ha alcunpotere sul modo del disvelamento, ma anzi fa parte anche lui del fondo, e«in modo ancora più originario della natura» 21. Allora chi? Scrive Heideg-ger, dando risposta: “ora quell’appello pro-vocante che riunisce l’uomo nel-l’impiegare come «fondo» ciò che si disvela noi lo chiameremo il Ge-stell,l’imposizione” 22.

Il Gestell, che si può tradurre anche con ‘intelaiatura’, non è in realtànulla di tecnico, è il modo in cui il reale si disvela come fondo: non accadefuori dall’uomo, ma non per opera sua, è un Geschick, un destino.

3. IL CONCETTO DI TECNICA IN MARX

Mi sembra che Axelos nella sua interpretazione di Marx abbia preso spuntodalle poche righe che Heidegger gli dedica nella Lettera sull’umanesimo, mentresarebbe stato assai più interessante servirsi de La questione della tecnica e inparticolare la concettualizzazione della differenza tra produrre (poiesis) e pro-vocare (herausfordern). Ciò avrebbe imposto un’interrogazione sulla specificitàdella tecnica moderna che è del tutto assente dal testo di Axelos. Il provoca-re, il Gestell che fa della natura e dell’uomo un puro fondo e il Geschick, sonoconcetti che stabiliscono una differenza di epoca, producono una cesura ri-spetto al continuum della storia del lavoro alienato proposta da Axelos.

Ora, ritornando a Marx, possiamo provare a dare un corpo a questoGestell e a capire perché esso è un Geschick. Per far questo è necessario pren-dere in considerazione le opere cosiddette economiche di Marx, e in parti-colare quel Capitale che Axelos ha lasciato completamente da un canto. Hei-degger dice che la tecnica non accade fuori dall’uomo, ma non per operasua. Cos’è allora il Gestell? Proviamo a rispondere «il modo di produzionecapitalistico», che non accade fuori dall’uomo, appartiene cioè al mondoumano, ma non è creato dall’uomo (nel senso in cui un’antropologia inge-nua potrebbe considerarlo un predicato del soggetto uomo inteso comeGattungswesen). Vedremo perché. Prendiamo in considerazione intanto un al-tro aspetto della riflessione heideggeriana sulla tecnica: la sua destinalità.

Per far questo è necessario prendere in considerazione la definizionemarxiana di capitale. È nota persino a livello manualistico la formula attra-verso cui Marx individua il ciclo del capitale: D – M – D.

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21 Ivi, p. 13.22 Ivi, p. 14.

In una prima fase il denaro è trasformato in merce (D-M), mentre inuna seconda fase la merce è trasformata in denaro. La formula tuttavia nonè completa: se infatti non c’è distinzione qualitativa tra i due estremi (si trat-ta sempre di denaro), vi è invece una distinzione quantitativa. La formulacompleta è la seguente: D – M – D I (DI = D + ∆ D).

Il processo è in questo senso senza fine, poiché la necessità che si ha divalorizzare 100 è la stessa che si ha di valorizzare 110. Ora, il possessore didenaro è il capitalista in quanto veicolo consapevole di un tale movimento:

il valore d’uso, scrive Marx, non dev’essere mai considerato fine immediato del capita-lista. E neppure il singolo guadagno: ma soltanto il moto incessante del guadagnare.Questo impulso assoluto all’arricchimento, questa caccia appassionata al valore è co-mune al capitalista e al tesaurizzatore, ma il tesaurizzatore è soltanto il capitalista am-mattito, mentre invece il capitalista è il tesaurizzatore razionale. 23

Nel processo D – M – DI il valore valorizza se stesso. È nota la rispostamarxiana su come ciò sia possibile: il possessore di denaro trova sul merca-to una merce il cui valore d’uso è fonte di valore, la capacità di lavoro, la forzalavoro. Come scrive Marx,

per trasformare il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovare sul mercato dellemerci il lavoratore libero; libero nel duplice senso che disponga della propria forza lavora-tiva come propria merce, nella sua qualità di libera persona, e che, d’altra parte, non ab-bia da vendere altre merci, che sia privo ed esente, libero di tutte le cose necessarie perla realizzazione della sua forza lavoro. 24

La forza lavoro libera è il risultato di un processo storico, la cosiddetta ac-cumulazione originaria, che ha separato i lavoratori dai mezzi di produzio-ne. È la merce-forza lavoro che permette il processo di valorizzazione delcapitale: esso ha luogo per il gioco della differenza tra il valore della forzalavoro sul mercato, che equivale al tempo di lavoro necessario alla sua ripro-duzione, cioè al valore dei mezzi di sussistenza necessari giornalmente, e ilsuo valore d’uso. Da questa differenza nasce il plusvalore:

il valore giornaliero della forza-lavoro ammontava a tre scellini, perché in esso è oggettivatauna mezza giornata lavorativa, cioè perché i mezzi di sussistenza necessari giornalmentealla produzione della forza-lavoro costano una mezza giornata lavorativa. Ma il lavorotrapassato, latente nella forza-lavoro, e il lavoro vivente che può fornire la forza-lavo-ro, cioè i costi giornalieri di mantenimento della forza-lavoro e il dispendio giornalierodi questa sono due grandezze del tutto distinte. La prima determina il suo valore discambio, l’altra costituisce il suo valore d’uso. Che sia necessaria una mezza giornata la-vorativa per tenerlo in vita per ventiquattro ore, non impedisce affatto all’operaio di la-

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23 K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 186.24 Ivi, p. 201.

vorare per una giornata intera. Dunque il valore della forza-lavoro e la sua valorizzazionenel processo lavorativo sono due grandezze differenti. A questa differenza di valore mi-rava il capitalista quando comperava la forza-lavoro. 25

La specificità del processo di produzione capitalistico consiste precisamentenell’unità del processo lavorativo e del processo di valorizzazione.

Ma torniamo ora all’analisi heideggeriana della tecnica, in particolarealla distinzione da lui introdotta tra produzione e provocazione:

il disvelamento che governa la tecnica moderna […] non si dispiega in un pro-durrenel senso della poiesis. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-voca-zione (Herausfordern) la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possacome tale essere estratta (herausgefördert) e accumulata. Ma questo non vale anche perl’antico mulino a vento? No. Le sue ali girano sì spinte dal vento, e rimangono dipen-denti dal suo soffio. Ma il mulino a vento non ci mette a disposizione le energie dellecorrenti aeree perché le accumuliamo.

All’opposto, una determinata regione viene pro-vocata a fornire all’attivitàestrattiva carbone e minerali. La terra si disvela ora come bacino carbonifero, il suolocome riserva di minerali. In modo diverso appare il terreno che un tempo il contadinocoltivava, quando coltivare voleva ancora dire accudire e curare. L’opera del contadinonon pro-voca la terra del campo. Nel seminare il grano essa affida le sementi alle for-ze di crescita della natura e veglia sul loro sviluppo. Intanto, però, anche la coltivazio-ne dei campi è stata presa nel vortice di un diverso tipo di coltivazione (Bestellens) cherichiede (stellt) la natura. Essa la richiede nel senso della pro-vocazione. L’agricoltura èdiventata industria meccanizzata dell’alimentazione. 26

Cos’è cambiato? La terra è provocata perché ora è divenuta un elementodella relazione che costituisce il capitalismo. Ma che ruolo gioca la tecnicain questo contesto? Essa è il mezzo o la serie di mezzi che l’uomo frapponefra sé e l’oggetto. Si tratta però di pensare la tecnica in una prospettiva sto-rica. Ora le condizioni storiche del capitale sono la «separazione del lavorolibero dalle condizioni oggettive della sua realizzazione, dai mezzi di lavoroe dal materiale del lavoro […] prima di tutto il distacco del lavoratore dallaterra quale suo laboratorio naturale» 27. In alcune pagine dei Grundrisse, inti-tolate redazionalmente Forme che precedono la produzione capitalistica, Marx deli-nea la caratteristica fondamentale dei modi di produzioni che hanno prece-duto quello capitalistico:

ciò che qui propriamente conta è questo: in tutte queste forme in cui la proprietàfondiaria e l’agricoltura costituiscono la base dell’ordinamento economico, per cui ilfine economico è la produzione di valori d’uso, la riproduzione dell’individuo nei

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25 Ivi, p. 227.26 M. Heidegger, La questione della tecnica cit., p. 11.27 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, in K. Marx, F. Engels,

Opere, vol. XXIX, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 407.

rapporti determinati con la sua comunità, nei quali esso costituisce la base della co-munità stessa, – noi abbiamo: 1) l’appropriazione, non dovuta al lavoro ma presup-posta al lavoro stesso, della condizione naturale del lavoro, della terra sia come stru-mento originario del lavoro, sia come laboratorio, sia come serbatoio delle materieprime. L’individuo si riferisce alle condizioni oggettive del lavoro semplicementecome condizioni sue; si riferisce a esse come natura inorganica della sua soggettività,in cui questa realizza se stessa; la principale condizione oggettiva del lavoro non sipresenta essa stessa come prodotto del lavoro, ma preesiste come natura; da una partel’individuo vivente, dall’altra la terra come condizione oggettiva della sua riproduzio-ne; 2) ma questo rapporto con la terra come proprietà dell’individuo che lavora – chequindi sin da principio si presenta non come puro individuo che lavora, in questaastrazione, bensì come individuo che nella proprietà della terra ha un modo oggetti-vo di esistenza presupposto alla sua attività, e che non appare come un suo puro ri-sultato, ed è un presupposto della sua attività altrettanto come lo sono la sua pelle, isuoi organi sensori che certamente egli riproduce anche e sviluppa ecc. nel processodella vita, ma che però sono presupposti a questo processo di riproduzione stesso – esubito mediato dall’esistenza naturale, storicamente più o meno sviluppata e modifi-cata, dell’individuo come membro di una comunità, della sua esistenza naturale comemembro di una tribù, ecc. 28

Nelle forme che precedono la produzione capitalistica la tecnica è presentecome poiesis? Scrive Marx: «il rapporto con la terra come proprietà è sempremediato dall’occupazione, pacifica o violenta, della terra da parte della tribùo comunità» 29.

L’individuo non si presenta come lavoratore libero, le condizioni og-gettive del suo lavoro sono mediate dalla sua esistenza come membro dellacomunità. In quanto membro della comunità l’individuo possiede i mezzi diproduzione: terra e strumenti. Cosa ha a che fare questo con la tecnica mo-derna in quanto provocazione? Per comprendere la specificità della tecnicamoderna dovremo seguire Marx in un’altra distinzione, quella tra capitalecostante e capitale variabile. Nel processo lavorativo infatti l’operaio trasfe-risce ad un tempo nel prodotto: il valore dei mezzi di produzione e il valoredel suo lavoro.

Il capitale costante consiste nella materia prima che è la sostanza delprodotto (ed in esso si ritrova mutata di forma) e nel mezzo di lavoro checede il valore che perde nel processo lavorativo, in base al calcolo medio dellogoramento giornaliero.

Il capitale variabile consiste invece nella forza-lavoro.Questo significa che lo strumento tecnico non produce valore: ciò che

fa dell’uomo e della terra un fondo non è dunque lo strumento tecnico,bensì il rapporto di produzione capitalistico.

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28 Ivi, pp. 417-418.29 Ivi, p. 418.

Ma, qual è allora il posto della tecnica nel capitalismo? Si è detto chesecondo Marx è la differenza tra valore d’uso e valore di scambio della forzalavoro a produrre il plusvalore. Ora, la grandezza del plusvalore dipende dal-l’estensione del tempo di lavoro oltre il tempo di lavoro necessario, che èquello necessario a riprodurre il valore dei propri mezzi di sussistenza: Marxchiama questa estensione plusvalore assoluto. Ma essendo data in determina-ti periodi storici la lunghezza della giornata lavorativa, almeno per determi-nate categorie in base a precisi rapporti di forza politici, ci si chiede come sipossa aumentare il tempo di pluslavoro. Ciò è possibile aumentando la forzaproduttiva del lavoro. Si tratta cioè di produrre in minor tempo la stessamassa di mezzi di sussistenza, dando luogo a una rivoluzione nelle condizio-ni di lavoro: una minor quantità di lavoro produce una maggior quantità divalore d’uso. Ecco dunque come si incardina la tecnica nel sistema: dal pun-to di vista del capitalista complessivo abbassa il costo dei mezzi di sussisten-za, riducendo il tempo di lavoro necessario in una giornata lavorativa data;dal punto di vista del singolo capitalista l’innovazione tecnica permette diprodurre in minor tempo la stessa quantità di merce: questo permette al ca-pitalista di vendere una merce a un prezzo più basso dei concorrenti.

Da tutto ciò Marx conclude:

dunque, mentre nella produzione del plusvalore nella figura che abbiamo fin qui con-siderato, si supponeva come dato il modo di produzione, per la produzione di plusva-lore mediante trasformazione di lavoro necessario in pluslavoro, non basta affatto cheil capitale si impossessi del processo lavorativo nella sua figura storicamente traman-data ossia presente e poi non faccia altro che prolungarne la durata. Il capitale nonpuò fare a meno di mettere sotto sopra le condizioni tecniche e sociali del processo la-vorativo, cioè lo stesso modo di produzione, per aumentare la forza produttiva del la-voro mediante l’aumento della forza produttiva del lavoro, e per abbreviare così laparte della giornata lavorativa necessaria alla riproduzione di tale valore. 30

Tutto questo è detto per restare in termini assolutamente generali, senzascendere in ulteriori particolari, che renderebbero ulteriormente complessoil quadro. Si potrebbe forse aggiungere a queste analisi di carattere econo-mico solo due altri elementi di carattere strategico che, seppur non diretta-mente presenti in Marx, possono essere assunti in una prospettiva di pro-lungamento del suo pensiero: le innovazioni tecniche come mezzo per im-padronirsi della terra e delle materie prime attraverso la guerra; lo sviluppotecnico come risposta alla potenzialità conflittuale della classe operaia 31.

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30 K. Marx, Il Capitale cit., p. 354.31 Quest’ultimo elemento è stato sottolineato con forza dall’operaismo italiano e può

senz’altro essere valorizzato, al di fuori però di una dialettica degli stadi che troppo concede,in quella tradizione di pensiero, ad una filosofia della storia di stampo idealistico.

4. LA MATERIALITÀ DELLA TECNICA: CASO E NECESSITÀ

Veniamo ora alle conclusioni, che aprono su una prospettiva filosofica che de-finirei ad un tempo come materialismo aleatorio e ontologia della relazione 32.

Riprendiamo Heidegger. La tecnica è un Geschick, un destino, non nelsenso religioso della parola per cui il tedesco usa il termine Schicksal. In chesenso allora? In senso heideggeriano si tratta di un modo del disvelamento,di un’epoca della storia dell’essere. Se si cerca di andare oltre l’epocalizza-zione, non si trova altro che il fatto di questa epocalizzazione, la sua desti-nalità appunto. In senso marxiano è possibile andare oltre: qui la tecnica èun elemento fondamentale nel processo di autovalorizzazione del capitale,in particolare nella sussunzione reale, cioè quando la relazione capitalisticanon si limita a funzionare con gli strumenti di lavoro che le preesistevano,ma trasforma l’intero processo produttivo. È con la rivoluzione industriale,con l’introduzione della macchina, che si può comprendere in senso mar-xiano la pesante materialità del destino della tecnica.

Vediamo brevemente il concetto di macchina delineato da Marx e inparticolare l’analisi della differenza strumento/macchina:

ogni macchinario sviluppato consiste di tre parti sostanzialmente differenti, macchinamotrice, meccanismo di trasmissione, e infine macchina utensile o macchina operatri-ce. La macchina motrice opera come forza motrice di tutto il meccanismo. Essa o ge-nera la propria forza motrice, come la macchina a vapore, la macchina ad aria calda, lamacchina elettromagnetica, ecc., oppure riceve l’impulso da una forza naturale esterna,già esistente, come la ruota ad acqua dalla caduta d’acqua, l’ala di un mulino a ventodal vento, ecc. Il meccanismo di trasmissione composto di volanti, alberi di trasmissio-ne, ruote dentate, pulegge, assi, corde, cinghie, congegni apparecchi di ogni genere, re-gola il movimento, ne cambia, quand’è necessario, la forma, p. es., da perpendicolare incircolare, lo distribuisce e lo trasmette alle macchine utensili. Queste due parti del mec-canismo esistono solo allo scopo di comunicare alla macchina utensile il moto per ilquale essa afferra e trasforma come richiesto l’oggetto del lavoro. Da questa parte delmacchinario, dalla macchina utensile, prende le mosse la rivoluzione industriale del se-colo XVIII; ed essa costituisce ancora sempre di nuovo il punto di partenza tutte levolte che una industria artigianale o manifatturiera trapassa in industria meccanica.

Se ora consideriamo più da vicino la macchina utensile o macchina operatricevera e propria, vediamo ripresentarsi, tutto sommato, se pure spesso in forma assaimodificata, gli apparecchi e gli strumenti coi quali lavorano l’artigiano e l’operaio ma-nifatturiero; ora però non più come strumenti dell’uomo, ma come strumenti d’unmeccanismo o strumenti meccanici. […] Il numero degli strumenti coi quali la stessamacchina utensile lavora simultaneamente è emancipata dal limite organico che re-stringe l’uso dello strumento artigiano da parte dell’operaio. 33

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32 Su questo mi permetto di rinviare ai miei Incursioni spinoziste, Milano, Mimesis, 2002 eIl tempo della moltitudine, Roma, Manifestolibri, 2005.

33 K. Marx, Il capitale cit., pp. 415-416.

I due aspetti più rilevanti che emergono dall’analisi sono: il fatto che l’ope-raio diviene in questo quadro pura forza motrice e non abilità specifica;l’importanza della macchina a vapore, che generando da sé la forza motrice,è urbana e non rurale e in questo senso può essere considerata l’agente ge-nerale della grande industria.

Ora, ci si può chiedere quale sia l’effetto materialmente destinale che lamacchina produce sul processo lavorativo. Marx crede di poter sottolineareuna pluralità di aspetti: in quanto non richiede forza muscolare, permettel’assunzione di donne e bambini con una conseguente riduzione generaledel salario, mentre in precedenza nel salario dell’uomo era compreso il valo-re dei mezzi di sussistenza dell’intera famiglia; in quanto la macchina è unperpetuum mobile spinge oltre ogni limite la giornata lavorativa, il cui unico li-mite è quello dei suoi aiutanti umani; inoltre poiché la macchina presentatre tipi di usura 34, il capitalista cerca di riprodurre al più presto il valorecomplessivo della macchina; di fronte poi alla limitazione legislativa dellagiornata lavorativa, ha luogo una intensificazione del lavoro su due versanti:aumento della velocità della macchina; aumento del numero di macchine dacontrollare.

Questo è dunque il destino della tecnica. Per comprenderlo è necessa-rio però dire che esso è un elemento necessario del processo di autovaloriz-zazione del capitale. Heidegger scrive: «quell’appello pro-vocante che riuni-sce l’uomo nell’impiegare come ‘fondo’ ciò che si disvela noi lo chiamere-mo il Ge-stell, l’imposizione» 35.

Il Gestell, l’imposizione, vale a dire la struttura, nella nostra prospettivaè il modo di produzione capitalistico.

Tuttavia si può forse dire di più. Geschick significa anche sorte. Io loforzerei nel senso di lancio di dadi. Nella Corrente sotterranea del materialismodell’incontro Althusser parla di due concezioni del modo di produzione: te-leologica e aleatoria. Vediamo come viene descritta la genesi del modo diproduzione capitalistico:

in innumerevoli passaggi Marx, e sicuramente non è un caso, ci spiega che il modo diproduzione capitalistico è nato dall’‘incontro’ tra il ‘proprietario di denaro’ e il proleta-rio sprovvisto di tutto, salvo che della propria forza-lavoro. ‘Capita’ che questo incon-tro abbia avuto luogo, e abbia ‘fatto presa’, il che vuol dire che non si è dissolto nonappena avvenuto, ma è durato ed è diventato un fatto compiuto, il fatto compiuto diquesto incontro, che provoca dei rapporti stabili e una necessità il cui studio forniscedelle ‘leggi’, beninteso tendenziali: le leggi dello sviluppo del modo di produzione ca-

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34 Proporzionale con l’uso; inversamente proporzionale, con l’inoperosità; e infine mo-rale: cioè perde valore se vengono prodotte le stesse macchine più a buon mercato oppuremigliori allo stesso costo.

35 M. Heidegger, La questione della tecnica cit., p. 11.

pitalistico (legge del valore, legge dello scambio, legge delle crisi cicliche, legge dellacrisi e della scomposizione del modo di produzione capitalistico, legge del passaggio –transizione – al modo di produzione socialista sotto le leggi della lotta delle classi,ecc.). Quello che è importante in questa concezione non è tanto il dispiegarsi di leggi,dunque di un’essenza, quanto il carattere aleatorio della ‘presa’ di questo incontro che dà luogoal fatto compiuto, di cui si possono enunciare delle leggi.

Detto in altri termini: il tutto che risulta dalla ‘presa’ dell’‘incontro’ non è ante-riore alla ‘presa’ degli elementi ma posteriore e perciò avrebbe potuto non ‘far presa’e, a maggior ragione, ‘l’incontro avrebbe potuto non aver luogo’. Tutto questo è det-to, certo tra le righe, ma è detto nella formula di Marx, quando ci parla tanto spessodi ‘incontro’ (das Vorgefundene) tra il proprietario di denaro e la nuda forza-lavoro. Sipuò anche andare più lontano e supporre che l’incontro abbia avuto luogo nella storia nu-merose volte prima della sua presa Occidentale ma, in mancanza di un elemento o della di-sposizione degli elementi, allora non abbia ‘fatto presa’. Ne sono testimoni gli Statiitaliani della valle del Po nel XIII e XIV secolo, dove c’era proprietario di denaro,tecnologia ed energia (le macchine mosse dalla forza idraulica del fiume) e manodo-pera (artigiani disoccupati) ma dove, tuttavia, il fenomeno non ha ‘fatto presa’. Vimancava senza dubbio (forse, è un’ipotesi) quel che Machiavelli cercava disperata-mente nella forma di un appello ad uno Stato nazionale, cioè un mercato interno capacedi assorbire la possibile produzione.

Che si rifletta tanto o poco sui requisiti di questa concezione, ci si accorge cheessa pone una relazione molto particolare tra la struttura e gli elementi che essa ha ilcompito di unire. Che cos’è infatti un modo di produzione? Abbiamo detto, conMarx: una ‘combinazione’ particolare tra elementi. Questi elementi sono l’accumula-zione finanziaria (quella del «proprietario di denaro»), l’accumulazione dei mezzi tecni-ci di produzione (utensili, macchine, esperienza di produzione negli operai), l’accumu-lazione della materia di produzione (la natura) e l’accumulazione dei produttori (i pro-letari sprovvisti di ogni mezzo di produzione). Questi elementi non esistono nella sto-ria affinché esistesse un modo di produzione, essi vi esistono allo stato ‘fluttuante’ primadella loro ‘accumulazione’ e ‘combinazione’, ciascuno essendo il prodotto della suapropria storia, nessuno essendo il prodotto teleologico degli altri o della loro storia. 36

Althusser sottolinea qui come non sia la semplice accumulazione degli ele-menti, in termini leibniziani dei requisita, a produrre un determinato feno-meno, ma il fatto che l’incontro degli elementi abbia ‘fatto presa’: gli ele-menti non sono prodotti perché l’incontro abbia luogo, ciascuno di essi hauna propria storia, non finalizzata ab origine all’esito dell’incontro. Per questopossono essere tutti presenti e l’incontro non aver comunque luogo.

Sembra esservi un colpo di dadi, non intendendo qui il caso come in-frazione della necessità, ma come intreccio complesso di differenti livelli dinecessità, non solo nella formazione del modo di produzione capitalistico,ma anche nello sviluppo tecnologico stesso.

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36 L. Althusser, Sul materialismo aleatorio, Milano, Unicopli, 2000, pp. 106-108.

5. UNA STORIA CRITICA DELLA TECNOLOGIA?

All’inizio del capitolo 13 su «Macchine e grande industria» c’è un passo pernoi estremamente interessante:

una storia critica della tecnologia dimostrerebbe, in genere, quanto piccola sia la partedi un singolo individuo in una invenzione qualsiasi del secolo XVIII. Finora tale ope-ra non esiste. Darwin ha diretto l’interesse sulla storia della tecnologia naturale, cioèsulla formazione degli organi vegetali e animali come strumenti di produzione dellavita delle piante e degli animali. Non merita eguale attenzione la storia della formazio-ne degli organi produttivi dell’uomo sociale, base materiale di ogni organizzazione so-ciale particolare? E non sarebbe più facile da fare, poiché come dice Vico, la storiadell’umanità si distingue dalla storia naturale per il fatto che noi abbiamo fatto l’una enon abbiamo fatto l’altra? La tecnologia svela il comportamento attivo dell’uomo ver-so la natura, l’immediato processo di produzione della sua vita, e con l’immediato pro-cesso dei suo rapporti sociali vitali e delle idee dell’intelletto, che ne scaturiscono. 37

Gli organi vegetali e animali sono intesi come strumenti di produzione del-la vita, mentre la tecnica sarebbe intesa come l’insieme degli organi produt-tivi dell’uomo sociale 38. Certamente è da sottolineare l’antiindividualismodel passaggio marxiano, la critica della rappresentazione ideologica dell’indi-viduo geniale. E tuttavia è possibile dare una lettura umanistica e teleologicadi questo passo. Il riferimento a Vico è senz’altro una prima indicazione inquesto senso e, al contrario di quello che si potrebbe pensare, anche il rife-rimento a Darwin. Come è ben noto alla lettura dell’Origine delle specie Marxscrive a Engels: «malgrado la mancanza di finezza tutta inglese nello svilup-po, è in questo libro che si trova il fondamento storico naturale [die naturhi-storische Grundlage] della nostra concezione» 39. Questo giudizio di Marx èstato canonizzato dalla celebre frase pronunciata da Engels sulla tomba diMarx: «Come Darwin ha scoperto la legge dell’evoluzione della natura orga-nica, così Marx ha scoperto la legge d’evoluzione della storia umana». Percomprendere questo giudizio è tuttavia necessario cercare di capire in chemodo Marx ed Engels abbiano letto Darwin. L’aleatorio che regna nellateoria darwiniana, la completa assenza di un’idea di progresso e di un perfe-zionamento graduale delle forme viventi è del tutto denegata tanto da Marxquanto da Engels. In una lettera del 1861 a Lassalle, è vero, Marx affermache Darwin «porta un colpo mortale alla teleologia nella scienza della natu-

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37 K. Marx, Il Capitale cit., p. 414.38 Su questo tema e su altri passi marxiani in cui è presente questo parallelo cfr. F. Vi-

doni, Evoluzione delle specie e evoluzione tecnologica, in Id., Natura e storia. Marx ed Engels interpreti deldarwinismo, Bari, Dedalo, 1985, pp. 43-48.

39 Marx a Engels, 19 Dez.1860, in Marx Engels Werke, Bd. 30, Berlin, Dietz Verlag,1982, p. 131.

ra», ma subito dopo aggiunge che «per la prima volta il senso razionale [derrationelle Sinn] della teleologia vi è esposta empiricamente» 40: L’origine dellespecie sarebbe nulla più che la conferma empirica della sintassi della teleolo-gica hegeliana, così come la legge d’evoluzione dei modi di produzione sa-rebbe nulla più che la conferma empirica della filosofia della storia hegelia-na o il celebre capovolgimento, se si preferisce.

Proviamo ora con un ‘colpo di forza’ di tipo teoretico, estrapolando ilpasso di Marx dal suo contesto e dal significato che del tutto verosimilmen-te l’autore ha voluto attribuirgli, a pensare cosa sarebbe una storia criticadella tecnologia in senso autenticamente darwiniano. Se prendiamo L’originedelle specie in senso teoretico, ne possiamo trarre tre elementi fondamentali.

Un primo elemento teorico è l’erosione del concetto di forma prodotta dal-l’osservazione della variazione delle specie allo stato di natura. Darwin notacome «nessuna [definizione del termine specie] ha soddisfatto tutti i natura-listi» 41; allo stesso modo «il termine ‘varietà’ è quasi altrettanto difficile adefinirsi» 42; le mostruosità infine si avvicinino gradatamente alle varietà ecostituiscano delle notevoli deviazioni non utili alla specie. Specie, varietà,mostruosità sono dunque gradi nella differenziazione degli individui nonseparati da coordinate ontologiche forti: ciò porta a incertezza e arbitrarietànelle classificazioni dei naturalisti. Sostanzialmente, secondo Darwin, si puòcostruire una sorta di scala progressiva che va dalle differenze individuali,piccole differenze che compaiono nei discendenti da stessi genitori, il primopasso verso le varietà, a varietà più differenti e persistenti, cioè gradini versovarietà più caratterizzate e stabili, fino alle sottospecie e infine alle specie:

il passaggio da un grado di differenza a un altro può in molti casi considerarsi dovutosoltanto alla natura e alle differenti condizioni fisiche a cui è stato lungamente esposto;ma rispetto ai caratteri più importanti e di adattamento, il passaggio da uno stadio di dif-ferenza ad un altro, può essere attribuito con certezza all’azione cumulativa della selezio-ne naturale […]. Una varietà ben distinta può dunque chiamarsi una specie nascente. 43

Un secondo elemento teorico risiede nella messa a fuoco della lotta per l’esistenzacome meccanismo selettivo delle forme. Darwin si domanda «come si [sia-no] perfezionati tutti i meravigliosi adattamenti di una parte dell’organismoa un’altra, e alle condizioni di vita, e i rapporti di un organismo vivente a unaltro» 44 e «in che modo quelle varietà che ho chiamato specie incipienti si

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40 Marx a Lassalle, 1861 Jan. 1861, ivi, p. 578.41 Ch. Darwin, L’origine delle specie, Torino, Bollati Boringhieri, 1967, p. 113.42 Ibidem.43 Ivi, p. 123.44 Ivi, p. 130.

trasformino alla fine in buone specie, distinte l’una dall’altra, le quali evi-dentemente nella maggior parte dei casi differiscono fra di loro molto piùdelle varietà» 45. La risposta ben nota è che le variazioni utili vengono con-servate nella lotta per l’esistenza: in analogia con la selezione domestica, cuiè dedicato il primo capitolo dell’Origine delle specie, Darwin chiama selezionenaturale questo complesso tessuto di rapporti. Questa tuttavia non si pre-senta mai come istanza selettiva trascendente, dunque finalistica; le variazio-ni utili vengono infatti conservate per effetto di «rapporti infinitamentecomplessi [infinitely complex relations] con gli altri organismi e con le condizio-ni fisiche di vita» 46. L’espressione ‘lotta per l’esistenza’ deve dunque essereintesa in senso lato e metaforico: il concetto che la sottende è la reciprocadipendenza di tutti gli individui, è una lotta per l’esistenza fra individui dellastessa specie, di specie diverse, e infine di tutti gli individui contro le condi-zioni di vita. In altre parole, la lotta per l’esistenza non agisce mai comeun’istanza semplice, ma come una rete di rapporti infinitamente complessatra piante, animali e condizioni climatiche di un determinato luogo geogra-fico (giustamente Canguilhem ha definito l’ambiente darwiniano ‘bio-geo-grafico’). Prendiamo un esempio di Darwin:

nello Staffordshire, in una fattoria di proprietà dei miei parenti, ove ho avuto ampiepossibilità di fare ricerche, si stendeva una brughiera vasta e spoglia che non era maistata toccata dalla mano dell’uomo, mentre invece centinaia di acri di terreno identicoerano stati recinti venticinque anni prima, e vi erano stati piantati degli abeti di Sco-zia. Il cambiamento subito dalla flora indigena nella parte piantata ad abeti era straor-dinario, assai più di quanto non si osservi passando da un tipo di terreno ad un altrocompletamente diverso: non solo era del tutto cambiato il numero proporzionale del-le piante di brughiera, ma nella piantagione prosperavano dodici specie di piante sen-za contare le graminacee e carici che non si trovavano sul terreno incolto. Ancoramaggiore doveva essere stato l’effetto sugli insetti perché nella piantagione erano co-munissime sei specie di uccelli insettivori che non esistevano nella brughiera, dove vi-vevano non più di due o tre altre specie di uccelli insettivori. Ciò dimostra quale ef-fetto abbia avuto l’introduzione di una sola specie di alberi, senza aver fatto altro cherecingere la landa, per impedire l’ingresso del bestiame. Quali effetti determinanti ab-bia la recinzione l’ho potuto constatare presso Farnham, nel Surrey, dove si stendonovaste lande, e solo radi ciuffi di annosi abeti di Scozia sorgono sulle lontane cime del-le colline. Durante gli ultimi dieci anni, essendo stati recinti vasti tratti di terreno, isemi degli abeti si sono diffusi naturalmente e gli alberi sono diventati così fitti chenon tutti possono vivere. Dopoché mi fui accertato che i giovani abeti non erano sta-ti né seminati né piantati, rimasi talmente stupito che mi recai in parecchi punti don-de il mio occhio poteva spaziare su centinaia di acri di brughiera non recinta, e nonpotei vedere un solo abete di Scozia, a eccezione di quei rari e vecchi ceppi che sor-gevano sulle colline. Ma, osservando attentamente il suolo della landa libera, scoprii

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45 Ivi, p. 130.46 Ivi, p. 131.

una moltitudine di pianticelle e di alberelli continuamente brucati dalle mandrie. Nelbreve spazio di un metro quadrato, distante qualche centinaio di metri da un gruppodi vecchi ceppi, contai trentadue di queste pianticelle: una di esse, nella quale notaiventisei anelli di sviluppo, aveva tentato per anni di elevarsi al di sopra della brughie-ra senza riuscirvi. Non fa dunque meraviglia che non appena recinto, quel terreno sifosse rivestito di abeti giovani e rigogliosi. E la brughiera era tuttavia talmente vasta ebrulla che nessuno avrebbe mai immaginato che il bestiame potesse così di frequentecercarvi e trovarvi nutrimento.

Vediamo dunque come in questo caso il bestiame determini in modo assolutol’esistenza degli abeti di Scozia, ma in altre parti del mondo l’esistenza del bestiame è asua volta determinata dagli insetti. Il Paraguay ci offre l’esempio più curioso. In questopaese, infatti, né bovini né equini né cani sono ritornati allo stato selvaggio, quantun-que essi lo siano più a nord e più a sud. Azara e Rengger hanno dimostrato che la cau-sa del fenomeno è una certa mosca, comunissima nel Paraguay, che depone le uovanell’ombelico dei piccoli di questi animali, subito dopo la loro nascita. L’aumento ditali mosche, d’altronde assai numerose, deve essere abitualmente ostacolato, in qual-che modo probabilmente da altri insetti parassiti. Ne consegue che se nel Paraguaycerti uccelli insettivori dovessero diminuire, gli insetti parassiti nemici delle moscheprobabilmente aumenterebbero e, di conseguenza, anche il numero di queste ultimediminuirebbe ed equini e bovini potrebbero allora ritornare allo stato selvaggio, cosache modificherebbe di certo e in misura non indifferente la vegetazione, come ho in-fatti potuto constatare in molte parti dell’America meridionale. Ciò avrebbe a sua vol-ta una grande influenza sulla vita degli insetti, e quindi, come abbiamo visto nel casodello Staffordshire, su quella degli uccelli insettivori e così di seguito in cerchi di com-plessità sempre crescente [ever-increasing circles of complexity]. 47

Darwin aggiunge che i rapporti non sono però sempre così semplici, «la lot-ta entro la lotta è un fenomeno ricorrente con esito variabile» 48. Gli esserinaturali sono «collegati da una rete di rapporti estremamente complessi [aweb of complex relations]» 49 e il numero medio degli individui di una specie èprodotto da «molte cause che agiscono in differenti periodi della vita e nellediverse stagioni o nel corso degli anni». La selezione dunque non è in alcunmodo una scelta cosciente della natura, anzi la natura non vi appare propriocome totalità, ma solo come rete di rapporti complessi, né produce le varia-zioni. Essa agisce solo in quanto trama di rapporti complessi sulle variazio-ni individuali:

si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giornoper giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che ècattivo, conservando e sommando ciò che è buono; silenziosa e impercettibile essa la-vora quando e ovunque se ne offra l’opportunità per perfezionare ogni essere viventein relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita. 50

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47 Ivi, pp. 139-140.48 Ivi, p. 140.49 Ivi, p. 141.50 Ivi, p. 150.

Un terzo elemento teorico fondamentale risiede nella concezione darwinianadell’ordine e del tempo. L’ordine non è altro che il temporaneo bilanciarsidelle forze in questa trama di rapporti complessi, non già legge di naturatrascendente o immanente sotto la cui tutela l’individuo agisce, ma tramacomplessa di bilanciamenti di cui l’individuo è parte e che può venir menocon il variare di uno qualsiasi dei fattori che entrano a costituire questastruttura complessa:

nel corso del tempo le forze finiscono col bilanciarsi così perfettamente che il voltodella natura si mantiene inalterato per lunghi periodi, benché sia indubitabile che lacausa più insignificante potrebbe assicurare la vittoria di un essere organizzato su diun altro. La nostra ignoranza, però, è così profonda, e così grande è la nostra presun-zione che ci meravigliamo quando sentiamo parlare della estinzione di una specie e,non ravvisandone le cause, pensiamo a cataclismi distruttori del mondo e inventiamoleggi sulla durata delle forme viventi. 51

Il tempo poi non ha alcuna influenza nella selezione naturale e non si devecredere che tutte «le forme di vita [debbano] subire modificazioni per qual-che legge di natura» 52:

la durata del tempo è importante […] solo in quanto offre maggiori possibilità allacomparsa di variazioni vantaggiose, e alla loro selezione, accumulazione e fissazione.Contribuisce inoltre ad aumentare l’azione diretta delle condizioni di vita, in relazionealla costituzione di ogni organismo. 53

Ordine e tempo non possono essere dunque articolati in una sintassi teori-ca che faccia della teoria della selezione naturale, della teoria della relazionecomplessa degli individui naturali, una sorta di grande filosofia della naturae della storia all’insegna dell’evoluzione teleologica delle forme, una sorta di«hegelismo dei poveri» 54, secondo la felice espressione di Althusser in È fa-cile essere marxisti in filosofia?

Se dunque interpretiamo in questo senso la teoria darwiniana, divienepossibile leggere il passo marxiano sulla storia critica della tecnologia inmodo differente: non si darebbe cioè uno sviluppo lineare e progressivo dicui le varie scoperte tecnico-scientifiche sarebbero le inevitabili tappe, nonpiù invenzioni individuali, ma espressioni di un soggetto sociale, ma si da-rebbero delle tecniche, a questo punto al plurale, come il risultato sempre

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51 Ivi, p. 141.52 Ivi, p. 169.53 Ibidem.54 L. Althusser, Soutenance d’Amiens, in Id., Freud e Lacan, Roma, Editori Riuniti, 1981,

p. 148.

necessario e sempre contingente del gioco relazionale della selezione socio-naturale. Come corollario, una tale lettura costituirebbe un potente antidotocontro tutte le tentazioni di lettura umanistica, e al fondo teleologica, delcelebre passo dei Grundrisse sul General intellect che tanta importanza ha avu-to nella storia dell’operaismo italiano.

6. ESSENZA UMANA ED ESSENZA DELLA TECNICA

Heidegger afferma che la tecnica è un Gestell, un’intelaiatura. Leggiamo ilpasso centrale:

Ge-stell, im-posizione, indica la riunione (das Versammelnde) di quel ri-chiedere (Stellen)che richiede, cioè pro-voca, l’uomo a disvelare il reale, nel modo dell’impiego come‘fondo’. Im-posizione si chiama il modo di disvelamento che vige nell’essenza dellatecnica moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico. All’ambito tecnico ap-partiene invece tutto ciò che conosciamo sotto il nome di intelaiature, pistoni, arma-ture, e che sono parti costitutive di ciò che si chiama montaggio. Questo, tuttavia, in-sieme con le menzionate parti costitutive, rientra nell’ambito del lavoro tecnico, ilquale risponde sempre soltanto alla pro-vocazione dell’im-posizione, ma non la costi-tuisce né la produce. 55

L’essenza della tecnica non è tecnica. Con Marx potremmo dare una rispo-sta a questa enigmatica affermazione heideggeriana. Heidegger si chiede chicompia il disvelamento, quel richiedere provocante, della tecnica moderna.L’uomo? Ma l’uomo non ha potere sul modo della disvelatezza. Che signifi-ca? Traducendo in termini marxiani, significa che, una volta che gli elemen-ti hanno fatto presa, la struttura fa degli elementi stessi dei Träger dei rap-porti di produzione. Gli uomini non possono decidere se stare o non staredentro determinate relazioni. Althusser fu criticato per aver affermato, sullascorta di Marx, che gli individui sono dei Träger. Io radicalizzerei questa po-sizione: non esistono essenze umane incolori e astratte che poste dentro re-lazioni capitalistiche prendono i colori del mondo, ma, più radicalmente, lerelazioni costituiscono degli intrecci di umanità. Non esiste altra umanitàche in questi intrecci e le passioni che muovono i singoli individui non sonoaltro che la complessa trama di questi intrecci. Per riprendere il giovaneMarx che Axelos ama, in particolare la VI tesi su Feuerbach: «Feuerbach ri-solve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qual-

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55 M. Heidegger, La questione della tecnica cit., p. 15.

cosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtàessa è l’insieme dei rapporti sociali» 56.

L’essenza umana è das ensemble der gesellschaftlicher Verhältnisse. Plurale,storica, aleatoria e relazionale al tempo stesso; e così anche la tecnica 57.

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56 [Marx über Feuerbach], in K. Marx, F. Engels Gesamtausgabe, erste Abteilung, Band 5,hrsg. von V. Adoratskij, Glashütten im Taunus, Verlag Detlev Auvermann, 1970, p. 534; tr. it.di M. Rossi, in F. Engels, Ludwig Feuerbach, Roma, Editori Riuniti, 1985 (I ed. 1950), p. 84.

57 Questa mia prospettiva interpretativa risente del dialogo con Fulvio Papi la cui posi-zione riguardo alla questione della tecnica si trova ora espressa in Tecnologie e mutazioni della sen-sibilità, in Id., Sull’ontologia. Fenomenologie et exempla, Milano, Mimesis, 2005, pp. 187-193.

Salvatore Natoli

TECNICA E RISCHIO 1

Il tema che oggi affronto riguarda il nesso tra tecnica e rischio. È noto a chistudia filosofia, ma non solo, che soprattutto con Heidegger è invalsa l’ideadi definire la nostra epoca come età della tecnica. Un’etichetta forse esplica-tiva, forse no. Per quanto attiene al rischio vorrei essere più moderato. Nonmi espongo a dire «età del rischio», ma in modo più sociologico, perché poila formula è anche dei sociologi, posso parlare di «società del rischio». Poiandremo a vedere, alla fine, se si può dire anche «età del rischio».

Propongo una prima considerazione: l’uomo è un animale artificiale,un ente artificiale per natura. Questo fa cadere subito l’opposizione artifi-cio/natura, su cui molte riflessioni sulla tecnica si fondano. L’uomo è unanimale artificiale, perché produce se stesso, attraverso la sua azione nel mon-do. E qui vado a trarre argomento da luoghi molto antichi. Anassagora di-ceva che l’uomo è intelligente perché ha le mani, in termini diversi l’uomo èintelligente perché è artificiale ed è artificiale perché è intelligente. L’uomo ècapace di techne, e in greco techne non vuol dire solo produzione di oggetti,di manufatti, ma anche ‘destrezza’, ‘abilità’ e in taluni casi ‘astuzia’, capacitàdi saper evitare una difficoltà o trovare anche un modo per dominare pro-fittando dell’ignoranza degli altri. La tecnica, dunque, è anche inganno. Nonsolo riguarda la produzione, ma anche l’azione. È interessante sottolineareche l’uomo è un animale artificiale, perché questo suppone la trasformabili-tà del mondo e ha per noi significato in quanto ci sono delle filosofie chesostengono che il mondo non è trasformabile.

Propongo ora una seconda considerazione circa il rapporto tra scienzae tecnica. Si tratta di togliere di mezzo subito, e direi anche in modo facile,l’alternativa fra scienza e tecnica, riprendendo la formula di Anassagora che

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1 Il testo è la trascrizione della conferenza tenuta il 20 maggio del 2004, presso l’Uni-versità degli studi di Milano, dal titolo Tecnica e rischio.

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Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

l’uomo è intelligente perché ha le mani. Non c’è stata mai una scienza chenon sia stata tecnica, non c’è mai stata nessuna rivoluzione scientifica chenon sia stata tecnologica e nessuna rivoluzione tecnologica che non sia statascientifica che non abbia variato i modelli di cognizione. Infatti è molto piùgiusto dire ‘storia della scienza e della tecnica’ nel senso che le due presta-zioni entrano l’una nell’altra. A questo punto se fra scienza e tecnica cadequalsiasi differenza, allora non si vede come ci sia il tentativo di salvare lascienza di esonerarla da responsabilità e di attribuire alla tecnica errori, col-pevolezze, come se le due cose potessero funzionare l’una senza l’altra.

Queste sono dunque le premesse per entrare nel merito dell’argomen-to. Ho detto che la ‘tecnica-trasformazione’, che è un dato dell’esperienzastorica, è un tratto costante dello sviluppo delle civiltà umane e quindi pre-suppone la trasformabilità del mondo.

Dal coltello di selce all’informatica, attraverso la tecnica insomma,l’uomo ha definito i modi e le forme della sua sopravvivenza. La tecnica èun modo di stare al mondo contraddistinto non tanto dall’adattamento disé all’ambiente, come capita in generale nel mondo animale, ma un adatta-mento dell’ambiente a sé. Non si vuol dire che l’animale non trasformil’ambiente, ma che nell’animale la trasformazione è guidata in funzione del-la sua sopravvivenza fisica, che è supportata storicamente, anzi biologica-mente molto più dalla natura, mentre l’uomo, e questo potrebbe esseretema di un discorso molto più antropologico che tecnologico, è un animaledebole. L’animale trasforma la natura tanto quanto basta per trovare il suohabitat, l’uomo aveva bisogno di un habitat molto più protetto perché l’uo-mo che nel processo evolutivo era diventato un animale debole dal punto divista della mera fisicità, della forza, aveva sviluppato una protesi dove laforza gli proveniva dalla capacità di sagomare il mondo rispetto al suo biso-gno. La dimensione fondamentale è che nell’uomo la tecnica si lega moltis-simo all’anticipazione della propria condizione. Quindi nell’animale prevalel’elemento forte di un’autoconservazione adattativa, mentre nell’uomo èsempre in atto un progetto più ampio rispetto alla sua sopravvivenza. Tuttoquesto ha prodotto una sempre e costante modulazione del mondo, attra-verso la tecnica e un adattamento del mondo a sé, fino alla grande civiltàoccidentale; se usiamo la formula di Karl Smith in termini politologici dicia-mo allora ‘emisfero occidentale’, dove ormai la tecnica è diventata ambien-te. La modificazione di fondo nell’arco dello sviluppo temporale è che latecnica prima era ritenuta strumento, oggi è divenuta ambiente. L’uomonon si serve più della tecnica per adattare la natura a sé, ma pensa la naturasecondo schemi tecnologici; il suo ambiente è diventato la tecnica. Quindinoi ci troviamo oggi in una società in cui la tecnica opera sulla tecnica. Senon è uno spazio totale lo spazio tecnologico è lo sfondo costante, il refe-

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rente della nostra condotta, delle nostre forme di vita, della nostra pratica.Cos’è allora la tecnica nel suo stadio finale? È questo il primo punto da ac-quisire, a partire da quelle premesse: la tecnica non è più strumento, ma èambiente. Le nostre operazioni sono tecniche sulla tecnica. L’altra modifi-cazione profonda è data appunto dal fatto che lo spazio della tecnica si con-figura sempre di più come spazio del rischio.

Per questo che ritengo generica, poco determinata, evocativa, la for-mula «età della tecnica», perché in base a questo ragionamento non c’èun’età del mondo che non abbia al suo interno il segno della tecnica. Ilproblema è vedere invece come l’artificiale si configuri nelle epoche delmondo. Se veniamo ora agli ultimi due secoli e consideriamo il vocabolarioimpiegato in riferimento alla tecnica ci accorgiamo che tra la fine del ’700 equasi per l’intero ’800, la parola «età della tecnica» aveva un altro nome:«età del progresso». La tecnica era associata al progresso, era una figuradell’emancipazione sia dal punto di vista cognitivo che dal punto di vistarealizzativo; pertanto non c’erano obiezioni alla tecnica nell’età del pro-gresso. Dagli illuministi a Comte e a Marx c’è una celebrazione della tecni-ca, e se si dà una ragione per cui Marx celebra il capitalismo è perché haprodotto macchine. Quindi se vogliamo rendere meno generico il concetto“età della tecnica”, dobbiamo considerare un tempo in cui possiamo chia-mare la tecnica “età del progresso”.

Da un certo momento in poi la tecnica si viene a configurare sempredi più nella forma del pericolo. A questo punto se dovessimo trovare un co-dice per identificare l’ambiente tecnologico, come spazio vissuto e interpre-tato da quelli che questo spazio vivono, dovremmo chiamare il nostro tem-po «la società del rischio». Oggi infatti la tecnica è associata sempre di piùrischio, sempre meno al progresso. Questo è importante per capire comel’età della tecnica sia una figura troppo generica per dare conto degli statidel mondo e della costituzione delle epoche.

Viene ora da chiedersi quando la tecnica abbia cominciato a essere vis-suta nella forma del rischio e abbia smesso di esserlo nella forma del pro-gresso. Prima di delineare questa curva devo fare una delucidazione inter-media. Torno alla distinzione tra scienza e tecnica. C’è stata una fase dellastoria, dall’età moderna in avanti, in cui la scienza era pensata come una tec-nica di conoscenza, era già pensata come tecnica, ma finalizzata alla cono-scenza. La scienza era una tecnica che serviva per capire secondo quali leggiè retto il mondo; questo ha una sua formulazione nell’illuminismo. Lascienza è un modo di procedere del pensiero e quindi una tecnica; in pro-posito non si dimentichi che Cartesio scrive un’opera intitolata Regulae ad di-rectionem ingenii. Il pensiero metodico produce dunque verità se ha regola: c’èuna tecnica prevista del pensare per avere accesso alla verità, ma il tema do-

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minante è avere accesso alla verità quindi la scienza deve essere strutturatacome tecnica del pensare al fine di perseguire la verità. In questo contesto lascienza è stata presentata come disinteressata, autonoma, perché l’oggettodella scienza era la verità, quindi un apparato metodico funzionale perché laconoscenza pervenisse a oggetti veri. La scienza è individuata come praticadi ‘rischiaramento’. Su questo terreno essa era una figura dell’emancipazio-ne, polemica rispetto a un tipo di pensiero che non aveva regole o le avevapoco precise o indeterminate. Quindi questa scienza non solo era polemica,ma poi è diventata anche imperiale nel senso che il modo vero di conoscereè quello scientifico, mentre gli altri sono residuali. La modernità si è forma-ta secondo questo schema: si passa dalla tecnica del conoscere, e quindi dal-la conoscenza come apparato tecnico orientato alla verità, alla scoperta diuna tecnica che è produttrice di realtà. Non è più la conoscenza che deveadeguare quel che è il mondo, ma la scienza che è arrivata a un livello di co-noscenza tale da produrre un mondo. Questo non vuol dire che nel Sette-cento non ci fosse tecnica o che i Romani non ne avessero nozione, anchein questi casi, infatti, si dà una produzione di mondo, ma il mondo prodot-to è molto più inconsistente del mondo conosciuto e il conoscere il mondoè il paradigma fondamentale per arrivare a produrlo. A partire dalla finedell’800 la produzione di realtà diventa illimitata e allora è nella esplosionedi produttività della scienza che la tecnica si presenta come invasiva. È veroche la scienza non è mai stata separata dalla tecnica, ma gli effetti di produ-zione di realtà erano molto bassi rispetto ai profili di cognitività. Oggi i pro-fili di cognitività hanno un impatto molto più diretto e immediato sugli ef-fetti di realtà. Quello che prima era un cumulo di progetti, a partire dalla se-conda metà dell’800 è diventato sempre di più un accumulo di realizzazioni.Uso ora una formula: si è passati dall’illuminismo come figura della mente, alla il-luminazione, nel senso proprio elettrico della società.

In questo dilagare della scienza gli effetti di verità sono diventati sem-pre più interessanti rispetto alla determinazione della verità per cui la scien-za oggi non si pone più problemi di verità se non nella forma di esecuzione.Un progetto è vero se è eseguibile; se non è eseguibile non è vero o non èinteressante, cioè la dimensione realizzativa della scienza ha ridotto le sueistanze di verità, quindi la scienza è diventata una performance ordinaria dellasocietà e in questa prospettiva la scienza si è disgregata nel tentativo di uni-ficare tutto il sapere. Visto che mi trovo in questa Università non posso noncitare quel celebre saggio di Paci Le scienze e il significato dell’uomo. L’efficaciaha prodotto un’istanza di verità in termini di innalzamento della prestazionenell’ambito ristretto di quel sapere. Quindi allo scienziato non interessa piùla conoscenza scientifica in generale, ma l’implementazione della performanceparticolare e quindi la performance del chimico deve implementare la chimica;

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poi ci sono delle interferenze, ma fondamentalmente noi siamo dinanzi aun progressivo implemento della realizzazione della tecnica, la costruzionedi mondo, questo mondo costruito è sempre più indifferenziato. Ogni pre-stazione è fortemente standardizzata all’interno, quindi gli standard sonoelevatissimi, ma completamente definalizzati all’esterno. All’interno dellascienza si è avuto il fenomeno di rinuncia alla ricerca della verità disinteres-sata, mentre un interesse sempre più elevato è dato dalla riuscita della pre-stazione. Gli scienziati appaiono curiosi nei confronti della filosofia, ma ve-dono una discrasia di fondo tra il punto di vista del filosofare e la loro pra-tica scientifica, che con difficoltà riescono a problematizzare. Da questopunto di vista neppure gli epistemologi ci riescono, perché l’epistemologia èun ‘fatto’ filosofico: gli scienziati non fanno certo epistemologia, quandoaffermano ‘così è, perché così è la prassi’. Non sono affatto interessati aifondamenti, perché ritengono di dover svolgere una funzione puramente‘tecnica’. In una situazione di questo genere l’efficacia operativa della scien-za si è venuta esplicando sempre di più nella tecnica come implementazionedegli effetti. È quello che Foucault definisce «gli effetti di verità in genera-le». Il criterio di verità diventa, dunque, sempre più l’efficacia rispetto al-l’ambito. In questa situazione in cui la scienza produce ambiente, come di-cevo prima, per cui si opera sulla scienza che lavora sulla scienza, ci trovia-mo in una situazione di pericolo, perché la moltiplicazione a dismisura deglieffetti pone nella situazione angosciante o comunque difficile di non potercalcolare tutte le loro conseguenze. La nostra società è a rischio e il rischio ècausato dalla tecnica. Viviamo in un mondo in cui c’è una modificazionedella dinamica del rischio, che non è più pensato nella forma di un imprevi-sto che può colpire dall’esterno, come può avvenire in generale per l’esplo-razione del mondo in cui la natura in generale può proporsi come fonte dirischio (si pensi qui al fenomeno del fulmine).

La dimensione aurorale della tecnica è pensata in una forma difensi-vo/aggressiva. Gli uomini aggrediscono per difendersi: si parla oggi di‘guerra preventiva’. È quindi nel contesto dei pericoli incombenti negli im-mediati dintorni che si strutturano le difese: se vivo in una savana cerco didifendermi dal leone, se vivo ai margini del fiume costruisco argini. In talelogica difensivo/aggressiva il rischio viene previsto da dove si immaginapossa venire. Allargandosi i confini del mondo il rischio, com’è naturale, siinnalza, anche se si rimane pur sempre in una dimensione in cui esso pro-viene dal mondo. L’atteggiamento razionale è allora quello di limitarlo nellavalutazione costo-benefici. Con questa implementazione multiforme dellatecnica ci troviamo in una situazione in cui non siamo in grado di calcolarei rischi, perché non ci vengono dall’esterno, in quanto è ormai la tecnica cheimmette rischio. Pertanto se un tempo ci si poteva assestare nello spazio

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prudente del rischio calcolato, oggi si è costretti ad assestarci sul calcolo deirischi. Questo sta a significare che oggi viviamo in una società in cui non ri-schiamo per difenderci da un pericolo, ma è piuttosto pericoloso non ri-schiare, perché significherebbe ‘essere in ritardo’. In una società difensivaera sufficiente ripararsi e ci si poteva così accontentare. Dal momento cheoggi il rischio è sì pericoloso, ma anche benefico, il costo-benefici non risul-ta bilanciato: quindi, se un tempo bastava difendersi dai pericoli, oggi è pe-ricoloso non rischiare. Una volta qualunque cosa facesse la scienza/tecnicaera premiata, perché in una situazione in cui i rischi derivanti dal mondoerano oltremodo elevati, a esempio nel caso di un’epidemia, in cui l’aggres-sività del mondo è molto alta, anche il modesto successo della salvezza dipoche persone, era gratificante. Oggi nonostante l’ampliamento dei succes-si si è scontenti della scienza, che risulta sempre in ritardo. Mentre un tem-po essa si inscriveva nella figura dell’emancipazione, e quindi qualsiasi sco-perta era progresso, oggi, per dirla con Gehlen, pur essendo stati esoneratida molti guai, abbiamo preso una tale consuetudine all’agio che il minimocontrattempo ci mette a disagio. Proprio in forza dei suoi stessi successi lascienza non ha abbassato le aspettative, ma le ha ampiamente innalzate. Noivogliamo sempre più scienza, ma al tempo stesso la temiamo perché nonpossiamo più calcolarne gli effetti. Ecco dunque la situazione di rischio nelvissuto di coloro che non fanno questo discorso filosofico e soprattutto vi-vono nella parzialità delle situazioni. Non dimentichiamo poi che non esistela scienza, ma si danno le scienze; quindi quando si dice ‘tecnica’ non si dicenulla, soprattutto per chi si mette su un piano puramente analitico descritti-vo, perché coi metafisici (che teorizzano ‘la scienza’ e ‘la tecnica’) si puònon essere d’accordo, ma allora bisogna smontare i principi, dimostrandoche il loro discorso non è coerente. La cosa più grave può essere, com’è na-turale, un pensiero mediocre, che non solo non ha dalla sua una metafisicagrande su cui discutere, ma manca anche di una analitica particolare, quindiè generico ed è ‘terrorista’. Mi spiego. Attraverso la tecnica si ingeneranopaure e anche questo è un business: si terrorizza con la tecnica, così poi io mipropongo con la mia scienza e…provo a curarti l’anima.

Immettiamo pertanto dei rischi che dobbiamo per forza di cose corre-re, perché se ciò non accadesse, vivremmo ‘in ritardo’, nell’arretratezza.Questo accade, perché il costo/benefici non si prospetta più in termini diemancipazione, ma di riduzione delle aspettative. Facciamo il caso dell’ener-gia. Quali le conseguenze, se non accetto il rischio? Non vado più in auto-mobile, e fatalmente il mio standard di vita cambia. La produzione indu-striale, a esempio, è uno dei fattori fondamentali collegati al rischio di tuttigli ecosistemi, ma possiamo forse evitarlo chiudendo il processo di produ-zione? Anche qui c’è una differenziazione interna, perché nella produzione

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industriale trovano il punto di convergenza diversi settori scientifici e il pro-cesso di produzione è differenziato al suo interno, per cui si devono pren-dere in considerazione segmenti in cui si immettono dei rischi senza saper-lo, perché non si ha presente il ciclo completo della prestazione. Se lo sichiede ai singoli operatori non si ottiene risposta soddisfacente, perchéognuno conosce bene lo sviluppo processuale del proprio segmento, maignora l’effetto finale della produzione. Nel caso, a esempio, di una grandeimpresa energetica dove il sistema produce un effetto complessivo, i singo-li, che pure hanno contribuito a provocarlo, non lo conoscono. L’economi-sta potrà rispondere in termini economici, il chimico in termini chimici,ignorando però sia l’uno che l’altro quale sia l’effetto generale del sistema.Siamo quindi alla presenza di fenomeni di definalizzazione. Non è affattovero che la scienza possa crescere illimitatamente: parlare di ‘onnipotenza’tecnologica significa fare dunque della litografia. La scienza non è onnipo-tente e inoltre non sa neppure calcolare i gradi della sua potenza.

In questo quadro viene da porsi un quesito. Solo la scienza può limita-re se stessa o vi è qualcosa d’altro che possa limitarla? Cercherò di dimo-strare il perché anche la seconda parte della domanda ha una sua possibilerisposta. Continuerei a rispondere affermativamente alla prima parte delladomanda. Probabilmente l’uomo con la scienza/tecnica non avrebbe maiinventato nulla, se non si fosse trovato di fronte a dei problemi. La scienzanasce infatti dall’aporia, con la variante che essa non è solo data, ma perchéa un certo punto del suo stadio evolutivo l’uomo diventa un essere aporeti-co il quale si pone problemi che non gli vengono più posti dalla natura, pro-prio per il fatto che egli ormai anticipa la stessa natura. Quindi l’uomo è ge-neratore di problemi, proprio in quanto tale è anche incentivatore di tecni-ca. Se dunque la tecnica non risolve problemi, ridimensiona se stessa ed en-tra così in una situazione critica; si interroga sui suoi criteri di verità, si chie-de poi se la strada che ha imboccato sia giusta piuttosto che sbagliata e si ri-formula in una critica immanente dal punto di vista cognitivo, in relazioneal provare e al riprovare. È quindi difficile che la pratica della tecnica assu-ma un atteggiamento di ‘superbia’, ponendosi in un ordine prospettico diverità; tale pratica, in quanto performance, non è né superba né umile, masemplicemente irresponsabile. Se si toglie infatti la dimensione della finalitàveritativa, allora è l’effettività della performance che la definisce. Facciamo quil’esempio della fisica teorica. All’inizio del secolo essa è associata a nomi,dagli anni cinquanta in avanti non esistono più nomi, ma i team e i gruppi.La scomparsa del nome pone in luce come tutte le performance crescono pergruppi separati, per team indipendenti. Quando non ha successo la scienzafa autocritica, ma quando ha successo essa sposta costantemente i limiti:questo non sta a significare che il limite venga eliminato, ma che è continua-

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mente ridefinito. D’altro canto la scienza è vincolata strutturalmente al limi-te, perché se si pervenisse a una condizione in cui non avesse più limiti,l’uomo smetterebbe di trasformare il mondo: diverrebbe un dio e, pertanto,non sarebbe più necessaria la scienza. La scienza, invece, tuttora c’è e conti-nua a prodursi: quanto più si riducono i limiti precedenti, tanto più si eleva-no le aspettative di successo e la situazione che viene a crearsi è quella diun’insoddisfazione costante, legata al pericolo sempre impellente, per cui sivorrebbe di più, ma non si sa dove si possa arrivare.

Si comincia così a formulare un dentro/fuori relativo alla scienza, ri-guardante un tempo inesistente. La scienza è messa in opera definalizzata diprestazioni o, per lo meno, finalizzata unicamente all’obiettivo della sua spe-rimentazione. Però poi i suoi effetti ricadono nella società. Un tempo la so-cietà si attendeva dalla scienza solo ‘salvezza’ e non aveva quindi la possibi-lità di costituirsi come spazio pubblico critico. Dal punto di vista cognitivol’unico modello critico di discussione era costituito proprio dalla scienza.Ricordiamo qui Dewey, il quale proponeva di parlare delle cose pubblichecosì come fanno gli scienziati, estendendo cioè il modello della scienza qua-le tecnica di discussione sociale in generale, quindi come paradigma cogniti-vo, ma anche comportamentale.

La scienza si trova nella difficoltà di calcolare gli effetti indesiderati dicui è causa, per cui la società che un tempo aveva un’aspettativa positiva neiconfronti della scienza, ora ha dubbi e timori. Nella dinamica del rischio, in-fatti, l’atteggiamento comune è di paura nei confronti della scienza, pur sen-za alcun atteggiamento ‘terroristico’ nel senso che dinanzi alle grandi sco-perte si tiene sempre in debito conto anche una percentuale di pericolo, difronte al quale si hanno molteplici reazioni. Ne indico due, quelle a mio giu-dizio più significative. Un tipo di reazione è arcaica, luddistica: se è vero chela scienza è un pericolo, allora distruggiamola. L’altro atteggiamento, invece,è quello di chi ha studiato la società del rischio e rende scientifica la suaprotesta. Se si pone attenzione ai dibattiti degli ecologisti nelle polemichecontro la globalizzazione, si trovano questi due schemi di critica: esistonocioè i noglobal e i newglobal. I primi hanno una reazione arcaica generalizzata:contro la tecnica difendono il locale, fanno resistenza a qualsiasi trasforma-zione, se si abbatte un albero fanno proteste e digiuni, anzi se si abbatte unalbero ammazzano un uomo, perché appunto essendo ecologisti eliminanoil male. Per i newglobal, invece, il problema è la professionalizzazione dellacritica. Pur non avendo una competenza specifica, la società chiede allascienza di legittimarsi dinanzi a sé, perché se è pur vero che la scienza ri-spetto alle sue procedure legittima se stessa, è pur vero che essa non ha lacapacità di dare risposta circa i suoi effetti. È allora la società che la interro-ga rispetto agli effetti e le chiede di legittimarsi. Si tratta così della professio-

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nalizzazione della critica che tende a rendere scientifica la società e la scien-za, legittimandosi e giustificandosi, diffonde la sua pedagogia, rendendopubbliche le sue ragioni. Tutti coloro che parlano contro la scienza sonopersonaggi che non solo non descrivono correttamente lo stato delle cose,ma anzi lo peggiorano, non sono animati da spirito critico, perché alimenta-no la stupidità degli uomini, da cui hanno modo di trarre il proprio profitto.C’è quindi da temere qualsiasi forma di antiscientismo. Il grande Heidegger,che esonero senz’altro da questa colpa, ha partorito però una massa enormedi irresponsabili del pensiero e gli epistemologi molto spesso prestano ilfianco agli attacchi heideggeriani, perché diventano apologisti involontaridello stato di fatto. Ci troviamo quindi nella forbice, tra gli irresponsabili ri-spetto ai grandi processi in atto nel mondo, e gli apologisti. Bisogna incenti-vare la professionalizzazione critica della scienza, perché essa può produrremolti effetti positivi nella società e alcuni già sono sotto i nostri occhi. Neindico qui due. Un primo effetto è quello di costringere la scienza, a frontedel rischio, a puntare a delle scoperte non rischiose e quindi la toglie dallapigrizia. Per esempio il discorso di puntare sulle energie alternative nascedal fatto che la società sollecita energia diversa da quelle offerte tradizional-mente. Bisogna smetterla, insomma, di lavorare sugli stessi paradigmi, chenon sono solo paradigmi scientifici, ma sono soltanto business, perché èchiaro che la scienza col tempo diventa macchina di potere che tende all’au-toconservazione. La critica sociale può suscitare così un diverso spiritoscientifico, facendo rinascere una ricerca disinteressata, alla ricerca di nuovefonti. Queste dunque le due dimensioni: una è appunto quella di incentivarenuove scoperte sotto questa spinta, l’altra è quella di incentivare l’aspettodisinteressato della ricerca scientifica.

Il sapere scientifico si autolimita e pertanto non si possiede un princi-pio che possa unificare le diverse scienze, perché la complessificazione delmondo ha prodotto differenziazioni interne ed esterne, dalle quali emergesempre di più la definizione di scienza e di pratica scientifica rispetto alcontesto. La distribuzione del sapere scientifico ha modificato il caratteredella ricerca, perché mentre un tempo la pratica scientifica era strutturatasecondo regole rispetto a cui c’erano poi delle applicazioni, oggi invece leapplicazioni sono sempre più ricorrenti e sempre più contestuali: le perfor-mance applicative, insomma, trasformano costantemente le regole. Tuttoquesto è funzionale come modello epistemologico, ma è da considerare piùattentamente nel suo specifico contesto sociale. Il fruitore della scienza di-venta oggi sempre di più attivo non più semplicemente fruitore di oggetti.È l’informatica che ci ha messo in questa nuova situazione: mentre prima siaveva il fruitore di manufatti, che comprava e consumava quello che lascienza produceva, oggi invece si è alla presenza di un consumatore che

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non divora semplicemente, ma è piuttosto un consumatore applicativo.Quindi il consumo della regola consuma la regola: mentre prima la tecnicaproduceva un bene, che veniva consumato, oggi invece la tecnica è appuntoapplicazione di applicazione e quindi il consumatore è esecutore attivo dellaregola, che trasforma in un costante feedback. Non a caso, e questo vale siaper la scienza, sia per l’economia, sia per la sociologia, ormai la nostra nonè una società che scambia beni, ma sempre più servizi. Quando si program-ma una vacanza attraverso Internet, a esempio, si consuma un bene, ma l’of-ferta della vacanza avviene nella forma di un servizio. Il bene offerto è cosìnella forma del servizio, ma anche la risposta è nella stessa forma, perchéproprio consumando il bene si dà immediatamente al servizio una fonte diinformazione, per cui il servizio in realtà si trasforma. In quanto recettore,il consumatore del bene modifica il servizio, perché ha un rapporto imme-diato nello scambio di informazioni. Viviamo pertanto in una società in cuii fruitori sono i suoi stessi modificatori. È proprio da questo punto di vistache può aprirsi uno spazio critico nei confronti della scienza, che non siapiù ‘arcaico’. Concludo ora con qualcosa con cui forse avrei dovuto comin-ciare: il sapere scientifico, l’ampliamento dei servizi, la moltiplicazione illi-mitata degli effetti nella nostra società hanno avuto come risultato la produ-zione illimitata di soggetti: è accaduto, cioè, esattamente l’opposto di quelloche sosteneva Herbert Marcuse quando, parlava dell’uomo a una dimensio-ne. Oggi viviamo infatti in una società a dimensione illimitata. Il problemapertanto non è quello dell’unidimensionalità, che identifica quanto i sogget-ti prodotti in questa società siano all’altezza di quella complessità che li pro-duce o ne siano vittime; la società potrebbe cioè bruciare quelle soggettivitàche pure produce. Nel mondo odierno il pericolo non è dunque l’unidimen-sionalità, ma è la situazione sociale, in cui riesce a trovarsi il soggetto di-sperso o la serie. Questi soggetti, prodotti nella complessità sociale, nonsono all’altezza della stessa complessità e pertanto hanno bisogno di trovarein essa delle ‘zone’ di riparo. La società è poi capace di produrre dinamichedi serializzazione, che arrivino a ‘situazionare’ i soggetti: non si è pertantoalla presenza dell’uomo a una dimensione, ma piuttosto di molteplici tecni-che di irreggimentalizzazione, che tendono a sottrarre i soggetti dall’ango-scia. La nostra società, a esempio, sviluppa sempre più l’intermediazione,con l’ausilio di educatori e di mediatori sanitari; come dire che oggi sonopiù gli ‘angeli custodi’ che le persone e questo non è affatto il segno di unbene per la società, ma piuttosto di un deficit di soggettività, per il quale siforniscono standard seriali di protezione.

Possono poi i soggetti essere centri attivi di produzione di resistenza?In questi ultimi anni mi sono interessato di affetti e di passioni non per ra-gioni sentimentali, ma per il fatto che tutta la grande filosofia moderna non

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ha fatto altro che studiare passioni: lo hanno fatto Spinoza, Hume, Leibnize i grandi moralisti francesi. Il soggetto si può costituire come punto di re-sistenza soltanto se è in grado di governare la propria potenza: l’unicomodo che ha di resistere alla tecnica è mediante l’esercizio della tecnica sudi sé. Questo sembra essere lo spazio inedito della stessa filosofia, che devesmettere di essere una disciplina, per arrivare a produrre soggetti. Bisognatornare con Socrate nell’agorà, nelle scuole ellenistiche deambulanti, deglistoici, degli epicurei e dei cinici. La filosofia inganna e deve essere propostacome forma di vita, perché soltanto le forme di vita sono luoghi di resisten-za rispetto all’impersonalità dei saperi. Se la filosofia resta un sapere imper-sonale risulta infatti infeconda: è anch’essa seriale e non dà alcun aiuto alsorgere di una diversa soggettività.

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Andrea Potestio

LA LIBERTÀ NELL’ERA DELLA TECNICAUOMO E TECNICA

Lo scopo di questo scritto è di indagare i modi in cui, nell’età della tecnica 1,si possa parlare di libertà e come questa idea abbia subito delle modificazio-ni proprio in relazione al sistema tecnico nel quale siamo immersi.

Prima di avviare una riflessione sull’idea di libertà è opportuno occu-parsi del ruolo che oggi l’uomo occupa, andando a specificare il significatoche la tecnica ha nella strutturazione della sua stessa identità personale.

L’apparato tecnico pervade la nostra società e, inevitabilmente, strut-tura la costituzione stessa del nostro essere ‘soggetti’; il punto di partenza diquesta ricerca è pertanto quello di evitare quel luogo comune che pensa imedia come strumenti neutrali, che possano essere utilizzati senza essernecontaminati 2. L’uomo, in quanto ‘essere al mondo’, non può prescinderedal fatto che avendo a che fare con enti utilizzabili li trasforma, ma ancheviene da essi immancabilmente trasformato.

In particolare, i media che veicolano le informazioni si costituisconocome un apparato, che coinvolge l’uomo stesso; il telefono, la televisione eil computer non sono pertanto e semplicemente strumenti che permettonodi raggiungere un fine, dal momento che, singolarmente considerati, sareb-bero assolutamente inadeguati a tale scopo, ma piuttosto, in quanto mezzidi comunicazione, svolgono il loro scopo solo perché sono in relazione conaltri oggetti simili. La relazione tra i vari media esprime la funzione comuni-

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1 Sul concetto di «età della tecnica» ci sembra interessante quanto sostiene UmbertoGalimberti che cerca di sottolineare le trasformazioni che alcuni concetti tradizionali comenatura, etica, identità, libertà, verità, religione, storia hanno subito nel tempo in cui dominala tecnica moderna (cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltri-nelli, 2002).

2 La tesi sulla non neutralità dei media è sostenuta in modo particolare in M. McLuhan,Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1976.

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Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

cativa di questi oggetti e dà loro un senso, andando anche a modificare lerelazioni tra i soggetti che ne fruiscono.

La relazione tra strumenti costituisce una rete di connessioni senza laquale la comunicazione è totalmente assente. La rete, come quella che colle-ga i diversi computer in Internet, è un mondo, non uno strumento cheognuno può usare per i propri fini. Essa, poi, non può essere neutrale, inquanto coinvolge e trasforma tutti quelli che ne sono partecipi e d’altro can-to anche la decisione del singolo individuo di rimanere ‘in disparte’ in unmondo costituito dalla comunicazione, è illusoria, essendo praticamente im-possibile prendere le distanze da quel mondo che struttura la nostra identità.

La rete delle telecomunicazioni è oggi il nostro habitat; anche se nonassicuriamo a essa la nostra diretta partecipazione, non sfuggiamo a unacerta modalità di darsi a noi della realtà, coinvolti come si è nel dialogo enell’interazione con altri che navigano in Internet o guardano la televisione.Lo scopo della comunicazione risiede nella descrizione del mondo; avvienecosì una sorta di rivoluzione nella nostra percezione del mondo, in quantoogni avvenimento acquista senso solo nella misura in cui può essere comu-nicato e diventa fruibile per il tramite dei sistemi comunicativi.

L’informazione non consiste nel resoconto ‘oggettivo’ di avvenimen-ti, ma è la loro vera e propria costruzione. I fatti non accadrebbero se i me-dia non ne dessero notizia in modo adeguato, non solo perché alcune azio-ni non avrebbero rilevanza, ma proprio perché molte non verrebbero nep-pure compiute.

L’idea di mondo delle telecomunicazioni presuppone poi che ogni par-te del sistema acquisti senso nella relazione, in quanto ogni singolo elemen-to esiste solo in funzione del tutto e l’oggetto ha senso all’interno della retedi connessioni di cui è parte. Ogni oggetto-strumento è un ente utilizzabi-le 3, ossia la sua essenza risiede nella utilizzabilità. Lo strumento del sistematecnico ha dignità ontologica in forza della propria funzione e tutto ciò chenon appartiene al sistema non può che essere considerato niente, ossia nonpossiede alcun valore ontologico.

La rete nella quale siamo inseriti è da intendersi come sistema aperto,sempre in divenire, che modifica il senso degli oggetti che ne fanno parte.Per questa sua continua evoluzione il sistema della tecnica rende difficile lariflessione e la presa di consapevolezza delle dinamiche e del ruolo dei sog-getti che ne sono coinvolti. La difficoltà di comprensione produce due at-teggiamenti opposti: un sentimento di inadeguatezza nei confronti di unarealtà che non si può controllare e di cui non si prevedono gli sviluppi, ma

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3 Sul tema dell’utilizzabilità dell’ente si faccia qui riferimento alla riflessione presente inM. Heidegger, Essere e Tempo, Milano, Longanesi, 1995, pp. 92-98.

anche, al contrario, un sentimento di dominio, dato dal potere degli stru-menti tecnici nei confronti della natura.

Sia il sentimento di inadeguatezza e sia quello di dominio hanno origi-ne dalla stessa illusione: si crede che l’uomo sia libero di prendere le distan-ze o di accettare il mondo al quale appartiene. Sia l’atteggiamento di rinun-cia di fronte all’impianto tecnico che non controlliamo, sia quello di fiduciaottimistica che considera gli oggetti come strumenti tesi a migliorare la qua-lità della vita, presuppongono spazi di libertà e di decisione che risultanosempre più limitati. È sempre più difficile, infatti, ritagliarsi spazi al di fuoridel sistema-mondo nel quale si è inseriti, nel tentativo illusorio di costruirsiuna realtà su misura, di dimensioni limitate e private, così come è impensa-bile l’idea positivista di controllo completo della natura da parte dell’uomo.

1. SPAZIO E TEMPO NELL’ERA DEI MEDIA

Il mondo contemporaneo viene descritto dai media che producono una rap-presentazione della realtà, che altera le coordinate spazio-temporali dellenostre percezioni tradizionali, che si trasformano nella rete di connessioninella quale sono inseriti. Sullo schermo televisivo o su quello di un compu-ter sono presenti, infatti, tutti gli eventi simultaneamente, in modo cheognuno di essi non possa essere percepito nella propria singola irripetibilità,ma venga confuso nella totalità indistinta dei fatti.

La condizione del soggetto, che percepisce ogni avvenimento senza ilcorretto distacco spazio-temporale, è quella dell’onnipresenza che permettedi essere dappertutto, ma allo stesso tempo in nessun luogo, indebolendocosì il principio di individuazione che si basa proprio sulla percezione dispazio e tempo. Disperso nella totalità delle rappresentazioni, l’individuo hala falsa impressione di poter conoscere la totalità del mondo fenomenico,mentre ne conosce solo l’immagine, che risulta in continuo movimento.

Il fenomeno della dispersione del principio di individuazione mette inevidenza la non neutralità dei mezzi di comunicazione, che arrivano a modi-ficarci qualunque sia lo scopo per cui li impieghiamo e indipendentementedalla finalità che loro attribuiamo.

L’esperienza che abbiamo del mondo attraverso i media è indiretta inquanto siamo esonerati dall’andare direttamente nel luogo dell’evento. Ac-cade così che i media rendono vicino ciò che è lontano, fanno apparire ciòche è assente, permettendoci di venire in contatto, non tanto con l’eventoin sé, ma con l’interpretazione che altri hanno avuto di esso. L’esperienzaindiretta è la prerogativa di ogni narrazione che trasporta il lettore in un

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La libertà nell’era della tecnica. Uomo e tecnica

contesto, che è mediato dall’interpretazione di un autore. La differenza tra imedia moderni e la narrazione è di tipo quantitativo, in quanto diviene sem-pre più difficile per l’uomo contemporaneo sfuggire dalla grande narrazio-ne che la tecnica moderna produce intorno a noi, descrivendo un mondoche è sempre mediato dall’interpretazione altrui.

La mediazione di chi produce programmi televisivi, film, pubblicitàdescrive un mondo codificandolo attraverso immagini e suoni che diventa-no un modello condizionante. Si produce un effetto di codifica che ripro-duce, in modo meccanico, alcuni standard nella produzione di programmi e,allo stesso modo, induce a comportamenti stereotipati tutti quelli che ap-partengono a questo tipo di rappresentazione del mondo.

Il risultato della codificazione dell’informazione è l’omologazione neicomportamenti sociali che diventano riproducibili e stereotipati. È inevitabi-le quindi anche il giudizio morale nei confronti di tutto ciò che non appartie-ne a questa omologazione del mondo 4 e che, in qualche modo, si discostadalla riproducibilità in serie dei comportamenti. L’informazione dei mediapermette di leggere il mondo, ossia dà la possibilità di descrivere e quindi diprodurre un mondo che sia leggibile attraverso schemi comuni e condivisi. Ilmondo dei media porta a compimento l’obiettivo della rivoluzione scientificache aveva tentato di adattare il più possibile il mondo all’uomo, riducendo imargini di resistenza e di incomprensibilità della natura. Il mondo viene rias-sorbito in una rappresentazione che non deve essere nuovamente interpreta-ta, ma che è sempre a disposizione dei fini umani e del suo utilizzo.

La natura intesa come utilizzabile è anche il centro della riflessione diHeidegger 5 che interpreta la tecnica come ciò che porta a manifestazionequello che in natura è ancora celato, permettendo alla natura di palesare il suofondo; esso non è altro che il fine ultimo della natura: la sua utilizzabilità. Latecnica ci permette di cogliere il non-ancora della natura, il suo fine che èpensato, nella lettura di Heidegger, come qualcosa che è in vista dell’uomo.

La tecnica moderna annulla ogni resistenza del mondo, deve fare ap-parire ciò che è fondo, ciò che ancora non è mondo, quindi deve ridurretutte le resistenze che l’uomo ha incontrato nel suo venire al mondo ren-dendo la realtà sempre più a misura dell’agire umano. Annullare le resisten-ze del mondo attraverso la tecnica non è un’operazione priva di conseguen-

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4 Interessante è la riflessione che avvia Foucault sul dispositivo come ciò che producecomportamenti omologati, riproducibili e quindi controllabili (cfr. M. Foucault, Sorvegliare epunire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976, pp. 213-251).

5 Heidegger sembra avvalorare la tesi della natura come ciò che non ha ancora mostra-to il suo vero e più profondo volto. La tecnica svela la realtà della natura come impiegabilità,come ciò che si mostra in vista dei fini umani, senza alcun residuo o lato nascosto (cfr. M.Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1980).

ze. Il mondo perde infatti la sua autonomia di spazio e tempo e diventa soloquell’immagine che continua a essere mostrata dai media. Essa non chiedepiù di essere interpretata, perché nel momento in cui è veicolata dai media ègià interpretata, adatta all’uomo e pronta per i suoi scopi.

2. TECNICA MODERNA E ANTICA

Le modificazioni che la tecnica produce sono continue e profonde; esse ri-guardano i cambiamenti di proporzioni, di spazio e di tempo, di ritmo e dischemi con cui avvengono le relazioni tra gli esseri umani 6. La tecnica mo-derna aumenta la velocità dei cambiamenti e rende sempre più difficile lapossibilità dell’uomo di adeguarsi alle trasformazioni della realtà che lo cir-conda e sembra travolgerlo.

La differenza tra la tecnica moderna e quella antica non è solo quanti-tativa, ma anche qualitativa in quanto le trasformazioni della nostra societàhanno creato una sovrastruttura che modifica il modo stesso di percepire larealtà. La sovrastruttura, che condiziona la relazione dell’uomo con la tecni-ca, pone le sue basi nella rivoluzione scientifica del ’600 e nella nascita dellascienze moderne, che diventano analitico-sperimentali, con il compito diosservare la natura e riprodurre i suoi nessi causali in laboratorio attraversol’esperimento. La matematica diventa il linguaggio per descrivere la natura,percepita come una macchina sempre determinata da rapporti di causa e dieffetto. Galilei è il primo a utilizzare il cannocchiale per fini scientifici, nel-l’osservazione diretta del cielo, con l’intento di dimostrare l’esattezza del si-stema matematico copernicano. Come matematico e come filosofo Cartesioporrà il soggetto come punto di partenza pensante che può conoscere ilmondo naturale attraverso la trasposizione degli oggetti negli assi cartesianicon la matematica e la geometria.

L’antropologo Arnold Gehlen 7 insiste sul fatto che la differenza quali-tativa della tecnica moderna si basa sull’unione e sull’azione reciproca di trediversi fattori: le scienze naturali, la tecnica intesa come costruzione di mac-chine e di meccanicismi e il sistema industriale capitalista. Questi tre ele-menti sono la base della struttura che regola le trasformazioni della tecnicamoderna in quanto la loro relazione ha generato l’accelerazione che è tipicadella nostra società. Lo scienziato e il tecnico sono costretti a dialogare tra

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6 McLuhan è stato tra i primi a mettere in evidenza i mutamenti antropologici prodottidai media nell’uomo (cfr. M. McLuhan, Strumenti del comunicare cit., p. 70).

7 Si veda A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Roma, Armando editore, 2003, pp. 31-36.

loro, perché le scienze si sviluppano grazie a risorse tecniche nuove ed è ilmercato a dettare, sempre più spesso, le regole delle innovazioni e dei cam-biamenti. Le innovazioni tecnico-scientifiche, infatti, non sono più mono-polio delle Università, ma vengono prodotte da enti di ricerca privati, gestitio finanziati direttamente dalle grandi industrie. La tecnica moderna, insom-ma, è stata prodotta dal cambiamento di paradigma avvenuto durante la ri-voluzione scientifica che ha causato la fusione della capacità di costruire ma-nufatti con il sapere delle scienze e con le regole dell’economia capitalista.

Gehlen sottolinea anche il ruolo dell’elemento irrazionale nello svi-luppo della tecnica che non è solo applicazione razionale di regole scienti-fiche. La tecnica antica ha mostrato il legame inconscio e magico tra l’uo-mo e il mondo, testimoniato dalla diffusione della magia in quasi tutte leculture antiche che attribuivano un valore di sacralità ai diversi manufattidella tecnica. Gehlen sostiene che la tecnica moderna, pur evidenziandouna struttura razionale e analitica, è un processo involontario, non control-labile dal singolo individuo e che radica la propria essenza nelle struttureinconsce e profonde dell’uomo.

Il bisogno che l’individuo sente di inserirsi nella natura cercando poidi differenziarsi da essa è sicuramente istintivo e a-razionale. Il rapporto tral’uomo e il mondo è dato poi dall’azione, infatti, il desiderio più antico èquello di stabilizzare e ritualizzare gli eventi della natura per poterli control-lare. L’utensile, l’arnese sono quindi oggettivazioni delle azioni umane, dellavoro che si distacca dal soggetto per essere potenziato dagli strumenti del-la tecnica. La pietra, a esempio, è una rappresentazione del pugno, sostitui-sce e amplifica gli effetti della mano, diventando più efficace e permettendoun controllo migliore della realtà esterna.

Per la sua stessa costituzione antropologica, afferma Gehlen, l’uomotende all’esonero e all’agevolazione del proprio lavoro, ossia al risparmiodelle energie, mentre in realtà gli utensili alleviano solo parzialmente dallafatica fisica. Un’altra tendenza inconfessata e istintiva della tecnica è lo svi-luppo della consuetudine, della normalizzazione degli effetti, del quotidianoche può tranquillizzare.

Le tendenze al risparmio di energie e alla normalizzazione della natura,percepita come oggetto, sono tra le cause principali della diffusione della tec-nica nelle diverse società umane anche in contesti geografici, culturali e tem-porali profondamente diversi. Queste tendenze agiscono in modo inconscionella costituzione dei manufatti della tecnica antica fino alla realizzazione deimeccanismi più complessi e automatici della tecnica moderna. Il carattere ir-razionale e magico della tecnica rimane anche in quella moderna come ele-mento che spinge l’uomo a potenziare le proprie azioni e a oggettivarle me-diante il suo caratteristico metodo razionale, matematico e sperimentale.

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3. GLI SPAZI DELLA LIBERTÀ

Osservando il miglioramento delle condizioni di vita e il potenziamento de-gli strumenti a nostra disposizione, in linea di principio si potrebbe affer-mare che la tecnica ha ampliato gli spazi della libertà individuale e la possi-bilità decisionale del singolo individuo. Tale affermazione evidenzia peròuna visione superficiale del rapporto che intercorre tra i media e le modifica-zioni dell’idea stessa di identità personale. Il miglioramento delle condizionidi vita economiche e sociali, infatti, non basta a provare che il soggetto haaumentato anche la propria possibilità di scelta, come sembra provato dalsentimento di disagio e di rinuncia, tipico della contemporaneità.

Intendiamo qui con ‘libertà’ l’assenza di bisogno, che permette all’uo-mo di dedicarsi alla contemplazione, allo studio o all’ozio. I Greci, per pri-mi, hanno pensato all’idea di libertà come assenza di bisogno intendendocosì distinguere il cittadino (o uomo libero) dallo schiavo, che era costrettoa lavorare e pertanto impossibilitato a vivere alla ricerca della felicità. Nel-l’Etica Nicomachea troviamo scritto:

di quanto dunque si estende la speculazione, si estende anche la felicità, e coloro aiquali maggiormente compete il contemplare saranno anche maggiormente felici,non per accidente, ma in virtù della contemplazione stessa: giacché questa di per sestessa è degna di onore. Di conseguenza la felicità consisterà in una certa forma dicontemplazione. Ma poiché è un uomo il sapiente avrà bisogno anche della prosperi-tà esteriore: infatti la natura umana, non basta a se stessa per esercitare la contempla-zione, ma occorre anche che il corpo sia in buone salute e che abbia nutrimento eogni altra cura. 8

Aristotele afferma, quindi, che la felicità è connessa alla contemplazione eche per potersi dedicare alla vita speculativa non ci si deve preoccupare del-le necessità corporali. La felicità è dunque libertà dal lavoro che però nonpuò essere estesa a tutti: per questo sono necessari gli schiavi, che rendonopossibile la libertà dei cittadini.

Nelle Lezioni sulla filosofia della storia 9, Hegel critica questo concetto di li-bertà, affermando che Aristotele concepisce la libertà sempre come limitataagli individui e mai come idea universale. Egli crede così di spostare i termi-ni del problema in modo radicale, ma la sua critica non coglie nel segno, inquanto l’idea di libertà proposta, proprio perché universale, non è concreta:riguarda l’umanità intera, ma nulla è in grado di dire della libertà degli uomi-ni nella loro vita quotidiana. L’idea hegeliana di libertà pecca di astrazione, in

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8 Aristotele, Etica Nicomachea, Libro X, § 8-9, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 873-875.9 Cfr. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 88-107.

quanto diviene un concetto assoluto, tutt’uno con la necessità, e risulta poivuoto, perché non è esperibile in nessun modo dal singolo individuo.

Critico dell’impostazione hegeliana è Nietzsche, il quale afferma chela schiavitù, come era concepita dal mondo greco e comunque in ogni altraforma, è necessaria nella società per garantire la libertà di una minoranzadi cittadini:

perché esista un terreno vasto, profondo e fertile per lo sviluppo della cultura che èsoprattutto un veritiero bisogno di arte, la stragrande maggioranza degli uomini deveessere al servizio di una minoranza, deve essere sottomessa – in una misura superio-re alla sua miseria individuale – alla schiavitù dei bisogni della vita. A spese di questamaggioranza e attraverso il suo lavoro supplementare quella classe privilegiata deveessere sottratta alla lotta per l’esistenza, per produrre un nuovo mondo di bisogni esoddisfare a questi. Conformemente a ciò dobbiamo trovarci d’accordo nel conside-rare come verità – che suona crudele – l’affermazione che la schiavitù rientra nell’es-senza di una cultura: una verità certo che non lascia alcun dubbio sul valore assolutodell’esistenza. 10

La libertà da conquistare mostra così tutto il suo lato crudele nella necessa-ria schiavitù della maggioranza che rende possibile il manifestarsi di spazi li-beri per una minoranza privilegiata che solo così è in grado di produrre cul-tura e arte. La concezione greca di libertà sarebbe così l’unica possibile e ilsuo limite risiederebbe nei confini troppo soggettivi e poco chiari tra il pa-drone e lo schiavo.

Il cambiamento di paradigma tra cultura antica e moderna non sta al-lora nel fatto che la nostra società è diventata consapevole di un’ideaastratta di libertà, ma nel fatto che, dall’epoca moderna in poi, nel rappor-to padrone-schiavo prevalgono gli elementi oggettivi su quelli individuali.Il rapporto del signore con i suoi sottomessi diviene sempre più oggettivoe tecnico senza, per questo, cessare di esistere e di ampliare gli spazi di li-bertà individuale.

L’oggettività dei rapporti si ottiene per il fatto stesso che la coercizio-ne non coinvolge completamente la persona, ma solo il prodotto del suo la-voro. I rapporti tra il datore di lavoro e suoi dipendenti coinvolgono infattisolo la prestazione e la quantità di prodotto che il dipendente deve assicura-re. Il denaro diviene lo strumento più ‘oggettivo’ per misurare e quantifica-re i rapporti di lavoro, in quanto viene a coincidere con il prodotto stesso.Non è, quindi, necessario alcun mezzo di coercizione come nelle società an-tiche, perché la vita personale dell’individuo è completamente esclusa dalrapporto di lavoro. Chi ha un determinato obbligo può saldarlo recuperan-

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10 F. Nietzsche, Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, Milano, Adelphi, 1980, pp.226-227.

do denaro in ogni parte del settore produttivo, senza essere vincolato ad al-cuna tipologia di lavoro.

Grazie alla sua oggettività e impersonalità, il denaro permette di libe-rare dai vincoli della schiavitù personale, divenendo così lo strumento idea-le della tecnica moderna, la cui razionalizzazione è da intendere come il ten-tativo della ragione di calcolare in termini matematici i fondamenti stessi delpensiero 11. Il denaro è quello strumento della ragione calcolante in grado dispersonalizzare ogni rapporto che non si basa più sui vissuti personali e psi-cologici dell’individuo, ma su prodotti quantificabili e impersonali.

La rimozione dell’elemento soggettivo e personale è poi facilitata nonsolo dalla struttura economica, ma anche dall’aumento di complessità degliapparati tecnici, la cui crescita è indipendente dal singolo individuo.

All’interno dell’apparato tecnico l’uomo è ridotto a una funzione e alprodotto del suo lavoro. La sostituibilità del singolo e l’aumento delle rela-zioni tra individui, che crescono in base alla complessità della società nellaquale si è inseriti, lasciano al soggetto ampi spazi di libertà, in quanto non viè più la necessità di esprimere la propria peculiare individualità nel mondolavorativo o in rapporti unidirezionali e vincolanti. Il problema è che la cre-scita di questa idea di libertà, dovuta alla complessità delle relazioni e allasostituibilità dell’individuo, rende sempre più difficile trovare un luogo dovepossa essere espressa. Si tratta pertanto di una libertà soltanto potenziale,che difficilmente trova una concreta realizzazione e, soprattutto, un indivi-duo che la realizzi.

4. LA SPERSONALIZZAZIONE DEI SOGGETTI

La spersonalizzazione che è richiesta dai rapporti lavorativi propri della mo-derna società produce una continua frammentazione di quelle caratteristi-che fisiche e intellettuali dell’individuo che sempre più difficilmente arriva-no a sintetizzarsi a inclinazioni e a competenze in una visione unitaria cheproduca l’identità personale, per il fatto che la tecnica tende a esaltare leprestazioni e il ruolo sociale, privilegiando così la sola dimensione legataalle competenze professionali e annullando tutte le altre caratteristiche chedovrebbero concorrere a produrre l’intera personalità.

Spiega Marcuse che

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La libertà nell’era della tecnica. Uomo e tecnica

11 Heidegger ci ricorda come sia proprio il concetto di ‘ratio’ moderna a basarsi sul-l’idea di misurazione, ossia sul rendere conto (cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, Mi-lano, Sugarco, 1996, pp. 81-82).

l’apparato produttivo tende a divenire totalitario nella misura in cui determina nonsoltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche ibisogni e le aspirazioni individuali. In tal modo esso dissolve l’opposizione tra esisten-za privata ed esistenza pubblica, tra bisogni individuali e quelli sociali. La tecnologiaserve per istituire nuove forme di controllo sociale, più efficaci e più piacevoli.[…] V’èsoltanto una dimensione, che si ritrova dappertutto e prende ogni forma. 12

La personalità non può esprimersi dunque se non limitandosi a quel tipo diprestazione unilaterale in cui l’apparato della tecnica la immobilizza, ren-dendo oggettiva la prestazione del singolo individuo; esempio paradigmati-co di questa situazione è quello dell’impiegato che è costretto a funzioni ri-petitive e alienanti, senza la possibilità di uscire dagli schemi della sua pro-fessione e soprattutto senza avere la possibilità di mettere in gioco la suapersonalità. Analogamente Heidegger, proponendo l’esempio della guardiaforestale, a proposito del ruolo dell’individuo scrive:

la guardia forestale che nel bosco misura il legname degli alberi abbattuti e che appa-rentemente segue nello stesso modo di suo nonno gli stessi sentieri di suo nonno èoggi impiegata dall’industria del legname, che lo sappia o no. Egli è impiegato al finedi assicurare l’impiegabilità della cellulosa, la quale è a sua volta provocata dalla do-manda di carta destinata ai giornali e alle riviste illustrate. Questi a loro volta dispon-gono il pubblico ad assorbire le cose stampate, in modo da divenire impiegabile per lacostruzione di una pubblica opinione costruita su commissione. 13

Qui si sostiene che viene a costituirsi un sistema complesso di relazioni pre-costituite, attraverso le quali la guardia forestale svolge il proprio ruolo mo-strando competenze, senza avere in realtà nessuna possibilità di scelta e sen-za mettere mai in discussione la propria individualità. Costituire parte del si-stema della tecnica significa immedesimarsi completamente nel ruolo pro-fessionale che viene assegnato, consapevoli della propria sostituibilità.

L’aumento degli spazi di libertà diventa così semplicemente illusorio ela libertà è impersonale, perché non sono mai in gioco le qualità dei singoli,ma piuttosto l’intreccio degli obblighi e la eventuale liberazione dagli stessi.La scelta si riduce allora a un cambiamento di compiti, alla possibilità di co-struirsi competenze diverse o di cambiare professionalità.

La libertà impersonale è pertanto libertà di scelta non della personalitàda esprimere, ma del tipo di ruolo da assumere. Questa idea di libertà, tipi-ca di una società ad alto contenuto tecnologico, amplifica la concezione dilibertà già presente nelle società antiche, intesa come diritto di obbedire odisobbedire, di resistere o di violare, trasformandola in possibilità di sceltatra diversi ruoli.

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12 H. Marcuse, L’uomo a una sola dimensione, Torino, Einaudi, 1967, pp. 13-14.13 M. Heidegger, La questione della tecnica cit. p. 13.

La separazione tra la persona e la sua prestazione permette al sistemadi costituirsi indipendentemente dagli individui coinvolti: l’apparato tecnicos’impone infatti, perseguendo regole che non prendono in considerazioni isoggetti e, viceversa, le vite dei singoli individui possono darsi senza tenerein alcuna considerazione le esigenze complessive del sistema.

In questo modo, ogni individuo finisce per elaborare un sistema di re-lazioni personali, nel quale può esprimere la propria personalità.

La libertà impersonale, che aumenta in relazione al crescere delle pos-sibilità di scelta offerte nella società della tecnica, non coinvolge mai diretta-mente il nucleo soggettivo dell’individuo, ma retroagisce su di esso. Le azio-ni impersonali, legate al ruolo professionale e quantificate dalle regole delsistema nel quale si è coinvolti, agiscono sempre infatti sulla personalità del-l’individuo. Il risultato di questo processo è che l’identità sociale è garantedell’identità personale, per cui le scelte e le competenze acquisite nel ruolosociale modificano anche le trame profonde dell’identità personale.

Scrive Habermas in proposito:

la sociologia non si accontenta della separazione analitica fra sistema sociale (messa inscena di un dramma) e struttura della personalità (l’attore come persona privata), macerca di spiegare la formazione della struttura della personalità dei soggetti agenti stes-si a partire da processi socialmente condizionanti: cioè dei processi di socializzazione.Essi fanno sì che un substrato, cioè l’organismo del neonato, venga ‘penetrato’ dastrutture sociali, fino al punto di poter soddisfare le istanze fondamentali dell’interpre-tazione dei ruoli e operare in base alle norme vigenti. […] In ciò il processo di socia-lizzazione è anche un processo di individualizzazione. 14

Qui si afferma che l’identità personale è prodotto dalla continua interazionesociale. Le azioni quotidiane, legate al ruolo professionale e alle competen-ze, strutturano l’identità profonda del soggetto, in quanto gli permettono diproporre la propria identità, distinguendosi dagli altri e ottenendo anche ilriconoscimento di tale differenza. L’assunzione di un ruolo è condizionedella formazione di un’identità personale, anche se le scelte che determina-no il ruolo riguardano, in modo oggettivo, solo le competenze professionaliche possiamo acquisire.

La spersonalizzazione del soggetto produce una sempre maggioreomologazione delle relazioni tra individui, nonostante l’aumento degli spazidi libertà, che è qui intesa come possibilità di movimento tra i diversi ruoli,possibilità di aumento delle competenze e anche distanza tra le varie posi-zioni lavorative.

La distanza dal ruolo, ossia la non identificazione dell’individuo con lasua stessa collocazione sociale è da considerare un atto di libertà, che coin-

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La libertà nell’era della tecnica. Uomo e tecnica

14 J. Habermas, Cultura e critica, Torino, Einaudi, 1980, p. 79.

cide con un tentativo di resistenza alla spersonalizzazione, verso la quale lacomplessità della società sembra condurre. L’individuo è così scisso tra lafunzione sociale, che in qualche modo retroagisce sulla sua personalità, e iltentativo di creare spazi di libertà quotidiani, sempre più privati e lontanidal mondo sociale.

5. UNA LIBERTÀ POSSIBILE

Nell’età della tecnica moderna la libertà individuale rischia di essere solo untermine svuotato di significati precisi, in quanto la scelta si riduce alla possibi-lità di cambiare le proprie competenze all’interno di ruoli che sono impostatidagli apparati sociali in cui si è inseriti. Queste considerazioni non devono in-durre a un atteggiamento negativo nei confronti degli strumenti tecnici, mapiuttosto a una sempre maggiore consapevolezza del nostro status esistenziale.

L’affermazione che la nostra essenza è tecnica 15, sta a significare chel’uomo non sarebbe sopravvissuto all’ambiente naturale senza l’ausilio del-la sua capacità tecnica e che possiede una capacità di adattamento al conte-sto che gli permette di trasformarsi, trasformando il mondo in cui vive.L’unica libertà che gli è concessa è di non rinunciare a inventare la tecnica,cercando di prevederne e anticiparne gli effetti. Questa capacità prometei-ca 16 nasce proprio dall’accettazione della propria essenza e da un atto discelta individuale.

Nella società contemporanea, però, è sempre più difficile prevedere ifini di una determinata azione, per cui diventa pressoché impossibile calco-lare gli effetti di ogni trasformazione. Questo rappresenta il rischio maggio-re per l’uomo moderno che, non potendo anticipare e prevedere, o si illudedi essere libero o fugge in sfere private sempre più limitate e frammentate.

Libertà sta a significare accettazione o negazione di una situazione eaumento o diminuzione della propria consapevolezza nei confronti del

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15 Gehlen afferma che l’uomo è per natura sociale ma anche tecnico, perché il mondoche vive e abita può evolversi solo grazie ad artifici tecnologici. L’uomo è da sempre un esse-re artificiale che manifesta un legame artificioso con la natura la quale rappresenta la condi-zione essenziale del suo esistere (cfr. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica cit., pp. 29-44).

16 Prometeo rappresenta la figura mitica che ruba il fuoco agli dei per consegnarlo agliuomini. Prometeo consegna agli uomini la tecnica affidando a loro la possibilità di utilizzare,in modo consapevole, qualcosa che non possono dominare completamente e che racchiudein sé l’elemento del pericolo. La capacità prometeica è l’abilità di immaginare e anticipare glieffetti e le conseguenze delle trasformazioni della realtà, è, quindi, una capacità che tende asuperare i limiti della natura umana e nasce dalla libera accettazione del nostro destino (cfr. C.Galimberti, Psiche e Techne, cit. pp. 714-715).

mondo in cui siamo. L’accettazione o il rifiuto non producono solo un cam-biamento di sensazioni nell’uomo, ma determinano delle azioni che produ-cono effetti e trasformazioni. Accettare che la nostra essenza si basi sullatecnica produce pertanto uno slancio attivo nei confronti degli strumentiche ci circondano, un aumento della consapevolezza dei rischi e dei benefi-ci di ogni nostra azione e stimola, in particolare, l’immaginazione e la capa-cità di anticipare, per quanto è possibile, quale sarà il paradigma della socie-tà futura. La scelta opposta è quella di ostinarsi a negare che le trasforma-zioni in atto riescano a modificare la nostra identità più profonda. Inoltrenegare che la nostra essenza sia tecnica significa, in ultima analisi, credere dipoter rompere il rapporto che ci lega al mondo, alla ricerca di spazi privati,nei quali vivere la propria vita, con il rischio di trovarsi divisi tra il proprioruolo sociale e la dimensione interiore e privata.

La libertà ancora possibile per l’individuo è allora quella di accettare ilrischio che si corre in questa situazione, continuando a utilizzare la propriaimmaginazione anticipatrice, nell’intento di comprendere le trasformazioniche costantemente modificano noi e il nostro contesto. Tale scelta, che av-viene nell’individuo senza alcuna possibilità di calcolarne gli effetti, è unaspecie di atto gratuito verso se stessi e verso il mondo, che pone in essereindividui attivi e consapevoli, piuttosto che passivi e controllabili.

La scelta di accettare la tecnica come nostra essenza evita un atteggia-mento di rinuncia e promuove al tempo stesso un modello cooperativo diazione e di pensiero 17, recuperando e sviluppando la capacità prometeicadell’uomo di anticipare e di prevedere le trasformazioni che costituiscono ilnostro comune destino.

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17 Il modello cooperativo di pensiero presuppone l’idea di una continua interazionetra i soggetti che vanno a costituire la propria identità nella relazione con gli altri attraversola creazione di una rete di collegamenti. L’uomo è in relazione con gli altri individui e fa par-te di una rete di connessioni che si modificano reciprocamente producendo sempre stimolinuovi e diversificati (cfr. P. D’Alessandro, Critica della ragion telematica, Milano, LED, 2001, pp.201-254).

Salvatore Natoli

TECNICA E RISCHIO 1

Il tema che oggi affronto riguarda il nesso tra tecnica e rischio. È noto a chistudia filosofia, ma non solo, che soprattutto con Heidegger è invalsa l’ideadi definire la nostra epoca come età della tecnica. Un’etichetta forse esplica-tiva, forse no. Per quanto attiene al rischio vorrei essere più moderato. Nonmi espongo a dire «età del rischio», ma in modo più sociologico, perché poila formula è anche dei sociologi, posso parlare di «società del rischio». Poiandremo a vedere, alla fine, se si può dire anche «età del rischio».

Propongo una prima considerazione: l’uomo è un animale artificiale,un ente artificiale per natura. Questo fa cadere subito l’opposizione artifi-cio/natura, su cui molte riflessioni sulla tecnica si fondano. L’uomo è unanimale artificiale, perché produce se stesso, attraverso la sua azione nel mon-do. E qui vado a trarre argomento da luoghi molto antichi. Anassagora di-ceva che l’uomo è intelligente perché ha le mani, in termini diversi l’uomo èintelligente perché è artificiale ed è artificiale perché è intelligente. L’uomo ècapace di techne, e in greco techne non vuol dire solo produzione di oggetti,di manufatti, ma anche ‘destrezza’, ‘abilità’ e in taluni casi ‘astuzia’, capacitàdi saper evitare una difficoltà o trovare anche un modo per dominare pro-fittando dell’ignoranza degli altri. La tecnica, dunque, è anche inganno. Nonsolo riguarda la produzione, ma anche l’azione. È interessante sottolineareche l’uomo è un animale artificiale, perché questo suppone la trasformabili-tà del mondo e ha per noi significato in quanto ci sono delle filosofie chesostengono che il mondo non è trasformabile.

Propongo ora una seconda considerazione circa il rapporto tra scienzae tecnica. Si tratta di togliere di mezzo subito, e direi anche in modo facile,l’alternativa fra scienza e tecnica, riprendendo la formula di Anassagora che

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1 Il testo è la trascrizione della conferenza tenuta il 20 maggio del 2004, presso l’Uni-versità degli studi di Milano, dal titolo Tecnica e rischio.

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Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

l’uomo è intelligente perché ha le mani. Non c’è stata mai una scienza chenon sia stata tecnica, non c’è mai stata nessuna rivoluzione scientifica chenon sia stata tecnologica e nessuna rivoluzione tecnologica che non sia statascientifica che non abbia variato i modelli di cognizione. Infatti è molto piùgiusto dire ‘storia della scienza e della tecnica’ nel senso che le due presta-zioni entrano l’una nell’altra. A questo punto se fra scienza e tecnica cadequalsiasi differenza, allora non si vede come ci sia il tentativo di salvare lascienza di esonerarla da responsabilità e di attribuire alla tecnica errori, col-pevolezze, come se le due cose potessero funzionare l’una senza l’altra.

Queste sono dunque le premesse per entrare nel merito dell’argomen-to. Ho detto che la ‘tecnica-trasformazione’, che è un dato dell’esperienzastorica, è un tratto costante dello sviluppo delle civiltà umane e quindi pre-suppone la trasformabilità del mondo.

Dal coltello di selce all’informatica, attraverso la tecnica insomma,l’uomo ha definito i modi e le forme della sua sopravvivenza. La tecnica èun modo di stare al mondo contraddistinto non tanto dall’adattamento disé all’ambiente, come capita in generale nel mondo animale, ma un adatta-mento dell’ambiente a sé. Non si vuol dire che l’animale non trasformil’ambiente, ma che nell’animale la trasformazione è guidata in funzione del-la sua sopravvivenza fisica, che è supportata storicamente, anzi biologica-mente molto più dalla natura, mentre l’uomo, e questo potrebbe esseretema di un discorso molto più antropologico che tecnologico, è un animaledebole. L’animale trasforma la natura tanto quanto basta per trovare il suohabitat, l’uomo aveva bisogno di un habitat molto più protetto perché l’uo-mo che nel processo evolutivo era diventato un animale debole dal punto divista della mera fisicità, della forza, aveva sviluppato una protesi dove laforza gli proveniva dalla capacità di sagomare il mondo rispetto al suo biso-gno. La dimensione fondamentale è che nell’uomo la tecnica si lega moltis-simo all’anticipazione della propria condizione. Quindi nell’animale prevalel’elemento forte di un’autoconservazione adattativa, mentre nell’uomo èsempre in atto un progetto più ampio rispetto alla sua sopravvivenza. Tuttoquesto ha prodotto una sempre e costante modulazione del mondo, attra-verso la tecnica e un adattamento del mondo a sé, fino alla grande civiltàoccidentale; se usiamo la formula di Karl Smith in termini politologici dicia-mo allora ‘emisfero occidentale’, dove ormai la tecnica è diventata ambien-te. La modificazione di fondo nell’arco dello sviluppo temporale è che latecnica prima era ritenuta strumento, oggi è divenuta ambiente. L’uomonon si serve più della tecnica per adattare la natura a sé, ma pensa la naturasecondo schemi tecnologici; il suo ambiente è diventato la tecnica. Quindinoi ci troviamo oggi in una società in cui la tecnica opera sulla tecnica. Senon è uno spazio totale lo spazio tecnologico è lo sfondo costante, il refe-

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rente della nostra condotta, delle nostre forme di vita, della nostra pratica.Cos’è allora la tecnica nel suo stadio finale? È questo il primo punto da ac-quisire, a partire da quelle premesse: la tecnica non è più strumento, ma èambiente. Le nostre operazioni sono tecniche sulla tecnica. L’altra modifi-cazione profonda è data appunto dal fatto che lo spazio della tecnica si con-figura sempre di più come spazio del rischio.

Per questo che ritengo generica, poco determinata, evocativa, la for-mula «età della tecnica», perché in base a questo ragionamento non c’èun’età del mondo che non abbia al suo interno il segno della tecnica. Ilproblema è vedere invece come l’artificiale si configuri nelle epoche delmondo. Se veniamo ora agli ultimi due secoli e consideriamo il vocabolarioimpiegato in riferimento alla tecnica ci accorgiamo che tra la fine del ’700 equasi per l’intero ’800, la parola «età della tecnica» aveva un altro nome:«età del progresso». La tecnica era associata al progresso, era una figuradell’emancipazione sia dal punto di vista cognitivo che dal punto di vistarealizzativo; pertanto non c’erano obiezioni alla tecnica nell’età del pro-gresso. Dagli illuministi a Comte e a Marx c’è una celebrazione della tecni-ca, e se si dà una ragione per cui Marx celebra il capitalismo è perché haprodotto macchine. Quindi se vogliamo rendere meno generico il concetto“età della tecnica”, dobbiamo considerare un tempo in cui possiamo chia-mare la tecnica “età del progresso”.

Da un certo momento in poi la tecnica si viene a configurare sempredi più nella forma del pericolo. A questo punto se dovessimo trovare un co-dice per identificare l’ambiente tecnologico, come spazio vissuto e interpre-tato da quelli che questo spazio vivono, dovremmo chiamare il nostro tem-po «la società del rischio». Oggi infatti la tecnica è associata sempre di piùrischio, sempre meno al progresso. Questo è importante per capire comel’età della tecnica sia una figura troppo generica per dare conto degli statidel mondo e della costituzione delle epoche.

Viene ora da chiedersi quando la tecnica abbia cominciato a essere vis-suta nella forma del rischio e abbia smesso di esserlo nella forma del pro-gresso. Prima di delineare questa curva devo fare una delucidazione inter-media. Torno alla distinzione tra scienza e tecnica. C’è stata una fase dellastoria, dall’età moderna in avanti, in cui la scienza era pensata come una tec-nica di conoscenza, era già pensata come tecnica, ma finalizzata alla cono-scenza. La scienza era una tecnica che serviva per capire secondo quali leggiè retto il mondo; questo ha una sua formulazione nell’illuminismo. Lascienza è un modo di procedere del pensiero e quindi una tecnica; in pro-posito non si dimentichi che Cartesio scrive un’opera intitolata Regulae ad di-rectionem ingenii. Il pensiero metodico produce dunque verità se ha regola: c’èuna tecnica prevista del pensare per avere accesso alla verità, ma il tema do-

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minante è avere accesso alla verità quindi la scienza deve essere strutturatacome tecnica del pensare al fine di perseguire la verità. In questo contesto lascienza è stata presentata come disinteressata, autonoma, perché l’oggettodella scienza era la verità, quindi un apparato metodico funzionale perché laconoscenza pervenisse a oggetti veri. La scienza è individuata come praticadi ‘rischiaramento’. Su questo terreno essa era una figura dell’emancipazio-ne, polemica rispetto a un tipo di pensiero che non aveva regole o le avevapoco precise o indeterminate. Quindi questa scienza non solo era polemica,ma poi è diventata anche imperiale nel senso che il modo vero di conoscereè quello scientifico, mentre gli altri sono residuali. La modernità si è forma-ta secondo questo schema: si passa dalla tecnica del conoscere, e quindi dal-la conoscenza come apparato tecnico orientato alla verità, alla scoperta diuna tecnica che è produttrice di realtà. Non è più la conoscenza che deveadeguare quel che è il mondo, ma la scienza che è arrivata a un livello di co-noscenza tale da produrre un mondo. Questo non vuol dire che nel Sette-cento non ci fosse tecnica o che i Romani non ne avessero nozione, anchein questi casi, infatti, si dà una produzione di mondo, ma il mondo prodot-to è molto più inconsistente del mondo conosciuto e il conoscere il mondoè il paradigma fondamentale per arrivare a produrlo. A partire dalla finedell’800 la produzione di realtà diventa illimitata e allora è nella esplosionedi produttività della scienza che la tecnica si presenta come invasiva. È veroche la scienza non è mai stata separata dalla tecnica, ma gli effetti di produ-zione di realtà erano molto bassi rispetto ai profili di cognitività. Oggi i pro-fili di cognitività hanno un impatto molto più diretto e immediato sugli ef-fetti di realtà. Quello che prima era un cumulo di progetti, a partire dalla se-conda metà dell’800 è diventato sempre di più un accumulo di realizzazioni.Uso ora una formula: si è passati dall’illuminismo come figura della mente, alla il-luminazione, nel senso proprio elettrico della società.

In questo dilagare della scienza gli effetti di verità sono diventati sem-pre più interessanti rispetto alla determinazione della verità per cui la scien-za oggi non si pone più problemi di verità se non nella forma di esecuzione.Un progetto è vero se è eseguibile; se non è eseguibile non è vero o non èinteressante, cioè la dimensione realizzativa della scienza ha ridotto le sueistanze di verità, quindi la scienza è diventata una performance ordinaria dellasocietà e in questa prospettiva la scienza si è disgregata nel tentativo di uni-ficare tutto il sapere. Visto che mi trovo in questa Università non posso noncitare quel celebre saggio di Paci Le scienze e il significato dell’uomo. L’efficaciaha prodotto un’istanza di verità in termini di innalzamento della prestazionenell’ambito ristretto di quel sapere. Quindi allo scienziato non interessa piùla conoscenza scientifica in generale, ma l’implementazione della performanceparticolare e quindi la performance del chimico deve implementare la chimica;

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poi ci sono delle interferenze, ma fondamentalmente noi siamo dinanzi aun progressivo implemento della realizzazione della tecnica, la costruzionedi mondo, questo mondo costruito è sempre più indifferenziato. Ogni pre-stazione è fortemente standardizzata all’interno, quindi gli standard sonoelevatissimi, ma completamente definalizzati all’esterno. All’interno dellascienza si è avuto il fenomeno di rinuncia alla ricerca della verità disinteres-sata, mentre un interesse sempre più elevato è dato dalla riuscita della pre-stazione. Gli scienziati appaiono curiosi nei confronti della filosofia, ma ve-dono una discrasia di fondo tra il punto di vista del filosofare e la loro pra-tica scientifica, che con difficoltà riescono a problematizzare. Da questopunto di vista neppure gli epistemologi ci riescono, perché l’epistemologia èun ‘fatto’ filosofico: gli scienziati non fanno certo epistemologia, quandoaffermano ‘così è, perché così è la prassi’. Non sono affatto interessati aifondamenti, perché ritengono di dover svolgere una funzione puramente‘tecnica’. In una situazione di questo genere l’efficacia operativa della scien-za si è venuta esplicando sempre di più nella tecnica come implementazionedegli effetti. È quello che Foucault definisce «gli effetti di verità in genera-le». Il criterio di verità diventa, dunque, sempre più l’efficacia rispetto al-l’ambito. In questa situazione in cui la scienza produce ambiente, come di-cevo prima, per cui si opera sulla scienza che lavora sulla scienza, ci trovia-mo in una situazione di pericolo, perché la moltiplicazione a dismisura deglieffetti pone nella situazione angosciante o comunque difficile di non potercalcolare tutte le loro conseguenze. La nostra società è a rischio e il rischio ècausato dalla tecnica. Viviamo in un mondo in cui c’è una modificazionedella dinamica del rischio, che non è più pensato nella forma di un imprevi-sto che può colpire dall’esterno, come può avvenire in generale per l’esplo-razione del mondo in cui la natura in generale può proporsi come fonte dirischio (si pensi qui al fenomeno del fulmine).

La dimensione aurorale della tecnica è pensata in una forma difensi-vo/aggressiva. Gli uomini aggrediscono per difendersi: si parla oggi di‘guerra preventiva’. È quindi nel contesto dei pericoli incombenti negli im-mediati dintorni che si strutturano le difese: se vivo in una savana cerco didifendermi dal leone, se vivo ai margini del fiume costruisco argini. In talelogica difensivo/aggressiva il rischio viene previsto da dove si immaginapossa venire. Allargandosi i confini del mondo il rischio, com’è naturale, siinnalza, anche se si rimane pur sempre in una dimensione in cui esso pro-viene dal mondo. L’atteggiamento razionale è allora quello di limitarlo nellavalutazione costo-benefici. Con questa implementazione multiforme dellatecnica ci troviamo in una situazione in cui non siamo in grado di calcolarei rischi, perché non ci vengono dall’esterno, in quanto è ormai la tecnica cheimmette rischio. Pertanto se un tempo ci si poteva assestare nello spazio

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prudente del rischio calcolato, oggi si è costretti ad assestarci sul calcolo deirischi. Questo sta a significare che oggi viviamo in una società in cui non ri-schiamo per difenderci da un pericolo, ma è piuttosto pericoloso non ri-schiare, perché significherebbe ‘essere in ritardo’. In una società difensivaera sufficiente ripararsi e ci si poteva così accontentare. Dal momento cheoggi il rischio è sì pericoloso, ma anche benefico, il costo-benefici non risul-ta bilanciato: quindi, se un tempo bastava difendersi dai pericoli, oggi è pe-ricoloso non rischiare. Una volta qualunque cosa facesse la scienza/tecnicaera premiata, perché in una situazione in cui i rischi derivanti dal mondoerano oltremodo elevati, a esempio nel caso di un’epidemia, in cui l’aggres-sività del mondo è molto alta, anche il modesto successo della salvezza dipoche persone, era gratificante. Oggi nonostante l’ampliamento dei succes-si si è scontenti della scienza, che risulta sempre in ritardo. Mentre un tem-po essa si inscriveva nella figura dell’emancipazione, e quindi qualsiasi sco-perta era progresso, oggi, per dirla con Gehlen, pur essendo stati esoneratida molti guai, abbiamo preso una tale consuetudine all’agio che il minimocontrattempo ci mette a disagio. Proprio in forza dei suoi stessi successi lascienza non ha abbassato le aspettative, ma le ha ampiamente innalzate. Noivogliamo sempre più scienza, ma al tempo stesso la temiamo perché nonpossiamo più calcolarne gli effetti. Ecco dunque la situazione di rischio nelvissuto di coloro che non fanno questo discorso filosofico e soprattutto vi-vono nella parzialità delle situazioni. Non dimentichiamo poi che non esistela scienza, ma si danno le scienze; quindi quando si dice ‘tecnica’ non si dicenulla, soprattutto per chi si mette su un piano puramente analitico descritti-vo, perché coi metafisici (che teorizzano ‘la scienza’ e ‘la tecnica’) si puònon essere d’accordo, ma allora bisogna smontare i principi, dimostrandoche il loro discorso non è coerente. La cosa più grave può essere, com’è na-turale, un pensiero mediocre, che non solo non ha dalla sua una metafisicagrande su cui discutere, ma manca anche di una analitica particolare, quindiè generico ed è ‘terrorista’. Mi spiego. Attraverso la tecnica si ingeneranopaure e anche questo è un business: si terrorizza con la tecnica, così poi io mipropongo con la mia scienza e…provo a curarti l’anima.

Immettiamo pertanto dei rischi che dobbiamo per forza di cose corre-re, perché se ciò non accadesse, vivremmo ‘in ritardo’, nell’arretratezza.Questo accade, perché il costo/benefici non si prospetta più in termini diemancipazione, ma di riduzione delle aspettative. Facciamo il caso dell’ener-gia. Quali le conseguenze, se non accetto il rischio? Non vado più in auto-mobile, e fatalmente il mio standard di vita cambia. La produzione indu-striale, a esempio, è uno dei fattori fondamentali collegati al rischio di tuttigli ecosistemi, ma possiamo forse evitarlo chiudendo il processo di produ-zione? Anche qui c’è una differenziazione interna, perché nella produzione

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industriale trovano il punto di convergenza diversi settori scientifici e il pro-cesso di produzione è differenziato al suo interno, per cui si devono pren-dere in considerazione segmenti in cui si immettono dei rischi senza saper-lo, perché non si ha presente il ciclo completo della prestazione. Se lo sichiede ai singoli operatori non si ottiene risposta soddisfacente, perchéognuno conosce bene lo sviluppo processuale del proprio segmento, maignora l’effetto finale della produzione. Nel caso, a esempio, di una grandeimpresa energetica dove il sistema produce un effetto complessivo, i singo-li, che pure hanno contribuito a provocarlo, non lo conoscono. L’economi-sta potrà rispondere in termini economici, il chimico in termini chimici,ignorando però sia l’uno che l’altro quale sia l’effetto generale del sistema.Siamo quindi alla presenza di fenomeni di definalizzazione. Non è affattovero che la scienza possa crescere illimitatamente: parlare di ‘onnipotenza’tecnologica significa fare dunque della litografia. La scienza non è onnipo-tente e inoltre non sa neppure calcolare i gradi della sua potenza.

In questo quadro viene da porsi un quesito. Solo la scienza può limita-re se stessa o vi è qualcosa d’altro che possa limitarla? Cercherò di dimo-strare il perché anche la seconda parte della domanda ha una sua possibilerisposta. Continuerei a rispondere affermativamente alla prima parte delladomanda. Probabilmente l’uomo con la scienza/tecnica non avrebbe maiinventato nulla, se non si fosse trovato di fronte a dei problemi. La scienzanasce infatti dall’aporia, con la variante che essa non è solo data, ma perchéa un certo punto del suo stadio evolutivo l’uomo diventa un essere aporeti-co il quale si pone problemi che non gli vengono più posti dalla natura, pro-prio per il fatto che egli ormai anticipa la stessa natura. Quindi l’uomo è ge-neratore di problemi, proprio in quanto tale è anche incentivatore di tecni-ca. Se dunque la tecnica non risolve problemi, ridimensiona se stessa ed en-tra così in una situazione critica; si interroga sui suoi criteri di verità, si chie-de poi se la strada che ha imboccato sia giusta piuttosto che sbagliata e si ri-formula in una critica immanente dal punto di vista cognitivo, in relazioneal provare e al riprovare. È quindi difficile che la pratica della tecnica assu-ma un atteggiamento di ‘superbia’, ponendosi in un ordine prospettico diverità; tale pratica, in quanto performance, non è né superba né umile, masemplicemente irresponsabile. Se si toglie infatti la dimensione della finalitàveritativa, allora è l’effettività della performance che la definisce. Facciamo quil’esempio della fisica teorica. All’inizio del secolo essa è associata a nomi,dagli anni cinquanta in avanti non esistono più nomi, ma i team e i gruppi.La scomparsa del nome pone in luce come tutte le performance crescono pergruppi separati, per team indipendenti. Quando non ha successo la scienzafa autocritica, ma quando ha successo essa sposta costantemente i limiti:questo non sta a significare che il limite venga eliminato, ma che è continua-

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mente ridefinito. D’altro canto la scienza è vincolata strutturalmente al limi-te, perché se si pervenisse a una condizione in cui non avesse più limiti,l’uomo smetterebbe di trasformare il mondo: diverrebbe un dio e, pertanto,non sarebbe più necessaria la scienza. La scienza, invece, tuttora c’è e conti-nua a prodursi: quanto più si riducono i limiti precedenti, tanto più si eleva-no le aspettative di successo e la situazione che viene a crearsi è quella diun’insoddisfazione costante, legata al pericolo sempre impellente, per cui sivorrebbe di più, ma non si sa dove si possa arrivare.

Si comincia così a formulare un dentro/fuori relativo alla scienza, ri-guardante un tempo inesistente. La scienza è messa in opera definalizzata diprestazioni o, per lo meno, finalizzata unicamente all’obiettivo della sua spe-rimentazione. Però poi i suoi effetti ricadono nella società. Un tempo la so-cietà si attendeva dalla scienza solo ‘salvezza’ e non aveva quindi la possibi-lità di costituirsi come spazio pubblico critico. Dal punto di vista cognitivol’unico modello critico di discussione era costituito proprio dalla scienza.Ricordiamo qui Dewey, il quale proponeva di parlare delle cose pubblichecosì come fanno gli scienziati, estendendo cioè il modello della scienza qua-le tecnica di discussione sociale in generale, quindi come paradigma cogniti-vo, ma anche comportamentale.

La scienza si trova nella difficoltà di calcolare gli effetti indesiderati dicui è causa, per cui la società che un tempo aveva un’aspettativa positiva neiconfronti della scienza, ora ha dubbi e timori. Nella dinamica del rischio, in-fatti, l’atteggiamento comune è di paura nei confronti della scienza, pur sen-za alcun atteggiamento ‘terroristico’ nel senso che dinanzi alle grandi sco-perte si tiene sempre in debito conto anche una percentuale di pericolo, difronte al quale si hanno molteplici reazioni. Ne indico due, quelle a mio giu-dizio più significative. Un tipo di reazione è arcaica, luddistica: se è vero chela scienza è un pericolo, allora distruggiamola. L’altro atteggiamento, invece,è quello di chi ha studiato la società del rischio e rende scientifica la suaprotesta. Se si pone attenzione ai dibattiti degli ecologisti nelle polemichecontro la globalizzazione, si trovano questi due schemi di critica: esistonocioè i noglobal e i newglobal. I primi hanno una reazione arcaica generalizzata:contro la tecnica difendono il locale, fanno resistenza a qualsiasi trasforma-zione, se si abbatte un albero fanno proteste e digiuni, anzi se si abbatte unalbero ammazzano un uomo, perché appunto essendo ecologisti eliminanoil male. Per i newglobal, invece, il problema è la professionalizzazione dellacritica. Pur non avendo una competenza specifica, la società chiede allascienza di legittimarsi dinanzi a sé, perché se è pur vero che la scienza ri-spetto alle sue procedure legittima se stessa, è pur vero che essa non ha lacapacità di dare risposta circa i suoi effetti. È allora la società che la interro-ga rispetto agli effetti e le chiede di legittimarsi. Si tratta così della professio-

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nalizzazione della critica che tende a rendere scientifica la società e la scien-za, legittimandosi e giustificandosi, diffonde la sua pedagogia, rendendopubbliche le sue ragioni. Tutti coloro che parlano contro la scienza sonopersonaggi che non solo non descrivono correttamente lo stato delle cose,ma anzi lo peggiorano, non sono animati da spirito critico, perché alimenta-no la stupidità degli uomini, da cui hanno modo di trarre il proprio profitto.C’è quindi da temere qualsiasi forma di antiscientismo. Il grande Heidegger,che esonero senz’altro da questa colpa, ha partorito però una massa enormedi irresponsabili del pensiero e gli epistemologi molto spesso prestano ilfianco agli attacchi heideggeriani, perché diventano apologisti involontaridello stato di fatto. Ci troviamo quindi nella forbice, tra gli irresponsabili ri-spetto ai grandi processi in atto nel mondo, e gli apologisti. Bisogna incenti-vare la professionalizzazione critica della scienza, perché essa può produrremolti effetti positivi nella società e alcuni già sono sotto i nostri occhi. Neindico qui due. Un primo effetto è quello di costringere la scienza, a frontedel rischio, a puntare a delle scoperte non rischiose e quindi la toglie dallapigrizia. Per esempio il discorso di puntare sulle energie alternative nascedal fatto che la società sollecita energia diversa da quelle offerte tradizional-mente. Bisogna smetterla, insomma, di lavorare sugli stessi paradigmi, chenon sono solo paradigmi scientifici, ma sono soltanto business, perché èchiaro che la scienza col tempo diventa macchina di potere che tende all’au-toconservazione. La critica sociale può suscitare così un diverso spiritoscientifico, facendo rinascere una ricerca disinteressata, alla ricerca di nuovefonti. Queste dunque le due dimensioni: una è appunto quella di incentivarenuove scoperte sotto questa spinta, l’altra è quella di incentivare l’aspettodisinteressato della ricerca scientifica.

Il sapere scientifico si autolimita e pertanto non si possiede un princi-pio che possa unificare le diverse scienze, perché la complessificazione delmondo ha prodotto differenziazioni interne ed esterne, dalle quali emergesempre di più la definizione di scienza e di pratica scientifica rispetto alcontesto. La distribuzione del sapere scientifico ha modificato il caratteredella ricerca, perché mentre un tempo la pratica scientifica era strutturatasecondo regole rispetto a cui c’erano poi delle applicazioni, oggi invece leapplicazioni sono sempre più ricorrenti e sempre più contestuali: le perfor-mance applicative, insomma, trasformano costantemente le regole. Tuttoquesto è funzionale come modello epistemologico, ma è da considerare piùattentamente nel suo specifico contesto sociale. Il fruitore della scienza di-venta oggi sempre di più attivo non più semplicemente fruitore di oggetti.È l’informatica che ci ha messo in questa nuova situazione: mentre prima siaveva il fruitore di manufatti, che comprava e consumava quello che lascienza produceva, oggi invece si è alla presenza di un consumatore che

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non divora semplicemente, ma è piuttosto un consumatore applicativo.Quindi il consumo della regola consuma la regola: mentre prima la tecnicaproduceva un bene, che veniva consumato, oggi invece la tecnica è appuntoapplicazione di applicazione e quindi il consumatore è esecutore attivo dellaregola, che trasforma in un costante feedback. Non a caso, e questo vale siaper la scienza, sia per l’economia, sia per la sociologia, ormai la nostra nonè una società che scambia beni, ma sempre più servizi. Quando si program-ma una vacanza attraverso Internet, a esempio, si consuma un bene, ma l’of-ferta della vacanza avviene nella forma di un servizio. Il bene offerto è cosìnella forma del servizio, ma anche la risposta è nella stessa forma, perchéproprio consumando il bene si dà immediatamente al servizio una fonte diinformazione, per cui il servizio in realtà si trasforma. In quanto recettore,il consumatore del bene modifica il servizio, perché ha un rapporto imme-diato nello scambio di informazioni. Viviamo pertanto in una società in cuii fruitori sono i suoi stessi modificatori. È proprio da questo punto di vistache può aprirsi uno spazio critico nei confronti della scienza, che non siapiù ‘arcaico’. Concludo ora con qualcosa con cui forse avrei dovuto comin-ciare: il sapere scientifico, l’ampliamento dei servizi, la moltiplicazione illi-mitata degli effetti nella nostra società hanno avuto come risultato la produ-zione illimitata di soggetti: è accaduto, cioè, esattamente l’opposto di quelloche sosteneva Herbert Marcuse quando, parlava dell’uomo a una dimensio-ne. Oggi viviamo infatti in una società a dimensione illimitata. Il problemapertanto non è quello dell’unidimensionalità, che identifica quanto i sogget-ti prodotti in questa società siano all’altezza di quella complessità che li pro-duce o ne siano vittime; la società potrebbe cioè bruciare quelle soggettivitàche pure produce. Nel mondo odierno il pericolo non è dunque l’unidimen-sionalità, ma è la situazione sociale, in cui riesce a trovarsi il soggetto di-sperso o la serie. Questi soggetti, prodotti nella complessità sociale, nonsono all’altezza della stessa complessità e pertanto hanno bisogno di trovarein essa delle ‘zone’ di riparo. La società è poi capace di produrre dinamichedi serializzazione, che arrivino a ‘situazionare’ i soggetti: non si è pertantoalla presenza dell’uomo a una dimensione, ma piuttosto di molteplici tecni-che di irreggimentalizzazione, che tendono a sottrarre i soggetti dall’ango-scia. La nostra società, a esempio, sviluppa sempre più l’intermediazione,con l’ausilio di educatori e di mediatori sanitari; come dire che oggi sonopiù gli ‘angeli custodi’ che le persone e questo non è affatto il segno di unbene per la società, ma piuttosto di un deficit di soggettività, per il quale siforniscono standard seriali di protezione.

Possono poi i soggetti essere centri attivi di produzione di resistenza?In questi ultimi anni mi sono interessato di affetti e di passioni non per ra-gioni sentimentali, ma per il fatto che tutta la grande filosofia moderna non

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ha fatto altro che studiare passioni: lo hanno fatto Spinoza, Hume, Leibnize i grandi moralisti francesi. Il soggetto si può costituire come punto di re-sistenza soltanto se è in grado di governare la propria potenza: l’unicomodo che ha di resistere alla tecnica è mediante l’esercizio della tecnica sudi sé. Questo sembra essere lo spazio inedito della stessa filosofia, che devesmettere di essere una disciplina, per arrivare a produrre soggetti. Bisognatornare con Socrate nell’agorà, nelle scuole ellenistiche deambulanti, deglistoici, degli epicurei e dei cinici. La filosofia inganna e deve essere propostacome forma di vita, perché soltanto le forme di vita sono luoghi di resisten-za rispetto all’impersonalità dei saperi. Se la filosofia resta un sapere imper-sonale risulta infatti infeconda: è anch’essa seriale e non dà alcun aiuto alsorgere di una diversa soggettività.

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LA LIBERTÀ NELL’ERA DELLA TECNICAUOMO E TECNICA

Lo scopo di questo scritto è di indagare i modi in cui, nell’età della tecnica 1,si possa parlare di libertà e come questa idea abbia subito delle modificazio-ni proprio in relazione al sistema tecnico nel quale siamo immersi.

Prima di avviare una riflessione sull’idea di libertà è opportuno occu-parsi del ruolo che oggi l’uomo occupa, andando a specificare il significatoche la tecnica ha nella strutturazione della sua stessa identità personale.

L’apparato tecnico pervade la nostra società e, inevitabilmente, strut-tura la costituzione stessa del nostro essere ‘soggetti’; il punto di partenza diquesta ricerca è pertanto quello di evitare quel luogo comune che pensa imedia come strumenti neutrali, che possano essere utilizzati senza essernecontaminati 2. L’uomo, in quanto ‘essere al mondo’, non può prescinderedal fatto che avendo a che fare con enti utilizzabili li trasforma, ma ancheviene da essi immancabilmente trasformato.

In particolare, i media che veicolano le informazioni si costituisconocome un apparato, che coinvolge l’uomo stesso; il telefono, la televisione eil computer non sono pertanto e semplicemente strumenti che permettonodi raggiungere un fine, dal momento che, singolarmente considerati, sareb-bero assolutamente inadeguati a tale scopo, ma piuttosto, in quanto mezzidi comunicazione, svolgono il loro scopo solo perché sono in relazione conaltri oggetti simili. La relazione tra i vari media esprime la funzione comuni-

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1 Sul concetto di «età della tecnica» ci sembra interessante quanto sostiene UmbertoGalimberti che cerca di sottolineare le trasformazioni che alcuni concetti tradizionali comenatura, etica, identità, libertà, verità, religione, storia hanno subito nel tempo in cui dominala tecnica moderna (cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltri-nelli, 2002).

2 La tesi sulla non neutralità dei media è sostenuta in modo particolare in M. McLuhan,Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 1976.

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Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

cativa di questi oggetti e dà loro un senso, andando anche a modificare lerelazioni tra i soggetti che ne fruiscono.

La relazione tra strumenti costituisce una rete di connessioni senza laquale la comunicazione è totalmente assente. La rete, come quella che colle-ga i diversi computer in Internet, è un mondo, non uno strumento cheognuno può usare per i propri fini. Essa, poi, non può essere neutrale, inquanto coinvolge e trasforma tutti quelli che ne sono partecipi e d’altro can-to anche la decisione del singolo individuo di rimanere ‘in disparte’ in unmondo costituito dalla comunicazione, è illusoria, essendo praticamente im-possibile prendere le distanze da quel mondo che struttura la nostra identità.

La rete delle telecomunicazioni è oggi il nostro habitat; anche se nonassicuriamo a essa la nostra diretta partecipazione, non sfuggiamo a unacerta modalità di darsi a noi della realtà, coinvolti come si è nel dialogo enell’interazione con altri che navigano in Internet o guardano la televisione.Lo scopo della comunicazione risiede nella descrizione del mondo; avvienecosì una sorta di rivoluzione nella nostra percezione del mondo, in quantoogni avvenimento acquista senso solo nella misura in cui può essere comu-nicato e diventa fruibile per il tramite dei sistemi comunicativi.

L’informazione non consiste nel resoconto ‘oggettivo’ di avvenimen-ti, ma è la loro vera e propria costruzione. I fatti non accadrebbero se i me-dia non ne dessero notizia in modo adeguato, non solo perché alcune azio-ni non avrebbero rilevanza, ma proprio perché molte non verrebbero nep-pure compiute.

L’idea di mondo delle telecomunicazioni presuppone poi che ogni par-te del sistema acquisti senso nella relazione, in quanto ogni singolo elemen-to esiste solo in funzione del tutto e l’oggetto ha senso all’interno della retedi connessioni di cui è parte. Ogni oggetto-strumento è un ente utilizzabi-le 3, ossia la sua essenza risiede nella utilizzabilità. Lo strumento del sistematecnico ha dignità ontologica in forza della propria funzione e tutto ciò chenon appartiene al sistema non può che essere considerato niente, ossia nonpossiede alcun valore ontologico.

La rete nella quale siamo inseriti è da intendersi come sistema aperto,sempre in divenire, che modifica il senso degli oggetti che ne fanno parte.Per questa sua continua evoluzione il sistema della tecnica rende difficile lariflessione e la presa di consapevolezza delle dinamiche e del ruolo dei sog-getti che ne sono coinvolti. La difficoltà di comprensione produce due at-teggiamenti opposti: un sentimento di inadeguatezza nei confronti di unarealtà che non si può controllare e di cui non si prevedono gli sviluppi, ma

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3 Sul tema dell’utilizzabilità dell’ente si faccia qui riferimento alla riflessione presente inM. Heidegger, Essere e Tempo, Milano, Longanesi, 1995, pp. 92-98.

anche, al contrario, un sentimento di dominio, dato dal potere degli stru-menti tecnici nei confronti della natura.

Sia il sentimento di inadeguatezza e sia quello di dominio hanno origi-ne dalla stessa illusione: si crede che l’uomo sia libero di prendere le distan-ze o di accettare il mondo al quale appartiene. Sia l’atteggiamento di rinun-cia di fronte all’impianto tecnico che non controlliamo, sia quello di fiduciaottimistica che considera gli oggetti come strumenti tesi a migliorare la qua-lità della vita, presuppongono spazi di libertà e di decisione che risultanosempre più limitati. È sempre più difficile, infatti, ritagliarsi spazi al di fuoridel sistema-mondo nel quale si è inseriti, nel tentativo illusorio di costruirsiuna realtà su misura, di dimensioni limitate e private, così come è impensa-bile l’idea positivista di controllo completo della natura da parte dell’uomo.

1. SPAZIO E TEMPO NELL’ERA DEI MEDIA

Il mondo contemporaneo viene descritto dai media che producono una rap-presentazione della realtà, che altera le coordinate spazio-temporali dellenostre percezioni tradizionali, che si trasformano nella rete di connessioninella quale sono inseriti. Sullo schermo televisivo o su quello di un compu-ter sono presenti, infatti, tutti gli eventi simultaneamente, in modo cheognuno di essi non possa essere percepito nella propria singola irripetibilità,ma venga confuso nella totalità indistinta dei fatti.

La condizione del soggetto, che percepisce ogni avvenimento senza ilcorretto distacco spazio-temporale, è quella dell’onnipresenza che permettedi essere dappertutto, ma allo stesso tempo in nessun luogo, indebolendocosì il principio di individuazione che si basa proprio sulla percezione dispazio e tempo. Disperso nella totalità delle rappresentazioni, l’individuo hala falsa impressione di poter conoscere la totalità del mondo fenomenico,mentre ne conosce solo l’immagine, che risulta in continuo movimento.

Il fenomeno della dispersione del principio di individuazione mette inevidenza la non neutralità dei mezzi di comunicazione, che arrivano a modi-ficarci qualunque sia lo scopo per cui li impieghiamo e indipendentementedalla finalità che loro attribuiamo.

L’esperienza che abbiamo del mondo attraverso i media è indiretta inquanto siamo esonerati dall’andare direttamente nel luogo dell’evento. Ac-cade così che i media rendono vicino ciò che è lontano, fanno apparire ciòche è assente, permettendoci di venire in contatto, non tanto con l’eventoin sé, ma con l’interpretazione che altri hanno avuto di esso. L’esperienzaindiretta è la prerogativa di ogni narrazione che trasporta il lettore in un

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contesto, che è mediato dall’interpretazione di un autore. La differenza tra imedia moderni e la narrazione è di tipo quantitativo, in quanto diviene sem-pre più difficile per l’uomo contemporaneo sfuggire dalla grande narrazio-ne che la tecnica moderna produce intorno a noi, descrivendo un mondoche è sempre mediato dall’interpretazione altrui.

La mediazione di chi produce programmi televisivi, film, pubblicitàdescrive un mondo codificandolo attraverso immagini e suoni che diventa-no un modello condizionante. Si produce un effetto di codifica che ripro-duce, in modo meccanico, alcuni standard nella produzione di programmi e,allo stesso modo, induce a comportamenti stereotipati tutti quelli che ap-partengono a questo tipo di rappresentazione del mondo.

Il risultato della codificazione dell’informazione è l’omologazione neicomportamenti sociali che diventano riproducibili e stereotipati. È inevitabi-le quindi anche il giudizio morale nei confronti di tutto ciò che non appartie-ne a questa omologazione del mondo 4 e che, in qualche modo, si discostadalla riproducibilità in serie dei comportamenti. L’informazione dei mediapermette di leggere il mondo, ossia dà la possibilità di descrivere e quindi diprodurre un mondo che sia leggibile attraverso schemi comuni e condivisi. Ilmondo dei media porta a compimento l’obiettivo della rivoluzione scientificache aveva tentato di adattare il più possibile il mondo all’uomo, riducendo imargini di resistenza e di incomprensibilità della natura. Il mondo viene rias-sorbito in una rappresentazione che non deve essere nuovamente interpreta-ta, ma che è sempre a disposizione dei fini umani e del suo utilizzo.

La natura intesa come utilizzabile è anche il centro della riflessione diHeidegger 5 che interpreta la tecnica come ciò che porta a manifestazionequello che in natura è ancora celato, permettendo alla natura di palesare il suofondo; esso non è altro che il fine ultimo della natura: la sua utilizzabilità. Latecnica ci permette di cogliere il non-ancora della natura, il suo fine che èpensato, nella lettura di Heidegger, come qualcosa che è in vista dell’uomo.

La tecnica moderna annulla ogni resistenza del mondo, deve fare ap-parire ciò che è fondo, ciò che ancora non è mondo, quindi deve ridurretutte le resistenze che l’uomo ha incontrato nel suo venire al mondo ren-dendo la realtà sempre più a misura dell’agire umano. Annullare le resisten-ze del mondo attraverso la tecnica non è un’operazione priva di conseguen-

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4 Interessante è la riflessione che avvia Foucault sul dispositivo come ciò che producecomportamenti omologati, riproducibili e quindi controllabili (cfr. M. Foucault, Sorvegliare epunire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976, pp. 213-251).

5 Heidegger sembra avvalorare la tesi della natura come ciò che non ha ancora mostra-to il suo vero e più profondo volto. La tecnica svela la realtà della natura come impiegabilità,come ciò che si mostra in vista dei fini umani, senza alcun residuo o lato nascosto (cfr. M.Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1980).

ze. Il mondo perde infatti la sua autonomia di spazio e tempo e diventa soloquell’immagine che continua a essere mostrata dai media. Essa non chiedepiù di essere interpretata, perché nel momento in cui è veicolata dai media ègià interpretata, adatta all’uomo e pronta per i suoi scopi.

2. TECNICA MODERNA E ANTICA

Le modificazioni che la tecnica produce sono continue e profonde; esse ri-guardano i cambiamenti di proporzioni, di spazio e di tempo, di ritmo e dischemi con cui avvengono le relazioni tra gli esseri umani 6. La tecnica mo-derna aumenta la velocità dei cambiamenti e rende sempre più difficile lapossibilità dell’uomo di adeguarsi alle trasformazioni della realtà che lo cir-conda e sembra travolgerlo.

La differenza tra la tecnica moderna e quella antica non è solo quanti-tativa, ma anche qualitativa in quanto le trasformazioni della nostra societàhanno creato una sovrastruttura che modifica il modo stesso di percepire larealtà. La sovrastruttura, che condiziona la relazione dell’uomo con la tecni-ca, pone le sue basi nella rivoluzione scientifica del ’600 e nella nascita dellascienze moderne, che diventano analitico-sperimentali, con il compito diosservare la natura e riprodurre i suoi nessi causali in laboratorio attraversol’esperimento. La matematica diventa il linguaggio per descrivere la natura,percepita come una macchina sempre determinata da rapporti di causa e dieffetto. Galilei è il primo a utilizzare il cannocchiale per fini scientifici, nel-l’osservazione diretta del cielo, con l’intento di dimostrare l’esattezza del si-stema matematico copernicano. Come matematico e come filosofo Cartesioporrà il soggetto come punto di partenza pensante che può conoscere ilmondo naturale attraverso la trasposizione degli oggetti negli assi cartesianicon la matematica e la geometria.

L’antropologo Arnold Gehlen 7 insiste sul fatto che la differenza quali-tativa della tecnica moderna si basa sull’unione e sull’azione reciproca di trediversi fattori: le scienze naturali, la tecnica intesa come costruzione di mac-chine e di meccanicismi e il sistema industriale capitalista. Questi tre ele-menti sono la base della struttura che regola le trasformazioni della tecnicamoderna in quanto la loro relazione ha generato l’accelerazione che è tipicadella nostra società. Lo scienziato e il tecnico sono costretti a dialogare tra

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6 McLuhan è stato tra i primi a mettere in evidenza i mutamenti antropologici prodottidai media nell’uomo (cfr. M. McLuhan, Strumenti del comunicare cit., p. 70).

7 Si veda A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Roma, Armando editore, 2003, pp. 31-36.

loro, perché le scienze si sviluppano grazie a risorse tecniche nuove ed è ilmercato a dettare, sempre più spesso, le regole delle innovazioni e dei cam-biamenti. Le innovazioni tecnico-scientifiche, infatti, non sono più mono-polio delle Università, ma vengono prodotte da enti di ricerca privati, gestitio finanziati direttamente dalle grandi industrie. La tecnica moderna, insom-ma, è stata prodotta dal cambiamento di paradigma avvenuto durante la ri-voluzione scientifica che ha causato la fusione della capacità di costruire ma-nufatti con il sapere delle scienze e con le regole dell’economia capitalista.

Gehlen sottolinea anche il ruolo dell’elemento irrazionale nello svi-luppo della tecnica che non è solo applicazione razionale di regole scienti-fiche. La tecnica antica ha mostrato il legame inconscio e magico tra l’uo-mo e il mondo, testimoniato dalla diffusione della magia in quasi tutte leculture antiche che attribuivano un valore di sacralità ai diversi manufattidella tecnica. Gehlen sostiene che la tecnica moderna, pur evidenziandouna struttura razionale e analitica, è un processo involontario, non control-labile dal singolo individuo e che radica la propria essenza nelle struttureinconsce e profonde dell’uomo.

Il bisogno che l’individuo sente di inserirsi nella natura cercando poidi differenziarsi da essa è sicuramente istintivo e a-razionale. Il rapporto tral’uomo e il mondo è dato poi dall’azione, infatti, il desiderio più antico èquello di stabilizzare e ritualizzare gli eventi della natura per poterli control-lare. L’utensile, l’arnese sono quindi oggettivazioni delle azioni umane, dellavoro che si distacca dal soggetto per essere potenziato dagli strumenti del-la tecnica. La pietra, a esempio, è una rappresentazione del pugno, sostitui-sce e amplifica gli effetti della mano, diventando più efficace e permettendoun controllo migliore della realtà esterna.

Per la sua stessa costituzione antropologica, afferma Gehlen, l’uomotende all’esonero e all’agevolazione del proprio lavoro, ossia al risparmiodelle energie, mentre in realtà gli utensili alleviano solo parzialmente dallafatica fisica. Un’altra tendenza inconfessata e istintiva della tecnica è lo svi-luppo della consuetudine, della normalizzazione degli effetti, del quotidianoche può tranquillizzare.

Le tendenze al risparmio di energie e alla normalizzazione della natura,percepita come oggetto, sono tra le cause principali della diffusione della tec-nica nelle diverse società umane anche in contesti geografici, culturali e tem-porali profondamente diversi. Queste tendenze agiscono in modo inconscionella costituzione dei manufatti della tecnica antica fino alla realizzazione deimeccanismi più complessi e automatici della tecnica moderna. Il carattere ir-razionale e magico della tecnica rimane anche in quella moderna come ele-mento che spinge l’uomo a potenziare le proprie azioni e a oggettivarle me-diante il suo caratteristico metodo razionale, matematico e sperimentale.

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3. GLI SPAZI DELLA LIBERTÀ

Osservando il miglioramento delle condizioni di vita e il potenziamento de-gli strumenti a nostra disposizione, in linea di principio si potrebbe affer-mare che la tecnica ha ampliato gli spazi della libertà individuale e la possi-bilità decisionale del singolo individuo. Tale affermazione evidenzia peròuna visione superficiale del rapporto che intercorre tra i media e le modifica-zioni dell’idea stessa di identità personale. Il miglioramento delle condizionidi vita economiche e sociali, infatti, non basta a provare che il soggetto haaumentato anche la propria possibilità di scelta, come sembra provato dalsentimento di disagio e di rinuncia, tipico della contemporaneità.

Intendiamo qui con ‘libertà’ l’assenza di bisogno, che permette all’uo-mo di dedicarsi alla contemplazione, allo studio o all’ozio. I Greci, per pri-mi, hanno pensato all’idea di libertà come assenza di bisogno intendendocosì distinguere il cittadino (o uomo libero) dallo schiavo, che era costrettoa lavorare e pertanto impossibilitato a vivere alla ricerca della felicità. Nel-l’Etica Nicomachea troviamo scritto:

di quanto dunque si estende la speculazione, si estende anche la felicità, e coloro aiquali maggiormente compete il contemplare saranno anche maggiormente felici,non per accidente, ma in virtù della contemplazione stessa: giacché questa di per sestessa è degna di onore. Di conseguenza la felicità consisterà in una certa forma dicontemplazione. Ma poiché è un uomo il sapiente avrà bisogno anche della prosperi-tà esteriore: infatti la natura umana, non basta a se stessa per esercitare la contempla-zione, ma occorre anche che il corpo sia in buone salute e che abbia nutrimento eogni altra cura. 8

Aristotele afferma, quindi, che la felicità è connessa alla contemplazione eche per potersi dedicare alla vita speculativa non ci si deve preoccupare del-le necessità corporali. La felicità è dunque libertà dal lavoro che però nonpuò essere estesa a tutti: per questo sono necessari gli schiavi, che rendonopossibile la libertà dei cittadini.

Nelle Lezioni sulla filosofia della storia 9, Hegel critica questo concetto di li-bertà, affermando che Aristotele concepisce la libertà sempre come limitataagli individui e mai come idea universale. Egli crede così di spostare i termi-ni del problema in modo radicale, ma la sua critica non coglie nel segno, inquanto l’idea di libertà proposta, proprio perché universale, non è concreta:riguarda l’umanità intera, ma nulla è in grado di dire della libertà degli uomi-ni nella loro vita quotidiana. L’idea hegeliana di libertà pecca di astrazione, in

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8 Aristotele, Etica Nicomachea, Libro X, § 8-9, Milano, Rizzoli, 1993, pp. 873-875.9 Cfr. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 88-107.

quanto diviene un concetto assoluto, tutt’uno con la necessità, e risulta poivuoto, perché non è esperibile in nessun modo dal singolo individuo.

Critico dell’impostazione hegeliana è Nietzsche, il quale afferma chela schiavitù, come era concepita dal mondo greco e comunque in ogni altraforma, è necessaria nella società per garantire la libertà di una minoranzadi cittadini:

perché esista un terreno vasto, profondo e fertile per lo sviluppo della cultura che èsoprattutto un veritiero bisogno di arte, la stragrande maggioranza degli uomini deveessere al servizio di una minoranza, deve essere sottomessa – in una misura superio-re alla sua miseria individuale – alla schiavitù dei bisogni della vita. A spese di questamaggioranza e attraverso il suo lavoro supplementare quella classe privilegiata deveessere sottratta alla lotta per l’esistenza, per produrre un nuovo mondo di bisogni esoddisfare a questi. Conformemente a ciò dobbiamo trovarci d’accordo nel conside-rare come verità – che suona crudele – l’affermazione che la schiavitù rientra nell’es-senza di una cultura: una verità certo che non lascia alcun dubbio sul valore assolutodell’esistenza. 10

La libertà da conquistare mostra così tutto il suo lato crudele nella necessa-ria schiavitù della maggioranza che rende possibile il manifestarsi di spazi li-beri per una minoranza privilegiata che solo così è in grado di produrre cul-tura e arte. La concezione greca di libertà sarebbe così l’unica possibile e ilsuo limite risiederebbe nei confini troppo soggettivi e poco chiari tra il pa-drone e lo schiavo.

Il cambiamento di paradigma tra cultura antica e moderna non sta al-lora nel fatto che la nostra società è diventata consapevole di un’ideaastratta di libertà, ma nel fatto che, dall’epoca moderna in poi, nel rappor-to padrone-schiavo prevalgono gli elementi oggettivi su quelli individuali.Il rapporto del signore con i suoi sottomessi diviene sempre più oggettivoe tecnico senza, per questo, cessare di esistere e di ampliare gli spazi di li-bertà individuale.

L’oggettività dei rapporti si ottiene per il fatto stesso che la coercizio-ne non coinvolge completamente la persona, ma solo il prodotto del suo la-voro. I rapporti tra il datore di lavoro e suoi dipendenti coinvolgono infattisolo la prestazione e la quantità di prodotto che il dipendente deve assicura-re. Il denaro diviene lo strumento più ‘oggettivo’ per misurare e quantifica-re i rapporti di lavoro, in quanto viene a coincidere con il prodotto stesso.Non è, quindi, necessario alcun mezzo di coercizione come nelle società an-tiche, perché la vita personale dell’individuo è completamente esclusa dalrapporto di lavoro. Chi ha un determinato obbligo può saldarlo recuperan-

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10 F. Nietzsche, Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, Milano, Adelphi, 1980, pp.226-227.

do denaro in ogni parte del settore produttivo, senza essere vincolato ad al-cuna tipologia di lavoro.

Grazie alla sua oggettività e impersonalità, il denaro permette di libe-rare dai vincoli della schiavitù personale, divenendo così lo strumento idea-le della tecnica moderna, la cui razionalizzazione è da intendere come il ten-tativo della ragione di calcolare in termini matematici i fondamenti stessi delpensiero 11. Il denaro è quello strumento della ragione calcolante in grado dispersonalizzare ogni rapporto che non si basa più sui vissuti personali e psi-cologici dell’individuo, ma su prodotti quantificabili e impersonali.

La rimozione dell’elemento soggettivo e personale è poi facilitata nonsolo dalla struttura economica, ma anche dall’aumento di complessità degliapparati tecnici, la cui crescita è indipendente dal singolo individuo.

All’interno dell’apparato tecnico l’uomo è ridotto a una funzione e alprodotto del suo lavoro. La sostituibilità del singolo e l’aumento delle rela-zioni tra individui, che crescono in base alla complessità della società nellaquale si è inseriti, lasciano al soggetto ampi spazi di libertà, in quanto non viè più la necessità di esprimere la propria peculiare individualità nel mondolavorativo o in rapporti unidirezionali e vincolanti. Il problema è che la cre-scita di questa idea di libertà, dovuta alla complessità delle relazioni e allasostituibilità dell’individuo, rende sempre più difficile trovare un luogo dovepossa essere espressa. Si tratta pertanto di una libertà soltanto potenziale,che difficilmente trova una concreta realizzazione e, soprattutto, un indivi-duo che la realizzi.

4. LA SPERSONALIZZAZIONE DEI SOGGETTI

La spersonalizzazione che è richiesta dai rapporti lavorativi propri della mo-derna società produce una continua frammentazione di quelle caratteristi-che fisiche e intellettuali dell’individuo che sempre più difficilmente arriva-no a sintetizzarsi a inclinazioni e a competenze in una visione unitaria cheproduca l’identità personale, per il fatto che la tecnica tende a esaltare leprestazioni e il ruolo sociale, privilegiando così la sola dimensione legataalle competenze professionali e annullando tutte le altre caratteristiche chedovrebbero concorrere a produrre l’intera personalità.

Spiega Marcuse che

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La libertà nell’era della tecnica. Uomo e tecnica

11 Heidegger ci ricorda come sia proprio il concetto di ‘ratio’ moderna a basarsi sul-l’idea di misurazione, ossia sul rendere conto (cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, Mi-lano, Sugarco, 1996, pp. 81-82).

l’apparato produttivo tende a divenire totalitario nella misura in cui determina nonsoltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche ibisogni e le aspirazioni individuali. In tal modo esso dissolve l’opposizione tra esisten-za privata ed esistenza pubblica, tra bisogni individuali e quelli sociali. La tecnologiaserve per istituire nuove forme di controllo sociale, più efficaci e più piacevoli.[…] V’èsoltanto una dimensione, che si ritrova dappertutto e prende ogni forma. 12

La personalità non può esprimersi dunque se non limitandosi a quel tipo diprestazione unilaterale in cui l’apparato della tecnica la immobilizza, ren-dendo oggettiva la prestazione del singolo individuo; esempio paradigmati-co di questa situazione è quello dell’impiegato che è costretto a funzioni ri-petitive e alienanti, senza la possibilità di uscire dagli schemi della sua pro-fessione e soprattutto senza avere la possibilità di mettere in gioco la suapersonalità. Analogamente Heidegger, proponendo l’esempio della guardiaforestale, a proposito del ruolo dell’individuo scrive:

la guardia forestale che nel bosco misura il legname degli alberi abbattuti e che appa-rentemente segue nello stesso modo di suo nonno gli stessi sentieri di suo nonno èoggi impiegata dall’industria del legname, che lo sappia o no. Egli è impiegato al finedi assicurare l’impiegabilità della cellulosa, la quale è a sua volta provocata dalla do-manda di carta destinata ai giornali e alle riviste illustrate. Questi a loro volta dispon-gono il pubblico ad assorbire le cose stampate, in modo da divenire impiegabile per lacostruzione di una pubblica opinione costruita su commissione. 13

Qui si sostiene che viene a costituirsi un sistema complesso di relazioni pre-costituite, attraverso le quali la guardia forestale svolge il proprio ruolo mo-strando competenze, senza avere in realtà nessuna possibilità di scelta e sen-za mettere mai in discussione la propria individualità. Costituire parte del si-stema della tecnica significa immedesimarsi completamente nel ruolo pro-fessionale che viene assegnato, consapevoli della propria sostituibilità.

L’aumento degli spazi di libertà diventa così semplicemente illusorio ela libertà è impersonale, perché non sono mai in gioco le qualità dei singoli,ma piuttosto l’intreccio degli obblighi e la eventuale liberazione dagli stessi.La scelta si riduce allora a un cambiamento di compiti, alla possibilità di co-struirsi competenze diverse o di cambiare professionalità.

La libertà impersonale è pertanto libertà di scelta non della personalitàda esprimere, ma del tipo di ruolo da assumere. Questa idea di libertà, tipi-ca di una società ad alto contenuto tecnologico, amplifica la concezione dilibertà già presente nelle società antiche, intesa come diritto di obbedire odisobbedire, di resistere o di violare, trasformandola in possibilità di sceltatra diversi ruoli.

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12 H. Marcuse, L’uomo a una sola dimensione, Torino, Einaudi, 1967, pp. 13-14.13 M. Heidegger, La questione della tecnica cit. p. 13.

La separazione tra la persona e la sua prestazione permette al sistemadi costituirsi indipendentemente dagli individui coinvolti: l’apparato tecnicos’impone infatti, perseguendo regole che non prendono in considerazioni isoggetti e, viceversa, le vite dei singoli individui possono darsi senza tenerein alcuna considerazione le esigenze complessive del sistema.

In questo modo, ogni individuo finisce per elaborare un sistema di re-lazioni personali, nel quale può esprimere la propria personalità.

La libertà impersonale, che aumenta in relazione al crescere delle pos-sibilità di scelta offerte nella società della tecnica, non coinvolge mai diretta-mente il nucleo soggettivo dell’individuo, ma retroagisce su di esso. Le azio-ni impersonali, legate al ruolo professionale e quantificate dalle regole delsistema nel quale si è coinvolti, agiscono sempre infatti sulla personalità del-l’individuo. Il risultato di questo processo è che l’identità sociale è garantedell’identità personale, per cui le scelte e le competenze acquisite nel ruolosociale modificano anche le trame profonde dell’identità personale.

Scrive Habermas in proposito:

la sociologia non si accontenta della separazione analitica fra sistema sociale (messa inscena di un dramma) e struttura della personalità (l’attore come persona privata), macerca di spiegare la formazione della struttura della personalità dei soggetti agenti stes-si a partire da processi socialmente condizionanti: cioè dei processi di socializzazione.Essi fanno sì che un substrato, cioè l’organismo del neonato, venga ‘penetrato’ dastrutture sociali, fino al punto di poter soddisfare le istanze fondamentali dell’interpre-tazione dei ruoli e operare in base alle norme vigenti. […] In ciò il processo di socia-lizzazione è anche un processo di individualizzazione. 14

Qui si afferma che l’identità personale è prodotto dalla continua interazionesociale. Le azioni quotidiane, legate al ruolo professionale e alle competen-ze, strutturano l’identità profonda del soggetto, in quanto gli permettono diproporre la propria identità, distinguendosi dagli altri e ottenendo anche ilriconoscimento di tale differenza. L’assunzione di un ruolo è condizionedella formazione di un’identità personale, anche se le scelte che determina-no il ruolo riguardano, in modo oggettivo, solo le competenze professionaliche possiamo acquisire.

La spersonalizzazione del soggetto produce una sempre maggioreomologazione delle relazioni tra individui, nonostante l’aumento degli spazidi libertà, che è qui intesa come possibilità di movimento tra i diversi ruoli,possibilità di aumento delle competenze e anche distanza tra le varie posi-zioni lavorative.

La distanza dal ruolo, ossia la non identificazione dell’individuo con lasua stessa collocazione sociale è da considerare un atto di libertà, che coin-

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La libertà nell’era della tecnica. Uomo e tecnica

14 J. Habermas, Cultura e critica, Torino, Einaudi, 1980, p. 79.

cide con un tentativo di resistenza alla spersonalizzazione, verso la quale lacomplessità della società sembra condurre. L’individuo è così scisso tra lafunzione sociale, che in qualche modo retroagisce sulla sua personalità, e iltentativo di creare spazi di libertà quotidiani, sempre più privati e lontanidal mondo sociale.

5. UNA LIBERTÀ POSSIBILE

Nell’età della tecnica moderna la libertà individuale rischia di essere solo untermine svuotato di significati precisi, in quanto la scelta si riduce alla possibi-lità di cambiare le proprie competenze all’interno di ruoli che sono impostatidagli apparati sociali in cui si è inseriti. Queste considerazioni non devono in-durre a un atteggiamento negativo nei confronti degli strumenti tecnici, mapiuttosto a una sempre maggiore consapevolezza del nostro status esistenziale.

L’affermazione che la nostra essenza è tecnica 15, sta a significare chel’uomo non sarebbe sopravvissuto all’ambiente naturale senza l’ausilio del-la sua capacità tecnica e che possiede una capacità di adattamento al conte-sto che gli permette di trasformarsi, trasformando il mondo in cui vive.L’unica libertà che gli è concessa è di non rinunciare a inventare la tecnica,cercando di prevederne e anticiparne gli effetti. Questa capacità prometei-ca 16 nasce proprio dall’accettazione della propria essenza e da un atto discelta individuale.

Nella società contemporanea, però, è sempre più difficile prevedere ifini di una determinata azione, per cui diventa pressoché impossibile calco-lare gli effetti di ogni trasformazione. Questo rappresenta il rischio maggio-re per l’uomo moderno che, non potendo anticipare e prevedere, o si illudedi essere libero o fugge in sfere private sempre più limitate e frammentate.

Libertà sta a significare accettazione o negazione di una situazione eaumento o diminuzione della propria consapevolezza nei confronti del

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15 Gehlen afferma che l’uomo è per natura sociale ma anche tecnico, perché il mondoche vive e abita può evolversi solo grazie ad artifici tecnologici. L’uomo è da sempre un esse-re artificiale che manifesta un legame artificioso con la natura la quale rappresenta la condi-zione essenziale del suo esistere (cfr. A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica cit., pp. 29-44).

16 Prometeo rappresenta la figura mitica che ruba il fuoco agli dei per consegnarlo agliuomini. Prometeo consegna agli uomini la tecnica affidando a loro la possibilità di utilizzare,in modo consapevole, qualcosa che non possono dominare completamente e che racchiudein sé l’elemento del pericolo. La capacità prometeica è l’abilità di immaginare e anticipare glieffetti e le conseguenze delle trasformazioni della realtà, è, quindi, una capacità che tende asuperare i limiti della natura umana e nasce dalla libera accettazione del nostro destino (cfr. C.Galimberti, Psiche e Techne, cit. pp. 714-715).

mondo in cui siamo. L’accettazione o il rifiuto non producono solo un cam-biamento di sensazioni nell’uomo, ma determinano delle azioni che produ-cono effetti e trasformazioni. Accettare che la nostra essenza si basi sullatecnica produce pertanto uno slancio attivo nei confronti degli strumentiche ci circondano, un aumento della consapevolezza dei rischi e dei benefi-ci di ogni nostra azione e stimola, in particolare, l’immaginazione e la capa-cità di anticipare, per quanto è possibile, quale sarà il paradigma della socie-tà futura. La scelta opposta è quella di ostinarsi a negare che le trasforma-zioni in atto riescano a modificare la nostra identità più profonda. Inoltrenegare che la nostra essenza sia tecnica significa, in ultima analisi, credere dipoter rompere il rapporto che ci lega al mondo, alla ricerca di spazi privati,nei quali vivere la propria vita, con il rischio di trovarsi divisi tra il proprioruolo sociale e la dimensione interiore e privata.

La libertà ancora possibile per l’individuo è allora quella di accettare ilrischio che si corre in questa situazione, continuando a utilizzare la propriaimmaginazione anticipatrice, nell’intento di comprendere le trasformazioniche costantemente modificano noi e il nostro contesto. Tale scelta, che av-viene nell’individuo senza alcuna possibilità di calcolarne gli effetti, è unaspecie di atto gratuito verso se stessi e verso il mondo, che pone in essereindividui attivi e consapevoli, piuttosto che passivi e controllabili.

La scelta di accettare la tecnica come nostra essenza evita un atteggia-mento di rinuncia e promuove al tempo stesso un modello cooperativo diazione e di pensiero 17, recuperando e sviluppando la capacità prometeicadell’uomo di anticipare e di prevedere le trasformazioni che costituiscono ilnostro comune destino.

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La libertà nell’era della tecnica. Uomo e tecnica

17 Il modello cooperativo di pensiero presuppone l’idea di una continua interazionetra i soggetti che vanno a costituire la propria identità nella relazione con gli altri attraversola creazione di una rete di collegamenti. L’uomo è in relazione con gli altri individui e fa par-te di una rete di connessioni che si modificano reciprocamente producendo sempre stimolinuovi e diversificati (cfr. P. D’Alessandro, Critica della ragion telematica, Milano, LED, 2001, pp.201-254).

Igino Domanin

TECHNE E LOGOSSULLA GENEALOGIA DELLA PRATICA FILOSOFICA

La svolta linguistica nella filosofia del ventesimo secolo ha mostrato comeesista un legame costitutivo tra le forme del linguaggio e l’elaborazione deldiscorso filosofico. In particolare, la crisi delle grandi sintesi idealistiche e ladifficoltà di elaborare una comprensione del mondo su fondamenti di tipometafisico approdava a tentativi di radicale abbandono dei codici comunica-tivi e delle strutture argomentative classiche. Il testo filosofico mutava pellee veniva problematizzato nei suoi recessi più intimi. La scrittura aforisticaprendeva il posto della costruzione sistematica (Nietzsche, Adorno, Witt-genstein). Nuove modalità di rappresentazione del pensiero in un sistemacomunicativo di segni si affacciavano sulla scena (Frege, Peirce), fino agiungere alla conclusione che un superamento delle cruciali difficoltà dellametafisica dovesse essere affidato a una presa di congedo dalla razionalitàimmanente ai canoni della logica metafisica e ai suoi vincoli espressivi (Hei-degger). Bisognava confrontarsi con altri linguaggi, con altre modalità dicomunicazione.

La filosofia diveniva così ascolto di una parola che proviene dall’ester-no, con la quale essa deve entrare in attento dialogo e deve sforzarsi di in-terpretare. La filosofia, cioè, doveva abbandonare i rigori e le rigidità delleforme logiche consolidate, cercare nuove vie di connessione tra i concetti,rivestirsi di metafore in grado di alludere a ciò che irriducibilmente e costi-tutivamente si sottraeva alla presa dell’evidenza. Questo lungo percorso cheattraversa molta parte della filosofia del Novecento non è riconducibile aun’unica motivazione. Molto spesso si trattava di stili filosofici profonda-mente eterogenei. La proliferazione delle prassi linguistiche e dei nuovi co-dici ha approfondito il solco tra le diverse scuole filosofiche, fino al puntodi mettere in dubbio che esistesse una reale continuità di problemi e che le

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LED Edizioni Universitarie - www.ledonline.it
Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

discussioni condotte all’interno di un certo orientamento fossero intraduci-bili e, quindi, incommensurabili rispetto a un’altra corrente di ricerca. Il no-stro obiettivo non sarà certo quello di trovare uno sfondo comune a tuttaquesta immensa problematica, ma di suggerire, però, un’ermeneutica possi-bile della trasformazione del testo filosofico.

Il nostro argomento, però, non sarà di tipo prettamente testualistico 1;non sarà, cioè, interno alla struttura del discorso filosofico, anche nella mi-sura in cui si trattasse di decostruirne l’unità. Rivolgeremo la nostra atten-zione, invece, alla relazione tra il logos filosofico e le differenti tecniche co-municative che mediano la sua produzione ed espressione, per arrivare aproporre alcune linee generali di una genealogia della pratica filosofica.

1. IL DISPOSITIVO TECNO-LOGICO

La pratica filosofica si appoggia da sempre ad alcuni strumenti. Essa dispo-ne di specifiche tecniche che le consentono di mettere in opera il propriodiscorso, di poterlo veicolare entro una comunità e di poterlo trasmettere.In sostanza, il logos filosofico si è sempre prodotto mediante l’utilizzo di unapparato tecnico, di un dispositivo che supportasse la sua esposizione. Larelazione tra la techne e il logos non è, quindi, accidentale, ma è un rapportodeterminato che assegna di volta in volta certe condizioni di possibilità allamanifestazione del pensiero. In altri termini, la realizzazione del pensierocome prassi comunicativa e pertanto la sua intima fenomenologia è contras-segnata dalla presenza immanente di un supporto tecno-logico che veicolala sua concreta manifestazione. Un’esperienza di pensiero è, dunque, unesercizio che può essere messo in opera soltanto attraverso determinati me-dia. La tecnica, dunque, si trova già nel pensiero, nell’intima costituzione delsuo rivelarsi e rendersi concreta esperienza.

La forma in cui vengono comunicati alcuni contenuti non è neutralerispetto a essi, al contrario, essa è altamente selettiva: rende, cioè, possibilel’espressione soltanto di alcune possibilità di significato, mentre ne scartadelle altre. Il privilegiare una tecnica comunicativa rispetto a un altro mezzodi espressione, per esempio, struttura in maniera essenziale il contenuto cheviene veicolato. Il mezzo è il messaggio: la celebre formula di McLuhan as-serisce, quindi, che è necessario decostruire la presunta purezza del signifi-cato. Non esiste un significato trascendentale (Derrida) poiché ogni espres-

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1 Per una definizione teorica del testualismo si veda M. Ferraris, La svolta testuale, Pavia,Clup, 1984.

sione di senso è contaminata dalla presenza immanente del dispositivo tec-nologico che supporta quell’atto comunicativo 2.

Mentre, però, la decostruzione derridiana prende spesso la strada diuna decomposizione dell’unità del significato, sollecitando dall’interno lastruttura del testo e mostrando come le oscillazioni di senso moltiplichinogli effetti di senso e rendano indecidibile il senso della lettura, nel nostro in-tento, invece, vorremmo interpretare il processo di produzione del sensocome esito di una relazione immanente e costitutiva tra la materialità dei di-spositivi tecnologici e la fenomenologia della lettura e della scrittura.

Questa possibilità teorica, a nostro avviso, è già inscritta nella riflessio-ne derridiana. Del resto nelle celebri pagine della prima parte di Della Gram-matologia lo stesso Derrida sembra indicare nel contesto della trasformazio-ne radicale delle tecnologie comunicative del ventesimo secolo la condizionedi possibilità storica del proprio esercizio teorico. Il fenomeno della ‘morte dellibro’, cioè il venir meno del privilegio fondamentale che nella modernità haassunto questo artefatto nel rappresentare e rendere accessibili i contenutidella cultura occidentale, e la concomitante apparizione di nuovi supportiper la realizzazione di messaggi, non è interpretato come un mero fatto sto-rico, piuttosto come un evento che incide sul nostro stesso modo di conce-pire il processo storico e le modalità concrete di sperimentare il pensieroconcettuale. Il mutamento paradigmatico delle pratiche comunicative, a pa-rere del filosofo francese, modifica profondamente il nostro rapporto collinguaggio e svela la sua dipendenza strutturale dalle tecniche della scrittura.

«Lo sviluppo delle pratiche dell’informazione, scrive Derrida, estendeampiamente le possibilità del ‘messaggio’, fino al punto che questo non èpiù la traduzione ‘scritta’ di un linguaggio, il trasporto di un significato chenella sua integrità potrebbe rimanere parlato. Tutto ciò va di pari passo conun’estensione della fonografia e di tutti i mezzi per conservare il linguaggioparlato, per farlo funzionare al di fuori della presenza del soggetto parlan-te» 3. La trascrizione su un nuovo supporto, come un nastro o un disco, delmessaggio non è più, dunque, un fenomeno neutrale rispetto al funziona-mento del messaggio; al contrario, le possibilità di senso del messaggio ap-paiono legate costitutivamente al dispositivo di trascrizione che rende pos-sibile un suo funzionamento al di là dei rapporti tradizionali tra oralità escrittura alfabetica. Derrida cita molti esempi (dalla notazione matematica alcodice genetico, dalla nuova cibernetica fino alla poesia delle spaziature edegli ideogrammi di Mallarmé e Pound) di come le operazioni di scrittura

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Techne e Logos. Sulla genealogia della pratica filosofica

2 Sul rapporto tra le ricerche di McLuhan e l’ermeneutica filosofica vedi P.D’Alessan-dro, Critica della ragione telematica, Milano, Led, 2001.

3 J. Derrida, Della grammatologia, Milano, Jaca Book, 1969, p.10.

consentano una modalità di comunicazione e di rappresentazione del con-tenuto che non è identica con il meccanismo consueto in cui la scrittura ri-sulta essere un calco della voce. Il supporto di scrittura, al contrario, investedirettamente la forma del contenuto e le sue direzioni di senso.

Tutto ciò finisce col riverberarsi anche sulla natura del testo filosofico.La filosofia si è servita da sempre di un certo medium: la scrittura alfabetica.Dal punto di vista, quindi, della filosofia bisogna cercare d’interrogare qualisiano i rapporti tra il pensiero metafisico e i suoi mezzi tecnologici di rappre-sentazione. La filosofia è, cioè, una pratica teorica che per poter essere mes-sa in opera materialmente deve servirsi di certi mezzi di produzione tecnici.Le condizioni di sperimentabilità di una prassi teoretica sono in relazionecon la storicità delle pratiche comunicative. Non si tratta, ingenuamente, diritenere che esista una causalità deterministica che faccia dipendere il pensie-ro dalla struttura di un dispositivo tecnico; al contrario la specificità irriduci-bile della domanda filosofica deve situarsi, appunto, nel mettere in relazioneil funzionamento dei dispositivi e la loro economia materiale con le possibi-lità operative della teoria e con le forme di rappresentazione della cultura.

Scrive ancora Derrida: «tecnica al servizio del linguaggio: qui non ri-corriamo a una essenza generale della tecnica, che ci sarebbe già famigliaree ci aiuterebbe a comprendere, come un esempio, il concetto limitato e storica-mente determinato della scrittura. Pensiamo, al contrario, che un certo tipodi interrogazione sul senso e l’origine della scrittura preceda o almeno siconfonda con un certo tipo di interrogazione sul senso e sull’origine dellatecnica. Proprio per questo non avverrà mai che la nozione di tecnica illu-mini semplicemente la nozione di scrittura» 4.

Queste osservazioni di Derrida sono della massima importanza. Infat-ti, viene qui suggerito un rovesciamento del modo caratteristico di guardareai rapporti tra tecnica e filosofia. In particolare, si tratta di marcare la diffe-renza tra la decostruzione derridiana e Heidegger; benché il filosofo tede-sco, infatti, abbia senz’altro messo in luce come la questione della tecnicasia epocalmente intrecciata con l’ontologia contemporanea e abbia revocatole pretese soggettivistiche della modernità di poter esercitare un mero con-trollo del medium, non ha poi abdicato rispetto al tentativo di concepireun’essenza generale della tecnica che sia definita come un ambito di espe-rienza ‘al di là’. Derrida indica, a nostro avviso, un percorso diverso.

L’essenza della tecnica, se intendiamo esprimerci in un linguaggio me-tafisico, deve essere riconosciuta in un fondamento operante all’interno diciascuna prassi e in relazione con altri ambiti di esperienza; in altri termini,il medium svolge la funzione di una correlazione necessaria e costitutiva di

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4 Ivi, p.11.

un’esperienza di pensiero, benché non sia affatto in sé finalizzato al concet-to. Il medium è, quindi, operante nella prassi concettuale, benché non appar-tenga a essa ed entri anche in un insieme di altri rapporti pratici. Se, quindi,cerchiamo di comprendere un fenomeno comunicativo in generale, dobbia-mo sforzarci di sovrapporre il linguaggio e la tecnica, mostrando la relazio-ne operante nell’intreccio del fenomeno comunicativo stesso.

Una forma simbolica, cioè, non è un fenomeno puramente concettua-le, ma è un’esperienza intrecciata indissolubilmente con l’orizzonte storicodi prassi materiali che non sono direttamente riconducibili a finalità cultura-li. Là dove, invece, facessimo astrazione della pratica teorica e la consideras-simo e analizzassimo solo di per sé e isolatamente, finiremmo per ipostatiz-zarla e fatalmente ideologizzarla. La nostra ottica è, quindi, rivolta a un tipodi analisi che, di volta in volta risalga genealogicamente dalla manifestazioneculturale alla relazione che essa stabilisce con il campo dei dispositivi mate-riali e sociali che sono in relazione e sostengono la sua attività.

2. GENEALOGIA DELLA PRATICA FILOSOFICA E MEDIUM TECNOLOGICO

Ogni filosofia ha il proprio presupposto in un campo di relazioni tra poterie saperi. In questo caso, proprio nella congiuntura attuale che afferma unprimato incondizionato dei media tecnologici (fino al punto da far diventaresenso comune l’affermazione secondo cui tutto ciò che esiste, esiste solo inquanto è permeato dalla comunicazione), si tratta di pensare quale sia il rap-porto tra la filosofia e il medium oppure, più in generale, tra l’esperienza dipensiero e i media.

Per anticipare il nostro percorso, potremmo dire che cercheremo dimostrare come l’origine della filosofia si produca come effetto di una prati-ca discorsiva che poggia su determinati supporti tecnici e sia resa trasmissi-bile, in modo privilegiato, mediante certi dispositivi tecnologici; non si trat-ta di pensare in modo ingenuamente causale ed estrinseco questa relazione.Non si tratta di credere al mito tecnologico per cui la possibilità della filoso-fia sia determinata da un fattore esterno e isolabile; al contrario, lo scopodella genealogia è quello di demistificare la semplicità dell’origine e privile-giare la complessità della relazione.

Il carattere relazionale della verità genealogica consiste nel mostrare unafenomenologia in cui il senso di una pratica non è ascrivibile alla generalità diun’Essenza o alla determinazione unica ed esclusiva di una Causa, bensì alladescrizione dei rapporti effettivi che situano un discorso all’interno di uncampo di saperi e di una gerarchia di forze. La verità, cioè, è sempre un effet-

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Techne e Logos. Sulla genealogia della pratica filosofica

to collegato a una pratica, così come una pratica è sempre analizzabile soltan-to in rapporto ad altre pratiche con le quali entra in alleanza o in opposizione.

La pratica filosofica, per esempio, si trova di volta in volta in relazionea pratiche strumentali, ovvero a dispositivi d’azione che non sono finalizza-ti ad attività concettuali, ma si trovano a essere utilizzati come supporti del-l’esercizio teoretico. Si può, quindi, intuire quale sia la strategia della com-prensione genealogica del rapporto tra filosofia e medium. Se nell’orizzontedell’attualità si ritiene, quindi, che si verifichi un declino della filosofia a fa-vore dei media, bisognerà riflettere sul fatto che esiste un legame ‘originario’tra la filosofia e il medium comunicativo. La genealogia dovrà comprendere ilsenso di questo rapporto costitutivo, proprio per chiarire il senso delle tra-sformazioni attuali che investono questo rapporto.

La genealogia deve pertanto impegnarsi in una descrizione, ma qualetipo di fenomenologia essa è in grado di produrre? C’è un nesso stringente.La genealogia intende mostrare come non si debba partire da astrazioni oda dati di fatto, bensì guardare al piano delle attività che pone e costituiscequalsiasi entità che appare nel piano immanente dell’esperienza. Bisogna,dunque, guardare alla pratica che mette in opera un determinato livello on-tologico. Qualsiasi regione dell’essere articola una certa modalità pratica ediscorsiva in cui si manifesta un rapporto con l’essere 5, fermo restando cheil discorso è anch’esso una pratica e che, dunque, esistono solo pratiche inrelazione con altre pratiche e mai qualcosa come ‘la’ pratica.

L’ontologia, quindi, si trova esposta proprio in questa pluralità di arti-colazioni, in questa molteplicità di prassi e di relazioni, che affermano ilsenso dell’essere come disseminazione concreta di modi. Ma c’è un intentodecostruttivo nella genealogia che non fa capolino nell’impianto classicodella fenomenologia. Se il discorso che espone la fenomenologia non è, in-fatti, un medium neutrale, bensì una funzione costituiva di una prassi teorica,bisognerà allora effettivamente considerare come l’origine che viene rappre-sentata, la costituzione che viene espressa, non è che ciò che può apparireentro quella modalità di discorso. La parola è, cioè, una pratica e una tecni-ca strumentale che reagisce attivamente su ciò che intenziona.

L’origine stessa si scopre come un effetto di discorso; si trova, quindi,esposta alla retroazione che un certo impianto discorsivo rivolge a se stesso.Il discorso proietta la propria origine su sé medesimo. Se intendiamo il di-scorso come un intreccio costitutivo di techne e logos, considerando, cioè,ogni espressione non come una codificazione puramente linguistica, macome una veicolazione di senso che presenta contenuti irriducibilmente ma-

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5 Su questo punto si vedano le considerazioni presenti in C. Sini, L’analogia della parola.Filosofia e metafisica, Figure dell’enciclopedia filosofica, libro primo, Milano, Jaca Book, 2004, p. 27-31.

teriali dovuti all’immanenza dei propri supporti tecnici, allora il compito ge-nealogico consisterà appunto nel sottrarre la verità dell’origine all’apparatomediatico. La genealogia deve criticare l’univocità e la trasparenza che il di-scorso tecnologico assegna alla propria origine, deve esibire il carattere rela-zionale del medium e collocare la sua direzione di senso nel quadro dei lega-mi che esso intrattiene con i saperi e i poteri di un’attualità storica 6.

La genealogia non è pertanto un’indagine meramente storica, sullosfondo costitutivo di una sapere teorico. Si potrebbe, infatti, condurre que-st’indagine da un punto di vista del tutto estrinseco e neutrale rispetto al-l’oggetto preso in considerazione; per esempio, si potrebbero indicare tuttauna serie di fatti che si collegano alla nascita della filosofia nella Grecia anti-ca. Si potrebbero, perfino, indicare della cause esterne che hanno reso pos-sibile materialmente la formazione di una prassi speculativa. Tutto ciò peròcadrebbe appunto all’esterno di quel che noi intendiamo come ‘filosofia’.Non intaccherebbe le sue ragioni e i sui metodi. Rimarrebbe semplicementeal di qua della soglia che ci fa accedere all’esperienza speculativa, trattandosidi una sorta di sapere empirico, accidentale, ma, soprattutto, neutro rispettoal pensiero. Le condizioni trascendentali della filosofia, per esprimerci quicon un linguaggio più tipico della nostra modernità, sono radicalmente se-parate e distinte dalle circostanze empiriche che hanno accompagnato o, ad-dirittura, favorito la sua nascita.

Il compito della genealogia è, invece, quello di diffidare di questa op-posizione e di mettere in discussione le origini stesse dell’esperienza filoso-fica, cercando di mostrare come, in effetti, quest’interpretazione della stori-cità del sapere filosofico sia paradossalmente soltanto un racconto ovveroqualcosa di costruito e rappresentato dall’esercizio stesso della filosofia.

L’atto stesso della pratica teorica, nelle condizioni materiali del pro-prio fare, proietta la propria ‘origine’; ovvero dà inizio alla propria originecome effetto della modalità del proprio discorso. L’enigma della storicitàdella filosofia, per così dire, si trova pertanto risolto nell’effettiva attualitàdella forma del dire teorico. Si tratta, perciò, di indagare su questa forma.La genealogia interroga la storicità di questa forma e la sua provenienza dal-la cornice della molteplicità delle pratiche.

La filosofia è, pertanto, interpretata come un’esperienza concreta checorrisponde a un’effettività e cade all’interno di certe condizioni che la met-tono in relazione con i saperi e i poteri esistenti.

La messa in opera di un pensiero è sempre collegata al piano dellastrumentalità. Una tecnica, ossia un certo dispositivo di arnesi e di proto-

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Techne e Logos. Sulla genealogia della pratica filosofica

6 Su questi aspetti cfr. le riflessioni di Fulvio Papi in Ipertesto e filosofia, in F. Papi, Sull’on-tologia, Milano, Mimesis, 2005 pp. 145-149.

colli di utilizzo, inerisce alle condizioni di pensabilità di un ente qualsiasi.L’ente è, cioè, posto come oggetto di una pratica concettuale solo attraver-so la mediazione di una tecnica su cui poggia l’esercizio della considerazio-ne teoretica. All’interno di un altro dispositivo, l’ente appare come oggettodi una pratica differente da quella concettuale. Queste condizioni empirichenon sono interne al discorso teorico; esse si trovano, cioè, al limite dell’ef-fettuazione concreta di una prassi teoretica e restano sul confine tra l’inter-no e l’esterno di un’esperienza di pensiero. Per questo motivo non sono te-matizzabili restando semplicemente all’interno della forma teorica.

L’analisi implica un rivolgimento di sguardo, che sia capace di disloca-re all’esterno la portata della propria veduta. Si tratta, cioè, di riuscire a col-locare l’esercizio di pensiero in un fascio di relazioni. Pensare è, dunque, unatto che può compiersi solo nella contingenza di un complesso di rapportiche investe sia la discorsività dei saperi sia la materialità dei poteri. La posi-tività dei discorsi, nella loro dispersione e proliferazione, circoscrive il logosfilosofico, benché la ragione metafisica si definisca per lo sforzo di ricapito-lare la totalità del sapere entro la propria forma logica e nel proprio ordineespositivo; l’universalità del concetto che essa è in grado di dimostrare resta,però, valida solo entro il limite delle condizioni che assicurano l’eserciziodella filosofia. Il potere della parola filosofica e la legittimità della sua prete-sa di rappresentare in forma concettuale la totalità dell’esperienza, sonocommisurati all’esteriorità accidentale di rapporti materiali, inscritti in unadeterminata formazione sociale e storica 7.

La genealogia deve guardare, dunque, alle matrici impure del concetto,alle determinazioni non concettuali dell’esperienza, che si sottraggono alleillusioni immaginarie delle identificazioni e delle mere astrazioni. Il primatodella relazione implica, per la genealogia, la cura della differenza e dellamolteplicità contro la presa identitaria.

Nell’origine c’è, dunque, la differenza, la relazione, la contaminazione.Non si tratta di metafisicizzare qui la differenza, innalzandola a valore me-tafisico, idolatrandola come simulacro dell’identità. Non si tratta, infatti, diun concetto, bensì della critica del concetto, della sua assolutezza e della suasottrazione ideologica ai propri contenuti irriducibilmente empirici.

Le determinazioni trascendentali della forma teorica sono elaborazionidi senso che appartengono di diritto all’interiorità dell’attività della teoria;appartengono, cioè, all’idealità della teoria e trovano il proprio fondamentodi senso soltanto nell’evidenza interna della produzione dei concetti. Gli ‘og-

Igino Domanin

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7 Sul rapporto tra concetto e fatticità bruta dell’esistente ovvero sulla relazione neces-saria tra la formazione del concetto e la sua determinatezza rispetto alle strutture storico-so-ciali si veda T.W.Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 122-185.

getti’ eminenti del discorso filosofico, per esempio l’‘essere’, il ‘divenire’ op-pure la ‘verità’, da questo punto di vista sono funzioni interne al dispositivodella prassi teoretica; tali oggetti possiedono la propria determinazione disenso solo all’interno delle condizioni particolari e delimitate di una prassistoricamente accaduta. La discorsività filosofica, cioè, si può e si deve pro-durre solo all’interno di condizioni specifiche, nell’ambito delle quali si co-struiscono i vettori referenziali, che conferiscono senso a quell’esercizio didiscorso. Nella comunità filosofica si rendono intelligibili le funzioni discor-sive di oggetti come l’‘essere’, altrimenti, nel nostro commercio quotidianocon il mondo, non avrebbe alcun senso porre la questione ontologica: nessu-na interrogazione sul senso dell’essere sarebbe effettivamente possibile.

Devono essersi già costituiti, pertanto, dei soggetti e degli oggetti per-ché si possa dischiudere un orizzonte storico effettivo nel quale possa averluogo una discorsività filosofica che rappresenti in un certo modo il pensie-ro. La traduzione, per esempio, del pensiero nella parola filosofica, nell’epo-ca dell’alfabetizzazione, è un evento reso possibile solo dall’apparire di certecondizioni empiriche (il dispositivo di scrittura in grado di riprodurre in se-gni grafici il funzionamento comunicativo della voce), che restano esterne alsapere filosofico o, comunque, rimangono sulla soglia di esso, ma accompa-gnano in modo decisivo il gesto teorico della filosofia. Deve esserci una certaconfigurazione della soggettività e una certa intenzionalità dell’oggetto per-ché possa aver luogo il logos filosofico.

L’esistenzialità della pratica filosofica deve essere riferita non all’astrat-tezza generale di un contesto qualsiasi, di un rapporto fisso e costante tra lanatura metafisica e sovratemporale del pensiero e la sua appartenenza aun’epoca storica, ma alle determinazioni che formano la vita filosofica nellaconcretezza delle sue possibilità. Il soggetto filosofico, cioè, è una formazio-ne emersa storicamente e sedimentatasi e rafforzatasi attraverso la praticaspeculativa del logos. La sua storicità non è quella di un’idea o di una sostanza,bensì quella di un’apparizione singolare e irreversibile benché di lunga durata,una qualità dell’esistenza che cade entro certe condizioni di possibilità, unaforma di vita che mostra da tempo i segni della propria fascinosa arcaicità.

3. IL COMPITO CRITICO DI UNA COMPRENSIONE GENEALOGICADELLA PRATICA FILOSOFICA

Viene adesso in chiaro qual è il compito della genealogia e la prospettiva diuna critica della filosofia. Si tratta di pensare radicalmente l’origine della fi-losofia e il senso della sua prassi. L’origine, però, non è il punto di partenza

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Techne e Logos. Sulla genealogia della pratica filosofica

dell’idealità di un concetto, della storia del modo in cui un concetto si è tro-vato esposto nella continuità del logos filosofico. Al contrario, come abbia-mo già detto, gli inizi appaiono allo sguardo genealogico come irriducibil-mente impuri. La genealogia cerca di cogliere le condizioni empiriche cherendono possibile una determinata forma discorsiva 8. Le radici affondano,qui, in un terreno esterno.

L’a priori storico della filosofia, per esempio, non è incluso nella storiadella filosofia: si tratta di un campo di relazioni, nel cui spazio mobile e va-riabile soltanto può germinare il logos filosofico. Dal punto di vista della ge-nealogia è necessario, dunque, affrontare una critica della filosofia, inten-dendo con ciò che l’effettività del discorso filosofico deve essere collocataentro i propri limiti pratici e nelle possibili relazioni che esso è in grado distabilire con i saperi e i poteri esistenti.

La genealogia mira a una trasformazione critica della filosofia. Se daun lato costringe a riconoscere la finitudine di ogni esercizio di pensiero,nello stesso tempo cerca di indicare la positività del compito filosofico. Ilcompito filosofico è, appunto, quello della critica dei saperi e dei poteri. Uncompito immanente, poiché si trova già inscritto nelle stesse condizioni dipossibilità storiche della prassi speculativa. L’esperienza di pensiero è ricon-dotta al gioco vitale delle forze che nell’incertezza degli scontri e delle lottedetermina di volta in volta la formazione di campi relazionali in cui s’inscri-ve la prassi teorica della filosofia. La praticabilità di un’esperienza di pensie-ro è, cioè, condizionata e resa possibile sempre attraverso un medium che neassicura l’esercizio e ne rende evidente e comunicabile l’esistenza.

Il medium non deve essere considerato come un semplice mezzo di co-municazione, bensì come ciò che si situa sul limite stesso della pratica filo-sofica; in altri termini, esso, in quanto medium, deve la propria genesi a dellefinalità produttive che non appartengono al campo della filosofia ovvero ilmedium è prodotto all’interno di una prassi differente dal ‘pensare’ e per sco-pi inerenti ad altre abilità e ad altri saperi; ma in una determinata congiuntu-ra diventa lo strumento proprio del pensiero, cioè inerisce intimamente e in-dissociabilmente alle condizioni di esercizio della pratica di pensiero.

Pensare, quindi, è una prassi che si compie con degli arnesi adatti alloscopo. La filosofia, perciò, può sorgere solo nell’orizzonte storico determi-nato dall’incontro tra esperienza di pensiero e medium 9. La filosofia è resapossibile nell’apertura effettiva di possibilità, dischiusa dall’accadere dellarelazione tra un medium e il suo utilizzo all’interno di una pratica teoretica.

Igino Domanin

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8 Sull’a priori storico e la finitudine del trascendentale cfr. M.Foucault, Le parole e le cose,Milano, Rizzoli, 1967, pp. 5-14.

9 Sul rapporto tra la tradizione del pensiero filosofico e l’emergere di nuovi media vedianche P. D’Alessandro, I. Domanin (a cura di), Filosofia dell’ipertesto, Milano, Apogeo, 2005.

Carlo Sini

LA MATERIA DEL MESSAGGIO 1

La riflessione sulla materia del messaggio e sulla sua natura non è un per-corso semplicissimo, perché ciò che ci chiediamo non è tanto che cosa siaun messaggio, cosa che riteniamo di sapere tutti, quanto quali siano le con-dizioni di esistenza e come faccia esso ad accadere. Questo è un tema tipi-camente filosofico, nella misura in cui la tecnologia o la scienza contempo-ranea ragionano con le categorie della informazione o della comunicazionee applicano queste categorie all’evoluzionismo e alla biologia, ma non sichiedono quali siano le condizioni di evenienza di un messaggio. La scienzausa, in modo empirico e quindi ingenuo e non riflesso, delle nozioni che inrealtà sono molto complicate.

Come domanda di apertura, noi ci chiederemo quale sia la materia delmessaggio. Di che cosa è fatto un messaggio? Possiamo qui far riferimentoa una famosa frase di Vico nella Scienza Nuova «Alzarono gli occhi e avver-tirono il cielo». Vico si sta riferendo ai suoi bestioni primitivi, agli abitatoridella grande selva e con questa frase indica molte cose in un lampo. Si trat-ta, proprio, del primo fulminare nella storia della terra e dell’uomo e delprimo supporre che al fulmine corrisponda un messaggio. Gli uomini sonoper la prima volta eretti, accorgendosi che esiste il cielo, essendosi dipanatal’ombra della grande selva, significa accorgersi che c’è l’anima, il messag-gio, il significato. È chiaro che qui Vico si rifà a una tradizione antichissimache risale a Seneca e Ovidio, riguardante la posizione dell’uomo che ha ilvolto rivolto verso il cielo. Leggiamo alcune righe di questo passo dellaScienza Nuova:

con tali nature si dovettero ritrovare i primi autori dell’umanità gentilesca, quandoduecento anni dopo il diluvio per il resto del mondo e cento nella Mesopotamia, per-

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1 Il testo è la trascrizione dell’intervento tenuto al seminario del Lab_ET il 15 gennaiodel 2004, presso l’Università degli studi di Milano, dal titolo La materia del messaggio.

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Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

ché tanto tempo vi abbisognò per ridursi la terra nello stato che disseccata l’umanitàdall’universale inondazione, mandasse esalazioni secche, il cielo finalmente folgorò,tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi come dovette avvenire per introdursi nel-l’aria un’impressione così violenta. Quivi, pochi giganti che dovettero essere i più ro-busti, che dovevano essere dispersi per i boschi posti sulle alture dei monti siccome lebestie più robuste ivi hanno i loro rifugi, qui (i giganti), spaventati ed attoniti dal gran-de effetto di cui non sapevano la ragione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. Eperché in tal caso la natura della mente umana porta che ella attribuisca all’effetto lasua natura e la natura loro era in tale stato di uomini tutti di robuste forze di corpoche, urlando, brontolando spiegavano le loro violentissime passioni, si finsero il cieloessere un gran corpo animato che per tal aspetto chiamarono Giove: il primo Dio del-le genti dette maggiori, che con il fischio dei fulmini e con il fragore dei tuoni volessedir loro qualche cosa. E così iniziarono a celebrare la naturale curiosità che figlioladell’ignoranza e madre della scienza.

Vico si riferisce all’espressione di Tacito «fingunt simul creduntque», ossia que-ste nature originarie si immaginano favole e poi le credono. Che cosa diredella materia di questo messaggio originario? Se voi riflettete su questa sce-netta straordinaria che Vico descrive, che è erede di tutta l’antichità e rilan-cio nella modernità, potremmo essere indotti a dire semplicemente che lamateria del messaggio è all’origine il rumore del fulmine. Non è affatto così.Rispondere così è da scienziati e non da filosofi. Gli scienziati possono in-dicare semplicemente l’empirica consistenza di un oggetto, senza chiedersicome si arrivi a queste parole e a questa empirica consistenza. Vico nondice affatto questo. Perché il rumore del fulmine e del tuono diventi il signi-ficante, vale a dire il veicolo di un messaggio, quante cose sono dovute ac-cadere e quante cose devono accadere! Intanto deve accadere il diluvio uni-versale, poi il disseccarsi delle terre, poi l’evaporare dei vapori, poi il for-marsi delle nuvole, poi finalmente, il tuonare del tuono. Il tuonare del tuo-no, però, non è di per sé il messaggio. Esso diventa messaggio quando icorpi giganteschi fingunt simul creduntque, cioè quando i corpi giganteschi, at-toniti e spaventati, fanno un’operazione che Vico descrive perfettamente.Vico dice due cose fondamentali: la prima è che la mente umana è per suanatura indotta a risalire dall’effetto alla causa, la seconda è che i giganti fan-no un ragionamento analogico, mettono in opera l’inferenza prima in basealla quale sta tutta la nostra logica, ossia mettono in relazione il nostro cor-po animato con la natura che produce il fulmine e che quindi è corpo ani-mato, Dio animato, Zeus.

Se noi ci chiediamo sulla scorta di Vico quali sono le ragioni di sussi-stenza, abbiamo due ordini di ragioni. Possiamo chiamare le prime ragionimateriali secondo una tradizione che rende comprensibile questa parola: ildiluvio, i fulmini, le esalazioni, i giganti robusti, ma poi vi sono anche lecause spirituali o psicologiche, cioè dalle passioni alla capacità di risalire dal-

Carlo Sini

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l’effetto alla causa per analogia e alle fantasie che attribuiscono al fenomenodella natura le stesse intenzioni espressive che vengono sperimentate nel fe-nomeno dei corpi viventi. Potremmo dire che la materia del messaggio è lanatura e la sua forma è la mente, l’anima. Il nesso tra queste due cause è ciòche Vico chiama la provvidenza, il buon Dio. In questo schema vichiano sipuò trovare l’intera cornice dei saperi moderni, dei saperi fino alla contem-poraneità. Ancora oggi noi pensiamo la stessa cosa di Vico, pensiamo lamateria e la natura nella stessa maniera, pensiamo l’uomo e la sua psichenella stessa maniera; semplicemente, in ambito scientifico, alla provvidenzadi Vico si sostituisce la teoria evoluzionista darwiniana, che sta all’origine ditutti i saperi contemporanei. Tutto questo, però, non è altro che Vico, ilgrande padre della modernità, colui che aveva anticipatamente compresocome costruire una enciclopedia dei saperi moderni, mettendo insieme lanatura di Cartesio e la tradizione umanistica. Il problema è che quest’ultimaè soltanto essa stessa una superstizione per niente diversa da quella dei gi-ganti immaginati da Vico.

La questione filosofica non è ancora realmente emersa perché la rispo-sta di Vico, così come la risposta dell’Occidente, non sta in piedi. Posto chenoi ci poniamo davvero la domanda su che cosa sia l’origine del messaggio,Vico non ha risposto, figuriamoci la scienza che nemmeno si pone la do-manda. Vico non ci ha risposto, perché non ha chiarito come la menteumana possa fare le operazioni che fa, come i giganti con i loro brontolii ele loro urla possano comporre questo ponte, questa analogia tra le loroespressioni e il tuono. Tutto sta naturalmente nella possibilità di compren-dere la risposta. Come possono i bestioni proporre quella analogia? Vico ri-sponde che i bestioni sono guidati dalla provvidenza e, quindi, come tutta lanostra scienza, si rifà alla teologia. Tutta la nostra scienza è teologica anchequando pensa e dichiara di non esserlo.

Possiamo riformulare la stessa domanda chiedendoci come fa un bam-bino a capire il linguaggio? Se chiedete agli psicologi, sicuramente non avre-te risposte. Come fa un bambino, a un certo punto, a passare da infante acomprendere che quei suoni vogliono dire qualcosa? I brontolamenti delpapà sono il primo apparire del dio Zeus, con tutte le nefaste conseguenzeche ne deriveranno. Questa è la questione che tradizionalmente nella semio-tica coinvolge il tema dell’interpretante. Richiamerò qui il triangolo che furicavato dai testi del filosofo americano Peirce. Si tratta del ‘triangolo se-miotico’, per cui si dice che in ogni messaggio bisogna tener conto di trevertici di un triangolo ideale: uno è il segno, l’altro è l’oggetto e il terzo èl’interpretante. È la risposta dell’interpretante che dice che questo è segnodel volere di Zeus, oppure questo è segno che pioverà. Tutta la questione sisposta sulla nozione di interpretante. Interpretante, come diceva Peirce,

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La materia del messaggio

non siamo io o tu, ma è un abito, è l’essere incarnati in un abito di risposta.Se tuona e fulmina sono portato a guardare il cielo, mi è spontanea la rispo-sta di credere che mi si voglia dire qualche cosa. L’interpretante sono le ri-sposte, di cui noi siamo impastati, che cosa sono pronto a fare, che sonopronto a rispondere di fronte alle innumerevoli situazioni della vita. Questiabiti incarnati, che io sono e che ho ricevuto dalla tradizione e che a miavolta tramando a coloro che mi seguono, circoscrivono la figura dell’inter-pretante che ognuno di noi incarna. Ma la domanda si ripropone. Come fal’interpretante a rispondere, a dire che il fumo è segno del fuoco? Come fa afare questa semplice connessione? La risposta tradizionale a questa doman-da, per esempio quella di Peirce nell’ambito di quel triangolo semiotico dicui dicevo, è che per interpretare bisogna avere già interpretato, cioè che c’ènel triangolo un rinvio continuo. Devo avere già interpretato in qualchemodo per poter interpretare ancora, il bambino deve avere già in qualchemodo interpretato i segni della voce per poter, a un certo punto, compren-dere che essi sono messaggi. Questo rinvio costituisce una intelligente con-statazione, è indubbio che ogni volta che noi pronunciamo un giudizio nonfacciamo altro che risalire a saperi precostituiti, è insomma la forma del sil-logismo di Aristotele: la premessa maggiore deve rinviare a un altro sillogi-smo altrimenti io non potrò mai dire quella premessa che mi consente digiungere a una conclusione. Quindi questa giusta constatazione non risolveil problema, ma lo rinvia solamente.

L’interpretante inscritto nel triangolo semiotico ha bisogno di un in-terpretante circoscritto, qualche cosa che ha avuto luogo prima dell’averluogo dell’interpretante iscritto. Ma come ravvisare questo qualche cosa?Facciamo una piccola riflessione. Tutti hanno accettato la posizione diPeirce, ampiamente argomentata, che per interpretare bisogna avere inter-pretato, cioè che l’interpretante è illimitato all’indietro e in avanti. Ma bastadire questo? Se la cosa fosse così non vi sembra che essa sarebbe pococonvincente? In che cosa differisce il mio attuale interpretare dall’avere giàinterpretato? Qualcosa deve pure accadere per far sì che l’interpretante in-terpreti diversamente da come ha già interpretato. L’interpretante deveavere già interpretato, qualcosa deve essere già accaduto sul piano dell’in-tellegibilità, però accade anche qualcosa di diverso. Questo diverso da doveviene fuori nel triangolo semiotico? Come accade che noi siamo interpre-tanti diversi? La nostra generazione non interpreta più come interpretavavent’anni fa. Questa mi sembra la questione vera della materia. Qual èquindi la materia di un segno? E come fa l’interpretante a interpretare ora,in questo momento, quel segno come segno? Deve esserci una materialitàdel segno che deve far accadere la cosa nella sua accidentalità e differenzadell’interpretare ora. Ci sarà stato un gigante che avrà incominciato a dire

Carlo Sini

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«ma ci vogliono comunicare qualcosa?» e che ha colto una differenza ri-spetto all’interpretare tradizionale.

Io cercherò di precisare la nozione di materia attraverso quella sempli-ce, ma al tempo stesso complicatissima, di supporto. Perché sia possibilecogliere un segno, e tra i segni quel segno che è il messaggio, è sempre ne-cessario un supporto. Mi ha sovente stupito che nelle migliaia di pagine deitrattati di semiotica, nessuno sembri accorgersi dell’importanza della nozio-ne di supporto. Eppure è evidente, non c’è un segno se manca un supporto.Il segno è sempre scritto su qualche cosa. I messaggi della scrittura sonosulla carta o sullo schermo del computer. Un segno senza supporto non esi-ste, noi stessi siamo un corpo che supporta espressioni. In ogni natura delsegno, anche in quella più spirituale, il supporto deve esistere. Se ci chiedia-mo qual è il supporto dei segni matematici, dobbiamo dire che i numerisono nelle operazioni che noi facciamo con la matita e la carta, senza opera-zioni non vi sono numeri, così come se manca la carta e la matita. Le lette-re dell’alfabeto non stanno nell’empireo, stanno in chi le traccia sulla carta,nel bambino che traccia le prime righe.

Il problema investe dunque il supporto, che contiene la materialità delsegno. Esso non preesiste al segno e il segno non gli preesiste. Non ci puònemmeno essere la carta senza la scrittura, quella carta che è supporto dellascrittura. Qui è interessante richiamare De Saussure che afferma che il si-gnificante e il significato sono il recto e il verso come il foglio di carta cosìche io non posso tagliare la parte di sopra da quella di sotto. Siamo tornatial punto di partenza: come non possiamo ricavare un interpretante origina-rio, così non possiamo nemmeno indicare un supporto originario e quindila questione della materia rimane irrisolta. A questo punto credo, però, cheun barlume si sia fatto strada, se si presta debita attenzione. Il suggerimentoche comincia a emergere è che di supporto non si può parlare in un sensosolo e quindi anche di materia non si può parlare in un senso solo. Se rima-niamo sulla nozione di supporto possiamo vedere con chiarezza la duplicitàdei sensi. Il rinvio degli interpretanti è un rinvio di supporti che supportanopratiche di vita diverse. Posso vedere nel terreno che è supporto del miocamminare il supporto di un altro camminare che è l’orma di un animale,che per analogia allora io inseguo. Ma per isolare il terreno come supportodel camminare, io devo cominciare a camminare, devo cominciare a essereun individuo semovente. Finché non si muove, il bambino non ha il terrenocome supporto del suo camminare. La materia di questo supporto ora vadistinta dalla materia del supporto in generale, dalla materia originaria chefonda la possibilità del segno. Ma che cosa sarà mai questo supporto chenoi stiamo invocando differente dal supporto-ora? Ma qui cadremmo dinuovo in un gorgo se pensassimo che questa materia originaria e questo in-

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La materia del messaggio

terpretante originario stiano illo tempore, in una primordialità originaria: sa-rebbe la favola di Vico, così come la favola di tutta la scienza moderna. Lagrande superstizione della modernità sta nel non vedere che l’origine data alproblema della significazione, e quindi del messaggio, è una favola, è quelloche ora io racconto, è quello che ora io dico dell’origine, essendo già quel-l’interpretante che sono. È evidente che quella materia, quel supporto, quel-l’interpretante che è dato affinché qualcosa accada, e si dia così questa ma-teria, sono l’evento stesso in cui siamo in ogni istante, sono l’esser-qui diquella materia. Si tratta dell’esser-qui nella figura della nostra narrazione edelle nostre pratiche.

Faccio un piccolo esempio, con il quale mi appresto a concludere. Miriferisco al celebre libro di Ivan Illic Nella vigna del testo. In esso, il celebrestudioso da poco scomparso, cerca di ricostruire la nascita del testo; nontanto del libro, quanto piuttosto della organizzazione del testo come noi loconosciamo dal 1250 in poi. Egli evoca questi due mondi: il mondo dellegrandi pergamene, dei grandi monasteri medioevali, della cultura sacra esuccessivamente quello dell’invenzione del libro e della stampa. Una do-manda, però, vorrei proporre alla vostra attenzione: perché i cinesi nonhanno usato la carta per fare i libri? La risposta è semplice sul piano genera-le ed è perché le loro pratiche di vita erano completamente diverse, l’insie-me delle loro figure di interpretanti erano completamente diverse dalle no-stre per cui non ci poteva essere la combinazione di vedere la carta comepossibile supporto di un possibile testo perché non avevano niente di tuttociò. Non avevano l’alfabeto, una tradizione di testi, la filosofia di Platone eAristotele. Non è che fossero meno bravi o abili di noi, ma solo avevano al-tre pratiche. Adesso abbiamo una risposta potenziale che naturalmente èsolo una porta d’accesso, un portale come si dice riferendosi alle attuali ma-niere di comunicazioni. Una risposta che possiamo esprimere così: la mate-ria del messaggio è sempre determinata dall’intreccio delle pratiche, dobbia-mo sempre risalire all’intreccio delle pratiche per capire come un messaggioaccada, da dove prenda la sua tradizione, la sua materia e la sua condizione.

Carlo Sini

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Matteo Ciastellardi

PROVOCAZIONI DELLA TECNICA

Il problema della tecnica rappresenta una questione che fin dal secolo scor-so venne ampiamente affrontata e dibattuta nei più distanti e differenti am-biti disciplinari, risultando trasversale a campi del sapere e del mercato chetrovavano proprio in tale dibattito il momento più fertile del loro dialogo.Muovendosi sull’asse di questa tematica risulta quindi imprescindibile l’af-frontare gli apparati culturali, economici e sociali che si intramano nel poli-morfico processo di globalizzazione che investe i modelli del nostro mondocontemporaneo.

Tale questione, che inscrive le popolazioni occidentali nel medesimoorizzonte di una realtà omogenea, caratterizzata dalla costante del progres-so scientifico e delle logiche di mercato, arriva così a costruire e a costituireun preciso schema di demarcazione sociale, in cui il confine geografico ègradualmente sostituito dal patrimonio culturale ed economico delle societàche vanno confrontandosi.

In questo panorama, in cui la deterritorializzazione diviene il primoinevitabile processo di trasformazione, la rivoluzione scientifica occupa unposto di primissimo piano, diventando il principio post-industriale di cam-biamento che investe tutte le sfere della vita quotidiana, dall’approccio ai si-stemi emancipativi di lavoro fino all’ingresso di nuovi apparati nei nuclei fa-migliari e all’irruzione di stilemi alternativi nelle più semplici e ripetitive pra-tiche quotidiane.

Dando forma alla provocazione di McLuhan secondo cui «il mezzo èil massaggio» 1, la scienza odierna viene così orientata dalla tecnica e dai

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1 È opportuno non confondere il noto enunciato di McLuhan «Il medium è il messag-gio», presente in Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Est, 1997, p.15, con lafrase qui citata che richiama volutamente tale affermazione, caricandola però di un senso diprovocazione e di lucida valutazione del sistema della tecnica; cfr. Marshall McLuhan, Quen-tin Fiore, Il mezzo è il massaggio, Milano, Feltrinelli, 1978.

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Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

suoi instrumenta a divenire il primo e ineludibile dispositivo di piacere 2 e di su-blimazione sociale dell’uomo.

La pervasione mediatica si spinge dunque, oggi più che mai, a crearequasi una ‘seconda pelle’ 3 per la società, ove le forme disseminate di saperee di conoscenza divengono telecontrollabili e l’identità dei soggetti si con-fonde e si confronta con i dispositivi protesici e suggestionanti della tecnica.

La cognizione estensiva e olistica del nostro in-essere viene così a di-pendere da una visione del mondo specifica, marcatamente occidentale, secon-do la quale la relazione reciproca uomo-mondo oscilla nella mediazione diun sistema che ci appartiene e ci comprende allo stesso tempo, impedendo-ci tanto la sovranità incontrollata sulla natura, quanto la soccombenza in-condizionata.

Il taglio di tale argomento ha visto declinata la discussione su frontidiametralmente opposti, partendo dalle posizioni assunte da Adorno e dallascuola di Francoforte, per arrivare alle considerazioni bio-politiche di Slo-terdijk. Il vasto spettro di risonanza della questione sembra però trovare uncaposaldo nella lettura che parte proprio dal confronto tra l’uomo e la (sua)natura, per giungere a considerazioni teoretiche sulla sostanzialità stessadell’essere umano calato nel mondo.

1. VERSO UN’ONTOLOGIA DELLA TECNICA

Una disanima su tale problematica si può ascrivere a numerosi osservatoridel panorama antropologico e sociale, ma si è qui ritenuto di particolar in-teresse analizzare la visione di Martin Heidegger, che orienta lo studio sultema della tecnica nel suo La questione della tecnica 4, conducendo un’indagi-ne con i caratteri propri del nostro scorcio sociale e culturale. Infatti nellasua analisi è presente la considerazione latente, implicata nel discorso sulla

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2 Si rimanda qui al tema più volte affrontato da Michel Foucault nella sua analisi sui di-spositivi sociali nella società occidentale, in cui l’uso del piacere è una costante di leva tipicadella società odierna (cfr. Michel Foucault, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978).

3 La seconda pelle è una forma di proiezione della personalità umana inserita in un conte-sto di pervasione mediatica che porta a osservare come si tenda, nell’epoca contemporanea, a‘indossare’ la propria umanità come una seconda pelle. Per un approfondimento di tale tema-tica si rimanda a Derrick De Kerckhove, La pelle della cultura, Milano, Costa & Nolan, 1996.

4 Il saggio Die Frage nach der Technik, relativo a una conferenza tenuta nel 1953, in tradu-zione italiana è presente in Martin Heidegger, La questione della tecnica, in M. Heidegger, Saggi eDiscorsi, Milano, Mursia, 1991, pp. 5-27; per una lettura sul problema dell’ontologia della tec-nica in Heidegger si rimanda a Paolo D’Alessandro, Critica della ragion telematica, Milano, LED,2002, pp. 17-53.

tecnica, della determinatezza del sistema-mondo che il pensatore mutuadalla stigmatizzazione che compie il suo maestro Husserl 5: il mondo èquello avanzato e industrializzato del sistema europeo, con ridotte disugua-glianze sociali e aderente a un processo di globalizzazione che tende a inse-rire le popolazioni nel medesimo orizzonte e ad accomunarle in forza deglistrumenti tipici della realtà occidentale. S’impone quindi il citato progressoscientifico che, abbracciando proprie logiche di mercato, e determinati assiculturali, manifesta le direttrici di una specifica Weltanschauung. La letturache si tenterà di condurre affronterà anche le contaminazioni che si sonosviluppate nel sistema di relazione uomo-media-mondo, soffermandosi, quan-do possibile, sui rapporti di co-implicazione, coercizione, rovesciamento epro-vocazione 6 che l’intramarsi di questi e di altri dispositivi di relazione han-no fatto emergere.

Per affrontare la dimensione filosofica della questione bisogna partiredal presupposto culturale che l’esposizione del pensiero heideggeriano radi-ca la sua impostazione in una fondamentale matrice fenomenologica del-l’analitica esistenziale e trova in essa non solo i contenuti ma anche la formadel suo procedere. Inoltre è decisivo sottolineare anche il valore teoreticodella lettura heideggeriana: per arrivare a comprendere la tecnica secondoHeidegger, e per demarcare il ruolo fondamentale che tale impostazione of-frirà nella rilettura dei rapporti che si instaurano tra l’uomo e i media che lorelazionano al mondo, è indispensabile un’analisi alla luce del concetto diessere-al-mondo più volte esplicitato dal pensatore tedesco.

Riguardo questo ultimo punto già in Essere e Tempo 7 Heidegger defini-sce l’in-der-Welt-sein, come essenza propria del Dasein, cioè l’essere qui e ora,ben lungi però dall’idea dell’essere-presente, ossia collocato o sistemato inun dispositivo-contenitore che incorpora in sé un ente: in-der-Welt-sein nonsvolge insomma la funzione di correlare due enti dati, ma piuttosto di coim-plicarli, per cui ogni entità determinerà l’atto di costituzione del proprio es-sere soltanto nella relazione. A tal riguardo maggior aderenza filologica aquesta impostazione ermeneutica può essere ascritta alla lettura che compieMerleau-Ponty, traducendo l’espressione del filosofo tedesco con être-au-monde, cioè essere-al-mondo 8.

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Provocazioni della tecnica

5 Si rimanda in particolare all’opera di E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenome-nologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1987.

6 Il termine pro-vocazione tornerà spesso nella lettura heideggeriana, e avrà la duplice ac-cezione sia di incitamento, stimolo a reagire, sia di sistema atto a estrarre, a portare alla pro-duzione.

7 Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1971, pp. 76 e ss.8 Scrive Merleau-Ponty: «l’essere al mondo può distinguersi da ogni processo in terza

persona e da ogni modalità della res extensa, così come da ogni cogitatio e da ogni conoscenza inprima persona, proprio perché è una veduta pre-oggettiva e, sempre per questo motivo potrà

È su questo presupposto che nasce la considerazione secondo cui l’es-senzialità della tecnica deve scavare per trovare una via di darsi al mondo.Leggendo lo stesso Heidegger ci si può rendere conto quale sia allora lamodalità di inserire nel rapporto uomo-mondo la questione della tecnica:

noi poniamo una domanda circa la tecnica. Il domandare lavora a costruire una via.[…] La via è una via del pensiero. Quasi tutte le vie del pensiero, in modo quasi im-percettibile, conducono a muoversi attraverso il linguaggio. Noi poniamo la domandacirca la tecnica e intendiamo con ciò procurarci un rapporto libero con essa. Tale rap-porto è libero quando apre il nostro esserci all’essenza della tecnica. 9

Tale domandare non agevola però la costruzione di una via univoca. Il rap-porto di libertà dell’uomo non trova la risposta sull’essenza della tecnicacercando una soluzione ‘tecnica’: non conduce infatti a nessun tipo di ri-sultato di fondo rappresentarsi la ‘tecnicità’ e praticarla, come risulta purefuorviante un atteggiamento di mero abbandono o di tenace negazioneverso la stessa:

la tecnica non s’identifica con l’essenza della tecnica. Quando cerchiamo l’essenza del-l’albero non possiamo non accorgerci che ciò che governa ogni albero in quanto albe-ro non è a sua volta un albero che si possa incontrare tra gli altri alberi come uno diessi. Allo stesso modo anche l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico.Non possiamo quindi esperire il nostro rapporto con l’essenza della tecnica finché cilimitiamo a rappresentarci la tecnicità e a praticarla, a rassegnarci a essa o a fuggirla. 10

Una prospettiva analoga, posta su binari complementari di risposta, è la de-marcazione divenuta celebre negli anni ’60 tra i cosiddetti apocalittici e gli in-tegrati 11: i primi, preoccupati per la diffusione di una cultura di massa, con-formista e definita dalle leggi di mercato, gli altri invece convinti dell’avven-to di una società eterogenea e popolare in cui inserirsi perfettamente.L’oscillazione tra queste due posizioni, determinata dal fiorire della scienzae dal progresso della tecnica, con ripercussioni sulle comunicazioni di mas-sa e le modalità politico-economiche di gestione del patrimonio sociale co-mune, è la traduzione esplicita della metafora heideggeriana proposta perdisarticolare il primo approccio all’essenza della tecnica stessa, offrendouno spaccato tra chi rifugge in maniera apocalittica le suggestioni destinali

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realizzare l’unione dello psichico e del fisiologico» (Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della per-cezione, Milano, Saggiatore, 1972, p.128).

9 Martin Heidegger, La questione della tecnica cit. p. 5.10 Ibidem.11 Il tema degli apocalittici e integrati prende forma da un testo di Umberto Eco del 1964

(cfr. Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964), che ha consacrato involon-tariamente questo binomio, quasi a espressione proverbiale legata alla comunicazione di mas-sa e alle valutazioni sul progresso tecnologico della società contemporanea.

della tecnica, e chi invece si abbandona a essa, integrandosi nei suoi appara-ti in modo quasi rassegnato.

Si potrebbe però offrire anche un terzo e più gravoso scenario. Prose-guendo con Heidegger, si scopre che ancor più pericoloso è arrivare a valu-tare la tecnica come un dispositivo neutro, verso cui un atteggiamento acri-tico e distaccato ne lascia completamente inindagato l’oggetto, facendonesfuggire ogni possibile rappresentazione ontologica non solo alla compren-sione ma anche al giudizio: «ma siamo ancora più gravemente in suo poterequando la consideriamo qualcosa di neutrale; infatti questa rappresentazio-ne, che oggi si tende ad accettare con particolare favore, ci rende completa-mente ciechi di fronte all’essenza della tecnica» 12.

Bisogna allora far sì che l’uomo consegua l’equilibrio nel porre in giu-sto rapporto mezzi e scopi da conseguire: si tratta di «dominare la tecni-ca» 13, con una volontà che deve diventare più urgente quanto più «la tecni-ca minaccia di sfuggire al controllo dell’uomo» 14. Di conseguenza nasce ildubbio su cosa potrebbe divenire la tecnica se, per sua stessa essenza, nonfosse più un puro mezzo: come potrebbe essere controllata dall’uomo, e so-prattutto, come farebbe decadere il ruolo dell’uomo a puro strumento?L’interrogativo troverà risposta in Heidegger stesso con la distinzione traesatto e vero, e con la conseguente considerazione che la verità dell’essenzadella tecnica non coincide con la sua definizione esatta di essenza.

Il senso di questa intuizione sarà rinvenibile mediante un opportunoriesame che affronterà la questione partendo dall’analisi della tecnica comemezzo in vista di fini e, nello stesso tempo, attività umana, ‘pratica’, nell’ac-cezione già incontrata di quel fare specifico capace di produrre degli effettiin base a scopi.

Prima però di tale puntualizzazione, è doveroso un chiarimento chetracci una distinzione tra gli strumenti impiegati in qualità di mezzi o dispo-sitivi, e gli oggetti d’uso, che diverranno perno dialettico nella valutazioneheideggeriana e per tutta quella larga fascia di pensatori e osservatori socia-li che dovranno affrontare il dispositivo della tecnica in relazione agli appa-rati che la costituiscono e la tramutano.

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12 Martin Heidegger, La questione della tecnica, cit. p. 5.13 Ivi, p. 6.14 Ibidem.

2. OGGETTI PRO-CURANTI E PRO-VOCANTI:DALL’INTERAZIONE ALLA TELENSIONE

L’ente prossimo con cui si ha a che fare quotidianamente all’interno delmondo che ci circonda non è l’oggetto di una conoscenza teoretica o con-cettuale del mondo stesso, ma è quello che viene utilizzato, prodotto. La re-altà mondana si mostra quindi come l’insieme di oggetti d’uso, che rappre-sentano gli enti pre-tematici e pre-concettuali, ossia gli enti pragmatici osemplicemente i mezzi.

L’intelligibilità dell’ente/mezzo si palesa proprio nel momento in cuiuna disposizione volitiva ne richiama la pratica: nell’atto della sua pro-voca-zione, precedendo la sfera concettuale, l’ente mondano si mostra all’esserciesclusivamente nell’agire o nel vivere come dotato di una comprensionepropria accessibile nella sfera pragmatica, cioè nel pro-curare (das Besorgen)circostanziale.

Bisogna osservare che gli stessi oggetti e le ‘cose’ utilizzate nella prati-ca quotidiana erano chiamate già dai Greci ta pragmata: ciò con cui si ha ache fare nella praxis, nella pratica pro-curante. Il loro carattere assurge nellalettura heideggeriana al senso di uso-per (das Zeug) e gli enti circostanziali og-getti d’uso-per, rivelando così nelle azioni di routine la modalità d’accesso privi-legiata all’ente mondano circostanziale: pro-curare, appunto, cioè perseguireuno scopo sulla base del proprio bisogno e vantaggio. La stessa ‘cura’ di-venta parte della tecnica, una forma di cura che trasforma gli apparati mon-dani in tasselli di ricomposizione dell’individualità e della soggettività.

Affrontato il ruolo proiettivo degli oggetti, resta da chiarire la loro di-sposizione, cioè la naturale condizione di essere pro-vocati e inscritti in unateleologia circostanziale.

Anzitutto un oggetto d’uso-per non è dato, se non viene collocato all’in-terno di una totalità di oggetti d’uso-per. La sua forma è essenzialmente unqualcosa a-(far sì)-che (Um-zu), ossia rivela un carattere implicito di rimando edi appartenenza alla totalità. Ne deriva che la prassi delimita il mondo circo-stanziale dell’esserci: ciò con cui la pratica quotidiana ha a che fare nonsono i singoli oggetti destinali, bensì l’opera complessiva (Werk) che vieneprodotta. L’opera infatti porta in sé la totalità dei rimandi entro cui si incon-tra ciò che si usa-per, e la pratica di tali oggetti caratterizza l’ente del mondocircostanziale, della dimensione della quotidianità, impiegabile come ciò ilcui essere può trovarsi alla-mano (Zuhandenheit) o sotto-mano (Vorhandenheit),ossia usabile o non usabile. L’essere alla-mano e l’essere sotto-mano diventanocosì le dimensioni privilegiate in grado di provare a descrivere la strutturaontologico-categoriale dell’ente che si incontra per primo nel mondo-circo-stante (die Umwelt). Nell’era della tecnica e delle rivoluzioni tecnologiche tale

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circostanzialità viene spesso ‘virtualizzata’ 15, e anche i più radicali processidi questo tipo, tesi a riprodurre senza limiti di spazio e di tempo l’esperien-za di oggetti e di pratiche contingenti a realtà decostruite e telematizzate,preludono all’utilizzo di specifici dispositivi che diventano meta-enti, cioèdei mezzi di relazione e pro-vocazione, in grado di richiamare, mediante sug-gestione di similarità e riduzione mnestica il prodotto originario della rap-presentazione. Ciò avviene direttamente per i prodotti, per riprodurre agrande distanza i principi della loro effettualità, consentendo un’usabilità at-tuale, capace di diventare ‘concreta’ anche solo sviluppando un potenzialedi applicazione e di impiego su un’altra rappresentazione virtuale 16.

Ma l’esserci non trasforma il mondo per ricavarci dei mezzi, si trovainvece fin dall’inizio ad avere a che fare con dei mezzi con cui la stessa ana-lisi fenomenologica dell’esistenza deve iniziare: oggetti d’uso-per (die Zeuge),cioè enti, cose. E la totalità di tali mezzi o dispositivi viene sempre configu-rata come tecnica. Si evince quindi che la tecnica stessa sia da considerarsicome un dispositivo, un instrumentum.

È da osservare come questi oggetti mantengano nella cultura contem-poranea, politecnica e polisemantica, una certa funzionalità che si reinscrivenella loro natura fenomenica: l’investitura emozionale e culturale che subi-scono gli apparati è proporzionale solo al livello di conoscenza tecnica ef-fettivamente raggiunto dalla società che li pro-duce e li pro-voca. Questo caricofunzionale lega l’uomo ai suoi instrumenta, alle protesi del suo rapporto conil mondo, e finché l’oggetto non si libera da questa formalità intrinseca chene determina l’introiezione causale nel soggetto fruitore, lo stesso soggettoresta vincolato e responsabile della cifra significativa del dispositivo.

Si creano così degli interstizi di funzionalità tra i vari enti della praticaquotidiana e il loro rapporto di co-implicazione con il soggetto che li richia-ma all’uso. In queste «crasi tra spazio psicologico integrato e spazio funzio-nale frantumato» 17 si collocano gli oggetti di serie, che spesso diventanomodelli di vuoto emozionale in cui sono sublimate aspettative, forme e pro-

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Provocazioni della tecnica

15 Il problema dell’esperienza meta-riprodotta e meta-fruita legata al sistema della tra-duzione virtuale e al cambio di prospettiva che l’ingresso di questi apparati ha prodotto è af-frontato in Benjamin Woolley, Mondi virtuali, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.

16 Si pensi in questo caso ai sistemi groupware per la condivisione del lavoro online e atutte le teleapplicazioni che prevedono l’accesso differito ai prodotti per il loro sviluppo e laloro revisione; benché un modello di questo tipo consenta un ventaglio molto più ampio diprogettualità e un notevole innalzamento della soglia qualitativa delle funzionalità di un pro-dotto (artefatto o intellettuale), spesso il risultato raggiunto si trova a collidere con il designemozionale che ne dovrebbe permettere un coerente e trasparente inserimento nelle pratichedi vita quotidiana; si tratta quindi di un problema che riaffronta il prodotto come oggetto de-stinale e il suo carattere implicito di rimando alla circostanzialità in cui dovrebbe inscriversi.

17 Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Milano, Bompiani, 2004, p. 23.

iezioni che derivano dallo scarto di senso tra la ripetitività vacua del loro uso-per, snaturato e massificato, e la loro investitura ‘tecnica’, cioè il luogo onto-logicamente destinale cui sarebbero chiamati, e che portano inevitabilmentea forme di isteria e di sudditanza psicologica nei confronti degli apparatistessi. Si pensi ai casi di telecontrollabilità delle azioni imposte dall’abitudinedi alcuni media di uso quotidiano (telecomando, televisore, telefono…) ealle forme di affezione, di reazione patologica che riescono a innestarequando assurgono a tale ruolo nella pratica pro-curante del quotidiano. In taledirezione, che si avvicina molto alla sociologia dell’assestamento proposta daBaudrillard, si muove anche Roland Barthes, che suggerisce un esempioestremamente semplice ma chiaro utilizzando l’oggetto-automobile:

sembra perfino che l’uniformità dei modelli condanni l’idea di prestazioni tecniche: laguida ‘normale’ diventa allora la sola sfera che possa essere investita di fantasmi di po-tenza e di invenzione. L’automobile trasmette il suo potere fantasmatico e un insiemedi pratiche. E poiché non possiamo fare piccole operazioni manuali sull’oggetto stes-so, è alla guida che tali operazioni vengono devolute… non sono più le forme e lefunzioni dell’automobile che sollecitano la fantasia sognatrice umana, è il suo mante-nimento, e forse presto non dovremo più scrivere una mitologia dell’automobile, mauna mitologia della guida. 18

Si potrebbe parlare di uno spostamento cognitivo del rapporto tra l’uomo ei suoi oggetti destinali, che mantenendo inalterato il livello partecipativo of-ferto dalle forme di reciprocità e scambievolezza a cui la stessa natura pro-iettiva si presta, porta questo rapporto dal luogo dell’interazione a quelloche si potrebbe definire della telensione, che ben rappresenta, mediante lacrasi dei termini ‘tele(controllo)’ e ‘tensione’, la forma propulsiva decentratae deferita di interesse e di appropriazione di un oggetto pro-vocante e pro-curante, in cui la spinta emotiva e subliminale resta declinata verso la proie-zione dell’uso dell’oggetto, verso il suo fantasma e la sua emozione rappre-sentativa, cioè verso un controllo a distanza che innalza la soglia di potenzadel soggetto rendendolo al contempo vittima dell’apparato di cui fruisce acui si affida; il pro-curare degli oggetti diviene quindi una forma di cura delgesto stesso dell’uomo, un’affezione da cui non è facile liberarsi.

Si torna così alla disanima degli aspetti speculativi del pensatore tede-sco, che iniziano a coincidere con un più diffuso senso della tecnica, teso ainquadrarsi nuovamente quale attività dell’uomo, che si propone come mez-zo in vista di fini.

La definizione iniziale «strumentale e antropologica» 19 amplia la por-tata della questione eliminando la demarcazione temporale caratteristica

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18 Roland Barthes, Rèalites, 213, ottobre 1963.19 Martin Heidegger, La questione della tecnica cit. p. 5.

delle differenti e susseguenti forme di tecnica, e getta le basi concettuali perentrare nello specifico dell’esperienza della tecnologia, dove ogni nuovo di-spositivo nasce incorporando in sé una sorta di quidditas del suo anteceden-te, per potenziarlo, estenderlo o semplicemente ridurne l’impatto tra l’uomoe la destinazione del suo utilizzo. Ed è proprio sulla base di questa co(n)fu-sione tra media protesici e obiettivi che ne muovono le pratiche, che si creauna corposa querelle etica e morale contemporanea sull’ecologia dei disposi-tivi della tecnica.

Questo primo tassello del mosaico heideggeriano riapre intanto il cru-ciale problema del rapporto tra l’uomo e i suoi fini, il cui medium, intesocome punto di equidistanza tra le sue pulsioni e il raggiungimento dellestesse, diventa un dispositivo aleatorio e controllabile, o presumibilmentetale. Infatti la tecnica suscita un naturale atteggiamento di asservimento chesposta il focus biologico sulle forme del controllo e del dominio: è stato illu-strato che la tecnica si avvale di protesi, di instrumenta che siano di mediazio-ne tra l’uomo e l’oggetto, nel senso destinale del termine, delle sue tensioni,di veri e propri mezzi da controllare. Proprio per tale definizione, come èstato osservato precedentemente, i mezzi non hanno un carattere indipen-dente da chi li usa, ma nascono nella pratica dell’uomo con gli oggetti empi-rici di relazione, mediante interazione e telensione: chi utilizza una cosa fa diessa un mezzo, uno strumento per i propri scopi, trasformandola nel citatoente di uso-per, in un dispositivo che si pone come la stessa emanazione voli-tiva del soggetto che lo co-implica.

In questa rete di contaminazioni reciproche, alla cui base sta semprel’idea di natura (physis) che si incontrerà più avanti nell’analisi heideggeriana,si crea un ordine di scambi reciproci, nei limiti e nelle possibilità in cui l’uo-mo, imponendo una forma che è cultura, si colloca come meta-artefice del-l’oggetto e diventa ‘transustanziatore’ della natura stessa; dalla filiazione del-le sostanze, di età in età, di forma in forma, si istituisce lo schema originaledi una creatività, «creazione ab utero, con tutto il simbolismo poetico e meta-forico che l’accompagna» 20.

Se ci si sposta da un’analisi ergonomico-cognitiva del problema, versouna ricerca sul campo ermeneutico ed epistemologico, si potrebbe dire conHeidegger che «gli oggetti d’uso non derivano da un particolare atteggia-mento umano nei confronti della natura, bensì costituiscono la determina-zione ontologico-categoriale fondamentale dell’essere dell’ente» 21: si pervie-ne così a delineare una nuova forma del paradigma della tecnica, molto dif-ferente dalla considerazione che tradizionalmente storici e teorici dell’im-

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20 Jean Baudrillard, Il sistema degli oggetti cit. p. 35.21 Martin Heidegger, La questione della tecnica cit. p. 6.

presa scientifica designano con questo termine. Sempre che naturalmente sipossa e si riesca a giustificare la possibilità di un paradigma.

3. OLTRE L’ESATTO, IL VERO

Lo spostamento dell’accento implica però anche un notevole problema intermini ermeneutici, tanto più attuale e cruciale, quanto più l’evoluzione deidispositivi diviene pressante e disordinata. La domanda allora che si pone lostesso filosofo tedesco è se la tecnica non sia un semplice mezzo, come sipotrebbe pensare di poterla controllare e dominare per i propri fini?

La risposta arriva con una rivoluzione della stessa definizione di tecni-ca, introdotta però da una precisazione metodologica e precategoriale, qua-si Heidegger dovesse avvalersi di uno strumento teoretico di mediazioneper giustificare lo sbilanciamento nella Weltanscaung descritta e corroboratadal senso comune: una soluzione ‘tecnica’ per rivoluzionare lo stesso appa-rato messo in gioco.

Per Heidegger il primo passo consiste nel cercare «oltre l’esatto, ilvero» 22, cioè nel dimostrare che non sempre ciò che appare esatto è anchevero, e nello specifico, che la verità dell’essenza della tecnica non coincidecon la sua definizione esatta.

Sebbene si sia costruita e giustificata una definizione strumentale dellatecnica, tale modello potrebbe anche risultare imperfetto, in quanto lasciainindagata l’essenza stessa della strumentalità. Postulando infatti l’esattezzadella definizione a cui si è pervenuti, non si può allo stesso modo giustifi-carne il carattere di verità:

ciò che è esatto constata sempre qualcosa di giusto a proposito di ciò che gli sta difronte. La constatazione, tuttavia, per essere esatta non deve necessariamente svelareciò che le sta di fronte nella sua essenza. Ora, solo dove un tale svelamento si dà acca-de il vero. Perciò quello che è puramente esatto non è ancora senz’altro il vero. Soloquest’ultimo ci conduce in un rapporto libero con quello che ci concerne a partire dal-la sua essenza. L’esatta definizione strumentale della tecnica non ci mostra ancora,perciò, la sua essenza. 23

Si apre così una questione intrinseca al problema stesso della tecnica, cioè ladimensione del concetto di strumentalità: ogni strumento, pro-vocato al-l’adempimento di uno specifico fine, cioè ‘richiamato all’uso’ come terminemedio per il conseguimento di una volontà iniziale, si confonde con le circo-

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22 Ibidem.23 Ibidem.

stanze stesse dell’azione in cui è implicato, e diviene esso stesso causa diquell’effetto che è in grado di pro-durre 24. Da questa prospettiva emergeràanche la natura delle considerazioni che il sociologo canadese MarshallMcLuhan muoverà verso i media, intesi non solo come mezzi di comunica-zione e di scambio di informazioni, ma come dispositivi chiave co-implicatinello stesso messaggio che rappresentano, sostenendo che la forma coinci-de con il contenuto e, in quanto sua preponderante condizione di rappre-sentabilità, finisce per determinarlo 25.

La lettura heideggeriana, partendo dal binomio causa/effetto e dallareciproca intersezione e sostituzione di elementi come mezzo e fine, si aprecosì a una sorta di fenomenologia della causalità, che trova fondamento espazio in una rilettura della originaria teoria aristotelica.

Anzitutto Heidegger dice che ciò che ha come conseguenza un effetto(Wirkung) è chiamato causa, ma causa risulta anche il fine conformementeal quale si determina la natura del mezzo; le cause intramate in un polivocogioco di interconnessioni e rimandi che giustificano la tensione al prodotto,cioè il frutto stesso dell’agire umano, sono quattro: causa materialis, causa for-malis, causa finalis, causa efficiens. Ed è proprio da quest’ultima che il pensatoretedesco muove una via di pensiero che si distacca da quella aristotelica,chiarendo con un esempio la sua posizione:

l’argento è ciò di cui il calice è fatto. In quanto materia (yle) di esso, è corresponsabiledel calice. Questo deve all’argento ciò in cui consiste. […] In quanto calice, ciò che èdebitore dell’argento appare nell’aspetto di calice e non di fibbia o di anello. L’oggettosacrificale è quindi anche debitore dell’aspetto (eidos) di calice. L’argento, in cui l’aspet-to di calice è fatto entrare, e l’aspetto in cui l’argento appare, sono entrambi a loromodo corresponsabili dell’oggetto sacrificale.

Responsabile di esso rimane però, anzitutto, un terzo. Questo è ciò che prelimi-narmente racchiude il calice nel dominio della consacrazione e dell’offerta. Da questoesso è circoscritto come oggetto sacrificale. Ciò che circoscrive de-finisce (beendet) lacosa. Ma con tale fine la cosa non cessa, anzi a partire da essa comincia ad essere ciòche sarà dopo la produzione. Ciò che de-finisce e compie (das Vollendende), in questosenso, si chiama in greco telos, termine che troppo spesso si traduce con ‘fine’ o ‘sco-po’ travisandone il senso. Il telos risponde di ciò che, come materia e come aspetto, ècorresponsabile dell’oggetto sacrificale. C’è infine un quarto corresponsabile dellapresenza e dell’esser disponibile dell’oggetto sacrificale compiuto: è l’orafo; ma non inquanto egli, operando, causi (bewirkf) il calice compiuto come effetto di un fare, cioènon in quanto causa efficiens. 26

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24 Si anticipa qui il binomio pro-vocazione/pro-duzione che mantiene legati indissolu-bilmente i dispositivi di causalità ed effettualità in un modello di indagine e di ricerca scienti-fica del paradigma tecnologico moderno e contemporaneo (cfr. Alan Cromer, L’eresia dellascienza, Milano, Cortina, 1996).

25 Cfr. Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare cit. pp. 15 e ss.26 Martin Heidegger, La questione della tecnica cit. p.6.

Con questa precisazione è Heidegger stesso che prende le distanze da Ari-stotele e da una concezione strumentale della tecnica 27. La quarta causa ingioco, la causa efficiens, ovvero l’orafo dell’esempio, considera e raccoglie i tremodi (materia, forma e finalità) dell’esser-responsabile, e tali modi devononecessariamente a essa la possibilità del loro apparire e la capacità di entrarenel gioco della pro-duzione (del calice stesso, a esempio).

Non bisogna cadere nell’errore, assai diffuso nell’epoca moderna, diconsiderare questa forma di responsabilità dell’essere come una valutazionemorale, né tanto meno un giudizio relativo a un’azione. Si tratta piuttosto dicomprendere l’essere-responsabile come il carattere fondamentale del faravvenire, del lasciar ac-cadere nell’evento; il termine stesso causa/casus è con-nesso al verbo cadere, e significa ciò che fa sì che qualcosa, nel suo risultato,riesca, ac-cada in questo o quel modo, esca dalla latenza per manifestarsiapertamente.

Ogni far-avvenire (veranlassen) dalla non-presenza alla presenza è unaproduzione, cioè una poiesis. Pro-durre (das Hervor-bringen) vuol dire portar-fuo-ri, estrarre. La produzione diviene così il passaggio intimo dalla verità della la-tenza alla non-latenza, dall’essere all’ente entro l’illuminazione di un fenome-no. In questo senso la produzione è uno dei concetti della fenomenologiaheideggeriana che descrive in termini tecnici l’evento/avvento dell’essere.

In tale orizzonte ermeneutico con pro-duzione non si intende solo l’agi-re umano, sia esso la lirica di un poeta, l’opera di un artista o il lavoro di unartigiano, ma il carattere fondamentale del darsi dell’essere, la capacità delportar-fuori nella presenza della rappresentazione, porre nella dis-velatezza,cioè nell’aletheia dei greci:

questo venire si fonda e prende avvio (beruht und schwingt) in ciò che chiamiamo il di-svelamento (das Entbergen). I greci usano per questo la parola aletheia. I romani la tra-ducono con veritas. Noi tedeschi diciamo Wahrheit (verità), e la intendiamo comune-mente come esattezza (Richtigkeit) della rappresentazione. 28

Tale disvelatezza si colloca al di là dell’agire umano, comprendendolo neitermini delle sue forme di responsabilità, e superandolo quando si ponecome espressione poietica della natura, come quella produzione dell’essereche i Greci indicarono con il nome di physis, ‘natura’, o per meglio dire, ‘ilsorgere da sé’.

Il carattere fondamentale del phyein della physis consiste infatti nel di-spiegarsi che si schiude e in tale dispiegamento viene all’apparenza e in essa

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27 Come afferma lo stesso Heidegger «Aristotele non conosce né la causa che si indicacon tale nome, né usa un termine greco corrispondente» (ivi, p. 8).

28 Ivi, p. 9.

si mantiene e permane, provocando quella sostanziale esperienza poietico-pensante dell’essere dell’ente fatta dai Greci. In questa dimensione si trova-no inclusi tanto l’essere, nel senso stretto del permanere, del rimaner fermo,quanto il divenire. E proprio grazie alla physis accade il pro-dursi (das Ent-ste-hen) ossia il portarsi fuori dalla latenza e il recare ciò che è latente in posi-zione. La traduzione di physis in ‘natura’ indica lo smarrirsi del concetto fon-damentale di dinamicità della produzione. La produzione è il farsi, il donar-si dell’essere all’ente, ossia l’evento dell’essere 29.

La physis è poiesis nel senso più alto, in essa avviene quell’irromperedell’essere, quell’iniziale processo di manifestazione, come lo schiudersi diun fiore nella fioritura. Ciò che invece è oggetto dell’arte (umana) non tro-va il movimento iniziale della pro-duzione in se stesso, ma in un altro (nel-l’artigiano).

La poiesis, portando fuori dal nascondimento pone nella dis-velatezza,un venire che si fonda e prende avvio nel disvelamento: la dinamicità del-l’evento porta l’essere a manifestarsi nell’ente, schiude la latenza (lethe)aprendola nella non-latenza della verità (aletheia).

Pro-durre (her-stellen) significa uscir fuori alla luce nella verità. Così ilsenso della produzione appartiene alla verità, alla verità intesa fenomenolo-gicamente come schiarita e illuminazione (die Heitere und die Lichtung). Il fareumano (machen) ha senso solo nel dominare e fare dell’essere (walten) come illasciar venire all’illuminazione 30.

In tale moto, che porta a compiersi nella presenza ciò che non è ancora presente, –conclude Heidegger – si ritrova anche l’idea greca di poiesis, cioè di una pro-duzioneche non è solo la fabbricazione artigianale, né esclusivamente il portare all’apparire eall’immagine dell’artista e del poeta: si tratta di delineare ciò che ha in sé stesso il mo-vimento iniziale (Aufbruch) della pro-duzione. 31

In questo senso il contrario della verità, la cui radice tedesca wahr- rimanda aWahrnis, salvaguardia o custodia e a gewähren, concedere o consentire, non èla falsità, bensì la non-verità. Heidegger usa il significato originario della ra-dice di aletheia; lethe infatti vuol dire nascondimento, Verborgenheit in tedesco,mentre l’alfa privativo nega il nascondimento. Così la verità per i Greci e per

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Provocazioni della tecnica

29 Proprio da tale dinamica di senso nasce il concetto heideggeriano di Seinsvergessenheit,oblio dell’essere, che posto accanto alla fondante domanda (Frage) sul perché si dia in genera-le l’ente e non piuttosto il nulla, ne fa emergere un’altra, precedente (pre-domanda, Vor-Frage):cosa ne è dell’essere? Allora l’oblio viene a sua volta obliato, la dimenticanza cresce a dismisu-ra su se stessa: la dimenticanza della dimenticanza, l’oblio sull’oblio.

30 Cfr. Martin Heidegger, Dell’essenza della verità in Segnavia, Milano, Adelphi, 1987.31 Heidegger porta a tal riguardo l’esempio dello schiudersi di un fiore nella fioritura

(cfr. Martin Heidegger, La questione della tecnica cit. p. 12).

Heidegger è a-letheia, ossia non-nascondimento (Un-Verborgenheit). L’esporsinella svelatezza dell’ente (Entborgenheit) è la manifestazione dell’essere, inquesta manifestazione riposa il senso della produzione in generale e di ogniproduzione in particolare.

Su questa struttura della produzione si inserisce la struttura della tecni-ca come sapiente edificare umano. I Greci non compresero lo ‘storico’, os-sia il sapere che guida la produzione umana regolata da leggi, come con-trapposto al ‘fisico’, bensì concepirono tale ‘storico’ come parte del signifi-cato di physis, sfera d’essere generale omnicomprensiva.

Non è un caso che tutti i poemi rimasti della primissima riflessioneumana non ancora classificabile come filosofia ma per Heidegger più filo-sofica della stessa filosofia, abbiano come titolo perì physeos (sulla natura),come i frammenti di Parmenide, Eraclito, Anassimandro e di tutti i preso-cratici o preplatonici. ‘Sapere’ significa poter stare nella verità della mani-festazione dell’ente: avere delle conoscenze su un aspetto dell’ente non èancora sapere, ma lo presuppone. Anche se tali cognizioni risultano piùprossime alla vita, più opportune alla sfera del quotidiano, più utili ai biso-gni fondamentali, esse presuppongono sempre lo stare, l’abitare nella veri-tà. Il sapere infatti precede ogni conoscenza nella misura in cui è essenzial-mente un saper imparare (lernen können), ben più difficile che possedere co-noscenze. Il poter-imparare presuppone il poter-domandare che viene gui-dato dal voler-sapere, possibile solo nella vista che vede alla luce della veri-tà. E tutto questo diviene un dire (sagen) come esplicitazione del circolo er-meneutico costruito.

Nell’indagine sull’essere della produzione emerge così che l’elementodecisivo e caratterizzante della tecnica non risieda nel maneggiare gli enti invista della loro trasformazione, quanto piuttosto nella loro aletheia, «nell’am-bito in cui accade il disvelamento e la disvelatezza (Unverborgenheit)» 32.

Il percorso di riflessione heideggeriano riconduce dunque l’essenzadell’agire umano nella stessa storia dell’essere. L’ente che si disvela, pro-vo-cato dalla catena delle quattro cause aristoteliche, è la verità dell’esserestesso. Emerge così il carattere ontologico della riflessione sulla tecnica,che gradualmente si allontana dalla prima risposta, strumentale e antropo-logica, che lo stesso Heidegger aveva tracciato nella parte iniziale della suadisanima.

Matteo Ciastellardi

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32 Ivi, p.10.

4. ACCUMULO

Se l’ontologia della tecnica si sviluppa lungo la direttrice della stessa storiadell’essere, resta implicita la domanda su quali siano le differenti connota-zioni che assume nel suo progredire diacronico, soprattutto in considerazio-ne del fatto che la riflessione heideggeriana muove i suoi passi da elementi emodelli della grecità classica, per proseguire in una lettura che circoscrive laquestione fino alle forme di società arcaiche fondate su una dimensione ‘ar-tigianale’ di techne. Resta così aperto un passaggio che traduca il sistema on-tologico del pensatore tedesco nella questione della tecnica moderna, in cuiapparati protesici e strumenti di mediazione amplificano i termini del di-spositivo dialettico di demarcazione.

La grande differenza che evidenzia Heidegger consiste soprattuttonella trasvalutazione del disvelamento che caratterizzava la fenomenologiadella tecnica precedentemente considerata, cambiando il ruolo che legal’uomo alla natura e l’atteggiamento strumentale che lo stesso applica nelperseguire i suoi scopi.

Mentre nell’antica techne si parlava di una pro-vocazione derivante dallequattro cause, che richiamava il ruolo dell’uomo a una strumentalità re-sponsabile della natura, cioè a un ruolo della tecnica come pro-duzione, ora lamedesima forma di pro-vocazione muta la sua cifra ontologica e diventa un di-spositivo di sfruttamento e accumulo della natura stessa; la tecnica diventaun sistema impiegante ed estraniante.

Il passaggio a questa diversa visione del disvelamento avviene e si ma-nifesta quando l’uomo si sente ‘provocato (herausgefordert ist) a provocare (he-rausfördern)’ le energie stesse della natura, marcando un richiedere (stellen)che ‘invoca’ le risorse della physis, le fa emergere e le immagazzina in vistadel loro successivo impiego (Bestellung).

Tale impiego trova in Heidegger una collocazione particolare, che siarticola nel concetto di Bestand:

il termine dice qui qualcosa di più e di più essenziale che la semplice nozione di «scor-ta, provvista» (Vorrat). La parola ‘fondo’ prende qui il significato di un termine-chiave.Esso caratterizza niente meno che il modo in cui è presente (anwest) tutto ciò che harapporto al disvelamento pro-vocante. Ciò che sta (steht) nel senso del ‘fondo’ (Be-stand), non ci sta più di fronte come oggetto (Gegenstand). 33

La costituzione di questo fondo si attua mediante una violenza verso la natu-ra, tramite l’imposizione di un accadere che deve esser dato. L’attività pro-vocatoria della produzione è un richiedere (stellen) che provoca le energie

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Provocazioni della tecnica

33 Ivi, p.12.

della natura, immagazzinandole in vista del loro impiego (Bestellung) 34. Talemodalità di impiego, connotata come Bestand, identifica il modo in cui èpresente tutto ciò che ha rapporto al disvelamento provocante: come diceHeidegger ciò che sta (stehet) nel senso di fondo (Bestand) e non è più datocome oggetto presente (Gegenstand).

La chiave di lettura teoretica cambia davanti a questa provocazione delfondo: cade il ruolo di un oggetto contrapposto a un soggetto e ciò che pro-voca nella tecnica diviene l’in-visibile, il lethe dell’aletheia, il rapporto internotra le cose stesse come loro (s)fondo che le costituisce in una trama desti-nandole all’impiego.

Una declinazione del tutto simile sarà trasposta da Foucault nella con-siderazione di alcuni particolari aspetti del sistema sociale, prendendo for-ma nello specifico topos delle ‘eterotopie’, i non-luoghi carichi di contenutoemotivo derivante dalla provocazione emozionale degli individui e dal di-spositivo sociale animato dai pregiudizi della loro mente collettiva 35.

La tecnica heideggeriana trasvaluta così un approccio fenomenico aglioggetti implicati, sovraccaricandoli di senso e di funzioni, al fine di determi-narne una plausibile trasformazione in un fondo provocabile e impiegabile.Più complesso è l’atteggiamento nei confronti dell’uomo che non si ritrovaa essere autore del richiedere pro-vocante, o almeno non in toto, poiché me-diante il rovesciamento che ha condotto il reale dell’essente-presente a sve-larsi come fondo, e la disvelatezza entro cui tale reale si mostra o si sottrae,l’uomo non può ostentare alcun potere. Resta così palese un’ambiguità chevede l’essere umano simultaneamente impiegato e impiegante:

chi compie il richiedere pro-vocante mediante il quale ciò che si chiama il reale vienedisvelato come ‘fondo’? Evidentemente l’uomo. In che misura egli è capace di un taledisvelamento? L’uomo può bensì rappresentarsi questa o quella cosa in un modo o inun altro, e così pure in vari modi foggiarla e operare con essa. Ma sulla disvelatezza(Unverbor-genheit) entro la quale di volta in volta il reale si mostra o si sottrae, l’uomonon ha alcun potere. […] Solo nella misura in cui l’uomo è già, da parte sua, pro-voca-to a mettere allo scoperto (herausfördern) le energie della natura, questo disvelamentoimpiegante può verificarsi. Se però l’uomo è in tal modo pro-vocato e impiegato, nonfarà parte anche lui, in modo ancor più originario che la natura, del ‘fondo’? 36

Ne deriva una concezione ontologica di marca a-umanistica, in cui l’uomoperde il suo ruolo predominante nel mondo della tecnica moderna: ogni in-

Matteo Ciastellardi

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34 Un eclatante esempio di questo metodo postindustriale di provocare la natura è rap-presentato dalla gestione commerciale delle derrate alimentari, coltivate o allevate con unachiara forzatura dell’ecosistema, per poi venir immagazzinate al fine di un consumo differito.

35 Cfr. Michel Foucault, Eterotopia, Milano, Mimesis, 1994, p.12.36 Ivi, p.13.

dividuo è chiamato a rispondere a ciò che lo interpella e lo pro-voca, che sitratti di una parola, di un gesto o di una rappresentazione allucinatoria; è ildisvelamento stesso che parla dal luogo del suo nascondimento, quale in-vi-sibile latente nella trama del visibile, a cui l’uomo è chiamato a rispondere.

È per questo che la tecnica moderna, assorta a forma di dis-velatezzaimpiegante, non si limita più a essere un operare puramente umano, inquanto in essa l’uomo viene provocato da un dispositivo coercitivo, chenon riesce a controllare e dal quale è addirittura sopraffatto.

Questo tipo di dominio, entro cui si colloca la stessa attività impiega-ta/impiegante dell’uomo, prende il nome di Ge-stell, cioè impianto 37. Il termi-ne è composto dal verbo stellen (porre) e dal prefisso Ge-, che suggerisce lacostituzione di un nome collettivo. La parola Ge-stell, pertanto, non indicaun singolo oggetto isolato, e neppure qualcosa di stabile e circoscrivibiledella risorsa ordinata. Heidegger ne offre una lettura precisa:

chiamiamo ora Ge-Stell, ‘impianto’, la riunione da sé raccolta dello stellen, in cui tuttociò che è ordinabile è essenzialmente nel suo essere risorsa sussistente. […]Ge-Stell,‘impianto’, nomina il da sé raccolto universale ordinare la completa ordinabilità di ciò che èpresente nella sua interezza. Il corso circolare dell’ordinare avviene nell’impianto e inquanto impianto. Nell’impianto l’essere presente di tutto ciò che è presente si trasfor-ma in risorsa. L’impianto attrae costantemente l’ordinabile entro il corso circolare del-l’ordinare, ve lo pone stabilmente e lo depone tra le risorse come ciò che, in tal modo,è stabile. […] L’impianto pone. Esso trascina insieme tutto nell’ordinabilità, accumulatutto ciò che è presente nell’ordinabilità, ed è in tal modo la riunione di tale accumula-re (raffen). L’impianto è accumulo (Geraff). […] Ciò che pensiamo in tal modo comel’impianto è l’essenza della tecnica. 38

Pare così emergere un’altra definizione della tecnica, costruita in una di-mensione più ontologica che antropologica e strumentale, e basata a suavolta su un impianto 39 capillare che intrama Bestellung, Bestand, bestellen e Ge-stell, portando il disvelamento proprio della tecnica moderna, caratterizzatodalla pro-vocazione della natura più che dalla sua pro-duzione, a non poter

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Provocazioni della tecnica

37 Nelle traduzioni del termine Ge-stell è sovente utilizzata anche la parola ‘imposizio-ne’, soprattutto nella traduzione operata da Gianni Vattimo sul testo La questione della tecnica.Si preferisce qui utilizzare il termine impianto, presente a esempio nella traduzione delle confe-renze di Brema e Friburgo curate da Franco Volpi, in quanto si pone come suggestivo edesplicito richiamo a una delle problematiche della tecnica moderna: la submuscolarizzazionee l’iper-azione possibile mediante i sistemi protesici della tecnologia, che si inscrivono comevero e proprio impianto nelle pratiche umane, mutandone i termini d’azione in una prospetti-va olistica e ontologica.

38 Martin Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, Milano, Adelphi, 2002, p. 55.39 Si fa riferimento all’impianto sia per il senso metaforico che il termine suggerisce, sia

per l’effettiva posizione del Ge-stell, che indica la riunione (das Versammelde) di quel ri-chiede-re (stellen) che pro-voca l’uomo a dis-velare il reale nel modo dell’impiego (Bestellung), comefondo (Bestand).

avvenire se non nella dimensione dell’agire umano, ma al di là dell’uomo edella sua sfera di comprensione e coimplicazione, che pure ne permette larealizzazione; di fatto l’uomo è parte in causa diretta dell’aletheia dell’essenzadella tecnica, ma non è l’unico elemento in gioco in vista del disvelamento, néassume un ruolo decisivo per la sua determinazione.

Approdando a queste derive di pensiero rispetto alle posizioni origina-li, Heidegger si discosta molto dalle istanze antropologiche contemporaneee posteriori, orientate a una definizione della tecnica fondata quasi esclusi-vamente sul senso comune. Ne consegue che il percorso su due binari pa-ralleli (prospettiva antropologica e lettura teoretica) tracciato fino a ora nel-la determinazione della tecnica inizia a sintetizzare il ruolo che pensiero, so-cietà e mezzi di comunicazione hanno rivestito a partire dalla metà del No-vecento, distinguendo la loro posizione su diversi piani del sapere e dell’in-formazione.

5. DERIVE

Ciò che emerge come conseguenza dell’orizzonte profilato diviene pericolodestinale per l’uomo, sottoposto e soggiogato al disvelamento che gli concedelibertà solo nella misura in cui appartiene (gehört) all’ambito del destino stes-so, rendendogli il ruolo di ascoltante (ein Hörender) e non di servo (em Höri-ger): prendere atto di quel che accade, proprio mentre si disvela, può facil-mente indurre all’errore, in quanto l’ente viene interpretato strumentalmen-te soltanto in un rapporto di causa e d’effetto, riaprendo le considerazionisul ruolo dell’agire e del fare, senza porsi preventivamente il problema divalutare l’origine dell’essenza della causa stessa, e assumendo la naturacome una sorta di concatenazione causale di forze.

Tuttavia questa condizione di caducità e di errore è costante nella defi-nizione dell’essenza della tecnica. Ciò che invece emerge nella prospettivamoderna dello stesso apparato è il pericolo supremo, ciò che accade quando ildisvelato si presenta come impianto, Gestell, e si manifesta con una duplice il-lusione 40. Da un lato, crollando la contrapposizione tra soggetto e oggettonel disvelamento, l’uomo stesso arriva a considerarsi come un ‘fondo’ im-piegabile; dall’altro lato si assiste all’antropomorfizzazione dell’intera realtà,dove gli enti intramondani sono speculari all’immagine che l’uomo ha di sé.

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40 Per un approfondimento sul pericolo supremo paventato da Martin Heidegger e sul-le due illusioni che lo alimentano, si rimanda a Paolo D’Alessandro, Critica della ragion telemati-ca cit., cap. II, Ontologia della tecnica, pp. 36-38.

L’impianto mina così alla base il rapporto dell’uomo con se stesso, econ ciò che è altro da sé, con la totalità dell’essente: il pericolo è così da rin-venire nell’essenza della tecnica, e non nei suoi apparati o negli strumentiche grande peso avevano giocato nella prima parte del saggio heideggeriano:

l’impianto, tuttavia, non mette in pericolo l’uomo solo nel suo rapporto con se stesso econ tutto ciò che è. In quanto destino, essa rimanda al disvelamento nella forma del-l’impiegare. Dove quest’ultimo regna, scaccia via ogni altra possibilità del disvelare.[…] Là dove si dispiega e domina l’im-posizione, ogni disvelamento è improntato nelsegno della direzione e della assicurazione di ‘fondo’. Queste, anzi, non lasciano nem-meno più apparire quello che è il loro tratto fondamentale specifico, cioè appuntoquesto atto del disvelare.

Così, dunque, l’impianto pro-vocante non si limita a nascondere un modo prece-dente del disvelamento, cioè la pro-duzione, ma nasconde il disvelare come tale e conesso ciò in cui la disvelatezza, cioè la verità, accade.

L’impianto maschera il risplendere e il vigere della verità. II destino che ci invianel modo del Bestellen, dell’impiego, è così il pericolo estremo. Il pericolo non è la tec-nica. Non c’è nulla di demoniaco nella tecnica; c’è bensì il mistero della sua essenza.L’essenza della tecnica, in quanto è un destino del disvelamento, è il pericolo. […] Laminaccia per l’uomo non viene anzitutto dalle macchine e dagli apparati tecnici, chepossono anche avere effetti mortali. La minaccia vera ha già raggiunto l’uomo nellasua essenza. Il dominio dell’im-posizione minaccia fondando la possibilità che all’uo-mo possa essere negato di raccogliersi ritornando in un disvelamento più originario edi esperire cosi l’appello di una verità più principiale. Così, dunque, là dove dominal’im-posizione, vi è pericolo nel senso supremo. 41

Il pericolo più serio non arriva allora dagli apparati della tecnica, dai dispo-sitivi estensivi che ampliano le possibilità di relazione e appropriazione del-la sfera del reale. La minaccia insomma non colpisce l’uomo nella sua esi-stenza, bensì nella sua stessa essenza, poiché pervenuto al dominio dell’im-pianto neghi a se stesso la possibilità di procedere a un disvelamento più origi-nario, per fare esperienza di una verità altra rispetto a quella che sta speri-mentando: si pone dunque come chiara minaccia l’assolutizzazione di ogniforma di disvelamento del Gestell, per la quale «ogni forma di verità chestoricamente conseguita rende manifesto qualcosa, ma al tempo stesso ten-de a nascondere dell’altro, si collochi, appunto, nell’a-letheia» 42.

È quindi nella stessa essenza della tecnica moderna che si intravede ilpericolo supremo, ma anche l’unico approdo per una forma di salvezza.Ciò significa che è nella situazione di pericolo destinale e di ‘gettatezza’(Gevorfenheit) in cui si trova l’esistenza umana che si dà l’unica possibilità disoluzione.

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Provocazioni della tecnica

41 Martin Heidegger, La questione della tecnica cit. p. 21.42 Paolo D’Alessandro, Critica della ragion telematica cit. p. 39.

In ultima istanza resta inindagato un plausibile atteggiamento che pos-sa ‘salvare’ l’uomo e sia in grado di tenere in debita considerazione i passag-gi di un soggetto che muta, divenendo da assoggettante ad assoggettato, edi una coscienza sempre più alienata e reificata, che smarrisce la sua essenzanel rapporto con la natura pro-vocata.

Non trovando un’adeguata impostazione della questione in gioco, cir-ca il problema della tecnica Heidegger sceglierà una forma di compromessotra accettazione e rifiuto. Altrove, infatti, si puntualizza: «vorrei chiamarequesto contegno che al tempo stesso dice sì e no al mondo della tecnicacon un’antica parola: l’abbandono di fronte alle cose (Gelassenheit zu den Din-gen, abbandono delle cose e alle cose)» 43.

Il termine di Gelassenheit intende riprodurre l’ambiguità di senso cheindica allo stesso tempo il lasciare (lassen) le cose, l’abbandonarle assieme(Ge) a se stessi, nell’abbandonarsi alle cose, secondo un’idea di abbandonoche filologicamente deve esser fatta derivare dal francese medievale a bondonner, nel senso di «mettere a disposizione di chiunque qualcosa» 44.

Da queste considerazioni Heidegger approderà alla determinazioneche ogni processo tecnico possiede un senso nascosto, che emerge soloperché l’essenza della tecnica risiede nel disvelamento. Tale senso, che simostra e si nasconde allo stesso tempo, viene considerato come un mistero(Geheimnis) e la nostra apertura al mondo della tecnica assume l’ambiguitàdell’aprirsi al mistero.

Cercando però di non cadere in una lettura esoterica e misticheggianteche pure queste affermazioni offrono, si può concludere che l’abbandono alsenso nascosto della tecnica, dei suoi oggetti e dei suoi strumenti, è costitu-tivo dell’essere umano: come indica proprio il termine tedesco Ge-heimnis, incui si ritrova nuovamente il prefisso Ge-- (che, come già visto, significa insie-me, collettività), unito con la declinazione della radice heim- (che esprime il ca-rattere di casa propria): tale rappresentazione chiarisce proprio il luogo di di-mora dell’intera umanità.

Alla fine di questo percorso ci si trova così a rintracciare una figuraumana non più connotabile come fulcro e punto centrale nella definizioneesistenziale dell’Esserci come in der Welt Sein: la tecnica moderna spodestainfatti l’uomo dalla sua posizione privilegiata, annichilendo la connotazionegerarchica tipica di ogni ricerca connotata antropologicamente. Sia pure ar-tefice degli strumenti con cui pro-voca il fondo, l’uomo viene poi dominatodagli stessi: il medium in quanto tale lo sottrae al suo ambiente naturale, losradica dal suo essere, e più l’individuo tende ad avvantaggiarsi sulla natura

Matteo Ciastellardi

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43 Martin Heidegger, L’abbandono, Genova, Il Melangolo, 1983, p. 38.44 Paolo D’Alessandro, Critica della ragione telematica cit. p.47.

mediante le protesi tecnologiche che sostituiscono le sue abilità e capacità,più viene assoggettato dalla stessa natura, facendolo decadere in uno statodi coscienza degradata e alienata, poiché impoverita della sua stessa essenza.

In questa fitta trama di concause autopoietiche e ricombinanti è quindiil medium, che intercala la volontà proiettiva dell’uomo sull’oggetto delle suepulsioni, divenendo punto di convergenza e di dialogo con la natura, fino asostituirsi al rapporto stesso diretto che il soggetto intratteneva con essa.

Sullo sfondo di questa prospettiva si possono leggere in trasparenza leconsiderazioni politiche di Adam Smith 45, e quelle del giovane Hegel, in-tento a comprendere le tinte del mondo della prima industrializzazione edell’economia borghese 46, per arrivare all’analisi di Marx, operata quale cri-tica radicale al sistema delle macchine 47.

E mentre si profila da un lato l’atteggiamento di abbandono ‘tra il sì eil no’, cresce anche l’impulso a una forma di svolta ermeneutica, in grado diandare oltre la prospettiva heideggeriana, e dunque abbracciare molteplicidirettrici, proseguendo, estendendo e rileggendo criticamente sviluppo edesiti di quanto teorizzato dal pensatore tedesco.

È difatti proprio nello sviluppo asistematico degli oggetti della tecnicae dalla loro modalità di relazionarsi con il substrato più intimo della co-scienza, favorendo così le tensioni proiettive e innescando risposte allucina-torie capaci di condurre fino all’alienazione del soggetto che vi si abbando-na in toto, che si può cercare un punto di leva e di analisi per una rispostache, oltre a documentare, riesca anche a proporre un punto di fuga, una so-luzione che riequilibri la dimensione destinale del problema della tecnica,della sua relazione con l’uomo e con gli apparati coimplicati e del ruolo fon-dante della natura in cui si inscrivono. Non si tratta solo di ripensare un di-spositivo di ibridazione politica e culturale, ma di tradurre, con tutti i rischiche questo movimento comporta, le pratiche e le dimensioni del luogo dellatecnica, rielaborando elementi fondamentali come il contesto e la relazionestessa con gli strumenti.

Una via in questo senso è aperta da un approccio ermeneutico e circo-stanziale al sistema di relazioni uomo-tecnica-natura, grazie al quale un dialogopartecipato tra realtà e scorci differenti può trovare il suo compimentoquando vivifica il contesto, l’intorno geopolitico che lo rende unico, eluden-do letture che cristallizzerebbero il problema in forme antropologicamente

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Provocazioni della tecnica

45 Cfr. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, Roma, Newton Compton, 2005.46 Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Roma-Bari, Laterza,

1984.47 Cfr. Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, Fi-

renze, La Nuova Italia, 2000, e all’interno del presente volume, il saggio di V. Morfino, Marxpensatore della tecnica.

e storicamente definite, sottraendosi a un tale paradigma deterministicosemplicemente senza accostarvisi, né implicitamente, né esplicitamente,grazie agli stessi strumenti di mediazione che diventano pro-vocatori, am-pliando così e, per certi versi rovesciando, il paradigma teoretico prospetta-to da Heidegger.

Non si tenterebbe di sottrarsi a un movimento dialettico in continuaevoluzione, per il quale l’impiegato-impiegante diviene l’agito-agente, ma sicercherebbe di non relegare a un frame di demarcazione unilaterale la que-stione, poiché così facendo essa finirebbe per esser incorniciata in una pro-spettiva parziale, esclusivamente ‘tecnica’.

Una via di fuga, una forma di decelerazione, che riesca ad apprezzarele molteplici declinazioni della tecnica, senza farle entrare in un conflitto si-lenzioso con le stesse modalità percettive ed estensive della cultura, è dun-que immaginabile laddove non ci si limiti a teorizzare il ‘disvelamento’ e apraticare l’‘abbandono’, come fa Heidegger, ma si mette in gioco il contex-tum, il ‘qui e ora’ di una problematica, che non può in nessun caso essere as-solutizzata e astratta dal tempo e dal luogo di riferimento in cui si sviluppa.

Le dimensioni della natura, del sistema degli oggetti, di una volontàumana pro-vocante e im-ponente, diventano la base di analisi dell’impianto(Gestell) della tecnica, il fulcro modale che deve però staccarsi da una sortadi lettura ontologica, in cui la ‘provocazione’ è prodromo a forme di nega-zione della natura stessa, una modalità di produrre un fondo (Bestand) da ac-cumulare e da conservare, decentrando così il senso proprio del ruolo di re-sponsabilità e di cura del sistema olistico uomo-mondo. Seppur allontanan-dosi dal circolo ermeneutico sull’essenza della tecnica, se ne mutuano cosìle modalità di sviluppo e di compensazione dialettica, portando sub iudicio ilruolo di un impianto reticolare i cui nodi sono funzionali e funzionanti soloin relazione all’intero complesso che alimentano e sostengono. Si tratta cioèdi rileggere la disposizione e la relazione di tutti gli elementi in gioco, pervalutare, sostenere o fermare per tempo un dispositivo, di cui si ritiene dipoter gestire ogni aspetto e ogni forma di evoluzione, senza accorgersi peròdi essere intrappolati nella sua complessa trama nel momento stesso in cuilo si affronta con questo spirito di ingenua superiorità.

Matteo Ciastellardi

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Flavio Cassinari

TECNICA E INFORMAZIONEPER UNA CRITICA DELL’IDEOLOGIADELLA COMUNICAZIONE

La tecnica è antica quanto l’uomo […] La tecnica è sempre servitaad aiutare l’uomo a vivere e a far morire.

A. Gehlen, Anthropologische Forschung.

Io non voglio nient’altro se non che il mondo venga organizzato inmodo tale che gli uomini non siano delle sue appendici superflue,bensì – in nome di Dio! – che le cose esistano per volontà degli uo-mini e non questi ultimi per volontà delle prime.

T.W. Adorno, Ist die Soziologie eine Wissenschaft vom Menschen?

Tanto nell’ambito culturale, quanto in quello più specificamente filosofico, ilfenomeno della comunicazione ha assunto, negli ultimi decenni, una visibili-tà decisamente superiore a quanto fosse mai accaduto in passato. Riteniamoche alcuni aspetti decisivi dell’attuale dibattito sulla comunicazione possanoessere messi in luce attraverso le analisi dedicate da Martin Heidegger alproblema della tecnica e da Marshall McLuhan agli strumenti mediatici. Piùesplicitamente: esaminando queste analisi di Heidegger e di McLuhan, indi-vidueremo gli elementi di ciò che definiamo come «ideologia della comuni-cazione», che è caratterizzata dal considerare l’evento comunicativo come ildato primitivo dell’indagine. Questi elementi si compendiano in tre tesi, se-condo le quali, anzitutto, la comunicazione costituisce un evento originario,cioè rappresenta il dato primitivo dal quale l’indagine deve muovere e nelquale si configurano, a livello di singoli e a livello di collettività umani, iden-tità che non hanno realtà al di fuori della comunicazione stessa; in secondoluogo, la comunicazione è un evento che si risolve nella tecnica in cui esso simanifesta, tecnica alla cui essenza, consistente nella riduzione delle distanze

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LED Edizioni Universitarie - www.ledonline.it
Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

geografiche e culturali fra gli uomini, risulta subordinata qualunque altra fi-nalità che trascenda la tecnica comunicativa; infine, la terza tesi sostiene cheil medium della comunicazione sia anche fine e contenuto della medesima,cioè sostiene che non esista significato comunicativo, abbia esso o meno lecaratteristiche dell’informazione, al di fuori della comunicazione.

Mettendo a fuoco questi elementi dell’«ideologia della comunicazio-ne», intendiamo mostrarne l’inadeguatezza nel dare conto della veridicitàdella comunicazione e, in particolare, della veridicità delle informazioni co-municate; proponiamo, perciò, la figura di una «teoria critica della comuni-cazione», che muova dal riconoscimento della comunicazione stessa qualemomento di prassi configurative di identità, singolari e collettive, storica-mente determinate.

1. TECNICA E COMUNICAZIONE

1.1. La tecnica come evento originario

In Die Frage nach der Technik, testo di una conferenza tenuta nel 1953, MartinHeidegger affronta il problema della tecnica esaminando le due risposte,«che chiunque conosce», date alla domanda circa l’essenza della tecnica: «laprima dice: la tecnica è un mezzo per fini. L’altra dice: la tecnica è un’attivi-tà (tun) dell’uomo» 1. Le due risposte, sostiene Heidegger, condividono ilfatto di appartenere a una rappresentazione della tecnica che la colloca inun orizzonte antropologico 2; queste risposte, che si compendiano nella tesisecondo la quale «la tecnica è ciò che produce degli effetti», sono ‘esatte’ (ri-chtige), ma non «vere», perché ci dicono che cosa la tecnica fa, ma non checosa essa sia 3. Per questo, ritiene Heidegger, la tesi che definisce la tecnicacome produzione di effetti non offre un’autentica definizione della tecnicastessa, dal momento che non ne coglie il tratto essenziale, consistente nelsuo essere un ‘disvelare’ (entbergen): la tecnica fa essere ciò che è, poiché essa‘pone’ (stellt) la natura, nel senso che ne ‘promuove’ (fördert) le energie in vi-sta della loro utilizzazione 4.

Flavio Cassinari

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1 M. Heidegger, La questione della tecnica, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia,1976, p. 5.

2 Ivi, p. 10.3 Ivi, pp. 5-6.4 Ivi, p. 11. Diversamente dall’edizione italiana, preferiamo tradurre il verbo stellen con

il termine ‘porre’.

Che differenza intercorre fra la tesi, che non rappresenterebbe, secon-do Heidegger, una definizione in senso proprio, che designa la tecnicacome ciò che produce effetti e quella che la definisce, invece, come ciò che,promuovendo le forze della natura, la mette a disposizione per un utilizzo,facendo essere ciò che è come tale? Nel secondo caso, sostiene Heidegger,si rimane al di qua di una prospettiva strumentale, cioè non ci si compro-mette in una prospettiva che legga la tecnica come il mezzo per un fine, inquanto causa produttiva di un effetto. Nell’interpretazione del fenomenodella tecnica proposta da Heidegger, la tecnica gioca il ruolo di un eventooriginario: per utilizzare l’articolazione aristotelica, richiamata da Heideggerstesso, del concetto di causa 5, qui la tecnica si presenta, a un tempo, comecausa efficiente e come causa finale, come causa formale e come causa ma-teriale, quale fine e mezzo dell’essere al mondo di un ente.

Così caratterizzata, la tecnica si presenta come un evento originario,cioè come un dato di fatto. «Dato di fatto» significa, qui, che la tecnica(non l’‘uomo’, né la ‘storia’) è il primum dell’indagine, ciò che va analizzatoquale elemento primitivo. È questo il punto decisivo, che deriva dal fattoche la tecnica sia qui delineata come un tratto costitutivo dell’essenza del-l’uomo, e in quanto tale, come il suo ‘destino’ ovvero come la sua ‘destina-zione’ (Geschick) 6.

Nelle intenzioni di Heidegger, il carattere destinale attribuibile alla tec-nica permette di dare conto della sua storicità: in altri termini, in forza del-l’attribuzione alla tecnica del carattere di destinalità dovrebbe essere possi-bile considerarla, per quanto collocata nella sfera dell’essenza umana, comeun fenomeno dotato di un suo sviluppo storico. Su questa base, Heideggersi ritiene legittimato a individuare una specificità del manifestarsi della tec-nica nell’età moderna, che lo distinguerebbe da quello nelle epoche prece-denti: nell’età moderna, la ‘promozione’ delle energie della natura, che con-siste nella loro ‘pro-vocazione’ (Herausforderung), cioè nella loro chiamata allaluce da parte della tecnica, preluderebbe, diversamente dal passato, alla loromessa a disposizione in vista della loro accumulazione, finalizzata quest’ulti-ma, a sua volta, a una nuova messa a disposizione 7.

Questa specificità della tecnica nell’età moderna non resta senza con-seguenze per l’uomo, della cui struttura essenziale la tecnica costituisce, ap-punto, un elemento decisivo. La definizione heideggeriana della tecnicacome un’‘imposizione’ (Ge-stell) 8, cioè come un disporre il mondo, rivela,infatti, due aspetti: da un lato, sul versante della realtà oggettuale che l’uo-

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5 Ivi, pp. 6-7.6 Ivi, p. 18.7 Ivi, p. 11.8 Ivi, pp. 14 sgg.

mo incontra (oppure, più esattamente, che egli costruisce) nel mondo, latecnica produce una profonda trasformazione di ciò su cui essa interviene,tanto che si può sostenere che la natura stessa sia, in fin dei conti, un pro-dotto della tecnica. D’altro lato, sul versante della realtà antropologica dellaquale costituisce un’articolazione, la tecnica configura l’identità dell’uomoin un certo modo piuttosto che in un altro, cioè produce una determinataidentità dell’uomo: la manifestazione dell’umano delineata dalla tecnica mo-derna è diversa da quella delineata dalla tecnica antica e ciò dimostrerebbe,secondo Heidegger, che il ‘disvelamento’, operato dalla tecnica nei confron-ti delle forze della natura, «non è semplicemente opera dell’uomo» 9.

Questo aspetto delle analisi heideggeriane, inteso a ricondurre la tec-nica a una manifestazione dell’essere per evitarne l’interpretazione stru-mentalista, che la riduce al ruolo di mezzo utilizzato dall’uomo per i proprifini, indifferente rispetto a questi ultimi, orienta la posizione heideggerianaverso la caratterizzazione della tecnica come un dato di fatto, caratterizza-zione che coesiste con quella secondo la quale la tecnica produce, o meglioconfigura (dal momento che, letteralmente, le «dà figura»), l’identità uma-na; in altri termini, nella posizione heideggeriana emerge una tensione fra ilconsiderare la tecnica come un dato di fatto ontologico e il rilevarne il ruolo configurati-vo nei confronti dell’identità umana, singolare e collettiva, storicamente determinata.Questi due aspetti della realtà della tecnica convergono nell’escludere, peressa, la possibilità di un carattere neutrale sia nei confronti delle finalità og-gettuali che essa consegue, sia nei confronti della forma di soggettività chela utilizza, la quale risulta, invece, configurata da questo stesso utilizzo. Piùellitticamente: secondo le analisi heideggeriane, la tecnica, quale evento origina-rio, definisce sia l’identità di singoli e collettività presso i quali esso accade, sia i conte-nuti oggettuali delle loro esperienze.

1.2. La tecnica non ha contenuto: il mezzo è il messaggio

Posta in questi termini, la definizione del fenomeno della tecnica propostada Heidegger risulta congruente con la celebre tesi di Marshall McLuhan,secondo la quale «il mezzo è il messaggio»; più precisamente, la tesi diMcLuhan può essere considerata come un’articolazione, dal punto di vistadell’analisi fenomenologica della comunicazione, della posizione heidegge-riana sulla tecnica.

Nel tentativo di mettere a fuoco le caratteristiche del fenomeno dellacomunicazione informativa, anche McLuhan muove da un lato dall’assun-

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9 Ivi, p. 13.

zione della tecnica quale elemento della costituzione antropologica («tutte letecnologie sono estensioni del nostro sistema fisico e nervoso per aumenta-re il potere e la velocità») 10, dall’altro dal rifiuto, almeno per la tecnica co-municativa propria del mondo contemporaneo, di un’interpretazione stru-mentalista: ammesso che lo si potesse fare riguardo a fasi precedenti dellosviluppo tecnologico, per la tecnologia dell’automazione, che è «profonda-mente integrale e al tempo stesso decentratrice», dal momento che essa«crea dei ‘ruoli’ e ricostituisce, così, una profondità di partecipazione nel la-voro e nella società umana che la tecnologia meccanica precedente aveva di-strutto», non si può sostenere, ritiene McLuhan, che «il significato o mes-saggio della macchina» risieda non nella macchina stessa, ma nell’uso chedella macchina si fa 11.

Il presupposto non esplicito dell’argomentazione, in virtù della qualeMcLuhan rifiuta l’idea che la tecnologia comunicativa possa essere consi-derata come una mera causa strumentale, indifferente agli effetti da essaprodotti, è costituito dall’interpretazione della relazione causale in cui lamacchina produce effetti alla luce della teoria dell’informazione, secondola quale la causazione di un effetto consiste in una trasmissione di energia,anziché, come vorrebbe l’interpretazione meccanicista del concetto di cau-sa, in una trasmissione di forze; alla luce della teoria dell’informazione,inoltre, ogni trasmissione di energia è interpretabile come una trasmissionedi informazioni, cioè di significati 12. In questa prospettiva, in una relazionecausale qualsivoglia, ciò che viene trasmesso dalla causa all’effetto sonodunque, anziché forze meccaniche, ‘significati’; è a partire da questa inter-pretazione del nesso causale che McLuhan può discorrere del ‘significato’e del ‘messaggio’ di una macchina, e può sostenere che l’energia elettrica «èinformazione allo stato puro. È un medium, per così dire, senza messaggio,a meno che non la si impieghi per formulare qualche annuncio verbale oqualche nome» 13.

Secondo McLuhan, l’energia elettrica non rappresenta un caso limitefra i media, bensì il paradigma di ogni relazione mediatica, dal momentoche il ‘contenuto’ di un rapporto mediatico è «un processo mentale, in se

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10 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Garzanti, 1977, p. 95.11 Ivi, p. 11. La tesi strumentalista, secondo la quale «in se stessi i prodotti della scienza

non sono né buoni, né cattivi: è il modo in cui essi vengono usati che ne determina il valore»è, dichiara McLuhan, «la voce dell’attuale sonnambulismo» (ivi, p. 15).

12 Si veda, al proposito, S. Amsterdamski, Causa/effetto, in Enciclopedia, vol. II, Einaudi,Torino 1977, p. 829; in questo senso, è possibile parlare sia del ‘significato’ che un semafororosso ha, quale causa, per il moto di una vettura, sia di quello che il pH ha per l’equilibrio fi-siologico di una cellula, sia, come fa McLuhan, del ‘significato’ di un apparato meccanicoqualsivoglia, in quanto causa di effetti.

13 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare cit. p. 11.

stesso non verbale», che è, a sua volta, un altro rapporto mediatico: perquesto, «il ‘contenuto’ di un medium è sempre un altro medium» 14. Nell’anali-si di McLuhan, l’elemento almeno altrettanto rilevante, per la comprensio-ne della natura dei media nell’età contemporanea rispetto al passato, dellaquestione circa il loro «contenuto», cioè circa il «messaggio» o «significato»da essi veicolato, è l’effetto implosivo che essi comportano nei confrontidelle distanze, sia geografiche, sia culturali: «dopo essere esploso per tremi-la anni con mezzi tecnologici frammentari e puramente meccanici, il mon-do occidentale è oramai entrato in una fase di implosione» 15. La specificitàdella tecnica moderna, il cui paradigma è rappresentato, come si è detto,dall’energia elettrica, consiste nel fatto che questa implosione procede conuna modalità, sostiene McLuhan, decentratrice o, se si preferisce, policen-trica: «l’elettricità non centralizza, ma decentra […] fa sì che ogni luogopossa costituire un centro e non richieda vasti conglomerati» 16, seguendola tendenza, secondo la logica propria del «villaggio globale», a costituireuna pluralità di centri organici 17.

In accordo con ciò che Heidegger sostiene faccia la tecnica, secondoMcLuhan, sia a livello di singoli, sia a livello di collettività, quando la dina-mica comunicativa riduce le distanze fra le realtà umane storicamente deter-minate, il medium tecnico configura un’identità: l’elemento dirimente, per la di-stinzione fra «media caldi» (quelli che danno una grande quantità di informa-zioni ed esigono minore partecipazione e completamento dell’informazioneda parte del fruitore: radio e cinema) e «media freddi» (quelli che forniscono,al contrario, una mole di informazione minore, rispetto alla quale è necessa-rio un grado maggiore di partecipazione da parte del ricevente, che la deveintegrare: telefono e televisione) si radica proprio nella diversa forma diidentità umana configurata dagli uni e dagli altri 18.

La fortuna della tesi di McLuhan secondo la quale «il mezzo è il mes-saggio» deriva, ci sembra, dal fatto che essa può essere intesa sia in un sensoampiamente condivisibile e più banale, sia in un senso tanto più interessante,

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14 Ivi, pp. 11-12.15 Ivi, p. 5.16 Ivi, p. 42.17 Cfr. ivi, p. 98.18 Cfr. ivi, pp. 27 sgg. Sulla tecnica, in quanto mediatrice fra organismo e ambiente,

come fattore configurativo di un’identità antropologica e, all’inverso, sull’antropizzazione del-la tecnica si vedano, oltre ai testi di A. Gehlen, L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Sugarco,1984, cap. I, e Id., Prospettive antropologiche. Per l’incontro con se stesso e la scoperta di sé da parte dell’uo-mo, Bologna, Il Mulino, 1987, cap. 7, le opere di P. D’Alessandro, Critica della ragione telematica.Il pensiero in rete e le reti del pensiero, Milano, LED, 2002, cap. 3, §§ 2, 10, cap. 6, §§ 9-12, e U. Fa-dini, Sviluppo tecnologico e identità personale. Linee di antropologia della tecnica, Bari, Dedalo, 2000, pp.9-25, 31-48.

quanto più problematico: facendo perno sul primo, la tesi ha diffuso larga-mente il secondo. Il significato banale di questa tesi dice che il medium dellatrasmissione è decisivo per il contenuto del messaggio, e che la trasmissionestessa è decisiva per il messaggio. Così interpretata, questa tesi risulta con-vincente tanto a livello del senso comune (non è la stessa cosa avere qualchecosa da dire e dirlo, non è la stessa cosa dire una cosa in un modo piuttostoche in un altro, né con uno strumento piuttosto che con un altro), quanto aquello di una riflessione filosofica piuttosto elementare: se ciò che è in gioco,in un processo comunicativo, è la comunicazione di un messaggio, anche sesi potesse ipotizzare l’esistenza di un contenuto del messaggio indipendentedalla comunicazione non si può comunque, nell’analisi dell’evento comuni-cativo, prescindere dal fatto e dalle modalità della comunicazione.

Fin qui il senso, un po’ banale perché tautologico, della tesi secondo laquale «il medium è il messaggio». Il senso più forte, che riteniamo meno con-divisibile, di questa tesi è però un altro: nella comunicazione, il messaggio, cioèil ‘contenuto’ di un evento mediatico, non esiste. È questa la prospettiva in cuiMcLuhan può sostenere che l’energia elettrica, anche se chi la usa e la produ-ce non lo sa, non sia altro che informazione allo stato puro, dove non c’è ilmessaggio in virtù del fatto che non c’è il contenuto: è indifferente chel’energia elettrica sia usata per operare il cervello di un paziente, per illumina-re uno stadio durante una partita notturna oppure per far marciare dei tre-ni 19. L’elemento comune a tutti questi «eventi comunicativi» risiede, infatti,nell’essenza della tecnica comunicativa propria della contemporaneità, consi-stente nella riduzione delle distanze geografiche e culturali fra gli uomini.

Il presupposto necessario della tesi secondo la quale il contenuto di unmedium, cioè il messaggio, non esiste è un ben determinato concetto di in-formazione, che risolve la realtà di quest’ultima nella comunicazione: l’infor-mazione è tutto ciò, e soltanto ciò, che viene comunicato 20. Questa tesi sull’essenzadell’informazione rinvia a quella sull’essenza della comunicazione, che con-sisterebbe, nella realtà della tecnica contemporanea, nel ridurre le distanzefra gli uomini: dunque, nell’età contemporanea, l’informazione è tutto ciò e sol-tanto ciò che, in quanto comunicato, consegue il risultato di ridurre le distanze, geografi-

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19 Sull’impotenza, analitica e critica determinata dall’affermarsi di questa tesi di McLu-han, si veda, nella riflessione sociologica, soprattutto italiana, F. Rositi, Sulle virtù pubbliche. Cul-tura comune, ceti dirigenti, democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, parte I, cap. 8.

20 In questa prospettiva, cioè nell’interpretazione di tecnica e comunicazione alla lucedella teoria dell’informazione, vale anche l’implicazione reciproca, cioè ogni comunicazione èinformazione. Per una contestazione di questo secondo senso dell’identificazione di informa-zione e comunicazione, che porta, nella costante necessità di verificare la possibilità di comu-nicare (o, meglio, nella necessità di verificare l’effettività dell’«essere connessi»), alla costanteinterruzione e irrealizzabilità della comunicazione stessa, si veda F. Merlini, La comunicazioneinterrotta. Etica e politica nel tempo della ‘rete’, Bari, Dedalo, 2004, pp. 6-7, 23 sgg., 49.

che e culturali, fra gli uomini. Per questo McLuhan può sostenere, come si è vi-sto, che il contenuto di un medium sia sempre un altro medium: il messaggio,cioè la realtà dell’informazione, è soltanto la sua realtà mediatica, cioè risie-de nella sua capacità di svolgere la funzione mediatica, consistente nel ri-durre le distanze fra gli uomini.

1.3. L’ideologia della comunicazione

Le articolazioni della costellazione concettuale che, a partire dalle analisi diHeidegger e di McLuhan, offre un patrimonio significativo di strumenti al-l’attuale dibattito sulla comunicazione possono essere ora così riassunte:1. la comunicazione costituisce un evento originario, cioè rappresenta il

dato primitivo dal quale l’indagine deve muovere; più precisamente, la co-municazione costituisce l’evento originario in cui si configurano, a livello di singoli e alivello di collettività umani, identità che non hanno realtà al di fuori della comunica-zione stessa.

2. Per questo, la comunicazione è un evento che si risolve nella tecnica incui esso si manifesta; l’essenza della tecnica comunicativa consiste nella riduzionedelle distanze, geografiche e culturali, fra gli uomini e a questa essenza risulta su-bordinata qualunque altra finalità che la trascenda.

3. Infatti, il mezzo attraverso il quale avviene la comunicazione non è, inquanto tale, lo strumento per realizzare dei fini estranei alla comunicazio-ne ovvero per veicolare un significato indipendente da esso; al contrario,il medium della comunicazione è anche fine e contenuto della medesima,cioè non esiste significato comunicativo, abbia esso o meno le caratteristiche dell’infor-mazione, al di fuori della comunicazione.

Riteniamo che queste tesi siano mitologiche e ideologiche.Queste tesi sono mitologiche, nel senso che esse non spiegano, attraver-

so l’individuazione di rapporti di causa ed effetto tra fattori, ciò che accadein un caso determinato di comunicazione, riuscito o meno, ma si limitano araccontarlo (cioè, nel migliore dei casi, a descriverlo) e non offrono, perquesto, criteri per distinguere i casi di trasmissione di informazione veritierada quelli in cui l’informazione trasmessa sia stata parziale o falsa. Detto al-trimenti: in base ai criteri desumibili da queste tesi, non è possibile discrimi-nare una comunicazione ben riuscita, dove sia avvenuto uno scambio di in-formazioni soddisfacente riguardo alla veridicità di queste ultime, da unacomunicazione che non abbia, invece, realizzato uno scambio di informa-zioni con queste caratteristiche 21.

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21 Riteniamo che la comunicazione non si identifichi con la trasmissione di informa-

Di conseguenza, queste tesi sono ideologiche, dal momento che esse,considerando la comunicazione come un evento originario (cioè, nei con-fronti dell’analisi relativa a esso, come un dato primitivo, in quanto tale do-tato di caratteristiche che permettono di definirlo univocamente in ognisingolo caso specifico), nascondono che cosa effettivamente avvenga neicasi determinati di comunicazione, tanto più quando, in essi, la comunica-zione non abbia le caratteristiche della veridicità, cioè, nei casi in cui la co-municazione consista nello scambio di informazioni, cioè di dati oggettua-li, sia avvenuto uno scambio di informazioni false, e comunque tese a so-stenere strumentalmente convinzioni e orientamenti precostituiti rispettoall’atto comunicativo. I criteri forniti da queste tesi non permettono, cioè,l’esercizio di una critica nel caso di un’informazione falsa o esplicitamentepropagandistica.

Per questo, queste tesi costituiscono la struttura portante di ciò che ri-teniamo legittimo definire come «ideologia della comunicazione», il cui im-porsi, nell’età contemporanea, trova puntuale riscontro e motivazioni con-cettuali nella critica, dal punto di vista filosofico, al paradigma egologicodella ragione 22. Non intendiamo, qui, verificare la corrispondenza concet-tuale fra questa critica e le articolazioni dell’«ideologia della comunicazio-ne»; procederemo, invece, a dimostrare l’inadeguatezza di queste tesi, relati-

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zioni relative a dati oggettuali (si veda la nota precedente): di conseguenza, lo stesso criteriodi veridicità della comunicazione sarà diverso nel caso di una trasmissione di informazioni,cioè di dati oggettuali («domani vado in montagna»), e nel caso della comunicazione, peresempio, di stati affettivi o di disposizioni relazionali (rispettivamente, «mi sento insoddisfat-to perché ho lavorato troppo» e «vorrei stare di più con te»), tenendo conto del fatto che, delresto, questi aspetti sono nella gran parte dei casi – sia nelle relazioni che riguardano la sferadei rapporti pubblici, sia in quelle relative alla sfera dei rapporti privati, nella misura in cuiesse possano essere distinte – intrecciati, cioè si forniscono informazioni per indurre deter-minati effetti nel ricevente («ti dico che ho voglia di andare in montagna perché vorrei che tuvenissi con me»). È necessario sottolineare che, per quanto in modo diverso nel caso dell’informazio-ne, cioè nella comunicazione di dati oggettuali, da un lato e in quello della comunicazione di stati affettivi o didisposizioni relazionali dall’altro, il problema della veridicità della comunicazione si pone comunque; daquesto punto di vista, la tesi che proponiamo, che definisce la comunicazione, in quanto fe-nomeno tecnico, come l’elemento di prassi, storicamente determinate, finalizzate alla confi-gurazione di identità, personali e collettive (cfr. infra, § 3), intende fornire un criterio per af-frontare la questione della veridicità della comunicazione in entrambi i casi. Le esemplifica-zioni che seguiranno saranno relative al problema della veridicità nella comunicazione infor-mativa, perché è proprio questo il terreno sul quale ciò che definiamo come «ideologia dellacomunicazione» intende rivendicare la propria validità, sia risolvendo la comunicazione nel-l’informazione in modo implicito, sia considerando la comunicazione diversa da quella infor-mativa, cioè dalla trasmissione di dati oggettuali, come un caso improprio di comunicazione,o comunque estraneo a quello della comunicazione informativa.

22 Su questo aspetto, si vedano le analisi di J. Benoist, Il mito della comunicazione, «Oltre-corrente», (10), 2005, pp. 61-76, che mette a fuoco le aporie del paradigma della «ragione co-municativa», muovendo dalle sue problematiche ascendenze kantiane.

ve alla natura tecnica della comunicazione, nell’analisi di alcuni casi fattualidi comunicazione informativa, dal momento che soprattutto questa, cioè latrasmissione di dati oggettuali, è la tipologia di comunicazione nei confron-ti della quale l’«ideologia della comunicazione» rivendica la propria validità,risolvendo in essa la comunicazione non informativa, oppure considerandoquest’ultima come una forma di comunicazione impropria o, comunqueestranea a quella informativa.

2. LA COMUNICAZIONE COME EVENTO ORIGINARIO?LA DISCRASIA FRA ESATTEZZA E VERITÀ

Intendiamo ora dimostrare che la considerazione della comunicazionecome un evento originario, cioè come un dato primitivo per l’analisi (consi-derazione che da un lato comporta l’individuazione del criterio di riuscitadella comunicazione nella sola riduzione delle distanze, geografiche e cultu-rali, fra gli uomini e dall’altro sostiene la risoluzione del significato, ancheinformativo, della comunicazione in ciò che viene comunicato), impediscedi distinguere fra una comunicazione ben riuscita, con trasmissione di in-formazioni vere, e una comunicazione di informazioni meno riuscita, contrasmissione di informazioni parziali o false. Il primo caso che intendiamoaffrontare è quello del dibattito, sviluppatosi attraverso media cartacei e ra-diotelevisivi nel novembre del 2003, sul sondaggio promosso, nell’ottobreprecedente, dalla Commissione dell’Unione Europea, che era mirato a co-noscere l’orientamento dell’opinione pubblica dell’Unione in merito ad al-cuni temi di politica internazionale; dalle risposte, in particolare a una dellequindici domande di cui constava il sondaggio, emergeva la valutazione, daparte del campione prescelto (7500 cittadini UE, 500 dei quali italiani), diIsraele quale principale fattore di rischio per la pace nel mondo. Fra il 3 e il4 novembre 2003, quotidiani e media radiotelevisivi hanno dato ampia co-pertura al dibattito, che ha visto coinvolte personalità politiche e culturali dinazionalità, schieramenti e levatura diversi; la discussione, del resto, si èsvolta, più che in luoghi istituzionali (Parlamenti o altri organismi, nazionalie comunitari), sui media stessi. Le polemiche hanno riguardato, in ultimaanalisi, il carattere eventualmente discriminatorio, in quanto pregiudizial-mente contrario alla politica e alla realtà stessa dello Stato di Israele, delsondaggio proposto, e sono terminate con la sconfessione, da parte del Pre-sidente della Commissione Europea, del sondaggio stesso.

L’informazione fornita su questo dibattito (che è coinciso in gran par-te, come si è detto, con il resoconto che ne facevano i media), sembra essere

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un esempio di comunicazione riuscita in modo soddisfacente, che verifica letre tesi, che compendiano l’«ideologia della comunicazione», desumibili dal-le analisi di Heidegger e McLuhan. Infatti,1. anche per l’alto grado di coincidenza, qui, tra ciò che veniva comunicato

e ciò che doveva esserlo, cioè tra comunicazione e informazione (fino alpunto che le notizie su cui informare erano ciò che veniva comunicato,cioè consistevano nelle dichiarazioni rilasciate ai media dai diversi soggetticoinvolti nella vicenda), sembra legittimo considerare questo come unesempio convincente del carattere di dato primitivo, per l’analisi che la ri-guarda, della comunicazione stessa. Apparentemente, infatti, è in questoevento comunicativo, non prima, né altrove, che si sono configurate lediverse identità che vi hanno preso parte, sia come fruitrici dei contenutidelle informazioni comunicate, l’«opinione pubblica», sia come soggettiprotagonisti di questi stessi contenuti, tanto che, in conseguenza del-l’evento comunicativo in questione, l’autorità dalla quale dipendeva lacommittenza del sondaggio ha riconsiderato criticamente l’operato di unproprio organo.

2. Molte persone di differenti orientamenti politici e culturali hanno comu-nicato, riducendo distanze geografiche, culturali e politiche e creando, al-meno a livello europeo, il «villaggio globale». Questo caso sembra rap-presentare, sia per ampiezza e omogeneità della diffusione delle informa-zioni, sia, di conseguenza, per il numero dei fruitori che hanno mostratointeresse nei loro confronti, un esempio di comunicazione particolar-mente ben riuscita, senza finalità, che trascendessero la comunicazione,più rilevanti della comunicazione stessa.

3. Il contenuto informativo ha coinciso, apparentemente, con ciò che è sta-to comunicato. A favore dell’apparente risoluzione dell’informazione inciò che è stato comunicato sta il fatto che, a differenza di casi analoghi,pur nella differenza di valutazioni espresse, non ci sia stato un numero si-gnificativo di rimostranze riguardo a eventuali parzialità, nei contenuti enelle modalità, della copertura informativa.

Tuttavia, la rispondenza di questo evento comunicativo ai tre criteridefiniti in base alle indicazioni di Heidegger e McLuhan non garantisce af-fatto della veridicità dell’informazione, se con essa si intende una significati-va completezza delle informazioni fornite: a questo proposito, è da rilevareche il dibattito sui media per un verso ha riguardato, per esempio, la possibi-lità di interpretare i risultati del sondaggio come la critica, da parte di unapercentuale significativa di cittadini UE e della stessa autorità committente,dell’attuale politica estera dello Stato di Israele (o perfino come una manife-stazione, da parte dei medesimi soggetti, di antisemitismo), per altro versoha messo in dubbio il carattere scientifico e, comunque, l’opportunità di un

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sondaggio siffatto, considerato come una sorta di referendum (se non sul-l’esistenza dello Stato di Israele, perlomeno sul suo ruolo attuale nello sce-nario internazionale), ma ha quasi sempre trascurato di riferire il questiona-rio, strumento del sondaggio, nella sua integralità. Questo aspetto ha defini-to la specificità di comunicazione e di dibattito italiani (ma non solo) neiconfronti di quelli di altri Paesi europei: pur ammettendo che riportare tuttii quesiti fosse opportuno, per ragioni intrinseche a dimensioni e natura delcontenuto del messaggio, per i soli media a stampa, e ammettendo dunque,per l’omissione, una motivazione di opportunità strumentale («puramentetecnica», si potrebbe dire) nel caso dei media radiotelevisivi, resta ancora ilfatto che di cinque quotidiani italiani a larga diffusione nazionale (Corrieredella Sera, Giornale, Messaggero, Repubblica, Stampa), fra il 3 e il 4 No-vembre 2003, nessuno ha riportato tutte le domande del questionario.

Questa omissione, per giudicare della natura di ciò di cui si stava di-scutendo, appare significativa, fino al punto che sembra legittimo sostenereche, a causa di questa carenza informativa, la comunicazione abbia riguarda-to più le valutazioni pregiudiziali del sondaggio che non il sondaggio mede-simo. In altri termini, la comunicazione informativa ha riguardato, in questocaso, in misura molto maggiore gli effetti, reali o presunti, del sondaggio e,soprattutto, le sue finalità e motivazioni recondite, reali o presunte, anzichéil sondaggio medesimo; questa comunicazione è avvenuta sulla base diidentità configurate prima e al di fuori di essa, le quali la hanno utilizzata, inmodo strumentale, ai fini della determinazione dei rapporti fra loro; inoltre,ciò ha definito il «villaggio globale» in maniera tanto selettiva – ribadendo laspecificità di alcune situazioni nazionali rispetto ad altre – da rendere pro-blematica la tesi circa la riduzione delle distanze (in ogni significato attribui-bile a questa locuzione), che sarebbe stata operata dalla comunicazione fra isoggetti tra i quali essa è intercorsa.

Dunque, a differenza di quanto affermano le tre tesi dell’«ideologiadella comunicazione», nel caso appena considerato: l’evento comunicativosi è rivelato come un dato secondario, attraverso il quale identità configura-te prima e al di fuori di esso hanno definito i propri rapporti reciproci; la ri-duzione e l’aumento delle distanze fra esse sono stati strumentali alle prassiconfigurative di identità; al di fuori dell’evento comunicativo è rimasto uncontenuto informativo rilevante; ciò è accaduto a causa del fatto che esisto-no significati, dati da finalità e da elementi costitutivi delle identità coinvol-te, che trascendono l’evento comunicativo e il suo stesso darsi come tale.

In altri termini, la considerazione dell’evento comunicativo, risolto nelsuo effetto di riduzione delle distanze fra gli attori della comunicazione,come il fatto originario da cui l’indagine deve muovere, da un lato impedi-sce di valutare la completezza dell’informazione, cioè impedisce di cogliere

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l’eccedere del suo contenuto da ciò che viene comunicato, dall’altro impedi-sce di vedere che le identità si configurano in una prassi, che è, in senso ge-nerico, ‘politica’, di cui l’atto comunicativo costituisce soltanto un momentostrumentale. Per questo, i criteri forniti dalle tre tesi nelle quali abbiamocompendiato le indicazioni desumibili, da Heidegger e da McLuhan, per de-finire la realtà dell’atto di comunicazione danno luogo a un atteggiamentoche è, come si è detto, mitologico e ideologico, anziché analitico e critico:questi criteri producono una mitologia della comunicazione, infatti, dal mo-mento che essi pervengono a una narrazione relativa all’evento mediatico,anziché analizzarlo, e generano un’ideologia della comunicazione, anzichéuna sua critica, perché non permettono di distinguere un evento comunica-tivo in cui si siano trasmesse informazioni vere da uno in cui l’informazionesia stata, invece, propagandistica, oppure addirittura falsa.

Qual è l’elemento decisivo che determina l’«ideologia della comunicazione»? È lanaturalizzazione dell’evento comunicativo, cioè la sua considerazione come il dato primi-tivo, in quanto evento originario, dal quale l’indagine deve muovere; per questo, già ilconcetto di «filosofia della comunicazione» porta con sé una valenza che è,nel senso precisato, ideologica, nella misura in cui esso rinvii all’interpreta-zione dell’atto comunicativo come un evento originario, anziché come la ri-sultante delle prassi di soggetti che configurano, in una dimensione ‘politi-ca’, cioè nella relazione intersoggettiva storicamente determinata, la propriaidentità. In questo senso, l’idea di una «filosofia della comunicazione», senon la si intende come una critica della propria stessa ragion d’essere, siconcretizza necessariamente in un programma di ricerca ideologico, che na-sconde la realtà di cui intende parlare e il proprio stesso procedere argo-mentativo. Per questa via, la figura concettuale della comunicazione rischiadi fare riferimento a un’ipostasi ontologica e si organizza, in ogni caso,come un dispositivo finalizzato a occultare i processi reali attraverso i qualila comunicazione stessa si verifica.

Per un atteggiamento analitico e critico nei confronti dell’evento co-municativo, che sappia articolarne concettualmente le dinamiche e sappiadistinguere, in esso, casi e modalità soddisfacenti di prestazioni comunicati-ve a partire dalla veridicità delle informazioni in esse trasmesse, occorre,dunque, adottare quello che possiamo definire come un approccio critico:esso consiste nell’identificare i soggetti che nella comunicazione agiscono esi scambiano informazioni, riuscendo a cogliere il fatto che, nell’evento comu-nicativo, le identità si trasformano e le informazioni vengono scambiate, ma identità e in-formazioni costituiscono una realtà preesistente all’evento comunicativo stesso.

In altri termini, l’approccio critico consente di analizzare i singolieventi comunicativi storicamente determinati, anziché limitarsi a prenderneatto. In questa prospettiva, l’oggetto di una «teoria della comunicazione»

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Tecnica e informazione. Per una critica dell’ideologia della comunicazione

non ideologica, bensì critica, cioè il dato primitivo dal quale l’indagine devemuovere, non è la comunicazione medesima, concepita, così come Heideg-ger sostiene della tecnica, come ciò che dispone il mondo in quanto manife-stazione del suo essere, bensì la dinamica configurativa di identità storica-mente determinate, dinamica della quale la comunicazione costituisce unmomento. La comunicazione gioca, dunque, il ruolo di variabile funzionale delle pras-si di configurazione di identità storicamente determinate, le quali rappresentano l’auten-tico oggetto di analisi di una teoria critica della comunicazione, cioè di una teoria chesappia distinguere tra forme di comunicazione più o meno soddisfacenti dalpunto di vista della veridicità delle informazioni in esse scambiate.

Nella misura in cui, in una teoria della comunicazione siffatta, la co-municazione si presenta come una tecnica, essa rivela proprio, quale ele-mento della configurazione di identità umane, singolari e collettive, quellacaratterizzazione strumentale e antropologica che Heidegger considera ina-deguata per dare conto della realtà del fenomeno della tecnica; soltanto inquesto modo, del resto, grazie all’«approccio politico» che proponiamo ri-sulta possibile, seguendo le indicazioni di Heidegger stesso, porre la que-stione della veridicità delle informazioni trasmesse come distinta da quelladella loro esattezza.

Detto altrimenti: la veridicità della comunicazione non consiste nel-l’esattezza delle informazioni, cioè non consiste nella corrispondenza pun-tuale, in quanto dati (informativi) oggettuali, ad altre oggettualità, siano esseeventi, oppure disposizioni affettive, concepiti, gli uni e le altre, come datidi fatto, bensì nella capacità, da parte della comunicazione, informativa omeno che essa sia, di mettere in luce il rapporto fra eventi e disposizioni re-lazionali, da un lato, e le identità che si configurano facendo esperienza de-gli uni e delle altre, dall’altro. In questa prospettiva, la veridicità della comunica-zione informativa consiste nella sua capacità di ricostruire il rapporto fra eventi, stati af-fettivi e disposizioni relazionali comunicati e le identità che si configurano attraverso gliuni e le altre, in quanto ‘contesto’ di tali identità; la veridicità della comunicazione noninformativa consiste, invece, nella corrispondenza fra stati affettivi e disposizioni relazio-nali comunicati e le effettive dinamiche configurative delle identità che comunicano.

Dunque, nell’uno e nell’altro caso, questa dinamica configurativad’identità si sviluppa, nell’atto comunicativo, attraverso la trasmissione dielementi (nel primo caso sono dati oggettuali, cioè informazioni, nel se-condo sono stati affettivi e disposizioni relazionali), che costituiscono, inquanto tali, momenti dell’articolazione di questa stessa dinamica, non iltermine di riferimento sull’adeguatezza al quale misurare la veridicità dellacomunicazione.

In breve e più in generale: la questione della veridicità della comunicazionedeve essere ricondotta all’interno della dinamica configurativa delle identità che comunica-

Flavio Cassinari

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no, anziché essere interpretata nei termini dell’eventuale adeguatezza agli elementi, datioggettuali, cioè informazioni, o meno che essi siano, trasmessi nella comunicazione.Come intendiamo ora mostrare, ciò è in particolar modo evidente, unita-mente alla discrasia fra esattezza e verità, nel caso in cui la comunicazioneconsista nello scambio di informazioni relative a una persona, cioè nel casoin cui la comunicazione consista nella trasmissione di informazioni aventiper oggetto una biografia.

3. PER UNA TEORIA CRITICA DELLA COMUNICAZIONE:LA COMUNICAZIONE COME MOMENTODELLA CONFIGURAZIONE D’IDENTITÀ

Ci serviremo di alcuni casi, più o meno recenti, di comunicazione di infor-mazioni relative a personaggi per motivi diversi rilevanti, almeno dal puntodi vista mediatico, per chiarire da un lato il differenziarsi della questionedella veridicità della comunicazione da quella della sua esattezza, dall’altro ilfatto che la questione della veridicità si colloca all’interno della dinamicaconfigurativa delle identità che comunicano.

Il primo esempio riguarda la copertura mediatica relativa alla morte diMarco Pantani, verificatasi il 14 febbraio 2004. In estrema sintesi, la storia:noto per la sfortuna che lo aveva perseguitato nella sua carriera sportiva diciclista, per la caparbietà con la quale, nonostante essa, aveva conseguitosuccessi importanti, per l’isolamento, spesso caratterizzato da ostilità reci-proca, dalla grande maggioranza dei colleghi e per vicende relative all’uso disostanze non ammesse dai regolamenti sportivi, Pantani muore, in solitudi-ne, nella stanza di un piccolo albergo in seguito a un’overdose di sostanze stu-pefacenti. L’amplissima copertura mediatica della vicenda è consistita da unlato nella minuziosità dei ragguagli forniti sulla vita di Pantani e, in partico-lare, sulla sua morte, dall’altro in una serie di commenti in cui si esprimeva-no valutazioni sull’operato di giudici, giornalisti, colleghi dell’atleta, e cosìvia. Dunque, in accordo con la retorica del buon giornalismo, ci sono stateda un lato le informazioni (numerose fino all’indelicatezza e al cattivo gu-sto, esatte fino alla minuzia) sui fatti, dall’altro le opinioni, discutibili quantosi vuole, ma senza dubbio variegate; anche qui, saremmo, apparentemente,di fronte a un esempio di comunicazione ben riuscita, che verifica le tre in-dicazioni desunte da Heidegger e McLuhan, dal momento che sicuramentele informazioni comunicate hanno raggiunto fruitori molto lontani per col-locazione geografica e orientamenti culturali, la comunicazione ha diffusouna gran mole di informazioni, offerte con un grado di esattezza più che

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Tecnica e informazione. Per una critica dell’ideologia della comunicazione

soddisfacente, grazie alle quali chi ne abbia usufruito ha potuto formarsi unparere proprio, in merito alla vicenda, significativamente diverso da quelloche aveva prima della comunicazione.

Che cosa tuttavia non ha funzionato, dal punto di vista dell’approcciocritico da noi proposto? Dove si è aperta, in questo caso, la forbice tra veri-dicità della comunicazione ed esattezza dei dati trasmessi? Per essere brevi:con qualche eccezione, tanto lodevole quanto, dal punto di vista statistico,trascurabile, è mancato anche solo il tentativo di una ricostruzione delleconnessioni, storicamente determinate e necessitanti al di fuori di qualsiasivalutazione di carattere morale, fra il caso di Marco Pantani e le dinamicheintrinseche al cosiddetto «mondo sportivo», in special modo agonistico, ri-costruzione che avrebbe mostrato come questo caso sia emblematico di al-cune modalità di selezione dei protagonisti di questo mondo e della suastessa esistenza. Certo, questa ricostruzione avrebbe richiesto una messa indiscussione della tesi circa il valore positivo, per la società nel suo comples-so, della realtà dello sport (senza ulteriori specificazioni rispetto a questa re-altà: se vissuta a livello amatoriale, agonistico, oppure da meri consumatoridi immagini e discorsi su di essa), tesi che è oggi, almeno in Italia, una veri-tà indiscussa ancora più condivisa, se possibile, di quella relativa alle virtùtaumaturgiche del libero mercato. Al di là di ciò che i criteri delle tesi sopraricordate riescono a cogliere, dunque, in questo caso i fatti riportati sonostati quelli incentrati sulla biografia di un personaggio concepito, in quantotale, nel suo carattere, nel bene e nel male, di straordinarietà, fatti riportati,molto spesso, a supporto esplicito di valutazioni che provenivano da identi-tà configuratesi prima dell’evento comunicativo e al di fuori da esso; lungidal formarsi all’interno dell’evento comunicativo, trasmittenti e riceventidelle informazioni hanno utilizzato la comunicazione come un elementoconfigurativo della propria identità, quasi sempre in funzione confermativadi come essa era costituita prima dell’evento.

A questo proposito, un caso analogo a quello di Marco Pantani si è ve-rificato in occasione della morte di Gianni Agnelli, il 23 gennaio 2003: an-che qui, sembra si sia in presenza, secondo i tre criteri della filosofia dellatecnica comunicativa desumibili da Heidegger e McLuhan, di una comuni-cazione ben riuscita, in misura ancora maggiore a quella conseguita nel casodi Pantani, per numero e minuziosità delle informazioni forniti su vita emorte del magnate, per la loro diffusione, per il fatto (aspetto che è stato,forse il più significativo e, per certi versi, il più sorprendente) che la riduzio-ne delle distanze fra soggetti politici di orientamento molto distante hacomportato una ridefinizione delle loro identità. A proposito di quest’ulti-mo aspetto, si è infatti verificata la convergenza, per molti versi sorprenden-te nella sua generalità, di giudizi sulla figura di Agnelli e sulle modalità in cui

Flavio Cassinari

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l’evento ha ricevuto attenzione da parte dei media: sono stati pochissimi a la-mentare come eccessivo lo spazio dato per tre giorni alla notizia oppure acriticare toni e contenuti da rotocalco delle notizie, quasi sempre di caratte-re agiografico, diffuse anche dai quotidiani più autorevoli.

Eppure, anche qui, dal punto di vista di un approccio critico, deve es-sere rilevato che in questo evento comunicativo è generalmente mancatal’informazione su che cosa abbia significato, anche dal solo punto di vistaeconomico, la gestione di Gianni Agnelli per la sua azienda, con trasforma-zioni che hanno comportato risultati finali certo non giudicabili comeesclusivamente positivi, anzi; ancora più, è mancata l’informazione relativaal rapporto della FIAT, per molti versi anomalo nel panorama italiano edeuropeo, con il potere politico; ancora più marcata, infine, è stata l’esclu-sione, da questo evento mediatico, delle informazioni relative alle ricadutesociali generate da questo anomalo rapporto. Da questo punto di vista,l’ampia maggioranza di pareri generalmente positivi sulla figura di GianniAgnelli deve essere considerata, più che come il riconfigurarsi, a seguitodell’evento mediatico, delle identità di partecipanti alla discussione e deifruitori delle informazioni trasmesse, come il convergere di valutazioniespresse a partire da identità già definite prima dell’evento mediatico stes-so, in funzione strumentale rispetto all’obbiettivo di porsi in sintonia conquello, a torto o a ragione, supposto essere il sentire comune dei fruitori,cioè della cosiddetta «opinione pubblica», altrettanto già dato come defini-to prima del fatto comunicativo.

Il terzo esempio fattuale, il richiamo al quale è quasi obbligato per lasua analogia con i precedenti, dei quali mostra i caratteri in modo ancorapiù evidente, è costituito dall’informazione seguita alla morte di GiovanniPaolo II, il 2 aprile 2005. La copertura mediatica è stata, in questo caso, an-cora più estesa, esatta e apparentemente esaustiva, riguardo all’informazio-ne fornita, di quanto non fosse accaduto in quello di Agnelli, e ancora piùampia è stata la convergenza di giudizi positivi, provenienti da posizioni, inprecedenza molto distanti, dal punto di vista culturale e da quello geografi-co, verso una valutazione senza dubbio positiva dell’opera del Ponteficescomparso; dunque, un evento mediatico ancor più riuscito di quanto nonlo fossero i casi precedenti, secondo i criteri della costellazione concettualericonducibile a Heidegger e McLuhan. Nondimeno, anche in questo casodeve essere rilevata la quasi totale mancanza di informazioni e analisi sulruolo della Chiesa cattolica, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, neigrandi processi di ristrutturazione dello scacchiere geopolitico mondiale, inparticolare in America latina, nell’Africa centro-orientale e nei Balcani, conla parziale eccezione del caso della Polonia (anche qui, tuttavia, va rilevato ilsilenzio sul periodo seguito alla caduta del regime comunista), così come

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Tecnica e informazione. Per una critica dell’ideologia della comunicazione

fuori dall’evento comunicativo sono rimaste informazioni e analisi relativealle trasformazioni strutturali della Chiesa stessa e della sua impostazionedottrinale; il che è apparentemente poco spiegabile, dal momento che l’ec-cezionalità di questo pontificato, comunque la si voglia giudicare, sia ap-prezzandola, sia stigmatizzandola, sia riconducendola a metri di giudiziopuramente storico-materiali, sia individuando tale eccezionalità come la ma-nifestazione, particolarmente evidente, dell’intervento di Dio nella storiadell’uomo, sta proprio in quel ruolo e in queste trasformazioni.

La spiegazione più plausibile sembra rinviare all’altro elemento che ac-comuna questo caso a quelli precedenti: la riduzione di distanza, realizzatadall’evento mediatico, fra posizioni prima lontane fra loro, con l’apparenteridefinizione delle loro identità, nasconde, invece, una cristallizzazione diqueste posizioni prima e al di fuori dell’evento mediatico stesso, e la loroconvergenza è così strumentale (al fine di conseguire un accredito nei con-fronti di quella che è supposta essere la posizione, anch’essa data come cri-stallizzata al di fuori dell’evento comunicativo, dei fruitori dell’informazio-ne, cioè dell’opinione pubblica) da determinare l’espunzione, dal messaggio,di ogni elemento ritenuto problematico per la ricezione.

Chiediamoci ora che cosa accomuni i tre casi fin qui considerati oppu-re, riformulando altrimenti la domanda: a che cosa è dovuta la carenza diveridicità della comunicazione, che in questi casi si è verificata a dispettodell’esattezza dei particolari dell’informazione? Al fatto, riteniamo, che que-sta esattezza è risultata subordinata a esigenze di configurazione d’identitàdi chi diffonde le informazioni, in rapporto dialettico con l’identità di chi lericeve, esigenze che non erano, in questi casi, interessate a definire la realtàdell’oggetto, ma a tenere aperto, al di là del contenuto del messaggio, il ca-nale della comunicazione; il che, del resto, è appunto quanto, secondo le in-dicazioni desumibili da Heidegger e McLuhan, dovrebbe fare la comunica-zione ben riuscita.

Tuttavia, si è visto che, anzitutto, la comunicazione non è una manife-stazione della tecnica come Heidegger la concepisce, cioè come un eventooriginario in cui mondo e identità dell’uomo si dispongano correlativamen-te, né ha quale suo risultato precipuo, come sostiene McLuhan, la riduzionedelle distanze (geografiche e socio-culturali) fra i soggetti fra i quali si verifi-ca: invece, l’evento comunicativo intercorre fra identità che si configurano in una posi-zione che trascende questo stesso evento, e la comunicazione costituisce un elemento diquesta strategia configurativa, cioè un elemento di prassi configurative storicamente deter-minate. Queste prassi gestiscono l’informazione data e ricevuta nella comu-nicazione in modo strumentale alla configurazione d’identità, sia di quellapropria, sia di quella supposta come altrui, riducendo oppure aumentandole distanze subordinatamente alle esigenze della dinamica configurativa.

Flavio Cassinari

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In secondo luogo, ciò comporta che il messaggio non si riduca al me-dium, dal momento che la strategia configurativa d’identità seleziona e defi-nisce il medium in funzione di un contenuto che, pur essendo influenzato inmodo decisivo dal medium, tuttavia non si risolve in esso: perfino nel casodell’energia elettrica, il caso limite, per McLuhan paradigmatico della riso-luzione del messaggio nel medium, la decisione sulle modalità della sua pro-duzione (eolica, nucleare o idroelettrica) e della sua gestione (attraverso so-cietà statali, oppure private) trascende il medium non soltanto perché vieneprima di esso, ma perché, per quanto influenzata dall’atto comunicativo(cioè dai risultati, in corso d’opera, delle modalità di produzione e di ge-stione), rimane al di là di esso e risponde, invece, a criteri politici, in sensolato e in senso stretto, che sono riconducibili a strategie di configurazioned’identità. Più esplicitamente: il contenuto dell’informazione non si risolve nel mez-zo della comunicazione, dal momento che si dà, al di là della comunicazione, un’inten-zionalità che seleziona (o, meglio, che costruisce) l’informazione tenendo conto delle esi-genze comunicative, ma in vista di finalità altre da esse, finalità alle quali queste stesseesigenze sono subordinate.

Ciò fa sì, infine, che una riflessione non ideologica sulla comunicazio-ne non possa consistere in nessuna «filosofia della comunicazione» che laconsideri come un dato primitivo dal quale l’indagine deve muovere, bensìdeve realizzarsi come una teoria critica della comunicazione che focalizzi come decisi-ve, nella propria analisi, le identità, singolari e collettive, le quali, anche attraverso la co-municazione, ma al di là di essa, si configurano grazie a prassi storicamente determina-te. In questa prospettiva, la veridicità della comunicazione si colloca al di làdell’esattezza delle informazioni e si presenta, piuttosto, come ciò che per-mette di ricostruire, attraverso l’analisi delle pratiche configurative d’identi-tà, il contesto (da esse medesime determinato, e del quale la comunicazionecostituisce un momento) in cui queste pratiche si collocano.

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Tecnica e informazione. Per una critica dell’ideologia della comunicazione

Paolo D’Alessandro

LA MANIPOLAZIONE TECNOLOGICADELLA REALTÀ FENOMENICA

1. REALTÀ VIRTUALE E CIVILTÀ DELLE IMMAGINI

Nell’Estetica trascendentale Kant sostiene che, data l’inconoscibilità della «cosain sé», individuata come il totalmente altro, l’unica realtà che si possa cogliere,tramite percezione, è quella fenomenica, vale a dire la Sachheit (cosità) delfenomeno. Lo spirito umano, infatti, è in grado di conoscere solo quel che èoggetto quoad nos, in quanto entra in relazione con il nostro sensorio, mai aldi fuori di esso. Si ha così a che fare, meglio forse dire a che vedere, con quelche appare, per quel tanto che perviene a manifestazione: l’oggetto-per-noiè quel che si dà alla percezione, con il senso della vista, posto tradizional-mente in primo piano.

Sin dalla sua nascita la filosofia trova la sua stessa scaturigine e la ra-gion d’essere nell’apparenza delle cose. Difatti nel Teeteto Platone, dopo avercriticato la teoria gnoseologica protagorea, secondo la quale la conoscenzasarebbe tutt’una con la sensazione e affermato che essa risiede invece nel-l’opinione sostenuta la logos, dà indicazioni circa il fondamento della cono-scenza, lo spunto originario del far filosofia.

Il giovane Teeteto sostiene la sua straordinaria meraviglia di fronte alle‘apparenze’, provocate dalle semplici sensazioni e nel caso in cui ci si fissi aconsiderarle si provano addirittura delle vertigini. Nota Socrate come siaproprio del filosofo provare meraviglia, percependo la realtà del divenire e,soprattutto, che non si dà altro incipit (arche) per la stessa filosofia. Il princi-pio e fondamento (Grund) della conoscenza risiede, dunque, in quel che siprova e si sente nel fare esperienza di quel che appare (le ‘apparenze’, appun-to), di quel che si percepisce, insomma del divenire e di quel che è conside-rata comunemente la ‘realtà’ del mondo.

Cos’è che si dà, cos’è che appare a noi oggi?

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Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

La realtà-per-noi sembra essere, per l’essenziale, quella del ‘virtuale’,prodotto mediante apparati tecnologici informatici e telematici. Non c’è dub-bio infatti che il nostro sia il mondo delle apparenze; non è a caso, poi, che sisostiene di vivere nell’epoca dell’immagine, che al tempo stesso è tutt’unacon la civiltà della comunicazione. Ne deriva il rilievo etico dell’apparenza.

Siamo collocati, volenti o nolenti, nell’ethos dell’apparire, dove quel checonta è il look, la visibilità. L’apparire conta, meglio ancora esso soltanto contadavvero: ciò sta a significare che si è, solo in quanto ci si mostra e in forzadi come si appare. L’essere stesso sembra risiedere e risolversi nell’apparire,vale a dire che lo statuto ontologico della realtà trova piena corrispondenzae dissolvenza nello status ottico. Esiste soltanto quel viene visto, in grado direndersi evidente, mediante delle immagini. Da una considerazione di tipologico e ontologico, secondo la quale razionalmente esiste solo quel di cui sifa parola, di cui si ha notizia e dunque fa parlare di sé, si è così passati aun’altra ben diversa per la quale esiste soltanto quel che ha visibilità, la cuiimmagine si propone e s’impone a noi.

Esibisce, pertanto, il suo statuto di esistenza soprattutto, anche se nonsoltanto naturalmente, quel che si comunica, tramite immagini. In particolare èla Realtà Virtuale (RV), il proprium della nostra epoca, che coniuga informa-zione con apparenza delle immagini, e lo fa mediante la tecnologia digitale.

Il concetto stesso di RV induce a considerare la ‘realtà’ secondo duediverse problematiche.

In primo luogo è RV, quale tecnologia, una modalità di espressione e dicomunicazione, specifica della nostra epoca. In questo caso si ha a che farecon cose e con oggetti di mondo, gli strumenti di informazione, diversi sì,ma almeno nella sostanza eguali a quelli di epoche precedenti. Oggi, insom-ma, utilizziamo il PC, mentre un tempo si adoperava la macchina da scrivere.

La RV è poi anche, d’altra parte, un medium un po’ particolare, con ilquale s’intende rappresentare, mediante una sorta di sdoppiamento, due realtà:quella reale e quella virtuale. Capita così che un ‘oggetto’, meglio ancoratutta una serie o una ‘famiglia’ di oggetti, provi a rispecchiare il mondo nel-la sua totalità, o per lo meno tenderebbe a farlo. Dal momento, poi, che taleprocesso avviene non semplicemente e soltanto tramite immagini, con buo-ne ragioni si può sostenere che la RV vada ben oltre la rappresentazione: èrealtà che ‘dice’ e che significa, infatti, mediante simulazione.

2. L’IMMAGINAZIONE ARTIFICIALE QUALE SIMULAZIONE

Sin dagli albori del pensiero occidentale, è stato identificato nell’intellettoquello strumento con cui si è creduto di poter rappresentare la realtà. La fa-

Paolo D’Alessandro

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coltà intellettiva, difatti, riflette specularmente la res nell’atto conoscitivo,laddove s’intenda la verità proprio quale adaequatio rei et intellectus 1.

La RV, allora, specchio della realtà mondana, svolge analoga funzionedi adeguamento e di conformità. L’unica differenza sembra risiedere nelfatto che mentre la facoltà intellettiva, rispecchiando le cose, produce essastessa le immagini, in vista della loro rappresentazione, la RV produce im-magini per la loro simulazione.

Il termine ‘simulazione’ è di sua natura ambiguo. ‘Simulare’ significadifatti senza alcun dubbio «imitare, rappresentare, riprodurre», ma anche«fingere, ingannare, mentire». L’arte della simulazione comporta, dunque,un’abilità esecutiva del ritratto, della statua, della rappresentazione diun’idea, ma anche quella del saper fingere e del porre in atto uno strata-gemma. A tale ambiguità congenita, sostiene Bettetini, vanno ad aggiun-gersi altre considerazioni, a partire da quella che ogni linguaggio «qualun-que sia la materialità dei segni che lo strutturano, dà vita a operazioni perdefinire le quali non è forse reperibile un termine più appropriato di quellodi ‘simulazione’. Qualunque sia la loro scelta stilistica o di genere, simulanolo scrittore, il pittore, il fotografo, gli autori del cinema e della televisione,il grafico al computer…» 2. Pertanto si può concludere che ‘simulare’ è unacaratteristica intrinseca di ogni linguaggio, perché «un linguaggio deve sem-pre simulare, anche con diverse gradualità, che vanno dall’imitazione, la piùconvincente possibile, di un referente, sul quale si appiattisce tutto il pianodei suoi significati, alla costruzione di significati attendibili, ai quali noncorrisponde alcun referente; ma un linguaggio può anche simulare nel sen-so negativo del termine, mirando a coinvolgere gli elementi destinatari inoperazioni di persuasione nei confronti di significati falsi o, comunque og-gettivamente inattendibili» 3.

Nella formulazione scientifica ‘simulare’ ha poi un preciso significato,relativo alla possibilità di dare descrizione, a un determinato livello di astra-zione, di un fenomeno, potendone anche calcolare la sua evoluzione. I fisi-ci, a esempio, fanno proprio della simulazione il loro obiettivo principale,intendendo descrivere gli oggetti e le loro relazioni primitive; il loro obietti-

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La manipolazione tecnologica della realtà fenomenica

1 La tesi relativa alla concezione della verità come adaequatio, presente in tutto il pensie-ro dell’Occidente, dai Dialoghi di Platone sino alla filosofia moderna, passando per la Scolasti-ca, è rintracciabile nei testi di M. Heidegger, quali La dottrina platonica sulla verità e Dell’essenzadella verità, in Segnavia, Milano, Adelphi, 1987, pp. 159-92. Per un commento all’impostazionedi tali problematiche, con l’intento di marcare la distanza sia dagli oggetti della realtà effettiva,sia dalla stessa RV, mi permetto di rinviare al mio Tra realtà virtuale e verità. Immagini, parole, cose,Milano, Cuem, 1997, pp. 34-9.

2 Bettetini G., La simulazione visiva, Milano, Bompiani, 1991, p. VIII.3 Ibidem.

vo perciò, per lo meno in senso riduttivo, non è capire il perché dei fenomeni,quanto piuttosto descrivere come essi accadano.

La RV è un sistema che produce simulazioni al tempo stesso verisimi-li, polisensoriali e interattive. Essa potrebbe anche definirsi immaginazione ar-tificiale, perché il suo proprio ‘fare’ consiste nel mettere in grado di control-lare le simulazioni tecnologiche con il solo pensiero. Il legame che intercor-re tra immaginazione o creatività del nostro pensiero e tecnologia non ri-guarda naturalmente soltanto il nostro tempo. Esso può essere fatto risalireall’antica Grecia. Dall’invenzione dell’alfabeto sino al computer l’uomo oc-cidentale ha sviluppato forme diverse di RV: tutti quegli strumenti tecnolo-gici e quelle tecniche atte a comunicare, a informare e a formare. I tragicigreci, a esempio, così come in seguito i romanzieri, non hanno fatto altroche produrre RV, trasponendo il prodotto del proprio pensiero e della pro-pria fantasia sulla scena o sulla carta dei loro scritti.

Qualsiasi racconto, storia o discorso è infatti un mondo virtuale, il cuiscopo, oltre a essere quello di dar conto di pensiero e di immaginazione diun autore, permette anche al lettore, tramite adeguata provocazione, l’eserci-zio dell’immaginazione in proprio e la progettazione di nuovi modelli di vita.

La differenza, allora, tra le tradizionali esperienze mediali e la RV risie-de nel fatto che quest’ultima consente al fruitore di dar forma alle potenzia-lità della sua immaginazione in modo dinamico, dal momento che si dà effetti-va interazione tra il sognatore e l’oggetto sognato: insomma, il sogno divienereale, perché lo spirito può farsi materia e ottenere immediata espressionenell’ambiente virtuale.

L’uomo occidentale è fondamentalmente teoretico. Questo sta a signi-ficare che egli ha sviluppato un atteggiamento frontale nei confronti del-l’ambiente circostante, nel quale si propone in posizione di alterità e di con-trapposizione.

A causa dell’alfabetizzazione, vale a dire di un particolare strumentotecnologico con cui entra in rapporto con il mondo, l’uomo ha lasciato chefossero soprattutto gli occhi a dominare la psicologia cognitiva. L’io conosce,pertanto, mediante la vista. Si è così meno sensibili a tutto ciò che non risul-ta incluso nella visione, esterna o interna che sia. Si proiettano immagini dise stessi e delle proprie rappresentazioni dentro e fuori di sé. Il rapportocon l’alterità del mondo è stato così influenzato dalla tradizione teatrale,vale a dire da quella tradizione cognitiva che si rifà al vedere. Ancora piùprecisamente, si è influenzati dalla teoria 4.

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4 In greco teoria sta a significare «qualcosa da vedere», da osservare, che ci sta di controed è sottoposta all’attenzione percettiva del nostro occhio e del nostro sguardo. Theatron, dacui ‘teatro’, è poi qualcosa da guardare, cui fare attenzione.

Il controllo stesso della realtà, proprio in forza di questo particolarerapporto con il mondo che viene privilegiato, avviene attraverso un punto divista distaccato, che guarda sempre degli oggetti, siano essi immagini di mo-delli pittorici, siano immagini dei segni dell’alfabeto, presenti nella scrittura.L’oggetto viene osservato dall’esterno ed è così che viene immaginato, pen-sato, giudicato; psicologicamente parlando lo si può prendere o lasciare, cosìcom’è. Può anche accadere di trasformare un giudizio, perché cambia il pun-to di vista sull’oggetto, ma la struttura della mente che fa teoria, vale a direche guarda, non risulta minimamente intaccata e rimane sempre la stessa.

Nell’ambiente virtuale, invece, proprio perché si è nel topos dell’immagi-nazione artificiale, si è partecipi attivi relativamente al mondo che ci circon-da, piuttosto che osservatori passivi di una realtà, che ci sta-di-fronte (non acaso, nella lingua tedesca, l’oggetto è Gegen-stand, quel che sta contro).

Si ha così a che fare con un nuovo regime di figurazione, in cui vengo-no alterati i rapporti tradizionali tra immagine, oggetto e soggetto, protago-nisti classici della rappresentazione cognitiva. Da una parte infatti l’immagi-ne di sintesi, come forma di modellizzazione concettuale, si appropria di unalto grado di autonomia, dall’altra l’osservatore e fruitore dell’immagine vie-ne fagocitato 5 da visioni pluriprospettiche e interattive. Proprio in virtù del-l’interattività, poi, l’immagine non è più uno spazio chiuso e impenetrabile,ma un universo immediatamente accessibile al centro del quale l’operatorepuò penetrare a piacere, andare e venire, lasciando così traccia di sé.

3. L’IMMAGINE-OGGETTO

La modellizzazione logico-matematica dell’immagine sembra introdurre aun’altra categoria di realtà, un po’ immagine e un po’ oggetto: è l’immagine-oggetto. Abbiamo così a che fare con una specie di mondo intermedio, ametà tra sensibile e intelligibile, tra realtà terrena e idee platoniche.

Il nostro rapporto con il monitor di un PC è radicalmente diverso ri-spetto a quello che si ha di fronte a un quadro, a una fotografia, a un film o

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5 L’immagine è autonoma, capace di movimento proprio. D’altra parte il fruitore ècompreso in quanto si lascia prendere dal vortice in cui è entrato, proprio in virtù o a causadell’ambiente virtuale. Il fruitore si lascia andare, è eteronomo, perché viene condotto, piutto-sto che condurre in prima persona in qualità di soggetto; si trova a essere in quello stato chesi potrebbe definire, con Bachelard, di rêverie. Qual è allora il controllo della soggettività con-sapevole nel topos proprio della ‘fantasticheria’? Insomma, c’è da chiedersi, chi è che sogna? Inanalogia con la risposta dell’epistemologo francese, il quale sosteneva il protagonismo del so-gno del mondo stesso, qui si potrebbe allora dire che chi sogna è la stessa RV.

alla TV. Di volta in volta si vengono a creare situazioni diverse, rispetto amedia differenti, che propongono immagini fisse o anche in movimento.

La RV viene spesso paragonata alla messa-in-scena teatrale, ma invecene differisce radicalmente. Meglio ancora, la si potrebbe paragonare a unteatro, a patto che si faccia opportuno riferimento al teatro greco pre-euri-pideo, nel quale lo spettatore era partecipe dell’azione scenica, per il tramitedel movimento del coro. Oggi si assiste, invece, alla rappresentazione tea-trale con il medesimo atteggiamento che si assume al cinema o dinanzi a unapparecchio televisivo; si è spettatori del tutto passivi ed esclusi dall’azione,che accade sulla scena in modo autonomo rispetto a noi: siamo al di fuori eguardiamo quel che accade al di dentro. Questo sembra proprio essere ilcomportamento peculiare dell’uomo moderno occidentale nei confrontidella realtà del mondo: osserva come spettatore disinteressato e disincanta-to, quale soggetto, con sguardo obiettivo e scientifico.

Con la RV, invece, si è dentro l’immagine e ci si guarda attorno. È anziforse impreciso dire che ‘si guarda attorno’, poiché il senso della vista non èl’unico a essere messo in gioco. La RV infatti è un quid (oggetto-immagine,si è detto) che si può anche sentire e toccare, oltre naturalmente vedere eudire. Inoltre si ode e si vede non soltanto con l’occhio e con l’orecchio del-la mente, ma tramite la stessa realtà in cui ci si trova immersi.

Il fruitore penetra lo schermo, vale a dire entra in contatto con l’im-magine virtuale e la sua mano rende reale quel che è visibile 6. Si è così ingrado di sentire e percepire gli oggetti che ‘portiamo’ nelle nostre menti,creati da esse, gli oggetti-immagini, insomma.

Si noti, poi, come nella cultura occidentale la sensibilità tattile sia stataben poco considerata. La nostra è difatti una tradizione astratta e intellet-tuale, che ha trascurato pertanto il ricco insegnamento che proviene dalsenso del tatto e più in generale dei cosiddetti sensi ‘a distanza’. Nella RV,invece, non è possibile condividere l’immagine, vale a dire entrare nell’am-biente virtuale stesso, se non si può arrivare a toccare l’oggetto-immagine.

La storia della simulazione computerizzata, e in particolare dell’imma-ginazione artificiale, è proprio, e anzitutto, storia della penetrazione all’in-terno dell’ambiente virtuale tattile. Si è perciò passati dalla bidimensionalitàalla tridimensionalità stereoscopica, sino allo sviluppo rapido della simula-zione di sensazioni tattili.

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6 Nel piccolo, quasi in embrione, è l’esperienza che ciascuno di noi già fa con il mouse,intervenendo nell’interfaccia del software. L’introdursi nella RV è sempre più sofisticato, pas-sando dallo strumento tecnico rappresentato dalla tastiera al mouse: oggi ormai i polpastrellidelle nostre dita penetrano nel programma, toccando una superficie, la superficie stessa delloschermo; i comandi possono essere dati anche a voce e il PC, mediante il «riconoscimentovocale» arriva a personalizzare il rapporto interattivo con l’utente.

Quel che s’intende è che si riconosce al senso del tatto una strumenta-lità cognitiva di primaria importanza; esso è addirittura da considerare il piùimportante, se è vero che i bambini apprendono nei primissimi anni di vita,decisivi come si sa per il loro sviluppo futuro, proprio servendosi dei sensi acontatto e che noi adulti, proprio quando parliamo delle nostre conoscenzecontinuiamo a servirci di metafore tattili. Si sostiene, a esempio, che impa-riamo, cercando di ‘afferrare’ una situazione; lo stesso verbo ‘comprendere’(in tedesco suona come be-greifen, afferrare) è una metafora tattile.

4. LA SIMULAZIONE DIGITALE TRA REALTÀ E RAPPRESENTAZIONE

Proviamo ora a considerare più attentamente la res con cui si ha a che farenell’atto della simulazione; vediamo cioè di chiarire che tipo di oggetto èquello di cui si fa esperienza, che appare quale fenomeno nell’ambiente virtuale.

All’oggetto-immagine si è pervenuti proprio nell’intento di stabilire lo«statuto ontologico» di quella res, che è sperimentabile e manipolabile in unambiente virtuale.

Si è poi precisato di non essere più alla presenza di una rappresentazio-ne, che offre sempre e soltanto immagini frontali, bidimensionali e appan-naggio di un solo senso, ma di una simulazione, in grado di produrre oggetti. In-fine si è sottolineato il fatto che tali oggetti si presentano non più semplice-mente e soltanto con stimolazioni visive e/o acustiche, ma anche tattili 7.

A ben riflettere, però, la simulazione informatica non fa che esaspera-re alcuni dei caratteri da sempre presenti nella rappresentazione. Quest’ulti-ma, infatti, non è mai stata un mero duplicato della realtà, ma la sua ricostru-zione, atta a trasferirla su un supporto materiale, per renderla così disponibi-le e manipolabile.

Anche le più antiche rappresentazioni iconiche erano delle modalità dilettura della realtà e strumento di intervento su di essa 8. S’intendeva fare

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7 È indubbio che nella simulazione sono maggiormente utilizzate, di fatto, le immaginivisive e acustiche. Questo è accaduto, perché il produrre simulazione nel registro audiovisivoè vantaggioso, in quanto concerne informazioni rapide, fruibili a distanza, codificabili e con-servabili a lungo «in memoria».

Pur tuttavia, oltre che le informazioni relative ai sensi a distanza, oggi sono simulabili,grazie a specifiche tecnologie, anche quelle riguardanti i sensi della prossimità e del contatto.La simulazione nella RV concerne perciò tutti i sensi, in una direzione rappresentativa globa-le e polisensoriale.

8 I disegni animali nelle grotte preistoriche, a esempio, non erano certo immagini nelsenso moderno del termine, perché non volevano in alcun modo essere, né significare pure esemplici fotografie. Esse trasferivano l’animale «in carne e ossa», sulla superficie rocciosa e

apparire (il fenomeno) come reale (la realtà) quel che tale non è. È così che siistituisce la nozione di simulazione come pratica quasi naturale, perché quelche è non-reale non viene a coincidere con l’illusorio o il falso, ma piuttostocon il non ancora attuale.

Ogni epoca ha prodotto le sue simulazioni. Nella nostra ci troviamo difronte a entità ibride, situate tra ciò che è reale (oggetto) e ciò che non lo è(rappresentazione). La simulazione informatica, dunque, propone o meglioripropone l’originario stato di non separazione tra immagine e oggetto, of-frendo un ambiente adeguato, quello virtuale, per la definizione degli ogget-ti, indipendentemente da ogni loro visualizzazione.

Abbiamo a che fare con procedure di modellizzazione, numerazione eprogrammazione, che hanno connotato la virtualità quale spazio manipola-bile di sperimentazione che è ormai da considerare intermedio tra oggetto eprogetto, mentre sinora il virtuale veniva considerato soltanto come luogodeputato all’attività di immaginazione e di rappresentazione simulata.

Questa nuova accezione di virtuale, propostaci dall’ingegneria informa-tica, contribuisce così a ridefinire le nozioni di immagine, di oggetto e dispazio percettivo, il topos stesso in cui avviene il processo di modellizzazione.

Il nostro mondo tecnologico si è così popolato di chimere: le iconedei menu dei PC, preposte alla gestione della composizione dei testi virtua-li, a esempio, sono certo delle immagini, le quali sono però create non tantoper essere guardate, ma piuttosto per generare un’azione particolare me-diante il mouse, il cui movimento fisico manipola oggetti immateriali (testi ealtre immagini). Sono degli apparecchi banali, se si vuole, ma assieme al ca-sco per la visione stereoscopica in ambiente virtuale e al body provvisto disensori, creano nuove possibilità di animazione e costituiscono quel nuovospazio di percezione, in cui è possibile per il fruitore vedere, parlare, comu-nicare, muoversi e sperimentare, così come si potrebbe fare nella vita reale.

5. L’OGGETTO QUASI-SOGGETTO DELLA RV

S’impone ora un’importante precisazione. Siamo nel mondo che prospettaun’ipertrofia dell’immagine informatica, dal momento che la cosiddetta ‘ci-viltà dell’immagine’ sembra essere giunta al suo culmine. Eppure, proprioaccanto a una rinnovata efficacia del mondo visivo, si è paradossalmente e

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non facevano altro che inaugurare in questo modo la storia stessa della rappresentazione, tra-mite simulazione.

contraddittoriamente portati a ipotizzare la sua sparizione. L’immagine, in-fatti, non è più rappresentazione, ma è presentazione, non più figurativa,ma funzionale. Essa si carica di un coefficiente di realtà e ritrova la sua ori-ginaria efficacia attraverso nuovi percorsi, quei percorsi informatici che lapongono in-essere quale fenomeno simulato.

È per questo allora che s’insiste da parte di vari studiosi della RV sutermini composti, che stanno a indicare una sorta di creatura ibrida: l’imma-gine-oggetto, come anche l’oggetto-immagine. Ci si trova così a dover con-statare un nuovo rapporto tra reale e virtuale, tra immagine e oggetto.

La simulazione informatica non intende pertanto operare la sostitu-zione della realtà con la simulazione. Questa idea della sostituzione del rea-le con il virtuale corrisponde a una dicotomia e a una contrapposizione,che vengono trasferite e adattate dalle categorie della rappresentazione,laddove l’immagine è al posto dell’oggetto e la macchina, in quantomedium/strumento, è al posto dell’uomo. Lo specifico della simulazione in-formatica tende a prospettare ben altro: una scenografia, legata all’appa-rente virtuale e allo spazio cibernetico, in cui gli attori (reale/virtuale, og-getto/immagine, conoscenza umana/intelligenza artificiale) occupano po-sizioni inedite, interagenti e mai alternative: nessuno soppianta l’altro, matutti tendono a integrarsi a vicenda.

L’oggetto virtuale si comporta come modello ideale di un oggetto rea-le. Nelle diverse visualizzazioni sul monitor del PC, dunque, non appaionoimmagini, vale a dire rappresentazioni dell’oggetto, quanto piuttosto moda-lità d’interazione con un modello, che è il disegno virtuale, insito nel pro-gramma in uso di un determinato oggetto. È come se ci si stesse occupan-do degli ‘organi’ dell’oggetto simulato, del suo ‘cuore’.

Il virtuale, così inteso, è allora una dimensione del reale, un suo aspettospecifico sino a quel momento rimasto nascosto, non certo qualcosa che èdestinato a sostituirlo. Il virtuale è il concreto di pensiero, che attribuisce al pro-getto un’estensione, gli conferisce delle possibilità che non si limitano piùalla sfera dell’immaginario. Coincide difatti con il pensiero stesso nella suastruttura operativa, tesa alla realizzazione di un progetto e che ci si presentanella sua articolazione «in carne e ossa».

È qui di nuovo in gioco, come si sarà compreso, lo stesso statuto ontolo-gico dell’oggetto.

Da sempre esso è caratterizzato da una doppia natura: quale protesi,che amplifica ed estende le nostre capacità biologiche, e quale segno, suppor-to significante di sempre possibili significati. Tale distinzione binaria va oggiforse messa in discussione, perché è comparsa una nuova famiglia di ogget-ti, capaci di svolgere funzioni complesse, di elaborazione, memorizzazionee trasmissione di informazioni.

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Si tratta, in realtà, pur sempre di protesi, che, appartenendo alla nuova ge-nerazione dell’informatizzazione, rappresentano però un moltiplicatore di at-tività cerebrali e sensoriali, che si allontanano da quella natura di prolunga-mento semplicemente fisico, che da sempre gli strumenti hanno avuto. Emer-ge così una sorta di superprotesi virtuale, che è informazione organizzata in formadi strumento. Tale nuovo oggetto deve poi stabilire con il suo fruitore un’in-terazione; esso è pertanto oggetto-interattore con chi lo utilizza ed entra nelladimensione della comunicazione linguistica in forma addirittura colloquiale 9.

Si prende atto così di una variazione ontologica dell’oggetto e, di con-seguenza, varia anche il rapporto che tradizionalmente intercorre tra ogget-to e soggetto. È venuto a crearsi un oggetto, che è protesi dello stesso siste-ma nervoso centrale, piuttosto che quello relativo a capacità fisico-corpo-ree; l’oggetto computerizzato è così da considerare ‘intelligente’, perché par-tecipe del mentale 10.

Muta, poi, anche il rapporto tra soggetto e oggetto, in quanto si è trasfor-mato uno dei due poli della relazione: l’oggetto è divenuto un quasi-soggetto.

6. LA TRASFORMAZIONE ANTROPOLOGICA

Nel mondo della RV, in cui tutto è comunicazione e informazione e nelquale anche gli oggetti quasi-soggetti stabiliscono in modo autonomo delleinterrelazioni, muta anche, e di conseguenza, lo stesso soggetto: non si dà

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9 L’oggetto-protesi è sempre esistito. L’oggetto tradizionale nella funzione di prolunga-mento funzionale del soggetto utente si propone come quella struttura che pone e dispone aldi fuori di noi, amplificandole, alcune nostre potenzialità biologiche. A esempio, il coltellomoltiplica l’azione altrimenti limitata dell’unghia o del dente; il motore, invece, quella del no-stro muscolo, ecc.

Analogamente avviene per l’oggetto informatico e interattore: esso è la prosecuzione,al di fuori di noi, al di fuori del nostro cogito, di alcuni aspetti specifici dello stesso sistema ner-voso centrale.

10 Si dovrebbe opportunamente distinguere la ragione dall’intelligenza, naturale o arti-ficiale che sia. La ragione è tutt’una con la struttura dell’argomentazione, in virtù della qualeogni discorso acquista specifica significatività e peculiare efficacia.

Senza dubbio il PC funziona in virtù di una ratio precisa, che corrisponde alla logica or-dinatrice, imposta dal progettista. La ragione informatica e telematica, dunque, e prima anco-ra la ratio che regola la scrittura elettronica e la simulazione della RV è animata da «pensierocalcolante» fulcro e motore delle scienze, piuttosto che da «pensiero meditante», facendo rife-rimento alla nota distinzione heideggeriana.

Dalla parte del pensiero meditante si dà la ragione poetica, estranea totalmente alla fisio-logia della macchina: si tratta dell’intelligenza, che certo non può fare a meno della memoriadei dati acquisiti, assoggettati al calcolo razionale, ma che, nel riproporli, può anche pervenirealla loro modifica. È così che la ragione poietica diventa creativa, nella ripetizione dello stesso,mai però dell’uguale.

più un’entità che pensi la materia e che si possa così qualificare, come tradi-zionalmente avveniva, quale ‘il soggetto’, ma si è piuttosto in presenza di ef-fetti di soggettività, di nodi semiotici e culturali, di reticoli e di strutture retico-lari, prodotti dalla collusione e dalla commistione di elementi disparati e didiversa natura: entità fisico-chimiche, evoluzioni tecnologiche e produzioniimmaginifiche.

Non soltanto allora il pensiero è da considerare sempre più come col-lettivo, attribuibile a più ‘autori’, ma questi ultimi, poi, non sono da ritenerepiù ‘soggetti’, quali sostanze individuali pensanti, materiali o spirituali chedebbano intendersi 11. Possiamo allora concludere che si pensa: in modo di-versificato e simultaneao neuroni, modelli cognitivi, individui umani, istitu-zioni e PC entrano in quel cortocircuito o gioco della messa-in-scena dellarappresentazione (Darstellung). È così che si trasformano e si traducono imma-gini e si arrivano a produrre nuove rappresentazioni (Vorstellungen).

Si attua un’autentica trasformazione antropologica.La RV è un mondo intermedio, situato tra sensibile e intelligibile, tra re-

altà terrena e idee platoniche; l’interfaccia uomo/macchina è il topos in cui ilrapporto con la RV diviene intimo. Pertanto essa provoca una collusione direaltà e di virtualità, di materialità sensibile e di immaterialità intelligibile.Quali sono le conseguenze per noi? Il nostro corpo, l’intero corpo si badibene, completo di sensi e d’intelletto, abita un altro mondo, un universo im-materiale, che però è anche in grado di provocarci sensibilmente come se fos-se di natura materiale.

Portiamo fuori dal corpo le nostre stesse funzioni, quali sue protesi: ci siserve così di bracci meccanici, ci si affida alla memoria dei computer, si ado-perano ‘cervelli’ elettronici. È in tal modo che viene realizzata l’esteriorizza-zione e la frammentazione del corpo individuale. Allo stesso tempo, però,

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11 Non vuol dire proprio nulla, chiediamoci, il fatto che una facoltà così importante edeterminante per la conoscenza e per il pensiero qual è la memoria sia stata proiettata al-l’esterno del cogito e successivamente potenziata al massimo, rispetto a quelle che possono es-sere le nostre stesse possibilità naturali?

Nel Fedro Platone sottolinea la diversità dell’oggetto-protesi scrittura, quale strumento dimemorizzazione, rispetto alla comunicazione tradizionale, mediante voce. Essa è sì utile perricordare, vale a dire per «tenere a mente», non certo per la facoltà della memoria, la quale siatrofizza, perché non viene più esercitata. Analogamente capita oggi per la scrittura elettroni-ca. Se è vero, però, che la memoria è indispensabile per il pensiero e se è poi anche vero cheessa è ormai tutta (o quasi) esterna al nostro cogito, c’è da concludere che il pensiero risulta di-sperso tra un fuori e un dentro. Il pensiero si realizza così nel gioco di elementi disparati, uno deiquali, com’è naturale, è il nostro stesso mentale. Con la scrittura elettronica, poi, che interagi-sce nella RV, non è soltanto la facoltà della memoria a essere esteriorizzata, ma la stessa intel-ligenza, o per lo meno la ragione telematica, laddove si mostra come la tecnologia elettronica siaprotesi del sistema nervoso centrale e dunque delle funzioni specifiche del mentale (in vista diun approfondimento di tale problematica, mi permetto di rinviare al mio Critica della ragione te-lematica, Milano, LED, 2001, pp. 59-63 e 196-200).

con la RV si interiorizza l’ambiente tecnologico circostante, lo si modifica, losi rende reale prolungamento della propria individuale attività di pensiero.

Da notare come l’introiezione dell’ambiente esterno sancisca una sortadi equivalenza tra materia e pensiero, tra il fuori e il dentro rispetto al nostrocorpo. Valutiamone le conseguenze. Proprio un rapporto diverso con l’am-biente, che non è più soltanto circostante o distante, ma piuttosto è nell’istan-te, vale a dire tutt’uno con la nostra immaginazione e il nostro pensiero delmomento, ci porta a una considerazione del tutto diversa dello spazio.

Lo spazio è addirittura azzerato. Non si danno più distanze; possiamoviaggiare senza muoverci dalla nostra stanza, essere dinamici nella più totalestaticità. Troviamo così scritto che «l’unico movimento del soggetto saràquello dell’attore sulla scena; teleattore che non si getterà più in alcun mez-zo di spostamento fisico, ma in un altro corpo, un corpo ottico, per andarepiù lontano senza spostarsi, per vedere con altri occhi, toccare con altremani, essere là senza esservi veramente, straniero con se stesso, transfugadel suo stesso corpo, esiliato per sempre» 12.

Siamo così diventati dei nomadi elettronici, in movimento su un territorioimmateriale, fatto di palinsesti televisivi, di agglomerati di dati, di flussi dicomunicazioni, di costruzioni semiotiche, cognitive e culturali. È poi sor-prendente il fatto che per riuscire ad attrezzarsi al meglio per questo insoli-to tour, quasi totalmente mentale, occorrono delle armature, delle protesielettroniche, integrate all’organismo biologico, che costituiscono con essodei veri e propri ibridi. Lo statuto ontologico del corpo, che si espande e altempo stesso muta, ne risulta così sconvolto: «le nuove tecnologie […] for-mano con me un circuito integrato. Video, tele, computer, minitel sonocome lenti a contatto, protesi trasparenti integrate al corpo fino a farne pra-ticamente parte […]. La qualità di uomo o di macchina è indecidibile» 13.

Si è ormai alle prese con organismi cibernetici, fatti di carne e ossa,ma anche di metallo, plastica e circuiti integrati. È il cyborg, figura emblema-tica dell’immaginario mutuata dalla fantascienza, che aiuta a comprendere letrasformazioni del corpo, mettendo in luce quell’insieme di processi che av-vengono ai confini tra uomo e macchina. I corpi sono oramai pervasi infat-ti dalla tecnologia elettronica 14.

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12 P. Virilio, L’inertie Polaire, Paris, Christian Burgois, 1990, p. 163.13 P. Baudrillard, Lo Xerox e l’infinito, in Ferraro A., Montagano G. (a cura di), La scena

immateriale, Genova, Costa & Nolan, 1994, p. 166.14 Facciamo esperienza della trasformazione corporea facendo riferimento alle nostre

stesse protesi fisiche: occhiali, apparecchi acustici, bastoni, arti artificiali, by-pass, organi arti-ficiali… Quel che oggi, però, viene ad aggiungersi, procurando anche sconcerto, è il fatto chegli oggetti-protesi influiscano direttamente sulle nostre facoltà primarie, perché riguardano ilmentale, di cui sono il prolungamento nell’ambiente di una Rete globale.

Consideriamo ora più da vicino l’interazione tra realtà umana e am-biente artificiale, l’ambiente tecnologico computerizzato. Il significato cheviene dato a un’informazione si basa sull’interazione di immagini all’internodella nostra mente. Per comprendere, a esempio, le parole che leggiamo suun libro, noi le trasformiamo in immagini e l’idea stessa di un Io individualee di una coscienza provvista del proprio immaginario deriva in primo luogoproprio dalla lettura. La RV, e ancor prima la TV, offre informazioni e im-magini/oggetti al di fuori della nostra mente: è un invito dunque a costituireil senso al di fuori della percezione sensoriale della nostra coscienza.

Il tipo di realtà mentale con cui abbiamo a che fare è oramai al di fuo-ri del corpo individuale del fruitore, al di fuori della mente del singolo indi-viduo. Anche quando semplicemente si guarda la TV, se la nostra mentenon si distrae mettendosi a vagare, le immagini che promanano dallo scher-mo si sostituiscono alle nostre, penetrano in noi. Si è così partecipi di quelsentire comune che il medium televisivo offre al momento. Tutto ciò acquistasenza dubbio maggiore evidenza nella RV, per via dell’attivazione di proces-si cognitivi che comportano interazione da parte dei fruitori.

I media elettronici integrati, che costituiscono in noi dei veri e propriibridi, sono un’espansione della nostra psicologia, del nostro io individuale.Nella RV si svolge una mediazione tra sistemi interni dei singoli utenti e si-stemi di elaborazione esterni. Il PC agisce, dunque, quale interfaccia tra psi-cologia e tecnologia, tra risposte neurologiche e risposte elettroniche.

Ci si trova così alla presenza di veri e propri scambi bio-tecnologici,tra elementi biologici e vitali ed elementi tecnico-materiali inanimati. Il me-dium tra neurologia ed elettronica è l’elettricità. Difatti l’elettricità, prodottaorganicamente nel cervello, ma anche tecnologicamente e artificialmente, èla base comune che avviluppa il globo intero in un’unica grande e sconfina-ta Rete. È proprio l’elettricità, infatti, che garantisce i collegamenti e checrea i nodi della rete universale. Lo scambio di intermediazione bio-tecnologi-co tra corpo-mente-macchina viene ora collegato all’ambiente globale daelaboratori di dati e da relais su scala interplanetaria.

I sistemi di elaborazione delle informazioni sono estensioni di alcunedelle proprietà principali psicologiche della nostra mente. Si tratterà alloradi occuparsi delle tecnologie della psiche, tramite lo studio delle psicotecno-logie, come sostiene De Kerckhove: «l’elettricità fluisce attraverso i popoli ele culture dando loro nuovi assetti nell’atto stesso di riconfigurare i campitecno-magnetici. Proprio come i media elettronici attraversano i confini fisi-ci e geografici, anche il flusso elettronico attraversa i confini della nostrapersona. Il tubo catodico annulla la maggior parte delle nostre difese psico-logiche ed erode le mura delle nostre identità personali. Poiché le strutturedei sistemi di trasmissione di informazione modellano formalmente le no-

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stre risposte psicologiche (il medium in questo caso è il messaggio), le psico-tecnologie creano le condizioni per un Io esteso, che scaturisce dall’Io indi-viduale sino a giungere ai più remoti confini di tutto ciò che possiamo inda-gare con le nostre estensioni percettive e motorie in continua espansione etotale esplorazione» 15.

Da un Io interno si passa così a un Io esteriorizzato, che sconfina e de-borda rispetto ai limiti corporei dell’individuo, con un’espansione destinataa un’esplorazione che si delinea oramai come globale.

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15 D. De Kerckhove, Brainframes, Bologna, Baskerville, 1991, pp. 185 e ss..

BIBLIOGRAFIA

Questa bibliografia propone alcuni testi significativi che si occupano delruolo della tecnica in relazione a diversi problemi filosofici.

Sono stati inseriti e presi in considerazione, in modo particolare, auto-ri e testi del pensiero contemporaneo in quanto è proprio dalla secondametà dell’Ottocento che la riflessione sulla tecnica assume un’accezione in-novativa e un forte interesse, tanto da divenire oggetto di indagine autono-ma e da influenzare molte correnti filosofiche del Novecento.

Il problema della tecnica si lega in modo indissolubile ai cambiamentiprodotti dalle trasformazioni delle scienze moderne che hanno messo a di-sposizione dell’uomo strumenti capaci di provocare modificazioni, anchetraumatiche e violente, nella società. Questi cambiamenti, continui nel mon-do che ci circonda, trasformano anche l’uomo che utilizza gli strumenti tec-nici e producono nuovi modi di relazionarsi con i tradizionali problemi del-la nostra quotidianità.

La tecnica non ha uno scopo e non propone verità, ma è ciò che fun-ziona e funzionando trasforma, in modo sempre più globale, la realtà e iconcetti della tradizione del pensiero occidentale. Per questo i problemi eti-ci, estetici, epistemologici, ontologici, relativi alla comunicazione sono statiripensati da molti autori alla luce dell’atteggiamento che il singolo soggettoha nei confronti dei media attraverso i quali produce conoscenza e sapere.

Le sette sezioni in cui è suddivisa questa bibliografia individuano alcu-ni temi e problemi fondamentali attraverso i quali si è sviluppato il dibattitosulla tecnica nel pensiero contemporaneo. Si è cercato anche di mettere inevidenza testi e percorsi originali che sono emersi durante gli interventi te-nuti nel seminario del Lab-et 2005 dagli autori presenti di questo volume, inmodo da facilitare il lettore in vista di possibili approfondimenti.

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LED Edizioni Universitarie - www.ledonline.it
Qusto testo è tratto dal volume "Filosofia della tecnica", a cura di P. D'Alessandro e A. Potestio. Per raggiungere la pagina web del volume cliccare all'interno della prima pagina

1. ETICA E TECNICA

Questa sezione individua alcuni testi che hanno come oggetto di riflessione l’atteg-giamento dell’uomo di fronte alle trasformazioni del sapere tecnico e cercano di in-dagare ed elaborare norme di comportamento all’interno di una società complessacome quella moderna. Partendo dalla riflessione di Nietzsche sui modelli di com-portamento umani si arriva alle analisi antropologiche e sociologiche di Gehlen eAnders, della scuola di Francoforte fino ad arrivare agli studi sulle possibilità diun’etica dopo l’esperienza delle guerre mondiali e del genocidio.

Anders G., Die Antiquiertheit des Menschen. Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter derdritten industriellen Revolution, vol. II, München, Oskar Beck, 1987; trad. it.L’uomo è antiquato: sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione indu-striale, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

Nella terza rivoluzione industriale l’uomo crea una nuova natura, non è più solohomo faber ma anche homo creator, in chimica, in biologia e nelle diverse discipline tec-niche. Queste trasformazioni comportano diversi rischi negli equilibri della natura erendono l’uomo sempre più superfluo, in quanto il suo lavoro viene sostituito conl’automatismo delle macchine. La perdita degli equilibri naturali rende difficile lapossibilità di stabilire norme di comportamento che siano autonome rispetto alleregole dettate dal profitto economico.

Anders G., Der Mann auf der Brucke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki, München,Beck, 1963; trad. it. Essere o non essere: diario di Hiroshima e Nagasaki, Torino,Einaudi, 1961.

Il giorno in cui è stata sganciata la bomba di Hiroshima è cominciata una nuovaera nella quale possiamo trasformare e distruggere, in ogni momento, tutto ciòche ci circonda. Questa immensa possibilità di autodistruzione ci rende onnipo-tenti, ma, nello stesso tempo, impotenti in quanto corriamo il rischio continuo diripetere un’altra Hiroshima. Per il filosofo tedesco, dopo la bomba atomica, la sal-vezza e la costruzione di norme etiche di comportamento non sembrano più rea-lizzabili.

Anders G., Wir Eichmannsohne: offener Brief an Klaus Eichmann, Beck, München, 1988;trad. it. Noi figli di Eichmann, Firenze, Giuntina, 1995.

Il testo raccoglie due lettere che Günther Anders ha scritto al figlio di Eichmannnel 1963, dopo la condanna a morte del padre in Israele, e nel 1988, venticinqueanni dopo aver atteso una risposta mai arrivata. L’autore offre al figlio di Eichmannla possibilità di prendere le distanze dalle azioni paterne evitando di affermare chesuo padre aveva ‘soltanto collaborato’ con il regime nazista senza riconoscere le re-sponsabilità etiche delle sue azioni.

Agamben G., Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Borin-ghieri, 1998.

Auschwitz rappresenta l’ammissione del limite che la conoscenza storica e il saperefilosofico devono assumere come proprio punto di partenza e di rifondazione.Non possiamo dimenticarci di Auschwitz, se vogliamo tentare di costruire dellenorme sociali per la nostra società, ma allo stesso tempo è impossibile arrivare a

Bibliografia

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una comprensione, un giudizio su quello che è successo. Agamben rifiuta di occu-parsi delle responsabilità di Dio, come fa Jonas, ritenendo più giusto rimanere sulleresponsabilità dell’uomo.

Arendt H., Eichmann in Jerusalem, New York, The Viking Press, 1963; trad. it. La ba-nalità del male, Milano, Feltrinelli, 1964.

Il libro nasce dagli articoli scritti dalla Arendt che assiste, come inviata del New Yor-ker a Gerusalemme, al processo contro Eichmann, accusato e condannato per cri-mini contro il popolo ebraico durante il secondo conflitto mondiale. Il male cheEichmann rappresenta diviene ‘banale’ perché è incarnato da un piccolo burocrate,da un tecnico che si occupa di trasporti, da un impiegato che mantiene aspetti diassoluta normalità.

Apel K.O., Transformation der Philosophie, Frankfurt am Main, Surhkamp, 1971; trad.it. Comunità e comunicazione, Torino, Rosenberg & Sellier, 1977.

Apel intende fondare l’etica su basi trascendental-pragmatiche. Al posto dell’apriorisoggettivistico, il filosofo tedesco opta per una concezione comunicativa dell’apriori,basata sui presupposti normativi dell’interazione. Apel considera l’intesa e il con-senso come concetti normativi della prassi linguistica, che mettono in luce la strut-tura trascendentale che rende possibile l’esperienza dialogica in generale.

Apel K.O., Etica della comunicazione, Milano, Jaca Book, 1992.L’etica del discorso si fonda sulla pretesa di fondazione razionale dell’etica, pur inriferimento alla situazione storica dell’uomo e alla conseguente applicabilità dellasua concezione sistematica. Essa si basa dunque sul principio della co-responsabili-tà che lega la costruzione normativa alla capacità di fornire risposte concrete ai di-lemmi sociali della morale. Apel contesta il rifiuto nichilistico, scientistico e post-il-luministico di una fondazione razionale dell’etica.

Dewey J., Democracy and education, New York, The Macmillan, 1916; trad. it. Democra-zia ed educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1992.

Il testo è un tentativo di esporre le idee implicite che sono alla base dello sviluppodelle società democratiche. L’autore collega la formazione degli stati democraticicon il progredire del metodo sperimentale e la riorganizzazione industriale e tecni-ca delle strutture economiche. Egli afferma l’importanza di mantenere una discus-sione sullo sviluppo morale e sulle teorie della conoscenza per poter indicare stru-menti utili alla formazione di una scuola pubblica efficace.

Fadini U., Il corpo imprevisto. Filosofia, antropologia e tecnica in Arnold Gehlen, Milano,Franco Angeli, 1988.

L’autore riflette sul rapporto uomo-macchina all’interno della produzione del filo-sofo tedesco Arnold Gehlen, mettendo in evidenza l’attualità e l’interesse del suopensiero.

Feenberg A., Questioning technology, London, Routledge, 1999; trad. it. Tecnologia in di-scussione: filosofia e politica della moderna società tecnologica, Milano, ETAS, 2002.

Il testo è un’interessante panoramica della riflessione anglosassone sulla filosofia

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Bibliografia

della tecnica prendendo le mosse dall’heideggeriana posizione della Gelassenheit, pergiungere, passando per la teoria critica della scuola di Francoforte, alla filosofia fran-cese di Foucault. Lo sviluppo della tecnologia è intimamente legato al progresso del-la democrazia, in quanto è prodotto dalle strutture delle società di massa.

Feenberg A., Critical theory of technology, New York, Oxford Press, 1991.Feenberg, allievo di Marcuse, analizza i problemi più significativi di etica e politicache si sviluppano all’interno dell’età della tecnica. Un capitolo dell’opera è dedicatoalle teorie marxiste e ai limiti di queste analisi all’interno delle strutture tecniche epolitiche contemporanee.

Gehlen A., Die Seele im technischen Zeitalter, Hamburg, Rowohlts Verlag GmgH, 1957;trad. it. L’uomo nell’era della tecnica, Roma, Armando, 2003.

Per Gehlen il problema della tecnica è una questione antropologica in quanto l’uo-mo è un essere artificiale poiché deve utilizzare la tecnica per conquistarsi il «suoposto nel mondo» e superare le proprie carenze biologiche. La condizione di essereartificiale produce rischi e pericoli di spersonalizzazione e alienazione, ma rimanel’unica possibilità che l’uomo ha per mantenere la propria identità.

Gehlen A., Der Mensch: seine Natur und seine Stellung in der Welt, Frankfurt am Main,Klostermann, 1983; trad. it. L’ uomo: la sua natura e il suo posto nel mondo, Bolo-gna, Il Mulino, 1987.

L’autore afferma che è possibile superare il disagio nei confronti della tecnica con-siderandolo come sintomo di una profonda trasformazione culturale segnata dallacesura della rivoluzione industriale. Il compito etico dell’uomo è quello non dellanegazione del mondo tecnico, ma del confronto continuo e costante.

Gehlen A., Philosophische Anthropologie und Handlungslehre, Frankfurt am Main, Klo-stermann, 1983; trad. it. Antropologia filosofica e teoria dell’azione, Napoli, Gui-da, 1990.

L’autore ribadisce l’essenza artificiale dell’uomo e il suo rapporto non lineare con lanatura. È una analisi antropologica in quanto la tecnica è intesa come l’insieme dicapacità e mezzi con cui l’uomo mette la natura al suo servizio attraverso l’inevita-bile costruzione di un mondo artificiale. L’utilizzo di strumenti tecnici, anche seproduce diversi rischi come consumismo, alienazione e spersonalizzazione, è con-dizione imprescindibile per l’esistenza umana.

Habermas J., Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt am Main, Suhrkamp,1981; trad. it. Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, Il Mulino, 1986.

Opera in due volumi che studia i rapporti tra azione e linguaggio. L’agire comunica-tivo è inteso come un’attività eminentemente dialogica e interessata alla emancipa-zione dal dominio, in contrapposizione alle logiche utilitaristiche della razionalitàstrumentale. Viene prospettata così una indagine sui presupposti trascendentali del-la prassi linguistico-comunicativa che sia in grado di definire normativamentel’orizzonte ideale della comunicazione libera e illimitata.

Habermas J., Theorie und Praxis: Sozialphilosophische Studien, Berlin, Luchterhand,1963; trad. it. Teoria e prassi nella società tecnologica, Roma-Bari, Laterza, 1974.

Bibliografia

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Il tema dell’opera di Habermas è lo studio della relazione tra teoria e prassi nella so-cietà industriale attraverso un approfondimento dell’idea di progresso e di scienza. Ilcompito che resta alla filosofia è quello di critica e di analisi dei contenuti e delle tra-sformazioni che le scienze pratiche impongono nella società, in modo da costruireun ponte tra strutture teorico-concettuali e innovazioni tecnico-scientifiche.

Heidegger M., Gelassenheit, Pfullingen, Neske, 1959; trad. it. L’abbandono, Genova, IlMelangolo, 1989.

Discorso pronunciato dal filosofo tedesco nella sua città natale nel 1955. Heideggerriflette sulle trasformazioni che la tecnica produce sull’ambiente naturale che ci cir-conda. Riprende i temi del saggio Questione della tecnica e introduce il concetto di Ge-lassenheit, che avrà molto successo nel dibattito successivo, per indicare l’ambiguosentimento di abbandono che l’uomo ha nei confronti dei cambiamenti del pro-gresso tecnico. L’atteggiamento di abbandono non vuole indicare la fuga o la rasse-gnazione nei confronti della tecnica, ma ha una valenza positiva di accettazione econsapevolezza.

Jonas H., Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt am Main, Insel Verlag, 1979; trad. it.Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi,1990.

Jonas riflette sul ruolo sempre in trasformazione dell’uomo che non è più asservitoalla natura, ma è dominato dalla tecnica e non riesce più a gestire e prevedere leconseguenze delle proprie azioni. Cercando di superare il «principio di disperazio-ne» di Anders, Jonas propone il «principio di responsabilità» come tentativo diun’etica universale che si possa adattare alle trasformazioni della civiltà tecnologica.

Marcuse H., One-dimensional man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society,London, Routledge & Kegan, 1964; trad. it. L’uomo a una dimensione. L’ideolo-gia della società industriale avanzata, Torino, Einaudi, 1991.

L’autore sottolinea la mancanza di libertà tipica delle società di massa che si sonosviluppate nell’età industriale. I tratti totalitari di queste società fanno cadere im-mancabilmente la nozione tradizionale di ‘neutralità’ della tecnologia, che, divienestrumento per il controllo e l’organizzazione dei suoi membri. La società tecnologi-ca, così come il pensatore tedesco la presenta, altro non è che un sistema di domi-nio che opera e agisce non solo sulla natura ma anche sull’uomo stesso, sin dal mo-mento in cui le tecniche sono concepite ed elaborate.

Nietzsche F., Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, Berlin, De Gruyter, 1968;trad. it. Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Milano, Adelphi, 1984.

È una tra le opere più inquietanti e provocatorie di Nietzsche, scritta con l’intenzio-ne di mettere in crisi ogni idea di certezza metafisica; il testo approda a una com-piuta teorizzazione del nichilismo etico. La scoperta di un sottosuolo di pensiero,luogo di eventi oscuri e di istinti primari, porterà alla distruzione di un’idea di veri-tà stabile e certa, ponendo le basi per il dibattito del Novecento.

Ortega y Gasset J., La rebelion de las masas, Buenos Aires, Espasa-Calpe S.A., 1939;trad. it. La ribellione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1962.

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Bibliografia

Il testo è un’analisi sociologica e storica della situazione europea prima della secondaguerra mondiale. La diffusione del totalitarismo e la perdita della libertà sembra a Or-tega non un fatto accidentale, ma strutturale nello sviluppo delle società moderne. Lasocietà industriale e tecnologica è la causa della diffusione dei totalitarismi e di un nuo-va tipologia antropologica, l’uomo di massa che diviene protagonista della storia.

Scheler M., Die Stellung des Menschen im Kosmos, Darmstadt, Otto Reichl, 1930; trad.it. La posizione dell’uomo nel cosmo, Roma, Armando, 1997.

Il testo appartiene alla produzione matura di Scheler. Egli riflette su problemi di ca-rattere etico in relazione alla sociologia, alla storia e alla crisi della società moderna.L’autore propone una fenomenologia del vissuto del singolo individuo che portaalla costituzione di valori universali che sono la base delle norme etiche.

Weber M., Die Protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, Tübingen, J. C. B.Mohr, 1947; trad. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, Sanso-ni, 1966.

È l’opera più celebre del pensatore tedesco ed è basata su un’interpretazione dellastoria strutturata sul concetto di «tipo ideale», ossia un modello teorico finalizzatoalla comprensione del comportamento sociale ed etico della società in un determi-nato periodo storico. L’autore riflette sui valori di ordine, di sacrificio e del lavorotipici della società capitalistica derivati, secondo Weber, dall’etica protestante.

2. ONTOLOGIA E TECNICA

L’autore di riferimento per questa sezione è Heidegger e la sua riflessione sull’obliodell’essere nella storia della metafisica. Il problema ontologico in Heidegger si legacon una riflessione sulle modificazioni che avvengono al concetto di soggetto, dilinguaggio e di tecnica intesa come impianto. La prospettiva heideggeriana produceun intenso dibattito e diviene un punto di riferimento, anche polemico, per moltiautori del Novecento.

D’Alessandro P., Critica della ragion telematica, Milano, LED, 2002.Il testo indaga sul passaggio tra uomo tipografico e uomo cibernetico, approfon-dendo la riflessione sulle tecnologie informatiche e telematiche, autentiche protesiverso l’ambiente in vista dell’interazione tra interno ed esterno, tra mente e mondo.L’autore, nella prima sezione, sviluppa un’attenta analisi del ruolo della tecnica nelmondo odierno, partendo dal saggio heideggeriano La questione della tecnica.

Gadamer H. G., Wahrheit und Methode, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1960; trad. it. Verità emetodo, Milano, Bompiani, 1983.

È il testo fondamentale dal quale si sviluppa un inteso dibattito sull’ermeneutica el’ontologia nel secondo Novecento. Il punto di partenza è quello heideggeriano, ilfenomeno dell’interpretazione caratterizza ogni aspetto dell’esistenza umana, poi-ché questa si svolge all’interno del linguaggio. L’intento è quello di recuperare unanozione di ragione che non dimentichi il nesso tra linguaggio e dialogo e che evitidi proporre tesi irrazionaliste o legate all’intuizione.

Bibliografia

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Galimberti U., Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999.Il libro sottolinea le differenze che alcuni concetti tradizionali come natura, etica,identità, libertà, verità, religione, storia hanno subito durante le trasformazioni av-venute negli anni che stiamo vivendo in cui domina l’impianto della tecnica moder-na. Galimberti propone un’idea molto concreta di tecnica senza dare soluzioni otti-mistiche al sentimento di disagio che proviamo nei confronti delle continue modifi-cazioni che si susseguono nel contesto in cui viviamo.

Heidegger M., Die Frage nach der Technik, in Vorträge und Aufsätze cit.; trad. it. La que-stione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit., pp. 5-27.

L’essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico così come l’essenza dell’alberonon si identifica con un singolo albero. La tecnica non è un puro strumento nellemani dell’uomo, ma è ciò che permette il disvelamento della stessa realtà. Il testo èdiventato un punto di riferimento critico per le discussioni sull’essenza della tecnicanella società contemporanea.

Heidegger M., Bremer und Freiburger Vorträge, Frankfurt am Mein, Klostermann,1994; trad. it. Conferenze di Brema e Friburgo, Milano, Adelphi, 2002.

Contiene due conferenze tenute da Heidegger a Brema nel 1949 e a Friburgo nel1957. Egli tenta di mostrare come il problema della tecnica sia connesso con l’es-senza dell’uomo e con il suo destino. Il sistema della tecnica poggia le sue radicinella storia stessa dell’Essere che, grazie al suo singolare dinamismo, è capace didarsi e sottrarsi all’uomo.

Heidegger M., Nur noch ein Gott kann uns retten, Der Spiegel, XXX, n. 32, 31 Maggio1976, pp. 193-219; trad. it. Ormai solo un dio ci può salvare. Intervista con lo ‘Spie-gel’, a cura di A. Marini, Parma, Guanda, 1987.

L’incapacità dell’uomo di pensare la tecnica moderna porta il filosofo tedesco a in-vocare l’intervento di un’entità suprema che possa salvare l’umanità. Il filosofo te-desco, durante l’intervista, pensa anche alla possibilità di intervento della politicanelle problematiche aperte dalle trasformazioni della tecnica moderna.

Heidegger M., Sein und Zeit, Tübingen, Niemeyer, 1976; trad. it. di P. Chiodi, Esseree tempo, Milano, Longanesi, 1995.

L’autore presenta e analizza la storia della metafisica come l’oblio dell’essere, ossiala dimenticanza della domanda fondamentale del pensiero filosofico e di ogni onto-logia ‘Che è l’essere?’ Per poter pensare in modo corretto l’essere, Heidegger inter-roga l’uomo e avvia un’indagine sulle caratteristiche essenziali che lo strutturano.Le basi fondamentali da cui parte questa opera sono la fenomenologia husserliana el’idea del circolo ermeneutico, ossia di una continua interazione tra interpretante einterpretato.

Heidegger M., Überlieferte Sprache und technische Sprache, St. Gallen, Erker-Verlag,1989; trad. it. Il linguaggio tramandato e il linguaggio tecnico, a cura di C. Esposito,Pisa, Edizioni ETS, 1997.

Il testo contiene una conferenza tenuta da Heidegger il 18 luglio del 1962. L’autoreriprende il tema del dominio della tecnica nella nostra società riproponendo alcuni

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Bibliografia

concetti emersi in La questione della tecnica. Il punto di partenza del potere della tec-nica sull’uomo è il linguaggio che diviene l’oggetto di indagine di questo volume inquanto il nesso tecnica e linguaggio è, per il filosofo tedesco, essenziale per com-prendere la struttura ontologica dell’uomo.

Heidegger M., Unterwegs zu Sprache, Pfullingen, Neske, 1959; trad. it. In cammino versoil linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Milano, Mursia, 1973.

In questi saggi emerge, in modo molto chiaro, la posizione heideggeriana sulla co-noscenza. Il conoscere non consiste in un rapporto tra un soggetto e un oggettosemplicemente presente, ma è originariamente un’interpretazione, cioè una conti-nua articolazione tra comprensione e pre-comprensione che porta alla costruzionedella realtà. Questa concezione ermeneutica darà vita a un ampio dibattito nel No-vecento sul ruolo del soggetto nella società contemporanea.

Heidegger M., Vorträge und Aufsätze, Frankfurt am Main, V. Klostermann, 2000;trad. it. Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1954.

Il libro è una raccolta di saggi e conferenze pubblicati nel 1954, tra cui la celebreQuestione della tecnica. I testi contenuti sono stati composti intorno al 1950 e ripren-dono i temi della ‘svolta’ del pensiero heideggeriano dopo la pubblicazione dellaLettera sull’umanismo. I saggi rappresentano un primo tentativo per sviluppare, inmodo positivo, le indicazioni emerse nella Lettera sull’umanismo.

Heidegger M., Wegmarken, Frankfurt am Mein, Klostermann, 1976; trad. it. Segnavia,Milano, Adelphi, 1994.

È un insieme di saggi composti in periodi molto diversi che hanno come temaprincipale la riflessione sul linguaggio, inteso come «casa dell’essere». L’uomo cheparla è un interprete che ha già in sé la possibilità di avere un linguaggio. L’uomopossiede il linguaggio, ma allo stesso tempo è inserito all’interno di un orizzontelinguistico e sociale ben definito dal quale non può uscire.

Heidegger M., Zur frage nach der Bestimmung der Sache des Denkens, S.Gallen, Erker-Verlag, 1984; trad. it. Filosofia e cibernetica, Pisa, ETS, 1988.

Conferenza tenuta il 30 ottobre del 1965 in occasione delle celebrazioni in onore diLudwig Binswanger. L’autore riflette sul rapporto tra la fine della filosofia che stadegenerando in una serie infinita di discipline particolari e la cibernetica, intesacome disciplina emergente che ha il compito di raccordare e unificare i diversi am-biti scientifici.

Jonas H., Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine jüdische Stimme, Frankfurt am Main,Suhrkamp, 1983; trad. it. Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Ge-nova, Il Melangolo, 1989.

Jonas tenta di rispondere alla domanda fondamentale che si pone chi vuole mante-nere la concezione di Dio come signore della storia dopo quanto è successo nellaseconda guerra mondiale al popolo ebraico: quale Dio ha permesso che ciò acca-desse? Egli afferma che bisogna ripensare il concetto di Dio, gli attributi che glivengono dati dalla tradizione, soprattutto, quello di onnipotenza.

Bibliografia

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Pareyson L., Verità e interpretazione, Milano, Mursia, 1971.È una indagine sul concetto di verità, sulla radice ontologica, che è quella più au-tentica, di verità. Pareyson fa sue tutte le correnti ermeneutiche scettiche per co-struire un pensiero che sia critico e plausibile per l’uomo di oggi, che è inserito pro-fondamente nella storia, in una società sempre legata alle innovazioni tecniche, lon-tano dal misticismo e da esigenze puramente contemplative.

Ruggenini, Il soggetto e la tecnica, Heidegger interprete ‘inattuale’ dell’epoca presente, Roma,Bulzoni, 1977.

Il testo esamina i temi fondamentali dell’opera di Heidegger da Essere e tempofino alle riflessioni sulla tecnica con un particolare interesse per la questione on-tologica.

Severino E., Destino della necessità, Milano, Adelphi,1980.L’autore riflette su alcuni problemi fondamentali del pensiero occidentale come ne-cessità, destino, libertà confrontandosi con la tradizione metafisica occidentale. Nelcapitolo Totalità e Dominio emerge la sua riflessione sulla civiltà della tecnica intesasia come la caratteristica fondamentale del capitalismo, del marxismo e del cristia-nesimo, ma anche come l’effettualità storica che sta portando al tramonto tutte lealtre forme di civiltà occidentale.

Severino E., Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano, 1998.L’autore sottolinea il ruolo destinale della tecnica nella società moderna legata aldominio del divenire attraverso il controllo dell’ente. Il testo propone un confrontocon la posizione di Heidegger sulla tecnica.

Severino E., Legge e caso, Milano, Adelphi, 1979.L’autore riflette sul concetto di scienza e sul dominio che esercita nella società mo-derna. La scienza e la tecnica sono gli strumenti che l’uomo occidentale ha adotta-to per tentare di salvarsi dal divenire, dall’irruzione dell’imprevisto, dal passaggioimprevedibile e originario dal nulla all’essere.

Severino E., Tautotes, Milano, Adelphi, 1995.Secondo l’autore il pensiero occidentale sorge quando al mito si sostituisce la veritàrazionale nata nella civiltà greca. Dopo due millenni, però, alla verità si sostituisce latecnica. La filosofia del nostro tempo, che nega ogni verità assoluta, rappresenta ilfondamento della potenza della tecnica in quanto impedisce ogni limitazione all’agi-re tecnico. Capitalismo, democrazia, cristianesimo, servendosi della tecnica, non sirendono conto che essa reca in sé la negazione delle loro stesse essenze. In quantolo scopo di ogni azione diventa l’incremento della potenza della tecnica.

Sloterdijk P., Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger, Frankfurt am Main, Suhrkamp,2001; trad. it. Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Milano, Bom-piani, 2004.

Peter Sloterdijk, attraverso un confronto con le riflessioni di Heidegger, proponeun’analisi corrosiva del mondo contemporaneo, ove la tecnica si avvia a dominaretutti gli aspetti della vita umana, dalle relazioni più semplici, alla politica, alla medi-

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Bibliografia

cina. Il testo sottolinea i rapporti dell’uomo con la dimensione tecnica che lo cir-conda, rifiutando una prospettiva metafisica e puramente teorica.

Vattimo G., La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna,Milano, Garzanti, 1985.

È una analisi delle caratteristiche del movimento post-moderno, inteso come unostile che si allontana dalle idee dominanti della modernità. Il volume è dedicato agliaspetti sociali, economici della cultura post-moderna, ma anche ad alcune correntidi pensiero filosofico come l’ermeneutica, il pragmatismo e le varie tendenze nichi-listiche.

Vattimo G., Tecnica ed esistenza. Una mappa filosofica del Novecento, Torino, Paravia,1997.

L’autore parte dalla convinzione che il problema della tecnica non sia un problematra gli altri nelle speculazioni filosofiche del Novecento, ma il tema dominante ditutta la cultura del secolo, presente anche là dove non appare. La consapevolezzadell’importanza della tecnologia nella nostra modernità lo spinge a cercare un dia-logo con gli aspetti meno tecnofobici del pensiero heideggeriano. Vattimo affermal’impossibilità di cogliere l’essenza stessa della tecnica, che non si presenta cometecnica unitaria ma come un insieme di prospettive tecniche non riducibili a unitàperché disseminate in molteplici forme tecnologiche.

3. ESTETICA E TECNICA

Partendo dal testo di Benjamin L’opera d’arte nella sua riproducibilità tecnica si è svilup-pato un intenso dibattito sul ruolo dell’opera d’arte in relazione ai cambiamenti tec-nici della nostra società, dibattito che ha coinvolto autori che si sono occupati diestetica in modo marginale come Freud e Heidegger. Il problema dei mezzi di pro-duzione artistica nell’arte contemporanea, del rapporto con lo spazio reale e virtua-le e del ruolo dell’artista nella società sono temi centrali nei testi di Diodato, Costa,Cuomo e Griffero.

Adorno T.W., Ästhetische Theorie, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1973; trad. it. Teoriaestetica, Torino, Einaudi, 1981.

Secondo Adorno il valore della produzione artistica è legato al suo significato uto-pico, in quanto si oppone al reale. L’arte ha rapporto con le possibilità del reale edocumenta, attraverso la distruzione della categoria di bello, la violenza e la distru-zione che l’umanità ha prodotto sulla società contemporanea. Come Benjamin,Adorno è convinto che l’arte sia il fenomeno che esprime, in modo più efficace, lacrisi della modernità.

Benjamin W., Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Tübingen,Mohr, 1972; trad. it. L’opera d’arte nella sua riproducibilità tecnica, Torino, Einau-di, 1974.

L’opera d’arte moderna tenta di recuperare la totalità dell’esperienza e va incontro

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ad un inevitabile fallimento. Il sentimento che pervade la produzione artistica e l’ar-tista è quello della malinconia che è anche, secondo l’autore, l’emozione che perva-de l’intera modernità. L’arte perde la sua valenza sacrale e simbolica, data antica-mente dalla sua irripetibilità, a causa della riproducibilità tecnica.

Benjamin W., Das Passagen Werk, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1982; trad.it. Parigi capitale, Torino, Einaudi, 1986 (in particolare la sezione Teoria dellaconoscenza, teoria del progresso, pp. 551-635).

Benjamin formula un’opinione meno negativa di quella di Adorno sull’avvento deimezzi tecnici di riproduzione delle opere d’arte. Le procedure tecniche modernepermettono la nascita e valorizzano forme d’arte minori come il cinema e la foto-grafia che, se pur in modo più rozzo, sono in grado di produrre esperienze esteti-che. Il testo analizza i cambiamenti prodotti sulla città di Parigi dall’arte e dalle ar-chitetture moderne.

Cacciari M. e Donà M., Arte, tragedia, tecnica, Milano, Raffaello cortina editore, 2000.Gli autori riflettono sulla separazione sempre più netta tra civiltà tecnologica e cul-tura estetica, una frattura e una contrapposizione che sembra non poter essere con-ciliabile nella società contemporanea. Cacciari, nel saggio Salvezza che cade, critica erifiuta, considerandola un’utopia, la tesi heideggeriana della possibilità di una sal-vezza dell’arte contemporanea grazie alla capacità di ripensare la produzione artisti-ca senza ridurla alla tecnica.

Costa M., Il sublime tecnologico: piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma, Castelvec-chi, 1998.

Il sublime tecnologico è la nozione dell’oltrepassamento dell’arte, è un essere collo-cati al di là di quelle che erano le categorie specifiche dell’artistico, vale a dire: ilsoggetto, l’espressione, la creatività, lo stile. Le nuove tecnologie, secondo l’autore,permettono di accedere a una produzione artistica ed estetica che liquida tutta lastruttura e le categorie concettuali tradizionali.

Cuomo V., Del corpo impersonale. Saggi di estetica dei media e di filosofia della tecnica, Napo-li, Liguori, 2004.

Cuomo riflette sul problema del rapporto tra il corpo, la tecnica e le produzioneartistiche dialogando con pensatori come Heidegger e Nietzsche. L’autore eviden-zia anche i pericoli che le nuove tecnologie possono portare, soprattutto in campoartistico, come il rischio di produrre illusioni che spinge l’uomo verso nuove di-mensioni del sentire sempre più impersonali e sterili.

Dewey J., Art as experience, New York, Milton, 1934; trad. it. L’arte come esperienza, Fi-renze, La Nuova Italia, 1951.

Dewey afferma che la produzione artistica non è distaccata dalla realtà, ma affondale proprie radici nell’esperienza dell’uomo comune e nella vita quotidiana. L’arte è ilpunto di arrivo di una serie di processi sociali, economici che sono avvenuti nellasocietà. Il testo sottolinea che la costante interazione tra individuo e ambiente, trasoggetto e istituzione politica, tra uomo e progresso tecnico è la struttura portantedi ogni esperienza estetica.

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Bibliografia

Diodato R., Estetica del corpo virtuale, in Rivista di Estetica, nuova serie, 27, annoXLIV, Torino, Rosemberg e Sellier, 2004.

Diodato afferma che il corpo virtuale è un’immagine digitale interattiva che nonpuò essere considerata solo copia della realtà, bensì una forma genetico-sensorialeche appartiene a un sistema multiplo di traduzione. L’autore riflette sulle diverseforme estetiche di rappresentazione dei corpi virtuali prendendo in considerazionevari strumenti di comunicazione visiva.

Eco U., Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962.L’autore analizza, da diversi punti di vista, l’arte contemporanea e i modelli cono-scitivi ed estetici che propone. Il testo rimane un punto di riferimento per la discus-sione sulle tecniche linguistiche e comunicative che sono alla base della letteraturasperimentale, della ripresa televisiva, del cinema d’autore e, in generale, delle avan-guardie artistiche del ventesimo secolo.

Ferraris M., Estetica razionale, Milano, Raffaello Cortina, 1997.Il testo è diviso in cinque sezioni che si occupano delle principali correnti di indagi-ne filosofica. La prima sezione, dedicata all’estetica, ripercorre le fasi storiche piùimportanti nell’evoluzione di questa disciplina confrontandole con le trasformazio-ni della società e del pensiero razionale.

Freud S., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Boringhieri, 1969.L’opera è un’analisi dei costumi, delle credenze e delle forme di organizzazione so-ciale di popolazioni primitive, prese in considerazione in relazione agli aspetti co-muni della personalità inconscia di tutti gli uomini. Interessante è vedere comeFreud adatta il suo metodo psicanalitico-interpretativo ad una indagine non stretta-mente clinica, ma più storico-sociale.

Grau O., Virtual art. From illusion to immersion, London, MIT Press, 2003.L’autore riflette sulle prospettive che le nuove tecnologie aprono nella produzionedi opere artistiche. Le nuove possibilità a disposizione dell’arte producono dimen-sioni virtuali e illusorie che trasformano il modo stesso di produrre e usufruire diun oggetto estetico.

Griffero T. (a cura di), Rivista di Estetica. Corpi virtuali, nuova serie, 27, anno XLIV,Torino, Rosemberg e Sellier, 2004.

Il numero è dedicato interamente al tema delle nuove prospettive aperte dagli spazivirtuali in relazione al corpo e allo spirito umano.

Heidegger M., Die Kunst und der Raum, St. Gallen, Erker-Verlag, 1979; trad. it. L’artee lo spazio, Genova, Il Melangolo, 2000.

È un breve discorso pronunciato il 3 ottobre del 1964 in occasione di una mostradello scultore Bernard Heiliger. Il filosofo tedesco riflette sul problema dello spazioe del corpo come luogo di espressione dell’agire umano attraverso l’arte plastica,anche se, il luogo privilegiato per l’apertura ontologica verso la riflessione sull’Esse-re, secondo Heidegger, rimane la produzione poetica.

Bibliografia

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Heidegger M., Der Ursprung des Kunstwerkes, in Holzwege, Frankfurt am Main, Klo-stermann, 1968; trad. it. L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, Firenze,La Nuova Italia, 1984.

È il saggio nel quale Heidegger riflette in forma più compiuta sull’arte e i modidella produzione estetica. Il filosofo tedesco privilegia lo studio della poesia comeforma d’arte che permette all’artista di appropriarsi del linguaggio nella sua auten-ticità. La poesia è l’essenza dell’arte che diviene storica. Quindi, non può esistereuna produzione artistica slegata dai mezzi produzione della società alla quale ap-partiene.

Iser W., Der Akt des Lesens. Theorie ästhetischer Wirkung, München, Fink, 1976; trad. it.L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna, Il Mulino, 1987.

Wolfgan Iser, nel quadro dell’estetica della ricezione, propone una fenomenologiadell’atto di lettura capace d’inquadrare la funzione comunicativa di un’opera lettera-ria in rapporto al contesto che l’ha prodotta. In particolare Iser dedica molta im-portanza alla ricostruzione della dinamica della risposta estetica del lettore nei con-fronti della struttura d’appello presente nella configurazione testuale.

Jauss H.R., Asketische Erfahrung und literarische Hermeneutik, München, Fink Verlag,1977; trad. it. Teoria e storia dell’esperienza estetica, Bologna, Il Mulino, 1989.

Il testo tenta di proporre un approccio metodologico partendo dall’analisi praticadi alcune opere letterarie e teatrali. Il lettore è sempre ‘storico’, ossia deve essere ingrado di percepire le differenze che alcuni concetti hanno subito attraverso gli annie le diverse interpretazioni. Jauss dialoga con Iser prendendo le distanze da Gada-mer.

Kemp M., Towards a new history of the visual, New Haven, Yale University Press,1990; trad. it. Immagine e verità. Per una storia dei rapporti fra arte e scienza, Mila-no, Il Saggiatore, 1999.

L’autore afferma l’importanza della connessione tra arte e scienza nei processi cheportano verso ogni tipo di produzione creativa. Kemp propone il concetto di visua-lizzazione alludendo a tutti quei processi di modellizzazione mentale che sono in-termedi tra l’esperienza sensibile e l’astrazione concettuale e che utilizzano tanto gliscienziati quanto gli artisti.

Marcuse H., The aesthetic dimension, London, MacMillan, 1979; trad. it. La dimensioneestetica, Milano, Mondadori, 1978.

Questo saggio sull’arte, seguendo le teorie marxiste, considera l’opera d’arte in rela-zione al contesto sociale nel quale è inserita e le affida un ruolo politico importan-te. Marcuse riflette anche sulle avanguardie artistiche novecentesche, sul ruolo poli-ticamente rivoluzionario che hanno avuto nella storia e sul loro rapporto con le tra-sformazioni tecniche in atto nella società.

Taine H.A., Philosophie de l’art, Paris, Fayard, 1985; trad. it. Filosofia dell’arte, Milano,Bompiani, 2001.

Il testo, scritto tra il 1863 e 1869, analizza le fasi più importanti dello sviluppo deiconcetti di bello e di arte nella storia dell’umanità per arrivare a una definizione ge-

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Bibliografia

nerale di opera d’arte. L’autore è influenzato dalla riflessione hegeliana, ma anchedallo sviluppo delle scienze positive. Taine sottolinea le connessioni tra le innova-zioni tecniche del secondo Ottocento e le singole discipline estetiche.

Taiuti L., Corpi sognanti. L’arte nell’epoca delle tecnologie digitali, Milano, Feltrinelli, 2001.Il libro presenta un’indagine sulle tendenze attuali dell’arte anche utilizzando un’im-paginazione e una grafica anticonvenzionali. L’autore sviluppa la tesi di Benjamin,secondo la quale una delle funzioni principali dell’arte è la creazione di domandeche possono essere soddisfatte solo successivamente. Questa funzione è facilitatadall’uso delle nuove tecnologie.

4. TECNICA ED EPISTEMOLOGIA

Questa sezione comprende alcuni testi fondamentali del dibattito sulle possibilità ei limiti delle discipline scientifiche e tecniche nel Novecento. È stato inserito il Side-reus Nuncius di Galileo perché testimonia la nascita della metodologia scientificamoderna. Il riferimento ai Principi di scienza nuova di Vico rimanda al saggio di Sinipubblicato in questo volume. Negli ultimi decenni ha assunto un ruolo notevole ildibattito sul rapporto mente-corpo anche attraverso i contributi di pensatori comeBateson, Damasio, Edelman, Maturana che hanno cercato di esporre il punto di vi-sta del sapere scientifico entrando in dialogo con i saperi della tradizione.

Bateson G., Steps to an ecology of mind, Frogmore, Paladine, 1973; trad. it. Verso un’eco-logia della mente, Milano, Adelphi, 1976.

Il libro raccoglie diversi saggi, scritti da Bateson nell’arco di oltre trentacinque anni,che propongono una nuova maniera d’intendere le idee e gli aggregati di idee chel’autore chiama ‘menti’. L’ecologia della mente, che l’autore propone come nuovadisciplina in formazione, vuole studiare ‘le menti’ come oggetti che appartengonoalla natura attraverso una connessione tra cultura scientifica e umanistica.

Bateson G., Mind and nature. A necessary unity, Toronto, Bantam Books, 1980; trad. it.Mente e natura, Milano, Adelphi, 1984.

Il libro propone un’analisi del rapporto mente-cervello attraverso i contributi di di-verse discipline come la biologia, l’antropologia, la psichiatria e l’epistemologia. Ba-teson afferma che il nostro conoscere non è altro che una piccola parte di una co-noscenza più ampia integrata nell’intero universo, perciò il sapere tecnico della cul-tura scientifica e quello umanistico devono trovare ponti di dialogo e di unità.

Damasio A.R., Descartes’ error : emotion, reason and the human brain, London, Avon Bo-oks, 1994; trad. it. L’ errore di Cartesio: emozione, ragione e cervello umano, Milano,Adelphi, 1995.

Damasio critica la rigida separazione tra corpo e mente, emozione e cervello che ri-sale al dualismo proposto dal sistema cartesiano. L’autore espone le ultime teorieneurobiologiche sull’agire razionale ed emotivo, chiarendo le intime connessioni trale due sfere di comportamento. Il testo è un’analisi sul ruolo delle scienze e, in par-ticolare, della neurobiologia nella società moderna.

Bibliografia

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De Carolis M., La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Bollati Borin-ghieri, 2004.

Lo scopo di questo libro è di riflettere su alcune delle più significative invenzionidella tecnica moderna in campo scientifico. L’autore analizza le tesi filosofiche clas-siche sulla tecnica come quella heideggeriana e afferma la necessità di un continuoconfronto tra una riflessione critica coerente e lo sviluppo tecnico delle singole di-scipline scientifiche.

Dennett D., Kinds of minds: towards an understanding of consciousness, London, 1997;trad. it. La mente e le menti, Milano, Sansoni, 1997.

L’autore riflette sul problema del rapporto mente e corpo proponendo diversi pos-sibili collegamenti tra il sapere scientifico-tecnico e la tradizione culturale umanisti-ca e filosofica.

Dennett D., Darwin’s dangerous idea: evolution and the meanings of life, New York, ThePenguin Press, 1995; trad. it. L’ idea pericolosa di Darwin: l’evoluzione e i significa-ti della vita, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.

Dennett definisce il suo testo un libro sulla scienza senza essere scientifico. Egliespone i motivi per cui la teoria darwiniana ha influenzato molto il procedere dellediscipline scientifiche dando risultati proficui e promettenti, pur essendo allo stessotempo ostacolata e messa in discussione non solo da teologi.

Dyson G.B., Darwin among the machines, New York, Helix, 1997; trad. it. L’evoluzionedelle macchine, Milano, Raffaello Cortina, 2000.

Il testo è una storia dell’evoluzione del concetto di macchina, inteso come ognimeccanismo in grado di procedere autonomamente, dall’orologio al computer.L’autore parte dalle prime riflessioni di Hobbes e Leibniz sui meccanismi autonomiper arrivare alla macchina di Turing, all’intelligenza artificiale e alle reti telematiche.

Edelman G.M., Bright air, brilliant fire: on the matter of the mind, New York, HarperCollins, 1992; trad. it. Sulla materia della mente, Milano, Adelphi, 1993.

L’obiettivo di Edelman è una teoria scientifica non riduzionista ed evoluzionistadella mente che riesca a tenere insieme le attuali conoscenze sull’architettura delnostro cervello in modo da farci riconoscere la reale esistenza degli stati mentali edegli stati cerebrali. L’autore si confronta anche con la tradizione filosofica occi-dentale.

Feyerabend P.K., Against method: outline of an anarchistic theory of knowledge, London,Verso Books, 1978; trad. it. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica del-la conoscenza, Milano, Feltrinelli, 1979.

L’autore vuole mettere in evidenza gli elementi irrazionali, non sistematici che sonoirriducibili nel procedere scientifico. La scienza mantiene, nel suo svilupparsi, alcu-ne caratteristiche che la avvicinano al mito e al pensiero pre-razionale. Il testo haprovocato un intenso dibattito sui compiti dell’epistemologia e il ruolo delle disci-pline scientifico-tecniche nel Novecento.

Galileo G., Sidereus Nuncius [1610], Venezia, Marsilio, 1993.

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Bibliografia

Il testo riporta le osservazioni sulla volta celeste effettuate con il cannocchiale nel-l’inverno del 1609 da Galileo Galilei. Questo piccolo trattato può essere consideratotra le prime pubblicazioni scientifiche dell’età moderna per il metodo sperimentaleproposto e l’originalità delle conclusioni. Galilei riesce così a dimostrare empirica-mente le tesi copernicane e pone le basi per il legame tra scienze empiriche e inno-vazioni tecniche attraverso l’uso del cannocchiale per fini dimostrativi e scientifici.

Gershenfeld N., When things start to think, New York, Owl Books, 1999; trad. it.Quando le cose cominciano a pensare, Milano, Garzanti, 1999.

Il testo descrive i risultati delle ricerche scientifiche di Gershenfeld, direttore delPhysics and Media Group. Il centro è nato con lo scopo di studiare i modi e le for-me di realizzazione dell’intelligenza artificiale negli oggetti. L’autore riflette anchein generale sul rapporto tra gli usi pratici della tecnologia e le innovazioni delle di-verse discipline scientifiche.

Johnson M., The body in the Mind, Chicago, The University of Chicago Press, 1987.L’autore propone un’analisi dei concetti di mente, razionalità e corpo facendo rife-rimento sia alla tradizione filosofica che al sapere più tecnico-scientifico.

Husserl E., Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenolo-gie, Haag, M. Nijhoff, 1954; trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologiatrascendentale, Milano, il Saggiatore, 1961.

Opera che tenta di indagare le ragioni delle tendenze irrazionalistiche che si sonodiffuse in Europa intorno agli anni ’30 del Novecento. È una sorta di testamentodella fenomenologia husserliana, che prova a ripercorrere le tappe significative del-la tradizione metafisica e del pensiero scientifico moderno. La proposta è quella diun ritorno alla esperienza del soggetto e alla dimensione dimenticata dell’esistenzaquotidiana.

Maturana H.R. e Varela F.J., Autopoiesis and cognition. The realization of living, Dor-drecht, Reidel Publishing Company, 1980; trad. it. Autopoiesi e cognizione. Larealizzazione del vivente, Venezia, Marsilio, 1985.

Il testo è stato scritto in stretta collaborazione tra i due scienziati e descrive i risul-tati delle loro ricerche biologiche sui sistemi viventi intesi come autopoietici, ossiain grado di auto-prodursi trasformandosi sulla base delle propria organizzazioneallo scopo di conservarla. Gli autori riflettono anche in generale sul ruolo delle teo-rie biologiche nella formazione dell’individuo e della società aprendo un dialogocon diverse discipline umanistiche come la filosofia, la sociologia, la psicologia el’antropologia.

Maturana H., De maquinas y seres vivos, Santiago de Chile, Edizione Universitaria,1985; trad. it. Macchine ed esseri viventi: l’autopoiesi e l’organizzazione biologica,Roma, Astrolabio, 1992.

Il libro rappresenta il tentativo di esporre una teoria biologica attraverso la defini-zione di sistema vivente come autopoietico. Maturana analizza il problema del rap-porto tra macchine e viventi, tra tecnica e natura applicando le proprie teorie biolo-giche.

Bibliografia

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Minsky M., The society of mind, New York, Simon and Schuster, 1986; trad. it. La so-cietà della mente, Milano, Adelphi, 1989.

L’opera espone le teorie fondamentali sulle quali si basa l’idea di intelligenza artifi-ciale secondo Minsky che ha lavorato molti anni come ricercatore presso l’ArtificialIntelligence Laboratory. Il testo è suddiviso in 31 capitoli e ogni pagina di ciascun capi-tolo tratta di un argomento particolare in modo da facilitare un lettura non sequen-ziale. Minsky si inserisce pienamente nel dibattito sul rapporto tra mente umana einnovazione tecnica, tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale cercando di mette-re in evidenza i punti di vicinanza.

Moravia S., L’enigma della mente, Roma, Laterza, 1986.Moravia si inserisce nel dibattito epistemologico novecentesco criticando le posi-zioni riduzioniste che pensano la mente umana come pura empiricità, solo comeciò che si può percepire. L’uomo è una struttura complessa che si relaziona con ilmondo che lo circonda e con gli strumenti tecnici che utilizza.

Nacci M., Pensare la tecnica: un secolo di incomprensioni, Roma, Laterza, 2000.Il volume analizza l’atteggiamento della cultura umanistica e scientifica del Nove-cento nei confronti della tecnica e fornisce una mappa per muoversi al suo interno.Un tema centrale è il rapporto tra tecnica, sapere scientifico e sistemi politici chehanno agevolato o impedito determinate trasformazioni.

Popper K.R., The open society and its enemies, London, Routledge e Kegan Paul, 1945;trad. it. La società aperta e i suoi nemici, Roma, Armando, 1986.

Opera in due volumi attraverso la quale Popper si confronta con la tradizione filo-sofica da Platone fino a Hegel e Marx. Il filosofo austriaco afferma che ogni cono-scenza deve essere falsificabile per poter essere scientifica. Questo principio fonda-mentale nel dibattito epistemologico è la struttura portante anche di questo testoche indaga le mistificazioni e gli inganni presenti nelle scienze sociali e nella tradi-zione filosofica.

Kuhn T.S., The structure of scientific revolutions, Chicago, University of Chicago Press,1962; trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969.

Il testo è una indagine sui modi e sulle possibilità di fare ricerca scientifica. Studiarele strutture attraverso cui la scienza si è evoluta nelle varie epoche storiche significaprodurre una trasformazione decisiva dell’immagine di scienza che ci domina.Kuhn riflette sul significato di evoluzione storica in ambito scientifico e sul ruolodi interprete che lo scienziato ha nei confronti della realtà.

Rossi P., I filosofi e le macchine (1400-1700), Milano, Feltrinelli, 1962.Il libro affronta il problema del mutamento profondo delle ideologie che si accom-pagna al nascere e al progressivo affermarsi di una moderna concezione del lavoro,della tecnica, dell’industria. Il legame tra scienze e tecnica nasce proprio alla finedel Medioevo e caratterizza l’intero sviluppo della civiltà occidentale.

Rossi P., Naufraghi senza spettatori. L’idea di progresso, Bologna, Il Mulino, 1995.Il testo descrive le trasformazioni nella società occidentale causate dallo sviluppo

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Bibliografia

delle scienze moderne. Il nesso tra scienza e tecnica è alla base dell’idea di pro-gresso che può portare a superficiali illusioni senza una riflessione adeguata ecomprensiva che inglobi anche i campi etici, politici e antropologici del sapereumano.

Searle J.R., Minds, brains and science, Massachusetts, Harvard University Press, 1984;trad. it. Mente, cervello e intelligenza, Milano, Bompiani, 1988.

Il testo, diviso in sei sezioni, tratta dei problemi relativi alla filosofia della mente,dal rapporto mente-corpo all’intelligenza artificiale fino alle strutture portanti dellinguaggio e della memoria. Searle propone un’epistemologia delle nuove teorie einnovazioni che riguardano lo studio della mente rifiutando la soluzione propostadal dualismo tra spirituale e materiale.

Sini C. La materia delle cose. Filosofia e scienza dei materiali, Milano, CUEM, 2004.Il testo comprende il corso tenuto da Sini nel 2003 presso l’Università statale di Mi-lano. Sini si interroga sulla composizione delle cose, sul concetto di materia e sullanatura degli oggetti naturali e artificiali. Egli parte dalle risposte date a queste do-mande da discipline scientifiche come la chimica, l’architettura, afferma l’insuffi-cienza di queste risposte poiché non riescono a cogliere l’essenza stessa della mate-ria e propone un dialogo con la tradizione filosofica

Vico G., Principi di scienza nuova, Milano, Mondadori, 1992.La prima edizione del testo è pubblicata nel 1725. L’autore parte da un riconosci-mento dei progressi dei moderni legati alla diffusione delle scienze tecniche, perpoi affermare la superiorità degli antichi che fondavano la propria scienza su un sa-pere retorico e letterario. L’oggetto di indagine del testo non è la storia di una sin-gola nazione, ma la nascita e lo sviluppo dell’umanità in generale. È possibile unconfronto con l’intervento di Sini, pubblicato in questo volume, La materia del mes-saggio.

5. TECNICA E SCRITTURA

Questa sezione parte dalle riflessioni di Derrida e Sini sul ruolo della scrittura comepratica tipica dell’uomo occidentale e ripercorre il percorso iniziato da De Saussurecon il Corso di linguistica generale. Gli studi antropologici e semiotici di Cardona, Fa-bietti, Havelok, Kallir mettono in evidenza il ruolo della scrittura alfabetica nellacostituzione delle civiltà a partire da quella occidentale.

Barthes R., Le Degré zéro de l’écriture, Paris, Le Seuil, 1953; trad. it. Il grado zero dellascrittura, Milano, Lerici, 1960.

L’autore indaga sullo stile e sulla forma della scrittura evidenziando le struttureportanti della narrativa contemporanea. La teoria sul ‘grado zero della scrittura’sottolinea il rapporto tra oralità e scrittura alfabetica e ha suscitato un inteso dibat-tito nel Novecento in ambito strutturalista.

Cardona G. R., I linguaggi del sapere, Roma-Bari, Laterza, 1990.

Bibliografia

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I saggi raccolti in questo testo descrivono il rapporto tra pratiche di scrittura e ditrasmissione orale. La seconda sezione Antropologia della scrittura sottolinea l’impor-tanza di questa pratica nella formazione del pensiero razionale occidentale, mentrela terza parte Linguistica e letteratura è dedicata all’analisi delle varie forme attraversole quali si può produrre una narrazione anche senza seguire il tradizionale formatolibresco.

D’Alessandro P., Esperienza di lettura e produzione di pensiero, Milano, LED, 1994.L’autore propone un percorso di fenomenologia dell’esperienza che si compiedurante la lettura e che porta alla produzione di pensiero. L’autore analizza lepratiche di lettura e di scrittura per comprendere i movimenti teoretici di produ-zione di pensiero che sono alla base delle strutture e delle categorie dell’uomooccidentale.

Dalmasso G., Il luogo dell’ideologia, Milano, Jaca Book, 1973.Il testo propone un’analisi del problema del segno e ripropone alcuni problemifondamentali del pensiero di Derrida come la scrittura, la parola, il testo e le strut-ture del pensiero razionale.

Derrida J., De la grammatologie, Paris, Minuit, 1967; trad. it. Della grammatologia, Mila-no, Jaca Book, 1969.

È l’opera centrale della produzione di Derrida, uno tra gli autori più originali delNovecento per quanto riguarda la riflessione sulle origini della scrittura. Il metodoproposto è quello della de-costruzione che diviene strumento di smascheramentodelle censure e degli inganni del pensiero.

Derrida J., La dissemination, Paris, Editions du Soleil, 1972; trad. it. La disseminazione,Milano, Jaca Book, 1989.

Il volume riflette sulla pluralità degli effetti semantici che un testo scritto porta consé, alla ricerca di una continua interpretazione della scrittura attraverso la differenzae lo scarto di significato. La scrittura è quindi anche dissimulazione, farmaco, nel-l’accezione sia negativa di veleno sia positiva di rimedio. Il testo diviene, pertanto,un continuo innesto di sensi sui quali è possibile riflettere e costruire percorsi er-meneutici infiniti.

Derrida J., L’écriture et la différence, Paris, Minuit, 1967; trad. it. La scrittura e la differen-za, Torino, Einaudi, 1971.

Il testo presenta un’acuta riflessione sul linguaggio, sulle sue caratteristiche portan-ti. L’atto di scrittura, anche quello poetico e letterario, è sempre un percorso di rot-tura e di trasformazione del mondo, attraverso l’uso della metafora e dell’immagi-nazione creatrice. La riflessione di Derrida cerca di evidenziare i limiti dell’atto discrittura che, anche nelle sue forme più creative, rimane limitato dalla sua stessa na-tura costitutiva.

Di Martino C., Il medium e le pratiche, Milano, Jaca Book, 1998.L’autore dialoga con Sini e McLuhan affermando l’importanza non neutrale delmedium nella produzione del pensiero della filosofia occidentale. È il medium alfa-

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Bibliografia

betico a costruire la struttura portante del pensiero logico razionale, in quanto co-stituisce la soglia di apparizione della pura voce dell’umanità, ossia di quell’atteggia-mento che chiamiamo filosofia.

Fabietti U., Etnografia: scritture e rappresentazioni, Roma, NIS, 1997.Fabietti afferma che l’etnografia come disciplina deve diventare cosmopolita peradeguarsi ai nuovi mezzi culturali e comunicativi della società globale. L’autoreindaga le strutture fondamentali della società attraverso le pratiche alfabetiche evisive.

Goody J., The interface between the written and the oral, Cambridge, Cambridge Universi-ty Press, 1987; trad. it. Il suono e i segni, Milano, Il Saggiatore, 1989.

Goody esamina i rapporti tra le forme di comunicazione orale e scritta, analizzandoa livello antropologico le fasi di passaggio tra le due prassi comunicative. Egli ap-profondisce gli impatti storici e sociologici che la diffusione della scrittura ha com-portato in Eurasia e nell’Africa nord occidentale sottolineando le modificazioninella trasmissione della cultura.

Havelock E., Preface to Plato, Oxford, Blackwell, 1963; trad. it. Cultura orale e civiltàdella scrittura: da Omero a Platone, Roma, Laterza, 1983.

L’autore studia e analizza le forme di produzione della cultura orale per mettere inevidenza gli elementi comuni che sono poi confluiti nell’inizio della pratica di scrit-tura attraverso la rivoluzione dell’alfabeto.

Havelock E., Origins of Western literacy, Toronto, Ontario Institute for Studies inEducation, 1976; trad. it. Dalla A alla Z. Le origini della civiltà della scrittura occi-dentale, Genova, Il Melangolo, 1993.

Il testo sottolinea la grande rivoluzione introdotta dalla scrittura alfabetica e le con-seguenze che questa innovazione ha prodotto sulla nascita del pensiero filosofico escientifico. La pratica della scrittura alfabetica è alle origini del pensiero razionale etecnico tipico della civiltà occidentale.

Illich I., In the vineyard of the text. A commentary to Hugh’s Didascalion, Chicago, Univer-sity of Chicago Press, 1993; trad. it. Nella vigna del testo. Per una etologia dellalettura, Milano, Cortina, 1994.

Illich propone un saggio sulle abitudini e sui metodi storici di lettura, sulle condi-zioni tecniche che, molto prima di Gutenberg, hanno reso possibile la nascita del li-bro così come lo conosciamo oggi. L’autore indaga le modalità di lettura della cul-tura scolastica del XII secolo per comprendere le strutture che sono alla base deiprocessi di lettura e scrittura della modernità.

Kallir A., Sign and design. The Psychogenetic Source of the Alphabet, Plymouth, Latimer,1961; trad. it. Segno e disegno: psicogenesi dell’alfabeto, Milano, Spirali, 1994.

Secondo Kallir ogni lettera del nostro alfabeto rimanda a segni e a disegni arcaicidell’umanità preistorica che hanno perso il valore sacrale e figurativo a causa di unprocesso di stilizzazione. L’autore propone una storia delle lettere che compongo-no l’alfabeto mettendo in evidenza la forte componente magico-sacrale e il valore

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sessuale legato alle forze della natura che sono alla base della formazione del codi-ce alfabetico moderno.

Ong W. J., Orality and literacy. The technologizing of the word, London, Metheuen, 1985;trad. it. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986.

L’introduzione della scrittura è stata la prima forma di tecnologia della parola cheha prodotto significative trasformazioni sui modi di produzione della cultura, cre-ando nuovi modelli e categorie di pensiero. Ong indaga anche i momenti di passag-gio nella storia dell’uomo come l’invenzione della stampa e la diffusione del com-puter nella contemporaneità.

Ronchi R., Teoria critica della comunicazione, Milano, Bruno Mondadori, 2003.Il testo vuole problematizzare l’idea che la comunicazione sia semplicemente unatrasmissione di messaggi da una fonte a un ricevente. Il punto centrale dell’opera èla nozione di conversazione che costituisce il filo conduttore per avviare una ricon-siderazione del paradigma comunicativo tradizionale.

Saussure De F., Cours de linguistique générale, Paris, Payot, 1968; trad. it. Corso di lingui-stica generale, Roma-Bari, Laterza, 1985.

Il testo comprende i celebri corsi di linguistica generale pronunciati dal 1907 in cuiespone i risultati di oltre trenta anni di ricerche sulle strutture della lingua. Èun’opera aperta e incompiuta in quanto De Saussure non stese mai in forma scrittadefinitiva e sistematica il materiale esposto durante le lezioni. Il testo darà vita a uninteso dibattito nel Novecento e può essere considerato una delle prime e più fe-conde analisi delle strutture che sono alla base del linguaggio.

Sini C., Etica della scrittura, Milano, Il Saggiatore, 1992.Il contenuto del volume risale a due corsi tenuti nel 1988 e nel 1990 presso l’Uni-versità statale di Milano. Il testo propone un continuo dialogo con i grandi pensa-tori della tradizione, da Aristotele e Platone fino a Heidegger e Derrida nel tentati-vo di evidenziare un’etica interna alle pratiche dell’uomo, sottolineando il primato eil dominio della cultura alfabetica.

Sini C., Kinesis: il movimento della differenza tra evento e significato, Milano, Edizioni Uni-copli, 1981.

Gli otto saggi che compongono questo testo sono una riflessione sul problema delsegno e del suo rimando. L’autore propone una interpretazione ‘cosmologica’ delsegno, attraverso una fusione dell’orizzonte semiotico con quello ermeneutico, os-sia un dialogo tra Peirce e Heidegger.

Sini C., Interpretazione e verità, Milano, Edizioni Unicopli, 1983.Il volume presenta una riflessione sulla questione della verità attraverso un cammi-no che tenta di descrivere le nozioni di interpretazione e di segno. La verità è sem-pre un essere-in-errore, nel senso di un continuo errare di colui che compie la ricer-ca attraverso le pratiche di pensiero, di scrittura che lo accompagnano nel diveniretemporale.

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Bibliografia

Sini C., Filosofia e scrittura, Roma-Bari, Laterza, 1994.Il testo è una riflessione sul ruolo del soggetto inteso come l’intrecciarsi delle prati-che che lo conformano e lo plasmano come tale. La scrittura è una pratica che per-mette la manifestazione e la produzione di tutto il sapere così come noi lo perce-piamo. Per questo, è utile avviare un’indagine ermeneutica sull’origine di questapratica.

Sini C., Teoria e pratica del foglio-mondo. La scrittura filosofica, Roma-Bari, Laterza, 1997.Il testo è una riflessione sulla scrittura come pratica che appartiene all’uomo e suidiversi supporti attraverso i quali le pratiche prendono forma. Sini intende il termi-ne scrittura in senso molto ampio, come un esercizio che riassume tutto ciò che ècostitutivo nella formazione di un soggetto filosofico che cerca di ‘mimare’ la veri-tà del mondo attraverso i gesti, la voce e lo scritto.

Sini C., Idoli della conoscenza, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000.Il testo propone una riflessione sugli idoli relativi alla nostra conoscenza, ossia sulletappe gnoseologiche che l’umanità ha costruito durante il divenire storico. L’autoreidentifica tre tappe fondamentali: senso comune, scienza e tecnica. Il compito che èrimasto al filosofo e alle sue pratiche è quello di smascherare questi idoli.

6. SOGGETTO, IDENTITÀ E SOCIETÀ DELLA TECNICA

In questa sezione sono presenti testi che propongono un’indagine sul ruolo delsoggetto e dell’individuo all’interno della società contemporanea, attraverso diverseprospettive da quella ermeneutica di Foucault e Nietzsche a quella fenomenologicadi Husserl e Merleau-Ponty. Importante è la riflessione avviata dalla scuola di Fran-coforte sulle trasformazioni nella società della tecnica, ma decisivo è anche l’ap-proccio psicanalitico di Freud e le analisi strutturali ed economiche presenti nel Ca-pitale di Marx.

Adorno T.W. e Horkheimer M., Dialektik der Aufklarung und Schriften: 1940-1950,Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1987; trad. it. Dialettica dell’illuminismo,Torino, Einaudi, 1966.

Il testo è stato composto in stretta collaborazione da Adorno e Horkheimer duran-te la seconda guerra mondiale. Cerca di tradurre sul piano speculativo l’esperienzadella guerra in Europa e le caratteristiche della società industriale americana che, inpiena espansione, li aveva accolti. Gli autori affermano che l’idea di libertà nelle so-cietà democratiche e industriali è legata allo spirito illuministico, ma, allo stessotempo, sostengono che nelle forme del pensiero razionale sono già insiti elementiirrazionali e di regressione che spesso sfociano nella negazione della libertà e neiregimi totalitari.

Adorno T.W., Negative Dialektik, Frankfurt am Mein, Suhrkamp, 1966; trad. it. Dia-lettica negativa, Torino, Einaudi, 1971.

Il testo è suddiviso in un’introduzione e in tre sezioni. L’introduzione propone il

Bibliografia

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metodo della dialettica negativa contrapposto allo spirito di sistema, il primo capi-tolo presenta una critica all’ontologia heideggeriana, mentre la seconda e la terzaparte propone l’applicazione della dialettica negativa ai concetti classici della tradi-zione come la libertà, il soggetto e l’oggetto. Adorno, attraverso un confronto conil pensiero e le categorie della tradizione filosofica, descrive e analizza le strutturedella realtà contemporanea.

Althusser L. e Balibar E., Lire le Capital, Paris, F. Maspero, 1970; trad. it. Leggere il ca-pitale, Milano, Feltrinelli, 1971.

Il testo rappresenta un’analisi delle strutture fondamentali del marxismo basata sul-la lettura del Capitale di Marx, testo in cui compaiono sia elementi ipotetico-scienti-fici sia il metodo dialettico che permette il superamento della chiusura in un ambitodisciplinare ristretto. Gli autori offrono elementi per una lettura originale del testodi Marx basata sul metodo della lettura sintomale.

Axelos K., Marx penseur de la technique, Paris, Méridiens Klincksiek, 1992; trad. it.Marx pensatore della tecnica: dall’alienazione dell’uomo alla conquista del mondo, Mila-no, Sugar, 1963.

L’autore sottolinea l’importanza che il pensiero di Marx dà al ruolo della tecnicanella società moderna. Secondo Axelos, Marx concepisce la tecnica globale comel’unica leva in grado di mettere in moto il mondo inserendosi, secondo anche la let-tura heideggeriana, all’interno della tradizione metafisica occidentale. È possibile,su questo tema, un confronto con l’intervento di Vittorio Morfino, pubblicato inquesto volume, Marx, pensatore della tecnica.

Bauman Z., La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999.L’autore propone un’analisi della società post-moderna contemporanea riprenden-do e sviluppando le riflessioni di Freud in Il disagio della società. Secondo Freud, nel-la società moderna il disagio nasce da un eccesso di ordine e dalla sua inseparabilecompagna: la morte della libertà. Per Bauman la realtà post-moderna si basa su unabuso di libertà individuale che genera incertezza e una serie infinita di paure.

D’Alessandro P., Darstellung e soggettività. Saggio su Althusser, Firenze, La Nuova Italia,1980.

L’intento del volume, incentrato sui fondamentali concetti di lettura sintomale, rap-presentazione, soggettività e scrittura, non è tanto quello di fornire l’esposizionedel pensiero di Louis Althusser, quanto invece quello di applicare ai suoi scritti ilmetodo che lo stesso pensatore francese ha messo a punto e applicato nella sua ori-ginale interpretazione di Marx.

Deleuze G. e Guattari F., Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris, de Munuit,1980; trad. it. Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Istituto della enci-clopedia italiana, 1987.

Il testo riflette, in modo originale, sui problemi della contemporaneità occupandosidi storia, biologia, società della tecnica, psicoanalisi e letteratura. Gli autori si calano

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Bibliografia

nel fluire del divenire e dialogano con le posizioni psicanalitiche di Lacan in unaprospettiva anti-hegeliana proponendo la dispersione della teoria e l’irriducibilitàdella realtà.

Eco U., Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Mila-no, Bompiani, 1964.

Analisi sulla diffusione delle diverse tecniche di comunicazione nella società dimassa. Le espressioni ‘apocalittici’ e ‘integrati’ hanno avuto un notevole successo eindicano i due opposti atteggiamenti dell’uomo di fronte all’espansione della tecni-ca e della comunicazione di massa.

Eco U., La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968.Umberto Eco pone le basi di una teoria semiologica unificata. In questo contestoteorico, egli discute le degenerazioni ‘ontologiche’ dello strutturalismo e tenta dipreservarne, al contempo, la fecondità metodologica. Eco affronta le letture deco-struzioniste (Derrida) e psicoanalitche (Lacan) della nozione di senso e le applicaallo studio dei segni della comunicazione di massa nella società contemporanea.

Fadini U. (a cura di), Gilles Deleuze, tecnofilosofia. Per una nuova antropologia filosofica,‘Millepiani’ n. 17/18 (Milano, Mimesis, 2000).

Questo numero della rivista Millepiani è dedicato alle trasformazioni antropologichein atto nella società contemporanea causate dal diffondersi della tecnologia. Sonopresenti interventi di Jean Baudrillard, Gilles Deleuze, Arnold Gehlen.

Foucault M., L’hermeneutique du sujet: cours au College de France, 1981-1982, Paris, LeSeuil, 1989; trad. it. L’ermeneutica del soggetto, Milano, Feltrinelli, 1990.

Foucault esamina un insieme di tecniche e di pratiche destinate alla produzione delsoggetto. Attraverso i dispositivi di scrittura, durante l’antichità, si provvedeva araccogliere quotidianamente gli esiti dell’esperienza e costituire l’unità del sé. Nelcristianesimo, invece, si passerà alle tecniche di decifrazione e di svelamento dellaverità del testo.

Foucault M., Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975; trad. it.Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976.

L’autore analizza l’evoluzione storica delle grandi istituzioni punitive e di controllotipiche della società umana: dal supplizio spettacolare, al grande internamento, ai si-stemi carcerari moderni. Il testo è un’analisi della mentalità e delle tecniche utilizza-te dall’umanità per controllare se stessa e per normalizzare i soggetti che la costitui-scono emarginando le differenze.

Freud S., Das Unbehagen in der Kultur, Wien, Fritz Peter Kirsch, 1930; trad. it. Il disa-gio della civiltà, Torino, Boringhieri, 1985.

L’autore sviluppa i temi presenti in L’avvenire di un’illusione, studiando la formazionedelle strutture della collettività. La conclusione dell’opera risulta essere pessimistain quanto la civiltà si sviluppa grazie alla perdita di felicità del singolo che deve li-mitare la sua aggressività innata a favore dell’accrescimento del suo senso di colpa.

Bibliografia

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Questo scritto sarà un punto di riferimento nel dibattito novecentesco sulle emo-zioni di disagio, di angoscia presenti nel soggetto di fronte alle trasformazioni dellasocietà moderna.

Freud S., Die Zukunft einer Illusion, Leipzig, Internationaler Psychoanalytischer Ver-lag, 1927; trad. it. L’avvenire di un’illusione, Torino, Bollati Boringhieri, 1975.

Riprendendo le analisi di Totem e Tabù, Freud propone uno studio sull’origine delledinamiche che portano allo strutturarsi della società umana, basandosi su categoriepsicanalitiche. Egli critica il ruolo della religione, considerandola un’illusione chedeve essere superata, poiché la società moderna ormai si è affrancata dai bisogniprimari grazie al fare tecnico.

Horkheimer M., Gesellschaft im Übergang, Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1972;trad. it. La società di transizione. Individuo e organizzazione nel mondo attuale, Tori-no, Einaudi, 1979.

Il testo è formato da un insieme di saggi e rappresenta il pensiero della maturità diHorkheimer. L’autore scivola verso una posizione di radicale scetticismo e pessimi-smo sugli esiti dell’impegno politico nel mondo contemporaneo.

Husserl E., Logisch Untersuchungen, Halle, Niemeyer, 1922; trad. it. Ricerche logiche, Mi-lano, Il Saggiatore, 1968.

L’obiettivo dichiarato di questo testo è il superamento della prospettiva di assorbi-mento della logica all’interno della psicologia. Le Ricerche logiche, però, non possonoessere considerate un lavoro specialistico su problemi di carattere logico, ma sonoun’apertura a un nuovo modo di fare filosofia e a gran parte delle correnti di pen-siero del Novecento.

Lenk H., Philosophie im technologischen Zeitalter, Stuttgard, Kohlhammer, 1971.Il testo si occupa dell’idea di progresso e di sviluppo all’interno della società dellatecnica. Propone un’analisi attenta delle trasformazioni dell’epoca della tecnica at-traverso l’utilizzo delle categorie della filosofia tradizionale.

Marcuse H., Eros and civilization, London, Sphere Books, 1964; trad. it. Eros e civiltà,Torino, Einaudi, 1968.

Il punto di partenza del libro è la tesi freudiana secondo cui l’individuo e la societàevolvono controllando e tralasciando gli impulsi istintuali. La società, per esisterecome sistema, deve piegare e utilizzare gli istinti del singolo generando, inevitabil-mente, disagio e nevrosi. Marcuse, distaccandosi tra Freud e da Marx, proponecome soluzione al disagio dell’individuo una civiltà sottratta all’obbligo del lavoro,in cui sia possibile una conciliazione tra principio di piacere e principio di realtà, traforza pulsionale e senso del dovere.

Marx K., Das Kapital, Kritik der politischen Okonomie, Berlin, Dietz, 1891; trad. it. IlCapitale, Roma, Armando Curcio, 1945.

Il testo è una poderosa analisi dei sistemi economici e politici appartenenti alla so-cietà moderna e industriale. Diventato un punto di riferimento per il dibattito politi-co, filosofico ed economico del Novecento, lo scritto propone, come lo stesso auto-

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Bibliografia

re scrive nel Postscritto della seconda edizione, sia la concezione filosofica di Marx inrelazione alla dialettica hegeliana, sia la sua concezione materialistica della storia.

Massa R., Le tecniche e i corpi. Verso una scienza dell’educazione, Milano, Unicopli, 1986.Il testo propone diverse tecniche pedagogiche che rientrano nel teoria della Clinicadella formazione, un paradigma educativo che cerca di sviluppare proposte didatti-che adeguate alle esigenze della società moderna.

Mead G. H., Mind, self and society, Chicago, Chicago University Press, 1965; trad. it.Mente, sé e società, Firenze, Giunti, 1966.

Lo scritto indaga il rapporto tra la voce, la scrittura e le strutture costitutive dellanostra società. Mead, allievo di Dewey, riflette sui rapporti tra la costituzione dell’ioindividuale e la formazione di abiti etici e sociali attraverso lo studio del linguaggioe dei gesti nella formazione umana.

Merleau-Ponty M., Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard, 1945; trad. it. Feno-menologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1965.

L’autore intende descrivere l’essenza della percezione e della coscienza attraverso lemetodologia fenomenologica, pertanto la descrizione dell’esperienza vissuta divie-ne l’obiettivo fondamentale del testo. Prima ancora di arrivare a un’analisi scientifi-ca della società e dei suoi sistemi di produzione risulta fondamentale, secondo Mer-leau-Ponty, recuperare il rapporto diretto e originario che abbiamo con il mondo.

Natoli S., Ermeneutica e genealogia: filosofia e metodo in Nietzsche, Heidegger, Foucault, Mila-no, Feltrinelli, 1981.

Il libro è composto da tre studi su Nietzsche, Heidegger e Foucault, scritti in perio-di diversi, ma con l’intenzione teoretica unitaria di rendere esplicito il nesso tra filo-sofia e metodo, tra ermeneutica e genealogia. Natoli utilizza il pensiero di questi au-tori della tradizione, come modello esplicativo, per mostrare la connessione tra lacostruzione di un sapere e il metodo con il quale viene composto.

Natoli S., Progresso e catastrofe: dinamiche della modernità, Milano, C. Marinotti, 1999.Natoli riflette sui concetti di progresso e di catastrofe che riassumono l’atteggia-mento positivo e negativo che l’uomo ha di fronte ai cambiamenti che la tecnicaproduce nella nostra società. Egli propone una «etica del finito», ossia un atteggia-mento equilibrato di chi riesce a fronteggiare il contingente senza lasciarsi domina-re dagli eventi. È possibile un approfondimento su questi temi nel saggio di Natolipubblicato in questo volume, Tecnica e rischio.

Natoli S., Teatro filosofico: gli scenari del sapere tra linguaggio e storia, Milano, Feltrinelli,1991.

Il teatro è la metafora attraverso la quale l’autore cerca di mostrare come tempo,storia e idee si intreccino tra loro in un gioco continuo e senza fine. La verità è uncontinuo mostrarsi e fuggire, il compito del lettore è quello di trovare legami, vin-coli e nessi in base alle proprie intenzioni teoretiche.

Nietzsche F., Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, Berlin, De Gruyter,

Bibliografia

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1968; trad. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Milano,Adelphi, 1968.

È un testo che appartiene alla produzione matura del filosofo tedesco. È uno scrit-to profetico che presenta diversi livelli di lettura. L’autore si confronta con i grandiproblemi della tradizione occidentale utilizzando uno stile di scrittura originale, nontradizionale, molto vicino alla poesia e lontano dai tecnicismi della filosofia classica.

Nietzsche F., Die fröhliche Wissenschaft, Leipzig, C. G. Naumann, 1897; trad. it. Lagaia scienza, Milano, Adelphi, 1997.

Il testo tratta del rapporto tra scienza e arte, una relazione necessaria per arrivare aun equilibrio delle discipline scientifiche e tecniche in rapporto con la vita. Nietz-sche utilizza il linguaggio aforistico per riflettere, in modo originale, su tutti gliaspetti contradditori e di crisi della società umana.

Nietzsche F., Der Wille zur Macht. Versuch einer umwerthung aller Werthe, Leipzig, C. G.Naumann, 1906; trad. it. La volontà di potenza, Milano, Bompiani, 1992.

L’insieme dei frammenti, pubblicati postumi, che compongono La volontà di potenza,evidenziano una sorta di testamento del pensiero nietzscheano. Il testo è una rifles-sione sul ruolo del soggetto e della sua costante ricerca di interpretazione della real-tà. L’ermeneutica di Nietzsche riflette sul tentativo dell’uomo di espandere il suodominio e la sua volontà di potenza su ciò che lo circonda.

Pitt J., Thinking about technology: foundations of the philosophy of technology, New York,London Press, 2000.

L’autore pone le basi per una filosofia della tecnologia interpretando le categoriedell’epistemologia e del pragmatismo tradizionale dialogando con autori come Peir-ce, Sellers, Dewey.

Ruggenini M., Marx e la tecnica. Dialettica della liberazione come dialettica della produzione,in La tecnica e il destino della ragione (a cura di M. Ruggenini), Venezia, MarsilioEditori, 1979.

Il saggio si occupa del pensiero di Marx in relazione alle trasformazioni che la tec-nica produce nella nostra società.

Spengler O., Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte,München, Beck’sche Verlagsbuchhandlung, 1927; trad. it. Il tramonto dell’Occi-dente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Milano, Longanesi, 1970.

Il testo è stato scritto dopo la prima guerra mondiale e ripercorre le tappe fonda-mentali della storia dell’evoluzione della società umana. Spengler arriva a prevederela fine della società occidentale anticipata da segni premonitori come la crisi dellareligione, l’avvento della democrazia e del socialismo che hanno sovvertito i rap-porti naturali tra il forte e il debole portando al trionfo delle classi deboli.

Wittgenstein L., Philosophische Untersuchungen, Frankfurt am Main, Surkamp, 1967;trad. it. Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1995.

Il linguaggio è inteso come una «forma di vita» perché ha delle regole semantiche esintattiche che devono essere condivise dall’intera comunità umana. L’autore pro-

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Bibliografia

pone una riflessione sul linguaggio concepito come un ambiente storicamente e so-cialmente determinato, che non può ridursi a un unico modello, ma che è costituitoda un insieme di strutture sempre diverse.

7. TECNOLOGIA, COMUNICAZIONE E NUOVI MEDIA

I testi qui raccolti propongono diverse prospettive sui modi di produrre conoscen-za e informazione nella società contemporanea. McLuhan è stato il pensatore che,tra i primi, ha sottolineato il ruolo non neutrale dei ‘media’ nella divulgazione di in-formazioni. Negli ultimi decenni il dibattito si è sempre più focalizzato sul temadella diffusione di Internet e delle pratiche ipertestuali che testimoniano l’impor-tanza del supporto tecnico nelle nostre abitudini comunicative.

Bauman Z., Liquid modernity, Oxford, Blackwell, 2000; trad. it. Modernità liquida,Roma-Bari, Laterza, 2002.

La metafora della liquidità è utilizzata dall’autore per sottolineare l’incertezza e l’an-sietà sempre più diffusa nella società contemporanea. Queste emozioni vengonoamplificate dai nuovi mezzi di comunicazione che rivoluzionano i concetti classicidi spazio e di tempo.

Beniger J.R., The control revolution: technological and economic origins of information society,Harvard, Harvard university, 1986; trad. it. Le origini della società dell’informa-zione: la rivoluzione del controllo, Torino, UTET, 1995.

Beniger analizza i termini e i concetti fondamentali della società dell’informazioneintesa come «rivoluzione del controllo», ossia come la possibilità di raggiungere ifini prestabiliti del sistema. Una trasformazione avviata, nell’Ottocento, dalla neces-sità del sistema industriale di controllare una produzione materiale potenzialmenteillimitata.

Berger R., Il nuovo Golem. Televisione e media tra simulacri e simulazione, Milano, Raffael-lo Cortina editore, 1992.

L’analisi di Berger propone un superamento dei classici paradigmi della culturaumanistica attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie per arrivare a costanti rela-zioni interdisciplinari tra il sapere umanistico e quello scientifico.

Berners-Lee T, Weaving the Web. The past, present and future of the World Wide Web by itsinventor, London, Texere, 1999; trad. it. L’architettura del nuovo Web, Milano,Feltrinelli, 2001.

Il libro ripercorre le tappe che hanno portato alla creazione del Web, dall’esperien-za del Cern di Ginevra alla concretizzazione dei primi ipertesti. Berners-Lee, unodei protagonisti di questa avventura, spiega nella seconda parte del libro quello chepotrà essere il Web del futuro descrivendo «L’architettura del nuovo Web».

Bettetini G. e Colombo F., Le nuove tecnologie della comunicazione, Milano, Bompiani,1993.

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Il testo raccoglie diversi interventi di esperti di comunicazione che descrivono eanalizzano le innovazioni tecnologiche più significative degli ultimi decenni. Gran-de spazio è dedicato all’idea di virtuale e di ipertestualità.

Bettettini G., Vittadini N., Gasparini B., Gli spazi dell’ipertesto, Milano, Bompiani,1999.

La caratteristica più interessante dell’ipertesto è il fatto di predisporre spazi con-creti dedicati all’interazione. Gli autori riflettono sulle trasformazioni che il con-cetto di spazio ha subito nel tempo. Lo spazio inteso come principio logico su cuisi fonda l’organizzazione dei contenuti si è trasformato dal formato classico del li-bro a stampa fino all’ipertestualità basata su dinamiche flessibili, non lineari e inte-rattive.

Bush V., Memex II, in M. Nyce e P. Kahn (a cura di), From Memex to Hypertext, Bo-ston, Academic Press, 1991; trad. it. Memex II, in M. Nyce e P. Kahn (a curadi), Padova, Muzzio, 1992, pp. 105-120.

Il testo ripercorre le tappe del progetto Memex, pionieristico tentativo di produrreipertesti basato sulle intuizioni di Vannevar Bush.

Cadioli A., Il critico navigante. Saggio sull’ipertesto e la critica letteraria, Genova, Marietti,1998.

Cadioli analizza i modi attraverso i quali è possibile produrre scrittura narrativa at-traverso gli ipertesti evidenziando le differenze tra una scrittura lineare alfabetica equella ipertestuale. La maggiore libertà dello scrittore che utilizza le nuove tecnolo-gie presuppone, però, una continua interazione con il lettore che può intervenirenella produzione del testo.

Calvani A., Iperscuola. Tecnologia e futuro dell’educazione, Padova, Muzzio, 1994.Il testo è un’analisi delle potenzialità che i nuovi media hanno in campo educativo escolastico. Il compito e la sfida che gli educatori devono saper raccogliere consistenell’utilizzare le nuove tecnologie per colmare alcune mancanze strutturali dellascuola come il difficile coinvolgimento degli studenti. Lo stesso libro si presenta informa non lineare, i capitoli hanno una natura autonoma e sono segnalati possibilicollegamenti tra le varie sezioni.

Carlini F., Lo stile del Web. Parole e immagini nella comunicazione di rete, Torino, Einaudi,1999.

È una ricostruzione dei rapporti tra parola e immagine nel Web. L’autore affermache non è possibile produrre ipertesti utilizzando le forme tradizionali dello scrittoe del parlato, ma è necessario ipotizzare e costruire nuove semantiche e sintassi perinventare uno stile flessibile che possa coinvolgere il lettore di Internet.

Caronia A., Archeologie del virtuale. Teorie, scritture, schermi, Verona, Ombre Corte,2001.

Il testo propone un’indagine relativa al tema del virtuale inteso, non come puraimmaterialità, ma come una nuova possibilità dell’umanità di materializzare l’im-materiale.

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Bibliografia

Casetti F., Dentro lo sguardo, Milano, Bompiani, 1986.Casetti studia e propone quattro modi possibili dello sguardo cinematografico. Iltesto è anche un’analisi delle possibilità di comunicazione del mezzo cinematografi-co e del rapporto che si instaura con lo spettatore grazie alle innovazioni tecnicheutilizzate nella realizzazione delle pellicole.

Castells M., Internet Galaxy, Oxford, Oxford University Press, 2000; trad.it. GalassiaInternet, Milano, Feltrinelli, 2002.

Castells offre un panorama dei problemi e delle trasformazioni prodotte dalla dif-fusione di Internet e della tecnologia digitale. Riprendendo alcune riflessioni giàpresenti in McLuhan, l’autore sostiene l’importanza dei mezzi di comunicazione ela stretta connessione tra informazione e strutture politiche e sociali.

Castells M., The information age. Economy, society and culture, Oxford, Blackwell, 2001;trad. it. La nascita della società di rete, Milano, Egea, 2002.

L’autore ripercorre le tappe più importanti dello sviluppo di Internet e delle nuoveforme di comunicazione telematiche, proponendo anche un’analisi delle varie zonegeografiche di espansione della Rete. Egli evidenzia lo stretto legame tra il mediumche veicola l’informazione, il contenuto che viene trasmesso e il tessuto politico esociale esterno.

Ceri P. e Borgna P. (a cura di), La tecnologia per il XXI secolo. Prospettive e rischi di esclu-sione, Torino, Einaudi, 1998.

Contiene una serie di saggi che tentano di valutare gli effetti positivi e quelli negati-vi delle nuove tecnologie nel XXI secolo. Gli interventi tentano un’analisi su comele istituzioni cerchino di governare e controllare le continue trasformazioni della re-altà che ci circonda, con una particolare attenzione per la situazione italiana ed eu-ropea.

D’Alessandro P. e Domanin I. (a cura di), Filosofia dell’ipertesto, Milano, Apogeo,2005.

Il testo propone una riflessione teorica sull’ipertesto e le nuove tecnologie. Unaparte del volume è dedicata alla trasposizione in formato cartaceo dell’esperienzadei laboratori di scrittura filosofica Hermes_net, un progetto di scrittura ipertestua-le che si basa su un metodo ermeneutico di lettura e scrittura.

D’Alessandro P. (a cura di), Internet e la filosofia, Milano, LED, 2001.Il volume raccoglie gli atti del convegno tenutosi a Milano il 26-27 ottobre del 2000su La filosofia del Web. Tempo e connessione: i fondamenti dell’ipertestualità tra ermeneutica edecostruzione. Sono presenti, tra gli altri, gli interventi di D’Alessandro, De Kerckho-ve, Diodato, Paolini, Papi, Parodi.

De Carli L., Internet. Memoria e oblio, Torino, Bollati Boringhieri, 1997.Il testo, diviso in tre sezioni, prende in considerazione le modificazioni che l’avven-to di Internet ha prodotto sulla nostra percezione di spazio e di tempo. La terza se-zione è dedicata al tema dell’ecologia della rete che dimostra come un uso non con-

Bibliografia

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sapevole delle nuove tecnologie può portare a una distorsione di contenuti dellatradizione fino all’oblio.

De Francesco C., Iperlibro. Un ipertesto sugli ipertesti, Milano, McGraw, 1993.Il testo sottolinea l’aspetto interattivo, non sequenziale, fluido e flessibile dellascrittura ipertestuale proponendo, al suo interno, tentativi formali e grafici di supe-rare le barriere della struttura del libro.

De Kerckhove D., The skin of culture, Toronto, Somerville House Books, 1995; trad.it. La pelle della cultura. Un’indagine sulla nuova realtà elettronica, Genova, Costa& Nolan, 1996.

L’autore sviluppa le riflessioni di McLuhan analizzando i nuovi mezzi di comunica-zione e la diffusione delle reti telematiche. Egli sottolinea il ruolo rivoluzionario delWorld Wide Web negli aspetti sociali, politici ed economici della società contempo-ranea.

Di Nardo A.M., Internet. Storia, tecnica, sociologia, Torino, UTET, 1999.È un’indagine sulle motivazioni che hanno portato al rapido sviluppo di Internet edei nuovi mezzi di comunicazione nella nostra società. Il libro propone due puntidi vista: quello più tecnico e informatico e quello più sociologico che parte da unadisamina della storia di Internet fino ad arrivare ai problemi lavorativi della realtàcontemporanea.

Featherstone M. e Burrows R., Cyberspace/Cyberbodies/Cyberpunk, London, Sage,1996; trad. it. Tecnologia e cultura virtuale. Cyberspace/Cyberbodies/Cyberpunk, Mi-lano, Franco Angeli, 1999.

I saggi contenuti nel volume descrivono alcune tra le più interessanti novità pro-dotte dalle nuove tecnologie come gli ambienti virtuali e le modificazioni nella rela-zione uomo-macchina, approfondendo, in molti casi, gli aspetti più tecnici dei pro-blemi.

Fiormonte D., (a cura di) Informatica umanistica. Dalla ricerca all’insegnamento, Roma,Bulzoni, 2003.

Il testo mette in evidenza gli sviluppi dell’informatica umanistica negli ultimi anni ele sue potenzialità come disciplina scientifica. Sono presenti tra gli altri i saggi diOrlandi, Ciotti, Moneglia, Pellizzi.

Flichy P., Une histoire de la communication moderne. Espace public et vie privée, Paris, LaDecouverte, 1997; trad. it. Storia della comunicazione moderna. Sfera pubblica e di-mensione privata, Bologna, Baskerville, 1994.

È una attenta ed esauriente storia della comunicazione, dall’invenzione del telegrafofino al telefono cellulare e alle più recenti forme della comunicazione moderna. Fli-chy mette in evidenza il nesso che è sempre presente tra un’invenzione tecnica e ilcontesto sociale, politico ed economico nel quale viene realizzata.

Flichy P., L’innovation technique, Paris, La Decouverte, 1995; trad. it. L’innovazione tec-nologica. L’innovazione di fronte alla rivoluzione digitale, Milano, Feltrinelli, 1996.

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Bibliografia

Il testo ripercorre le teorie sull’innovazione tecnologica nell’ambito delle scienzesociali, sia quelle classiche come l’economia e la storia che le ‘nuove’ come psicolo-gia sociale, antropologia culturale e sociologia. L’autore si sofferma in modo parti-colare sulle teorie legate al decostruzionismo.

Formenti C., Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet, Milano,Cortina, 2000.

Formenti cerca di presentare una mappa delle diverse posizioni emerse nel dibatti-to sui temi più importanti dell’epoca di Internet senza arrivare a una posizione for-te che esclude le altre. Il testo è un insieme di rimandi e di connessioni che cercanodi mettere in dialogo autori come Levy, Deleuze, Virilio, Heidegger sul tema deinuovi mezzi per la comunicazione.

Galameri G., La Galassia McLuhan. Il mondo plasmato dei media, Roma, Armando,1991.

L’autore riprende e sviluppa le teorie di McLuhan alla luce delle nuove tecnologieche si sono sviluppate nella seconda metà del Novecento.

Garrand T., Writing for multimedia and the Web, Boston, Focal Press, 2001.Il testo, non ancora tradotto in italiano, è dedicato allo sviluppo delle dinamiche in-terattive nei nuovi mezzi di comunicazione. In particolare l’autore dà informazionie istruzioni utili per coloro che vogliono cominciare a scrivere utilizzando ipertestie diversi strumenti informatici.

Gensini S. (a cura di), Manuale di comunicazione, Roma, Carocci, 1999.Una raccolta di interventi che descrivono il mondo della comunicazione privile-giando gli studi sui segni, sui simboli e sul linguaggio.

Ghislandi P. (a cura di), Oltre il multimedia, Milano, Franco Angeli, 1995.Il testo propone una serie di sperimentazioni relative alla didattica on line. Le nuo-ve tecnologie possono essere applicate in modo molto originale e produttivo nelcampo educativo cercando di comprendere le potenzialità che questi strumentihanno nell’ambito della comunicazione: come affermano gli autori del testo, la di-dattica on line non è semplice didattica a distanza.

Gigliozzi G., Il testo e il computer. Manuale di informatica per gli studi letterari, Milano,Mondadori Editore, 1997.

Gigliozzi fornisce informazioni e strategie per chi utilizza i nuovi media per studisu argomenti specifici e per ricerche letterarie e scientifiche più approfondite. Leindagini semantiche e lessicali di analisi testuale in ambito umanistico e letterario,attraverso l’utilizzo di strumenti informatici, sono il passo successivo rispetto allasemplice memorizzazione e catalogazione dei dati.

Haraway D., Simians, cyborgs, and women: the reinvention of nature, London, Routledge,1991; trad. it. Manifesto Cyborg, Milano, Feltrinelli, 1995.

L’autore espone i rapporti tra uomo e natura, occupandosi delle diverse forme diproduzione culturale ed economica. Il terzo ed ultimo capitolo è dedicato alla ride-

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finizione di problemi classici come quelli politici ed etici attraverso l’uso di catego-rie marxiste rielaborate alla luce degli avvenimenti gli ultimi decenni del XX secolodominati dalle innovazioni tecnologiche.

Innis H., The bias of communications, Toronto, Toronto University Press, 1951; trad.it. Le tendenze della comunicazione, Milano, SugarCo, 1982.

Il testo è di primaria importanza per la riflessione sui mezzi di comunicazione, sul-la loro non neutralità e sugli influssi che producono nella società moderna. Fonda-tore della Scuola di Toronto, Innis è stato tra i primi, insieme a McLuhan, a studia-re in modo analitico gli strumenti che veicolano l’informazione.

Landow G., Hypertext. The convergence of contemporany critical theory and technology, Balti-more, The Hopkins university Press, 1994; trad. it. Ipertesto. Tecnologie digitali ecritica letteraria, Bologna, Baskerville, 1998.

L’ipertesto apre un orizzonte nuovo nella produzione e nella trasmissione del sape-re attraverso la diffusione di Internet e delle nuove tecnologie. Landow si sofferma,dialogando con pensatori come Derrida, Barthes, Foucault, sulle trasformazioniche avvengono nei concetti di autore, lettore, testo all’interno della produzioneipertestuale.

Levy P., L’intelligence collettive. Puor une antropologie du cyberspace, Paris, La Découverte,1994; trad. it. L’intelligenza collettiva. Per una antropologia del cyberspazio, Milano,Feltrinelli, 1996.

Il cyberspazio è un luogo virtuale, realizzato attraverso la connessione telefonica ele reti informatiche, dove tutti gli elementi dell’informazione si trovano in contatto.Lo scopo di questo libro è di proporre sistemi di organizzazione di questo spaziovirtuale e delle informazioni in esso contenute, in modo da gestire un sapere sem-pre più complesso e collettivo.

Levy P., Qu’est ce que le virtuel?, Paris, La Decouverte, 1995; trad. it. Il virtuale, Milano,Raffaello Cortina, 1984.

L’autore afferma che il concetto di virtuale non deve essere inteso come un insiemedi possibilità che si potranno realizzare in futuro, ma come un diverso modo di per-cepire ed esperire la realtà presente. Il virtuale è un potenziamento della realtà chesi esplica in ogni campo di indagine umana dall’economia, alla politica, all’antropo-logia, alle scienze tecniche e alle diverse forme di comunicazione.

Livolsi M. (a cura di), Il pubblico dei media, Firenze, La Nuova Italia, 1992.Il testo studia le trasformazioni avvenute nel pubblico dei media, cercando di definiremeglio le aspettative e le esigenze degli utenti sia nei confronti dei mezzi di comunica-zione tradizionale come cinema e televisione sia nei confronti dei nuovi media.

Losito G., Il potere dei media, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994.È un’analisi degli studi sul tema del potere dei mezzi di comunicazione di massa.Analizza i processi di comunicazione e soprattutto le complesse modalità di rice-zione e di accettazione dei messaggi da parte del destinatario che fa interagire icontenuti ricevuti con le proprie caratteristiche psicologiche, culturali e sociali.

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Bibliografia

Maldonado T., Critica della ragione informatica, Milano, Feltrinelli, 1997.L’autore avanza una posizione critica nei confronti dell’eccessivo ottimismo checirconda la rivoluzione digitale che sta avvenendo in questi anni e afferma la ne-cessità di un continuo dibattito sulle idee che sono alla base delle innovazioni tec-niche e del loro rapporto con il tessuto sociale ed economico nel quale si vanno ainserire.

Manovich L., The Language of new media, Cambridge, MIT Press, 2001; trad. it. Il lin-guaggio dei nuovi media, Milano, Olivares, 2002.

L’importanza di questo scritto risiede nel fatto che documenta in maniera completae dettagliata la situazione evolutiva dei nuovi media, evidenziandone le relazioni al-l’interno dell’ambito socio-culturale internazionale. Esso mostra una visione di In-ternet e delle nuove tecnologie cauta e riflessiva osservando anche gli aspetti invasi-vi e solo apparentemente libertari insiti nel mondo informatico e nei processi diglobalizzazione.

Mantovani G., Comunicazione e identità, Bologna, Il Mulino, 1995.La terza parte del volume analizza la comunicazione elettronica e il contesto nelquale si diffonde. Le reti elettroniche possono davvero stimolare un’evoluzione insenso democratico delle organizzazioni? Quali opportunità offrono gli ambientivirtuali allo sviluppo delle forme alternative di socialità e di identità?

Mantovani G., La qualità dell’interazione uomo-computer, Bologna, Il Mulino, 1991.L’innovazione informatica ha reso il computer sempre più accessibile ad un’ampiaplatea di utenti, in ambito professionale e nel tempo libero. Questo volume intendeapprofondire, con particolare riguardo per gli sviluppi interattivi e le reti elettroni-che, la qualità e i modi dei rapporti uomo-computer.

McGann J. J., La letteratura dopo il Word Wide Web. Il testo letterario nell’era digitale, Bolo-gna, Bonomia University Press, 2002.

L’autore indaga i metodi e le tecniche digitali che sono stati utilizzati dalla culturaumanista. Egli mette in evidenza anche i limiti di questi approcci. Infatti, moltospesso, i ricercatori e gli studiosi, nella letteratura e nelle scienze umane, hanno uti-lizzato le tecniche digitali solo per classificare e per diffondere i contenuti senzacomprendere completamente il carattere innovativo, dinamico e le potenzialità de-gli strumenti informatici.

McLuhan M., The Gutenberg Galaxy. The making of typografic man, Toronto, UniversityToronto Press, 1962; trad. it. La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografi-co, Roma, Armando, 1976.

Per comprendere la posizione e il ruolo dell’uomo nella società industriale è neces-sario un esame delle origini e degli sviluppi delle estensioni tecniche che accompa-gnano il soggetto nella vita di tutti i giorni. Il testo sottolinea l’importanza dei me-dia nella formazione del pensiero e nella sua comunicazione.

McLuhan M., Understanding Media, Cambridge, MIT Press, 1964; trad. it. Gli strumen-ti del comunicare, Milano, EST, 1967.

Bibliografia

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È tra i testi più significativi sullo studio dei mezzi di comunicazione di massa. Glistrumenti tecnici non sono mai neutrali perché modificano le forme e i modi delleazioni umane. L’autore propone, quindi, un approccio allo studio dei mezzi di co-municazione che si basa non sul contenuto che viene veicolato, ma sugli effetti e letrasformazioni che i media producono nella società.

Mordenti R., Informatica e critica dei testi, Roma, Bulzoni, 2001.Mordenti effettua una disamina teorica del rapporto tra le discipline filologiche el’informatica, evidenziando le potenzialità delle nuove tecniche informatiche per lostudio e l’analisi dei testi. Gli strumenti telematici non possono essere consideratisolo macchine da scrivere utili per la ricerca delle varianti. Infatti è necessario avvia-re progetti che siano coerenti con le possibilità interattive e multimediali delle retiinformatiche.

Mumford L., The myth of the machine, New York, Brace e World, 1967; trad. it. Il mitodella macchina, Milano, Il Saggiatore, 1969.

Il testo si occupa dell’impatto che le innovazioni tecniche hanno avuto e continua-no a produrre nelle nostre città e nei piani di sviluppo e organizzazione sociale. Di-scutendo con diversi autori di sociologia e teoria della comunicazione, Mumford il-lustra le tappe più significative dello sviluppo tecnico nel mondo occidentale.

Nelson T. H., Literary machines, Sausalito, Mindful Press, 1982; trad. it. Literary Ma-chines 90.I, Padova, Muzzio, 1992.

Nelson è tra i più significativi ideatori dei concetti di Rete e ipertestualità. Ripren-de e sviluppa alcune intuizioni di Vannevar Bush. Celebre è la definizione di iper-testo: «con ipertesto intendo scrittura non sequenziale, testo che si dirama e con-sente al lettore di scegliere; qualcosa che si fruisce al meglio davanti a uno scher-mo interattivo. Così come è comunemente inteso, un ipertesto è una serie di bra-ni di testo tra cui vi sono definiti legami che consentono al lettore differenti cam-mini».

Nerozzi Bellman P. (a cura di), Internet e le muse. La rivoluzione digitale nella cultura uma-nistica, Milano, Mimesis, 1997.

Gli autori di questo testo hanno cercato di esaminare alcuni problemi inerenti alpresente e al prossimo futuro della Rete per verificare soprattutto le sue potenziali-tà. Viene proposto un itinerario che vuole contribuire alla comprensione delle gran-di possibilità espressive e comunicative che la telematica può offrire nello sviluppodei saperi umanistici e delle arti. Tra gli altri sono presenti saggi di Borselli, Cadioli,Diodato, Levy, Ricciardi, Roncaglia.

Norman D., The invisible computer, London, MIT Press, 1998; trad. it. Il computer invi-sibile, Milano, Apogeo, 2000.

Ogni tecnologia, secondo Norman, ha un ciclo vitale. È necessario che gli stru-menti informatici si trasformino diventando come semplici elettrodomestici in gra-do di rispondere alle esigenze delle persone. Il computer deve essere invisibile, os-sia deve svolgere funzioni semplificando la propria complessità di utilizzo.

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Bibliografia

Norman D., The psychology of everyday things, New York, Basic Books, 1988; trad. it.La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani, Firenze, Giunti,1990.

L’autore, tra i principali esponenti del cognitivismo contemporaneo, studia i rap-porti tra l’uomo e gli oggetti artificiali che lo circondano. Egli critica i modi incui questi artefatti vengono realizzati e dimostra lo scarto che intercorre fra ilfunzionamento della mente umana e gran parte degli oggetti che siamo costrettiad usare.

Paolini P. (a cura di), Navigare con gli ipertesti, Milano, Mondadori, 1989.Il testo contiene diversi interventi che riflettono sulle possibilità della scrittura, del-la progettazione e della lettura ipertestuale soprattutto in campo didattico.

Popper K.R. e Condry J., Cattiva maestra televisione, Milano, Reset, 1994.Il testo è un dialogo a distanza tra i due autori sul tema dei media e della loro in-fluenza sulla società e sull’uomo. Contiene Una patente per fare la Tv di Popper che ri-flette sul problema della eccessiva presenza di violenza nella televisione e sui diver-si modi di progettare programmi televisivi. Il filosofo riflette anche sul controlloche la televisione esercita sugli utenti e sulle strumentalizzazioni e sugli abusi chevengono realizzati dalle istituzioni nella società contemporanea.

Postman N., Technopoly: the surrender of culture to technology, New York, Vintage Books,1993; trad. it. Technopoly: la resa della cultura alla tecnologia, Torino, Bollati Bo-ringhieri, 1993.

L’autore afferma la provocatoria tesi che la crescita incontrollata della tecnologiadistrugge le fonti vitali dell’umanità e crea una cultura senza un fondamento mora-le. Una sintetica storia della tecnologia supporta questa affermazione enucleandotre fasi successive: quella della cultura strumentale, quella della tecnocrazia e quelladel tecnopolio. Ciò che cambia in queste tre fasi, non è tanto il livello tecnologico,quanto il potere di controllo sulle innovazioni tecnologiche, che tende a portareverso l’assoggettamento di tutte le forme della vita culturale fino alla sovranità del-la tecnica e della tecnologia.

Ricciardi M. (a cura di), Scrivere comunicare apprendere con le nuove tecnologie, Torino, Bol-lati Boringhieri, 1995.

La comunicazione è analizzata nelle profonde trasformazioni in atto all’interno del-la nostra società. I saggi propongono diversi punti di vista sulle teorie comunicativeda parte di specialisti in singole discipline: dalla linguistica all’analisi dei testi, dallescienze sociali all’ingegneria e all’informatica. Ne emerge un quadro assai articolato,ricco di indicazioni concrete su ciò che muta sotto i nostri occhi.

Ridolfi P., Multimedialità: tecnologie e applicazioni, Milano, Franco Angeli, 1992.Il testo rappresenta un’analisi del concetto di multimedialità che ha portato notevo-li cambiamenti nella progettazione di documenti e progetti. Un documento è dettomultimediale quando almeno due elementi di natura diversa come testo, immagini,suoni o filmati sono presenti contemporaneamente. Ridolfi presenta diverse appli-cazioni pratiche del concetto di multimedialità.

Bibliografia

202

Stone A.R., The war of desidere and technology, London, MIT Press, 1995; trad. it. Desi-derio e tecnologia. Il problema dell’identità nell’era di Internet, Milano, Feltrinelli,1995.

Il testo ha lo scopo di produrre strumenti per orientare i lettori ai confini del rap-porto uomo-macchina. Stone prende in considerazione diversi concetti chiave dellarivoluzione tecnologica come virtualità, interazione, cooperativo, multimediale,confrontando le teorie classiche di autori come McLuhan, Foucault con casi e pra-tiche concrete come le chat, i videogiochi, la diffusione di Internet.

Thompson J.B., The media and modernità. A social theory of the media, Cambridge, Poli-ty Press, 1995; trad. it. Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale deimedia, Bologna, Il Mulino, 1998.

L’autore traccia un quadro storico e teorico dei mutamenti avvenuti nella societàoccidentale dall’invenzione della stampa alle attuali reti telematiche.

Toschi L. (a cura di), Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Apogeo, 2001.Questo libro, composto da diversi saggi, esplora le condizioni e le regole della scrit-tura ipertestuale come progetto di comunicazione che ha proprie strategie e un lin-guaggio composito. Gli autori prendono in considerazione casi concreti come laprogettazione di siti, portali, strumenti per il Web sottolineando le differenze trauna scrittura tradizionale, lineare e una pratica aperta, flessibile pensata per gli iper-testi dove è anche più difficile riconoscere la figura del singolo autore.

Wolf M., Gli effetti sociali dei media, Milano, Bompiani, 1992.Il libro è uno studio sull’influenza e gli effetti dei mezzi di comunicazione di massasulla società contemporanea. Interessante è il secondo capitolo, Il potere dei media,dedicato alle distorsioni dei contenuti e alle trasformazioni che la televisione e inuovi media operano, consciamente e inconsciamente, sul pubblico.

Wolf M., Teorie delle comunicazioni di massa, Milano, Bompiani, 1985.Si tratta di un’analisi critica delle principali teorie e dei più importanti modelli ela-borati nella ricerca sulle comunicazioni di massa.

Woolley B., Virtual words, New York-London, Blackwell, 1992; trad. it. Mondi virtua-li, Torino, Bollati Boringhieri,1993.

L’autore indaga i miti e le mistificazioni che si sono create intorno all’idea di virtua-lità, evitando descrizioni tecniche e sottolineando la componente sociale e culturaleche è connessa con il fenomeno della Rete e dello sviluppo dei nuovi mezzi di co-municazione telematica.

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Bibliografia

NOTE SUGLI AUTORI

FLAVIO CASSINARI – Ricercatore presso la Facoltà di Lettere e filosofia del-l’Università di Pavia. È membro del comitato direttivo della rivista ‘Feno-menologia e società’ e collabora con la rivista ‘Oltrecorrente’. Ha pubblica-to su questi argomenti: Tempo e identità. La dinamica di legittimazione nella storiae nel mito (2005) e Passato e presente. La comprensione ermeneutica della storia comeparadigma per la fondazione delle scienze umane (2000).Indirizzo mail: [email protected]

MATTEO CIASTELLARDI – Dottorando in Design della Comunicazionepresso il Politecnico di Milano. Collabora nelle attività di ricerca della Catte-dra di Filosofia Teoretica III dell’Università degli Studi di Milano. Ha pub-blicato su questi argomenti Linguaggi, metalinguaggi e strumenti del digitale collet-tivo in Filosofia dell’ipertesto (2005) e Leggere tracce, scrivere idee. Il processo d’intera-zione dal segno all’inferenza in Lo stile del pensiero (2006).Indirizzo mail: [email protected]

PAOLO D’ALESSANDRO – Docente di filosofia teoretica presso la Facoltà diLettere e Filosofia dell’Università degli studi di Milano. Sugli argomenti diquesto volume ha pubblicato Internet e la filosofia (a cura di, 2002), Critica del-la ragion telematica (2002), Filosofia dell’ipertesto (a cura di, 2005).Indirizzo mail: [email protected]

IGINO DOMANIN – Ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologiafilosofica presso l’Università di Parma. Attualmente insegna storia e filoso-fia nei Licei. Ha pubblicato su questi argomenti Testo e ripetizione (2000) e Fi-losofia dell’ipertesto (a cura di, 2005).Indirizzo mail: [email protected]

FABIO MERLINI – Professore di etica della comunicazione presso l’Univer-sità degli studi dell’Insubria. È collaboratore scientifico alla sezione di lin-gua italiana dell’Istituto svizzero di Pedagogia. Ha scritto su questi argo-

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menti: Incanti della Storia e patologie della memoria (1997) e La comunicazione inter-rotta. Etica e politica nel tempo della ‘rete’ (2000).Indirizzo mail: [email protected]

VITTORIO MORFINO – Ricercatore di storia della filosofia presso la Facoltàdi Scienze della formazione dell’Università degli studi di Milano-Bicocca. Èautore di diversi testi tra cui: Una lettura di Hegel (2002), Il tempo e l’occasione.L’incontro Spinoza-Machiavelli (2002).Indirizzo mail: [email protected]

SALVATORE NATOLI – Insegna filosofia teoretica presso l’università di Mila-no-Bicocca. Tra le sue numerose opere ricordiamo: L’esperienza del dolore(1986), Soggetto e fondamento. Il sapere dell’origine e la scientificità della filosofia(1996), Progresso e catastrofe (1999), Stare al mondo (2002), La verità in gioco.Scritti su Foucault (2005).

FULVIO PAPI – Professore emerito di filosofia teoretica presso l’Universitàdegli studi di Pavia. È direttore della rivista ‘Oltrecorrente’ e vicepresidentedella Casa della cultura di Milano. Tra i numerosi volumi pubblicati ricordia-mo: Gli amati dintorni (2001), Cinque scherzi filosofici (2001), Architettura e filoso-fia (2002), Figure del tempo (2002).

ANDREA POTESTIO – Collabora presso la cattedra di Filosofia teoretica IIIdell’Università statale di Milano. Insegna storia e filosofia nei Licei. Ha pub-blicato Sperimentazioni ipertestuali e didattiche in Filosofia dell’ipertesto (2005).Indirizzo mail: [email protected]

CARLO SINI – Insegna filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e filo-sofia dell’Università degli studi di Milano. Tra le numerose pubblicazioni ri-cordiamo: Etica della scrittura (1992), Filosofia della scrittura (1994), Teoria e pra-tica del foglio–mondo (1997) e Il gioco del silenzio (2006).Indirizzo mail: [email protected]

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