Paolo Caredda - Altri giorni, altri alberi

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Un romanzo ISBN edizioni, Milano, collana narrativa.

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... voi bambini non potete capire, ma un tempo gli Alberi riposavano nei solai per la parte migliore dell’anno, li tiravano fuori a dicembre e li decoravano con ogni sorta di regali per Natale.Le scuole chiudevano per due settimane, e sotto quegli Alberi le persone grandi posavano di nascosto:Il Subbuteo di rugby, uno scatolone salmonato con 15 omini per squadra invece di 11. Erano tozzi, più bassi rispetto agli omini calciatori. E soprattutto avevano la maglia a strisce orizzontali.Una clava di gomma gialla, da tenere sotto il cuscino. Per difendersi la notte quando le Facce strisciano fuori dalla tappezzeria.Il completo da trasferta del Dukla Praga.Un’astronave robot che ronzava rotonda sul pavimento... Altri giorni, altri Alberi.Non era come ora che i bambini devono lavorare il doppio, in lunghe file nei gabbiotti delle colonie invernali. Oppure da soli, chiusi a doppia mandata nei laboratori di casa. Nel cuore della notte impastano palline sempre più grosse a rullo continuo, sempre tonde, sempre di fretta.

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L’Angelo di plastica trombettiere, il Pupazzo Palla-Che-Ride, il Puntale di Cristallo Amaro da appendere sul ciuffo dell’albero più alto.Dallo spioncino i genitori li sorvegliano orgogliosi.Non ve l’insegnano queste nozioni a scuola, hanno troppo paura di offendere gli Alberi: le spine verdi che sfiorano i vetri di via Vesuvio, le palle colorate che pulsano sempre più fioche... e poi esplodono a tradimento, in un trionfo di luce assassina.Alberelli luminosi nell’aria gelata delle macellerie: studiano le casalinghe accalcate, i pensionati che staccano un numero. Distillano i loro rimpianti, li trattengono dentro i giochi di luce delle lampadine.Costellazioni tascabili.«Fatemi un po’ vedere cosa siete riusciti a combinare.»Mi avvicinai al bancone di lavoro dove i bambinetti incatenati esitavano a mostrarmi l’operato di tutta una settimana.Un cespo di pallette bitorzolute, un Angelo Trombettiere tutto strosciato, una collana di ghiande di cartone, una decina di Pupazzi Palla-Che-Ride, con il circuito elettrico da risistemare.Poca roba.La mia fama di capogabbiotto benigno aveva superato i confini di Marassi bassa e lentamente mi ero fatto un nome tra i portinai, gli amministratori, gli scommettitori, i pezzi da novanta che ruotavano come impazziti nel circuito del torneo più importante del mondo. Mancava appena un doppio turno alla consegna delle decorazioni e i risultati tardavano a venire. Forse questa volta avrei dovuto usare il pugno di ferro.

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«Non va bene, ragazzi. Bisogna spremersi. Bisogna osare di più. Io mi fido di voi, vi lascio la briglia larga e i risultati sono questi?»Mentre parlavo infilavo lentamente il pugno di ferro e pietre preziose.I brillanti sfavillavano crudeli nel gabbiotto della colonia, occhi rossi intermittenti di calcolatori tascabili che funzionavano a fatica, i bambini tremavano per il freddo.«Matteo! Cos’è questo schifo? Cosa vi frulla in quelle testine di panizza? Stiamo lavorando per un Albero di lizza, un Albero che potrebbe arrivare fino in fondo! Credete che gustavius possa indossare questi festoni il giorno della finale?»Calai la mano corazzata sulle pallette.«Carletto! Gli angeli fanno pietà! Giacomo! Voglio l’impianto elettrico pronto a mezzanotte in punto, ma cos’è questo schifo? Cos’è? Mi vergogno per voi!»Urlavo e le pallette si sfracellavano sotto i colpi, schegge di cavallini di cristallo volavano in tutte le direzioni. Palle-pagliaccio schiantate sul nascere. Non avrebbero mai visto il giorno della finale.«Sono stufo! Stufo della vostra incuria! Voglio vedere più gioia in queste palline! Voglio vederle ridere quelle palle-pagliaccio! Non voglio perdere per colpa vostra, mongolini di merda che non siete altro!»«Tanto gustavius è malato! Lo sanno tutti che gustavius è malato!»Così era esploso Matteo, perché non voleva farsi mettere i piedi in testa.Per un attimo lo guardai fisso negli occhi.Un bambino. Piccolino.

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Con gli occhiali.Incatenato al tavolo di lavoro.Avrei potuto mangiarmelo vivo.Eppure.Quelle macchie bianche sul tronco. Quelle uova.E già la gente sussurrava, sugli autobus. Nelle macellerie.gustavius era malato.Strappai dalle mani di Matteo un limone faccia-di-porco, e lo schiacciai lentamente nel pugno di ferro e pietre preziose. Sotto i suoi occhi, come una lattina di birra Brahma Chopp. Sperando che le uova si ritirassero, sperando che la forza che ci mettevo nello spremere quel limone faccia-di-porco, la forza del mio sguardo contro lo sguardo di un bambino piccolino e incatenato, potesse cancellare macchie bianche di malattie monsterose venute da chissà dove.Lo guardavo fisso e speravo tanto che Matteo potesse aiutarmi, potesse aiutare l’Albero, con i suoi festoni di cartapesta, con i suoi pensieri di bambino.Nessuno osava parlare. Nel terrore che montava accarezzavo piano l’orologio contagiri che tenevo appeso al collo. Senza guardarle, potevo sentire le lancette sfrecciare sempre più veloci, furiosamente, verso l’inizio delle ostilità. «Matteo, dacci dentro con quei festoni: non è un gioco.»

Fuori dal gabbiotto, la neve aveva ripreso a cadere. Copriva i condomini di Marassi, rendeva difficile i trasporti tra corso Sardegna e corso De Stefanis, riempiva di luce grigia i dolcini con gli occhi e la bocca di marmellata, i forni della farinata, le fioraie... Dietro le finestre dell’ottavo piano le forme degli abitanti di Marassi si agitavano indistinte.

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Mentre salivo sbuffando fino al piccolo, povero orfanotrofio di via Biga guardavo i tetti che si alzavano come Alberi nella neve e potevo vederli tutti.I pensieri di Marassi.Pensieri fragili come le bolle brillanti degli Alberelli. Lasciavano una scia di lustrini, come quando passi una ghirlanda sulle sbarre simil-oro dell’ingresso di un condominio. Si disfacevano oltre le ultime case, tra le rovine dei vecchi Bingo abbandonati, dove la luce della polizia ispezionava i finestrini delle macchine parcheggiate, cercando amanti. Pensieri come colibrì intrappolati negli ascensori del 1967, pensieri-martingala e pensieri-citofono, pensieri-guanti di lana delle fidanzate future morti sul nascere negli ingressi illuminati delle rosticcerie.Stanotte si apriva la fase finale del Torneo di Natale, pingo contro mascherafuturo, fino a morte provata. Non c’era molto spazio per cose come conigli di burro-cioccolato e guantini di lana.Già sentivo gli urrah del vicinato e il sapore inebriante della faraona fritta.Le palline fracassate degli Alberi umiliati.I festoni sconfitti che galleggiavano nella braglia del torrente. I vetri spaccati, i cori di scherno. I caroselli.

Da un lato di Marassi la gente si affollava sul marciapiede, faceva la coda davanti al portone per rubare un’occhiata di pingo, Alberello esordiente, orgoglio di via Tortosa, un’umile traversa gemellata con corso De Stefanis.pingo... Alto poco più di un metro, un alberello che stringeva il cuore.

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L’avevano appoggiato su uno scatolotto di cartone ma anche così il suo puntale si stortava penosamente, ingobbito, minuscolo sotto le cassette della posta.I rami flosci reggevano a fatica una miseria di palle dorate.Palle standard. Dozzinali, tutte uguali. Sperdute nel verde bruciato di fronde senza energia.Conoscevo bene il genere: Alberi senza speranza, davano tutto quello che avevano nel girone eliminatorio e qualche volta riuscivano ad arrivare alla fase finale, ma venivano spazzati via al primo incontro serio.Tutto era stato preparato con amore: canestri di pomodori e zucchine, noci di zucchero per renderlo più contento.Avevano costellato il vetro del portone con le cartoline delle vacanze: un pensiero dalle spiagge del Ponente, auguri a scoppio ritardato per il giorno della finale. Le fotografie dei bambini del palazzo, e dei loro amici di tutta la via, campeggiavano sulle pareti interne dell’atrio, a difesa estrema.Kodachrome riportate alla luce: un bambino guardava lo zio preparare le lumache. L’istantanea di una partita di pallone: su un prato in discesa, la palla sfocata che supera il portiere.La quarta foto-tessera per l’abbonamento del tram.La vita dei bambini era il punto di forza di pingo.mascherafuturo aveva i morti.Le pagine dei morti sui giornali del 1981, l’alone sfumato dei tondini cimiteriali, gente che avevamo incontrato nell’entroterra, d’estate.Proprio questa mattina il garzone della macelleria equina prato, via Tortosa 13 rosso, aveva sorpreso un adesivo laminato appiciccato sullo stipite: una cuspide di lombrichi su campo rosa, il simbolo di mascherafuturo.

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Nel terrore, aveva cercato di lavarlo via, strappando con un gancio i frammenti fustellati: il rosa rimaneva ancora.I primi clienti entravano, capivano immediatamente. Per amore della strada, per rispetto verso il negozio, avevano provato a resistere. Si scambiavano auguri sottovoce, gli occhi bassi per non incontrare lo sbaffo di rosa sul muro graffiato, i lombrichi disegnati a croce. Nell’aria sempre più pesante, soppesavano i polmoni di cavallo ribassato, il cuore gonfio per la vigliacca improvvisata. Uscivano nell’imbarazzo, un’offerta speciale ficcata alla bell’e meglio nella sportina per buona educazione.Finalmente il garzone si era arreso: la macelleria aveva dovuto chiudere anzitempo.Dietro le saracinesche, l’adesivo clandestino trionfava silenzioso nell’esercizio deserto: cantava le cuspidi crema di via Pastonchi, il rosa dei ciliegi privati che fiorivano fuori stagione, vegliando sui piccoli cimiteri residenziali.Ogni anno, in occasione del torneo, le radio locali facevano a gara nel trasmettere resoconti esclusivi del circondario di mascherafuturo.Le fotografie dei morti di Marassi, raccolti in un album di figurine per i bambini di via Pastonchi. Gli indumenti dei poveri pensionati sequestrati agli ospizi e gettati in offerta nelle acque basse dei laghetti condominiali.Lacrime fermentate sulle panche delle nostre chiese, lasciate indietro da chi piangeva i suoi cari. Venivano recuperate di nascosto, con spugne e tamponi. Travasate in taniche, nutrivano le radici dell’albero.Nessuno osava salire lassù: dovevamo fidarci.

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Oltre i rumori della gente spaventata una cosa era sicura: mascherafuturo teneva dentro di sè tutto il dispiacere del quartiere.Lo sprizzava fuori in un getto fatale durante gli incontri del torneo: i nostri morti non dimenticati, i morti che non ci rispondono.Non volevo pensarci ma... C’era anche Orazio là dentro? C’era anche Donato?Andavamo a scuola insieme, ci piacevano più o meno gli stessi autobus, gli stessi supercriminali. Ma soprattutto ci piaceva un quadro appeso nell’atrio di un condominio di via Tortosa. Era un quadro venuto da chissà dove. Un razzo d’argento sfavillava in mezzo a un prato, nella luce rossa di un sole lontano.Quattro primitoidi voltavano le spalle al razzo, avanzavano verso una foresta di abeti, sembravano nativi del posto...Oppure erano appena discesi dal razzo ed entravano nella foresta per la prima volta. Il quadro non stabiliva relazioni certe: noi ci passavamo di fronte quasi ogni giorno, non riuscivamo a decidere. Orazio una sera aveva cercato di strapparlo via dalla parete.Donato diceva: sarebbe bello se un posto così esistesse davvero, da qualche parte. Orazio.Donato. Li avevo persi tutti e due.Amici con i quali contavo di andare in giro ancora per tanto tempo, tutte le partite che potevamo ancora giocare, le cose che erano successe da quando erano spariti e io non potevo più raccontargliele... Persi dentro un Albero, riflessi morti di una pallina pungiglione, chissà cosa dicevano ora.

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