PAOLINE Editoriale Libri · 2017. 10. 28. · L’uomo è un mistero che trascende tutti i dati...

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  • PAOLINE Editoriale Libri

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    © Foto dell’inserto: Fondazione dottor Marcello Candia.

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    INTRODUZIONE

    Chi è Marcello Candia?La risposta più breve è quella di Giovanni Paolo II:

    « Marcello Candia! Che straordinaria persona! ».C’è bisogno di qualche informazione in più? Eccola:

    Marcello Candia era un ricco industriale di Milano che ha dato tutto quello che aveva per i poveri dell’Amazzonia, Brasile.

    Non basta? Possiamo girare la stessa domanda a qual-cuno che lo ha conosciuto bene.

    A Gianmarco Liva, presidente della Fondazione dottor Marcello Candia:

    L’ho conosciuto una sera a casa del mio futuro suocero Gaetano Lazzati, ero fidanzato con sua figlia Marina. La Fondazione ancora non esisteva, e io ero poco più di un ra-gazzo. Avevo finito gli esami all’università e dovevo ancora laurearmi. « Se vuoi venire, c’è Marcello Candia a cena », mi aveva detto mia suocera. « Chi è? ». « Come, non conosci questo missionario? ». Ero nato in una famiglia cristiana, cresciuto all’oratorio di Sant’Ambrogio, operavo in attività sociali, ma di questo Candia non ne avevo mai sentito parlare. Mi immaginavo uno con la veste un po’ logora e i sandali… Invece entra un signore alto, in doppiopetto blu e un fascio di ventiquattro bellissime rose… Con una forza, una determi-nazione, una passione fuori del comune si mette a raccontare dei suoi poveri in Brasile, dei lebbrosi del Rio delle Amazzo-ni… Racconta di due giorni passati a vogare sul fiume per

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    portare un medicinale a uno, a visitare un altro… Aveva una borsa da cui continuava a tirare fuori fotografie su fotogra-fie… « Guarda questo bambino, abbiamo salvato sua mam-ma… e quest’altro… e questo mio amico lebbroso… ». Mi aspettavo che parlasse di soldi e invece parlava dei poveri, di quanto li amava, aveva un’ansia di raccontare, di trasmettere quello che aveva nel cuore. A un certo punto mio suocero lo ha interrotto: « Marcello, taci un momento, mangia ’sta mine-stra, che diventa fredda ». Lui aveva i poveri, basta, nient’altro. L’incontro con quest’uomo mi ha cambiato la vita. Sono stato con lui per quattro mesi in Brasile tra l’ospedale di Macapá e il lebbrosario di Marituba. La mia vocazione era formare una famiglia e vivere a Milano, ma da allora promisi a Marcello che lo avrei sempre aiutato. A tutti nella vita ci passa davanti un tram, possiamo saltarci su o voltarci dall’altra parte. Io sono saltato sul tram di Marcello e ci sono rimasto.

    Al giornalista Robi Ronza:

    Marcello Candia era un tipico industriale milanese della sua generazione e mai, nello stile, negli atteggiamenti e nel modo di esprimersi, aveva smesso di esserlo: nulla era cam-biato in lui e nello stesso tempo era cambiato tutto… Con quella sua figura e con quella sua voce che sarebbe sembra-ta al proprio posto solo al palazzo della Borsa o in qualche esclusivo circolo di golf e della vela, Candia parlava del-l’ospedale di Macapá e di quello che lui e i suoi collaboratori facevano a favore degli ammalati e dei lebbrosi. E con quel-la sua figura e quella sua voce Candia viveva tutto l’anno, salvo l’annuale viaggio in Italia, nel caldo torrido e nella miseria delle terre dei caboclos, i braccianti seminomadi dell’estuario del Rio delle Amazzoni, lontanissimo, e non solo geograficamente, dall’agiata sicurezza del ricco ceto industriale in cui era nato e cresciuto.

    È soprattutto così che lo ricordo: come un uomo che, preso per mano dal Signore, ha percorso strade tanto lonta-

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    ne e diverse da quelle cui sarebbe parso destinato, dando testimonianza eroica di carità, ma senza tuttavia cessare di essere l’uomo che era.

    A Enrica Lombardi, cara amica di Marcello Candia, co-me lui industriale e missionaria:

    Io lo vedevo molto innamorato di Dio. E anche quando parlavo con lui, i suoi tratti di amore, di gentilezza che ado-perava con gli altri, secondo me, li viveva con il Signore, perché non si può essere grossolani con il prossimo e fini con il Signore. Era tutt’uno. Aveva coscienza che Dio è Padre, che ci aiuta. Che in lui siamo tutti fratelli.

    A Terezinha Macedo de Almeda, hanseniana cioè leb-brosa:

    Tutti pensavano che fosse differente dalle altre persone. Candia aveva una grande fede in Dio, altrimenti non avreb-be fatto questa camminata da buon Samaritano.

    La vita di Marcello Candia è stata proprio una « cam-minata » che questo libro cerca di ripercorrere nei suoi mo-menti essenziali.

    L’uomo è un mistero che trascende tutti i dati biografi-ci, sociologici, psicologici. È un universo in piccolo, dice-va Origene. È una creatura capace di contenere il Creato-re, diceva Gregorio di Nissa.

    Basta un libro per raccontarlo?No!Un libro non è che un’interpretazione di una creatura,

    una fra le tante, un tentativo di ritratto attraverso delle pen-nellate.

    È un racconto che cerca ascoltatori e nuove relazioni che si aggiungano alle tante che Marcello continua a tessere.

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    I

    GIOVENTÙ

    Entrò dalla porta d’ingresso come al suo solito facendo un gran rumore. Depositò in un angolo la valigia e gli sci e gridò allegramente:

    « Sono tornato! Mamma, ci sei? »Da una porta laterale Emilia sbucò correndo con un di-

    to sulle labbra e gli occhi rossi:« Ssst! Marcello, taci! Mamma sta malissimo ».Marcello la guardò interdetto.« Ma che dici, Emilia? Tre giorni fa stava benissimo… »Era il 3 febbraio del 1933. Sua sorella stava sicuramen-

    te esagerando. Il 30 gennaio Linda, la maggiore dei fratelli Candia,

    aveva avuto la sua prima bambina. Subito dopo il parto Marcello era partito con dei suoi amici per una breve va-canza sulla neve, lasciando la mamma tutta felice di es-sere diventata nonna. Avevano riso insieme quando Lin-da, tenendo stretta al petto la neonata, era uscita con una battuta: « Finiremo sulla Domenica del Corriere come fa-miglia dell’anno… ora in casa nostra sono presenti ben cinque generazioni: la bisnonna, la nonna, tu mamma, io e questa piccola ». La Domenica del Corriere era allora il settimanale più popolare d’Italia, con la caratteristica di avere in copertina un’illustrazione, il disegno di un fatto di cronaca esemplare, sempre con un fine edificante. Niente di meglio che l’immagine di una tipica famiglia italiana!

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    « Marcello, ascoltami: la mamma è grave. Un’influenza degenerata in polmonite. I medici parlano di pochi gior-ni… forse poche ore ».

    « Ma che dici? ». Gli occhi grandi e seri di Marcello si riempirono di lacrime. Oltrepassò la sorella e si diresse de-ciso verso la camera dei genitori. Mamma Bice era lì, a let-to. Ma era un’altra persona rispetto a quella di pochi gior-ni prima. Esangue, ansimante, con evidenti difficoltà respiratorie, lo sguardo offuscato.

    Marcello cadde in ginocchio accanto al letto e afferrò la mano di sua madre. Non riusciva a contenere l’onda di emozione che l’aveva preso. Nel suo cuore di sedicenne sentiva improvvisamente il peso di un macigno insoppor-tabile mentre dalla memoria esplodevano ricordi sepolti, immagini, brandelli di vita vissuta, gesti che fino a un mo-mento prima aveva dato per scontati. Ora gli sembravano basilari, importantissimi… e facevano un male cane.

    Il terrazzo della grande casa di Napoli, dove lui era na-to a Portici il 27 luglio 1916. Lo sguardo sorridente di mamma Bice sul suo primo figlio maschio, mentre Mar-cello è concentratissimo a costruire un castello con i mo-bili di casa, una sedia, un cassetto, il tavolino basso del salotto. La governante che vorrebbe intervenire e la mam-ma che la ferma dolcemente: « Lo lasci fare, sta creando. Per lui è un’attività importante, guardi che espressione seria ha! ».

    Il volto giovane della mamma durante la sua prima in-fanzia, nella casa di Napoli vicina allo stabilimento di fa-miglia; il secondo che suo padre Camillo Candia aveva fon-dato per la produzione di anidride carbonica, un gas con mille usi domestici e industriali: allo stato solido è ghiac-cio secco, a quello gassoso estingue un incendio. Quell’at-tività industriale papà Camillo se l’era inventata, fra i pri-

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    mi in Italia: veniva da una famiglia di farmacisti da tre secoli a Binasco, un paese della bassa milanese. Camillo invece aveva studiato chimica e si era specializzato in Ger-mania, dove aveva conosciuto un nuovo tipo di produzio-ne di anidride carbonica assai meno costoso che in passa-to. Aveva capito al volo le sue potenzialità. Aveva lasciato un buon posto da insegnante di chimica, merceologia e storia naturale in Svizzera e nel 1906 aveva messo su il suo primo stabilimento a Milano. In via Lazzaro Papi, appena fuori Porta Romana, era nata così la prima « Fabbrica Ita-liana di Acido Carbonico (alias anidride carbonica) dottor Candia & Co. ». Il successo era stato tale che l’anno dopo era sorto lo stabilimento di Napoli, nel 1914 quello di Chiecinella vicino a Pisa, che sfruttava una sorgente natu-rale, nel 1919 il quarto ad Aquileia, vicino a Udine. La Candia era in grado di fornire il gas all’Italia intera.

    A Napoli era nato lui, Marcello, nel momento della fio-ritura della ricchezza di famiglia. Mamma Bice, che in real-tà si chiamava Luigia Mussato, aveva ventisei anni. Il pa-pà ne aveva trentasei.

    La mamma. Il ricordo dei giochi con la mamma. Insie-me ai fratelli: le due più grandi, Linda e Fernanda, poi Emilia, la sua sorella preferita e quasi coetanea. A Napoli non c’era ancora il piccolo Riccardo, l’ultimo. Sarebbe na-to nel 1922 a Milano perché, alla fine della Prima guerra mondiale, i Candia erano tornati al Nord.

    Alla mamma piaceva giocare con i suoi piccoli. Anzi, spesso era lei a proporre nuovi giochi. Sapeva condivide-re la voglia di vivere dei bambini.

    Nell’intreccio confuso di sentimenti e ricordi Marcello pensò che non si ricordava di nessun ordine, di nessuna imposizione da parte dei suoi genitori, soprattutto della mamma. La mamma semplicemente c’era. Viveva accanto

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    ai suoi bambini e vivendo dava loro l’esempio. E il gusto di vivere, la sua bellezza.

    Si rivide ragazzino, pochi anni prima. Quanti anni po-teva avere? Dodici? Pensò ai pacchi… Pacchi di vestiti, di viveri. Accompagnava la mamma a visitare le famiglie po-vere assistite dalla San Vincenzo. Era una cosa semplice: Marcello portava i pacchi e ascoltava con la distrazione di un ragazzino la mamma che parlava con le persone di cui si prendeva cura. Marcello ascoltava e capiva che c’era tan-ta sofferenza. Ma da ragazzino fortunato non sapeva co-s’era la sofferenza.

    Accarezzò la mano abbandonata della mamma. Non riu-sciva a piangere. Nel petto c’era come un blocco duro. Ora lo sapeva… ora faceva esperienza del dolore. Da quel blocco duro affiorava alla memoria netto e vivido il tono di voce della mamma, le parole che usava nelle visite ai po-veri, il suo rispetto, la sua delicatezza.

    La San Vincenzo allora aveva il suo quartier generale nel-la Casa dei Cappuccini di via Piave che i milanesi continua-vano a chiamare con il toponimo di un tempo, Monforte. Rivide con gli occhi della mente la foto appesa nell’ingresso della Casa: il volto di un cappuccino con le mani e i piedi mangiati dalla lebbra. Non ne sapeva niente, allora. Aveva imparato cos’era la lebbra dalle mani e dai piedi deturpati di quel cappuccino con gli occhi di pace. Aveva chiesto chi fosse e gli avevano raccontato la sua storia: padre Daniele da Samarate era andato come missionario in Brasile prima della guerra del 1915-1918 e si era ammalato di lebbra ser-vendo i poveri lebbrosi. A quel tempo, gli avevano detto, il contagio avveniva misteriosamente e la malattia era fatale. Padre Daniele era morto come un santo, nel 1924.

    Rivide come le immagini di un film la fila di barattoli depositati per terra. A quel tempo al convento non c’era

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    ancora una mensa grande e organizzata come adesso, ma i buoni frati avevano messo su come si poteva la distribu-zione del pasto. I barboni venivano a prendere una gamel-la di minestra, ma si rifiutavano di fare la fila: con grande dignità mettevano in coda i loro barattoli e passavano a ri-tirarli quando erano pieni. A quell’epoca Marcello era già più grande, forse quattordici anni… perché la mamma lì, a quella mensa improvvisata, non se la ricordava.

    A forza di seguirla nei suoi giri, Marcello era diventato di casa al convento di Monforte. Non rammentava in qua-le occasione avesse cominciato ad aiutare fra Cecilio Cor-tinovis, il santo portinaio che si era inventato questa cari-tà: distribuire il pasto ai poveri che si affollavano davanti alla porta all’ora del pranzo. Ma anche se lì la mamma non c’era, c’era. Era stata lei la sua maestra. Gli aveva insegna-to lei ad ascoltare il dolore degli altri. E ora… ora il dolo-re spaccava il cuore a lui.

    « Mamma, mi senti? »La mano trasparente della mamma si era sollevata a fa-

    tica e gli aveva accarezzato la testa. Poi, con un gesto ap-pena accennato, aveva disegnato sui suoi capelli il segno della croce.

    Due giorni dopo mamma Bice se n’era andata in cielo, con tutta la famiglia stretta intorno. Erano tutti disperati e sgomenti: papà Camillo, i ragazzi, la nonna, le zie… so-lo Marcello sembrava in una strana pace. Mentre usciva-no dalla stanza uno dopo l’altro, Marcello si era trovato accanto Linda, la più grande, la neomamma di ventuno anni, con il volto terreo e il buio nello sguardo. Marcello le aveva stretto forte la mano, fissandola: « Linda, prega. Prega, prega, prega… ». E a Emilia, la sorella più piccola di lui di due anni, aveva sussurrato: « Emilia, adesso dob-biamo fare noi quello che faceva la mamma ».

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    A dieci anni Marcello non aveva faticato affatto a capi-re i concetti teorici del catechismo di Pio X. Le domande e le risposte da imparare a memoria che il parroco gli spie-gava nel prepararlo alla Prima comunione: « Il mondo è tutto opera di Dio? ». « Il mondo è tutto opera di Dio; e nella grandezza, bellezza e ordine suo meraviglioso, ci mo-stra la potenza, la sapienza e la bontà infinita di lui ».

    L’affetto che riceveva dalla mamma e dal papà gli ren-devano perfettamente comprensibili quei concetti. La bon-tà di Dio, lui, la sperimentava in casa. E sotto i suoi occhi ogni giorno aveva l’esempio della responsabilità vissuta, concreta: inutile lamentarsi se le cose non vanno, se c’è l’ingiustizia, se i governanti non sono all’altezza del loro compito. Bisogna rimboccarsi le maniche e fare, fare, fare cominciando da se stessi.

    Marcello sentiva come suo primo dovere quello di met-tere a frutto i talenti ricevuti. Gesù era stato chiaro: la con-dizione sociale, la possibilità di studiare, i mezzi economi-ci, la salute, l’amore ricevuto sono i cinque talenti che devono diventare dieci.

    La morte della madre gli faceva sentire questo dovere più pressante: ora doveva fare lui quello che faceva la mamma. Il suo dolore personale era il motivo per prende-re su di sé anche il dolore degli altri.

    Ma anche se in un adolescente la ragione e la volontà possono essere maturi, l’emotività resta quella di un sedi-cenne, legata alla crescita del corpo, ai suoi subbugli, al-l’inesperienza della vita. La lotta interiore fra l’alto senso del dovere e la sua giovane età ebbe per Marcello due con-seguenze: una crescita straordinaria nella fede e nell’amo-re di Dio, con un’intensità che a volte preoccupava i fami-liari, e un terribile esaurimento. Perse l’appetito, dimagrì, di notte pativa l’insonnia, aveva lancinanti mal di testa, non riusciva a concentrarsi: tutti i sintomi della depressione,

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    pericolosissima in un ragazzo. Alla fine Marcello fu co-stretto dal dolore a fare il contrario di quello che il suo sen-so del dovere gli chiedeva: lasciare per un anno la scuola, dove riusciva benissimo in tutte le materie.

    La rete affettiva familiare gli era venuta subito in aiuto. Un’anziana cugina si era offerta di stare per un inverno con lui al mare, nella casa di Sanremo, per allontanarlo dall’ambiente abituale e rimetterlo in sesto. Marcello ave-va perso così un anno di scuola e l’anno seguente ne ave-va fatti due in uno, con l’aiuto di due professori. Alla fine era riuscito a dare gli esami di licenza liceale, allora pesan-tissimi, con il programma intero di tre anni.

    Ma l’esaurimento giovanile gli resterà dentro come una cicatrice: Marcello continuerà a soffrire per tutta la vita di emicranie, di insonnia e a combattere la battaglia contro l’ansia, gli scrupoli e il perfezionismo.

    Aveva diciannove anni quando superò la maturità scien-tifica. Era il luglio del 1935, tredicesimo anno del venten-nio fascista. Nell’ottobre dello stesso anno Mussolini avrebbe iniziato la conquista dell’Etiopia: nella sua idea, con i possedimenti già italiani di alcune isole dell’Egeo, la Somalia e l’Eritrea, anche l’Italia avrebbe avuto il suo im-pero coloniale.

    « Ma questo non è il Corriere che sono abituato a legge-re; questo è un bollettino propagandistico fatto a Roma! »

    Con un gesto di stizza, Camillo Candia gettò a terra la sua copia del Corriere della Sera, sua abituale lettura di ogni giorno.

    Non a caso il papà si chiamava Camillo: come Cavour. Era figlio di un volontario garibaldino dallo spirito libera-le e risorgimentale, ed era « naturalmente » antifascista. Aveva sempre rifiutato la tessera obbligatoria del Partito Nazionale Fascista, e aveva educato i figli alla libertà, alla

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    tolleranza, alla ricerca della giustizia, valori opposti a quel-li del regime.

    Marcello sorrise. Erano nel salotto di casa in via Lazza-ro Papi, in un raro momento di pausa postprandiale.

    « Te l’ho già detto, papà. L’unica voce di dissenso oggi in Italia è L’Osservatore Romano ». L’organo ufficiale del Vaticano allora si poteva ricevere solo per abbonamento, perché nelle edicole veniva spesso sequestrato. Marcello era abbonato.

    « Ti ricordi l’omicidio di Michele Schirru? L’unico gior-nale che diede la notizia corretta, cioè che Schirru era stato fucilato dal regime per avere avuto “l’intenzione” di assas-sinare Mussolini, fu L’Osservatore… ». Camillo borbottò in milanese: « Sì, è un regime che ammazza per le idee che si presume passino per la testa della gente… ».

    Non era un caso che uno dei professori scelti per prepa-rare Marcello alla maturità fosse stato Siro Attilio Nulli, grande studioso, biografo, storico, insegnante di materie let-terarie al liceo, noto antifascista e perciò espulso da tutte le scuole del regno. Era stato anche al confino a causa delle sue idee e del suo coraggio nel parlare senza peli sulla lin-gua anche davanti ai rappresentanti del regime. Nel clima che precedeva la campagna d’Etiopia, Nulli aveva dato a Marcello un’interpretazione dei fatti ben diversa dalla pro-paganda di partito. In quelle terre lontane si poteva andare per portare aiuti, promozione umana, pace. Non la guerra.

    « … Però tu, Marcello, non perdi occasione! Sempre con questi preti e queste suore! Se non sei in mezzo ai fra-ti non sei contento ».

    Da buon liberale, papà Camillo era anticlericale. Non era cattolico praticante. La sua religione era un granitico senso del dovere, dell’onestà, del rispetto per gli altri. Lo dimostrava quotidianamente negli affari, nella correttezza verso i suoi operai e nel rispetto per le idee dei figli.

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    Ma non resisteva alla tentazione di prendere un po’ in gi-ro Marcello, per le sue devozioni. Quando il figlio arrivava in ritardo a tavola, cosa che gli succedeva spesso a causa dei suoi molteplici impegni, a Camillo partiva una frecciatina: « A quante messe sei stato oggi, Marcello: due o tre? Dico-no che vai alla prima messa, e poi anche all’ultima… ».

    « Padre Genesio! »« Marcello! Sempre il primo, tu ».Padre Genesio sorrise e avvolse il ragazzo alto ed ele-

    gante con uno sguardo profondo che leggeva dentro. Era un cappuccino con un volto affilato da nobile spagnolo e una barba alla Cervantes, sui quarant’anni. Era nato a Gal-larate, primogenito di quattro figli di una famiglia della borghesia lombarda, battezzato e registrato all’anagrafe con il nome di Alessandro Premazzi. A vent’anni era en-trato nell’ordine dei Cappuccini, a ventiquattro era diventato frate per sempre con il nome di Genesio e a ven-tidue era stato consacrato sacerdote. Ma per tutta la vita sarebbe rimasto un vero monaco dei primi secoli cristiani, che viveva con radicalità lo spirito di san Francesco. In-dossava un saio consunto che alternava con un altro, i suoi unici panni, e un paio di zoccoli senza calze. Ai pasti man-giava un po’ di insalata e un’acciuga. Non si sedeva a men-sa con gli altri confratelli, per poterli servire e fare lo sguat-tero in cucina. Qualsiasi cosa gli regalassero, la dava al primo povero che gli si presentava in parlatorio. Soprat-tutto viveva di preghiera e della parola di Dio. Aveva fat-to studi filosofici e biblici e fino alla pensione insegnerà a Bergamo, a Roma e a Milano filosofia, teologia biblica e lingue orientali, pubblicando una grande quantità di libri. Aveva eletto come suo luogo di missione il confessionale: uno stanzino ricavato da un vano tra il coro e l’altare mag-giore della chiesa annessa al convento dei Cappuccini di

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    via Piave, il tempio del Sacro Cuore. Eccetto le ore di le-zione, padre Genesio da Gallarate passava lì dentro dodi-ci ore al giorno: in quella cella senz’aria, piena di libri, stu-diava, meditava, scriveva, riceveva i suoi numerosi figli spirituali. Per decenni quello stambugio era diventato il ri-fugio dei peccatori di Milano, dove sarebbero passati, per dirla con lo scrittore Luigi Santucci che su padre Genesio scrisse un libro, le pecore più rognose, i peccatori robusti ed eccentrici e quelli banali, gli spretati in crisi e gli ado-lescenti in germoglio di vocazione.

    Uno di questi adolescenti forse era proprio il nostro giovane Candia. Marcello aveva diciannove anni e mille cose da fare. Dopo l’esaurimento, la sua vita aveva subìto un’accelerazione straordinaria. Viveva come se fosse in corsa contro il tempo, con l’ansia di fare tutto il possibi-le per costruirsi una vita piena di senso, senza perdere neanche un attimo privo di uno scopo. Si alzava a ore in-verosimili per un ragazzo della sua età; spesso dormiva con una tavola sotto il lenzuolo, per penitenza. Alle sei era già a messa a Sant’Andrea, la sua parrocchia fino a che nella zona non sarà costruita la chiesa dei Santi Angeli Cu-stodi, oppure alla chiesa dei Cappuccini. Quando gli al-tri si svegliavano, lui aveva già fatto una quantità di cose: era andato in chiesa, aveva incontrato padre Genesio, era passato in una famiglia povera a portare qualcosa, aveva preso il treno per Pavia dove seguiva le lezioni universi-tarie alla Facoltà di Chimica. Tutto il giorno correva sen-za fermarsi mai.

    « Ecco l’indirizzo, Marcello: è una povera famiglia di Baggio… ci sei già stato, mi pare: cinque figli e niente da mangiare. Ieri hanno finito le ultime provviste. Il padre è disoccupato. Speriamo… Se ce la fai stamattina, farai una grande opera di bene ».

    Marcello annuì ma non rispose nulla.

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    « Che c’è, Marcello? », chiese padre Genesio fissando-lo intensamente.

    « Padre… perché? Il dolore è distribuito in modo in-comprensibile. Colpisce persone innocenti, senza colpa. Finita una disgrazia ecco che ne arriva un’altra, prove enormi una dopo l’altra. Come quella famiglia di Taliedo, alle case popolari, si ricorda? Una bambina morta per mancanza di igiene e dopo la mamma… e per i fratellini anche il trauma della morte della mamma. Ma perché? Non trovo una spiegazione, padre: perché? »

    « Marcello, il dolore è un mistero. Il primo mistero è la Passione di Cristo, il dolore del Figlio di Dio, del giusto, quello che ha sofferto di più. In modo incomprensibile umanamente, questo mistero del dolore continua nel-l’umanità. Non sappiamo accettarlo razionalmente, ma se lo vediamo dal punto di vista della Passione, se lo accettia-mo per fede, ci apre una prospettiva straordinaria: l’amo-re per i fratelli. La vita cristiana è tutta qui: Dio padre di tutti, noi suoi figli e fratelli l’uno dell’altro ».

    « Sì, capisco le sue parole, padre. Ma in senso etimolo-gico. Il senso profondo che lei cerca di dirmi… No, que-sto non lo capisco. Non so, è come se non avessi le forme mentali per capire ».

    Padre Genesio accarezzò pensoso i fogli che aveva in-terrotto di scrivere, appoggiati sull’assicella che funziona-va da scrittoio.

    « Un mistero si rivela a sprazzi, anche attraverso i fat-ti… Per esempio, una volta tu stesso mi hai parlato della tua gioia quando riesci a risolvere qualche problema dei poveri di Baggio… e del loro amore per te, perché ti con-siderano uno di famiglia. L’unica risposta che a noi è dato di avere è questa: nel dolore, la gioia di vivere da fratelli. Loro ti aspettano ogni giorno. Quello che conta è la tua fedeltà nell’andare a trovarli ».

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    « Questo non mi costa nessuna fatica, padre. Se ho rice-vuto tanto dalla mia nascita, il mio compito è dare tanto ».

    Da Comune autonomo della zona occidentale di Mila-no, durante il fascismo Baggio era diventato un quartiere della città. Su Baggio si erano riversati gli operai delle pri-me industrie e gli immigrati dal Sud, fuggiti dalla fame del-la mezzadria e del bracciantato e dalla schiavitù dei « capo-rali », che li sfruttavano per un lavoro agricolo senza alcuna garanzia di stabilità. A Milano la retorica architettonica fa-scista aveva abbattuto centotrentatremila vani dei quartie-ri popolari del centro e circa settemila persone erano fini-te a vivere in scantinati, stalle e soffitte della periferia.

    Fra i suoi figli spirituali, padre Genesio aveva creato una rete di assistenza ai poveri di Baggio. Sapeva che su Marcello poteva sempre contare.

    « Vado immediatamente, padre… »« … e mi raccomando, Marcello, porta pane, pasta, gli

    alimenti essenziali. Non comprare dolci raffinati, come hai fatto l’ultima volta, che quei poveretti sono dovuti andare a cambiarli con le michette di pane ».

    Perché Marcello era fatto così: per fare contenti gli al-tri voleva condividere con loro le cose più belle e più buo-ne, e una volta aveva portato a una famiglia affamata le pa-ste della migliore pasticceria di Milano.

    « … e ricordati del nostro incontro di domani sera al Ceppo ».

    « Non posso dimenticarmelo, padre. Ne ho troppo bi-sogno… E ora le rubo ancora un po’ di tempo. Vorrei con-fessarmi ».

    « Ancora, Marcello? Troppi scrupoli sono una tentazio-ne, Marcello…Va’, corri a Baggio! »

    Nel camino della grande sala ardeva allegramente un grosso ceppo, creando un’atmosfera serena, da veglia di

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    campagna, che scaldava non solo le mani, ma il cuore e predisponeva all’ascolto e a sentimenti di condivisione fraterna. Il ceppo nel camino era diventato come un sim-bolo e un programma; aveva dato nome al gruppo di per-sone che il lunedì e il sabato sera si riunivano in una del-le stanze del terzo piano del convento dei Cappuccini di via Piave, con l’entrata però su via Kramer. Il Ceppo era stato un’invenzione di padre Genesio, una consuetudine di incontri a metà fra una lectio divina e un corso di teo-logia per laici, in grande anticipo sui tempi, perché allo-ra non ne esisteva ancora uno. Le persone che li frequen-tavano erano di provenienza diversa, l’impiegato e il nobile monarchico, l’operaio e l’industriale, lo scrittore di fama e il giornalista comunista, lo scultore credente e l’ateo in ricerca. Di fatto le serate costituivano un vero e proprio iter di formazione e culturale, perché talvolta ve-nivano organizzate anche conferenze di noti personaggi della cultura del tempo. Dal Ceppo era nata spontanea-mente un’organizzazione caritativa parallela, La Fronda, che assisteva con ogni mezzo una quarantina di famiglie di via Forze Armate, la strada principale di Baggio. Con i soldi che raccoglieva fra i suoi volontari, padre Genesio riusciva a pagare l’affitto a un numero incredibile di fa-miglie indigenti. Invece i più sbandati, i senza famiglia che arrivavano dal Sud in cerca di lavoro, li alloggiava nella casa dei Cappuccini, in una stanza attigua alla sala del camino.

    Dopo la Seconda guerra mondiale, La Fronda si sareb-be trasformata in gruppo Caritas. Ma per ora si era ancora nel 1936, ed era proprio il giorno in cui era stato appena proclamato l’Impero d’Italia in Abissinia. Molti studenti avevano ascoltato per radio a piazza Mercanti l’annuncio dato da Mussolini a Roma. Dopo, un gruppo di fucini, gli universitari della Fuci, uno dei gruppi afferenti all’Azione

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    Cattolica, erano andati da padre Genesio a sentire cosa ne pensava. Era appunto una delle sue serate.

    Il cappuccino li aveva accolti con espressione preoccu-pata e severa. Senza sconti e senza paura, usando le parole del Vangelo, aveva messo davanti ai loro occhi gli errori che l’Italia stava facendo. Poi aveva richiamato tutti all’unità: « Dobbiamo essere uniti, uniti dall’amicizia. È un tessuto prezioso, l’amicizia che c’è fra noi. Prezioso ma fragile co-me una tela di ragno. Basta niente per distruggerla. Amo l’amicizia, intensamente, perché l’amicizia è amore mutuo, gratuito e manifesto tra persone che si vogliono bene e cer-cano di farsene reciprocamente. E farne agli altri ».

    Poi ridendo, con l’ironia che lo contraddistingueva, aveva preso la cassetta con il denaro per i poveri. Ne ave-va estratto un biglietto da cinque lire e l’aveva mostrato a tutti alzando il braccio scarno: « Perché allora sono rima-ste cinque lire nella cassa? Non va, amici, dovevate dare anche quelle. Solo se sapete essere generosi la Provviden-za vi aiuta! ».

    Domenico Zurleni, seduto vicino a Marcello, gli aveva rivolto uno sguardo d’intesa e a bassa voce gli aveva sus-surrato: « Questa non è per te! Hai venduto un orologio con la catena d’oro che ti aveva regalato tuo padre, per da-re i soldi ai poveri ».

    « Ssst… se papà lo sapesse! Mi farebbe visitare dal dot-tor Medea », aveva risposto sorridendo Marcello. Era una battuta.

    Eugenio Carlo Antonio Francesco Medea era il prima-rio del reparto neuropsichiatrico dell’Ospedale Maggiore di Milano. Una follia: era ciò che pensava Camillo Candia dell’attività caritativa di suo figlio.

    Paradossalmente, negli anni del fascismo, i cattolici pre-paravano il futuro.

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    Il ventennio aveva coinciso con la rinascita cultura - le cattolica: erano gli anni di Paul Claudel, Julien Green, Georges Bernanos, Gabriel Marcel; della grande teologia di Emmanuel Mounier, Jacques Maritain, Romano Guar-dini, Garrigou-Lagrange, Theilhard de Chardin, Henri de Lubac, Jean Daniélou… e della spiritualità del laicato.

    Dalla fine del XIX secolo i gruppi di laici avevano gua-dagnato spazio nella Chiesa, ma solo negli anni Trenta del Novecento si era cominciato a parlare esplicitamente di spiritualità laicale vissuta nel proprio ambiente, nel mon-do del lavoro, nella famiglia. Pio XI, alla guida della Chie-sa fino al 1939, aveva chiesto all’Azione Cattolica di non essere solo un’associazione religiosa, ma una via di con-creta « partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico », sotto il segno di Cristo Re dell’universo. Lo aveva ripetu-to anche quando il fascismo aveva tentato di sciogliere l’Azione Cattolica ignorando i Patti Lateranensi del 1929. Anzi, aveva pubblicato un’enciclica severa verso il regi-me, Non abbiamo bisogno. Al laicato è stata affidata la missione – scriveva – di diffondere il regno di Cristo nel mondo del lavoro, della famiglia, in ogni aspetto della vi-ta. Per questo ci vuole una preparazione, una formazio-ne solida.

    In seguito alle parole del pontefice, erano tornati in au-ge gli esercizi spirituali, le giornate di meditazione religio-sa, la consacrazione a Maria. Si parlava di spiritualità del lavoro, della famiglia. Spuntavano nuove realtà associati-ve, gruppi, movimenti laicali.

    Milano aveva anticipato i tempi con la fondazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: per padre Ago-stino Gemelli e monsignor Francesco Olgiati, i padri fon-datori del nuovo ateneo, i cattolici avrebbero potuto tor-nare ad avere un ruolo da protagonisti nella vita culturale, sociale e politica del Paese solo attraverso una solida for-

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    mazione delle nuove classi dirigenti. Il modello ideale a cui ispirarsi era una società integrale come quella medievale, in cui la relazione tra fede e politica costituiva un tutt’uno organico.

    Marcello aveva assorbito da padre Genesio l’idea dell’importanza del ruolo dei laici nella società. Il cappuc-cino insisteva moltissimo su questo punto con gli amici del Ceppo: i laici sono già consacrati, e con la consacrazione più importante, il battesimo; hanno un’esperien za di vi-ta e di affetti che crea con le persone un’intesa, un’iden-tificazione. Essi entrano in ambienti inaccessibili ai sacer-doti, dove possono portare uno stile di vita fraterno che senza la loro testimonianza tanti non conoscerebbero mai. Possono essere una critica vivente ai disvalori della socie-tà. Possono vivere con fede anche senza parlare di fede, ed essere più incisivi dei sacerdoti.

    Il fervore religioso di Marcello ventenne era tale, e co-sì evidente, che molti erano convinti che si sarebbe fatto prete. « Marcello andrà in seminario? Diventerà religio-so? », chiedevano in molti al fratello Riccardo durante un soggiorno estivo in Valsassina, nelle estati del 1935 e 1936. I due giovani Candia erano andati in vacanza con l’Asso-ciazione San Stanislao Koska, un gruppo studentesco con la stessa finalità dell’Università Cattolica: una seria forma-zione cristiana dei giovani, perché in seguito potessero as-sumere responsabilità politiche e civili nel loro Paese. Da cristiani.

    Ma Marcello non pensava affatto di diventare né sacer-dote né monaco. Né aveva intenzione di legarsi stabilmen-te, organicamente a nessun gruppo. Era attivo nel circolo del Ceppo stretto attorno a padre Genesio, andava in va-canza con la San Stanislao, ma non restava agganciato a nessuna istituzione. Non voleva inquadrare in nessun mo-do la sua fedeltà al Vangelo e alla Chiesa. Non subiva nep-

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    pure l’influenza della sorella prediletta Emilia, che invece era iscritta alla Fuci.

    Per un viaggio, papà Camillo era stato disposto a pas-sar sopra al suo antifascismo. Un’estate a Sanremo alcuni amici di Marcello si erano iscritti a una crociera nel Medi-terraneo organizzata da un gruppo di « avanguardisti ». Una iniziativa del regime, una specie di tour mediatico per mostrare nei porti dei Paesi vicini la baldanza e la discipli-na dei giovani fascisti.

    I viaggi rientravano nel programma educativo di papà Candia: aprivano la mente, avvicinavano alle tante diverse realtà e sofferenze del mondo, preparavano alle responsa-bilità future. Alla proposta di far partire Marcello con la cro-ciera fascista, sulle prime Camillo aveva reagito con fastidio, ma alla fine aveva dato il permesso, vincendo la ripugnan-za di vedere il figlio in divisa. Era l’estate del 1932, prima della morte della moglie, e Marcello aveva sedici anni.

    Nel 1936 Marcello era andato in crociera una seconda volta, con la società Dante Alighieri, fondata da Giosuè Carducci e da un gruppo di intellettuali di fine Ottocento per la diffusione della lingua e della cultura italiana nel mondo. Era una realtà molto attiva nei licei di allora, an-che perché durante il fascismo la Dante Alighieri si era al-lineata con il regime. Ma anche stavolta l’opportunità of-ferta dal viaggio era passata avanti a tutto.

    Marcello e Riccardo si erano imbarcati sull’Augustus, uno dei transatlantici più belli dell’epoca, per un viaggio di un mese e mezzo, dall’inizio di agosto alla metà di set-tembre del 1937. La meta era il Brasile: sbarco al porto di San Paolo, in treno fino a Rio de Janeiro, dove la nave li avrebbe reimbarcati per tornare in Italia. In realtà era sta-to più il tempo che avevano passato in mare che quello in cui avevano visitato il Brasile. Marcello però aveva ignora-

    Queste pagine sono un'anteprima del libro

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    to la vita brillante a bordo, le cene con gli ufficiali e la gran-de festa al passaggio dell’Equatore. Al ritorno aveva rac-contato solo di due suore che servivano in un lebbrosario, della miseria delle favelas di Rio, che doveva avere appe-na intravisto, e della necessità di andare laggiù in Ameri-ca Latina a fare del bene.

    « Se quella gente crede, è solo per un atto spontaneo di fede. Siamo noi che dobbiamo aiutarla a credere consape-volmente », ripeteva nelle riunioni del Ceppo.

    « Marcello, stai attento, questa è un’esaltazione. Guar-dati intorno: la principale terra di missione ce l’hai qui, nella tua città, a Milano. Milano è un deserto. Se questo è quello che vuoi, fare missione, eccola la tua missione: Mi-lano », gli diceva padre Genesio.

    Il suo sogno del Brasile lo aveva compreso solo Divo Barsotti. Era un ragazzo poco più grande di lui, fratello di Alberto Barsotti, il direttore dello stabilimento Candia di Palaia, un paesino in provincia di Pisa dove papà Camillo aveva costruito uno dei suoi impianti industriali.

    Come gli succedeva sovente nelle sue visite agli stabili-menti, papà Camillo portava con sé Marcello ragazzino. Anche quella era formazione per il suo futuro ruolo di di-rigente industriale.

    Lo stabilimento di Palaia era anomalo rispetto agli al-tri, perché i Bagni di Chiecinella erano sorgenti naturali di anidride carbonica e anidride solforosa, conosciuti già pri-ma del 1800 come stazione termale, situata nella valle stret-ta tra i crinali di Palaia e di Collelungo.

    Non essendoci alberghi a Palaia, i Candia venivano ospitati in casa di Alberto Barsotti, dove Marcello aveva fatto amicizia con il fratello minore, Divo. Capita spesso ai santi di conoscersi durante la vita terrena, come se lo Spirito Santo nell’uno attirasse lo Spirito Santo presente nell’altro. Gli esempi sono tanti: san Basilio Magno e san

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    Gregorio di Nazianzio, santa Teresa d’Avila e san Giovan-ni della Croce, sant’Ignazio di Loyola e san Filippo Neri… così anche Marcello Candia, missionario laico, e Divo Bar-sotti, monaco, profondo conoscitore della spiritualità dell’Oriente cristiano, scrittore di numerosi libri che con-tinuano a nutrire tante persone, fondatore della Comuni-tà dei Figli di Dio diffusa in vari Paesi del mondo con la missione di aiutare tanti a crescere nella fede e nella cono-scenza di se stessi.

    Quando si erano incontrati la prima volta Marcello ave-va quattordici o quindici anni e Divo aveva appena comin-ciato gli studi di filosofia prima di entrare in seminario a San Miniato. La seconda volta si erano rivisti dopo il viag-gio in Brasile di Marcello, nel 1936 o nel 1937. Divo era già sacerdote, cosa che aveva spinto Marcello a confiden-ze più profonde.

    « So che anche tu vuoi andare missionario », aveva az-zardato Marcello, esplorando con cautela il terreno che gli stava tanto a cuore.

    « È un pensiero che ho, sì, Marcello. Ma non tutti i pen-sieri buoni che vengono sono quelli giusti per me. Dovrò fare un lungo discernimento », aveva risposto Divo con la prudenza di chi già si era addentrato nella conoscenza del-la lotta spirituale monastica, basata sul discernimento tra pensieri e sentimenti, fra ispirazioni dello Spirito Santo e inganni del nemico travestito da angelo della luce.

    « … beh, lo vorrei anch’io! », era sbottato Marcello con trasporto, ignorando le sfumature di significato nella ri-sposta di Divo. Poi aveva aperto la diga del suo riserbo ro-vesciando in Divo i pensieri del suo cuore.

    « Vorrei andare in Brasile, lì ho visto una povertà inim-maginabile. Non posso pensare di starmene qui comodo e protetto, mentre loro là vivono in quelle condizioni inu-mane… »

    Queste pagine sono un'anteprima del libro

  • INDICE

    Introduzione pag. 7

    I. Gioventù » 11

    II. Un manager missionario a Milano » 32

    III. « Partirò quando il Signore vorrà » » 49

    IV. Sette anni più vicino al suo sogno » 69

    V. In Amazzonia » 89

    VI. Il « signore dell’ospedale » » 107

    VII. Marcello, i lebbrosi e la casa di preghiera » 130

    VIII. Il primo Carmelo all’Equatore » 153

    IX. Il compimento: la Fondazione e il ritorno » 177

    Epilogo: Uomo di Dio » 197

    La Fondazione dottor Marcello Candia » 201

    Cronologia » 203

    Bibliografia » 209

  • EDITORIALE LIBRI

    L’autrice ha tratteggiato una biografia di san Benedetto tenendo conto del tempo in cui visse, con le varie vicis-situdini politiche e religiose. Crollava l’Impero romano e il Medioevo stava per sorgere, mentre i barbari calavano dal Nord. È in questo periodo che si inserisce il racconto della vita di Benedetto, le sue origini, l’educazione del tempo, le esperienze religiose e poi il grande fenomeno del monachesimo che darà all’Europa una nuova linfa vitale con la diffusione del cristianesimo e della cultura.

    Benedetto da Norcia è stato un faro luminoso per l’Eu-ropa; della sua luce siamo tutti un po’ debitori.

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  • EDITORIALE LIBRI

    Francese, ateo, convertito a trent’anni. Cristiano orto-dosso, storico, insegnante, filosofo, mistico, scrittore, poe-ta: Olivier Clément scopre nel Risorto ciò che da sempre stava cercando.

    Questa biografia, mettendo insieme tanti indizi sulla sua vita che egli stesso aveva disseminato negli scritti, nelle interviste, nelle conversazioni, racconta la sua storia con Dio, lo scoprire in lui il senso della terra, lo scopo della creazione, il volto della trasparenza infinita che non si chiude mai, ma libera.

    Olivier Clément è pensatore libero e coraggioso che ha saputo comunicare il « gusto di Dio » e il canto della sua misericordia.

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  • EDITORIALE LIBRI

    Pavel Evdokimov è uno dei teologi russi che più ha con-tribuito all’incontro tra l’Oriente e l’Occidente cristiani. Ha partecipato come osservatore al concilio Vaticano II, come uomo-ponte tra le tradizioni cristiane e autentico testimone della Chiesa indivisa. La sua scrittura è sempre fresca e attuale, così come le sue riflessioni sul femminile e sulla donna nella Chiesa, sulla maturazione spirituale, sul-la bellezza come meta ultima del cammino del credente.

    Il libro ricostruisce il suo percorso attraverso la figura di tre donne che lo hanno ispirato nelle diverse età della sua vita. È la prima biografia di Pavel Evdokimov scritta in lingua italiana e si avvale dei ricordi del figlio, padre Michel.

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  • EDITORIALE LIBRI

    La vita di Giovanna Francesca Frémyot, baronessa Rabutin di Chantal (1572-1641), è un’avvincente avventu-ra che si svolge in uno dei periodi più turbolenti della sto-ria della Francia, fra guerre di religione, Riforma cattolica e lotte dinastiche per il trono.

    Una donna straordinaria, che ha vissuto almeno « quat-tro vite »: moglie innamorata e imprenditrice, madre atten-ta e sensibile, vedova inconsolabile, suora pur continuan-do a essere madre, fondatrice di un ordine di clausura tra i più stabili al mondo, la Visitazione di Santa Maria.

    Santa Giovanna di Chantal è una santa fra le più moder-ne, un autentico riferimento spirituale anche per le donne di oggi.

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  • 92H

    167

    ISBN 978-88-315-4835-9

    « Cuore d’oro »? Sì, Marcello Candia era un ricco in-dustriale milanese in doppiopetto e modi da gran si-gnore. Ha dato tutto ai poveri e ai lebbrosi. Si è speso fino all’ultimo respiro. Cose straordinarie. Ma la cosa più straordinaria di tutte è l’essere stato un profeta di come dovrà essere il cristianesimo del futuro: senza steccati carismatici, aperto al mondo e all’uomo.

    Lui ha vissuto così: non ha fondato niente a suo no-me, ogni opera pensata, iniziata, avviata e finanziata l’ha consegnata gratuitamente alle varie congregazioni reli-giose che già operavano sul territorio, cercando anche di far lavorare insieme, in una stessa opera, religiosi di diversi carismi.

    Per lui, cristiano autentico, il Vangelo messo in pra-tica è respiro infinito, spazio senza confini, ego sotto i piedi sostituito dal noi; e l’unico segno di appartenenza è il battesimo.

    Perché l’opera iniziata non morisse con lui, ha crea-to una Fondazione che continua ad agire con lo stesso stile profondamente universale. Cioè cristiano. Altro che « un uomo dal cuore d’oro », come è stato definito in oc-casione dell’assegnazione del Premio Motta; Marcello Candia è « un autentico uomo di Dio ».

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