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1 Indice Introduzione ____________________________________________________________________ 2 1. Origine ed evoluzione del debito pubblico italiano ____________________________________ 4 1.1 Dall’unificazione politica alla grande guerra __________________________________________ 4 1.2 La prima guerra mondiale e crisi del dopoguerra ______________________________________ 6 1.3 Periodo fascista e seconda guerra mondiale ___________________________________________ 7 1.4 Gli anni della ricostruzione e della crescita___________________________________________ 10 1.5 La continua crescita del debito italiano dagli anni ‘60__________________________________ 11 2. Sostenibilità del debito e nascita dell’unione monetaria ______________________________ 14 2.1 Il debito italiano dal 1980 al 1996___________________________________________________ 14 2.1.1 La sostenibilità nel tempo: rapporto debito/PIL______________________________________________ 15 2.1.2 Il no-Ponzi game _____________________________________________________________________ 18 2.1.3 La dinamica del debito pubblico _________________________________________________________ 19 2.2 Verso l’Euro ____________________________________________________________________ 20 2.2.1 Trattato Maastricht____________________________________________________________________ 21 2.2.2 Riforme e debito: l’adozione della moneta unica_____________________________________________ 23 2.3 L’Italia del 2000 _________________________________________________________________ 24 3. Crisi dei debiti sovrani e intervento BCE __________________________________________ 26 3.1 Crisi finanziaria 2008/09 __________________________________________________________ 26 3.2 Crisi debito sovrano italiano_______________________________________________________ 28 3.3 Mario Draghi: Quantitative Easing _________________________________________________ 30 3.3.1 Politiche monetarie non convenzionali ed il “Bazooka” _______________________________________ 31 3.3.2 Quantitative Easing fase 2 e 3 ___________________________________________________________ 35 3.3.3 Confronto FED – BCE_________________________________________________________________ 37 3.3.4 Effetti manovra BCE __________________________________________________________________ 38 Conclusioni ____________________________________________________________________ 41 Bibliografia ____________________________________________________________________ 43 Sitografia _____________________________________________________________________ 44

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Indice

Introduzione ____________________________________________________________________ 2

1. Origine ed evoluzione del debito pubblico italiano ____________________________________ 4 1.1 Dall’unificazione politica alla grande guerra __________________________________________ 4 1.2 La prima guerra mondiale e crisi del dopoguerra ______________________________________ 6 1.3 Periodo fascista e seconda guerra mondiale ___________________________________________ 7 1.4 Gli anni della ricostruzione e della crescita ___________________________________________ 10 1.5 La continua crescita del debito italiano dagli anni ‘60 __________________________________ 11

2. Sostenibilità del debito e nascita dell’unione monetaria ______________________________ 14 2.1 Il debito italiano dal 1980 al 1996___________________________________________________ 14

2.1.1 La sostenibilità nel tempo: rapporto debito/PIL ______________________________________________ 15 2.1.2 Il no-Ponzi game _____________________________________________________________________ 18 2.1.3 La dinamica del debito pubblico _________________________________________________________ 19

2.2 Verso l’Euro ____________________________________________________________________ 20 2.2.1 Trattato Maastricht ____________________________________________________________________ 21 2.2.2 Riforme e debito: l’adozione della moneta unica_____________________________________________ 23

2.3 L’Italia del 2000 _________________________________________________________________ 24 3. Crisi dei debiti sovrani e intervento BCE __________________________________________ 26

3.1 Crisi finanziaria 2008/09 __________________________________________________________ 26 3.2 Crisi debito sovrano italiano _______________________________________________________ 28 3.3 Mario Draghi: Quantitative Easing _________________________________________________ 30

3.3.1 Politiche monetarie non convenzionali ed il “Bazooka” _______________________________________ 31 3.3.2 Quantitative Easing fase 2 e 3 ___________________________________________________________ 35 3.3.3 Confronto FED – BCE _________________________________________________________________ 37 3.3.4 Effetti manovra BCE __________________________________________________________________ 38

Conclusioni ____________________________________________________________________ 41

Bibliografia ____________________________________________________________________ 43 Sitografia _____________________________________________________________________ 44

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Introduzione Il tema dei debiti sovrani è sempre più presente nei dibattiti pubblici, sulle pagine dei giornali, nei

seminari e workshop universitari, nei circoli accademici e nelle istituzioni nazionali ed internazionali.

Più nello specifico ciò che si cerca di interpretare, studiare, approfondire è la sostenibilità dei

cosiddetti debiti monstre. L’Italia, sotto questo profilo, si può purtroppo annoverare tra i Paesi a

rischio di insolvenza per via di un debito il cui rapporto con il prodotto interno lordo (PIL) supera

oramai il 132%. Il debito pubblico di uno Stato rappresenta l’insieme dell’ammontare delle somme

dovute a terzi (altri Stati, istituti finanziari e privati), cui lo stesso Stato si è servito per finanziare le

proprie necessità.

Il debito pubblico può avere una duplice scuola di pensiero: una è tradizionale, mentre l’altra è di

stampo ricardiano. La prima si basa sul fatto che nel momento in cui uno Stato riduce le imposizioni

fiscali e, dunque, si serve del disavanzo per soddisfare le uscite, pone i cittadini nella condizione di

avere maggiori risorse da destinare agli acquisti. Di altro tenore è la seconda scuola di pensiero,

infatti, essa sostiene che i cittadini siano più attenti alle proprie risorse tanto da prendere in

considerazione anche le risorse future. La differenza sostanziale rispetto al primo punto di vista si

trova proprio in quest’ultimo passaggio: la cosiddetta equivalenza ricardiana accomuna il debito di

oggi ad un’imposta del domani. Il debito pubblico è visto, dunque, come un’imposta straordinaria

che può ricadere sulle generazioni attuali o su quelle future. In definitiva, un debito in quanto tale

deve essere onorato, se non lo si fa oggi lo si dovrà fare domani.

Questo lavoro, analizzando il caso italiano, si propone di comprendere fino a quando un debito

pubblico si possa definire sostenibile. In particolare, si vuole capire se un singolo Stato membro

dell’Unione Europea possa onorare le proprie passività senza condividerne i rischi o addirittura lo

stesso debito con gli altri membri. Quest’analisi, inoltre, per dare una visione più completa e specifica,

abbraccerà i temi della governance europea e del ruolo che riveste la Banca Centrale Europea (BCE)

all’interno dell’Unione.

L’elaborato può essere suddiviso in tre aree. Nella prima parte si offre una ricostruzione in merito

alle radici del debito italiano. Partendo dall’unificazione del Regno d’Italia del 17 marzo 1861 si

giunge fino agli anni ’80. Si ripercorrono tutte le tappe più significative, che hanno determinato la

crescita o la riduzione dello stock di debito pubblico. Nella seconda parte si introduce il tema della

sostenibilità. Inizialmente si svolge un’analisi tecnica in merito all’equazione dinamica che descrive

l’andamento del rapporto debito su PIL, poi, la si applica alla realtà. Si approfondiscono, dunque, il

Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità e crescita. Si ricercano, inoltre, le conseguenze che hanno

questi accordi sul debito e sul deficit dell’Italia. Nella terza parte, infine, si descrivono gli impatti

della crisi globale finanziaria del 2008 e di quella dei debiti sovrani del 2012. Si esaminano, poi, gli

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strumenti a disposizione dell’Europa per difendere gli Stati membri da attacchi speculativi, ed in

particolare si propone il programma di acquisto titoli – Quantitative Easing (QE) – lanciato dal

presidente della BCE Mario Draghi.

Di seguito è riportato il grafico che descrive l’andamento del rapporto debito su PIL in Italia tra il

2005 e il 2014:

Fonte: Banca d’Italia

0

20

40

60

80

100

120

140

2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014

Grafico 1 - Rapporto debito/PIL

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1. Origine ed evoluzione del debito pubblico italiano

In questo primo capitolo si vogliono ricercare le origini del debito pubblico italiano. Si vuole, inoltre,

ripercorrere l’evoluzione e gli eventi più rilevanti che hanno determinato l’accumularsi o lo sgonfiarsi

dello stock di debito.

Il periodo che verrà analizzato va dall’Unità d’Italia fino agli anni ’80. Questo arco di tempo può

essere suddiviso in cinque intervalli: il primo che va dall’Unità d’Italia al primo conflitto mondiale,

il secondo che comprende la prima guerra mondiale, il terzo che abbraccia l’ascesa del regime fascista

fino alla seconda guerra mondiale, il quarto che ripercorre gli anni della ricostruzione e del boom

economico, infine, l’ultima frazione temporale comprenderà il ventennio che va dagli anni ’60 al

1980.

1.1 Dall’unificazione politica alla grande guerra

Il debito pubblico italiano trova le sue origini al tempo dell’unificazione politica del Paese. In seguito

al 17 marzo 1861, anno della proclamazione del Regno d’Italia, si dovette procedere al

raggruppamento degli ordinamenti amministrativi degli Stati preunitari. In ambito finanziario la

prima legge unificatrice è la n. 94 del 10 luglio 1861 con la quale si istituisce il Gran Libro del debito

pubblico. Segue il riconoscimento dei titoli di debito degli Stati che hanno dato origine al Regno

d’Italia e con la legge n. 174 del 4 agosto 1861 gli stessi debiti trovano iscrizione nel Gran Libro.

La ripartizione dei debiti, poi come ricordato confluiti in un unico grande debito, riguarda per il

57,22% il Regno di Sardegna, per il 29,40% il Regno di Napoli e Sicilia e per la parte rimanente gli

altri Stati. Analizzando la stessa situazione rispetto al numero di abitanti, si evidenzia la medesima

discrepanza: l’ammontare pro-capite dei debiti degli Stati preunitari è per il Piemonte di 142 lire, per

la Lombardia è pari a 56 lire, mentre per la Sicilia e Napoli è rispettivamente di 49 e 63 lire. I dati

che emergono rilevano che gli abitanti del Sud sono stati gravati degli oneri dei debiti degli Stati

settentrionali senza poter beneficiare delle opere realizzate per mezzo dell’emissione di questi titoli.

Molti economisti si sono pronunciati riguardo questo tema; di estremo rilievo, seppur in antitesi, sono

i contributi di Francesco Saverio Nitti e di Luigi Einaudi. Il primo scrive ne Il bilancio dello Stato

dal 1862 al 1896-97 che se non si fosse venuto a costituire il Regno d’Italia, il Piemonte sarebbe

fallito a causa di una pesante crisi finanziaria seguita da un periodo di tanto eccessiva quanto

inefficace spesa pubblica. Einaudi, invece, in completo disaccordo con questa tesi, sostiene nei Miti

e paradossi della giustizia tributaria che la finanza cavourriana cerca di aumentare, mediante anche

l’utilizzo di prestiti, la quantità di risorse disponibili da destinare all’accrescimento della produttività

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lavorativa. Entrambe le chiavi di lettura seppur molto distanti fra loro confermano che l’unificazione,

almeno in un primo momento, non giova al Mezzogiorno.

Nel suo complesso la finanza pubblica italiana dalla proclamazione del Regno allo scoppio della

prima guerra mondiale può essere suddivisa in tre periodi: il primo che vede la Destra Storica al

potere nel tentativo di raggiungere il pareggio di bilancio; il secondo evidenzia un’alternanza tra

avanzi e disavanzi di bilancio di parte corrente; infine si registra un vero e proprio decollo

dell’economia caratterizzato da una fase di prosperità ed espansione con bilanci regolarmente in

attivo per un quindicennio.

I primi anni dopo l’unificazione segnano importanti disavanzi di parte corrente; solo l’esercizio

dell’anno 1865 registra un segno positivo. Il Regno d’Italia nel 1866 raggiunge l’apice di deficit di

parte corrente toccando quota 543 milioni, con le uscite che ammontano al 188% rispetto alle entrate.

A contribuire all’aggravamento del contesto generale vi è il conflitto con l’Austria. La depressione

di quegli anni porta i governanti a proclamare la cessazione della convertibilità in oro della moneta.

Dopo aver raggiunto l’elevatissimo deficit, dal 1867 si avvia un periodo di risanamento dei conti

dovuto principalmente alla riduzione di spese belliche e all’incremento delle entrate. Questi

rappresentano senza alcun dubbio gli anni più duri per i cittadini dello Stato neoformato: in particolare

le classi meno abbienti risentono dell’aggravio sia delle imposte indirette sia di quelle dirette. Il debito

pubblico nel giro di pochi anni, nonostante il tentativo vano di migliorare la situazione, triplicò

portando il rapporto del debito e PIL (prodotto interno lordo) dal 45% del 1861 al 95% del 1876.

Con l’arrivo della Sinistra al potere (1876) si apre un nuovo periodo caratterizzato da bilanci di parte

corrente con segno positivo. Ciò è possibile grazie a un buon equilibrio tra incremento di spesa e un

adeguato aumento delle entrate. Dal 1888 al 1893 il trend di bilancio corrente inverte la rotta tornando

in deficit a causa delle elevate spese mirate al finanziamento delle campagne coloniali. Per quanto

riguarda il rapporto debito/PIL, questo cresce fino a toccare quota 116% nel 1889. La crescita di oltre

venti punti percentuali è dovuta a due fattori. Un primo evento che segna fortemente l’aumento del

debito pubblico è l’abolizione del corso forzoso nel 1883. L’altro grande avvenimento che contribuì

a gonfiare i debiti dell’Italia fu la spesa disinvolta della Sinistra nel settore ferroviario.

L’ultima fase di questa finestra storica dell’Italia si distingue per un’elevata prosperità economica,

profonde riforme sociali e non ultimo da un prolungato attivo di bilancio corrente. È proprio in questo

periodo di splendore, infatti, che la qualità della vita dei cittadini migliora sensibilmente. Per la

finanza pubblica, invece, il florido momento è rimarcato dall’assunzione di un ruolo sempre più

fondamentale da parte di Cassa Depositi e Prestiti. Si registra, poi, un’enorme crescita nella raccolta

del risparmio postale. Grazie a queste congiunture favorevoli si ha un aumento del reddito che si

traduce in una contrazione del rapporto debito/PIL all’80%. Si avvia, inoltre, un processo di riduzione

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del debito che sfocia nella conversione del 1906. In quell’anno con la legge n. 262 e con il regio

decreto n. 263 si offre ai portatori dei titoli delle rendite consolidate 5% lordo e 4% netto o il rimborso

o la permuta con nuovi titoli con interesse tra il 3,50% e il 3,75%. Il guadagno da questa operazione

per le casse italiane fu minimo, ma evidenzia la volontà di inseguire un percorso sempre più virtuoso.

Per riassumere e cercare di interpretare in maniera più chiara l’andamento della finanza pubblica

italiana dall’unificazione allo scoppio del primo conflitto mondiale si guardi ai dati offerti dalla

tabella 1.

Tabella 1 – Debito pubblico interno (in milioni di lire)

Anni Debito

consolidato

Debito

redimibile

Debito

fluttuante

Debito

interno

pubblico

Ammontare % Ammontare % Ammontare % Ammontare % RNL

1861 2.762 88,2 330 10,5 39 1,3 3.131 48,0

1900 9.805 72,0 3.078 22,6 741 5,4 13.624 104,9

1914 10.051 63,7 4.789 30,4 926 5,9 15.766 76,4 Fonte: Fausto, Domenicantonio. Lineamenti dell’evoluzione del debito pubblico in Italia (1861 – 1961). (P. 79)

Questo schema illustra quanto il debito pubblico sia cresciuto nel tempo nonostante i governanti del

Paese abbiano alzato le imposte e abbiano ceduto un numero non indifferente di beni patrimoniali. Si

ha, infatti, un incremento rispettivamente nel primo e nel secondo periodo presi in considerazione di

10.493 e di 2.142 milioni.

1.2 La prima guerra mondiale e crisi del dopoguerra

La prima guerra mondiale porta un grave appesantimento nei conti italiani a causa di un’impennata

della spesa pubblica: disavanzi di bilancio si susseguono esercizio dopo esercizio. Il Paese si basa su

tre pilastri per finanziare il conflitto globale: l’innalzamento delle imposte, il ricorso al debito e,

infine, la messa in circolazione di una maggior quantità di denaro. Finito il periodo di belligeranza,

tuttavia, il bilancio italiano continua a trovarsi in disavanzo aggravato, inoltre, da una riduzione delle

spese non in linea alle attese.

Durante questo arco di tempo il sistema tributario risulta essere farraginoso e assolutamente arretrato.

Le leggi in materia fiscale, infatti, risalgono all’ormai lontana post – unificazione. Le entrate tributarie

non riescono a garantire la copertura delle uscite statali. Esse si limitano esclusivamente a pareggiare

gli interessi del debito. Bisognerà attendere la fine della Guerra affinché si riesca lentamente,

attraverso le imposte, a rientrare almeno in parte degli onerosi costi militari. In questo periodo, inoltre,

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il peso delle tasse risulta particolarmente gravoso per una molteplicità di motivi: la perdita di valore

della lira, una esigua crescita degli introiti, la riduzione del commercio sia interno sia a livello

internazionale e da uno stallo generale nell’economia. Le tasse, infatti, dopo aver toccato nell’anno

1918 la percentuale più bassa (attorno al 18%) in termini di compensazione rispetto alle uscite

correnti, tornano a crescere inizialmente in maniera brusca e poi con maggiore costanza.

Per soddisfare i bisogni bellici, inoltre, l’Italia emette debito: sia buoni ordinari del Tesoro (emessi

con regolarità) sia cinque prestiti nazionali (tra il 1914 e il 1917). Le prime tre operazioni riguardano

titoli di debito redimibile, mentre i rimanenti sono titoli di debito consolidato. Subito dopo il conflitto

si arriva ad emettere un ulteriore prestito con lo scopo di consolidare il debito fluttuante. Come

illustrato nella tabella 2 la composizione dell’indebitamento pubblico registra un netto cambiamento:

l’ammontare dei debiti consolidati e redimibili crolla dal 94,1% del 1914 al 60,9% del 1922. Di

converso il debito fluttuante, nello stesso periodo, vede un balzo di oltre 30 punti attestandosi poco

al di sotto della soglia del 40% sul totale.

Tabella 2 – Debito pubblico interno (in milioni di lire)

Anni Debito

consolidato

Debito

redimibile

Debito

fluttuante

Debito

interno

pubblico

Ammontare % Ammontare % Ammontare % Ammontare % RNL

1914 10.051 63,7 4.789 30,4 926 5,9 15.766 76,4

1922 44.577 48,0 12.024 12,9 36.256 39,1 92.857 87,9 Fonte: Fausto, Domenicantonio. Lineamenti dell’evoluzione del debito pubblico in Italia (1861 – 1961). (P. 79)

Particolare rilievo assume l’esplosione del debito pubblico, in rialzo di oltre 75.000 milioni, ma

giustificata dal singolare lasso di tempo preso in esame. Nel 1920, in aggiunta, il rapporto debito/PIL

segna un ennesimo record negativo: 125%.

Un ultimo punto da rimarcare è la necessità da parte dell’Italia di collocare prestiti all’estero

emettendo buoni speciali: i maggiori sottoscrittori sono la Gran Bretagna e gli USA. Nel 1922 i debiti

verso i Paesi esteri ammontano alla medesima quantità di quelli interni, circa 93.000 milioni. Questi

prestiti particolari, tuttavia, non incidono sull’economia italiana poiché si è deciso che le relative

annualità sarebbero state controbilanciate dalle riparazioni della Germania.

1.3 Periodo fascista e seconda guerra mondiale

Nel 1922 si insedia il primo Governo di stampo fascista. In quello stesso anno il Ministero del Tesoro

e quello delle Finanze si accorpano sotto un’unica struttura. Da questo momento, per un intero

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triennio, a prendere il timone della politica finanziaria è Alberto De’ Stefani. La situazione ereditata

dall’economista è assolutamente negativa: bilancio in deficit e debiti in essere con scadenze in

prossimità. Il Ministro espone il piano finanziario che ha in mente per il Paese al teatro della Scala

nel maggio del 1923. De’ Stefani intraprende una serie di provvedimenti molto incisivi come

l’eliminazione della tassa di successione o l’introduzione di un’imposizione personale

complementare progressiva. Riesce dapprima a ridurre il deficit e poi nel 1925 a decretare il

raggiungimento del pareggio di bilancio. In quegli anni, infatti, l’Italia allenta in maniera sostanziale

la sua azione nell’economia ed beneficia di un modesto rialzo delle entrate. De’ Stefani esalta a lungo

i propri risultati ottenuti, anche se una parte dell’opinione pubblica è contraria a questa tesi, poiché

ritiene che le migliorie derivino dalla cessazione degli esborsi di guerra. Gli antagonisti del Ministro,

inoltre, sostengono che gli attivi di bilancio provengano da artifici come gli storni di uscite dall’oggi

a tempi più remoti.

De’ Stefani durante il suo triennio a capo del Ministero delle Finanze va incontro a dei fallimenti per

quanto riguarda la gestione del debito pubblico. Nel 1924 vi è la necessità di diminuire il debito

fluttuante, si arriva così ad emettere un prestito da 5 miliardi la cui sottoscrizione si ferma a un infelice

30% del totale. Il contraccolpo è fortissimo: i tassi sui titoli ordinari salgono fino al 6%. Per sopperire

a questa sconfitta, verso la fine dello stesso anno, con il regio decreto-legge n. 2.106 si emettono

buoni postali di risparmio che daranno, però, esiti positivi solo nel medio termine.

A succedere nel 1925 a De’ Stefani è Giuseppe Volpi, il quale continua la politica di sgravi fiscali

intrapresa dal suo predecessore. Con l’era Volpi, nel 1926, la Banca d’Italia ottiene un importante

riconoscimento: è l’unico istituto ad avere il diritto di emettere moneta. Poco dopo, nell’agosto dello

stesso anno, Mussolini col discorso di Pesaro annuncia la rivalutazione della lira. Questa operazione

si è resa obbligatoria, poiché l’Italia non è stata più in grado di sostenere, con una moneta sempre più

debole, le ingenti spese dovute all’importazione delle materie prime e dei combustibili. I mesi

successivi alla decisione da parte del governo di rivalutare la moneta sono molto rigidi per le classi

più povere. Gli stipendi dei lavoratori, infatti, vengono tagliati con una forbice che va dal 10% al

20%. Questo quadro di rigore si prolunga per qualche anno.

Di grande rilevanza è, inoltre, il regio decreto-legge n. 1.831 del 1926, passato alla storia sotto il

nome di “Prestito Littorio”, che consiste in un nuovo prestito nazionale. Il Prestito Littorio porta a

una conversione obbligatoria di titoli ordinari del Tesoro. Questa manovra sfocia in una vera e propria

confisca: i più colpiti da questo intervento sono gli imprenditori che detengono la maggiore quantità

di buoni statali a breve termine. Il tutto si risolve in una grave perdita di affidabilità per le istituzioni

italiane, tanto che il Tesoro non avrà la possibilità di emettere nuovi titoli per un decennio. Un’altra

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data significativa per l’Italia è il 1927 in cui si ha la fine del corso forzoso della moneta, e si raggiunge

la possibilità di cambiare 19 lire con un dollaro.

Focalizzando l’attenzione sulla gestione finanziaria e sul debito pubblico si hanno importanti novità

sotto la guida De’ Stefani – Volpi. L’accrescimento del valore della lira comporta nette mutazioni

nella struttura del debito come mostra la tabella 3: i debiti consolidati pressappoco raddoppiano,

mentre il fluttuante si riduce fino quasi ad azzerarsi.

Tabella 3 – Debito pubblico interno (in milioni di lire)

Anni Debito

consolidato

Debito

redimibile

Debito

fluttuante

Debito

interno

pubblico

Ammontare % Ammontare % Ammontare % Ammontare % RNL

1922 44.577 48,0 12.024 12,9 36.256 39,1 92.857 87,9

1929 71.449 82,0 13.075 15,1 2.510 2,9 87.134 62,5

1935 9.892 9,4 83.935 79,4 11.883 11,2 105.710 94,2

1946 52.945 5,0 278.569 26,1 735.123 68,9 1.066.637 31,3 Fonte: Fausto, Domenicantonio. Lineamenti dell’evoluzione del debito pubblico in Italia (1861 – 1961). (P. 79)

In linea generale il debito pubblico, durante il primo periodo (1922-29) del governo di Mussolini,

segue un andamento ribassista.

Archiviati i primi otto anni di governo fascista, si entra in una fase caratterizzata da bilanci in perenne

deficit. L’esercizio più cupo che questo frangente propone è quello del ’33 - ’34 in cui il disavanzo

supera i 6.150 milioni. Sono gli anni della grande depressione. La rigidità del ciclo economico

dipende dall’incremento delle uscite, dalla contrazione delle entrate ed infine, da una serie di scadenze

riguardanti la conversione del debito. Dal 1935, nonostante una timida ripresa, iniziano a gravare sui

conti italiani le spese per l’ormai prossimo conflitto nel Corno d’Africa.

Tornando alla tabella 3 si noti come, ancora una volta, la composizione del debito pubblico italiano

si sia fortemente alterata. A seguito, infatti, della conversione del ’34 del consolidato in redimibile si

ha una robusta riduzione del peso da parte dei debiti di lungo termine. Al contrario il redimibile

acquista un ruolo di primaria importanza nella struttura delle passività statali. Anche il fluttuante

aumenta il suo carico, fino a spingersi verso un rilievo non secondario. L’operazione di conversione

passa alla storia come una delle peggiori in assoluto quanto a gestione finanziaria pubblica. Per ciò

che concerne il debito pubblico si ha, nel giro di soli sei anni, un incremento di quasi 20.000 milioni.

Passati gli anni peggiori dalla grande depressione, la situazione economica per l’Italia non cambia. I

disavanzi continuano a susseguirsi a causa delle elevate uscite di natura militare e dell’indirizzo

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autarchico dato all’economia. La guerra d’Etiopia, dopo aver messo in ginocchio la finanza pubblica

italiana, porta il Tesoro a emettere nel 1936 un prestito forzoso: si tratta di un vero e proprio prelievo

di denaro. Tutti colore che sono in possesso di terreni e fabbricati devono provvedere a finanziare lo

Stato. I prestiti che seguiranno, hanno una natura ordinaria, ovvero avvengono attraverso l’emissione

consuetudinaria di titoli statali. Altro mezzo comune a quel tempo al fine di rimpinguare le casse

statali riguarda i pagamenti differiti. Questi sono concessioni di denaro da parte dei privati o da istituti

di credito che, però, non vengono riportati come debito pubblico.

Il decennio tra il 1936 e il ‘46, caratterizzato dal secondo conflitto mondiale, continua a registrare

deficit sul bilancio pubblico italiano. Lo Stato per finanziarsi si serve per lo più di debiti fluttuanti.

Di conseguenza, come mostra nuovamente la tabella 3, la struttura del debito cambia facendo

emergere la preponderanza del debito fluttuante. Uscita dilaniata dalla seconda guerra mondiale,

l’Italia non mostra una situazione completamente avversa dal punto di vista del debito pubblico. Ciò

si deve a un’enorme svalutazione della lira che si tramuta in una spesa minima per gli interessi. Il

rapporto debito/PIL, inoltre, è costantemente inferiore al 125% degli anni ’20, poiché aiutato

dall’inflazione. Una volta crollato il regime dittatoriale di Benito Mussolini, il rapporto debito/PIL

continua a ridursi in maniera sostanziale.

1.4 Gli anni della ricostruzione e della crescita

I disavanzi di bilancio diventano una vera e propria costante negli anni successivi alla seconda guerra

mondiale. L’Italia esce dal conflitto lacerata sotto ogni aspetto: instabilità economica, mercato interno

stagnante e totale arretratezza nel sistema fiscale. A questa situazione disastrosa si aggiungono le

uscite da corrispondere ai reduci e quelle per i danni di guerra. Il peggior risultato in assoluto del

periodo postbellico si registra nel 1946 con un deficit pari a oltre 900 miliardi.

Il risanamento dei conti inizia nel ’48 attraverso un taglio radicale del disavanzo, arrivando nel giro

di due anni a più che dimezzare il triste dato rilevato nel ’46. A contribuire al miglioramento generale

è con certezza il piano di aiuti economico – finanziari lanciato dal segretario di Stato statunitense

George Marshall. Proprio a metà del XX sec. l’Italia conosce un grande sviluppo per quanto riguarda

la sua economia. Ad accompagnare il progresso, però, vi sarà sempre un’invariata condizione di

deficit di bilancio.

Analizzando gli strumenti utilizzati dallo Stato italiano per finanziarsi nel periodo post-bellico si

scopre che essi sono: i certificati di debito pluriennali (BTp), i titoli ordinari (BoT) e il conto corrente

fruttifero con la Cassa Depositi e Prestiti. Durante l’arco di tempo preso in esame diversi sono i

prestiti che si susseguono: primo fra tutti è il “Prestito della ricostruzione 3,50%”. Il decreto legge n.

262 del 1946, che avvia l’operazione precedentemente ricordata, ha lo scopo di alleviare la pesante

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situazione finanziaria italiana. Il saggio è minore rispetto a quello di mercato (≅ 6%) poiché il prestito

ha la peculiarità di beneficiare di un vantaggio fiscale. [Fausto. Lineamenti dell’evoluzione del debito

pubblico in Italia (1861 – 1961).]

Un altro evento che assume grande rilievo è la costituzione, con il d.l. n. 8 del 1958, di un Fondo che

ha il compito di acquistare sul mercato i buoni poliennali del Tesoro in scadenza. Il Fondo è guidato

dagli alti funzionari del Ministero del Tesoro. Le casse della nuova istituzione finanziaria, come recita

lo stesso decreto legge, sono fornite di 20 miliardi sin dalla costituzione e, poi, a salire di 10 miliardi

ogni anno hanno fino a un massimo di 50 miliardi. Lo scopo primario di questa operazione è quella

di alleviare la tesoreria del grave carico che di li a poco si sarebbe dovuta accollare per via delle

oramai prossime scadenze dei BTP (la prima ad aprile del ’59). Tutto ciò, dunque, si traduce in una

maggiore flessibilità nelle dinamiche riguardanti la gestione debito pubblico in Italia.

Osservando la tabella 4 emerge una enorme crescita del debito pubblico nel quindicennio 1946 – 61.

Per quanto riguarda la struttura del debito si ha un quasi totale azzeramento del debito consolidato,

mentre il fluttuante mantiene la sua primaria importanza, ma cede del peso ai debiti redimibili.

Tabella 4 – Debito pubblico interno (in milioni di lire)

Anni Debito

consolidato

Debito

redimibile

Debito

fluttuante

Debito

interno

pubblico

Ammontare % Ammontare % Ammontare % Ammontare % RNL

1946 52.945 5,0 278.569 26,1 735.123 68,9 1.066.637 31,3

1961 52.327 0,9 2.229.916 39,0 3.548.447 60,1 5.900.590 24,3 Fonte: Fausto, Domenicantonio. Lineamenti dell’evoluzione del debito pubblico in Italia (1861 – 1961). (P. 79)

Infine, è importante sottolineare che nonostante il boom del debito di quegli anni, esso non

rappresenta un cruccio per l’Italia. Il rapporto debito/PIL, infatti, è al 29%. Questo risultato si ottiene

grazie al notevole sviluppo economico che il Paese compie nel dopoguerra.

1.5 La continua crescita del debito italiano dagli anni ‘60

Fino agli anni ’60, dunque, il debito pubblico italiano è neutrale grazie allo sviluppo economico che

mantiene il rapporto del debito rispetto al PIL a livelli assolutamente bassi. Il ventennio che va dal

1960 agli anni ’80 è ricco di avvenimenti per quanto riguarda l’economia e la finanza italiana ed

internazionale: si avviano importanti riforme strutturali, scoppiano due shock petroliferi ed, infine, il

grande tema dell’inflazione galoppante.

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La prima grande riforma strutturale del periodo preso in esame risale al 1969 quando con la legge n.

153 si vara la riforma Brodolini sul sistema pensionistico. Tra le maggiori novità introdotte dal

riassetto del sistema del regime pensionistico vi sono: il cambiamento definitivo dal sistema a

capitalizzazione a quello a ripartizione; l’introduzione del metodo retributivo; adeguamenti in base

ai prezzi e così via. Questa riforma ha serie conseguenze sui conti pubblici poiché con la novità del

metodo retributivo la rata mensile della pensione diventa una “naturale” continuazione dello stipendio

ricevuto durante l’arco della vita lavorativa. Altro neo che appesantisce la spesa pubblica sono le

cosiddette baby – pensioni: nel settore pubblico si arriva a percepire l’assegno post-lavorativo già

dopo solo qualche anno di lavoro.

L’altra grande riforma è quella del sistema tributario avvenuta tra il 1973 e il ’74. Tra le novità

sostanziali si ricordano l’introduzione dell’IVA (imposta sul valore aggiunto) e l’IRPEF (imposta sul

reddito delle persone fisiche). L’IVA è entrata in vigore con il D.p.r. n. 633 del 1972 ed è una imposta

indiretta quindi grava sui consumi. L’IRPEF, invece, è istituita con D.p.r. n. 597 del 1973.

Un’ulteriore questione che destabilizza l’economia non solo italiana, ma anche quella globale

riguarda gli shock petroliferi. La prima crisi si ha nel 1973 con la quarta guerra arabo-israeliana,

passata alla storia sotto il nome di conflitto del Kippur. In quella occasione i Paesi arabi decidono,

attraverso un’adunanza dell’Organization of Petroleum Exporting Countries (Opec), di tagliare la

produzione del petrolio e aumentarne il prezzo. Questa operazione ha il chiaro fine di lanciare un

forte segnale a tutti i paesi occidentali che affiancano Israele nella guerra. In brevissimo tempo, l’oro

nero schizza da un prezzo di 3 a 12 dollari al barile. A distanza di pochi anni, nel 1979, scoppia il

secondo shock petrolifero. In questa caso, l’incremento che porta il petrolio a costare 30 dollari al

barile, è dovuto dal blocco della produzione dell’Iran causata dall’ascesa al potere di fazioni religiose

radicali. L’enorme crescita del prezzo del petrolio ha grosse conseguenze sui bilanci dei paesi

importatori tra cui l’Italia.

Una delle conseguenze degli shock petroliferi è proprio l’innalzamento generale dei prezzi e, dunque,

l’inflazione. Come mostra la tabella 5, l’Italia soffre più di ogni altro paese della crescita dei prezzi:

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Tabella 5 – prezzi al consumo nei principali gruppi di paesi (variazione percentuale rispetto

anno precedente)

1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980

Paesi industriali 13,1 11,1 8,3 8,4 7,2 9,0 11,7

Stati Uniti 11,0 9,1 5,8 6,5 7,6 11,3 13,5

Canada 10,9 10,8 7,5 8,0 8,9 9,2 10,2

Giappone 24,4 11,8 9,3 8,0 3,8 3,6 8,0

Germania Federale 7,0 5,9 4,3 3,7 2,7 4,1 5,5

Francia 13,7 11,7 9,6 9,5 9,3 10,6 13,3

Regno Unito 16,0 24,2 16,5 15,5 8,3 13,5 17,9

Italia 19,1 17,0 16,7 17,0 12,1 14,8 21,2

CEE 13,1 13,4 11,0 11,0 7,6 10,4 14,3 Fonte: Ministero del Tesoro. Relazione del direttore generale alla Commissione parlamentare di Vigilanza. Il debito pubblico in Italia 1861 – 1987. Roma, 1988.

La media dei prezzi al consumo italiani degli anni che vanno dal 1974 all’80, infatti, supera del 7%

quella dei paesi industrializzati e del 5,3% quella dei paesi appartenenti alla CEE. Al fine di

normalizzare la difficile situazione nel 1974 l’Italia ratifica con il Fondo Monetario Internazionale

(FMI) uno stand-by loan. Il prestito prevede uno sforzo da parte dello Stato per diminuire il deficit

della bilancia dei pagamenti. Dopo soli due anni, l’Italia ricorre ad un prestito forzoso. Nel ’77 l’Italia

stringe un nuovo accordo con il Fondo Monetario Internazionale per uno stand-by loan. Nel breve

periodo (tra il ’74 e il ’78) tutto ciò permette all’Italia di mantenere una certa crescita in termini di

PIL reale. A seguito del secondo shock petrolifero, nel 1980, l’economia italiana registra un trend

particolarmente negativo per quanto riguarda l’inflazione come indica la tabella 5.

Analizzando, infine, l’andamento del rapporto debito/PIL nel ventennio che abbraccia gli anni ’60 e

’70 si registra una grande crescita dovuta all’esplosione del debito. Il rapporto, dunque, passa dal

31% del 1960 al 56,08% del 1980.

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2. Sostenibilità del debito e nascita dell’unione monetaria

Nel secondo capitolo si continuerà ad analizzare l’andamento del debito pubblico, ma si focalizzerà

l’attenzione sulla sua sostenibilità nel medio – lungo termine. Si studieranno, poi, gli impatti che

hanno sul debito sovrano italiano la creazione dell’Unione Europea Monetaria e l’adozione della

moneta unica: l’euro.

Nella prima parte del capitolo verrà introdotta l’identità che descrive il rapporto debito su PIL e,

dunque, si comincerà a discutere in merito alla sostenibilità delle passività dello Stato. Saranno,

inoltre, evidenziate le condizioni per cui un debito può essere considerato sostenibile nel tempo e si

porterà all’attenzione un caso particolare: il no-Ponzi game. Nella seconda parte, invece, verrà

ampiamente discusso il Trattato di Maastricht e le conseguenze dei parametri concordati nel Patto.

Nella terza parte, infine, si ripercorreranno i primi anni del III millennio, e dunque, i primi tempi in

cui l’Italia ha adottato la moneta unica.

2.1 Il debito italiano dal 1980 al 1996

È noto che, conclusa la fase di sviluppo del dopoguerra, il tema del debito ha assunto sempre più

rilevanza. Col passare del tempo, infatti, è arrivato a superare costantemente il prodotto interno lordo.

In aggiunta a questo, il fabbisogno ha oltrepassato, attorno agli anni ’80, la decima parte del reddito

nazionale. Il tema, dunque, della sostenibilità fiscale assume una rilevanza fondamentale per qualsiasi

Stato. Uno Stato deve essere in condizione di rispettare i propri obblighi in materia di debito. Deve,

allora, poter versare puntualmente gli interessi e rimborsare l’intera somma ottenuta in prestito alle

relative scadenze. Affinché tutto ciò sia possibile il rapporto tra il debito e il prodotto interno lordo

di una nazione deve essere costante. Il reddito di una nazione, infine, deve crescere alla stessa velocità

con cui cresce il debito.

Nella prima parte di questa sezione verrà analizzata la formula che delinea la dinamica del rapporto

debito/PIL. In particolare, si cercheranno le condizioni necessarie per ottenere sostenibilità nella

gestione del debito pubblico. Inoltre, verrà sottolineata l’importanza che assume il fabbisogno della

pubblica amministrazione sulla tenuta dei conti statali.

Nella seconda parte si condurrà un esame per quanto riguarda le condizioni che rendono possibile il

no-Ponzi game.

Nella terza parte, invece, attraverso i risultati ottenuti dall’analisi condotta in principio, si vuole

approfondire il contesto della finanza pubblica italiana dal 1980 al ’96 ponendo l’accento sulla

dinamica del debito.

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2.1.1 La sostenibilità nel tempo: rapporto debito/PIL

Per introdurre la discussione sul rapporto del debito/PIL, si comincia dalla seguente identità:

[1]𝐺 + 𝑇𝑅) + 𝑖𝐵 − 𝑇 = 𝑆𝐴𝐿𝐷𝑂

in cui G sta per la spesa, TR’ per indicare che si è al netto degli interessi sul debito pubblico, i

rappresenta gli interessi sul debito pubblico, B è il debito preesistente ed infine, T sono le entrate. Se

il saldo risulta positivo, deve essere finanziato. Il finanziamento può avvenire in due modi: emettendo

titoli di Stato e, dunque, coprendo il saldo attraverso debito pubblico oppure aumentando la base

monetaria.

L’equazione dinamica che descrive il debito pubblico è:

[2]𝐺(𝑡) + 𝑇𝑅)(𝑡) + 𝑖(𝑡)𝐵(𝑡) − 𝑇(𝑡) = �̇� in cui �̇� = 898:= ∆𝐵

Il fabbisogno primario, definito come il fabbisogno della pubblica amministrazione al netto della

spesa per interessi, si può esprimere così:

[3]𝐺(𝑡) + 𝑇𝑅)(𝑡) − 𝑇(𝑡) = 𝐹

Ora si vuole sostituire la [3] nella [2] e dividere tutto per il reddito (Y) così da ottenere il rapporto

debito/PIL:

[4]𝐹𝑌 +

𝑖𝐵𝑌 =

�̇�𝑌

Definendo con lettere minuscole le rispettive variabili in rapporto al PIL (B/Y = b) si ottiene:

[4𝑎]𝑓 + 𝑖𝑏 =�̇�𝑌

Il termine �̇� = 8CDEF

8: è pari a:

�̇� =�̇�𝑌 − 𝐵�̇�

𝑌G =�̇�𝑌 −

𝐵𝑌 ∙

�̇�𝑌 =

�̇�𝑌 − 𝑏 ∙ 𝑔

Dove g è il tasso di crescita del PIL nominale. Pertanto

�̇�𝑌 = �̇� + 𝑏 ∙ 𝑔

e la 4a può essere riscritta come:

[5]�̇� = 𝑓 + (𝑖 − 𝑔)𝑏

Inoltre, il tasso di crescita del PIL nominale e il tasso di interesse nominale possono essere scomposti

nella somma fra la loro variazione reale e il tasso di inflazione:

[6]L 𝑖 = 𝑟 + 𝜋𝑔 = 𝜌 + 𝜋

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dove r è il tasso di interesse reale, 𝜌 è il tasso di crescita reale del PIL e 𝜋 rappresenta l’inflazione.

Sostituendo la [6] nella [5] e semplificando i fattori si ottiene:

[7]�̇� = 𝑓 + (𝑟 − 𝜌)𝑏

Essendo la [7] una equazione differenziale di I ordine offre due soluzioni:

1. La prima soluzione è di lungo periodo e corrisponde alla soluzione in cui �̇� = 0:

[8]�̇� = 0 → 𝑏T =𝑓

𝜌 − 𝑟

2. La seconda soluzione, invece, è dinamica. È necessario risolvere un’equazione omogenea.

�̇� = (𝑟 − 𝜌)𝑏

�̇�𝑏 =

(𝑟 − 𝜌)

U�̇�𝑏 𝑑𝑡 =

U(𝑟 − 𝜌) 𝑑𝑡

𝑙𝑛𝑏(𝑡) + 𝑐Z = (𝑟 − 𝜌)𝑡 + 𝑐G

𝑙𝑛𝑏(𝑡) = (𝑟 − 𝜌)𝑡 + 𝑐𝑐𝑜𝑛𝑐 = 𝑐G − 𝑐Z

𝑏(𝑡) = 𝑒(]^_): ∙ 𝑒`

𝑏(𝑡) = 𝐴 ∙ 𝑒(]^_):𝑐𝑜𝑛𝐴 = 𝑒`

Sommando le due soluzioni si giunge alla soluzione completa:

[9]𝑏(𝑡) = 𝐴 ∙ 𝑒(]^_): + 𝑏T

Per trovare il valore di A si può partire dal valore iniziale di b(t)= b(0):

𝑏(0) = 𝐴 + 𝑏T𝑝𝑒𝑟𝑐𝑢𝑖𝐴 = 𝑏(0) − 𝑏T

La soluzione completa sarà pertanto:

[9𝑎]𝑏(𝑡) = d𝑏(0) − 𝑏Te𝑒(]^_): + 𝑏T

È interessante, poi, osservare cosa accade alla [9a] quando il tempo (t) tende all’infinito. Esistono due

casi:

1. 𝑟 > 𝜌 ⇒ 𝑏 ⟶ ∞

cioè quando il tasso di interesse reale è maggiore del tasso di crescita reale del PIL allora il

debito col passare del tempo cresce senza controllo. Il risultato è un debito insostenibile.

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Grafico 2 – Andamento del rapporto debito/PIL insostenibile

2. 𝜌 > 𝑟 ⟹ 𝑏 = 𝑏T

cioè quando il tasso di crescita reale del PIL è maggiore al tasso di interesse reale allora il

debito col passare del tempo diminuisce tendendo a 𝑏T. Il risultato è un debito sostenibile.

Grafico 3 – Andamento del rapporto debito/PIL sostenibile

Come ultima notazione si vuole sottolineare, rispetto alla [8], che se si è nell’impossibilità di poter

agire sul tasso reale di interesse (r) o sul tasso reale di crescita del reddito (𝜌), allora, si deve

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necessariamente agire sul fabbisogno primario (f). Lo Stato deve, quindi, o diminuire la spesa (G)

oppure deve aumentare le tasse (T) e, dunque, le entrate.

2.1.2 Il no-Ponzi game

Dopo aver analizzato i fattori che determinano la sostenibilità del debito pubblico di un Paese nel

lungo periodo, è interessante focalizzare l’attenzione su una particolare condizione che è nota come

no-Ponzi game. Come sarà illustrato nelle prossime righe, questa singolare condizione porta a pagare

il debito attraverso l’emissione di altro debito. È proprio questa la peculiarità che la rende tanto

interessante quanto improbabile da praticare.

Si ipotizzi che il tasso di interesse nominale (i) sia maggiore del tasso di crescita nominale del PIL

(g). Affinché si verifichi la condizione no-Ponzi game il debito pubblico (B) deve crescere in maniera

minore rispetto al tasso di interesse. In presenza di questi eventi il debito se attualizzato, come mostra

la [1], è pari a zero.

[1] lim:→op

𝐵:(1 + 𝑖): = 0

Ponendo l’attenzione sul rapporto debito su PIL, invece, il saggio di crescita dello stesso rapporto

deve essere inferiore rispetto a quello della differenza tra il tasso di interesse e il tasso di crescita del

reddito.

Il no-Ponzi game per avere successo necessita la creazione di una serie positiva di avanzi di bilancio

che se attualizzata è in grado di coprire il debito di partenza:

[2]𝐵q =r−(𝐹s − ∆𝑀s)(1 + 𝑖)s

p

suZ

in cui F è il fabbisogno primario e ∆M è la variazione della base monetaria del tesoro.

Grazie alla [1], uno Stato non deve più preoccuparsi di onorare il debito accumulato, ma al tempo

stesso è costretto a emettere altro debito per pagare gli interessi passivi.

Molte critiche sono mosse nei confronti del no-Ponzi game. Le maggiori annotazioni che vengono

fatte a questo modello sono due: la prima è quella per cui si riterrebbe solvente uno Stato il cui

rapporto debito su reddito possa aumentare all’infinito, a condizione che cresca meno di (i-g); la

seconda ritiene debole la spiegazione secondo cui lo stock di debito se attualizzato, quasi si

annullerebbe.

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2.1.3 La dinamica del debito pubblico

Dalla sezione 2.1.1 si è appreso che al fine di giudicare l’andamento nel tempo del rapporto del debito

sul PIL e analizzare la sostenibilità del debito stesso, bisogna monitorare tre fattori: il fabbisogno

primario (f), il tasso di interesse reale (r) e il tasso reale di crescita del reddito nazionale (𝜌).

Per comprendere meglio l’evoluzione del debito pubblico a partire dagli anni ’80, si osservi la tabella

6:

Tabella 6 – Fattori caratteristici riguardo l’andamento del rapporto debito/PIL espressi in

percentuale

Anno r 𝜌 f Rapporto

debito/PIL

1980 -7,91 4,26 9,72 58,95

1981 -5,70 0,58 11,60 61,09

1982 -3,35 0,23 14,07 66,40

1983 -2,24 0,95 14,33 71,99

1984 0,71 2,66 14,10 77,36

1985 2,31 2,55 14,70 84,26

1986 3,05 2,89 12,23 88,18

1987 3,68 3,13 11,60 92,53

1988 3,04 4,11 11,53 94,86

1989 3,91 2,92 11,19 98,04

1990 2,98 2,06 11,02 100,62

1991 3,11 1,13 11,42 104,19

1992 6,52 0,52 11,06 111,43

1993 6,42 -1,16 11,44 120,25

1994 5,42 2,11 10,20 124,79

1995 4,24 2,93 7,51 124,02

1996 4,58 1,15 6,16 123,94

Fonte: Marano, Angelo. Economia e Impresa, 8. La dinamica del debito pubblico. Un’analisi del caso italiano, 1980 –

1996. (pp. 23-24)

Analizzando i dati della tabella 7, il primo punto su cui bisogna soffermarsi è la differenza tra i tassi

di crescita reale del PIL e i tassi di interesse reale. Si possono individuare tre diversi intervalli di

tempo: il primo che va dall’80 al ’84 in cui i tassi di interesse sono negativi o nulli, mentre quelli di

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crescita, eccetto nel 1980, si trovano poco sopra lo zero; il secondo che va dal 1985 al ’90 in cui r e

𝜌 vanno di pari passo; il terzo periodo che comprende il quinquennio tra il ’91 e ’96 vede un enorme

gap tra tassi di interesse e quelli di crescita, con i primi che superano con costanza i secondi con una

consistenza tra il 2% e il 7%.

Il secondo punto da rimarcare è l’andamento del fabbisogno rispetto al PIL (f). A partire dagli anni

’80, come ricordato all’inizio del capitolo II, f assume un rilievo sempre maggiore: raggiunge prima

la decima parte del reddito, poi aumenta fino a toccare percentuali altissime attorno al 15%. Tra l’87

e il ’93 si stabilizza su quota 11% per poi iniziare a calare.

Il terzo elemento da considerare è la crescita del rapporto debito su PIL. Con il passare degli anni il

rapporto cresce vertiginosamente. Gli anni ’80 si aprono con una percentuale non preoccupante, in

quanto il livello del debito è di appena il 58% rispetto al PIL. Dopo solo un decennio, il debito

eguaglia il reddito per poi sorpassarlo negli anni ’90. A metà del decennio che precederà l’avvento

del nuovo millennio, il rapporto debito/PIL supera quota 120%.

In questo frangente i tassi non sembrano determina la grande crescita che si ha nel rapporto tra il

debito e il PIL. Ciò che realmente spinge questo tasso a crescere consistentemente è il fabbisogno

primario, che attestandosi su percentuali superiori al 10% diventa un grave per il debito. Appena f

comincia a calare nel 1994 anche il rapporto debito/PIL che fino a quell’anno era lievitato senza mai

fermarsi, inverte il trend.

Infine, dal punto di vista della storia economica e finanziaria dell’Italia emergono in particolare tre

eventi in questo quindicennio: l’introduzione nel 1979 del sistema monetario europeo (SME) per i

paesi della Comunità Europea (esclusa la Gran Bretagna in un primo momento), il cosiddetto

“divorzio” nel 1981 tra Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro e la ratifica del Trattato di Maastricht

agli inizi degli anni ’90.

2.2 Verso l’Euro

La sezione 2.2 tende ad analizzare cosa abbia significato per i Paesi europei, ed in particolare per

l’Italia, la ratifica del Trattato di Maastricht. Come già evidenziato in precedenza, questo Patto

rappresenta forse l’evento più importante per l’Europa e, dunque, anche per l’Italia. Risulta

fondamentale, non solo, perché si va verso l’adozione di una moneta unica, ma anche perché si cerca

di introdurre dei vincoli per aumentare la stabilità e la solidità dei conti pubblici dei vari Stati.

Nella prima parte di questa sezione saranno spiegati i parametri economici e finanziari introdotti dal

Trattato di Maastricht. Verranno, inoltre, approfondite le tematiche riguardati l’istituzione di una

nuova banca centrale e l’introduzione di sistemi di controllo rispetto ai patti concordati tra gli Stati.

Nella seconda parte, invece, si ripercorreranno le riforme e le nuove politiche adottate dai vari governi

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in Italia, affinché sia stato possibile l’ingresso nell’Unione monetaria. Si potranno apprezzare gli

sforzi compiuti dallo Stato per cercare di rientrare nella maggior parte degli obiettivi stabiliti.

2.2.1 Trattato Maastricht

Il Trattato di Maastricht è stato firmato nell’omonima città olandese nel 1992, per poi entrare in vigore

nel 1993. Questo Trattato rappresenta un passaggio fondamentale per la storia dell’Unione Europea

poiché porterà gli stati membri ad adottare una sola moneta: l’euro. Il documento ratificato prevede

una serie di vincoli da rispettare per i Paesi che formeranno l’area monetaria:

• Saggi di interesse nominali;

• Saggio di inflazione;

• Equilibrio nel cambio;

• Rapporto debito su PIL;

• Rapporto deficit su PIL.

I cosiddetti parametri di Maastricht possono essere raggruppati in due macro categorie: i primi tre

sono di natura monetaria, mentre gli ultimi due sono di natura fiscale.

La macro categoria di natura monetaria prevede in ambito di tassi di interesse nominali che sia fatta

la media dei tre paesi che hanno i prezzi più bassi, e che ad essa sia concessa una estensione massima

di 200 punti base. Per ciò che concerne il saggio di inflazione, ancora una volta, si considera la media

dei tre paesi che hanno conseguito i migliori risultati, e che essa non sia superata del 1,5%. Per

equilibrio nel cambio, infine, si vuole che i Paesi rispettino per due anni le condizioni di massima

fluttuazione previste dallo SME.

La macro categoria di natura fiscale, invece, stabilisce che, per i Paesi appartenenti all’area euro, il

rapporto debito su PIL e quello deficit su PIL non superino rispettivamente il 60% e il 3%. Il primo

indicatore mira a evidenziare la sostenibilità nel lungo periodo del debito di un paese, mentre il

secondo vuole rilevare la buona gestione. Emerge dal Trattato, inoltre, la possibilità da parte degli

Stati di poter sforare il rapporto deficit su PIL in casi straordinari e per un limitato periodo di tempo.

Tornando al valore scelto per il rapporto debito su PIL, non è altro che una media dei vari debiti

sovrani che gravano sugli Stati che prendono parte alla stesura del Trattato di Maastricht.

Per avere una visione complessiva della situazione economica e finanziaria si osservi la tabella 7 che

offre gli indici di alcuni dei 15 Paesi dell’Unione Europea nel 1994:

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Tabella 7 – Indici in percentuale di una parte dei Paesi UE

Inflazione Tassi di interesse Deficit/PIL Debito/PIL

Austria 3,6 6,4 -2,3 58,5

Finlandia 2,2 7,8 -5,5 58,0

Francia 1,8 6,9 -5,9 57,2

Germania 3,0 6,4 -2,9 57,2

Grecia 10,2 - -13,8 109,5

Italia 3,9 8,7 -9,7 118,3

Spagna 4,8 8,3 -7,1 64,2

Regno Unito 3,5 7,5 -9,1 92,9

Parametri 3,5 8,77 3,0 60,0 Fonte: Schilirò, Daniele. I criteri del Trattato di Maastricht, l’Europa e l’euro: debito pubblico in Italia e crescita. 2002.

Dalla tabella 7 emerge che per quanto riguarda il tasso di inflazione, tra i Paesi considerati, risultano

fuori dal parametro di riferimento l’Austria, la Grecia, l’Italia e la Spagna. Entrando nello specifico,

solo la Grecia presenta una pesante distorsione nell’indice dei prezzi con un valore quasi tre volte

tanto sopra il massimo consentito. Passando poi al tasso di interesse, tutti gli Stati considerati

rientrano nel parametro stabilito a Maastricht. Sul versante del rapporto deficit su PIL, anche in questo

caso, i Paesi rispettano il limite del 3%. Grave ritardo, invece, si registra nel rispetto del rapporto

debito su PIL, in particolare per l’Italia e la Grecia.

Tornando al Trattato di Maastricht, in esso sono contenute altre regole che vanno oltre i parametri

precedentemente analizzati. Alcune di esse sono le linee guida che porteranno alla nascita della Banca

Centrale Europea (BCE). Sono, inoltre, presenti sistemi per controllare il rispetto degli impegni presi

dagli Stati ed infine, vi è la no bail-out clause. Quest’ultima fa si che nel momento in cui uno degli

Stati entra in difficoltà economico – finanziarie non possa essere aiutato. La ratio è quella di non

trascinare in una recessione l’intera Unione.

Qualche anno dopo il Trattato di Maastricht, il Consiglio europeo si riunisce nella capitale olandese

per riaffermare e rafforzare i principi di stabilità e rigore già sanciti nell’accordo del 1992-93. Col

Trattato di Amsterdam, nel 1997, porta alla luce il Patto di Stabilità e Crescita. In esso viene

introdotto la Procedura per Disavanzi Eccessivi (PDE): un processo articolato in più fasi che culmina

in una pena inflitta allo Stato che non è virtuoso nei conti pubblici.

Nel 1998 undici Paesi tra cui l’Italia entrano ufficialmente a far parte dell’area euro. Solo questi,

infatti, hanno i requisiti minimi per adottare la nuova valuta. È così che nel gennaio del 1999 si compie

il primo passo verso quella che sarà una grande unione monetaria. Sempre in quell’anno acquisisce

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piena operatività la BCE: l’istituto con sede a Francoforte sul Meno è investito del compito di attuare

la politica monetaria. Il primo governatore della Banca è l’olandese Wim Duisenberg.

Ciò che emerge, infine, dall’analisi del Trattato di Maastricht e di quello di Amsterdam è che l’Europa

è dotata di una solida e indipendente istituzione quale è la BCE, ma soffre di un decentramento dei

poteri a livello economico e finanziario. Gli Stati sovrani mantengono, dunque, la supremazia nelle

decisioni di carattere fiscale. Tutto ciò si traduce in una frammentazione del potere e un conseguente

indebolimento della stessa Unione Europea. Il capitolo III tratterà ampiamente le fragilità del sistema

Europa rispetto alle crisi economiche.

2.2.2 Riforme e debito: l’adozione della moneta unica

Il passo più consistente compiuto dall’Italia e da altri Paesi europei verso la moneta unica, come già

ricordato, avviene tra il 1992-93 con la ratifica del Trattato di Maastricht. È in questo quadro che

l’Italia comincia a compiere una serie di riforme e provvedimenti mirati al raggiungimento dei criteri

stabiliti nel suddetto Patto. Il Paese, infatti, è chiamato ad ammodernarsi e rendere i suoi apparati

amministrativi più efficienti al fine di migliorare i propri conti pubblici.

Il Presidente Carlo Azeglio Ciampi dal 1993 si muove proprio in maniera da rafforzare il bilancio

statale e l’intero sistema economico. Attraverso un patto tra le parti sociale che prevede la limitazione

della crescita dei salari, ad esempio, riesce a frenare il continuo lievitare dei costi. Dopo qualche anno,

il risultato è evidente: l’inflazione italiana si attesta all’1,5%, uno tra i valori migliori tra tutti i Paesi

europei. L’esecutivo Ciampi, inoltre, riesce a incrementare il prodotto interno lordo del Paese,

aiutandolo così a centrare gli obiettivi di bilancio per entrare nell’area Euro.

Il successore di Ciampi è Lamberto Dini che cerca di proseguire nella “cura” del sistema economico

e finanziario italiano. Nel 1995 vara, infatti, un’importante riorganizzazione in ambito pensionistico

per consolidare il rapporto tra il debito e il PIL. Un altro punto chiave dell’era Dini è la crescita

enorme delle entrate tributarie. Il peso fiscale italiano attorno al 43%, a quell’epoca, è tra i più severi

di tutta Europa. Queste manovre economiche si sono rese necessarie per allineare il deficit e il debito

italiano a quelli dei Paesi più virtuosi.

Archiviata l’esperienza Dini, è la volta di Romano Prodi. Tra il 1996 e il 1998 vengono promosse

politiche di bilancio asprissime che fanno diminuire ancora il rapporto debito/PIL e il fabbisogno

della pubblica amministrazione in maniera da consentire all’Italia di poter adottare l’euro. Prodi si è

incaricato, inoltre, di risanare la disoccupazione che supera ampiamente l’11%. Particolarmente

drammatica è la situazione occupazionale dei giovani. L’insieme delle novità apportate in questo

settore passano alla storia come “pacchetto Treu” dal nome del suo ideatore il Ministro del Lavoro

Tiziano Treu.

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L’evoluzione del bilancio italiano nell’ultimo decennio del XX secolo può essere riassunta con la

tabella 8:

Tabella 8 – Bilancio pubblico italiano (espresso in percentuale rispetto al PIL)

1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000

Entrate 47,3 45,1 45,6 45,8 48,0 46,4 46,7 45,8

Spese 57,6 54,3 53,2 52,9 50,7 49,2 48,4 47,3

Spese per interessi 13,0 11,4 11,5 11,5 9,4 8,0 6,7 6,5

Disav. – Avan. Primario -2,8 -2,1 3,9 -4,4 -6,7 -5,2 -5,0 -5,0

Indebitamento netto 10,3 9,3 7,6 7,1 2,7 2,8 1,8 1,5

Fabbisogno complessivo 10,9 9,7 7,2 7,5 1,9 2,5 0,7 2,3

Debito 118,2 124,3 123,8 122,7 120,2 116,4 114,6 110,5 Fonte: Schilirò, Daniele. I criteri del Trattato di Maastricht, l’Europa e l’euro: debito pubblico in Italia e crescita. 2002.

Come si può notare grazie agli interventi dei governi Ciampi, Dini e Prodi i maggiori indicatori

presenti nella tabella 8 mostrano un trend positivo. La spesa pubblica si riduce di oltre il 10%, la

spesa per interessi si dimezza, l’indebitamento netto cala da oltre il 10% all’1,5% e anche il

fabbisogno complessivo dall’11% del 1993 arriva a poco più del 2%. Per ciò che concerne il saldo

primario, si nota che assume costantemente valori negativi. Il rapporto debito su PIL dopo aver

toccato il picco di 124,3% nel 1994 si riduce fino al 110,5% del 2000. Ciò che ha inciso maggiormente

in questa riduzione del rapporto debito/PIL è senz’altro sia la riduzione del tasso di interesse che ha

come conseguenza un minor onere in termini di uscite per lo Stato sia la crescita del prodotto interno

lordo che trovandosi al denominatore aiuta a ridurre il rapporto.

La valutazione che si può dare, almeno in questo primo periodo esaminato, riguardo l’adozione

dell’euro da parte dell’Italia e la conseguente maggior integrazione politica a livello sovranazionale

è assolutamente positiva.

2.3 L’Italia del 2000

I primi anni del nuovo Millennio si aprono con grandi speranze: la recente adozione della moneta

unica è sinonimo di stabilità e, dunque, fiducia da parte dei cittadini e dei mercati. In Itala dopo il

governo Prodi, il vincitore delle elezioni politiche del 2001 è Silvio Berlusconi. Il nuovo premier

eredita, dal punto di vista dei conti pubblici, una situazione di generale miglioramento rispetto al

decennio precedente. Questo è sicuramente dovuto alle varie riforme e alle politiche intraprese dai

governi precedenti per centrare gli obiettivi richiesti da Maastricht.

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Il governo Berlusconi rimane in carica per circa 4 anni. A capo del Ministero di Economia e Finanza

c’è Giulio Tremonti. La linea economica che guida il governo è quella della riduzione fiscale. Il

nuovo esecutivo vuole invertire la rotta in merito alla continua crescita delle tasse che aveva dominato

l’ultimo decennio del XX secolo ed era stata necessaria per stabilizzare deficit e debito. Come si

apprende, infatti, dalla tabella 9 la pressione fiscale scende dal 40,1% del 2001 al 39,1% del 2005.

Altre manovre importanti che vengono attuate sono: la riforma fiscale, l’innalzamento della soglia

minima mensile per le pensioni e la resa più flessibile del mercato del lavoro.

Nelle elezioni del 2006 la guida dell’Italia viene affidata nuovamente a Romano Prodi. A capo del

Ministero di Economia e Finanza viene nominato Tommaso Padoa Schioppa. L’ex vice direttore di

Banca d’Italia, considerato come un tecnico e dunque apartitico, nel 2007 si trova nelle condizioni di

dover varare una importante legge finanziaria. L’intento di Padoa Schioppa è quello di far accelerare

l’economia italiana. Nel 2008 dopo che il Senato toglie la fiducia al governo Prodi, il Premier si

dimette.

Nel complesso, osservando la tabella 9, si evince che il debito pubblico rispetto al PIL, ad eccezione

dell’anno 2001, si mantiene poco al di sopra del 100%. Il saldo primario, invece, che è la differenza

tra le entrate e le uscite dello Stato oscilla tra valori che vanno circa dallo 0,5% al 3,0%. Si nota,

successivamente, che la pressione fiscale cala di un punto percentuale durante il governo Berlusconi,

per poi risalire oltre il 41%. Il PIL, infine, appare quasi sempre in crescita tranne nell’anno 2003 in

cui è sostanzialmente fermo e nel 2008 che registra un segno negativo per via dello scoppio della crisi

mondiale finanziaria.

Tabella 9 – Debito, saldo primario e pressione fiscale (espressi in percentuale PIL)

2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008

Debito 104,7 101,9 100,4 100,0 101,9 102,5 99,7 102,3

Saldo primario 2,7 2,4 1,6 1,0 0,3 0,9 3,2 2,2

Pressione fiscale 40,1 39,7 40,0 39,3 39,1 40,2 41,5 41,3

PIL 1,8 0,5 0,0 1,5 0,7 2,0 1,5 -1,3 Fonte: Banca d’Italia e Istat

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3. Crisi dei debiti sovrani e intervento BCE

Nel III capitolo si procede per analizzare gli impatti delle crisi sul debito sovrano italiano. Si vuole,

poi, capire attraverso quali strumenti l’Europa può rispondere a ciò aiutando i Paesi membri ad uscire

da situazioni difficili. Appare significativo, in questo approfondimento, il ruolo che riveste la Banca

Centrale Europea. Si vuole, infine, studiare se la governance europea e più in generale il sistema

Europa è sufficientemente adeguato per agire prontamente a shock economici.

Il capitolo è suddiviso in tre sezioni: nella prima sarà presentata la crisi finanziaria che ha

destabilizzato l’economia mondiale tra il 2008 e il 2009, nella seconda si focalizzerà l’attenzione

sulla debolezza riguardo l’enorme debito pubblico italiano, e nell’ultima sezione verrà riportata la

grande manovra messa in atto dal presidente della BCE Mario Draghi.

3.1 Crisi finanziaria 2008/09

Per comprendere le ragioni dell’enorme crisi finanziaria che ha afflitto i mercati globali tra l’anno

2008 e 2009 bisogna analizzare l’economia americana. Gli Stati Uniti d’America alla fine del XX

secolo sono considerati come una super potenza sotto ogni profilo e, dunque, sono in grado di attrarre

capitali da tutto il mondo. Le non difficoltose concessioni da parte delle banche americane di prestiti

sia nei confronti dei cittadini sia nei confronti delle maggiori company, hanno avuto come

conseguenza l’insensata aspettativa che chiunque potesse comprare una casa e la continua ascesa

delle Borse. Particolarmente rischiosi sono i cosiddetti mutui subprime: concessioni di prestiti a

individui che, con ogni probabilità, non sono in grado di restituire l’intero ammontare e la cui unica

garanzia è l’immobile stesso.

Nel 2008 quando si inizia a capire che tutti questi prestiti non hanno fondamenta solide comincia il

panic selling: è l’inizio del crollo delle Borse. Tutte le economie ne risentono fortemente. Persino il

prezzo del greggio conosce la pericolosa altalena dell’incertezza passando dai 150 $ al barile a 40 $

per poi risalire a 100 $. Il culmine della crisi lo si raggiunge con il fallimento di una delle più

importanti banche d’affari mondiali: l’americana Lehman Brothers. Per la prima volta nella storia i

vari governi dei Paesi più potenti al mondo collaborano per combattere questa crisi che per via della

globalizzazione si è espansa a macchia di leopardo.

Per avere un’idea riguardo la portata della depressione che ha colpito le economie più sviluppate nel

mondo si guardi alla tabella 10.

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Tabella 10 – Tassi di crescita del PIL dei maggiori Paesi sviluppati nel 2009

Paese 2009

Stati Uniti -3,5

Giappone -5,5

Regno Unito -4,0

Germania -5,1

Francia -3,1

Italia -5,5 Fonte: De Simone, Ennio. Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica.

Come si apprende dalla tabella 10 le maggiori economie mondiali riportano pesantissime riduzioni

del PIL, tutte superiori al 3%. Le peggiori sono il Giappone e l’Italia con una contrazione del reddito

pari a 5,5%.

Soffermando l’attenzione sul caso italiano, a quel tempo, a dover fronteggiare questa situazione di

grave depressione vi è il governo Berlusconi, eletto nel maggio del 2008. L’esecutivo Berlusconi,

durante la sua legislatura, si trova a dover intraprendere una serie di manovre atte a arginare la crisi,

riordinare i conti statali per contenere l’enorme debito ed, infine, tornare sui mercati finanziari con

una maggiore credibilità. Tra i vari provvedimenti si ricordano: l’istituzione dell’Imposta Municipale

Unica (IMU), l’innalzamento dell’IVA e delle accise, tagli alla spesa pubblica.

L’ondata di crisi e le dure riforme e manovre avviate portano a un generalizzato impoverimento sia

da parte dei cittadini sia da parte delle imprese. La percentuale di popolazione a rischio povertà, come

riporta la dott.ssa Elisa Borghi in un suo studio, arriva a toccare quota 18%, mentre coloro che si

trovano in una situazione di estrema povertà raggiungono quasi il 7%. Ad aggravare la situazione,

già assai complicata, c’è l’occupazione. Il mercato del lavoro, infatti, in affanno non riesce a dare

spazio a nuovi posti di lavoro ed anzi il tasso di disoccupazione aumenta.

Il governo Berlusconi, dunque, cerca in un senso di aiutare le famiglie, ovvero, lo strato della

popolazione più in difficoltà, ma nell’altro per ridurre al minimo il deficit è costretto a far lievitare le

imposizioni fiscali. Sul fronte dell’aiuto ai nuclei familiari vengono introdotti: bonus famiglia, la

social card, incentivi e sgravi fiscali. Sul fronte, invece, del riordino dei conti pubblici è importante

ricordare la manovra correttiva del 2010 con cui si vuole ridurre il disavanzo del 2009 dal 5% a un

deficit pari al 2,7% nel 2012 [Borghi: L’impatto delle misure anti-crisi e la situazione sociale e

occupazionale. Italia.].

Nel 2011 il Governo italiano è costretto a compiere una serie di tagli alle uscite nella sanità e ad alzare

nuovamente la pressione fiscale. Si riscontra, inoltre, un aumento della tassazione sulle rendite

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finanziarie dal 12,5% al 20%, con l’esclusione dei titoli di Stato che mantengono la percentuale di

tassazione precedente con evidenti vantaggi.

Attraverso la tabella 11 si può notare come il debito pubblico in Italia sia cresciuto nonostante gli

sforzi promossi dal governo e sostenuti da cittadini ed imprese.

Tabella 11 – Debito in Italia (in % del PIL)

2008 2009 2010 2011

Debito 102,3 112,5 115,3 116,4 Fonte: Banca d’Italia

Com’è facile ipotizzare, a seguito della crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti nel 2008, il debito

italiano fa un enorme salto in avanti passando dal 102,3% del 2008 al 112,5% del 2009. Negli anni

successivi, il governo non riesce ad invertire il trend negativo e il rapporto debito su PIL continua la

sua pericolosa espansione.

3.2 Crisi debito sovrano italiano

L’onda lunga della crisi globale dei mercati finanziari del 2008 – 09 non sembra arrestarsi, al contrario

si mescola ad altri gravi problemi sviluppando una tragica congiuntura economica. Nel 2011, infatti,

molti Paesi dell’Unione Europea cominciano ad essere oggetto di attacchi speculativi senza

precedenti. La causa principale è dovuta al loro elevatissimo indebitamento. Ad essere colpiti

principalmente sono l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda.

La prima scintilla scoppia proprio nel Paese ellenico che presenta i conti pubblici in una totale

situazione drammatica: un debito che sfora il 140% del PIL e un disavanzo di oltre il 12%. Fin da

subito i titoli di stato greci vengono declassati fino ad arrivare al livello “junk bond”. La Grecia se

non converte repentinamente il suo apparato pubblico con pensanti riforme si avvia al default. Il tutto

si tramuta in una pericolosa spirale negativa che colpisce tutti i Paesi mettendo in serio pericolo

l’Eurozona.

Le istituzioni internazionali si muovono per affrontare il caso Grecia e proprio grazie all’intervento

del FMI e della BCE si riesce a evitare il peggio. Nonostante questo salvataggio in estremis la crisi

dei debiti sovrani si estende anche agli altri Paesi meridionali, e non solo, dell’Union Europea. A

metà 2011, anche in Italia, si inizia a seguire con sempre maggiore preoccupazione la situazione del

debito. La parola spread, che saggia la differenza tra titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, comincia

ad invadere tutte le maggiori testate dei giornali. In aggiunta a ciò, vi è una generale perdita di

credibilità da parte del Governo Berlusconi. È l’inizio della calda estate italiana del 2011 che porta

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una nuova instabilità sui mercati finanziari. I titoli del debito italiano vengono emessi con interessi

altissimi, e dunque, proporzionali al loro grande rischio. Con l’arrivo dell’autunno la situazione

diventa insostenibile e il Premier è costretto a dimettersi. Il Presidente della Repubblica Italiana,

Giorgio Napolitano, dopo aver nominato senatore a vita il Prof. Mario Monti, gli affida l’incarico di

comporre un governo privo di colore politico per far fronte alla crisi.

Il nuovo esecutivo composto da “tecnici” è chiamato a riportare stabilità e credibilità sui mercati. Lo

spread tra BTp e Bund tedeschi, di cui in precedenza si faceva riferimento, ha raggiunto livelli

insostenibili come dimostra il grafico 4:

Grafico 4 – Spread BTp – Bund 2011

Fonte: Borse.it

Nel 2011 il differenziale tra titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi ha un andamento

ascendente con picchi attorno ai 550 punti base. Questo provoca grandi difficolta nella gestione di un

debito pubblico enorme quale è quello dell’Italia. Per ristabilire l’ordine, dunque, Monti dà inizio a

nuovo periodo di dure riforme. Già a fine anno il Governa riesce a far approvare un importantissimo

provvedimento conosciuto come il “Salva Italia”. Come suggerisce il nome attribuitogli al decreto,

esso prevede una serie di novità in materia fiscale per far uscire il Paese dallo sprofondo in cui è

andato a finire.

La manovra, infatti, riafferma la tassa sulla prima casa (tra l’altro già riproposta dal governo

precedente), apporta modifiche al sistema previdenziale, cerca di supportare il mercato rendendolo

più flessibile e puntando sullo sviluppo. Di particolare rilievo per la tenuta dei conti pubblici italiani

è la riforma delle pensioni a firma Elsa Fornero, Ministro del lavoro e delle politiche sociali di quel

tempo. A grandi linee la riforma comporta il mutamento del modello di calcolo del sistema

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pensionistico da retributivo a contributivo e un adeguamento a rialzo per quanto riguarda l’età di

uscita dal mercato del lavoro.

Oltre al grande impegno dell’Italia nell’affrontare la situazione di crisi con alcune grandi riforme

pocanzi ricordate, vi è l’impegno anche di alcune istituzioni europee a stabilizzare la situazione

economico finanziaria che affligge i Paesi con un elevato debito pubblico. La Banca Centrale

Europea, con a capo dal novembre 2011 l’economista italiano Prof. Mario Draghi, risponde alla crisi

dei debiti sovrani lanciando la LTRO (Long Term Refinancing Operation). Con questa manovra la

BCE intende effettuare dei prestiti con una scadenza triennale. Ciò che viene considerato straordinario

in questa operazione è la durata temporale in quanto i prestiti di questa Istituzione sono solitamente

assai più brevi. Nel periodo della crisi dei debiti sovrani la BCE ha concesso due di queste operazioni:

una nel dicembre del 2011 e un’altra nel febbraio 2012. In tutto sono stati immessi nel sistema

europeo attraverso le banche più di 1000 miliardi di euro. Gli istituti di credito italiani hanno

particolarmente beneficiato da queste operazioni.

Grazie all’intervento del governo Monti e delle operazioni straordinarie compiute dalla BCE, l’Italia

è riuscita lentamente e con fatica a superare la crisi che l’aveva colpita. Lo spread, infatti, che nel

2011 superava la soglia dei 550 punti base, a inizio 2013 si più che dimezza tornando a quota 250

punti [Dati di Borsa.it].

Sul fronte del rapporto debito pubblico su PIL, invece, si registra ancora una volta un aumento dal

115,3% del 2010 al 123,2% del 2012 [Dati di Banca d’Italia – Grafico 1]. L’ascesa del debito è

determinata prima da un rallentamento, e poi da una contrazione del prodotto interno lordo e da una

spesa elevatissima di oneri passivi per via di tassi di interesse insostenibili come dimostra il

differenziale tra titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.

Infine, si può affermare che in linea generale la maggioranza dei Paesi dell’Eurozona, tra cui l’Italia,

si dimostra assolutamente fragile e non in grado di reagire prontamente agli attacchi speculativi. La

crisi dei debiti sovrani non è altro che la prosecuzione della depressione verificatasi nel 2008 in

seguito al crack del sistema finanziario americano.

3.3 Mario Draghi: Quantitative Easing

Aprendo lo sguardo alla totalità del mondo si evince che le banche centrali dei maggiori Paesi, per

dimensione e importanza economica, hanno reagito alle varie crisi che si sono succedute a inizio del

III millennio con stimoli monetari. Ecco allora che la FED (Federal Reserve System), la Boj (Bank of

Japan) e la BoE (Bank of England) ovvero rispettivamente le banche centrali di Stati Uniti, Giappone

e Regno Unito hanno iniettato liquidità nel sistema attraverso il Quantitative Easing. La BCE si è

allineata alla politica monetaria delle altre banche centrale solo a partire dal 2015.

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Il Sole 24 Ore definisce il QE come: “uno strumento non convenzionale di politica monetaria

attraverso il qualche una banca centrale acquista asset sul mercato secondario, principalmente titoli

di Stato, Abs e covered bond, per immettere liquidità nel sistema. L’obiettivo è facilitare, attraverso

il calo dei rendimenti, l’accesso al credito per imprese e famiglie”. Con questa manovra, dunque, si

vuole sostanzialmente aiutare l’economia reale a ripartire.

La presente sezione è divisa in tre parti: nella prima si propone il lancio da parte della BCE delle

politiche monetarie ultra – espansive, nella seconda sono riportate le fasi 2 e 3 che hanno ampliato e

potenziato la sopraindicata manovra ed infine, viene offerto un confronto tra i due istituti monetari

più importanti al mondo: la BCE europea e la FED americana.

3.3.1 Politiche monetarie non convenzionali ed il “Bazooka”

Per meglio comprendere come la Banca Centrale Europea sia arrivata ad adottare una politica

monetaria così tanto accomodante bisogna ripercorrere i primi mesi dall’insediamento alla BCE di

Mario Draghi. L’incarico del banchiere italiano risale al novembre del 2011. Draghi, fin da subito,

come ricordato nella sezione III.2, si trova a dover fronteggiare una situazione particolarmente

delicata: è l’era della crisi dei debiti sovrani. I PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) per

vari motivi, infatti, si trovano sotto pesanti attacchi speculativi. La finanza pubblica di questi paesi

risulta essere estremamente debole e vulnerabile.

È proprio in un momento così difficile, in cui la tenuta dell’Euro e dell’Europa appare sempre più

fragile, che il Presidente Mario Draghi annuncia: “The ECB is ready to do whatever it takes to

preserve the euro. And believe me, it will be enough” (“La Banca Centrale Europea è pronta a fare

tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà sufficiente”). Con questo discorso,

pronunciato nel luglio 2012 al Global Investment Conference di Londra, Draghi placa i turbolenti

mercati finanziari e dà inizio a quella nuova fase per l’Euro caratterizzata da misure di politica

monetaria non convenzionali.

Gli strumenti che ha a disposizione la BCE per attuare la sua politica espansiva sono diversi: dal

taglio dei tassi ufficiali alle operazioni LTRO (e successivamente anche dalle cosiddette T-LTRO)

fino ad arrivare al famigerato quantitative easing. Già tra la fine del 2011 e inizio 2012 la BCE

attraverso due tranche di long term refinincing operation (LTRO) fornisce al sistema bancario

europeo circa 1000 miliardi di €. Queste operazioni consistono nel concedere dei finanziamenti, a

tassi particolarmente vantaggiosi, fino a 3 anni da parte dell’Istituto monetario centrale alle banche

europee. Di contro gli istituti finanziari devono prestare delle garanzie, conosciute sotto il nome di

“collaterali” (da collateral), solitamente individuabili nelle obbligazioni emesse dagli Stati sovrani.

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L’effetto primario che si può apprezzare è un miglioramento generale e una stabilizzazione del

sistema finanziario.

Sorpassato il periodo della crisi dei debiti sovrani, il problema più grande che si viene a consolidare

è quello dell’inflazione. Come si può notare, infatti, dal grafico 5 il tasso Harmonised Index of

Consumer Prices (HICP), che misura l’inflazione per la BCE, indica come dal 2011 in poi si sia

contratto fino ad azzerarsi.

Grafico 5 – HICP in Europa tra il 2010 e il 2015

Fonte: Eurostat

Bisogna tenere presente che nel mandato della BCE è previsto che l’indice HICP si avvicini e si

mantenga leggermente al di sotto del 2%. Ci sono vari motivi per cui un tasso di inflazione, seppur a

livelli minimi, porti notevoli benefici. Una prima considerazione parte dal fatto che se si è in

deflazione, ovvero quando il tasso di inflazione è negativo, le persone preferiscono aspettare piuttosto

che compiere degli acquisti che non siano strettamente necessari, poiché le aspettative generali dei

prezzi sono a ribasso. Questo creerebbe una spirale molto negativa nell’economia reale, perché se la

maggioranza della popolazione inizia a rinviare gli acquisti il mercato tende a fermarsi con tutto ciò

che ne consegue. Il secondo punto nevralgico riguarda proprio il debito. L’inflazione, infatti, è il

miglior alleato per tutti quei Paesi ad alto debito sovrano. L’indice HIPC, dunque, quando è

leggermente positivo fa si che si abbia una redistribuzione tra debitore e creditore a favore del primo.

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Ciò risulta molto importante poiché va in aiuto ai Paesi concedendogli maggior spazio e tempo per

attuare riforme strutturale e rientrare dall’elevato indebitamento.

Una volta compreso il quadro drammatico in cui versa l’Europa e l’Eurozona, la BCE decide di

intervenire con maggiore incidenza. È così che nella seconda metà del 2014 che l’istituto con a capo

il Presidente Draghi comunica e da inizio ad un nuovo piano di acquisti di titoli privati come gli Abs

e i covered bond. Inoltre, avvia anche operazioni T-LTROs (Targeted – Long Term Refinincing

Operations). Queste ultime consistono in operazioni di rifinanziamento simili alle LTRO,

precedentemente spiegate, ma in aggiunta la BCE chiede alle banche che ricevono i prestiti di

dimostrare che quelle risorse siano state effettivamente girate a imprese, famiglie, cittadini ecc. Il

chiaro obiettivo di questa manovra è far arrivare all’economia reale i finanziamenti concessi

dall’Istituto centrale agli intermediari finanziari. Come conseguenza si avrebbe una ripartenza dei

mutui, dunque degli acquisti, per poi arrivare ad un innalzamento dell’inflazione.

Data l’eccezionalità del momento, nonostante gli enormi sforzi prodotti dalla BCE la situazione non

sembra muoversi verso orizzonti più felici. Così verso la fine del 2014 Mario Draghi, nelle varie

dichiarazioni ufficiali dell’Istituto da Lui presieduto, inizia a ipotizzare l’utilizzo dello strumento più

potente che si possa riferire ad una banca centrale: il quantitative easing. L’annuncio del QE lo si ha

il 22 gennaio del 2015, dopo un acceso dibattito nel consiglio direttivo della Banca. Il “Bazooka”,

così lo hanno soprannominato i quotidiani, prevede l’acquisto di titoli emessi dagli Stati con scadenza

tra i 2 e i 30 anni. L’ammontare totale stimato dell’operazione straordinaria si aggira attorno ai 1140

miliardi di euro. La manovra inizia nel marzo 2015 e durerà almeno fino a settembre 2016. Gli

obiettivi primari sono quelli di far tornare l’indice HICP verso il 2% e una crescita sostenuta tra i

paesi membri.

Nello specifico il programma lanciato dalla BCE prevede l’acquisto di 60 miliardi di euro al mese

ripartiti sia in titoli pubblici sia in titoli privati, con una maggior rilevanza dei primi (circa 40 mld.)

sui secondi. Analizzando più nel dettaglio la situazione italiana: la Banca d’Italia dovrebbe acquisire

circa 130 miliardi di titoli pubblici italiani.

Gli effetti prodotti dalle manovre attuate dalla BCE sullo scenario macroeconomico sono molteplici:

la riduzione dei differenziali tra i titoli pubblici dei vari paesi membri rispetto ai bund tedeschi di

riferimento, un deprezzamento dell’euro rispetto alle altre principali valute, una maggior quantità di

investimenti e una spinta ai consumi.

Cominciando dall’assottigliarsi dello spread tra titoli di stato italiani (BTp) e bund tedeschi, si può

osservare il grafico 6 che ben descrive il trend positivo per l’Italia a seguito delle politiche monetarie

espansive:

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Grafico 6 – Spread BTp – Bund

Fonte: Fantozzi, Daniela e Vicarelli, Claudio. Il monitoraggio degli effetti della politica monetaria: Il Quantitative easing

Il differenziale passa dai 167 punti base della fine del 2014 ai 97 del marzo 2015. Questo ha

importantissime conseguenze per l’Italia poiché permette al Tesoro di corrispondere interessi sui titoli

del debito pubblico di nuova emissione molto inferiori rispetto a prima della manovra. Il guadagno

stimato che si ha per la finanza pubblica italiana è pari a 6 miliardi per il 2015 e 8 per il 2016.

Un altro aspetto di particolare rilevanza è la svalutazione dell’euro nei confronti delle altre valute e

nello specifico con il dollaro. Il grafico 7 offre l’andamento del tasso di cambio euro/dollaro:

Grafico 7 – Tasso di cambio euro/dollaro

Fonte: Fantozzi, Daniela e Vicarelli, Claudio. Il monitoraggio degli effetti della politica monetaria: Il Quantitative easing

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Come si può facilmente notare l’euro si deprezza notevolmente a seguito del lancio del QE; il tasso

di cambio euro/dollaro passa da 1,25 di fine 2014 a 1,10 di marzo 2015. Questa seconda implicazione

ha pesanti seguiti nell’export dell’eurozona. Le imprese, infatti, traggono enormi vantaggi ad

esportare con una moneta più debole; ne consegue un miglioramento dei bilanci delle società.

Come ultimo punto da sottolineare è che il QE permette la facilitazione degli investimenti da parte

delle imprese grazie ai tassi ai minimi e una maggiore erogazione del credito alle famiglie. Il tutto si

traduce in una maggiore fiducia sia per quanto riguarda l’economia reale sia sui mercati finanziari.

Un segnale positivo è dato anche dall’indice del FTSE MIB che, come viene evidenziato nel grafico

6, segna un + 22,8% nel periodo che va dal novembre 2014 ad aprile 2015.

3.3.2 Quantitative Easing fase 2 e 3

Nonostante le misure straordinarie messe in atto dalla Banca Centrale Europea, nel 2015 l’economia

dell’Eurozona sembra non riuscire a ripartire e, anche, l’obiettivo primario di raggiungere quota 2%

di inflazione appare allontanarsi. Tutto ciò si deve a una serie di fattori macroeconomici e geopolitici

che si intrecciano fra loro causando questa situazione di assoluto stallo.

Uno tra i fattori che più incidono sul mancato rialzo dei prezzi è l’andamento delle quotazioni del

petrolio. Il grafico 8 fornisce una chiara idea di come si sia mosso il prezzo del petrolio negli ultimi

mesi:

Grafico 8 – Andamento prezzo del petrolio

Fonte: Bloomberg

Il trend del petrolio da metà 2014 è ribassista: da un valore che si trovava sopra i 100 $ si è arrivati a

metà 2015 attorno a 40 $ con un deprezzamento pari al 60%. Le ragioni per questa caduta sono le più

varie: dalla volontà del cartello OPEC di non voler tagliare la produzione di petrolio al patto sul

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nucleare tra USA e altri paesi occidentali con l’Iran. Quest’ultimo fa si che l’Onu revochi una serie

di sanzioni all’Iran e ciò gli consente, dunque, di poter esportare il proprio “oro nero”, di fatto

andando ad aumentare l’offerta, già elevatissima, di petrolio.

È proprio con questa premessa e sulla base di altri squilibri macroeconomici che la Banca Centrale

Europea decide di dare inizio alla fase 2 del Quantitative Easing al fine di centrare gli obiettivi del

proprio mandato. Draghi, nel dicembre 2015, opta per una estensione di sei mesi rispetto al QE1,

portando il programma di acquisto titoli a coprire anche l’inizio del 2017. Il board della Banca

Centrale, poi, amplia l’acquisto anche ad altre categorie di titoli come, ad esempio, le obbligazioni

diffuse dagli enti locali o dalle regioni. La BCE per accentuare la sua politica ultra – espansiva decide,

inoltre, di tagliare ancora una volta il tasso sui depositi interbancari dal -0,2% al -0,3%. Ancora una

volta si attuano misure al fine di far ripartire il credito nell’Eurozona. Nonostante il grande impegno

della massima istituzione monetaria europea, i mercati finanziari rispondono in maniera negativa,

poiché le attese erano per una ancor maggiore incisività.

I primi mesi del 2016 non sembrano essere forieri di buone notizie. Il quadro macroeconomico è

leggermente migliore rispetto all’anno precedente, ma ancora l’Europa non sembra avviarsi verso

una crescita più decisa e sostenibile e, l’indice HICP è ancora lontano da quel 2% fissato dalla BCE.

Draghi è costretto ad intervenire nuovamente e ad aprire la fase 3 del Quantitative Easing il 10 marzo

2016. La BCE decide, dunque, di aumentare la quantità mensile di acquisto titoli da 60 miliardi a 80

miliardi. Un’altra grande novità è che l’Istituto con sede a Francoforte amplia la gamma di titoli

acquistabili anche alle società differenti dagli istituti finanziari, a patto che il loro rating si trovi a

determinati livelli. Draghi porta, poi, alla nullità il saggio di riferimento; taglia ancora il tasso sui

depositi interbancari dal -0,3% al -0,4% ed, infine, taglia ulteriormente il marginal lending facility

dal 0,3% al 0,25%. Il QE3 prevede, inoltre, l’incremento della soglia massima dal 33% al 50% per

l’acquisizione di obbligazioni per ogni emissione. L’Istituto, poi, annuncia l’emissione di quattro

nuovi T-LTRO a partire dalla seconda metà del 2016. L’inizio previsto per il lancio della nuova

manovra è aprile 2016.

La BCE ha, sicuramente, spinto oltre ogni limite la sua politica monetaria espansiva per cercare di

raggiungere gli obiettivi per cui è stata fondata. Attualmente è ancora troppo presto per stabilire se le

recenti manovre introdotte con il QE3 siano tanto efficaci da portare l’Europa fuori da una crisi senza

precedenti.

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3.3.3 Confronto FED – BCE

Per comprendere se e in che misura le mosse della Banca Centrale Europea siano state efficaci e

tempestive al fine di aiutare l’economia del Continente a ripartire, non si può non condurre un

confronto tra quest’ultima e la Federal Reserve, ovvero la banca centrale degli Stati Uniti.

Il punto di partenza di questa analisi è rappresentato dai valori fondativi e gli obiettivi delle due

istituzioni. La BCE ha come compito principale il controllo dei prezzi, cioè il monitoraggio del livello

di inflazione (attraverso l’indice HICP) presente in Europa. Questo implica che l’Istituto con sede a

Francoforte si occupi di controllare e gestire l’ammontare di denaro presente nell’economia.

Dall’altra parte, invece, la FED ha un duplice incarico primario: sia quello di far si che si raggiunga

la massima occupazione possibile, sia quello di garantire la stabilità dei prezzi. Questo significa che

la banca centrale USA affianca il proprio Governo nella “ricerca della felicità” (diritto e concetto

presente nella costituzione americana) da garantire ai propri cittadini.

Condotta questa premessa, si può continuare il confronto tra FED e BCE arricchendolo con la

variabile tempo. La reazione della Banca centrale degli USA è molto più rapida rispetto a quella

europea. La FED, infatti, assieme alla BoE comincia ad adottare manovre ultra – espansive poco dopo

la tremenda crisi dei muti sub-prime, quindi già a partire dal 2009. La massima istituzione europea a

livello monetario, invece, per via del suo obiettivo principale (come ricordato in precedenza il

controllo dei prezzi) e per via di resistenze interne da parte di alcuni Paesi membri si è mossa con

ritardo. Nel 2011 ha intrapreso politiche monetarie espansive, arrivando a lanciare il primo QE solo

nel 2015.

Un ulteriore punto cardine per il confronto è la quantità di moneta iniettata nel sistema economico da

parte delle due banche centrali. Per comprendere meglio ciò bisogna osservare i seguenti grafici:

Grafico 9 – Bilancio Federal Reserve

Fonte: Federal Reserve

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Grafico 10 – Bilancio Banca Centrale Europea

Fonte: Il Sole 24 Ore

Come mostra il grafico 9, la FED nell’arco di sei anni ha quintuplicato il suo bilancio passando da

circa 800 miliardi di asset a più di 4000 miliardi. Il grafico 10, invece, illustra come la BCE abbia

toccato il suo livello massimo di espansione di bilancio nel 2012 (con una punta di 3100 miliardi €)

per poi scemare e riprendere velocemente a crescere a partire dal 2015 in concomitanza del lancio

del QE. Con le manovre recentemente adottate, la BCE si appresta a superare il bilancio raggiunto

nel 2012.

Infine, si può sostenere che la BCE si sia mossa nel pieno rispetto dei suoi valori fondativi. Per via di

attriti interni e di una ancora imperfetta integrazione a livello europeo, la BCE non ha avuto il modo

di agire con la stessa prontezza della FED americana, ma è comunque riuscita a dar vita a un

programma molto importante e di vitale aiuto ad alcuni Paesi membri.

3.3.4 Effetti manovra BCE

Come è già stato affermato nella III.3.2, è ancora troppo presto per stabilire con esattezza tutti gli

effetti che si genereranno grazie alla politica monetaria messa in campo dalla Banca Centrale

Europea.

Attualmente è possibile fare solo alcune previsioni riguardo i Paesi facenti parte dell’Eurozona. Più

in particolare, le implicazioni delle manovre straordinarie si possono distinguere tre aree principali:

macroeconomici, aspettative di inflazione e riguardanti l’economia reale.

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Cominciando dagli effetti macroeconomici, si osservi il grafico 11:

Grafico 11 – Implicazioni macroeconomiche

Fonte: ECB Policies Effective in the Euro Area and Germany (ECB Effective).

Da questa serie di grafici si apprendono i possibili (è bene sottolineare che sono delle previsioni)

effetti riscontrabili in ambito macroeconomico. Fin da subito si comprende che nei primi mesi in tutte

e quattro le proiezioni si ha un miglioramento generale degli indicatori presi in esame e poi questo va

scemando assieme alla manovra della BCE. Come si nota, il credito alle imprese non finanziarie

dovrebbe aumentare sensibilmente, l’indice HICP particolarmente importante per la Banca Centrale

tende al tanto desiderato 2%, il PIL reale cresce a tassi più sostenuti ed, infine, il saggio di

disoccupazione crolla.

Passando, ora, agli effetti in merito alle aspettative di inflazione si osservi il grafico 12:

Grafico 12 – Implicazioni sulle aspettative di inflazione

Fonte: ECB Policies Effective in the Euro Area and Germany (ECB Effective).

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L’indice dei prezzi al consumo (CPI) beneficia delle manovre provenienti da Francoforte: il saggio,

infatti, passa da valore negativo a un valore positivo attorno all’1%. Anche in questo caso, dunque,

si coglie una implicazione positiva per l’economia europea.

Infine, si osservi il grafico 13 che offre delle previsioni in merito ad alcuni indici dell’economia reale:

Grafico 13 – Implicazioni economia reale

Fonte: ECB Policies Effective in the Euro Area and Germany (ECB Effective) (p. 89)

È ben riscontrabile che anche nell’economia reale sono previsti importanti effetti positivi dovuti alla

politica monetaria ultra – espansiva. L’indicatore delle vendite al dettaglio registra un balzo positivo,

anche la produzione industriale ne risente felicemente dello stimolo monetaria aumentando il suo

saggio, l’indice che misura le immatricolazioni di auto denota un’ampia crescita ed, infine, un

importante incremento si rileva negli ordini alla manifattura. Ancora una volta, va sottolineato il fatto

che in tutti gli indici presenti nel grafico 13 si ha un primo momento particolarmente positivo dovuto

all’avvio della manovra e, poi, uno calante per via dell’esaurirsi della stessa.

Gli effetti prevedibili dovuti alla politica monetaria accomodante della BCE, in tutte e tre le aree

analizzate (macroeconomia, inflazione ed economia reale), risultano fortemente positivi.

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Conclusioni

L’obiettivo primario di questo elaborato è stato quello di capire, attraverso l’analisi del caso italiano,

in che misura un debito monster possa essere considerato sostenibile e se un Paese altamente

indebitato possa porvi rimedio senza una totale integrazione a livello europeo.

Di particolare rilievo appare lo studio condotto nel capitolo 2 in merito alla sostenibilità di un debito

tenendo presente l’equazione dinamica che descrive l’andamento del rapporto debito su PIL nel

tempo. In quest’ottica si è appreso che per far si che uno Stato sia in grado di onorare i propri debiti

è necessario che: o si intervenga sul proprio fabbisogno (il che significa maggiore tassazione o minore

spesa pubblica) o che il tasso di crescita reale del PIL sia maggiore del tasso di interesse reale. La

prima questione è attuabile facilmente all’interno di un singolo Stato, mentre la seconda non è

controllabile direttamente.

Ciò che serve, allora, per garantire una maggiore stabilità e una certa prosperità sia a livello di conti

pubblici sia a livello di crescita e sviluppo è senz’altro una maggiore integrazione a livello europeo.

Come si è visto nel capitolo 3, la BCE, che attualmente è una delle poche istituzioni a livello europeo

ad avere pieni poteri, con la sua politica monetaria è riuscita ad acuire i danni devastanti delle crisi

sistemiche. Inoltre, più di una volta è riuscita ad attenuare diversi attacchi speculativi verso i Paesi ad

alto indebitamento, si ricordi la crisi dei debiti sovrani. Molto importante è, anche, l’intervento di

alleggerimento monetario (QE) messo in atto in questi mesi. È certo che la politica monetaria, da

sola, non possa salvare gli Stati dal loro elevato indebitamento.

Si deve andare, dunque, verso una cessione di poteri nazionale in favore dell’Unione Europea: è

proprio questo il cammino che si sta cercando faticosamente di percorrere. Ultimamente è in atto un

processo che porterà all’unificazione bancaria con l’annessa condivisione del rischio. Questo

rappresenta un passo significativo che può contribuire a dare un aiuto a tutti quei Paesi membri che

si trovano in condizioni finanziarie di maggiore precarietà.

È chiaro che tutto ciò ancora non è sufficiente e che c’è bisogno di uno sforzo ulteriore. Molto

interessante appare la proposta di medio – lungo periodo fatta dai governatori delle banche centrali

di Francia e Germania rispettivamente François Villeroy de Galhau e Jens Weidmann. I due banchieri

ipotizzano la creazione di un “Tesoro comune” e un “consiglio fiscale indipendente” così da

avvicinarsi verso una tanto ambita armonizzazione in materia fiscale. Questa idea rientrerebbe in un

piano più ampio che prevede una riforma dell’intera governance europea. Un ulteriore consiglio

proveniente da Villeroy de Galhau e Weidmann è quello di un mutamento sia in ambito finanziario

sia in quello degli investimenti. Questo cambiamento, secondo i due economisti, sarebbe

propedeutico a una maggiore spinta verso la condivisione delle instabilità provenienti dal sistema

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finanziario. Tutto ciò garantirebbe un certo margine per avere una maggiore audacia negli

investimenti nel campo della ricerca e dell’innovazione.

Infine, la soluzione che si evince da questo elaborato è quella di avere una forte Unione Europea,

caratterizzata da una condivisione dei rischi tra tutti i Paesi membri e la massima agibilità delle

Istituzioni comuni. Tutto ciò, unito a una più attenta spesa pubblica a livello nazionale, senza

commettere gli errori del passato, porterà ad avere un unico debito sostenibile.

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Bibliografia

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