Pamela Parenti, dal saggio “Agli orli della vita” i miti...

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Pamela Parenti, dal saggio “Agli orli della vita” i miti dei Giganti della montagna e della Favola del figlio cambiato, in Florinda Nardi (a cura di), “L’emozione feconda”. Pirandello e la creazione artistica, Roma, Nuova Cultura, 2008. 1. La genesi dei Giganti della montagna. L’intera opera pirandelliana si offre agli occhi di critici e di lettori come un vasto magma in continuo rimescolamento: un’immensa distesa di temi, di soggetti, di idee, di personaggi, di luoghi e di atmosfere ricorrenti, in perenne svolgimento attraverso lettere, versi, novelle, romanzi e drammi. Usando una metafora che richiama la definizione di Krysinski 1 , ma se ne discosta per le ragioni del contenuto, si potrebbe dire che la produzione pirandelliana disegni una “parabola inquieta”, un percorso cioè, quello della creazione artistica, avvertito e realizzato dallo scrittore spesso attraverso turbolenze e lacerazioni interiori che si rispecchiano nell’intricata struttura labirintica delle sue opere. Autocitazioni, rimaneggiamenti e riprese di sequenze tematiche, di germogli narrativi o di intere novelle, all’interno di romanzi e drammi, sono gli elementi costitutivi e caratterizzanti la poetica, e la poietica, di Luigi Pirandello. È il gioco costante delle dicotomie, delle contrapposizioni fondamentali di “arte” e “vita” da una parte, tanto immortale e immutabile l’una quanto più caduca e in divenire la seconda, e “vita” e “forma”dall’altra, gioco mesto, e spesso disperato, che trova la propria realizzazione 1 Nel saggio Il paradigma inquieto. Pirandello e lo spazio comparativo della modernità , Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988, Wladimir Krysinski sottolinea come l’intera produzione pirandelliana sia complessa e articolata in difficili strutture polisemiche, divenute paradigmatiche per la produzione teatrale del Novecento seguita a Pirandello stesso.

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Pamela Parenti, dal saggio “Agli orli della vita” i miti dei Giganti della montagna e della Favola del figlio cambiato, in Florinda Nardi (a cura di), “L’emozione feconda”. Pirandello e la creazione artistica, Roma, Nuova Cultura, 2008.

1. La genesi dei Giganti della montagna.

L’intera opera pirandelliana si offre agli occhi di critici e di lettori come un vasto

magma in continuo rimescolamento: un’immensa distesa di temi, di soggetti, di idee, di

personaggi, di luoghi e di atmosfere ricorrenti, in perenne svolgimento attraverso lettere,

versi, novelle, romanzi e drammi. Usando una metafora che richiama la definizione di

Krysinski1, ma se ne discosta per le ragioni del contenuto, si potrebbe dire che la produzione

pirandelliana disegni una “parabola inquieta”, un percorso cioè, quello della creazione

artistica, avvertito e realizzato dallo scrittore spesso attraverso turbolenze e lacerazioni

interiori che si rispecchiano nell’intricata struttura labirintica delle sue opere. Autocitazioni,

rimaneggiamenti e riprese di sequenze tematiche, di germogli narrativi o di intere novelle,

all’interno di romanzi e drammi, sono gli elementi costitutivi e caratterizzanti la poetica, e la

poietica, di Luigi Pirandello. È il gioco costante delle dicotomie, delle contrapposizioni

fondamentali di “arte” e “vita” da una parte, tanto immortale e immutabile l’una quanto più

caduca e in divenire la seconda, e “vita” e “forma”dall’altra, gioco mesto, e spesso disperato,

che trova la propria realizzazione nel congegno di specchi e di echi all’interno di molte opere

dello scrittore siciliano.

I giganti della montagna è forse l’opera in cui questo modus scribendi si realizza in

maniera più radicale e più “parabolica”, quasi esasperata, a tal punto da occupare, con fasi

alterne, gli ultimi otto anni della vita di Pirandello, senza, tuttavia, concludersi. I Giganti è

un’opera complessa per più ragioni: dalla estrema stratificazione dei significati, che si esplica

nell’artificio dell’allegoria continua, alla varietà dei temi trattati, che pare rappresentare una

summa dell’intera produzione pirandelliana, alla forte componente autobiografica presente nei

personaggi e negli argomenti e, infine, alla rete di legami intertestuali tra il dramma, altri

drammi, la novella e il libretto per il melodramma di Malipiero.

La trama drammaturgica dei Giganti è andata faticosamente delineandosi nell’arco degli

ultimi anni di vita del suo autore, attraverso un articolato e sofferto lavoro di gestazione e di

stesura. Roberto Alonge ha assimilato questo difficile processo di scrittura dell’ultima opera

1 Nel saggio Il paradigma inquieto. Pirandello e lo spazio comparativo della modernità, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988, Wladimir Krysinski sottolinea come l’intera produzione pirandelliana sia complessa e articolata in difficili strutture polisemiche, divenute paradigmatiche per la produzione teatrale del Novecento seguita a Pirandello stesso.

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pirandelliana alla celebre tela di Penelope, in continua tessitura e perenne disfacimento.

Pirandello – scrive Alonge - usa il testo dei Giganti come:

[…] mega-testo, come testo di riferimento, mappa di orientamento, sorta di officina mentale, di deposito dell’immaginario dove il pubblico e il privato si saldano e si confondono, le frustrazioni professionali e quelle amorose, Mussolini e Marta Abba. I Giganti sono la tela di Penelope che l’autore tesse di giorno e disfa di notte. Disfacendola Pirandello ne trae via via frammenti su cui innesta nuovi testi2.

La genesi dei Giganti, infatti, accompagnò il drammaturgo siciliano quasi come una

sorta di diario esistenziale, nel quale registrare episodi autobiografici, riflessioni poetiche,

estetiche e teosofiche, insieme a momenti di estrema creatività artistica. Ma tutti questi

elementi faticavano a trovare una forma definitiva nell’ultimo mito, dal quale si distaccavano

per prendere nuova e più definita consistenza in altri lavori.

Perciò durante il lungo periodo di lavoro che impegnò Pirandello nella stesura del suo

ultimo dramma, videro la luce molti altri lavori, come s’è detto, diversamente legati ai

Giganti: Come tu mi vuoi, andato in scena il 18 febbraio del 1930; Trovarsi, rappresentato il 4

novembre del 1932; Quando si è qualcuno, il 20 settembre 1933; La favola del figlio

cambiato, melodramma in cinque quadri sulla musica di Malipiero, gennaio/marzo 1934; Non

si sa come, dicembre 1934. Ma dei Giganti uscirono su riviste soltanto il I atto, nel 1931, e il

II atto, nel 1934, e lo schema del finale è giunto sino a noi, per mano di Stefano Pirandello,

figlio del drammaturgo, al quale il padre morente dettò qualche indicazione.

La difficile genesi dei Giganti riflette la complessità del testo, come scrive Alonge, si

tratta di un lavoro: «complesso ed enigmatico. Anche a sfogliare la cipolla, non si arriva mai

al nucleo centrale. I Giganti sono sfuggenti […] »3. L’artificiosità e la stratificazione del testo

si traducono sulla scena in scenografie macchinose, ricche di “effetti” (di luce, di colore,

nonché sonori) e nell’impegno di numerosi attori, per una messinscena che lo stesso

Pirandello sapeva di difficile realizzazione, almeno per le scene italiane:

Fu questa anche la causa del continuo indugiare dell’autore, consapevole che un testo

come quello dei Giganti non sarebbe stato facilmente compreso da un pubblico immaturo,

“primitivo”, come lo stesso Pirandello usava definirlo, incapace di comprendere il linguaggio

nuovo, quasi onirico, che permeava l’intera opera.2 ROBERTO ALONGE, I giganti della montagna nella scena europea del Novecento, in ENZO LAURETTA (a cura di), I giganti della montagna. Progetto per un film. Agrigento, Edizioni Centro Nazionale Studi Pirandelliani, 2004, pp. 17-31, pp. 22-23. 3 ROBERTO ALONGE, cit., p. 20.

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2. Cotrone e la montagna

Villa, detta “La Scalogna”, dove abita Cotrone coi suoi Scalognati.[…]4.

L’incipit della sceneggiatura pirandelliana si sofferma a illuminare l’elemento centrale,

il fulcro dell’intera pièce: la villa “Scalogna” e il suo ospite, Cotrone. La meticolosità con cui

sono tracciate le coordinate topografiche, conferisce ai luoghi e allo spazio scenico una

semantica profonda e li offre a una lettura allegorica che, come si diceva sopra, accompagna

tutto il testo. Già nella prima pagina, Pirandello disegna il quadro della scena collocandovi le

chiavi simboliche per leggere l’intero dramma: Cotrone e la villa da un lato, il ponticello

(piccolo, esile e pericolante) che collega la villa “alle falde boscose della montagna” e, infine,

la montagna. Tutto però è avvolto, oltre che dalla flebile luce della sera, anche da uno “strano

canto”, “balzante” che fugge come “un cavallo ombrato”. C’è qualcosa di ‘strano’, di desueto,

qualcosa che rende questo luogo lontano dalla realtà comune e quotidiana del ‘normale’

vivere sociale, qualcosa di diverso che già il nome della villa lascia intuire, ma che nella

descrizione ossimorica del vortice di suoni, fa riecheggiare un’atmosfera senza “tempo né

luogo”, “al limite tra favola e realtà”, “agli orli della vita”5.

Il microcosmo pirandelliano, soprattutto quello delle novelle e di molti drammi, è

sovente popolato da fantasmi e da figure evanescenti, piombate nella “realtà” attraverso i

percorsi occulti del sogno e dell’inconscio. Ci sono novelle in cui il sogno diviene quasi più

concreto della realtà stessa nella percezione dei sensi e dei sentimenti (La realtà del sogno) e

altre in cui esso si confonde con la vita, fungendo da intermediario tra la terrena e

l’ultraterrena (Effetti di un sogno interrotto). Ci sono opere in cui il vissuto di un uomo viene

ricacciato nell’abisso dell’animo, coperto dagli strati della coscienza, perché doloroso, e da

qui l’autore coglie il pretesto per entrare in quello che freudianamente potremmo definire

‘inconscio’ del personaggio. Qui Pirandello tratteggia con abilità, quasi psicoanalitica, le

dinamiche perverse che spingono l’individuo al meccanismo della rimozione, attraverso il

quale la realtà può essere convertita in un sogno dalla sofferenza e dal rimorso (la novella

Cinci e nella pièce Non si sa come). C’è l’opera per eccellenza, I sei personaggi in cerca

d’autore, in cui i fantasmi sono le creature partorite dalla mente di un artista, dalla quale si

distaccano per vivere di vita propria evocate dal prodigio della scena, al contrario, in altri

4 LUIGI PIRANDELLO, I giganti della montagna, in Maschere nude, vol IV, a cura di Alessandro d’Amico con la collaborazione di Alessandro Tessari, I Meridiani Mondatori, Milano, 2007, atto I, pp. 845-846.5 REGINA DAL MONTE, Fantasmi, in ENZO LAURETTA (a cura di), Op. cit., pp. 233-243, p. 233..

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testi, uomini disperati, annientati dal dramma dell’esistenza si spogliano del proprio “ego”

assimilandosi a fantasmi (nel romanzo Il fu Mattia Pascal e nella pièce Così è si vi pare).

È stato evidenziato dalla critica come questa reiterata tendenza dell’autore verso

tematiche confluenti in dottrine spiritiche e teosofiche, fosse un atteggiamento diffuso nel

clima culturale decadente, caratterizzato da un particolare interesse per i misteri dell’occulto

in contrapposizione al progresso scientifico e al pensiero pragmatico, sentiti come

insufficienti a spiegare i grandi interrogativi dell’esistenza6. Ma i fantasmi di Villa Scalogna

sono qualcosa di più che semplici spiriti evocati per la fascinazione di dottrine spiritistiche o

principi teosofici. Essi hanno un forte valore etico, poiché sono la risposta esistenziale

positiva di passioni, di umanità e di istintualità al vuoto glaciale della società dei Giganti e

rappresentano, inoltre, un’alternativa estetica al baratro culturale di quella società che ha

preferito mettere a tacere il teatro per fare al suo posto uno stadio o un cinematografo. Qui

nella villa, invece, tutto è possibile. Essa è il luogo che si contrappone all’ordine e al giorno

che illumina la società dei Giganti, perché qui regnano il caos e la notte: “c’è tutto, è l’orgia

della fantasia!”7.

COTRONE […] Siamo qui come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore … tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa8.

Cotrone è un mago, è colui che, all’interno della villa “nell’arsenale delle apparizioni”,

ha il potere di un illusionista. È il demiurgo capace di dar vita, tra le pareti di un mondo

‘altro’ e lontano dalle categorie del razionale e del quotidiano, alle fantasie più disparate, alle

ragioni dell’anima, ai fantasmi dello spirito. Cotrone ha nel suo mondo il potere che il suo

autore ha in quello che lui stesso costruisce con la forza dell’immaginazione: egli è il “piccolo

Padreterno” (per usare una metafora usata dallo stesso autore e sviscerata da Rino Caputo

nell’omonimo saggio critico9) di questo mondo alternativo, ma più ‘vero’ della realtà, in cui

volutamente i suoi abitanti hanno deciso di confinarsi, così come Pirandello è il padre creatore

“del regno della compiuta creazione”10 più vivo della “realtà della vita”11 e di tutto quanto vi

accade. Scrive il drammaturgo a Marta Abba nel periodo in cui lavora ai Giganti:

6 Id., p. 237.7 LUIGI PIRANDELLO, Lettere a Marta Abba, cit., Parigi, 16 febbraio 1931, p. 648.8 LUIGI PIRANDELLO, I giganti della montagna, cit., atto II, p. 874. 9 Cfr. RINO CAPUTO, Il piccolo Padreterno, Roma, Euroma 1996, pp. 17-36.10 Id., p. 32.11 Id., p. 33.

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Quanti sinuosi fantasmi possono obliquamente sgusciare dalle profonde caverne dell’immaginazione … in una natura che ha tante nascoste caverne come la mia! […]

Vedi quali fantasmi vaporano, nella lontananza e nella solitudine, dalle tristi caverne dell’immaginazione, quando la Tua voce viva mi manca e mi avvolge un silenzio di deserto …12. (Parigi, 19 febbraio 1931)

Dunque Cotrone sceglie la fuga dal mondo dei Giganti e il teatro della fantasia può

concretizzarsi soltanto lontano dalla società di quelli, perché lì il teatro è stato chiuso e al suo

posto si vuole uno stadio o un cinematografo13.

In questo mondo alternativo si sono esiliati, con Cotrone, gli Scalognati, “placidi e pigri a

concepire enormità”, scrive Pirandello: qui possono finalmente respirare “aria favolosa”, qui le

ombre inquiete delle loro paure, del loro passato rimosso, riprendono vita e si esorcizzano nel

rituale magico delle apparizioni, che si mostrano ai loro occhi all’inizio “scomposte” come in

quadri cubisti:

COTRONE […]Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito d’ombra, creati da colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola. Sordità d’ombra non possiamo soffrirne, le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi14.

Nell’interpretazione di Vicentini il mondo “magico” degli scalognati, in tutta la sua

“fragilità” e precarietà si porrebbe in antitesi all’atteggiamento materiale e all’applicazione

tecnologica della nuova arte, il cinema, e rappresenterebbe perciò un’alternativa alla disfatta

del teatro, un’ultima forma di sopravvivenza in attesa del mutare dei tempi e delle condizioni

sociali15.

Nella società dei Giganti è stata perciò ravvisata dalla critica la trasfigurazione della

società contemporanea, e in particolare sono evidenti, come ha sottolineato Rino Caputo, i

riferimenti alle grandi imprese di ristrutturazione, di bonifica e di edificazione del regime

fascista16 dal quale Pirandello aveva incassato importanti delusioni, a partire dal fallimento

della Compagnia del Teatro d’Arte, per la quale non aveva ottenuto i finanziamenti richiesti.

Non ultima la grande delusione, e l’umiliazione, subite dopo la prima romana del

12 LUIGI PIRANDELLO, Lettere a Marta Abba, cit., p. 649-650, 651.13 LUIGI PIRANDELLO., I giganti della montagna, cit., atto I, p. 869.14 Id., atto II, p. 878-879.15 CLAUDIO VPICENTINI, Il disagio del teatro, Venezia, Marsilio, 1993; cfr anche CORRADO DONATI, “I giganti della montagna” e la critica letteraria, in ENZO LAURETTA (a cura di), Op. cit., p. 165.16 Cfr. RINO CAPUTO, Presentazione, in Futurismo e agro pontino, a cura di MASSIMILANO VITTORI, CARLO FABRIZIO CARLI, ROBERTA SCIARRETTA, «Nono quaderno del Novecento», n. 9, Latina, dicembre 2000, pp. 9-12. Scrive Rino Caputo: «[…] l’impresa della bonifica delle paludi pontine e soprattutto la fondazione delle nuove città (che sono, però, sentite unanimemente anche come città ‘nuove’) può, in tal senso, essere commisurata all’attività dei pirandelliani Giganti degli Anni Trenta» p. 9.

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melodramma La favola del figlio cambiato, rappresentato nel 1934, che non solo fu stroncato

dal pubblico e dalla critica, ma fu persino censurato e bloccato dal regime:

COTRONE […] Dunque sappiate che si celebra oggi, con una festa di nozze colossale, l’unione delle due famiglie dette dei giganti della montagna.

IL CONTE (piccolino e perciò smarrito, alzando un braccio). Giganti?COTRONE Non propriamente giganti, signor Conte, sono detti così perché gente

d’alta e potente corporatura, che stanno sulla montagna che c’è vicina. Io vi propongo di presentarvi a loro. Noi v’accompagneremo. Bisognerà saperli prendere. L’opera a cui sono messi lassù, l’esercizio continuo della forza, il coraggio che han dovuto farsi contro tutti i rischi e pericoli d’una immane impresa, scavi e fondazioni, deduzioni d’acque per bacini montani, fabbriche, strade, colture agricole, non han soltanto sviluppato enormemente i loro muscoli, li hanno resi naturalmente anche duri di mente e un po’ bestiali. Gonfiati dalla vittoria offrono però facilmente il manico per cui prenderli: l’orgoglio lisciato a dovere, fa presto a diventar tenero e malleabile. Lasciate fare a me per questo; e voi pensate intanto ai casi vostri. Per me, portarvi sulla montagna alle nozze di Uma di Dòrmio e Leopardo d’Arcifa, non è nulla; chiederemo anche una grossa somma, perché più grossa la chiederemo e più importanza acquisterà ai loro occhi la nostra offerta; ma ora il problema da risolvere è un altro. Come farete voi a rappresentare la Favola17?

Sono giunti a Villa Scalogna gli attori di una compagnia ormai “sgangherata”, diretta da

una donna tanto disperata quanto determinata, la Contessa Ilse. L’affascinante primadonna è

segnata da un doloroso passato che non le permette di liberarsi da un destino, cui lei stessa

vuole essere costretta.

Un giovane poeta, infatti, è morto suicida per amor suo, dopo averle lasciato in eredità il

“figlio” di tanto amore infelice: un dramma in versi dal titolo La Favola del figlio cambiato.

Da quel momento Ilse, consumata dal rimorso per quella vita e quel sentimento spezzati a

causa sua, ha deciso di pagare il prezzo della propria responsabilità votando se stessa alla

realizzazione del sogno del poeta: far vivere la Favola tra gli uomini e rappresentarla, dunque,

per sempre.

Il Conte, marito di Ilse, è un testimone immobile dell’impresa autodistruttiva della

moglie e la segue in religiosa sottomissione, pur di raccogliere le briciole dell’affetto di lei,

ormai inaridito e rancoroso.

La compagnia di Ilse arriva così a Villa Scalogna, il luogo ideale in cui finalmente

potrebbe rappresentare la Favola ed essere applaudita, compresa ed apprezzata. Qui gli attori

trovano un’ospitalità fortuita e fortunata, poiché, come sostiene Cotrone, qui è più facile far

vivere i personaggi: i fantasmi “basta farli uscire da noi stessi”.

Gli attori della compagnia di Ilse, propongono ancora una volta la dicotomia dei Sei

personaggi: attori da una parte e personaggi dall’altra; la vita che tenta di farsi arte da un lato

17 LUIGI PIRANDELLO, I giganti della montagna, cit., atto III, p. 902.

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e l’arte più viva della vita dall’altro. Gli attori non riescono fino in fondo a farsi personaggi,

mentre i personaggi riescono a vivere di vita propria: la vita dell’arte fissa e immutabile è

perciò ancora più reale. Nei Giganti la tematica, però, ha subito un’evoluzione: gli attori,

infatti, possono evocare i fantasmi dei personaggi all’interno della villa attraverso gli

scalognati, che sono il medium attraverso cui il prodigio può compiersi. Gli scalognati hanno

rinunciato alla propria individualità, sono dei “dimessi” dalla società, più vicini all’innocenza

inconsapevole dei bambini e a quella naturale delle bestie, perciò non hanno alcuna difficoltà

ad accogliere in se stessi i fantasmi della mente e della fantasia per portarli alla luce. Essi

sono dunque attori “ideali”, pronti ad assorbire l’anima dei personaggi perché non ne hanno

una propria:

COTRONE […] Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo al contrario dei nostri corpi, fantasmi: e li facciamo egualmente vivere. I fantasmi … non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi18.

Il contrasto dei Sei personaggi è così superato grazie alla speranza che lontano dalle

costrizioni imposte dal vivere sociale sia possibile proteggersi in una nicchia privilegiata, in

cui coltivare la fantasia e l’immaginazione, in cui cogliere, insieme all’essenza primigenia

della natura, i segreti più reconditi dell’esistenza, palesi solo a chi è in grado di distaccarsi

dalle catene della quotidiana materialità per rendersi leggero e consapevole dei limiti “del

naturale e del possibile”19.

Da una parte dunque i Giganti, sulla sommità luminosa della montagna, con la loro

‘ottusa’ operosità che macina la vita, l’immaginazione e la creatività e dall’altra parte gli

scalognati, nel loro mondo ‘di sotto’, nella penombra argentea della luce lunare con la loro

accogliente fabbrica di sogni, sono i due poli contrapposti, protagonisti dell’ultimo mito

pirandelliano. E tra queste due realtà si pone al centro la compagnia di Ilse, che non sta né da

una parte né dall’altra, ma che ad entrambe è legata da un cordone di necessità che oscilla

prima verso un lato e poi verso l’altro. Gli attori vorrebbero collocarsi definitivamente tra gli

scalognati e condividere con loro la scelta dell’esilio volontario in una zona franca, in cui

finalmente potersi realizzare pienamente, ma Ilse li tira verso la montagna, dove il dovere di

attori li richiama al tentativo vano di far sopravvivere il teatro. Nei Giganti della montagna

Pirandello attua dunque il sovvertimento totale delle categorie etiche alla base delle

coordiante spazio-visive (alto=cattivo vs basso=buono), per cui sull’alta luminosità della

montagna si celebra il rituale negativo e senza senso della vita moderna, mentre nel ventre 18 Id., atto II, p. 880.19 Id., p. 418.

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basso e buio della villa si mette in scena il carosello stupefacente della vita e della fantasia.

Da un lato sta così Cotrone e i prodigi della fantasia, dall’altro la montagna coi suoi aridi

Giganti e al centro, con l’anima in brandelli perché in tensione da un lato e dall’altro, Ilse e la

Favola, il poeta e la Poesia, Pirandello stesso, contesi nel dilemma più dilaniante, e irrisolto:

vivere l’arte per sé o vivere per farla essere tra gli uomini.

3. Ilse: la donna, l’attrice, il teatro.

Il personaggio di Ilse, ancor più di quello di Cotrone, si presta a numerose

interpretazioni critiche, per il suo elevato valore simbolico, per la forte componente

enigmatica e per la sua mancata realizzazione nel finale. Nella Contessa, primadonna della

compagnia itinerante dei Giganti, è stata riconosciuta la primattrice Marta Abba, la bella

giovane “coi capelli sparsi, color di rame caldo”20, che Pirandello sente ‘lontana’, proprio

come il Conte sente sua moglie Ilse. Scrive Alonge:

Il Conte dice a Ilse che la sente “lontana”, esattamente come Pirandello rimprovera a Marta infinite volte, nelle sue lettere. E Ilse dice al Conte che ha paura di lui, che la segue “come un mendico”, che si sente “come appiccicata” dalla sua “mollezza di timidità supplichevole”. Così nella redazione su rivista, del 1934. preparando l’ultima ristampa Pirandello corregge, e rende il tutto più crudele: “Perché ti conosco! Perché ti vedo! Mi segui come un mendicante; mi guardi con certi occhi, che mi sento tutta, non so, come appiccicata, sì, sì, da questa mollezza di timidità supplichevole”. Pirandello arriva a confessare il proprio voyeurismo, il proprio feroce bisogno di immaginare e di vedere la donna amata, come spesso Marta gli rinfaccia nell’epistolario21.

Ma, come afferma Giovanni Cappello, Ilse è anche un po’ Pirandello, nel suo totale

asservimento alla poesia, all’arte che si ostina a voler portare tra gli uomini per amore di un

poeta morto suicida a causa sua: «anche la morte di Ilse, se fosse d’autore, si collocherebbe

nella stessa prospettiva, prefigurando la morte interiore di Pirandello costretto a non avere più

un teatro, una sua compagnia»22. Nello stesso tempo la figura di Ilse non può essere letta

senza considerare il forte legame che la incatena alla Favola, il dramma in versi, scritto per lei

dal giovane poeta follemente innamorato, e poi suicida, cui lei ora è votata per sempre.

Roberto Tessari mette in relazione la protagonista dei Giganti con la figura della Donna

Rossa. La fanciulla, detta Maria Maddalena, appare nella villa all’improvviso durante il II

Atto evocata dalla stessa Ilse a rappresentare la “scema” del caffeuccio, che nella Favola

compare al III Quadro. È la giovane cenciosa e ebete sempre ingravidata che interpreta

20 LUIGI PIRANDELLO, I giganti della montagna, cit., atto I, p. 854. 21 ROBERTO ALONGE, Op. cit., pp. 29-30.22 GIOVANNI CAPPELLO, La diffrazione narrativa nei “Giganti della montagna”, in ENZO LAURETTA (a cura di), Op. cit., p. 54.

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l’aspetto carnale e animalesco di una maternità reiterata e inconsapevole di contro al rifiuto di

Ilse dell’amore fisico “che avrebbe potuto renderla madre”23. Nella cenciosa della Favola

riaffiora trasfigurata una figura di vecchia memoria, sepolta nel passato dell’infanzia siciliana

e ripresa per il contesto popolare e primordiale della poesia drammatica che Pirandello si

accingeva a scrivere. La rievocava il drammaturgo sulle pagine del «Corriere della Sera» del 7

aprile 192924 come una “lezzona cenciosa” sempre ingravidata e la ‘riutilizzava’ nel contesto

della Favola. La giovane cenciosa sporca di terra, seduta a gambe aperte nel caffè del porto

tra prostitute e marinai che la deridono, approfittando della sua deficienza, è figura muta,

immobile, simbolo puro di ciò che rappresenta e per cui è chiamata sulla scena. Ella è

“pancia”, niente altro. Acqua e terra sporcano il ventre colmo perché sono gli elementi

primordiali della vita naturale. La cenciosa incarna la pacifica accettazione delle leggi naturali

e, reiterando la maternità a un livello di totale inconsapevolezza, è posta a un livello più

arretrato delle bestie e, pertanto, quasi ancestrale:

Buttata a terra a sedere sotto la finestra, con le gambe aperte e i piedi nudi, sporchi di sabbia bagnata e rappresa, è una giovane scema e muta, cenciosa, sempre ingravidata, non sa mai da chi; ma questa volta, sì, pare che lo sappia: dal “Figlio-di-re”, per cui la chiamano ormai “La Regina”. Scarmigliata, ha la faccia della voluttà, pallida, e tiene gli occhi chiusi, quando li apre, imbambolati, ride stupidamente d’un riso vano: largo e senza suono, da maschera25.

La maternità come ‘rinnovamento’ quasi meccanico della materia (terra e acqua) si

contrappone così, nella Favola, alla maternità viscerale e sensibile della Madre disperata,

convinta che le “Donne” della notte le abbiano scambiato il figlio nella culla.

La donna cenciosa riappare nei Giganti, evocata all’interno di villa Scalogna, ma

trasfigurata: si mostra con un’aurea quasi sacrale e si erge ad archetipo della natura innocente.

L’immagine sudicia e lasciva della Favola lascia il posto, nei Giganti, a un’apparizione di

“pelle dorata” sotto una luce vermiglia: la Maddalena, “giovine dai capelli fulvi” si

materializza “come una fiamma” e si staglia silente in contrapposizione all’altra donna fulva

del dramma, la Contessa Ilse. Come ha sottolineato Tessari:

La protagonista dei Giganti della montagna sa bene che il suo dramma consiste nell’essersi realizzata in quanto antitesi imperfetta delle qualità mitologiche di cui Maria Maddalena rappresenta a perfezione le stigmate sorridenti e dolorose insieme. Ilse ha rifiutato di bruciare di un amore fisico che avrebbe potuto renderla

23 ROBERTO TESSARI, La favola del figlio cambiato. Mysteria della nascita secondo natura e del concepimento spirituale: tra dramma ipotetico e “poema” scritto, in ENZO LAURETTA (a cura di), Pirandello: teatro e musica, Palermo, Palombo, 1995, pp. 101- 114, p. 111.24 LUIGI PIRANDELLO, Maschere nude, vol IV, cit., p. 1036.25 LUIGI PIRANDELLO, La favola del figlio cambiato, in Maschere nude, vol IV, a cura di ALESSANDRO D’AMICO con la collaborazione di Alessandro Tessari, I Meridiani Mondatori, Milano, 2007, quadro III, p. 771.

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madre, e ha scelto di mantenere accesa la “fiamma” di quella ambigua “unione mistica” dove l’eros dei sensi dovrebbe trascolorare in eros produttore di senso. L’opus artistico che ne è derivato è il “figlio” dell’equivoco connubio tra la donna e il poeta: un metaforico “figlio cambiato” (in quanto sostituto ideale d’un figlio di carne mai concepito né partorito dalla coppia), che – appena prodotto – si vendica dell’impuro desiderio paterno che ne ha favorito la genesi, propiziando un destino di morte per l’autore.

Quanto alla Contessa, non le resta che sottomettersi in piena coscienza alla pena di concedere senza riserve il proprio corpo e la propria vita, negati all’amore del poeta, all’iperbolico amore materno che quel figlio oscuramente esige.

Non muta e folle donna-Matrice tale da abbandonare “sull’erba le sue creature”, bensì eloquentissima e pensosa donna-Attrice che ritiene di dover donare tutta se stessa al parto poetico di cui è corresponsabile, Ilse è “condannata” da Pirandello a visitare per equivoco la Villa degli Scalognati, poiché solo entro uno spazio “al limite, fra la favola e la realtà” può avvenire il confronto tra la particolarissima creatività di cui ella è simbolo, e figure simboleggianti forme d’energie creative polarmente opposte a quella da lei sperimentata […]. Maria Maddalena e il Mago si levano davanti a Ilse come epifanie delle quintessenze estreme in cui possono mitologicamente culminare i due misteri donde aveva preso le mosse la Prefazione dei Sei personaggi: “Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale. Può una donna, amando, desiderare di diventar madre; ma il desiderio, da solo, per intenso che sia, non può bastare. Un bel giorno ella si troverà ad esser madre, senza un preciso avvertimento di quando sia stato. Così un artista, vivendo, accoglie in sé tanti germi della vita, e non può mai dire come e perché, a un certo momento, uno di questi germi vitali gli si inserisca nella fantasia per divenire anch’esso una creatura viva in un piano di vita superiore alla volubile esistenza quotidiana”26.

Nella misura in cui Ilse riuscirà a far vivere la Favola tra gli uomini, tanto più sarà

attrice, e madre, della creatura concepita dal poeta suicida per amor suo. Per questo si spiega

il suo desiderio, cieco a qualsiasi impedimento, di reiterare la rappresentazione del Figlio

cambiato. La maternità reale e primordiale, narrata nel mito in versi della Favola, si intreccia

così alla maternità dell’arte, al prodigio, cioè, del teatro creatore di un microcosmo alternativo

più reale della “vita vera”. Ilse e Cotrone divengono perciò soltanto due sembianze della

stessa anima, quella dell’autore, che da una parte ha la chiaroveggenza per scoprire e

realizzare le magie dell’immaginazione e dall’altra tenta di trovare loro una forma e un posto

per realizzarle concretamente sulle scene del teatro del suo tempo. Quest’ultimo tentativo

sarebbe però vano, se si considerano le idee per il finale del dramma, che Luigi Pirandello

dettò al figlio Stefano27.

Ilse rappresenterebbe così la Poesia, il mito dell’Arte, e si spiegherebbe con ciò anche la

difficile gestazione dell’opera, il disagio dell’autore nel non riuscire a trovare una risoluzione

alle problematiche decisive che il teatro stava attraversando nella fase storica di quegli anni. I

giganti della montagna acquisirebbe un valore quasi testamentario e, per questo, sarebbe

26 ROBERTO TESSARI, Op. cit., pp. 111-112.27 LUIGI PIRANDELLO, I giganti della montagna, note ai testi e varianti, in Maschere nude, vol IV, cit., pp. 1046-1050.

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anche una summa tematica dell’intero corpus pirandelliano che si sostanzia della sua stessa

incompiutezza. Del resto nessuno potrà mai sapere, come scrisse Stefano Pirandello, cosa

avesse concepito in quella travagliata ultima notte l’autore per il suo ultimo dramma, se

avesse stravolto o confermato quanto aveva già composto nella sua fantasia e dettato al figlio.

Corrado Donati azzarda l’ipotesi che il senso di quanto Pirandello volesse tramandare fosse

già tutto espresso nei primi due atti, nella partenza di Ilse e nel suo rifiuto alla proposta di

Cotrone di rappresentare la Favola tra gli scalognati. «La tragedia finale, presagita da

entrambi, era già scontata in questa decisione e forse il terzo atto non avrebbe aggiunto nulla

di sostanziale. […]» e non ha forse più senso chiedersi cosa sarebbe accaduto nell’ultimo atto,

poiché la fatalità della morte, peraltro già presagita dallo stesso Pirandello, è intervenuta a

suggellare l’opera, affinché «quest’ultimo capolavoro restasse, come doveva essere, perfetto

nella sua incompiutezza così com’era in quel momento supremo»28.

4. La favola del figlio cambiato dalla novella al libretto per il melodramma di

Malipiero.

L’innesto della Favola, nella trama narrativa dei Giganti, realizza, ancora una volta in

un’opera pirandelliana, un discorso metateatrale e dà vita a un gioco continuo di rimandi e di

corrispondenze trai testi che si intrecciano e si sciolgono, si confondono e si riflettono come

in un’architettura di specchi.

La favola del figlio cambiato, infatti, avrebbe dovuto essere semplicemente il

frammento di un testo virtuale, quello scritto dal poeta innamorato e suicida per la sua musa

ispiratrice, la Contessa Ilse, e, pertanto, sarebbe potuto rimanere la semplice simulazione di un

testo, poiché le esigenze della drammaturgia dei Giganti non ne prevedevano la realizzazione

compiuta e integrale. Se la Favola fosse rimasta incompiuta, compiuta cioè limitatamente alle

parti di essa che dovevano essere rappresentate nell’ambito dei Giganti, ciò sarebbe stato,

almeno a rigor di logica, ininfluente rispetto all’ulteriore sviluppo tematico del testo stesso dei

Giganti della montagna. Ma così non è stato. Pirandello non solo ha ripescato una sua

precedente novella, prassi assolutamente consueta nel modus operandi del drammaturgo, ma è

stato a tal punto assorbito dalla rielaborazione tematica e formale del testo da non riuscire più

a considerarlo puramente servile rispetto al macrotesto che doveva contenerlo, vale a dire

quello dei Giganti. La scrittura della Favola è diventata perciò un distraente che ha

allontanato l’autore dall’obiettivo della scrittura ‘prima’ per convogliarlo sulla ‘seconda’.

28 CORRADO DONATI, Op. cit., pp. 170-171.

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Quello che probabilmente catturò ancora di più lo scrittore fu la sfida della forma poetica.

Pirandello, infatti, si era posto come fine quello di realizzare dalla novella un dramma

completamente nuovo e desueto: un dramma in versi. E l’idea di convertirlo in dramma per

musica fu soltanto successiva. Lo stesso autore si rese conto di aver trasformato la novella

“magnificamente”, «la trasformazione è venuta così bene, che anche questa volta» scriveva,

avrebbe dovuto forzarsi «a vincer la tentazione di farne un lavoro a sé»29, tentazione che,

appunto, non riuscì a trattenere. Nel 1932 Pirandello incontrò il compositore Gian Francesco

Malipiero e gli propose il progetto di realizzare dalla Favola un’opera in musica:

Nel Marzo 1932 egli ci narrava il soggetto della sua “Favola”. Parlava lentamente, quasi timidamente, ed egli notava la nostra delusione, ché in cuor nostro gli eravamo ostili in quel momento: cercavamo forse di non lasciarci prendere, volevamo rimanere fedeli alla nostra determinazione di non collaborare, dopo le delusioni sofferte, evitando il librettista, il nemico. Pirandello tirò fuori allora il copione (che rappresentava la parte dei Giganti della montagna) e ci lesse il primo e il secondo quadro, cioè il primo atto. Tutti i dubbi disparvero insieme ai pregiudizi e ai preconcetti, e da quel momento l’unico nostro desiderio, la nostra ansia, furono di possedere anche i due atti mancanti. Il nostro entusiasmo soddisfò Luigi Pirandello, ebbe così inizio una fraterna collaborazione. Inviandoci i primi due quadri egli scriveva: “Lascio a te piena libertà d’aggiungere, togliere, adattare: ciò che conta è che sia rispettato lo spirito dell’opera”.

È superfluo dire ch’egli sapeva che noi avremmo rispettato l’opera sua. La lettera che accompagnava la consegna del secondo e terzo atto è la sintesi delle sue convinzioni estetiche e si preoccupa un po’ di quello che il musicista avrebbe potuto ricavare dalle sue espressioni: “… io già vedo, che, specialmente nel quarto e nel quinto quadro la musica non potrà forse rendere tutto ciò che io ho dovuto esprimere, senza correre il pericolo di sfibrare l’azione scenica. Sulle necessità musicali torno a dirti tu sarai giudice assoluto. Altro è un teatro poetico dove soddisfare alle leggi del tuo organismo estetico, con altre sue proprie leggi. Il creatore ha sempre e in ogni caso tutti i diritti: quando è un vero creatore non può fare a meno d’ubbidire col massimo scrupolo a quel corrispettivo di doveri che inconsciamente ognuno di noi si assume verso la propria creatura. Perciò io non credo che una nostra collaborazione diretta, oltre quella che è nel fatto stesso d’averti io con la mia opera offerto una pura e semplice materia da adoperare per l’opera tua, possa riuscire utile; perché tu devi restare solo e libero di fronte al tuo lavoro come io sono stato di fronte al mio”. La collaborazione sottintendeva però l’accettazione da parte del musicista delle sue idee, che altrimenti il conflitto diventava inevitabile. Il musicista non è stato costretto a sottomettersi perché le sue idee coincidevano con quelle del poeta30.

Pirandello, dunque, aveva preso la novella Il figlio cambiato, uscita per la prima volta

col titolo Le nonne in “La Riviera Ligure” nell’aprile del 1902 e poi confluita nella raccolta

Dal naso al cielo (Bemporad 1925), e l’aveva trasformata nell’opera scritta dal poeta suicida,

folle d’amore per Ilse, dei Giganti della montagna. Aveva cioè sentito l’esigenza di realizzare

davvero, e fino in fondo, quella che sarebbe potuta rimanere essenzialmente la citazione di 29 Id., Berlino, 17 aprile 1930, p. 396.30 MASSIMO BONTEMPELLI, Gian Francesco Malipiero, Milano, Bompiani, 1942, nel capitolo Alcuni scritti di G. Francesco Malipiero, pp. 190-193.

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un’opera all’interno di un’altra. Che bisogno aveva Pirandello di scriverla tutta, fino alla fine,

quella Favola di cui solo poche parti dovevano apparire durante lo svolgimento dei Giganti?

Evidentemente aveva bisogno di farla vivere sul serio poiché quel “germe della creazione”,

che si era insinuato nella sua mente d’autore, non se ne andava più, era lì come un “demone”,

come egli stesso per altre opere aveva definito l’idea insistente di cui non riusciva a liberarsi.

Tanto più demone, questa Favola, quanto più, negli ultimi anni della sua vita, come ha

avuto modo di sottolineare Roberto Alonge nel saggio più volte citato, Pirandello poteva

facilmente identificarsi con lo sciagurato poeta senza speranza d’amore. Quanto più la figura

di Ilse, nell’immaginazione dell’autore, si confondeva con quella dell’attrice dai capelli fulvi,

sua reale, e ormai lontana, musa ispiratrice, Marta Abba, tanto più il tessuto della finzione

teatrale si intrecciava alla trama della vita vera. Così la Favola non poteva più essere

semplicemente la parte evidente di un testo fittizio: solo uno o due quadri di un’opera in realtà

mai scritta. Essa, al contrario, doveva esistere, tutta, anche se nei Giganti Ilse ne avrebbe fatto

vivere solo alcune parti. Ed è proprio la finitezza del testo della Favola che permette una

lettura critica completa del personaggio di Ilse, poiché vi si raddoppia, anzi triplica, il tema

della maternità e della creazione artistica che ella rappresenta.