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1 PAGINE IN CONTROLUCE 8

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PAGINE IN CONTROLUCE 8

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“Da molte stelle mi vien questa luce”Par. c. XXV, 70

Altera Alteri

LECTURAE DANTIS

BRUNELLA BRUNO - ELISABETTA FERRARINI

Prefazione di Gioia Pace

Anemone Purpurea

Proprietà letteraria riservata© 2008 Anemone Purpurea editricewww.anemonepurpurea.it

Sede legale: Via Enea,1200041 Albano Laziale (Roma)

aprile 2008

I diritti di traduzione, riproduzione, adattamento totale o parziale(copie fotostatiche e microfilmati) sono riservati per tutti i Paesi.

ISBN 978-88-89788-20-2

Illustrazioni in copertina dell’arch. Francesca Peratoni “Transumanar” acrilico sutela, 2007

Progetto grafico di copertina di Angela Tomasello e Eleonora Romani - Hoop

Impaginazione di Paolo Giovannucci

PREMESSA

Da dieci anni la Dante Alighieri di Siracusa ha inteso diffonderel’opera del divino poeta tra i cultori con appuntamenti annuali nellacornice suggestiva della chiesa di San Martino, tesoro romanico inOrtigia, in sintonia con lo spirito della Associazione culturale, di cuiil nostro comitato fa parte.

Il crescente interesse che l’iniziativa ha suscitato nella cittadinanzaha suggerito alla scrivente l’idea di raccogliere in volume le conversa-zioni tenute dalle relatrici Brunella Bruno ed Elisabetta Ferrarini.

Quale la novità di queste Lecturae Dantis? Concepite in armoniacon i temi prescelti nei successivi anni sociali, esse hanno dimostratoche la Commedia è ancora perfettamente attuale e che Dante è dav-vero il poeta del terzo millennio, così come è stato eletto dalla cultu-ra mondiale. Ed ancora ogni canto è solo il punto di partenza, un qua-lunque possibile esordio d’un universo così compatto ed omogeneoche ogni suo nucleo può essere centrale, un’immersione in quel mardell’Essere al qual tutto si move; pertanto, per godere della poesia diDante non è necessario cominciare la lettura dalla selva e concluder-la nella rosa, basta cogliere un suggerimento casuale e proiettarsi nelsuo spettro di luce. Prescindendo dunque dall’analisi squisitamentefilologica del testo, che comunque costituisce trama essenziale di ognisviluppo concettuale, si tracciano continui rimandi e nuovi percorsicontestuali, intertestuali ed ipertestuali volti ad interpretare il mes-saggio dantesco non solo in relazione alla sua epoca, ma all’innegabi-le eredità culturale che ne deriva. Leggere Dante infatti esige di col-legare il particolare all’universale, insomma al suo mondo, al suo tem-po, alla sua cultura, alla sua religione, alla sua politica ed alla sua mo-rale, poiché Dante uomo è tutto questo ed è tutto nella sua opera, maDante poeta sconfina nella posterità.

Nella pubblicazione si scardina però l’ordine cronologico delle let-ture per privilegiare nuclei tematici ulteriori; pertanto i canti XIX del-l’Inferno, VI e XVI del Purgatorio e XXV del Paradiso colgono

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aspetti precipui della storia contemporanea al poeta, evidenziandonela corruzione dei poteri universali e la risposta individuale, l’impegnocivile e l’anelito alla libertà che, nonostante gravi sacrifici personali,induce l’uomo di ogni tempo alla speranza del riscatto. Così, i canti Vdell’Inferno, III del Paradiso e XXX del Purgatorio, nel disquisiresulle intense figure femminili della Commedia, individuano un climaxascendente che ne ripercorre il verticalismo, conducendo il lettoredalla concezione terrena dell’eros alla sublimazione di Intelletto eAmore. Allo stesso modo i Canti XXVI dell’Inferno, XI del Purgato-rio e I / XXXIII del Paradiso mirano ad esaltare gli effetti dell’inge-gno umano nell’incessante ricerca della conoscenza, nella sua ripro-duzione estetica e nella sua ineffabile trasumanazione poetica. Infineil canto I del Purgatorio suggella compiutamente questo slancio in-sopprimibile dell’umano che corrotto dal peccato si proietta pur semprenel divino. Ogni segmento, quindi, persegue un disegno ideale orastorico, ora antropologico, ora artistico, ora metafisico, che implicaun’ampiezza di riferimenti da intendersi non come esercizio erudito,ma come lucida interpretazione delle innumerevoli interferenze tral’animo del poeta e la sua opera.

Un’opera che per tutti questi motivi si apre naturalmente all’inte-resse anche dei giovani, da sempre alla ricerca di valori e sentimentisinceri, di autentici modelli, capaci di indicare loro una concreta di-mensione umana, che nel misurarsi con la realtà, senza sconti e senzatimori, sappia sostenere coraggiosamente i propri ideali tra l’astrat-tezza e la vacuità di un modus vivendi omologato.

Gioia Pace

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PARADISO, c. XVII

“mentre ch’io era a Virgilio congiuntosu per lo monte che l’anime curae discendendo nel mondo defunto,dette mi fuor di mia vita futuraparole gravi,…” (cfr. ib . XVII vv. 19-23)

Con questi versi Dante riannoda in paradiso i fili della tela ordita conansia attraverso le rivelazioni di alcune anime incontrate nel suo viaggiooltremondano, improntato ad un rigoroso verticalismo che solo ora, fi-nalmente, il poeta può contemplare dall’alto dell’esperienza compiuta. Ilchiarimento necessario, fornito da Cacciaguida, la trama di tutta la sua vi-ta, viene distesa senza pieghe ed oscurità sotto gli occhi di tutti noi, con-sapevoli di quanto Dante - poeta si sia davvero “infuturato”, come i suoipadri gli avevano insegnato: il suo maestro di giovinezza, Brunetto, gliaveva indicato la strada del ben fare, garantendogli quella fama che s’ac-quista solo con opere dettate dalla giustizia e dalla morale; Cacciaguida,alla fine di tanto arduo percorso, lo attende per attribuirgli il primato nonsolo etico e civile, ma ora anche poetico e profetico, che nasce dalla fede.

La nostra lettura del canto privilegia, quindi, gli anni dell’esilio, comeprerogativa della missione salvifica del poeta: tempi, luoghi, personaggi eprofezie si avvicendano nella Commedia in un resoconto minuto e fervi-do di significati riposti, che ci preme evidenziare non solo per ricostruirecronologicamente le tappe, ma per interpretare lo stato d’animo di Dan-te esule, il quale mai avrebbe potuto adempiere il suo compito se nonavesse affrontato questa difficile prova: l’esilio è la “conditio sine qua non”che gli consente di spaziare oltre la cerchia antica di Firenze (De Monar-chia), di ampliare e di arricchire senza limiti lo sperimentalismo letterariodegli esordi (Rime e Convivio), Di investire le sue energie nella valorizza-zione del patrimonio linguistico come bene culturale inalienabile (De vul-gari eloquentia), di rivestire la sua Commedia di valori atemporali ed uni-versali, capaci di travalicare anche sentimenti e contingenze personali:

“Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,poscia che s’infutura la tua vitavia più là che ’l punir di lor perfidie”. (ib. vv.97-99)

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Una vicenda esistenziale così devastante solo di rado nei benefat-tori dell’umanità si traduce nel vigore spirituale, nell’anelito alla ri-vincita e all’affermazione di una superiorità generosa e caritatevolequale quella espressa dal poema:

“Questo tuo grido farà come vento,che le più alte cime più percuote;e ciò non fa d’onor poco argomento”. (ib.vv.133-135)

Se l’esilio è il suo martirio, la Commedia è la sua crociata.

Qual venne a Climenè, per accertarsidi ciò ch’avëa incontro a sé udito,quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi; 3tal era io, e tal era sentitoe da Beatrice e da la santa lampache pria per me avea mutato sito. 6Per che mia donna “Manda fuor la vampadel tuo disio”, mi disse, “sì ch’ella escasegnata bene de la interna stampa: 9non perché nostra conoscenza crescaper tuo parlare, ma perché t’ausia dir la sete, sì che l’uom ti mesca”. 12“O cara piota mia che sì t’insusi,che, come veggion le terrene mentinon capere in trïangol due ottusi, 15così vedi le cose contingentianzi che sieno in sé, mirando il puntoa cui tutti li tempi son presenti; 18mentre ch’io era a Virgilio congiuntosu per lo monte che l’anime curae discendendo nel mondo defunto, 21dette mi fuor di mia vita futuraparole gravi, avvegna ch’io mi sentaben tetragono ai colpi di ventura; 24per che la voglia mia saria contentad’intender qual fortuna mi s’appressa:ché saetta previsa vien più lenta”. 27Così diss’ io a quella luce stessa

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che pria m’avea parlato; e come volleBeatrice, fu la mia voglia confessa. 30Né per ambage, in che la gente follegià s’inviscava pria che fosse ancisol’Agnel di Dio che le peccata tolle, 33ma per chiare parole e con precisolatin rispuose quello amor paterno,chiuso e parvente del suo proprio riso: 36“La contingenza, che fuor del quadernode la vostra matera non si stende,tutta è dipinta nel cospetto etterno; 39necessità però quindi non prendese non come dal viso in che si specchianave che per torrente giù discende. 42Da indi, sì come viene ad orecchiadolce armonia da organo, mi vienea vista il tempo che ti s’apparecchia. 45Qual si partio Ipolito d’Ateneper la spietata e perfida noverca,tal di Fiorenza partir ti convene. 48Questo si vuole e questo già si cerca,e tosto verrà fatto a chi ciò pensalà dove Cristo tutto dì si merca. 51La colpa seguirà la parte offensain grido, come suol; ma la vendettafia testimonio al ver che la dispensa. 54Tu lascerai ogne cosa dilettapiù caramente; e questo è quello straleche l’arco de lo essilio pria saetta. 57Tu proverai sì come sa di salelo pane altrui, e come è duro callelo scendere e ’l salir per l’altrui scale. 60E quel che più ti graverà le spalle,sarà la compagnia malvagia e scempiacon la qual tu cadrai in questa valle; 63che tutta ingrata, tutta matta ed empiasi farà contr’ a te; ma, poco appresso,ella, non tu, n’avrà rossa la tempia. 66

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Di sua bestialitate il suo processofarà la prova; sì ch’a te fia belloaverti fatta parte per te stesso. 69Lo primo tuo refugio e ’l primo ostellosarà la cortesia del gran Lombardoche ’n su la scala porta il santo uccello; 72ch’in te avrà sì benigno riguardo,che del fare e del chieder, tra voi due,fia primo quel che tra li altri è più tardo. 75Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,nascendo, sì da questa stella forte,che notabili fier l’opere sue. 78Non se ne son le genti ancora accorteper la novella età, ché pur nove annison queste rote intorno di lui torte; 81ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,parran faville de la sua virtutein non curar d’argento né d’affanni. 84Le sue magnificenze conosciutesaranno ancora, sì che ’ suoi nemicinon ne potran tener le lingue mute. 87A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;per lui fia trasmutata molta gente,cambiando condizion ricchi e mendici; 90e portera’ne scritto ne la mentedi lui, e nol dirai”; e disse coseincredibili a quei che fier presente. 93Poi giunse: “Figlio, queste son le chiosedi quel che ti fu detto; ecco le ’nsidieche dietro a pochi giri son nascose. 96Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,poscia che s’infutura la tua vitavie più là che ’l punir di lor perfidie”. 99Poi che, tacendo, si mostrò spedital’anima santa di metter la tramain quella tela ch’io le porsi ordita, 102io cominciai, come colui che brama,dubitando, consiglio da persona

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che vede e vuol dirittamente e ama: 105“Ben veggio, padre mio, sì come spronalo tempo verso me, per colpo darmital, ch’è più grave a chi più s’abbandona; 108per che di provedenza è buon ch’io m’armi,sì che, se loco m’è tolto più caro,io non perdessi li altri per miei carmi. 111Giù per lo mondo sanza fine amaro,e per lo monte del cui bel cacumeli occhi de la mia donna mi levaro, 114e poscia per lo ciel, di lume in lume,ho io appreso quel che s’io ridico,a molti fia sapor di forte agrume; 117e s’io al vero son timido amico,temo di perder viver tra coloroche questo tempo chiameranno antico”. 120La luce in che rideva il mio tesoroch’io trovai lì, si fé prima corusca,quale a raggio di sole specchio d’oro; 123indi rispuose: “Coscïenza fuscao de la propria o de l’altrui vergognapur sentirà la tua parola brusca. 126Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,tutta tua visïon fa manifesta;e lascia pur grattar dov’ è la rogna. 129Ché se la voce tua sarà molestanel primo gusto, vital nodrimentolascerà poi, quando sarà digesta. 132Questo tuo grido farà come vento,che le più alte cime più percuote;e ciò non fa d’onor poco argomento. 135Però ti son mostrate in queste rote,nel monte e ne la valle dolorosapur l’anime che son di fama note, 138che l’animo di quel ch’ode, non posané ferma fede per essempro ch’aiala sua radice incognita e ascosa, 141né per altro argomento che non paia”.

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LEGNO SANZA VELA E SANZA GOVERNO

Dante, tra i combattenti per la fede in paradiso, vede farglisi in-contro con effusa sollecitudine un astro che si muove sulla lista ra-diale della croce inscritta nella circonferenza celeste: in uno scenariometafisico, contrassegnato dal simbolo mistico per antonomasia,un’anima lucente e benedicente riserva al poeta un’accoglienza solen-ne e vibrante di ardente affetto (cfr. Par. XV, v. 43):

“O sanguis meus, o superinfusagratïa Deï, sicut tibi cuibis unquam celi ianüa reclusa?”. (Par. XV, vv. 28-30)

È l’antenato Cacciaguida, che solo nei vv. 135 e sgg. dello stessocanto rivelerà compiutamente al pellegrino la sua ascendenza biogra-fica, ma già dall’esordio lo appella come figlio (v. 52) e lo accreditaquale ultima fioritura del suo albero genealogico, sottolineando conuna incisiva citazione scritturale1 l’ansia del congiungimento ed il ri-conoscimento della loro sostanziale identità naturale:

“O fronda mia in che io compiacemmipur aspettando, io fui la tua radice” (Par. XV, vv. 88-89)

A suffragare la sua rivelazione il trisavolo rievoca la Firenze da cuientrambi provengono: quella del primo una città ideale, riposante,onesta e fidata (cfr. vv. 130-132); quella del secondo ora guasta da in-teressi economici e mercantili (cfr. Par. XVI, v. 61) e corrosa dall’ar-rivismo di numerosi parvenu sostenuti da spregiudicati appoggi poli-tici2; ora indebolita da intrighi familiari capaci di sostituire le solideinsegne cittadine, sovvertendo i valori tradizionali e il tessuto sociale.Dal mos maiorum al mos partium et factionum di sallustiana memoria.

Con alterne vicissitudini la città muta e rinnova continuamentemembra (cfr. Purg. VI, vv. 145-147). Dante sarà tra queste e Firenze,da grembo accogliente e protettivo, l’ovil di San Giovanni, come spes-

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__________1 Matteo III, 17; Marco I, 11; Luca III, 22.2 Il riferimento è a Giano della Bella in Par. XVI, vv. 131-132.

so il poeta devotamente la definisce3, si rivelerà verso di lui spietata eperfida noverca (cfr. ib. v. 47), insidiandolo e calunniandolo ingiusta-mente come Fedra nei confronti di Ippolito, exul immeritus4 da Ate-ne. Autentica figura genitoriale rimane Cacciaguida per Dante, duevolte apparentato a personaggi mitologici che ne rivelano la pietas pa-terna e la fides materna: l’analogia Anchise - Enea5 rinnova nel c. XVlo slancio generoso del padre verso il figlio atteso, a cui dovrà confe-rire un’alta missione; l’analogia Climene - Fetonte6, simmetrica allaprecedente, riproduce nell’incipit del c. XVII la rassicurante protetti-vità di una madre verso il figlio insicuro e turbato da ambigue insi-nuazioni e funesti presagi. Con questo spirito di carità quello amor pa-terno (cfr.ib.135) risponde alla domanda impetuosa di Dante (ib.vv.19-23) con lucida chiarezza, senza ricorrere alle formule enigmati-che, di cui facevano uso gli oracoli pagani, per sciogliergli i nodi delfuturo, che sin dall’inizio del suo cammino oltremondano lo avevanoinquietato, nonostante una inedita solidità si fosse in lui accresciutanel percorso salvifico7. Ma, in virtù del fatto che padre e figlio nel cie-lo di Marte si riconoscono segnati entrambi dalla croce del martirio(cfr. Par. XV, v. 146), l’uno caduto nella seconda crociata guidata daCorrado III Hohenstaufen nel 1147-49, l’altro vittima della nequiziadel tempo, di cui si sente penosamente gravare le spalle ( cfr.ib.v.161),Beatrice autorizza la confidenza del poeta, affidando al suo progeni-tore le parole rivelatrici. Ogni scrupolo di diplomazia è vinto nell’a-nimo di Cacciaguida da molteplici motivi, che rispondono ad un’uni-ca esigenza di verità:

1) Dante vuole sapere qual fortuna gli s’appressa (cfr.ibvv.25-26);

2) conoscere può costituire l’unica difesa per parare il colpo (ib.v.27):

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__________3 Cfr. Par. XVI, v. 65 ; Par. XXV, v. 5.4 Con questa formula, florentinus exul immeritus, ripetutamente D. indirizza

le sue Epistolae latine.5 Cfr. Par. XV, vv.25-27.6 Cfr. Ovidio, Metamorfosi I, v. 748 sgg.7 Cfr. ib. vv. 23-24.

“Ben veggio, padre mio, sì come spronalo tempo verso me, per colpo darmital, ch’è più grave a chi più s’abbandona” (ib. vv. 106-109);

3) la realtà futura è comunque immutabile, dipinta indelebilmentenel cospetto etterno (cfr. ib. v. 39), non perché predeterminata da Dio,ma perché tutti i tempi sono in Lui compresenti:

“così vedi le cose contingentianzi che sieno in sé, mirando il puntoa cui tutti li tempi son presenti;” (ib. vv. 16-18)

Senza mezzi termini Cacciaguida: “…di Fiorenza partir ti convene”(cfr.ib.v.48);

“Tu lascerai ogne cosa dilettapiù caramente; e questo è quello straleche l’arco de lo esilio pria saetta.” (ib. vv. 55-57),

alludendo alle medesime circostanze politiche che gli erano già stateanticipate da Ciacco nell’inferno. Il goloso, a tinte forti e rapide, inuna rassegna scarna ed essenziale, aveva tratteggiato il clima di ten-sione dei primi del 1300 nella città partita (cfr. Inf. VI, 61), dilaniatada urla, pianti e oltraggi: l’aggressione a Ricoverino de’ Cerchi nel Ca-lendimaggio, la cacciata dei Neri, la rivalsa di questi ultimi sulla parteselvaggia (v. 65), con la forza di tal che testè piaggia (v. 69)8. Che si trat-ti di Carlo di Valois? Di costui, inviato dallo stesso pontefice a Firen-ze per “conservare la città in pacifico e buono stato”9 si fa memoria aquesto riguardo in Purgatorio XX, in cui sprezzantemente il poeta lodefinisce un Giuda che, a tradimento, pressa con la lancia il grembodi Firenze fino a farlo scoppiare, facendone fuoriuscire gli umori me-fitici e le viscere malsane:

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__________8 Cfr. Boccaccio, Commento alla Commedia, piaggiare: “dicesi appo i Fioren-

tini colui piaggiare il quale mostra di volere quello che egli non vuole o di che eglinon si cura che venga”.

9 G. Villani, Nuova Cronica, IX, 49.

“Tempo vegg’io, non molto dopo ancoi,che tragge un altro Carlo fuor di Francia,per far conoscer meglio e sé e’suoi.Sanz’arme n’esce e solo con la lanciacon la qual giostrò Giuda, e quella pontasì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia.” (vv. 70-75)

O che si tratti di Bonifacio VIII? L’allusione al vicario di Cristo(cfr. Purg. XX, v. 87), che simula e dissimula, promettendo un inter-vento da paciere tra le parti, ma in realtà appoggiando gli interessi fi-nanziari dei Donati, già presente nelle parole di Ciacco, verrebbe ri-badita autorevolmente anche da Cacciaguida, che focalizza diretta-mente su Dante le trame oscure e malefiche tessute nella curia ponti-ficia dal papa simoniaco:

“Questo si vuole e questo già si cerca,e tosto verrà fatto a chi ciò pensa là dove Cristo tutto dì si merca”. (ib. vv. 49-51)

Con atteggiamento assai più coinvolto, rispetto a Ciacco, nel sab-bione infuocato dei sodomiti, la cara e buona immagine paterna (cfr.Inf. XV, v. 85) di Brunetto Latini aveva spontaneamente presagito al-l’amato discepolo quanto l’ingrato popolo maligno (cfr. v. 61) gli sa-rebbe stato nimico per il suo ben far (cfr. v. 64): la cittadinanza fio-rentina, come anche il goloso puntualizzava10, gent’è avara, invidiosa esuperba (v. 68), miope ed istrionica, incompatibile per natura e percostume col poeta11 come i lazzi sorbi col dolce fico (cfr.vv.65-66). Bru-netto aveva insistito sull’urgenza di purificarsi dai loro modi e menta-lità, anche se ciò avrebbe potuto ripercuotersi dolorosamente sullasua vita:

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__________10 Cfr. Inf. VI, vv. 74-75.11 Nell’incipit dell’epistola XIII il poeta si autodefinisce infatti florentinus na-

tione non moribus.

“La tua fortuna tanto onor ti serba,che l’una parte e l’altra avranno famedi te; ma lungi fia dal becco l’erba.Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesime, e non tocchin la pianta,s’alcuna surge ancora in lor letame,in cui riviva la sementa santadi que’ Roman che vi rimaser quandofu fatto il nido di malizia tanta”. (Inf. XV vv. 70-78):

sia che l’espressione di Brunetto “l’una e l’altra parte avranno fame dite” (cfr. v. 71) voglia intendere che i Neri gli si avventeranno controper condannarlo e i Bianchi per vendicarsi, sia che si pensi che le duefazioni vogliano trarre vantaggio dall’onore che la fortuna gli riserva(cfr. v. 70), comunque “lungi fia dal becco l’erba” (cfr. v. 72), ossia èimpossibile tra il poeta e i partiti avversi alcuna forma di conciliazio-ne. Ma anche la semplice convivenza nel nido di malizia tanta (cfr. v.78) risulta impraticabile, come amaramente scrive Cino da Pistoia nelcarme CLXIV, In morte di Dante: Firenze infatti rimarrà nuda di tan-ta fonte di ingegno12 e solo allora potrà dare liberamente sfogo al suosconforto, perché ormai sarà definitivamente lontana l’erba dal becco:

“Canzone mia, a la nuda Firenzaoggima’ di speranza, te n’ andrai.Di che ben po’ trar guai,com’ai ha ben di lungi al becco l’erba”. (vv. 27-30)

La ripresa dello stesso proverbio popolare nei due testi avvalora lariconosciuta superiorità intellettuale e d’animo di Dante rispetto aisuoi concittadini degeneri: Brunetto condisce la metafora con ulte-riori termini comico-realistici come strame (v. 73) e letame (v. 75) inantitesi rispettivamente alla pianta (v. 74) e alla sementa santa (v. 76)

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__________12 In morte di Dante, vv.1-8: “Su per la costa, Amor, de l’alto monte,/ dietro a

lo stil del nostro ragionare/ or chi potrà montare,/poi che son rotte l’ale d’ogni in-gegno?/I’ penso ch’egli è secca quella fonte,/ne la cui acqua si potea specchiare/cia-scun del suo errare,/ sebben volen guardar nel dritto segno”.

del poeta, che solo incarna la discendenza illustre dei Romani, incon-taminato dalla parentela dura e montanara dei Fiesolani.

Brunetto partecipa sentitamente alle vicende di Dante, perché eglistesso ebbe consapevolezza dello strazio dell’esilio, essendone statocolpito nel 1260 in una situazione curiosamente analoga a quella delpoeta: ambasciatore del Comune fiorentino presso Alfonso X di Ca-stiglia, appresa la disfatta di Montaperti e la conseguente fuoriuscitadei Guelfi, fu impedito dal ritornare in patria e costretto a trattenersitra Spagna e Francia per ben sei anni, fino alla battaglia di Beneven-to del 1266, quando, mutate le sorti del ghibellinismo con la morte diManfredi, i Guelfi ritornarono al potere. In questo frangente il mae-stro di retorica, sradicato dalla terra di appartenenza, dovette patireanche la perdita dell’identità linguistica, per cui l’aver composto ilTresor, trattato didattico-allegorico di argomento scientifico in linguad’oil, costituirebbe la vera motivazione del contrappasso infernale: èquesta la seducente ipotesi del Pézard13, che attribuisce a questa scel-ta linguistica sofferta, ma innaturale, la sua collocazione tra i sodomi-ti nell’inferno14.

Protagonista della medesima situazione storico-politica, ma dallaparte avversa, si profila la figura statuaria ed imponente di Farinatadegli Uberti, capo ghibellino, vero artefice della vittoria di Monta-perti. Fuoriuscito nel 1258, sferrò con gli alleati senesi ed alemannil’attacco decisivo ai Guelfi fiorentini; rientrato in tale occasione, fuperò così leale verso la sua patria natia da difenderla a viso aperto(cfr. Inf. X,v.93) nel Concilio di Empoli, dove era stata proposta daivincitori la distruzione della città. Dante aveva già espresso il desi-derio di incontrare Farinata proprio a Ciacco, quasi a corollario del-la seconda domanda posta al dannato: “s’alcun v’è giusto” (cfr. v. 62).Il goloso, che aveva frettolosamente liquidato la richiesta dell’Ali-ghieri con un’espressione generica “giusti son due…” (cfr. v. 73), gliaveva indicato l’infima collocazione di quelle anime, di cui chiedeva

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__________13 Pézard, Brunetto Latini sous la plui de feu, Paris, 1950.14 Non risulterebbe da riscontri precisi una specifica propensione all’omo-

sessualità da parte dell’intellettuale che così la stigmatizza nel suo Tesoretto aivv. 2.859-2864: “Ma tra questi peccati/son vie più condannati/que’ che son soddo-miti:/deh, come son periti/que’ che contro natura/brigan cotal lussuria”.

notizie. Tra costoro Farinata è il primo della lista ed il primo in cuiil fiorentino s’imbatte nella città di Dite: tra gli avelli infuocati de-gli eretici Farinata si solleva con piglio autorevole e con sguardosprezzante, irresistibilmente attratto dall’accento familiare e dalla lo-quela suadente che gli rende manifesta l’appartenenza del pellegri-no al suo stesso luogo d’origine. Torna curiosamente, in antitesi conl’involontario tradimento linguistico di Brunetto, l’attaccamento allalingua naturale dei due esuli, che grazie ad essa si riconoscono natiidi quella nobil patria (cfr. v. 26), alla quale forse furono entrambitroppo molesti15. Ambedue sommamente rispettosi nei confronti diFirenze, sono animati da una vivace conflittualità partitica per laquale si contrastano lealmente a suon di parole taglienti e pungen-ti: al primo assalto di Farinata “Chi fuor li maggior tui?” (cfr. v. 42),la parata e risposta di Dante “non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi”(v. 44); fa seguito la botta dritta di Farinata:

“…Fieramente furo avversia me e a miei primi e a mia partesì che per due fïate li dispersi” (cfr. vv. 46-48),

a cui risponde il controtempo del poeta:

“S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte…l’una e l’altra fïata;ma i vostri non appreser ben quell’arte”. (cfr. vv. 49-51)

Bisognerà attendere l’intermezzo di Cavalcante de’ Cavalcanti col-locato nello stesso sepolcro con il con suocero per assistere all’ultimoaffondo del duello verbale tra i due:

“S’elli han quell’arte”, disse,”male appresa,ciò mi tormenta più che questo letto.” (vv. 77-78)

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__________15 Cfr. Inf. X, v. 27. Secondo Ronconi, Lingua nostra, 1946, pagg. 53-54, mo-

lesto equivale a malvisto; in tal caso l’accezione linguistica sarebbe facilmenteestensibile anche all’esilio di Dante.

Alla ferita di punta inferta da Dante, il magnanimo rivale reagiscecon amarezza, facendogli pesare la gratuità della ripicca con la cru-deltà della rivelazione profetica:

“Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia della donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’arte pesa.” (vv. 79-81)

Eppure subito appresso sembra ridimensionare drasticamente li-vore e dispetto con una domanda rassegnata e amara sull’ostilità rei-terata ed ingiustificata dei concittadini contro di lui e la sua discen-denza16, così come succederà anche agli Alighieri. Farinata, infatti,morto nel 1264, subì un processo post mortem per eresia nel 1283; ri-conosciuto colpevole, fu condannato al rogo e bruciato dentro la suastessa sepoltura, com’era in uso a quei tempi, e già nel 1266 le abita-zioni degli Uberti erano state rase al suolo: nessuna ricompensa o ri-conoscenza per la generosità dimostrata dal capostipite degli Ubertiad Empoli (cfr. vv. 89-93). Firenze è dunque ingrata contro tutti i suoifigli, specie coloro ch’a ben far puoser li ‘ngegni (cfr. Inf. VI, v. 81); perquesto l’inimicizia politica fra i due non degenera in reciproco dis-prezzo, ma piuttosto si ricompone nell’apprezzamento vicendevoledell’onestà intellettuale e della dignità d’intenti nei confronti dellapropria patria.

Non così si propone lo scontro tra il poeta e Vanni Fucci, vero ne-mico di fazione ed antagonistico rispetto a lui per fede e moralità. Ilpersonaggio, mul e bestia, per sua stessa ammissione (cfr. vv. 124-126), nella bolgia dei ladri, c. XXIV, era stato l’ultimo a ventilargli ac-cese minacce sotto forma di profezia; egli era apparso improvvisa-mente alla vista dei due viandanti accendersi, ardere ed incenerirsitrafitto dal morso di un serpente, per poi riformarsi di butto (cfr. v.105) con la stessa rapidità con cui era scomparso, simile all’Araba fe-nice (cfr. vv. 106-108). Al risveglio allampanato del dannato, a segui-to della domanda di Virgilio sulla sua identità, egli risponde di essereappena morto nei primi mesi del 1300 e di aver goduto di vita violenta

21

__________16 Cfr. Inf. X, vv. 83-84; Par. XVI, vv. 109-110.

e sanguinaria nella città di Pistoia, degna tana (cfr. v. 126) di cotantabelva, per la quale non prova maggior rispetto di quanto ne abbiaavuto per il suo prossimo e per Dio. Ed infatti, alla provocazione diDante:

…“Dilli che non mucci,e domanda che colpa qua giù ‘l pinse;ch’io ‘l vidi omo di sangue e di crucci.” (cfr. vv. 127-129),

il peccatore, irritato di essere stato riconosciuto come ladro e sacrile-go17, anziché come individuo brutale e bastardo, si vendica con bas-sezza del suo rivale, annunciandogli il rapido succedersi degli eventia Pistoia e a Firenze tra il 1302 e il 1305:

“Ma perché di tal vista tu non godi,se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,apri li orecchi al mio annunzio, e odi.Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;poi Fiorenza rinova gente e modi.Tragge Marte vapor di Val di Magrach’è di torbidi nuvoli involuto;e con tempesta impetüosa e agrasovra Campo Picen fia combattuto;ond’ei repente spezzerà la nebbia,

sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.E detto l’ho perché doler ti debbia!”. (vv. 140-151):

Marte, il feroce Dio della guerra, indurrà Moroello Malaspina, ca-pitano dei Lucchesi, alleati dei fiorentini di parte nera, allo scontro ar-mato contro i Bianchi di Pistoia in Campo Piceno; la sconfitta di co-storo e la conseguente distruzione della città coinvolgerà anche le sor-ti dei fuoriusciti bianchi di Firenze. È questa l’ultima soddisfazione

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__________17 Cfr. vv. 136-139: nonostante la riconosciuta fama di violento, la colloca-

zione infernale nella bolgia dei ladri è determinata dal furto sacrilego di arredisacri dalla sacrestia di S. Jacopo a Pistoia, del cui delitto fu accusato un suo com-plice.

che lo spietato Vanni Fucci si prende su chi per l’eternità ha rivelatola sua condanna tra i ladri e nel suo disprezzo accomuna Dante e Diostesso, a cui rivolge un gesto osceno e blasfemo:

“Al fine de le sue parole il ladrole mani alzò con amendue le fiche,gridando: “Togli, Dio, ch’ a te le squadro”. (Inf. XXV, vv. 1-3)

I quattro atti della sequenza infernale inquadrano il tortuoso in-treccio del tempo dell’esilio: dall’inizio delle guerre civili tra Guelfi eGhibellini (1260), al conflitto interno tra Guelfi bianchi e Guelfi ne-ri (1300), alle ultime dolorose battute dei ripetuti tentativi di rientrodei Bianchi (1305). Nell’asse narrativo principale Firenze si configuracome l’oggetto del desiderio del poeta, il loco più caro (cfr. ib. v. 110);eccetto Brunetto, che addirittura si rammarica di essere morto primadel 1295 per non aver potuto accompagnarlo coi suoi affettuosi con-sigli nell’agone della vita politica18, tutti gli altri personaggi nell’assedella partecipazione assumono il ruolo di antagonisti, ciascuno con lasua particolare focalizzazione: Ciacco, invero, non esibisce alcunaemotività, ma con puntuale ed asettica referenzialità gli dà serio mo-tivo di riflessione sin dal suo esordio:

…“La tua città, ch’è piena d’ invidia sì che già trabocca il sacco,seco mi tenne in la vita serena”. (cfr. vv. 49-51);

Farinata, meditando tra sé e sé, tutto preso dal suo dramma esi-stenziale, dalla tormentata esperienza di un esilio dei suoi mai con-cluso, lo accomuna al proprio destino, quasi confermandogli la suastessa sorte: la condanna al rogo, che presuppone una scomunica pereresia, estesa ai suoi figli maschi, la confisca dei beni patrimoniali e lastessa damnatio memoriae; infine Vanni Fucci, perfido e spregevole,

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__________18 Cfr. Inf. XV v. 58-60: “E s’io non fossi sì per tempo morto,/veggendo il celo

a te così benigno,/dato t’avrei a l’opera conforto”.

da vero oppositore politico si compiace di alienargli ogni rifugio fi-nanco nella sua stessa regione. Eppure è certo che nei primi anni del-l’esilio Dante si fermò in Toscana con quei compagni di sventura scel-lerati ed empi, con cui rimase fino alla vigilia della disfatta della La-stra (1304), quando a seguito di calunniose insinuazioni per aver pro-vato a distoglierli dall’impresa sconveniente, decise di far parte per sestesso:

“E quel che più ti graverà le spalle,sarà la compagnia malvagia e scempiacon la qual tu cadrai in questa valle; che tutta ingrata, tutta matta ed empiasi farà contr’a te; ma poco appresso, ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.Di sua bestialitate il suo processofarà la prova; sì ch’a te fia belloaverti fatta parte per te stesso”. 19 (ib. vv. 61-69)

Proseguendo nell’analisi narratologica dell’esilio, lo spazio si rive-la, nel canto XIV del Purgatorio per bocca di Guido del Duca, selva-tico, popolato da gente feroce lungo tutto il corso dell’Arno; pretestoper la definizione di quella che D’Ovidio20 chiama “la geografia dellosdegno politico di Dante” è l’incontro con due spirti (v. 7) della se-conda cornice del purgatorio, Guido del Duca e Rinieri da Calboli ,entrambi illustri cittadini romagnoli: la reticenza del poeta nel dire dadove provenga e chi sia:

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__________19 Un mese prima dell’irruzione dei fuoriusciti in Firenze, nella prima delle

sue Epistulae, quella rivolta a Niccolò da Prato, investito del ruolo di paciere dalnuovo Papa Benedetto IX, Dante ribadisce le sue ragioni, ispirate a criteri di vi-va giustizia, nati dalla necessità di mantenere la pace e la libertà di Firenze con-tro chi aveva messo fine ai diritti civili con temeraria determinazione (I, 2). Èprobabile che tale Epistola sia contemporanea alla canzone CIV, che esprime lostesso anelito alla pacificazione tra le parti.

20 D’Ovidio, Il Purgatorio, pag. 331.

…“Per mezza Toscana si spaziaun fiumicel che nasce in Falterona,e cento miglia di corso nol sazia.Di sovr’esso rech’io questa persona:dirvi ch’i’sia,saria parlare indarnoché ‘l nome mio ancor molto non suona”. (cfr. vv. 16-21,)

suscita lo stupore delle anime che ne chiedono la ragione:

“E l’altro disse lui: “Perché nascose questi il vocabol di quella riviera,pur com’om fa de l’orribili cose?”.E l’ombra che di ciò domandata era,si sdebitò così:“Non so; ma degnoben è che ‘l nome di tal valle pera;” (vv. 25-30)

Guido del Duca fornisce un elenco dettagliato dei luoghi e dei ri-spettivi abitanti che, simboleggiati da sgradevoli e violenti animali,sembrano tratti da un bestiario medievale: dalla sorgente alla foce del-l’Arno tutti i Toscani hanno mutato natura, come fossero stati soggettiai sortilegi di Circe:

“vertù così per nimica si fugada tutti come biscia, o per sventuradel luogo, o per mal uso che li fruga:ond’hanno sì mutata lor naturali abitator de la misera valle,che par che Circe li avesse in pastura”. (vv. 37-42)

Così gli abitanti del Casentino sono brutti porci (cfr.v.43), gli Areti-ni botoli rinchiosi (cfr. vv. 46-47), i Fiorentini lupi (cfr. v. 50), gli astutiPisani volpi (cfr. v. 53); il resoconto impietoso fatto da Guido del Du-ca, l’innominato invidioso con cui il poeta si intrattiene si conclude conun ennesimo tono profetico sulle sventure di Firenze perpetrate a dan-no dei Bianchi nel 1303 dal sanguinario Fulcieri da Calboli, podestàdella città favorito dai Neri in cambio di stragi efferate ed esecuzionisommarie, tali da sterminare inesorabilmente l’intera cittadinanza:

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“Io veggio tuo nepote che diventacacciator di quei lupi in su la rivadel fiero fiume, e tutti li sgomenta.Vende la carne loro essendo viva;poscia li ancide come antica belva; molti di vita e sé di pregio priva.Sanguinoso esce de la trista selva; lasciala tal, che di qui a mille annine lo stato primaio non si rinselva”. (vv. 58-66)21

A detta loro, se non di così brutali costumi, ma ormai prive deltratto distintivo della liberalità e della cortesia sono anche tutte le piùillustri casate di Romagna22 diretate (v. 108) ed imbastardite le loro fa-miglie (v. 99), decadute le loro città (Bologna, Faenza, Ravenna, Ber-tinoro, Bagnacavallo, Castrocaro e Conio). Con quanta accorata ma-linconia, fino al pianto, Guido del Duca ricorda:

“le donne e’ cavalier, li affanni e li agiche ne ’nvogliava amore e cortesialà dove i cuor son fatti sì malvagi”. (vv. 109-111)

A corollario di questo canto, nel XVI tra gli iracondi anche Mar-co Lombardo in poche battute tratteggia la degenerazione moraledella Lombardia:

“In sul paese ch’Adice e Po riga,solea valore e cortesia trovarsi,prima che Federigo avesse briga;or può sicuramente indi passarsiper qualunque lasciasse per vergogna,di ragionar coi buoni o d’appressarsi”. (vv. 115-120):

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__________21 Dante nel marzo del 1303 si trova a Forlì presso Scarpetta degli Ordelaffi,

in qualità di cancelliere del comitato dei Bianchi in esilio, quando si verificanogli eventi indicati.

22 Cfr. Purg. XIV, vv. 88 e sgg.

la crisi dei valori secondo il penitente, è conseguente alla crisi del po-tere imperiale nella Val Padana, per cui solo in tre vecchi rampogna

“l’antica età la nova, e par lor tardoche Dio a miglior vita li ripogna:Currado da Palazzo e ‘l buon Gherardoe Guido da Castel, che mei si noma,francescanamente il semplice Lombardo”. (cfr. vv. 121-126)

A questa svalutazione etica non si sottrae neanche Alberto dellaScala, padre di Bartolomeo, Alboino e Cangrande, il quale è protago-nista nel canto XVIII del Purgatorio di una tirata denigratoria peraver investito del priorato di San Zeno il figlio naturale Giuseppe, de-forme nel corpo e ancor più nell’animo;23 eppure proprio qui, a Vero-na, presso il gran Lombardo filo-ghibellino, con ogni probabilità Bar-tolomeo della Scala, signore dal 1301 al 1304, il poeta troverà lo pri-mo suo rifugio e ‘l primo ostello (v. 70): l’accoglienza benevola e cor-tese di Bartolomeo ricalca i più autentici crismi della liberalità, il do-nare spontaneo prima ancora del domandare, che risana almeno inparte l’amara ferita impressa dallo strale dell’esilio e l’umiliazione deldover mendicare l’ospitalità altrui.

“Tu proverai sì come sa di salelo pane altrui, e come è duro callelo scender e ‘l salir per l’altrui scale”. (vv. 58-60)

È probabile che, dopo aver lasciato Verona, Dante si sia recatoprima, nell’estate 1306, da Gherardo da Camino, suo ospite nellaMarca Trevigiana, e nello stesso autunno in Lunigiana presso i Ma-laspina, il cui pregio de la borsa e de la spada (Purg. c. VIII, 129)viene esaltato nella valletta dei principi negligenti grazie all’incontro

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__________23 Purg. XVIII, vv. 121-126. Insieme ad Alberto per altro, anche il figlio Al-

boino non gode di ottima fama in Convivio IV,16,6, dove Dante lo mette diret-tamente a confronto con la nobiltà di Guido da Castello di Reggio, conosciutoda Dante a Verona, proprio uno dei gentiluomini citati da Marco Lombardo.

con Currado, cugino di quel Moroello che, nonostante le divergen-ze politiche, era diventato amico del poeta. Nel dialogo tra i due,celebrando la fama della casata dominante in Val di Magra, paleseper tutta Europa (cfr. v. 123), a Dante viene preannunciato dall’ani-ma purgante con una profezia post eventum che anch’egli avrebbesperimentato la gentilezza di cuore della sua famiglia, trovando inessa aiuto ed ospitalità24:

“Ed elli: “Or va; che ‘l sol non si ricorcasette volte nel letto che ‘l Montonecon tutti e quattro i piè cuopre e inforca,che cotesta cortese oppinïoneti fia chiavata in mezzo de la testacon maggior chiovi che d’altrui sermone,se corso di iudicio non s’arresta”. (vv. 133-139)

Quindi, se l’indifferenza per gli ideali cavallereschi dilaga in tuttal’Italia settentrionale, solo in pochi si mantiene vivo l’abito di vertude,sì morale come intellettuale25, per cui i Malaspina, privilegiati dall’e-sercizio costante delle virtù e dell’ingegno, si contrappongono auto-revolmente alle deviazioni dei poteri universali. Tra il 1307 e il 1309 ilpoeta si rifugia presso i conti Guidi nel Castello di Poppi in Casenti-no e a Lucca dalla nobildonna Gentucca26, a cui fa veloce riferimen-to Bonagiunta Orbicciani nel canto XXIV del Purgatorio:

28

__________24 Un documento del 6-10-1306 riporta il nome del poeta quale procuratore

del marchese Franceschino per la conclusione di un trattato di pace col vescovodi Luni.

25 Convivio, I, 11,7.26 Purg. c.XXIV,v.37-38:”El mormorava; e non so che “Gentucca”/sentiv’ io

là,…”. L’espressione, variamente interpretata, farebbe pensare ad una GentuccaMorla, moglie di Bonaccorso di Lazzaro di Fondora, che Dante frequentò al se-guito di Morello Malaspina, uomo politicamente molto influente anche nella vi-cina Lucca. La sua ospitalità fu tanto più generosa in quanto a Lucca gli esuliBianchi fiorentini erano visti con ostilità, come si intravede dalle parole di Bo-nagiunta.

“Femmina è nata, e non porta ancor benda”,cominciò el, “che ti farà piacerela mia città, come ch’om la riprenda.Tu te n’ andrai con questo antivedere :se nel mio mormorar prendesti errore,dichiareranti ancor le cose vere”. (vv. 43-48)

Le tribolazioni sofferte da Dante in quel lasso di tempo sono benraffigurate in due personaggi riservati e silenziosi, che nella loro in-dividuale fierezza sono additati da terzi come emblema di autorevo-lezza ed integrità, nonché di grande disponibilità. Il primo è Pro-venzan Salvani27 che tra i superbi precede Dante a colloquio conOderisi da Gubbio: proprio quest’ultimo ne rievoca in pochi versile vicende terrene, rivelando come si sia guadagnato l’accesso diret-to in purgatorio. Narra Oderisi che il superbo Provenzan si era umi-liato già in vita:

“Quando vivea più glorïoso”, disse,“liberamente nel Campo di Siena,ogne vergogna diposta, s’affisse;e lì, per trar l’amico suo di pena,ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,si condusse a tremar per ogne vena.”, (vv. 133-138)

ed aggiunge che non passerà molto tempo ed anche il poeta potrà sen-tire fino in fondo lo strazio di quel gesto umiliante. In quest’ultimaprofezia del Purgatorio, la focalizzazione del racconto è tutta internaal personaggio di Provenzan: questo politico arrogante, capace diconvertire il suo tumor in bona umiltà (v. 119), come un fraticellofrancescano, è controfigura di Dante stesso, che appiana il suo orgo-glio nella mortificazione della questua. Il secondo è Romeo da Villa-nova, la cui luce beata splende nel cielo di Mercurio; ad esaltarne ipregi è Giustiniano, che ne riabilita l’azione e la competenza infanga-te dalle parole biece (Par.VI,v.136) dei cortigiani. Infatti Romeo fun-

29

__________27 Cfr. Purg. XI, vv. 121 e segg. Confronta Exegi monumentum, nota n. 4.

zionario dell’ultimo Conte di Provenza, Raimondo Berengario IV, fuchiamato da quest’ultimo a render conto del suo operato nell’ammi-nistrazione dei beni. Con estrema dignità questo giusto (v.137), cheaveva accasato regalmente le quattro figlie del suo signore e ne avevaaddirittura accresciuto il patrimonio (cfr.v.138), si rassegna all’ingiu-stizia terrena, allontanandosi povero e vetusto (v.139) e riprendendo lavita raminga del pellegrino:

“e se ‘l mondo sapesse il cor ch’ elli ebbemendicando sua vita a frusto a frusto,assai lo loda, e più lo loderebbe”. (vv. 140-142)

In queste parole finali di Giustiniano non c’è tecnicamente unaprofezia, ma un’evidente allusione: Dante e Romeo sposano gli stessiprincipi etici e sociali, esprimendoli nel loro vissuto con azioni re-sponsabili e coerenti; subiscono l’invidia speciosa dei loro nemici, co-stretti a vagabondare con eroica forza d’animo, serrando nel cuorel’amarezza e la precarietà dell’esilio. Così infatti si legge nel Convivio:“…Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de lamia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, néio sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate.Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia diRoma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato enutrito fui in fino al colmo de la vita mia e nel quale, con buona pace diquella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e termi-nare lo tempo che m’è dato -, per le parti quasi tutte a le quali questalingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrandocontra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al pia-gato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanzavela e sanza governo portato a diversi porti e foci e liti dal vento seccoche vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti cheforseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel co-spetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregiosi fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare” (I, III, 3-5).E se l’umanità, che pure infligge il tormento e perseguita i giusti, nonriesce a riconoscerne i meriti, è però vero che essi troveranno il lorocompenso nella Giustizia divina, sola dispensatrice di verità:

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“La colpa seguirà la parte offensain grido, come suol; ma la vendettafia testimonio al ver che la dispensa”. (ib. vv. 52-54)

L’unica possibile consolazione per Dante è allora sub specie aeter-nitatis.

Che la provvida sventura dell’esilio si connoti di tinte contrastantinell’opera dantesca appare ormai chiaro: nell’inferno l’esperienza do-lorosa si esprime con accenti disincantati e quasi cronachistici, invi-tando il lettore ad un esame oggettivo di fatti, luoghi, tempi e perso-naggi; nel purgatorio, invece, i toni si fanno più intimi ed emotivi, lerievocazioni di quelle atmosfere di solitudine alludono a sentimenti,stati d’animo, ad inconsapevoli e ansiosi presentimenti che si insinua-no attraverso le parole degli interlocutori del poeta; nell’incontro conCacciaguida, infine, si rivela in piena luce il destino di Dante e si an-nunzia per chiare parole e con preciso/ latin (cfr. vv. 34-35) il provvi-denzialismo della missione ad esso congiunta.

Fulcro ricorrente nel profetismo della Commedia è il personaggiodi Cangrande della Scala; a lui Cacciaguida riserva nel nostro cantoun trattamento di favore, dedicandogli ben sei terzine, in cui si con-densano i tratti marziali di eccezionale vigore, l’impronta miracolisti-ca che lo accomuna addirittura a Beatrice28, il lodevole ideale politicofilo-imperiale, il disinteresse per i beni mondani, la magnanimità esal-tata financo dai nemici. Insomma, un vero e proprio magnificat, cul-minante nel riconoscimento dei suoi indiscutibili meriti sociali attra-verso gli strumenti della politica e nella sincera professione di grati-tudine personale da parte di chi ne ha sperimentato le alte qualità:

“A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;per lui fia trasmutata molta gente,cambiando condizion ricchi e mendici;e portera’ne scritto ne la mentedi lui, e nol dirai”; e disse coseincredibili a quei che fier presente”. (ib. vv. 88-93)

31

__________28 Cfr. Vita Nuova, II,1.

E se Cangrande fosse anche il veltro del I canto dell’inferno, con-siderazione ben sostenibile in virtù delle numerose analogie espressi-ve dei due luoghi poetici? Inoltre, l’importanza esegetica dell’Episto-la XIII a lui indirizzata sull’allegorismo del poema e l’onore di essereil dedicatario della terza cantica conferiscono al benefattore un ruoloprivilegiato fra gli attanti della vicenda umana di Dante, in qualità disuo generoso ospite dal 1313 al 131829. Dopo tale data pare che eglistesso abbia inviato il poeta a Ravenna presso Guido Novello da Po-lenta per assolvere delicati incarichi diplomatici nel contrasto sortotra questa città e Venezia a proposito del monopolio sul sale ed altremerci assunto da quest’ultima. Da quel momento, anche per le affet-tuose insistenze del da Polenta, il nostro si ferma a Ravenna per com-porre le divergenze economiche ed al rientro da una ennesima amba-sceria a Venezia, colpito da febbri malariche, muore tra il13 e 14 set-tembre del 1321.

A differenza dei primi anni di peregrinazione inquieta ed inces-sante, i due ultimi lunghi soggiorni a Verona e a Ravenna testimonia-no quanto questi asili siano stati confortati dall’amicizia, dalla stima edal rispetto reciproco, che rendono meno opprimente la richiestad’aiuto e più appetibile l’offerta del cibo; non è casuale il ricorreredella metafora del pane e dell’acqua che estinguono la fame di giusti-zia e diluiscono l’asprezza del sale: così, in questa sintesi profeticacompaiono i termini sete (v. 12), sale e pane (vv. 58-59), forte agrume(v. 117), vidal nodrimento (v. 131); ma ricordiamo anche il mendicarsua vita a frusto a frusto di Romeo di Villanova. È singolare che la me-tafora del pane non ricorra altrimenti nel poema se non in riferimen-to al cibo spirituale dell’Eucaristia30 e ciò è degno di nota, poiché ilpoeta, drammaticamente perseguitato dalla chiesa, condivide in que-gli anni la scomunica inferta a Cangrande nel 1317 dal papa Giovan-ni XXII per cause politiche:

32

__________29 Si legga a riguardo l’intestazione dell’epistola dedicatoria: “Magnifico atque

victorioso domino dominoCani Grandi de la Scala, …devotissimus suus DantesAlagheriiflorentinus natione non moribus, vitam orat pre tempora diuturna feli-cem et gloriosi nominis perpetuum incrementum. Magnificentie laus …”.

30 L’espressione il pan de li angeli in Par. II, v. 11, sta ad indicare la sapienzafilosofica illuminata dalla rivelazione cristiana.

“Già si solea con le spade far guerra;ma or si fa togliendo or qui or quivilo pan che ‘l pïo Padre a nessun serra”. (Par. XVIII, vv. 127-129)31

Qui il termine pane assume il valore pregnante di comunione spi-rituale che si instaura nel nome di ideali condivisi o della fede tra chidona e chi è beneficato, tra Dio e i fedeli e in ultima analisi tra Can-grande e Dante32. Ben si addice a questa circostanza l’espressionesentenziosa che conclude l’Epistola XII inviata dal poeta ad un ami-co fiorentino: “Né certo mancherà il pane”.33 L’Epistola, scritta proprioa Verona, si riferisce ad una seconda amnistia dopo quella del 1311,concessa ai fuoriusciti nel 1315 a costo di pratiche penitenziali pub-bliche e umilianti. Ma il poeta, sdegnato e fermo nella consapevolez-za dei propri meriti e della propria onorabilità, così replica: “È code-sta la graziosa revoca con cui è richiamato in patria Dante Alighieri, cheha sofferto l’esilio quasi per tre lustri? Ciò meritò l’innocenza a tuttimanifesta? Ciò il sudore e l’assidua fatica nello studio? Sia lontano daun uomo familiare con la filosofia una così inconsulta bassezza d’animoda sopportare di offrirsi come un carcerato al modo di un Ciolo e di al-tri infami! Sia lontano da un uomo che predica la giustizia che avendopatito ingiurie paghi il suo denaro a coloro che l’ingiuria arrecarono, co-me se ben lo meritassero!Non è questa, padre mio, la via del ritorno inpatria; ma se prima da voi o poi da altri se ne trovi un’altra che non de-roghi alla fama e all’onore di Dante, l’accetterò a passi non lenti; ché seper nessuna siffatta s’entra a Firenze, a Firenze non entrerò mai. E che?Forse che non vedrò dovunque gli specchi del sole e degli astri? Forse

33

__________31 Cfr. Purg. III, vv. 133-135 sul medesimo tema della scomunica ( maladi-

zion) inferta per motivi politici a Manfredi da Clemente IV.32 Cfr. n° 27. Ci chiediamo a questo punto quanto peso abbia l’Epistola XIII

dedicatoria del Paradiso a Cangrande (1317-1320): semplice profferta di amici-zia e di devozione, o vero e proprio risarcimento della scomunica appena subi-ta e quindi polemica risposta alla maledizione papale, troppo spesso abusata perragion di stato?

33 La rinuncia di Dante a rientrare in Firenze determinò l’esilio perenne deisuoi figli maschi, banditi nel novembre 1315 con sentenza emanata da Ranierid’Orvieto, vicario di Roberto d’Angiò.

che non potrò dovunque sotto il cielo indagare le dolcissime verità, sen-za restituirmi prima abietto anzi ignominioso al popolo e alla città di Fi-renze? Né certo mancherà il pane”.34

Ben merita dunque Firenze l’anatema lanciatole da Cino da Pistoianella canzone In morte di Dante:

“Ecco, la profezia che ciò sentenzaor è compiuta, Firenza, e tu ‘l sai:se tu conoscerai, il tuo gran danno piangi che t’acerba;e quella savia Ravenna che serbail tuo tesoro, allegra se ne goda,ch’è degna per gran loda”. (vv. 31-36)

Se solo questa Firenze, tanto amata da Dante da essere presente,persona e personaggio, in ogni sua opera, avesse dato ascolto alla suainvocazione di pace e di riconciliazione a costo di un perdono elargi-to, ma mai richiesto:

“Canzone, uccella con le bianche penne;canzone, caccia con li neri veltri,che fuggir mi convennema far mi poterian di pace donoperò nol fan che non san quel che sono:camera di perdon savio uom non serra,ché ‘l perdonare è bel vincer di guerra”35.

34

__________34 Cfr. Epistola XII, Ad un amico fiorentino, 3-4. (Dante Alighieri, Tutte le

Opere, a c. di L. Blasucci, Sansoni, Firenze 1965, pagg. 340-341).35 Tre donne intorno al cor, vv. 101-107.

INFERNO, c. XIX

Il XIX canto dell’Inferno è uno di quelli in cui la verve polemicadi Dante si arricchisce di motivi assai diversi, tutti ben analizzati dal-la critica che, con dovizia di argomentazioni, ha messo in evidenza orail realismo delle immagini, accentuato dai cenni al quotidiano, all’au-tobiografismo, al costume sociale; ora la tendenza al comico e al grot-tesco, esplicitata nelle situazioni tragicomiche e nell’asprezza del lin-guaggio; ora l’indignatio del poeta, che, da vero protagonista, si lan-cia in una sprezzante invettiva moralistica contro la chiesa degenere;ora, infine, e non ultimo, il messaggio politico che il canto veicola.

La nostra lettura non vuole essere un’antologizzazione critica del-le varie posizioni fin qui emerse, piuttosto una proposta d'analisi che,individuando nel capovolgimento il leit motiv del canto, attraversouna serie di possibili giochi interpretativi, intende porre in rilievo leimplicazioni religiose, etico-sociali e politiche del peccato di SIMO-NIA nel Medioevo, ben consapevoli che la Commedia di Dante è unasumma, una trama fittissima d'agganci e connessioni che percorronol’intera opera, conferendole coerenza e unitarietà tematica e poetica.

O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci 3per oro e per argento avolterate, or convien che per voi suoni la tromba,però che ne la terza bolgia state. 6Già eravamo, a la seguente tomba,montati de lo scoglio in quella parte ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba. 9O somma sapienza, quanta è l’arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtù comparte! 12Io vidi per le coste e per lo fondo piena la pietra livida di fori,d’un largo tutti e ciascun era tondo. 15Non mi parean men ampi nè maggiori

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che que’ che son nel mio bel San Giovanni,fatti per loco d’i battezzatori; 18l’un de li quali, ancor non è molt’ anni, rupp’ io per un che dentro v’annegava:e questo sia suggel ch’ogn’ omo sganni. 21Fuor de la bocca a ciascun soperchiavad’un peccator li piedi e de le gambeinfino al grosso, e l’altro dentro stava. 24Le piante erano a tutti accese intrambe;per che sì forte guizzavan le giunte,che spezzate averien ritorte e strambe. 27Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia, tal era lì dai calcagni a le punte. 30“Chi è colui, maestro, che si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti”,diss’io, “e cui più roggia fiamma succia?” 33Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti portilà giù per quella ripa che più giace,da lui saprai di sé e de’ suoi torti” 36E io: “Tanto m’è bel, quanto a te piace:tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi partodal tuo volere, e sai quel che si tace” 39Allor venimmo in su l’argine quarto;volgemmo e discendemmo a mano stancalà giù nel fondo foracchiato e arto. 42Lo buon maestro ancor de la sua ancanon mi dipuose, sì mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca. 45“O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa”,comincia’ io a dir, “se puoi, fa motto”. 48Io stava come ’l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto, richiama lui per che la morte cessa. 51Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio?

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Di parecchi anni mi menti lo scritto. 54Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazioper lo qual non temesti torre a ’nganno la bella donna, e poi di farne strazio?”. 57Tal mi fec’ io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch’è lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno. 60Allor Virgilio disse: “Dilli tosto:‘Non son colui, non son colui che credi’”; e io rispuosi come a me fu imposto. 63Per che lo spirto tutti storse i piedi;poi, sospirando e con voce di pianto, mi disse: “Dunque che a me richiedi? 66Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto, che tu abbi però la ripa corsa, sappi ch’i’ fui vestito del gran manto; 69e veramente fui figliuol de l’orsa, cupido sì per avanzar li orsatti, che sù l’avere e qui me misi in borsa. 72Di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando,per le fessure de la pietra piatti. 75Là giù cascherò io altresì quando verrà colui ch’i’ credea che tu fossi, allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando. 78Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi e ch’i’ son stato così sottosopra, ch’el non starà piantato coi piè rossi: 81ché dopo lui verrà di più laida opra, di ver’ ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra. 84Nuovo Iasòn sarà, di cui si legge ne’ Maccabei; e come a quel fu molle suo re, così fia lui chi Francia regge”. 87Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:“Deh, or mi dì: quanto tesoro volle 90

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Nostro Segnore in prima da san Pietroch’ei ponesse le chiavi in sua balìa? Certo non chiese se non ‘Viemmi retro’. 93Né Pier né li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito al loco che perdé l’anima ria. 96Però ti sta, ché tu se’ ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta ch’esser ti fece contra Carlo ardito. 99E se non fosse ch’ancor lo mi vieta la reverenza de le somme chiavi che tu tenesti ne la vita lieta, 102io userei parole ancor più gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi. 105Di voi pastor s’accorse il Vangelista,quando colei che siede sopra l’acque puttaneggiar coi regi a lui fu vista; 108quella che con le sette teste nacque, e da le diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque. 111Fatto v’avete dio d’oro e d’argento; e che altro è da voi a l’idolatre, se non ch’elli uno, e voi ne orate cento? 114Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!”. 117E mentr’io li cantava cotai note,o ira o coscienza che ’l mordesse, forte spingava con ambo le piote. 120I’ credo ben ch’al mio duca piacesse, con sì contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse. 123Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s’ebbe al petto, rimontò per la via onde discese. 126Né si stancò d’avermi a sé distretto,

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sì men portò sovra ’l colmo de l’arco che dal quarto al quinto argine è tragetto. 129Quivi soavemente spuose il carco, soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe a le capre duro varco. 132Indi un altro vallon mi fu scoperto.

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UNA SPELONCA DI LADRI

Si narra negli Atti degli Apostoli (VIII, 9-20) che un tal Simone,mago di Samaria, pretendeva di comprare da Pietro e da Giovanni lafacoltà di imporre le mani e di comunicare lo Spirito Santo; a lui Pie-tro rispose: “Vadano i tuoi denari in perdizione con te, poiché hai cre-duto che il dono di Dio si può acquistare con denaro”.

È costume dantesco ricorrere alla solennità biblica, o in forma dicitazione testuale o anche soltanto di reminiscenza concettuale, allor-quando l’indignazione del poeta moralista necessita di supporti in-controvertibili, che assumono valore di legge morale per un pubblico,come quello medievale, sicuramente aduso alla lettura dei testi sacri:

“che l’animo di quel ch’ode, non posané ferma fede per essempro ch’aiala sua radice incognita ed ascosa,né per altro argomento che non paia” (Par. XVII, vv.139-142)

E quale dimostrazione più evidente degli argomenti biblici, i qua-li assolvono nella struttura della Commedia la stessa funzione chehanno gli affreschi nei templi della cristianità, ossia costituiscono unmezzo di comunicazione immediato ed efficace: hanno cioè, il com-pito di colpire l’immaginario dell’ascoltatore o lettore che sia, di sug-gestionarlo e quindi di persuaderlo della giustezza delle tesi dell’au-tore, secondo i parametri canonici delle artes dictandi, valorizzandocol realismo la struttura retorica della poesia.

Orbene, l’utilizzazione della fonte scritturale suggerisce già unprimo possibile capovolgimento: Simon mago chiede agli aposto-li che i doni dello Spirito gli siano concessi dietro pagamento delproprio danaro, mentre i chierici medievali non solo comprano,ma vendono anche decime, benefici, indulgenze, ordinazioni sa-cerdotali e privilegi personali e ad essi il Papa, a differenza di Pie-tro, consente ed avalla tale turpe commercio delle cose sacre. So-no Pietro e Dante che assolvono, invece, la medesima funzione,poiché la perdizione profetizzata da Pietro a Simon mago, colpe-vole in fondo di aver soltanto ingenuamente creduto di poter per-

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fezionare la propria arte taumaturgica, viene in questo canto com-minata da Dante ai papi degeneri, rei di aver pesantemente e co-scientemente infiltrato il malcostume della Simonia nella chiesamedievale.

Che Dante ascriva l’ignobile peccato di cupidigia, simboleggiatoallegoricamente dalla lupa nel I canto dell’Inferno, a tanti cherci cor-rotti lo si vede già nel VII canto della stessa cantica 1; ma il peccato diSimonia compete alle alte sfere della gerarchia ecclesiastica, fatta og-getto di dura condanna in relazione ai valori religiosi, etico-sociali epolitici che formano la coscienza dantesca.

Dante non esita, infatti, ad inserire in questo canto tre Papi –Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V – ma non tralascia di deli-neare a tratti fortemente negativi, nell’intera Commedia, altri Papi alui contemporanei (14 in tutto dal 1265 al 1316, anno della elezio-ne di Giovanni XXII); di questi uno solo, Giovanni XXI, è solleva-to alla gloria del Paradiso, posto nella seconda corona degli spiritisapienti (i mistici), ma di lui si parla in quanto filosofo, Pietro Spa-no, lo qual già luce in dodici libelli (cfr. Par. XII, vv. 134-135), e nonin quanto Papa.

Di altri cinque tace, quasi a voler confermare il suo Non ragioniamdi lor, ma guarda e passa (Inf. III, v. 51), rivolto agli ignavi, tra cui siindividua bene la figura di Celestino V, senza volerlo colpevole dellaelezione pontificale di Papa Caetani.

Nel Purgatorio Clemente IV è tristemente noto come colui che mi-se il pastor di Cosenza alla caccia di Manfredi; Martino IV, che ebbela Santa Chiesa in su le braccia, purga per digiuno la sua golosità (cfr.XXIV, vv. 22-23). Adriano V è posto tra gli avari, in un contesto cheriproduce perfettamente la punizione dei simoniaci infernali; essi so-no tutti rivolti bocconi verso la terra:

“Si come l’occhio nostro non s’adersein alto, fisso a le cose terrene, così giustizia qui a terra il merse” (Purg. XIX, vv. 118-120).

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__________1 Cfr. Inf., c. VII, vv. 37-39.

Chiarissima la simmetria tra i canti XIX delle due cantiche ed ana-loghe le posizioni capovolte delle anime; ma il capovolgimento si in-tensifica per i simoniaci nell’escogitazione di un contrappasso percontrasto rispetto alla loro colpa: essi sono conficcati in terra, fontedella ricchezza e dei beni a cui aspirarono intensamente in vita, peranalogia col peccato commesso; in contrasto con il ministero aposto-lico da loro esercitato, rivolgono al cielo i piedi circonfusi di fuoco,con una specie di aureola rovesciata, che ricorda il fiammeggiar dellecose unte (cfr. ib. v. 28), anch’essa scoperta allusione all’unzione sa-cerdotale; e pongono in borsa se stessi.2

Infine, il Papa Giovanni XXII, ancora in vita alla morte di Dante,è ricordato due volte nella Commedia per la sua indegnità: è accusa-to con feroce sarcasmo di Simonia nel XVIII canto del Paradiso:

“Ma tu che sol per cancellare scrivi,pensa che Pietro e Paulo, che moriroper la vigna che guasti, ancor son vivi” (vv. 130-133)

poiché scomunica e per danaro annulla le scomuniche; ancora, Gio-vanni XXII è assimilato da S. Pietro al nostro simoniaco Clemente Vnel canto XXVII del Paradiso, attraverso i quali il primo papa de-nuncia la decadenza dell’istituzione 3. L’accusa verso questo Papa è lastessa formulata contro i Papi del nostro canto ai vv. 90-96, in cuicompaiono, a suffragare la legittimità di tale duro giudizio, ben quat-tro citazioni scritturali, tre desunte dai Vangeli 4 condensate nell’uni-ca espressione Vemmi retro (v. 93) ed una dagli Atti degli Apostoli 5:questi Pontefici guastano la vigna per cui vivono nella gloria eternaPietro e Paolo e pertanto viene esplicitamente capovolto e contrap-posto l’operato dei Papi medievali rispetto a quelli dei loro modellievangelici.

L’immagine della vigna come metafora della Chiesa, tratta dal

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__________2 Cfr. ib. v. 72: e qui me misi in borsa.3 Cfr. Par. XXVII, vv. 40-60.4 Cfr. Matteo IV, 19; Matteo XVI, 18-19; Marco 1, 17.5 Cfr. Mattia 1, 23-26.

XVIII canto del Paradiso appena citato, ricorre frequentemente neitesti biblici 6 e viene prescelta anche da Dante nel Par. XII a proposi-to di S. Domenico, eletto da Cristo quale agricola destinato

“ ...a circuir la vigna che tosto imbianca, se ‘l vignaio è reo” (vv. 86-87)

La Santa Sede, un tempo generosa verso i poveri giusti, tralignadunque per colpa di colui che siede, abusando spesso a proprio van-taggio di rendite e decime – quae sunt pauperum Dei – sostiene espres-samente il poeta (cfr. Par. XII, vv. 88-93). Si capovolge così un vinco-lo essenziale che lega la chiesa ai principi apostolici di povertà e di co-munione di beni: quello stesso vincolo che viene individuato insisten-temente da Dante nel canto precedente a quello testé citato come unvero sacrum commercium, ovvero le mistiche nozze tra Cristo-Fran-cesco e la Chiesa-Povertà. Tale immagine, mutuata da Dante dalla mi-stica medievale, suole esprimere realisticamente – come evidenzia inparticolare Auerbach – lo stretto rapporto che intercorre tra la chie-sa e i suoi adepti ed insiste sulla sacralità dei voti di povertà, obbe-dienza e castità a cui questi ultimi sono tenuti. Così Francesco, sposodopo millecent’anni e più della Povertà, privata del primo marito –Cristo – rinnova nello spiritualismo medievale l’ideale pauperisticorinnegato dalla mondanità ecclesiastica e per tal donna – MadonnaPovertà, appunto – non esita a correre in guerra del padre 7; i Papi si-moniaci invece non temono di

“torre a’ngannola bella donna e poi di farne strazio” (ib. vv. 56-57)

come si dice esplicitamente a proposito di Bonifacio VIII.

Si configura così un evidente capovolgimento del legame maritale

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__________6 Cfr. i testi veterotestamentari di Genesi, Deuteronomio, Isaia; è nota la

parabola evangelica degli operai della vigna in Matteo XX, 1-6.7 Cfr. Par. XI, vv. 58-75.

tra la Chiesa-Povertà ed il suo sposo terreno, che disonora il vincolo,adulterandolo e tradendolo e per di più costringendo la sposa allasordida umiliazione della prostituzione. Il “mistico adulterio” – cosìci piace indicare il capovolgimento delle mistiche nozze – si evince daquattro passi del canto in oggetto: nei vv. 2-4 i miseri seguaci di SimonMago vengono apostrofati come coloro che per oro e per argentoadulterano le cose di Dio, che devono essere spose di virtù; non te-mono di fare strazio della bella donna, dopo averla sposata con la fro-de (è sicuramente d’effetto l’uso del latinismo “uxorem o mulieremtollere”); ancora più incisiva è l’interpretazione della profezia apoca-littica di S. Giovanni (XVII, 1-3), viva negli ambienti spirituali me-dievali, in cui Dante ravvisa nella Roma cristiana, ossia la chiesa cor-rotta, la meretrice con la quale fornicarono i re della terra: ella, dota-ta dei sette sacramenti e sostenuta dai dieci comandamenti (le sette te-ste e le dieci corna, cui si fa riferimento ai vv. 109-110), rimase vir-tuosa finchè virtute al suo marito piacque (v. 111); infine, quando ille-gittimamente Costantino fornisce alla Chiesa i beni dotali, ossia iltemporalismo, la sposa, – non più dispetta e scura (cfr. Par. XI, v. 65)– diviene ambita e ricercata proprio in virtù della sua ricchezza.

I papi, allettati da questa dote e colpevoli d’adulterio, si è detto, inquesto canto sono tre: Niccolò III è l’unico con cui – per ovvi motivistorici (25/11/1277 - 22/08/1280) – Dante si intrattiene. Il meschinoe patetico personaggio (vv. 67-72) si riconosce subito come

“cupido si per avanzar li Orsatti” (ib. v. 71).

Nell’espressione comica si coglie il condannabile nepotismo e l’in-decoroso interesse privato che egli esercitò a scapito del proprio uffi-cio spirituale; il giudizio di Dante verso Niccolò III, Papa Orsini de-dito all’accrescimento della propria prestigiosa famiglia, è certamentesevero:

“Però ti sta, che tu se’ ben punito” (ib. v. 97),

poiché le rendite ecclesiastiche, arricchendolo, lo hanno reso arro-gante anche contro l’autorità statale, se è vero che il Papa promosse

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la sollevazione dei Vespri siciliani contro Carlo I D’Angiò nel 1282,evento a cui, come leggiamo al v. 99, Dante sembra credere. Ma l’in-dignazione non raggiunge ancora toni drammatici; prevale, infatti,una certa tendenza all’ironia e al grottesco, tesa a sminuire la staturaumana di un Papa che, in quanto vestito del gran manto (v. 69) ha so-stenuto prioritariamente la propria famiglia, esercitando a suo van-taggio un favoritismo esasperato.8

Egli si cruccia, guizzando (vv. 31-32), piangeva con la zanca (v. 45)come un bambino che pesta i piedi, con atteggiamento opposto allaieraticità del sommo sacerdozio ricoperto in terra, e sembra quasi vo-ler giustificare le proprie colpe, rivelando che altri lo precedettero si-moneggiando, ma che due soprattutto, ben più colpevoli, lo segui-ranno nella dannazione.

Il primo successore, Bonifacio VIII, di cui si anticipa la punizioneeterna, ha ottenuto la cattedra pontificale per Simonia, ingannandoCelestino V; odioso a Dante anche per le feroci persecuzioni attivatecontro gli spirituali francescani, tra i quali fu sua vittima illustre Jaco-pone da Todi, è considerato dal Poeta il vero artefice delle lotte civilitra Guelfi bianchi e Guelfi neri, poiché, alleato dei banchieri e dei ce-ti più facoltosi di Firenze, aveva favorito l’entrata di Carlo di Valois incittà e la conseguente cacciata dei Bianchi. Bonifacio VIII non è sol-tanto nemico personale di Dante, a danno del quale ordisce la tramafraudolenta dell’esilio

“Questo si vuole e questo già si cercae tosto verrà fatto” (Par. XVII, vv. 49-50),

ma è anche colui che fa pubblico mercato delle cose divine là doveCristo tutto dì si merca (Par. XVII, 51). La simonia di Bonifacio è per-tanto più grave di quella di Niccolò, poiché non privilegia la sfera pri-vata e gli interessi famigliari, ma si irradia nella vita politica italiana ed

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__________8 Nei bestiari medievali l’orsa era considerata animale avido ed ingordo, e

molto amante della prole. Gli Orsini erano detti “De filiis ursae”: l’etimologiadel cognome, a cui Dante fa scoperta allusione, conferma l’adesione del poeta alnominalismo scolastico (nomina sunt consequentia rerum).

interferisce col tessuto sociale ed umano, facendo vittime innocenti,come Dante stesso, exul immeritus. In questo climax ascendente Cle-mente V (Bertrand de Got) è certamente più colpevole: riconosciutodallo stesso Niccolò di più laida opra, un pastor sanza legge (cfr. ib, vv.82-83), Clemente ha comprato l’appoggio del re Filippo il Bello perl’elezione al pontificato e ne diventa succube; ha trasferito la sede del-la Curia pontificia ad Avignone ed ha complottato con lo stesso re perla persecuzione e la spoliazione dei Templari 9 fino alla soppressionedello stesso ordine cavalleresco: egli è il novello Giasone di cui si leg-ge nei Maccabei (II, IV, 7-26), che comprò dal re Antioco IV Epifanela dignità del Sommo sacerdozio; ma soprattutto ha contribuito al fal-limento dell’impresa militare di Arrigo VII di Lussemburgo, in cuiDante aveva riposto grandi speranze per il rinnovamento della politi-ca imperiale:

“Ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni” (Par. XVII, v. 82).

Scandalosa è dunque, l’opera di Clemente, la cui simonia non è so-lo privata e non si irradia solo nel contesto comunale italiano, ma in-veste in pieno il problematico rapporto tra Chiesa ed Impero, e lastessa allusione veterotestamentaria, a lui riferita, rende più incisivo ilbiasimo dell’autore.

Il riprovevole esempio fornito dai Papi degeneri non può che ri-percuotersi sui costumi morali dell’intero consesso civile: la cupidigiaprofessata ed esercitata da coloro che dovrebbero costituire la guidaspirituale della comunità cristiana induce ad un inevitabile capovolgi-mento dei valori umani, poiché calcando i buoni e sollevando i pravi(ib. v. 105), torce il mondo verso l’idolatria e verso il male.

La citazione biblica ravvisabile al v. 112 10 solennizza l’accusa diDante nei confronti di chi non solo delinque, ma istiga alla delin-quenza, come sembra emergere anche nel Purgatorio (VIII, v. 131), incui il capo reo che torce il mondo dalla retta via è comunemente inte-so dai commentatori come il detentore dell’autorità papale, e sempre

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__________9 Cfr. Purg. XX, vv. 91-93.10 “Argentum suum et aurum suum fecerunt sibi idola”, tratta da Osea.

nel Purgatorio ( XVI, vv. 98 e segg.), in cui reo è il mondo che vede ilproprio pastore procedere senza distinguere il bene dal male e la cuimala condotta induce l’umanità a farsi ghiotta di beni terreni.

Tali beni terreni, a cui aspira l’umanità in virtù della sua naturamondana, dovrebbero essere ben distinti dai beni celesti, cui dovreb-be tendere l’umanità medesima in virtù della sua natura spiritualeproprio dietro la guida del Pontefice: l’inopportuna confusione deidue poteri, quello temporale e quello spirituale, nelle mani dell’unicapersona del Papa, inaugurata dall’illegittima donazione di Costantinoè, secondo Dante, la causa del traviamento del mondo.

Il problema, sollevato da Dante nei vv. 115-117 del nostro canto,viene sviscerato dal poeta – come si sa – nel libro III del De Monar-chia: l’Impero, paragonato ad una tunica inconsutile, non può esserealienato dal suo Imperatore né la Chiesa può accettare una proprietàdi cui non può detenere il possesso, “se bene intende ciò che Dio lenota” (cfr. Purg., VI, v. 93); tale donazione, pertanto, pur fatta con piaintentio 11 è fonte di quei gravissimi danni religiosi, morali e politiciche investono tutta la Chiesa, mostruosamente degradata e rappre-sentata anche nel Purgatorio 12 quale prostituta discinta, che seducecon atteggiamento provocante, invitando alla corruzione, facendosempre ricorso a quella stessa immagine apocalittica già utilizzata edevidenziata nel nostro canto ai vv. 106-108. L’intenzion sana e benignadi Costantino 13, ossia la dote fornita alla Sposa di Cristo, diventa per-tanto nelle mani dei vicari degeneri di Pietro la causa dell’ingiustiziaumana.

La simonia religiosa, in quanto violazione di vincoli sacramentalied alterazione di norme e precetti essenziali della dottrina cristiana,altro non è che peccato di eresia, come sostiene anche S. Tommasonella Summa Theologiae, a conferma della condanna conciliare dellasimonia, emessa dal Concilio Lateranense del 1059.

D’altronde, l’analogia concettuale con il canto X dell’Inferno, in

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__________11 Cfr. De Monarchia II, 11-18.12 Cfr. Purg. XXXII, vv. 142 e segg.13 Cfr. Purg. XXXII, v. 138.

cui in avelli infuocati sono relegati gli epicurei e gli eretici, si delineain vari possibili accostamenti, caratterizzati dal motivo del capovolgi-mento; già Porena, nel 1902, aveva definito Niccolò III un Farinatacapovolto, proprio per l’opposta positura fisica dei due: Farinata sisolleva dalla cintola in su dall’arca infuocata, mentre Niccolò, capo-fitto nella buca, non a caso definita da Dante una tomba (v. 7), fuo-riesce de

“...li piedi e de le gambeinfino al grosso, e l’altro dentro stava”. (ib. vv. 23-24)

Ma si può sottolineare ancora la presenza del fuoco, che nel cantoX avvolge gli avelli, mentre nel XIX sta sulle piante entrambe accese,con un aggravio di realistica degradazione, enfatizzata anche dalla du-rezza del linguaggio

“tal era lì dai calcagni a le punte” (ib. v. 30).

Opposta è anche la statura morale dei personaggi principali deidue canti, come si rileva dalla posizione fiera e statuaria di Farinatache, imperturbabile e dignitoso, mostra d’avere l’inferno a gran dispit-to (cfr. Inf. X, v. 36) mentre Niccolò

“... si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti”, (cfr. ib. vv. 31-32)

e manifesta in tutti i suoi atteggiamenti meschinità e ridicola bassezzad’animo; eppure, entrambe costituiscono due figurae impletae, Fari-nata eroico nella sua sofferenza morale che, causata dagli ideali poli-tici delusi, prevale persino sul tormento della dannazione; Niccolò,smanioso e cinico, bestiale nell’aldilà così com’era stato in vita:

“e veramente fui figliuol de l’orsa” . (ib. v. 70).

Infine, sia gli eretici che i simoniaci non vedono distintamente ilfuturo e pertanto cadono in equivoco sia Cavalcante de’ Cavalcanti,allorquando teme che il figlio Guido sia già morto, sia Niccolò III, il

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quale sente la presenza di Dante accanto a sé ed erroneamente sup-pone che si tratti di Bonifacio, ritto ancora per poco:

“Di parecchi anni mi mentì lo scritto.” (ib. v. 54).

Eretici sono pertanto anche i simoniaci, i quali hanno adoratoil denaro come unica divinità, divenuta per loro un vero e proprioAnticristo (un ulteriore capovolgimento!): l’immagine dell’Anticri-sto è confermata anche dall’avverbio sottosopra (cfr. ib. v. 80), chesi trova solo due volte nel poema, qui riferito a Niccolò III e nelXXXIV della stessa cantica a Lucifero (v. 104). L’Anticristo, idoloprofano, è enfatizzato dal ricorso ossessivo ai termini oro, argento,avarizia, avere, borsa, dote e dai durissimi riferimenti scritturali at-tinenti 14.

La simonia etico-sociale, in quanto causa di degenerazione civile ed’ingiustizia umana, è assimilata all’omicidio per danaro: non è un ca-so che Dante ricorra all’immagine realistica dell’esecuzione per pro-pagginazione comminata in epoca medievale ai sicari, che venivanocapovolti in una buca, proprio come Niccolò III, verso il quale Dan-te si curva come il confessore presso il perfido assessin (cfr. ib. v. 50):capovolgendo i ruoli, infatti, Dante laico diventa il frate confessore eNiccolò III, papa addirittura!, il peccatore condannato. Il Poeta, pe-rò, non si limita a recepire la confessione del dannato, piuttosto si er-ge a rigido censore e a giudice inflessibile, quasi un esecutore dellagiustizia divina, producendosi in una dura requisitoria che si avvaledelle tecniche più consumate della retorica classica.

La sua impietosa sentenza di condanna, visibilmente gradita allaguida-ragione, non usa parole ancor più gravi (cfr. ib. v. 103), solo per-ché lo

“...vietala reverenza de le somme chiavi” (cfr. ib. vv. 100-101).

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__________14 Cfr. i passi già citati del Vecchio e del Nuovo Testamento, Osea ed Apo-

calisse.

Il dubbio pretestuoso di aver trasceso i limiti della reverentia filia-le dovuta da ciascun individuo all’autorità del papa è ben espressodalla parola folle:

“Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,” (ib. v. 88),

che nella poesia dantesca assume il senso di chi va oltre i confini delconsentito, di quell’oltranza dissacrante in distonia col disegno divi-no, spesso attribuita dal poeta al mondo pagano ed ai suoi comporta-menti dissennati; basti pensare al folle volo di Ulisse (cfr. Inf., XXVI,v. 125) o al folle amore raggiato dalla bella Ciprigna (cfr. Par., VIII, v.2) o alla gente folle, priva cioè della rivelazione cristiana (cfr. Par.,XVII, v. 31).

L’obbligo morale dell’osservanza di tale reverenza, documentatachiaramente nel De Monarchia, diventa dunque requisito irrinuncia-bile di dottrina per il cristiano e come tale ribadito anche nel Purga-torio dove, in riferimento all’oltraggio subito dal papa Bonifacio VIIIad opera degl’inviati del re Filippo il Bello, episodio noto come lo“schiaffo di Anagni”, Dante condanna recisamente l’arroganza intol-lerabile di tale atto ed assimila pure l’odioso ed indegno pontefice aCristo, fatto prigioniero nella persona del suo vicario terreno:

“Veggiolo un’altra volta esser deriso;veggio rinnovellar l’aceto e ’l fiele,e tra vivi ladroni essere anciso”. (Purg . XX, vv. 88-90).

Da quanto detto sinora appare chiaro che tale peccato, oltre cheeresia religiosa ed omicidio prezzolato, delitto contro la società civile,è anche frode politica, poiché si configura come indebita usurpazio-ne d’illegittimo temporalismo, a tal punto ingiustificabile che neanchela succitata reverenza delle somme chiavi e del gran manto potrebbemai indurre il Poeta a rendersi complice della colpevole degenerazio-ne del successor Petri.

Contribuiscono non poco ad esplicitare l’avversione di Dante neiconfronti della Simonia il linguaggio e lo stile del canto XIX, come èsolito avvenire nella Commedia, in cui il plurilinguismo altro non èche l’apte dicere, di ciceroniana memoria. Ciò che il Poeta prova in-

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timamente è un sentimento d’ira e raccapriccio, che si tinge ora di no-tazioni ironiche:

“che sù l’avere e qui me misi in borsa.” (ib. v. 72);ora di immagini basse e grottesche:

“puttaneggiare” (cfr. v. 108)“che si cruccia / guizzando” (cfr. vv. 31-32)“e cui più roggia fiamma succia?” (cfr. v. 33)“come pal commessa” (cfr. v. 47);

ora d’echi scritturali solenni e declamatori, sin dal primo verso; ora diun’asprezza fonica costruita ad arte attraverso l’accostamento di arduifonemi consonantici, già sperimentato nelle “Rime petrose” (S sorda;Z dura; consonanti doppie, specie dentali e gutturali; nonché la suc-cessione di liquide vibranti); ora, infine, si stagliano nettamente ricer-cati artifici retorici, quali la “conduplicatio” 15 L’uso di tale condupli-catio comporta non solo l’immediata geminatio di singoli elementi fo-nici, spesso iterati ed allitteranti (sono numerosissime le parole conconsonanti doppie, specie nei vv. 44-54), ma anche la ripetizione diintere espressioni, come:

“... se’ tu già costì ritto,se’ tu già costì ritto, Bonifazio?” (cfr. ib. vv. 52-53);

“Non son colui, non son colui che credi” (cfr. ib. v. 62)

fino al capovolgimento di sillabe in forme anagrammatiche, comeguizzavan le giunte (v. 26) o intrambe, strambe, strema (vv. 25; 27; 29)o orsa, orsatti, borsa (vv. 70; 71; 72).

E perché non dovrebbe esser lecito ricorrere all’espressione piran-delliana, assai più moderna, ma efficace, dell’avvertimento del con-trario, per definire lo spirito comico-grottesco del canto, che indivi-

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__________15 Tecnica stilistica teorizzata nel Documentum de arte versificandi di Gof-

fredo di Vinsauf e nell’Ars versificatoria di Matteo di Vendôme, secondo cui laconduplicatio è l’immediata “geminatio eiusdem dictionis in eodem versu”.

dua bene anche nello stile quel leit-motiv del capovolgimento che cisiamo prefissate di ricercare?

Consentiteci, in chiusura, di suggellare la solennità dell’apostrofedantesca contro la simonia, in ossequio alla simmetria circolare checaratterizza tanti canti della Commedia, proprio con un riferimento alVangelo, dato che coi testi sacri abbiamo esordito; tale episodio evan-gelico che ci accingiamo a leggere, brevissimo ma incisivo, come te-stimonia la straordinaria coincidenza di termini e di immagini, avrà si-curamente ispirato Dante che, anche se non lo cita esplicitamente,certo s’atteggia, nel canto che abbiamo esaminato, con lo stesso vi-brato sdegno che manifesta Gesù verso i profanatori del tempio.

Narra Matteo che: “Gesù entrò nel tempio e ne scacciò tutti quel-li che vendevano e che compravano nel tempio, rovesciò i tavoli deicambiamonete e i seggi dei venditori di colombe, dicendo loro: “Stascritto: la mia casa sarà chiamata casa di preghiera, ma voi ne fate unaspelonca di ladri”.

Siracusa, maggio 1998

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PURGATORIO, c. VI

La trattazione politica nell’opera dantesca è ampia, complessa e as-solutamente asistematica, come ben sappiamo, eccetto che nel DeMonarchia, in cui essa, articolandosi e svolgendosi secondo i modulidella Scolastica medievali, perviene a conclusioni originali e del tuttorazionali: parafrasando il libro del Genesi, infatti, Dante dimostra nelIII libro del De Monarchia che i duo magna luminaria biblici non so-no affatto l’uno maius e l’altro minus, ossia l’uno brillante di lucepropria e l’altro di luce riflessa, ma sono in realtà due soli, ciascunodei quali, diversamente deputati alla felicità dell’uomo, è destinato amenare dritto altrui per ogne calle (cfr. Inf. I, v. 18).

Tale premessa si rende imprescindibile per la lettura del c. VI delPurgatorio, dal quale abbiamo inteso muoverci nella nostra indaginestorico-filologica sulla situazione politica contemporanea a Dante perpoterci idealmente ricollegare alla nostra prima conversazione sullacorruzione del Papato: Papato e Impero sono infatti i due soli, di cuidicevamo, ed entrambi vengono citati in giudizio – nel nostro canto –dinanzi al tribunale divino, in quanto rei di condotte illecite e re-sponsabili di guasti morali.

Ecco perché, più efficace degli altri canti politici, il VI del Purga-torio costituisce un punto centrale nell’universo dei possibili riferi-menti testuali che la Commedia ci offre sull’argomento e meglio deglialtri risulta databile in strettissima prossimità della composizione delDe Monarchia (la datazione del 1311, già sostenuta da qualcuno, ci èsembrata la più plausibile, grazie anche a significative comparazionitestuali che vi sottoporremo).

In secondo luogo, ci è parsa di grande attualità la sua famosissima“digressione”, in cui, superando i particolarismi municipalistici o difazione, ancor oggi assai nocivi, il Poeta concepisce un ideale di na-zione che è contemporaneamente “localistico e sovranazionale, parti-colaristico ed universale”, come dice Getto 1, tutt’altro che utopistico,

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__________1 Getto: La poesia dell’intelligenza, in Aspetti della poesia di Dante, Sansoni,

Firenze 1965.

anzi piuttosto realistico per noi che da Italiani ci riconosciamo citta-dini d’Europa. L’Italia come nuovo “giardino” d’Europa? Non ci sa-rebbe da stupirsi: Dante è stato proclamato di recente da autorevolivoci della cultura mondiale “il poeta del terzo millennio”: ed unaproiezione in un illimitato futuro è insita proprio nella suggestiva di-mensione profetica del nostro canto.

La terza, ma non ultima per importanza, sollecitazione alla letturadel canto è di natura squisitamente poetica: dobbiamo ammettere, in-fatti, di esserci lasciate suggestionare nella scelta dalla presenza – tut-t’altro che secondaria – del poeta Sordello, di cui metteremo subito inevidenza e l’importanza figurale e la funzione comunicativa altamen-te emotiva: Sordello da Goito, trovatore franco-veneto, che Dantemostra di apprezzare anche nel De Vulgari Eloquentia (I. 15.2) pro-prio per la sua scelta universalistica di poetare in lingua d’oc, era no-to nel Trecento per un suo famoso planh, il “Compianto in morte diSir Blacatz” (1236), un’apostrofe vivace e polemica in cui egli, pas-sando in rassegna i personaggi politici eminenti dell’epoca, da Fede-rico II ai re di Francia, di Navarra, di Aragona fino ai Signori di Pro-venza, li invita a cibarsi del cuore di Sire Blacatz per poterne acquisi-re i pregi.

Orbene, nella nostra conversazione abbiamo cercato di far tesorodel suggerimento del planh ed infatti anche noi vi proponiamo unospaccato di storia medievale ricostruito – o meglio ricucito – filologi-camente dalla Commedia dantesca, attraverso la disamina delle duedinastie principali, quella ghibellina degli Svevi-Asburgo e quellaguelfa degli Angioni.

E dunque nel suo planh Sordello cerca il principe degno, esatta-mente come Dante, e ne costituisce perciò nel VI canto l’immediatoriflesso poetico: la sua anima, non inserita in alcuna schiera, sembrafar parte per se stessa; è sola soletta ( v. 59), altera e disdegnosa (v .62),onesta e tarda (v. 63), sguarda a guisa di leon (vv. 66), tutta in sé romi-ta (v. 72). La tensione vibrante che ne caratterizza l’immagine si rive-la proprio nella reduplicazione intensiva dell’aggettivazione e faemergere con chiarezza il carattere aristocratico e fiero, austero e di-gnitoso, sdegnoso dei compromessi e piuttosto incline all’isolamentodalla turba spessa (v. 10) ed al raccoglimento pensoso, tratti caratte-riali del tutto analoghi a quelli del poeta, come traspare da tutta la sua

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opera ed in particolare dall’Epistola XII all’amico fiorentino. AncheSordello ci appare nell’Antipurgatorio quasi un “exul immeritus” co-me Dante lo è in terra e, sprezzante del giudizio dei suoi contempo-ranei, manifesta la stessa onestà intellettuale di Dante, pur nella con-sapevolezza che la verità, che spesso ha sapor di forte agrume (cfr. Par.XVII, v. 117) lo renderà inviso ai potenti: “I Signori mi porterannorancore per ciò ch’io dico; ma sappiano che io non li pregio più diquanto essi pregino me” 2. E però questo magnanimo, che grazie alsuo essere poeta e non politico ha saputo superare i limiti della mu-nicipalità, interpellando tutti i potenti del suo tempo, si anima digrande passione sol per lo dolce suon della sua terra (ib. v. 80), di quel-lo stesso amor di patria di cui freme Dante per Firenze e per l’Italia eda cui scaturisce il valore universale della ben nota digressione del no-stro canto.

Quando si parte il gioco de la zara,colui che perde si riman dolente,repetendo le volte, e tristo impara; 3con l’altro se ne va tutta la gente;qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,e qual da lato li si reca a mente: 6el non s’arresta, e questo e quello intende;a cui porge la man, più non fa pressa;e così da la calca si difende. 9Tal era io in quella turba spessa,volgendo a loro, e qua e là, la faccia,e promettendo mi sciogliea da essa. 12Quiv’era l’Aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,e l’altro ch’annegò correndo in caccia. 15Quivi pregava con le mani sporteFederigo Novello, e quel da Pisache fe’ parer lo buon Marzucco forte. 18

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__________2 Traduzione it. di A. Roncaglia in Le più belle pagine della letteratura d’oc e

d’oil. Nuova Accademia, Milano 1962.

Vidi Conte Orso e l’anima divisadal corpo suo per astio e per inveggia,com’e’ dicea, non per colpa commisa; 21Pier da la Broccia dico; e qui proveggia,mentr’è di qua, la donna di Brabante,si che però non sia di peggior greggia. 24Come libero fui da tutte quantequell’ombre che pregar pur ch’altri prieghi, si che s’avacci lor divenir sante, 27io cominciai: “El par che tu mi nieghi,o luce mia, espresso in alcun testoche decreto del cielo orazion pieghi; 30e questa gente prega pur di questo:sarebbe dunque loro speme vana,o non m’è ‘1 detto tuo ben manifesto?” 33Ed elli a me: “La mia scrittura è piana; e la speranza di costor non falla,se ben si guarda con la mente sana; 36ché cima di giudicio non s’avvalla perché foco d’amor compia in un puntociò che de’ sodisfar chi qui s’astalla; 39e là dov’io fermai cotesto punto,non s’ammendava, per pregar, difetto,perché ‘l priego da Dio era disgiunto. 42Veramente a così alto sospettonon ti fermar, se quella nol ti diceche lume fia tra ‘l vero e lo ‘ntelletto: 45non so se ‘ntendi: io dico di Beatrice;tu la vedrai di sopra, in su la vettadi questo monte, ridere e felice”. 48E io: “Segnore, andiamo a maggior fretta, ché già non m’affatico come dianzi,e vedi omai che ‘l poggio l’ombra getta”. 51“Noi anderem con questo giorno innanzi”,rispuose, “quanto più potremo omai;ma ‘l fatto è d’altra forma che non stanzi. 54Prima che sie là su, tornar vedrai

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colui che già si cuopre de la costa,si che’ suoi raggi tu romper non fai. 57Ma vedi là un’anima che, postasola soletta, inverso noi riguarda:quella ne ’nsegnerà la via più tosta”. 60Venimmo a lei: o anima lombarda,come ti stavi altera e disdegnosae nel mover de li occhi onesta e tarda! 63Ella non ci dicea alcuna cosa,ma lasciavane gir, solo sguardandoa guisa di leon quando si posa. 66Pur Virgilio si trasse a lei, pregandoche ne mostrasse la miglior salita;e quella non rispuose al suo dimando, 69ma di nostro paese e de la vitaci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava“Mantua...”, e l’ombra, tutta in sé romita, 72surse ver’ lui del loco ove pria stava,dicendo: “O Mantoano, io son Sordellode la tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava. 75Ahi serva Italia, di dolore ostello,nave sanza nocchiere in gran tempesta,non donna di provincie, ma bordello! 78Quell’anima gentil fu cosi presta,sol per lo dolce suon de la sua terra,di fare al cittadin suo quivi festa; 81e ora in te non stanno sanza guerrali vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro e una fossa serra. 84Cerca, misera, intorno da le prodele tue marine, e poi ti guarda in seno, s’alcuna parte in te di pace gode. 87Che val perché ti racconciasse il frenoIustiniano, se la sella è vota?Sanz’esso fora la vergogna meno. 90Ahi gente che dovresti esser devota,e lasciar seder Cesare in la sella

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se bene intendi ciò che Dio ti nota, 93guarda come esta fiera è fatta fellaper non esser corretta da li sproni,poi che ponesti mano a la predella. 96O Alberto tedesco ch’abbandonicostei ch’è fatta indomita e selvaggia,e dovresti inforcar li suoi arcioni, 99giusto giudicio da le stelle caggiasovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,tal che ’l tuo successor temenza n’aggia! 102Ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,per cupidigia di costà distretti,che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto. 105Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:color già tristi, e questi con sospetti! 108Vien, crudel, vieni, e vedi la pressurad’i tuoi gentili, e cura lor magagne; e vedrai Santafior com’è oscura! 111Vieni a veder la tua Roma che piagnevedova e sola, e dì e notte chiama:“Cesare mio, perché non m’accompagne?”. 114Vieni a veder la gente quanto s’ama!e se nulla di noi pietà ti move,a vergognar ti vien de la tua fama. 117E se licito m’è, o sommo Gioveche fosti in terra per noi crucifisso,son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? 120O è preparazion che ne l’abissodel tuo consiglio fai per alcun benein tutto de l’accorger nostro scisso? 123Ché le città d’Italia tutte pieneson di tiranni, e un Marcel diventaogne villan che parteggiando viene. 126Fiorenza mia, ben puoi esser contentadi questa digression che non ti tocca,mercé del popol tuo che si argomenta. 129

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Molti han giustizia in cuore, e tardi scoccaper non venir sanza consiglio a l’arco;ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca. 132Molti rifiutan lo comune incarco;ma il popol tuo sollicito rispondesanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”. 135Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:tu ricca, tu con pace, e tu con senno!S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde. 138Atene e Lacedemona, che fennol’antiche leggi e furon sì civili,fecero al viver bene un picciol cenno 141verso di te, che fai tanto sottiliprovedimenti, ch’a mezzo novembre non giugne quel che tu d’ottobre fili. 144Quante volte, del tempo che rimembre,legge, moneta, officio e costumehai tu mutato, e rinovate membre! 147E se ben ti ricordi e vedi lume,vedrai te somigliante a quella infermache non può trovar posa in su le piume, 150ma con dar volta suo dolore scherma.

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IL PLANH DI DANTE

Il 17 aprile del 1311 Dante indirizza ad Arrigo VII di Lussem-burgo un’ampia epistola di argomento politico, che si presta ad unalettura speculare col canto VI del Purgatorio, costituendone l’irri-nunciabile presupposto storico. Arrigo VII, scelto dai grandi eletto-ri nel 1308 quale successore di Alberto d’Asburgo, morto senza ere-di, viene preferito a Carlo di Valois, sostenuto dal re di Francia, Fi-lippo il Bello. La fama di Arrigo quale principe giusto fa credere aglielettori che egli possa essere facilmente influenzabile, una volta cheabbia raggiunto il potere. La novità e la rapida attuazione del dise-gno politico di Arrigo, intento a sedare le rivolte dei feudatari tede-schi e ad allargare i domini personali, pur senza trascurare i territo-ri del Sacro Romano Impero abbandonati dai predecessori, induco-no invece gli intellettuali più illuminati, di cui Dante si fa portavo-ce nell’Epistola VII, a nutrire fervide speranze che le discordie civi-li e i contrasti tra i Comuni possano placarsi proprio grazie alla me-diazione dell’Imperatore, autorità suprema ed universale, come te-stimonia a Milano la conciliazione tra la fazione dei Torriani (Guel-fi) e dei Visconti (Ghibellini). Il progetto di Arrigo comincia però avacillare dopo il 1310, anno in cui si prospettano due eventi deter-minanti, destinati a rinsaldare il suo potere: un legame matrimonia-le con gli Angioini di Napoli, che avrebbe fiaccato la resistenza del-le forze guelfe, e l’incoronazione ufficiale a Roma da parte di Cle-mente V. Ma, come Dante fa predire a Beatrice nel c. XXX del Para-diso, il trono imperiale di Arrigo sarà destinato ad essere occupatosolo in cielo:

“ E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieniper la corona che già v’è su posta,prima che tu a queste nozze ceni,sederà l’alma, che fia giù agosta,de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italiaverrà in prima ch’ella sia disposta”. (Par. XXX, vv. 133-38)

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L’Italia non è disposta: fermatosi, infatti, a Milano dove viene in-coronato con la corona ferrea Rex Romanorum nel 1311, l’Imperato-re assiste alla ribellione delle città lombarde (Cremona, Brescia, Pa-via, Bergamo e Vercelli), città che la cieca cupidigia ha rese irraziona-li e simili

“ …al fantolinoche muor per fame e caccia via la balia” (Par. XXX, vv. 140-41)

L’imprudente desistenza dell’Imperatore induce allora Dante apronunciare le parole famose di Curione a Cesare 3: “Leva gli indugi,mentre le parti trepidano non fatte solide da alcuna forza; sempre nocqueil differire a chi è pronto: un’uguale fatica ed un uguale timore si paganoa prezzo maggiore”. Insomma, il pericolo incombente è che l’empia Mir-ra (Ep. VII, 7, 89), cioè Firenze, con l’aiuto di Roberto d’Angiò rior-ganizzi le proprie forze, sobillando ogni giorno la superbia dei cattivi; sivergogni, dunque – prosegue Dante – di essere irretito così a lungo inuna strettissima aia del mondo chi il mondo intero attende; e non sfuggaalla circospezione di Augusto che la tirannide toscana confida nella fidu-cia del ritardo…aggiungendo temerarietà alla temerarietà (Ep. VII, 2).L’ostilità crescente delle città guelfe persuade pertanto Clemente V, so-stenuto occultamente da Filippo il Bello, all’inganno, ossia a ritirare ilsuo appoggio all’alto Arrigo (Par. XVII, v. 82), e la promessa incoro-nazione nella basilica di San Pietro si svolgerà, per necessità, in SanGiovanni in Laterano, ad opera di un vicario apostolico nel 1312, ap-pena pochi mesi prima dell’improvvisa morte di Arrigo:

“ E fia prefetto nel foro divinoallora tal, che palese e covertonon anderà con lui per un cammino.Ma poco poi sarà da Dio soffertonel santo officio: ch’el sarà detrusolà dove Simon Mago è per suo merto,e farà quel d’Alagna intrar più giuso”. (Par. XXX, vv.142-48)

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__________3 Cfr. Ep. VII, 4, 50.

Il mondo intero, dunque, attende il suo renovator e la discesa diArrigo in Italia sembra colmare quest’attesa messianica e prometterequella plenitudo temporis 4 annunciata, sul finire del XII sec., dal

“calavrese abate Giovacchinodi spirito profetico dotato” . (Par. XII, vv.140-141)

Gioacchino da Fiore, che Dante inserisce nella corona dei misticiin Paradiso, aveva infatti preconizzato l’avvento di una terza era, incui ad immani disastri avrebbe fatto seguito una palingenesi univer-sale: tali accenti profetico-apocalittici risuonavano spesso nella misti-ca francescana, specie nella predicazione di quell’Ubertino da Casale,capo degli Spirituali, sicuramente conosciuto dal Poeta, che ne faesplicita menzione nello stesso canto XII del Paradiso (cfr. v. 124).Dante, recependo le istanze joachimitiche, si fa a sua volta profeta –come Giovanni Battista – dell’avvento del Messia; ciò lo induce a ri-volgere ad Arrigo VII nella nostra Epistola espressioni solenni, stil-lanti sacertà evangelica 5 ed afflati apocalittici: “…siamo indotti dal-l’incertezza a dubitare e a prorompere così nelle parole del Precursore:“Sei tu che devi venire o aspettiamo un altro?” E benché la lunga sete,come suole, furiosa pieghi nel dubbio ciò che, per essere vicino, è certonondimeno in te crediamo e speriamo, affermando che tu sei il Ministrodi Dio e Figlio della Chiesa e il Promotore della gloria di Roma…Allo-ra in te esultò lo spirito mio, quando in silenzio mi dissi: “Ecco l’agnel-lo di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo” (Ep. VII, 2).

Non v’è dubbio che le aspettative di Dante si appuntino dunquetutte sulla sola figura dell’Imperatore, definito con espressioni addi-rittura ieratiche, improntate ad un senso grave e solenne di sacralità edevozione, deluso com’è ormai dalla corruzione dei Pontefici, simo-niaci e latitanti, come lo stesso Clemente V, colpevole peraltro di averlasciato Roma a causa del trasferimento da lui operato della Curia pa-pale ad Avignone. “La Chiesa ora non è più Chiesa” 6 sostiene con to-

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__________4 Cfr. S. Paolo, Gal. IV, 4; De Monarchia I, 14, 2.5 Cfr. Matteo III, 15.6 Cfr. Apocalisse XVII, 8: “la bestia che tu hai visto fu e non è”.

ni apocalittici il poeta nel canto XXXIII del Purgatorio, affidando al-la verità sapienziale di Beatrice la rivelazione di oscuri eventi futuri edimprescrittibili censure divine, ma soprattutto ricevendo da lei la suaprima investitura ufficiale di poeta-profeta:

“Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,fu e non è; ma chi n’ha colpa, credache vendetta di Dio non teme suppe.Non sarà tutto tempo sanza redal’aguglia che lasciò le penne al carro,per che divenne mostro e poscia preda;ch’io veggio certamente, e però il narro,a darne tempo già stelle propinque,secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,nel quale un cinquecento diece e cinque,messo di Dio, anciderà la fuiacon quel gigante che con lei delinque.” (Purg. XXXIII, vv. 34-45)

La parafrasi letterale dei versi citati si rende indispensabile perl’importanza dei riferimenti testuali attinenti: “Non resterà in eternosenza un erede legittimo l’aquila imperiale che aveva lasciato la suaautorità alla Chiesa, che per questo divenne mostro e poi preda del gi-gante; perché io vedo con chiarezza – e perciò te lo rivelo – stelle vi-cine e propizie annunciare la venuta di un DUX, un messo di Dio, cheucciderà la ladra con quel gigante che con lei commette peccato”.Tutto fa pensare che anche in questi versi campeggino i personaggi dicui ci stiamo occupando e le istituzioni politiche e religiose di cui ilPoeta auspica la renovatio: il vaso o carro e la fuia sono rispettiva-mente la Chiesa e il Papa Clemente V; il “gigante” 7 è il re di Francia,Filippo il Bello; il “cinquecento diece e cinque” anagramma di DUXin cifre romane, l’inviato da Dio, l’erede dell’aquila è con ogni pro-babilità proprio Arrigo VII di Lussemburgo.

La potentior principalitas di Roma, sede provvidenziale sia del-l’Aula che della Curia, viene sostenuta espressamente da Dante nel

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__________7 Nell’Ep. VII assimilato a Golia.

De Monarchia: “Opus fuit homini duplici directivo secundum duplicemfinem, scilicet summo pontifice, qui secundum revelata humanum genusperduceret ad vitam aeternam, et imperatore, qui secundum philosophi-ca documenta genus humanorum et temporalem felicitatem dirigeret” 8.La medesima concezione viene ribadita efficacemente anche nel c.XVI del Purgatorio:

“Soleva Roma, che il buon mondo feo,due soli aver, che l’una e l’altra stradafacean vedere, e del mondo e di Deo” (vv. 106-108).

Ma nel 1311 Roma è deserta e, abbandonata dal Pontefice, invocala presenza dell’Imperatore:

“…piagnevedova e sola, e dì e notte chiama:“Cesare mio, perché non mi accompagne?” (cfr. ib. vv. 112-114).

Se ora consideriamo che, secondo le conoscenze dantesche, Co-stantino, indicato nel De Monarchia 9 come primo infirmator Imperii,aveva trasferito la sede imperiale a Bisanzio nel 333 d.C. (se rispettia-mo la cronologia di Brunetto Latini), lasciando Roma in dotazione al-la Chiesa, quale sede pontificia, il disegno dell’Imperatore Arrigo VIIdi tornare a Roma in assenza del Papa, che aveva trasferito ad Avi-gnone la sua dimora, costituisce proprio ora, nel 1311, un eventostraordinario, che assume il valore di un intervento provvidenziale incoincidenza con scadenze millenarie, proverbialmente apocalittiche.

Dante confida allora che sia l’Imperatore il Davide inviato ad ab-battere Golia, a ripristinare la dignità dell’impero di Roma, di cui sifa provvidenziale reggitore, pur rimanendo devoto figlio della Chie-sa; ed infatti il potere temporale da lui incarnato non riguarda laChiesa né da essa deriva.10 In forza di tale convinzione, Dante so-

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__________8 Cfr. De Monarchia, III, 15.9 Cfr. De Monarchia, II, 13.10 Cfr. De Monarchia, III, 13: “Ecclesia non existente aut non virtuante, Im-

perium habuit totam suam virtutem”.

stiene così indirettamente le posizioni filo-ghibelline dei Visconti edi Cangrande della Scala, fidi alleati di Arrigo; la polemica è piut-tosto rivolta contro i decretalistae, i giuristi della Curia, che, per-vertendo l’insegnamento della Chiesa, forniscono una giustificazio-ne teoretica ai decreti dei Pontefici, attribuendo loro la stessa auto-rità della Sacra Scrittura; l’ostilità è manifesta anche contro il prin-cipio teocratico decretato dalla bolla papale “Unam sanctam”, pro-mulgata da Bonifacio VIII nel 1302, con cui si sancisce la plenitu-do potestatis, ossia la legittimità di congiungere la spada col pastu-rale 11, in caso di vacanza del potere temporale. Tale legittimità è con-testata con sdegno da S. Pietro:

“Quelli che usurpa in terra il luogo mio,il luogo mio, il luogo mio che vacane la presenza del Figliuol di Dio,fatt’ha del cimitero mio cloaca,del sangue e della puzza: onde ‘l perversoche cadde di qua sù, là giù si placa” 12 (Par. XXVII, vv. 22-27)

Tale atteggiamento ideologico potrebbe apparire non del tutto co-erente con le coeve affermazioni del De Monarchia, ma in realtà essoevidenzia la profonda delusione politica di chi, come Dante, ha saldivalori disattesi dagli eventi storici. Egli è il giocatore della zara

“che perde e si riman dolente,repetendo le volte, e tristo impara;” (ib. vv. 2-3).

L’avvento di Arrigo VII, che ha i connotati dell’uomo virtuoso, fadunque sperare che egli, dopo “Federigo di Soave, ultimo imperatoredei Romani (ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante cheRidolfo e Andolfo e Alberto poi eletti sieno)” sia uomo di “antica ric-

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__________11 Cfr. Purg., XVI, vv. 109-110.12 La triplice ripetizione (il luogo mio), i termini in contrasto (cimitero-cloa-

ca), il ritmo anapestico conferiscono particolare forza a quest’ultima invettivadella Commedia.

chezza e be’ costumi”, come si legge nel Convivio 13. Proprio la cita-zione del Convivio rivela l’esistenza di un interregnum tra Federico IIed Arrigo VII, non colmato, secondo Dante, dalla dinastia degliAsburgo, succeduta a quella degli Svevi dopo la sua estinzione; nonda Rodolfo, quindi, né da Andolfo né da Alberto d’ Asburgo (1298-1308), il quale è apostrofato dal poeta nel nostro canto con gli appel-lativi di tedesco (cfr. v. 97) – particolarismo inaccettabile per chi de-tiene un potere universale! –, uom sanza cura (cfr. v. 107) e crudele(cfr. v. 109), ed insistentemente sollecitato a venire in Italia:

“ Vieni a veder Montecchi e Cappelletti” (v. 106)“ Vieni, crudel, vieni e vedi la pressurad’ i tuoi gentili, e cura lor magagne” (vv. 108-109)“Vieni a veder la tua Roma che piagne” (v. 112)“Vieni a veder la gente quanto s’ama!” (v. 115)

Il disprezzo nei confronti di Alberto, già enfatizzato nella ripeti-zione anaforica del vieni, trova addirittura nel nostro canto toni ora-colari, a cui Dante ricorre per proferire un anatema contro di lui econtro la sua discendenza:

“giusto giudicio da le stelle caggiasovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!” (ib. vv. 100-102)

La predizione post eventum si riferisce alla morte del di lui figlioRodolfo, erede al trono, avvenuta nel 1307, e alla sua stessa morte, av-venuta violentemente per mano di un nipote nel 1308: il successore,Arrigo VII, per l’appunto, ne abbia timore, poiché la vendetta è de-cretata da Dio!

Il padre di Alberto, Rodolfo I d’Asburgo (1237-1291) è collocatoda Dante in Purgatorio, insieme a Carlo I d’Angiò, nella valletta deiprincipi noncuranti, poiché anch’egli è sanza cura, ma comunque de-stinato alla salvezza, e non certamente per i suoi meriti effettivi:

66

__________13 Cfr. Convivio, IV, 3.

“Rodolfo imperator fu, che poteasanar le piaghe c’hanno Italia morta,sì che tardi per altri si ricrea” , (Purg. VII, vv.94-96)

laddove altri è, ancora una volta, scoperta allusione ad Arrigo VII diLussemburgo.

Inoltre, l’unico accenno all’Imperatore Rodolfo nel nostro cantorisuona come un’accusa di negligente complicità col figlio:

“ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,per cupidigia di costà distretti,che ’l giardin de lo ‘mperio sia diserto” (ib. vv. 102-104)

Neanche di Carlo I d’Angiò – espiante come Rodolfo – Dante mo-stra di avere alcuna stima: oltre all’allusione indiretta, rinvenibile nelc. VI del Paradiso (vv. 130-131), in cui si fa riferimento al malgover-no di costui, sotto la cui dispotica signoria era passata come bene do-tale la Provenza, v’è un’allusione più diretta, fornitaci dal c. VIII delParadiso, in cui si rievoca la rivolta dei Vespri Siciliani del 1282, de-terminata dalla sua mala signoria (cfr. v. 73); ed infine un’esplicitaenumerazione dei suoi misfatti si legge nel c. XX del Purgatorio:

“Mentre che la gran dota provenzaleal sangue mio non tolse la vergogna,poco valea, ma pur non facea male.Lì cominciò con forza e con menzogna la sua rapina; e poscia, per ammenda,Pontì e Normandia prese e Guascogna.Carlo venne in Italia e, per ammenda,vittima fe’ di Curradino, e poiripinse al ciel Tommaso, per ammenda.” (Purg. XX, vv. 61-69)

Le accuse contro Carlo I sono evidenziate dal ritmo ascendentedei versi, scandito dalla ripetizione della parola ammenda, la qualedetermina un’evidente gradazione tonale che passa dall’ironia, alsarcasmo e all’invettiva: l’usurpazione della dote della moglie Bea-trice di Provenza e di altri feudi del Re d’Inghilterra non sazia l’a-

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vidità di Carlo I che, chiamato in Italia dal Papa nel 1265 per sot-trarre il regno di Napoli a Manfredi, uccide anche il giovane Cor-radino a Tagliacozzo e, quasi per fargli un piacere, ripinse al ciel S. Tommaso d’Aquino, secondo dicerie correnti al tempo di Dan-te, perché sfavorevole alla sua politica. È Carlo I, quindi, il direttoresponsabile dell’estinzione della casa di Svevia, avendo ucciso inbattaglia Manfredi (1266) e giustiziato Corradino (1268): sul primodei due ricorrono nell’opera dantesca cenni nell’Inferno e giudizilusinghieri nel De vulgari eloquentia 14; ma una suggestiva rivisita-zione poetica delle tragiche vicende del monarca occupa tutto il c.III del Purgatorio:

“biondo era e bello e di gentile aspettoma l’un de’ cigli un colpo avea diviso” (vv. 107-108)

Il ritratto fisico del personaggio è nella concezione del poeta ri-flesso della sua nobiltà interiore: esso richiama precedenti biblici eletterari, in un’ardita contaminazione del David giovane con l’Or-lando della Chanson de geste, che ci restituisce l’immagine poeti-ca di un santo laico, vittima degli odi di parte ed eroico campionedei propri ideali. Il canto di Manfredi è altamente idilliaco: se il Redi Sicilia non fosse stato ucciso prematuramente, avrebbe potutocolmare, grazie alle doti eccelse che Dante gli riconosce, equipa-randole a quelle paterne, il vuoto di potere verificatosi dal 1250con la morte di Federico II: padre e figlio vengono definiti , infat-ti, nel De vulgari eloquentia illustres heroes, nobilitates ac rectitu-dinem pandentes, brutalia dedignantes e corde nobiles atque gratia-rum dotati 14.

Al contrario di Manfredi, se Rodolfo d’Asburgo , principe negli-gente, e Carlo I d’Angiò, cupido usurpatore, sono annoverati tra glispiriti ben finiti e già spiriti eletti (Purg. III, 78) non è di certo per leloro virtù politiche e morali, ma solo in relazione al colpevole gover-no dei loro rispettivi discendenti. A conferma di questa tesi ci affidia-

68

__________14 Inf. c. XXVIII, vv. 16-17; c. XXXII, vv. 115-117; De vulgari eloquentia, I,

12, 3.

mo alle parole, pronunciate nel cielo di Venere da Carlo Martello, ni-pote di Carlo I d’Angiò e genero di Rodolfo I d’Asburgo:

“E la bella Trinacria, che caligatra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfoche riceve da Euro maggior briga, non per Tifeo ma per nascente solfo,attesi avrebbe li suoi regi ancora,nati per me di Carlo e di Ridolfo,se mala signoria, che sempre accorali popoli suggetti, non avessemosso Palermo a gridar:“ Mora, mora!” (Par. VIII, vv. 67-75)

Questi versi ribadiscono il giudizio negativo – addirittura feroce –di Dante nei confronti degli Angioni, tanto più credibile in quantoproferito da un Angioino beato, discorde dal suo seme. Carlo Mar-tello, figlio di Carlo II d’Angiò, è nel Paradiso l’immagine del princi-pe perfetto e Dante stesso lo appella Segnor mio 15, riconoscendone lagrande autorevolezza, nonostante la giovanissima età: anch’egli infat-ti, se non fosse morto anzitempo (1271-1295), avrebbe dato provadelle sue innumerevoli virtù:

… “Il mondo m’ebbegiù poco tempo; e se più fosse statomolto sarà di mal, che non sarebbe.” (Par. VIII, vv. 49-51)

Il suo eloquio malinconico, caratterizzato da una struttura ipoteti-co-irreale, rivela quella grazia che s’acquista per soavi reggimenti, chesono: dolce e cortesemente parlare, dolce e cortesemente servire ed ope-rare 16. Ma la sua dote principale, secondo Dante, è la sua speciale in-clinazione all’amore, beneficamente infuso dal cielo di Venere, lo belpianeto che d’amar conforta 17, dote riconosciutagli anche dal Villani, il

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__________15 Cfr. Par. VIII, v. 36.16 Cfr. Convivio IV, 25, 1.17 Cfr. Purg I, 19.

quale testimonia che egli mostrò grande amore a’ Fiorentini, ond’ebbemolto la grazia di tutti 18. Allo stesso Dante Carlo Martello si rivolgecon parole di grande affetto 19:

“Assai m’amasti e avesti ben onde;che s’io fossi giù stato, io ti mostravadi mio amor più oltre che le fronde”. (Par. VIII, vv. 55-57)

L’amore in Carlo Martello è dunque dolce e cortesemente servire edoperare nell’interesse dei suoi sudditi: è l’amore-carità, che Dante nelDe Monarchia così definisce: Come un minimo di cupidigia onnubilain qualche modo l’abito della giustizia, così la carità o retto amore lo af-fina e lo illumina…, la cupidigia, spregiando l’essenza dell’uomo, cercabeni che sono fuori dell’uomo; la carità, al contrario, spregiando tutto ilresto, cerca Dio e l’uomo e quindi il bene dell’uomo” 20: è perciò l’amo-re – servizio che lo autorizza a condannare la cupidigia dei suoi avi edel fratello Roberto:

“ E se mio frate questo antivedesse,l’avara povertà di Catalognagià fuggeria, perché non li offendesse;” (Par. VIII, vv. 76-78).

Roberto è l’ultimo discendente degli Angioini:

“ La sua natura, che di larga parcadiscese, avria mestier di tal miliziache non curasse di metter in arca”. (Par. VIII, vv. 82-84)

Dante, nel contrapporlo al fratello, con ironia lo definisce tal ch’èda sermone 21, perché la sua inclinazione naturale non è conforme al-l’alto ufficio ch’egli svolge: Roberto, detto il saggio, raffinato uomo dilettere è, però, un avido usurpatore, infatti sottrae con l’aiuto di Bo-

70

__________18 Cfr. Villani, Cron., VIII, 13.19 Cfr. Par. VIII, 45.20 De Monarchia I, 11, 23.21 Cfr. Par. VIII, v. 147.

nifacio VIII il regno di Napoli al nipote Carlo Alberto, figlio di Car-lo Martello; ed è anche un subdolo uomo politico, colpevole agli oc-chi del poeta di aver guidato nel 1313 l’opposizione guelfa contro Ar-rigo VII, insieme alla città di Firenze, di cui detiene la signoria percinque anni. Anche sulla famiglia degli Angioini, dunque, come suquella degli Asburgo, si abbatterà il giusto castigo di Dio, come il mi-sterioso presagio, pronunciato nei versi iniziali del c. IX da CarloMartello, lascia intuire:

“…“Taci e lascia muover li anni”;sì ch’io non posso dir se non che piantogiusto verrà di retro ai vostri danni” (Cfr. Par. IX, vv. 4-6)

Ma già Giustiniano, nel c. VI del Paradiso, aveva rivolto un duromonito alle due fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, rivolgendosi contono particolarmente aspro e sentenzioso al re Carlo II d’Angiò, pa-dre di Carlo Martello, nell’alludere alle sventure che si sarebbero ab-battute sui suoi figli:

“Molte fïate già pianser li figliper la colpa del padre, e non si credache Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!” (Par. VI, vv. 109-111)

A Giustiniano, dunque, immagine dell’Imperatore perfetto, cheha operato in concordia col magistero papale ed ha posto il potereimperiale su fondamenti di giustizia con la compilazione dell’alto la-voro 22, cioè il Corpus iuris civilis, è dato di esprimere, dall’alto del-la sua visione provvidenziale della storia umana, il verdetto inesora-bile di Dio.

La figura di Giustiniano, illuminato compilatore del codex, com-pare anche nel nostro canto nell’ampia sequenza metaforica della di-gressione, poiché anche le leggi, fondamento necessario dello Stato,in Italia vengono disattese; ciò avviene perché non v’è un garante del-

71

__________22 Cfr. Par. VI, v. 24.

l’ordine pubblico, l’Imperatore, e non v’è un Impero che – come si di-ce nel De Monarchia – de fonte nascitur pietatis 23.

E però è scritto nel principio del vecchio Digesto “La ragione scritta– lo ius – è arte di bene e di equitade”. A questa scrivere, mostrare e co-mandare, è questo ufficiale posto, di cui si parla, cioè lo Imperato-re,…Sicché quasi dire si può dello Imperadore, volendo lo suo ufficio fi-gurare con una immagine, che egli sia il cavalcatore della umana volun-tade. Lo qual cavallo come vada sanza cavalcatore per lo campo assai èmanifesto, e spetialmente nella misera Italia, che sanza mezzo alcuno al-la sua governazione è rimasa” (Conv. IV, 9, 10). L’immagine del Con-vivio trova precisa rispondenza nel c. VI (cfr. vv. 88-89), in quella me-tafora del cavallo secondo la quale l’Italia indomita e selvaggia (v. 98)per non esser corretta da li sproni (v. 95), non ha un imperatore che neinforchi li arcioni e ne occupi la sella; piuttosto, la gente che dovreb-be esser devota (v. 91) ne trattiene le briglie, incapace di domarla. Aquesta gente Dante si rivolge anche nell’Epistola XI ai Cardinali ita-liani, dicendo: “E se oggi la miseria ha annientato nel dolore e ha con-fuso nel rossore tutti gli altri Italiani, chi dubiterà che dobbiate arrossi-re e dolervi voi, che siete stati allora la causa di una straordinaria eclis-si di quello che si dice il suo sole?” 24. L’Italia possiede, dunque, il mor-so delle leggi, ma non v’è lo cavalcatore che le amministri:

“Sanz’esso fora la vergogna meno” (ib. v. 90),

tuona con sdegno il poeta. La vergogna è peraltro accresciuta dal-l’arroganza di potere, la libido dominandi che, oltre alla Chiesa, in-sensibile al precetto evangelico del Date a Cesare quel che è di Ce-sare 25 – a cui si allude col v. 93. Se bene intendi ciò che Dio ti nota– anima anche nelle singole città – delle quali Firenze è specimen -ogne villan che parteggiando viene (ib., v. 126), ossia quella gente no-va inurbata dal contado che, forte di subiti guadagni 26 osa opporsialla autorità legittima.

72

__________23 Cfr. De Monarchia II, 5, 5 ed Ep. V, 7.24 Cfr. Ep. XI, 10.25 Cfr. Luca XX, 25 e Matteo XXII, 21.26 Cfr. Inf. XVI, v. 73.

Tutti aspirano, dunque, al ruolo di nocchiero della nave che, in ba-lia della tempesta, è travolta dai marosi: così appare anche l’immaginedell’Italia nel nostro canto: ma quest’altro traslato poetico di ascen-denza classica, risalente nel mondo greco ad Alceo ed in quello latinoad Orazio e Virgilio, ad indicare l’ingovernabilità dello stato, non è in-frequente in tutta l’opera dantesca. Esso ricorre nel Convivio in piùluoghi e nell’Epistola ai Fiorentini degeneri, con particolare attinenzaal contesto poetico del nostro canto: Essendo vuoto il trono di Augusto,tutto il mondo esce dalla sua orbita, poiché il nocchiero e i rematori del-la navicella di Pietro – il Papato – dormono, e poiché l’Italia, misera, so-la, abbandonata all’arbitrio dei privati e priva di ogni pubblica modera-zione, è squassata da un tale impeto di venti e di flutti che le parole nonpossono esprimere e a malapena i miseri Italiani riescono a misurare conle lacrime” 27. Ed ancora, espressioni lessicalmente identiche compaio-no nell’Epistola XI, ai Cardinali italiani: Ille ad arcam proficiat, qui sa-lutiferos oculos ad naviculam fluctantem aperuit (XI, 5); e viduam et de-sertam lugere compellimur (XI, 2); o Romam urbem…miserandam, so-lam sedentem et viduam (XI, 9), ma soprattutto l’incipit Quomodo so-la sedet civitas, plena populo: facta est quasi vidua domina gentium (XI,1) è ripresa testuale delle lamentazioni di Geremia (I, 1):

“Come mai siede solitariala città già sì popolosa?È divenuta quale una vedova,la grande fra le nazioni.La signora delle provinceè ridotta a servire”.

Un’espressione simile a quella di Geremia, in cui Gerusalemme èdefinita domina provinciarum, è presente anche nel Codice giustinia-neo, in cui l’Italia è detta non provincia, sed domina provinciarum; maDante, spostandone in antitesi i termini essenziali, escogita la più cru-da delle metafore poetiche, apostrofando l’Italia non domina provin-ciarum, sed meretrix:

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__________27 Cfr. Conv. IV, 4, 5-6 e IV, 5, 8. Cfr. Ep. VI, 3.

“Ahi serva Italia, di dolore ostello,nave sanza nocchiere in gran tempesta,non donna di provincie, ma bordello!”. (ib. vv. 76-78)

La digressione sull’Italia non può non coinvolgere anche la città diFirenze: per sineddoche Firenze costituisce la parte per il tutto, nelsuo piccolo raffigura il disordine civile che dilaga in tutto il paese, mal’ironia del poeta trasfigura la sua realtà in un’ampia antifrasi, in cuiprotagonista è il popolo 28 che si argomenta (v. 129), che ha giustizia incuore (v. 130), e grida: “I’mi sobbarco! (v. 135). Giustizia e leggi pre-siedono alla vita civile a tal punto che:

“Atene e Lacedemona, che fennol’antiche leggi e furon sì civili,fecero al viver bene un picciol cennoverso di te, che fai tanto sottiliprovedimenti, ch’a mezzo novembrenon giugne quel che tu d’ottobre fili” (ib. vv. 139-144)

Ma l’ironia – davvero sottile – di questi versi non riesce a masche-rare il dolore e l’amarezza di chi è in esilio, perché la Firenze ricca, conpace e con senno (v. 137), che a memoria d’uomo ha rinnovato legge,moneta, officio e costume e …membre – ossia gli stessi cittadini! – (ib.,vv. 146-147), è in realtà un’inferma

“che non può trovar posa in su le piume,ma con dar volta suo dolore scherma” 29. (ib. vv. 150-151)

Inizio e fine del canto si completano in una poetica ciclicità tema-tica: il giocatore della zara che rimane dolente repetendo le volte e l’in-ferma, che con dar volta suo dolore scherma, umanizzano col loro at-teggiamento illusorio la delusione e l’angoscia di Dante politico.

74

__________28 “Popol tuo” è espressione ricorrente ai vv. 129, 132 e 135.29 Il “non trovar posa” traduce nella lamentazione di Geremia, testé citata, il

“nec invenit requiem” (I, 3).

L’inchiesta di Dante nella storia contemporanea è destinata al fal-limento: egli ha messo a nudo gli odi funesti che procurano la mortedi Benincasa da Laterina, di Guccio dei Tarlati, di Guido Novello, diIacopo del Cassero, di Bonconte da Montefeltro, di Pia de’ Tolomei;ha messo a nudo la fallacia dei disegni personali dei potenti della ter-ra e l’effimero della condizione di tutti gli uomini. I mortali sono in-fatti irretiti da insensate cure e da difettivi silogismi 30 che li induconoa volgersi verso vani beni terreni e false apparenze, simulacri evane-scenti di attraenti ma pericolose vanità, che Dante stigmatizza nelcanto dei superbi:

“Non è il mondan romore altro ch’un fiatodi vento, ch’or vien quinci e or vien quindie muta nome perché muta lato”. (Purg. XI, vv. 100-102)

In questi versi sembra risuonare il monito dell’Ecclesiaste: “Vani-tas vanitatum, omnia vanitas”, perché tutti, e ancor più i potenti, sap-piano che:

“La vostra nominanza è color d’erba,che viene e va, e quei la discoloraper cui ella esce de la terra acerba.” (Purg. XI, vv. 115-117)

e sappiano i potenti che è a Dio che dovranno infine render conto, aquel Dio implacabile invocato nel salmo 89 della Bibbia:

“Tu fai ritornare i mortali in polvere…poiché mille anni sono agli occhi tuoicome il giorno di ieri che trascorse…”

Dante, facendo sua la preghiera del salmista, confida nel supremodiscernimento divino che ha il compito di intervenire sub specie ae-ternitatis nella storia dell’uomo: la situazione politica vigente, in cui lesfrenate ambizioni dei singoli e delle fazioni hanno determinato il de-

75

__________30 Cfr. Par. XI, vv. 1-2.

grado morale dell’intera società, non è solubile con le sole forze uma-ne ed è fin troppo chiaro che l’unica possibile fiducia è da riporre nel-la Provvidenza di Dio: è per questo che il poeta, la cui angoscia uma-na è enfatizzata dal tono oratorio e parenetico della digressione, ri-solve il suo smarrimento proiettando le sue attese nell’invocazionedell’intervento divino e nella preghiera fiduciosa, sulla cui efficaciaverteva anche il colloquio iniziale con Virgilio 31:

“E se licito m’è, o sommo Gioveche fosti in terra per noi crocifisso,son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?O è preparazione che ne l’abissodel tuo consiglio fai per alcun benein tutto de l’accorger nostro scisso?” (ib. vv. 118-123).

Egli non ha dubbi sulla infallibilità del giudizio di Dio, quandonell’imperscrutabile abisso del suo consiglio si rivela all’uomo comemisericordia infinita, che ha sì gran braccia / che prende ciò che si ri-volge a lei (cfr. Purg. III, vv. 122-123) e allo stesso modo non ha dub-bi quando Dio s’erge come inesorabile censore e punitore d’iniquità:

“O segnor mio, quando sarò lietoa veder la vendetta che, nascosa,fa dolce l’ira tua nel tuo segreto?” (Purg. XX, vv. 94-96)

laddove il poeta riprende ancora una volta il salmo 89:

“Chi conosce la potenza dell’ira tuae teme la violenza del tuo sdegno?”

Se, dunque, tutta la storia dell’uomo è sviluppo inconsapevole dellatrascendente volontà di Dio, a tal punto che anche i grandi della terrasono artefici del suo disegno ed inevitabilmente soggetti a rispondere aDio del loro operato, allora non c’è da meravigliarsi se è proprio la viva

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__________31 Cfr. ib. VI, vv. 25-42.

giustizia di Dio a concedere a Tiberio la gloria di far vendetta a la sua irae a Tito quella di far vendetta… de la vendetta del peccato antico 32, per-ché, come Dante conferma nel De Monarchia: La punizione non è sem-plicemente la pena di chi ha commesso ingiustizia, ma è la pena inflitta achi commette ingiustizia da parte di chi ha la potestà di punire 33; è per que-sto che Dante riconosce solo alla sapienza di Dio la facoltà di punire iregnanti degeneri e di accogliere nella sua infinita bontà chi di loro haagito degnamente: sui primi si abbatterà la sua ira, che lo stesso poetainvoca, come abbiamo visto a proposito degli Asburgo e degli Angioini;sul destino di altri, invece, Dio interverrà misericordiosamente, sot-traendoli prematuramente alla violenza della storia e alla contaminazio-ne nefasta di quell’aiuola che ci fa tanto feroci 34, come nel caso di Man-fredi e di Carlo Martello. E perché non ascrivere tra queste morti pre-mature anche quella di Arrigo VII di Lussemburgo, che si spegne ina-spettatamente a Buonconvento nel 1313, interrompendo bruscamentel’azione di rinnovamento politico da lui intrapresa? Era forse lui, cheDante riconosce come il Messia, l’inviato di Dio, il renovator orbis digioachimitica memoria, quel veltro del primo canto dell’Inferno che

“…non ciberà terra né peltro,ma sapienza, amore e virtute”? (Cfr. Inf. I, vv. 103-104)

Se pure Dante pensò a lui come al detentore della missione salvi-fica dell’umanità, è certo che per insondabile volontà di Dio egli nonpoté compierla: al poeta, piuttosto, in risposta ad ogni sua preghiera,viene rivelato nel c. XXVII del Paradiso per bocca di S. Pietro il sen-so provvidenziale della storia e viene confermata quella solenne inve-stitura che prima Virgilio, poi Beatrice e infine Cacciaguida gli aveva-no conferito nel corso del suo viaggio:

“Ma l’alta provedenza, che con Scipiodifese a Roma la gloria del mondo

77

__________32 Cfr. Par. VI, v. 88; v. 90; vv. 92-93.33 Cfr. De Monarchia II, 12, 4.34 Cfr. Par. XXII, v. 151.

soccorrà tosto, sì com’ io concipio,e tu, figliuol, che per lo mortal pondoancor giù tornerai, apri la bocca,e non asconder quel ch’ io non ascondo”. (vv. 61-66)

Nel Paradiso Dante porterà dunque a compimento la renovatio in-terrotta dagli eventi ed il suo poema risuonerà come il bando ufficia-le della sua missione: non ad un uomo politico, ma ad un poeta –guelfo per tradizioni culturali e ghibellino per contingenze storiche –Dio stesso affida il suo disegno di removere viventes in hac vita de sta-tu miseriae et perducere ad statum felicitatis 35.

Siracusa, aprile 1999

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__________35 Cfr. Ep. XIII, 15.

PURGATORIO, c. XVI

Il vate è quell’intellettuale d’eccezione che per la sua sensibilitànell’investigare l’animo umano sa comprenderne le fragilità e le in-quietudini più recondite; per la lucida consapevolezza dei tempi edelle interazioni umane nella società sa svelarne i meccanismi com-plessi, mettendone in luce difformità e perversioni; grazie alle sue do-ti comunicative, fondate sull’energia del fare poetico e sull’efficaciaemotiva dell’eloquenza espressiva, individuando valori assoluti, indu-ce a percorsi risolutivi non effimeri. Ed infatti il termine “vate” nellaclassicità indicava non solo il poeta, ma anche il taumaturgo, il sacer-dote, il profeta, coscienze supreme della realtà universale.

In epoca medievale Dante incarna compiutamente la fisionomiadel vate, poiché comprende in sé lo smarrimento di tutta l’umanità,chiamata ad un destino di salvezza ch’egli stesso sperimenta ed addi-ta; perché indaga sul degrado sociale e politico dei suoi tempi, rin-tracciandone le cause nella corruzione di quei poteri universali, chedovrebbero invece cooperare per la realizzazione dei disegni provvi-denziali; ed è vate, infine, perché la sua opera, già pregna di significa-ti salvifici per i suoi contemporanei, ancora ci consegna il modellocondivisibile di un incessante impegno intellettuale, di scelte di vitacoraggiose e coerenti e di una fede incrollabile e senza tempo.

Tutti questi motivi è possibile ravvisare, tra gli altri, nel canto XVIdel Purgatorio che, essendo il cinquantesimo dell’intero poema, inbase alle complesse simbologie numerologiche, essenziali per la com-prensione della finalità poetica della Commedia, costituisce uno sno-do centrale nello svolgimento dell’opera: nella visione pessimistica delsuo protagonista, Marco Lombardo, si compendiano infatti la malacondotta dei singoli individui (cfr. ib. v. 103) e la colpevole confusio-ne dei poteri universali (cfr. ib. vv. 109-111); ma anche da questo qua-dro a fosche tinte sarà lecito trarre quei valori positivi ed assoluti, cheancora oggi sono a fondamento della coscienza moderna.

Buio d’inferno e di notte privata d’ogne pianeto, sotto pover cielo, quant’ esser può di nuvol tenebrata, 3

79

non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch’ivi ci coperse, né a sentir di così aspro pelo, 6che l’occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida mi s’accostò e l’omero m’offerse. 9Sì come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che ’l molesti, o forse ancida, 12m’andava io per l’aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva pur: “Guarda che da me tu non sia mozzo”. 15Io sentia voci, e ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia l’Agnel di Dio che le peccata leva. 18Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, sì che parea tra esse ogne concordia. 21“Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?”, diss’ io. Ed elli a me: “Tu vero apprendi, e d’iracundia van solvendo il nodo”. 24“Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi?”. 27Così per una voce detto fue; onde ’l maestro mio disse: “Rispondi, e domanda se quinci si va sùe”. 30E io: “O creatura che ti mondi per tornar bella a colui che ti fece, maraviglia udirai, se mi secondi”. 33“Io ti seguiterò quanto mi lece”, rispuose; “e se veder fummo non lascia, l’udir ci terrà giunti in quella vece”. 36Allora incominciai: “Con quella fascia che la morte dissolve men vo suso, e venni qui per l’infernale ambascia. 39E se Dio m’ha in sua grazia rinchiuso,

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tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte per modo tutto fuor del moderno uso, 42non mi celar chi fosti anzi la morte, ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco; e tue parole fier le nostre scorte”. 45“Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco; del mondo seppi, e quel valore amai al quale ha or ciascun disteso l'arco. 48Per montar sù dirittamente vai”. Così rispuose, e soggiunse: “I’ ti prego che per me prieghi quando sù sarai”. 51E io a lui: “Per fede mi ti lego di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego. 54Prima era scempio, e ora è fatto doppio ne la sentenza tua, che mi fa certo qui, e altrove, quello ov’ io l'accoppio. 57Lo mondo è ben così tutto diserto d’ogne virtute, come tu mi sone, e di malizia gravido e coverto; 60ma priego che m’addite la cagione, sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui; ché nel cielo uno, e un qua giù la pone”. 63Alto sospir, che duolo strinse in “uhi!”, mise fuor prima; e poi cominciò: “Frate, lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui. 66Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate. 69Se così fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto. 72Lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica, lume v’è dato a bene e a malizia, 75e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie col ciel dura,

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poi vince tutto, se ben si notrica. 78A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura. 81Però, se ’l mondo presente disvia, in voi è la cagione, in voi si cheggia; e io te ne sarò or vera spia. 84Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia, 87l’anima semplicetta che sa nulla, salvo che, mossa da lieto fattore, volontier torna a ciò che la trastulla. 90Di picciol bene in pria sente sapore; quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, se guida o fren non torce suo amore. 93Onde convenne legge per fren porre; convenne rege aver, che discernesse de la vera cittade almen la torre. 96Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nullo, però che ’l pastor che procede,rugumar può, ma non ha l’unghie fesse; 99per che la gente, che sua guida vede pur a quel ben fedire ond’ ella è ghiotta, di quel si pasce, e più oltre non chiede. 102Ben puoi veder che la mala condotta è la cagion che ’l mondo ha fatto reo, e non natura che ’n voi sia corrotta. 105Soleva Roma, che ’l buon mondo feo, due soli aver, che l’una e l’altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo. 108L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale, e l’un con l’altro insieme per viva forza mal convien che vada; 111però che, giunti, l’un l’altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga, ch’ogn’ erba si conosce per lo seme. 114

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In sul paese ch’Adice e Po riga, solea valore e cortesia trovarsi, prima che Federigo avesse briga; 117or può sicuramente indi passarsi per qualunque lasciasse, per vergogna, di ragionar coi buoni o d’appressarsi. 120Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna l’antica età la nova, e par lor tardo che Dio a miglior vita li ripogna: 123Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo e Guido da Castel, che mei si noma, francescamente, il semplice Lombardo. 126Dì oggimai che la Chiesa di Roma, per confondere in sé due reggimenti, cade nel fango, e sé brutta e la soma”. 129“O Marco mio”, diss’ io, “bene argomenti; e or discerno perché dal retaggio li figli di Levì furono essenti. 132Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio di’ ch’è rimaso de la gente spenta, in rimprovèro del secol selvaggio?”. 135“O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta”,rispuose a me; “ché, parlandomi tosco, par che del buon Gherardo nulla senta. 138Per altro sopranome io nol conosco, s’io nol togliessi da sua figlia Gaia. Dio sia con voi, ché più non vegno vosco. 141Vedi l’albor che per lo fummo raia già biancheggiare, e me convien partirmi (l’angelo è ivi) prima ch’io li paia”.Così tornò, e più non volle udirmi. 145

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IL VATE DELLA RINNOVATA BARBARIE

Il poeta è giunto nella terza cornice della montagna ove, dopoquella dei superbi e degli invidiosi, si purifica la colpa dell’ira, l’ulti-mo dei peccati capitali commessi per malo obietto (cfr. Purg. XVII, v.95); gli iracondi procedono occultati da un grosso velo (v. 4) di fumo,invocando con una concordia (v. 21) inusitata sulla terra l’Agnel di Dioche le peccata leva (v. 18). E subito uno di essi interpella Dante, dopoaverlo udito parlare con Virgilio, con un chiaro accento di stupore:

“Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi,e di noi parli pur come se tuepartissi ancor lo tempo per calendi?” (ib. vv. 25-27)

Se Dante riserva solo brevi cenni alla figura storica di Marco Lom-bardo 1, tuttavia sembra voler proiettare su di lui con incisività i trattinobilitanti dell’uomo magnanimo, dai quali è possibile inferire unacomunanza di atteggiamenti e di virtù morali:

“Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;del mondo seppi, e quel valore amaial quale ha or ciascun disteso l’arco.” (ib. vv. 46-48)

Ciò fa sì che anch’egli si arricchisca inopinatamente di quei requi-siti che caratterizzano la figura del vate: è …del mondo esperto / e deli vizi umani e del valore (cfr. Inf. XXVI, vv. 98-99), sui quali non le-sina il suo severo giudizio, e per di più l’assenza del volto e del corpo,offuscati dal buio d’inferno e di notte privata / d’ogne pianeto… (vv. 1-2) e da quel fummo (v. 5) che acceca tutti i peccatori come lui, ne en-fatizza la voce sentenziosa e oracolare 2:

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__________1 Uomo di corte, legato ai valori cortesi decaduti nel moderno uso (cfr. ib. v.

42); di questo personaggio, vissuto nella seconda metà del XIII sec., si legge inNovellino, 46 e G. Villani, Cron. VII, 121.

2 Cfr. ib. vv. 28/56.

“e le tue parole fier le nostre scorte” (ib. v. 44)

Per questi motivi proprio a lui è affidato il compito di chiarire fi-nalmente 3 al pellegrino una questione filosofica più volte toccata nelpoema e variamente dibattuta tra i contemporanei:

“Lo mondo è ben così tutto disertod’ogne virtute, come tu mi sone,e di malizia gravido e coverto;ma priego che m’addite la cagione,sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;chè nel cielo uno, e un qua giù la pone”. (ib. vv. 58-63)

In che rapporto stanno dunque l’influenza degli astri ed i com-portamenti degli uomini?

Il conflitto tra scienza (astronomia, ma soprattutto astrologia) efede rimanda alla disamina più ampia sulla responsabilità dei singo-li nella storia, poiché la sua risoluzione tende a smascherare gli ali-bi e le ipocrite giustificazioni di chi demanda al Cielo la propria in-capacità di agire sulla terra. Il poeta aveva già preso un’ardita posi-zione al riguardo, collocando coloro / che visser sanza ’nfamia e san-za lodo (cfr. Inf. III, vv. 35-36) nel vestibolo dell’Inferno: questi sciau-rati, che mai non fur vivi (Inf. III, v. 64) sono colpevoli di non avermai scelto e la loro pusillanimità indigna Dante, uomo d’azione, elo induce ad esporli al ludibrio dei lettori, emarginandoli tra tutti ipeccatori e sottraendoli a qualunque giudizio che non sia il supre-mo disprezzo:

“Fama di loro il mondo esser non lassa;misericordia e giustizia li sdegna:non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. (Inf. III, vv. 49-51)

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__________3 Nell’interpellare Marco Lombardo lo stesso Dante fa riferimento ad analo-

ghe affermazioni pronunciate da Guido del Duca in Purg. XIV (vv. 37 e segg.),per cui il suo dubbio “prima era scempio, e ora è fatto doppio” (ib. v. 55).

L’interrogativo che Dante pone dunque a Marco Lombardo non èprivo di fondamento: se davvero fossero i cieli a determinare la vo-lontà degli esseri, gli ignavi non sarebbero responsabili della loro vil-tà e la denuncia della loro accidiosa indolenza si potrebbe considera-re solo frutto di rancori personali da parte di chi, come lui, ha subitol’esilio per sostenere con coerenza le proprie idee. Ma Marco Lom-bardo sgombra il campo da ogni equivoco:

“Se così fosse, in voi fora distruttolibero arbitrio, e non fora giustiziaper ben letizia, e per male aver lutto”. (ib. vv. 70-72)

La struttura ipotetico-irreale dell’affermazione di Marco è risolu-tiva: se gli uomini agissero di necessitate (v. 69) si annullerebbe la lo-ro facoltà di decidere autonomamente e di conseguenza le loro azio-ni dovrebbero essere esenti da ogni giudizio di merito; vero è che gliinflussi celesti sono provvidenziali, come confermerà anche CarloMartello nel Paradiso, ma non possono esonerare nell’individuo lavolontà che, insieme all’intelletto, costituisce il massimo dono elargi-to da Dio alle alte creature (cfr. Par. I, v. 106):

“Lo maggior don che Dio per sua larghezzafesse creando, e a la sua bontatepiù conformato, e quel ch’e’ più apprezza,fu de la volontà la libertate;di che le creature intelligenti,e tutte e sole, fuoro e son dotate”. (Par. V, vv. 19-24)

Pertanto, Dio crea l’anima semplicetta che sa nulla (v. 88), emoti-vamente infantile a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargo-leggia (vv. 86-87) e scevra da innatismo 4; ed essa, sempre disposta adaccogliere ciò che la trastulla (v. 90), s’inganna nella percezione del be-ne per cui, convinta di tornare al Creatore,

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__________4 Cfr. S. Tommaso, Summa theologiae I, LIX, 1.

“…da questo corso si dipartetalor la creatura, c’ha poderedi piegar, così pinta, in altra parte”. (Par. I, vv. 130-132)

Ciò che diletta l’anima è l’amore o naturale o d’animo 5: ora, l’amorenaturale si distingue dall’amore d’animo perché è sempre sanza errore(cfr. Purg. XVII, v. 94), ossia costituisce quell’istinto immediato che ciòche scocca drizza in segno lieto (Par. I, v. 126); il secondo, invece, puoteerrare (cfr. Purg. XVII, v. 95), perché è amore di elezione, ossia proce-de dalla consapevolezza del bene e del male e coincide con la volontà 6.Dunque, anche ammesso che gli esseri risentano delle inclinazioni deicorpi celesti 7, ad essi è dato lume…a bene e a malizia (cfr. ib. v. 75), os-sia quella ragione che è a fondamento del libero voler (v. 76):

“Quest’è ’l principio là onde si pigliaragion di meritare in voi, secondoche buoni e rei amori accoglie e viglia.Color che ragionando andaro al fondo,s’accorser d’esta innata libertate,però moralità lasciaro al mondo.Onde, poniam che di necessitatesurga ogne amor che dentro a voi s’accende,di ritenerlo è in voi la podestate”. (Purg. XVIII, vv. 64-72)

La sollecitazione dei beni terreni è dunque la prima causa del peccato:

“Mentre ch’elli è nel primo ben diretto,e ne’ secondi sé stesso misura,

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__________5 Cfr. Purg. XVII, vv. 91-93.6 Cfr. Convivio IV, XII, 15-16.7 Cfr. Convivio IV, XXI, 7: “E però che la complessione del seme puote essere

migliore e men buona, e la disposizione del seminante puote essere migliore e menbuona, e la disposizione del Cielo a questo effetto puote essere buona, migliore eottima (la quale si varia per le costellazioni, che continuamente si transmutano), in-contra che de l’umano seme e di queste vertudi più pura (e men pura) anima si pro-duce”.

esser non può cagion di mal diletto;ma quando al mal si torce, o con più curao con men che non dee corre nel bene,contra ’l fattore adovra sua fattura”. (Purg. XVII, vv. 97-102):

finché l’amor d’animo è diretto verso il primo bene – Dio – e mode-ra il suo appetito verso i secondi beni – quelli materiali – esso non puòesser torto da falso piacere (cfr. Par. I, v. 135); ma se si rivolge al malecon maggiore intensità che al bene o a quest’ultimo con minore curadi quanto dovrebbe, la creatura umana agisce contro il Creatore:

“Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo de l’antico avversaro a sé vi tira,e però poco val freno o richiamo.Chiamavi ’l Cielo e ’ntorno vi si gira,mostrandovi le sue bellezze etterne,e l’occhio vostro pur a terra mira;onde vi batte chi tutto discerne”. (Purg. XIV, vv. 145-151)

Proprio perché dotato di libero arbitrio, dunque, l’uomo deve ren-der conto a Dio del suo operato:

“A maggior forza e a miglior naturaliberi soggiacete; e quella criala mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.Però, se ’l mondo presenta disvia,in voi è la cagione, in voi si cheggia;e io te ne sarò or vera spia”. (cfr. ib. vv. 79-84)

Che gl’influssi celesti siano provvidenziali è ribadito da Carlo Mar-tello nel canto VIII del Paradiso, con un’insistenza evidenziata dallaripetizione del termine-chiave provedenza / proveduto:

“Lo ben che tutto il regno che tu scandivolge e contenta, fa esser virtutesua provedenza in questi corpi grandi.E non pur le nature provedute

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sono in la mente ch’è da sé perfetta,ma esse insieme con la lor salute;per che quantunque quest’arco saettadisposto cade a proveduto fine,sì come cosa in suo segno diretta”. (Par. VIII, vv. 97-105):

Dio ha disposto che i cieli infondano la loro virtù operativa sullaterra, provvedendo non solo all’esistenza degli esseri, ma anche allarealizzazione delle loro qualità, che dovrebbero esprimersi al meglionella vita sociale. Per bocca di Carlo Martello Dante, fedele ai precettiaristotelici che individuano come prioritaria la dimensione civile del-l’uomo 8, da premesse teologiche, di deduzione in deduzione, pervie-ne a tematiche di moderna valenza pedagogica 9:

“La circular natura, ch’è suggelloa la cera mortal, fa ben sua arte”,differenziando opportunamente nella società ruoli e funzioni,“ma non distingue l’un da l’altro ostello”. (Par. VIII, vv. 127-129).

“Ond’elli avvien ch’un medesimo legno,secondo specie, meglio e peggio frutta;e voi nascete con diverso ingegno”. (Par. XIII, vv. 70-72)

S’infrange così quel determinismo ereditario, già sostenuto da S. Tom-maso, secondo cui si escluderebbe la difformità tra generante e generato:

“Natura generata il suo camminosimil farebbe sempre a’ generanti,se non vincesse il proveder divino”. (Par. VIII, vv. 133-135) 10

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__________8 Cfr. Convivio IV, 4, 2: “E però dice lo Filosofo che l’uomo naturalmente è

compagnevole animale…”.9 È la pedagogia psico-sociologica che studia l’interazione sociale del fanciul-

lo (Dewey-Hessen, Ferriere, Decroy ed altri).10 Cfr. anche Purg. VII, vv.121-123 e Convivio IV, XX, 5: “il divino seme non

cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade ne le singulari persone”.

Così, ad esempio, anche Marco Lombardo nel nostro canto nell’e-saltare la probità del saggio Gherardo da Camino lo identifica comebuono in opposizione alla figlia Gaia, nota per la sua dissolutezza 11.

Ed in questa visione provvidenzialistica dell’esistenza, per cui nonsolo nella società, ma anche in seno allo stesso nucleo famigliare si di-stinguono sensibilità ed atteggiamenti diversi, che ruolo gioca la For-tuna? Essa è general ministra (cfr. Inf. VII, v. 78) di Dio e, non piùconcepita come la capricciosa Dea bendata dell’età pagana, intervie-ne tuttavia come forza occulta ed imprevedibile sugli splendor mon-dani (cfr. Inf. VII, v. 77), pur sempre conformandosi all’ordine uni-versale:

“…giri Fortuna la sua ruotacome le piace, e ’l villan la sua marra”. (cfr. Inf. XV, vv. 95-96)

Colui lo cui saver tutto trascende (Inf. VII, v. 73) l’ha disposta qua-le intelligenza angelica sulla terra come le altre gerarchie sono prepo-ste al movimento dei cieli concentrici: questa provede, giudica e perse-gue / suo regno (cfr. Inf. VII, vv. 86-87) e come essa esegue di necessi-tà (cfr. Inf. VII, v. 89) rapidamente il suo mandato, così con la mede-sima velocità si determinano nella vita terrena mutamenti ed avvicen-damenti; non si tratta di un cieco meccanicismo, ma di un oculato de-terminismo metafisico, tale

… “che permutasse a tempo li ben vanidi gente in gente e d’uno in altro sangue,oltre la defension d’i senni umani;perch’una gente impera e l’altra langue,seguendo lo giudicio di costei,che è occulto come in erba l’angue”. (Inf. VII, vv. 79-84)

Se dunque la ragione umana non è in grado di comprenderne gliscopi e di resisterle in ogni modo, sua unica virtù può consistere nel-l’accettare con fede questa …alterna / onnipotenza delle umane sor-

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__________11 Cfr. ib. vv. 138-140.

ti 12, non dandole biasmo a torto e mala voce (Inf. VII, v. 93), ma di-sponendosi piuttosto ad accoglierne imperturbabilmente gli effetti:ch’a la Fortuna, come vuol, son presto (Inf. XV, v. 93), dice infatti Dan-te nel suo colloquio con Brunetto Latini.

Quindi la Provvidenza, grazie agl’influssi astrali dall’alto e all’in-tervento della Fortuna dal basso, regolerebbe la convivenza civile co-me riflesso della vera cittade (cfr. ib. v. 96):

“E se ’l mondo là giù ponesse menteal fondamento che natura pone,seguendo lui, avria buona la gente” 13. (Par. VIII, vv. 142-44)

Ma anche in questo caso interviene il libero arbitrio, per cui uo-mini atti ad intraprendere la vita politica indossano l’abito religioso ead altri inclini alla predicazione è invece assegnata la corona regale:

“Onde la traccia vostra è fuor di strada” (Par. VIII, v. 148)

Gli uomini, allontanandosi dal disegno provvidenziale, travisanola loro natura e corrompono la società: unico rimedio al disordinemondano sono le leggi, ma quand’anche esse esistano 14, occorre unaguida che, facendole applicare, garantisca la giustizia e la pace 15:

“Onde convenne lege per fren porre;convenne rege aver, che discernessede la vera cittade almen la torre” (ib. vv. 94-96)

Nessuno al momento è in grado di farlo, secondo Marco Lombar-do, poiché dalla morte di Federico II l’impero è tragicamente vacantee soprattutto l’autorità papale si è sovrapposta ed ha sostituito quellaimperiale, incrociando la spada col pasturale (cfr. ib. vv. 109-110). Col-

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__________12 Cfr. Ugo Foscolo, Carme Dei Sepolcri, vv. 182-83.13 Cfr. ib. v. 105.14 Cfr. anche Purg. VI, vv. 88-90.15 Cfr. Convivio IV, 9, 4-10 e De Monarchia I, 13.

pevoli entrambi di esercitare male l’arbitrio loro assegnato da Dio,l’Imperatore pecca per “poco di vigore” ed il Papa per “troppo di vi-gore”; ma in più quest’ultimo col suo esempio degenere ha la respon-sabilità di frastornare gli appetiti umani, inducendo le anime “sempli-cette” della gente a cibarsi di quei beni mondani, di cui anche è ghiot-ta la loro guida spirituale. L’opinione dell’interlocutore rispecchia inparte quella del Poeta 16, pur tradendo una visione partitica della cagionche ’l mondo ha fatto reo (cfr. ib. v. 104), poiché al solo Papato attri-buisce l’atto di forza che tende a sopprimere l’ufficio imperiale, comesi legge nelle espressioni: l’un l’altro ha spento al v. 109, l’un con l’altroinsieme / per viva forza mal convien che vada ai vv. 110-111, e l’un l’al-tro non teme al v. 112, ma soprattutto quando afferma recisamente:

“Dì oggimai che la Chiesa di Romaper confondere in sé due reggimenti,cade nel fango,e sé brutta e la soma” (ib. vv. 127-129) 17

Inoltre, all’aperta professione di ghibellinismo si aggiunge una no-stalgica rievocazione dei tempi e dei costumi antichi 18, nei quali inve-ce i due Soli illuminavano allo stesso modo l’esistenza terrena degliuomini ed il loro cammino celeste 19. Ma se l’elegiaco rimpianto del-l’antica età che rampogna (ib. v. 121) la nuova ricorre frequentemen-te nella Commedia, la specifica accusa nei confronti del Papato enun-ciata da Marco Lombardo viene allargata ad entrambi i poteri daDante che, come già illustrato nel VI canto della stessa cantica, nespartisce equamente i demeriti.

Che le autorità universali tralignino per l’incapacità delle personeche le rappresentano, come sostiene Carlo Martello, o che si degradi-no per la cattiva gestione di una sola delle due, come lamenta Marco

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__________16 Cfr. ib. v. 130.17 Non per nulla Dante stesso nella sua replica sottolinea come anche la casta

sacerdotale dei Leviti fosse esclusa da dio dall’eredità dei beni terreni assegnatia tutti gli altri Ebrei.

18 Cfr. ib. v. 42.19 Cfr. ib. vv. 106-108.

Lombardo, o di entrambe, secondo quanto sostiene il Nostro, co-munque ciò non esime l’uomo, per sua natura un πολιτικο′ν ζω′ ων,dal contrastare con la dirittura del suo operato l’iniquità altrui.

È questo il severo monito che il lettore deve cogliere dall’espe-rienza di Dante, figura dell’intera umanità, al quale, vittima di un tra-viamento morale che non è solo suo, ma di tutti i suoi contemporanei,Beatrice sulla radura dell’Eden rinfaccia le erronee scelte intellettua-li, lo spreco del talento e la cecità della coscienza:

“Non pur per ovra de le rote magne,che drizzan ciascun seme ad alcun finesecondo che le stelle son compagne,ma per larghezza di grazie divine,che sì alti vapori hanno a lor piova,che nostre viste là non van vicine,questi fu tal ne la sua vita novavirtüalmente, ch’ogne abito destrofatto averebbe in lui mirabil prova”. (Purg. XXX, vv. 109-117)

In Dante, dunque, non solo gl’influssi celesti sono benefici, graziealla felice congiunzione astrale con la costellazione dei Gemelli, chepredispone alle arti e alle scienze, ma anche la superinfusa / GratiaDei 20 (cfr. Par. XV, vv. 28-29), imperscrutabilmente elargitagli, è taleda renderlo virtualmente un privilegiato, in grado per le disposizioninaturali di produrre effetti meravigliosi. Questa condizione ottimaleviene però vanificata nel mezzo del cammin (cfr. Inf. I, v. 1) da un de-viato amore d’animo che lo porta ad attuare nel peccato le doti eccel-se in potenza 21. A Dante è provvidenzialmente offerta la possibilità diredimersi, ma è pur sempre sua la facoltà di scegliere la redenzione;per cui, se in lui fosse prevalsa quell’incertezza iniziale rimproverata-gli anche da Virgilio 22, quella viltà ch’egli stesso subito dopo condan-na negli ignavi, avrebbe smarrito per sempre la diritta via. Né è pos-

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__________20 Cfr. ib. v. 40.21 Cfr. Purg. XXX, vv. 118-12022 Cfr. Inf. II, vv. 121-123.

sibile sostenere che tutti gli accadimenti della vita del poeta sianoesclusivamente opera della Fortuna, e se anche Brunetto Latini, conspirito laico, sembra voler ricondurre ad essa la ragione della presen-za di Dante nell’Inferno, interpellandolo con le parole:

“…Qual fortuna o destinoanzi l’ultimo dì qua giù ti mena?” (cfr. Inf. XV, vv. 46-47),

è Dante stesso ad ammettere senza infingimenti le proprie responsa-bilità morali, rispondendogli:

“Là sù di sopra, in la vita serena…mi smarri’ in una valle,avanti che l’età mia fosse piena”. (cfr. Inf. XV, vv. 49-51)

Il maestro di vita e di costumi civili è ora consapevole non solo del-l’altezza d’ingegno del suo discepolo, favorita dagli astri, ma anchedella benevolenza del cielo, che lo destinano al netto contrasto con larealtà sociale e politica, culminante nell’esilio terreno:

“Ed elli a me: “Se tu segui tua stella,non puoi fallire a glorioso porto, se ben m’accorsi ne la vita bella;e s’io non fossi sì per tempo morto,veggendo il cielo a te così benigno,dato t’avrei a l’opera conforto”. (Inf. XV, vv. 55-60)

Nella sua profezia dell’esilio ser Brunetto ascrive alla Fortuna untale onore 23:

“La tua fortuna tanto onor ti serba,che l’una parte e l’altra avranno famedi te…” (cfr. Inf. XV, vv. 70-73),

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__________23 Cfr. anche “Tre donne intorno al cuor”: L’essilio che m’è dato onor mi tegno

(R. CIV, v. 76).

accennando alla spinosa questione della provvidenzialità del male,per cui anche questa dolorosa esperienza si rivelerà piuttosto unaprovvida sventura, nell’affrontare la quale egli confiderà a Cacciagui-da di sentirsi tetragono (cfr. Par. XVII, v. 24), ossia saldo nelle virtùmorali ed armato di provedenza (cfr. Par. XVII, v. 109).

Dante osserverà alla lettera il suggerimento di Brunetto di seguirela sua stella, tanto che, una volta giunto nel cielo delle stelle fisse, pe-netrerà fisicamente nella costellazione dei Gemelli e da essa rivolgeràil suo ultimo sguardo alla terra:

“L’aiuola che ci fa tanto feroci, volgendom’io con li etterni Gemelli,tutta m’apparve da’ colli a le foci;” (Par. XXII, vv. 151-153).

Proprio alla sua costellazione, prima origine del suo ingegno, incongiunzione col sole quand’egli nacque, e nella quale la grazia divi-na lo ha introdotto, egli rivolge un devoto e vibrante appello perchélo sostenga nel potenziare quelle virtù che ora più che mai gli sono in-dispensabili per conseguire l’ultima salute (cfr. Par. XXII, v. 124):

“O gloriose stelle, o lume pregno di gran virtù, dal quale io riconoscotutto, qual che si sia, il mio ingegno,con voi nasceva e s’ascondeva voscoquelli ch’è padre d’ogne mortal vita,quand’io senti’ di prima l’aere tosco;e poi, quando mi fu grazia largitad’entrar ne l’alta rota che vi gira,la vostra region mi fu sortita.A voi devotamente ora sospiral’anima mia, per acquistar virtuteal passo forte che a sé la tira”. (Par. XXII, vv. 112-123)

Ma prima di procedere verso l’alto è inevitabile ch’egli, quasi con-gedandosi dai suoi lettori, dia un’ultima occhiata in basso con quel di-stacco del filosofo straniato che, rapito dalla perfezione delle sette sfe-re celesti grandi e veloci (cfr. Par. XXII, v. 149) rotanti sotto i suoi pie-

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di, ne raffronti la maestà con la vile angustia del globo terrestre, or-mai consapevole della vanitas vanitatum umana:

“Col viso ritornai per tutte quantele sette spere, e vidi questo globotal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante; e quel consiglio per migliore approboche l’ha per meno; e chi ad altro pensachiamar si puote veramente probo”. (Par. XXII, vv. 133-138)

Certo, la terra può apparire vile e risibile agli occhi di chi, comeDante, ha ormai portato a compimento il suo percorso di formazione,ma appunto per questo tocca proprio a lui, una volta ritornato su diessa, esortare tutti gli altri uomini a porre il loro ingegno al ben fare(cfr. Inf. VI, v. 81), adoperandosi a realizzare quella felicità terrenache è prefigurazione della vita ultraterrena.

Così Marco Lombardo, incontrato a metà del suo cammino, invi-sibile in quell’aria tenebrosa simile all’atmosfera della selva oscura, ri-evocando quasi la stessa flebile parvenza di Virgilio, assolve la mede-sima funzione di scorta, una nuova guida razionale che lo induce aguardare con lucidità alle conseguenze delle azioni umane 24 e a com-prendere le cause dei mali che affliggono la società sin dai vertici del-la sua gerarchia, e non per attendere con rassegnazione un risarci-mento futuro 25, ma per rinnovare la coscienza di chi, ricco di talentoe di fede, crede nell’infallibilità del disegno divino ed intende parte-cipare fattivamente alla sua attuazione, debellando una volta e pertutte comodi fatalismi e vane renitenze. Solo a queste condizioni l’e-sistenza di ciascuno, non più opera solo del Cielo o della Fortuna, sa-rà effetto dell’ingegno e della volontà, quelle doti celesti incarnatenell’uomo che il Poeta chiama intelletto e amore (cfr. Par. I, v. 120).

È questo un aspetto irrinunciabile dell’umanesimo di Dante, quel-lo che farà dire a Leonardo Bruni nel 1436 26: “Non solamente a lette-

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__________24 Cfr. ib. v. 66.25 Cfr. ib. vv. 122-123.26 L. Bruni, Vita di Dante.

ratura, ma agli studi liberali si diede”, (che sono propri dell’uomo libe-ro) “niente lasciando a dietro che appartenga a far l’uomo eccellente, néper tutto questo si racchiuse in ozio, né privossi del secolo (…) nientetralasciò delle conversazioni umane e civili…”, rintracciando in lui unmodello perfetto di quell’Umanesimo civile che si diffuse proprio nel-l’ambiente fiorentino, così spesso impietosamente tratteggiato nell’o-pera dantesca.

Quello che indurrà G. B. Vico, il filosofo della storia ideale-eter-na, a definirlo il VATE della spirante barbarie, riconoscendogli latempra del poeta eroico e riscoprendo la sublimità di una poesia chedà ampio spazio alla storia, quel drammatico scenario d’imbarbari-mento, da cui emerge però “anche la fantasia e la passionalità, la vio-lenza e la collera generosa ed eroica dell’umanità medioevale” 27: “Maquello che è più proprio della sublimità di Dante, egli fu la sorte di na-scere grande ingegno nel tempo della spirante barbarie d’Italia 28”.

E ancora oggi a noi, uomini di una rinnovata barbarie, in cui nongià Papato e Impero, ma altri opposti poteri si fronteggiano, insegnache la suprema dignità dell’uomo è nella sua libertà, che potrà sì in-durlo a precipitare nel baratro dello stato ferino, ma anche a subli-marsi tra i cieli rotanti sino alla dimensione angelica; ciò che conta èche sia sempre artefice di scelte solidali e consapevole di essere il “ri-sultato del proprio atto” 29.

Siracusa, marzo 2004

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__________27 R. Luperini - P. Castaldi - L. Marchiani - F. Marchese, La scrittura e l’inter-

pretazione, vol. II, tomo I, pag. 298.28 G.B. Vico, La discoverta del vero Dante.29 E. Garin, L’Umanesimo italiano, Laterza, Bari 1958, pag. 124.

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PARADISO, c. XXV

“Il poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra” è la locu-zione dantesca che, come spesso accade, si carica delle più svariatesuggestioni e che ha ispirato la struttura binaria della nostra lettura: lasperanza di Dante, che si effonde attraverso il sacrato poema, non è so-lo teologale, ma anche umana; non è solo virtù concessa per grazia,ma è sofferta conseguenza di vicissitudini terrene; ed anzi, come nonmai, in questo canto della speranza si completa in entrambe le dire-zioni il nesso figurale tra tempo ed eterno, come se l’uno fosse figuradell’altro: non è più solo la terra ad essere umbra futurorum, non piùsolo la milizia terrena anticipa dunque il trionfo di Dante nei cieli, maessa diventa condizione essenziale perché il poeta, ammesso al co-spetto delle verità non parventi nell’al di là, possa farle ricadere sulmondo, come diluvio lustrale di redenzione, espressione di carità.Dalla terra al cielo, nella Chiesa trionfante, e dal cielo di nuovo allaterra, nella Chiesa militante, quindi, ma non basta; poiché per Dantela speranza teologale si converte, proprio nell’incipit del canto, in spe-ranza terrena: se l’esilio da Firenze lo ha reso degno di compiere lasua missione salvifica, forse proprio l’assolvimento di essa – attraver-so il poema – lo renderà degno di rientrare nella sua città.

Questa è la chiave di lettura del canto: nella nostra “visione” real-tà e speranza si compenetrano a tal punto da risolversi in un unico so-gno, quello della restauratio orbis.

E vi parleremo anche dei sogni della Commedia, intesi proprio co-me sogni anagogici, parte integrante della speranza di redenzione, mapur sempre connessi al vero, di cui costituiscono insieme l’interpreta-zione morale e la prodigiosa risoluzione. Questi sogni non trasfigura-no dunque la realtà, ma la comprendono 1 e soprattutto contribuisco-no anch’essi a tradurre l’astrattezza dell’esperienza individuale in unconcreto messaggio universale; in quanto a densità progettuale sono

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__________1 Secondo l’interpretazione psicoanalitica freudiana, qui straordinariamente

anticipata, ed usando le parole di Maury: “Sogniamo ciò che abbiamo visto, det-to, desiderato o fatto”.

ben distanti da quegli incantamenti stilnovistici, ai quali il poeta si ab-bandonava in gioventù nell’intento di gustare solo con pochi adeptil’estasi della trascendenza d’amore.

Se mai continga che ’l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m’ha fatto per molti anni macro, 3vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov’ io dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; 6con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta, e in sul fonte del mio battesmo prenderò ’l cappello; 9però che ne la fede, che fa conte l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi Pietro per lei sì mi girò la fronte. 12Indi si mosse un lume verso noi di quella spera ond’ uscì la primizia che lasciò Cristo d’i vicari suoi; 15e la mia donna, piena di letizia, mi disse: "Mira, mira: ecco il barone per cui là giù si vicita Galizia". 18Sì come quando il colombo si pone presso al compagno, l’uno a l’altro pande, girando e mormorando, l’affezione; 21così vid’ ïo l’un da l’altro grande principe glorïoso essere accolto, laudando il cibo che là sù li prande. 24Ma poi che ’l gratular si fu assolto, tacito coram me ciascun s’affisse, ignito sì che vincëa ’l mio volto. 27Ridendo allora Bëatrice disse: “Inclita vita per cui la larghezza de la nostra basilica si scrisse, 30fa risonar la spene in questa altezza: tu sai, che tante fiate la figuri, quante Iesù ai tre fé più carezza”. 33

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“Leva la testa e fa che t’assicuri: che ciò che vien qua sù del mortal mondo, convien ch’ai nostri raggi si maturi”. 36Questo conforto del foco secondo mi venne; ond’ io leväi li occhi a’ monti che li ’ncurvaron pria col troppo pondo. 39“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti lo nostro Imperadore, anzi la morte, ne l’aula più secreta co’ suoi conti, 42sì che, veduto il ver di questa corte, la spene, che là giù bene innamora, in te e in altrui di ciò conforte, 45di’ quel ch’ell’ è, di’ come se ne ’nfiora la mente tua, e dì onde a te venne”. Così seguì ’l secondo lume ancora. 48E quella pïa che guidò le penne de le mie ali a così alto volo, a la risposta così mi prevenne: 51“La Chiesa militante alcun figliuolo non ha con più speranza, com’ è scritto nel Sol che raggia tutto nostro stuolo: 54però li è conceduto che d’Egitto vegna in Ierusalemme per vedere, anzi che ’l militar li sia prescritto. 57Li altri due punti, che non per sapere son dimandati, ma perch’ ei rapporti quanto questa virtù t’è in piacere, 60a lui lasc’ io, ché non li saran forti né di iattanza; ed elli a ciò risponda, e la grazia di Dio ciò li comporti”. 63Come discente ch’a dottor seconda pronto e libente in quel ch’elli è esperto, perché la sua bontà si disasconda, 66“Spene”, diss’ io, “è uno attender certo de la gloria futura, il qual produce grazia divina e precedente merto. 69Da molte stelle mi vien questa luce;

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ma quei la distillò nel mio cor pria che fu sommo cantor del sommo duce. 72`Sperino in te’, ne la sua tëodia dice, ‘color che sanno il nome tuo’: e chi nol sa, s’elli ha la fede mia? 75Tu mi stillasti, con lo stillar suo, ne la pistola poi; sì ch’io son pieno, e in altrui vostra pioggia repluo”. 78Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno di quello incendio tremolava un lampo sùbito e spesso a guisa di baleno. 81Indi spirò: “L’amore ond’ ïo avvampo ancor ver’ la virtù che mi seguette infin la palma e a l’uscir del campo, 84vuol ch’io respiri a te che ti dilette di lei; ed emmi a grato che tu diche quello che la speranza ti ’mpromette”. 87E io: “Le nove e le scritture antiche pongon lo segno, ed esso lo mi addita, de l’anime che Dio s’ha fatte amiche. 90Dice Isaia che ciascuna vestita ne la sua terra fia di doppia vesta: e la sua terra è questa dolce vita; 93e ’l tuo fratello assai vie più digesta, là dove tratta de le bianche stole, questa revelazion ci manifesta”. 96E prima, appresso al fin d’este parole, ‘Sperent in te’ di sopr’ a noi s’udì; a che rispuoser tutte le carole. 99Poscia tra esse un lume si schiarì sì che, se ’l Cancro avesse un tal cristallo, l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì. 102E come surge e va ed entra in ballo vergine lieta, sol per fare onore a la novizia, non per alcun fallo, 105così vid’ io lo schiarato splendore venire a’ due che si volgieno a nota

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qual conveniesi al loro ardente amore. 108Misesi lì nel canto e ne la rota; e la mia donna in lor tenea l’aspetto, pur come sposa tacita e immota. 111“Questi è colui che giacque sopra ’l petto del nostro pellicano, e questi fue di su la croce al grande officio eletto”. 114La donna mia così; né però piùe mosser la vista sua di stare attenta poscia che prima le parole sue. 117Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta di vedere eclissar lo sole un poco, che, per veder, non vedente diventa; 120tal mi fec’ ïo a quell’ ultimo foco mentre che detto fu: “Perché t'abbagli per veder cosa che qui non ha loco? 123In terra è terra il mio corpo, e saragli tanto con li altri, che ’l numero nostro con l’etterno proposito s’agguagli. 126Con le due stole nel beato chiostro son le due luci sole che saliro; e questo apporterai nel mondo vostro”. 129A questa voce l’infiammato giro si quïetò con esso il dolce mischio che si facea nel suon del trino spiro, 132sì come, per cessar fatica o rischio, li remi, pria ne l’acqua ripercossi, tutti si posano al sonar d’un fischio. 135Ahi quanto ne la mente mi commossi, quando mi volsi per veder Beatrice, per non poter veder, benché io fossi 138presso di lei, e nel mondo felice!

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LE VIRTÙ TEOLOGALI TRA REALTÀ E SOGNO

Se la

“fede è sustanza di cose speratee argomento de le non parventi” (Par. XXIV, vv. 64-65)

come Dante risponde a S. Pietro utilizzando un enunciato paolinodella lettera agli Ebrei (XI, 1),

“Spene… è un attender certode la gloria futura, il qual producegrazia divina e precedente merto”. (cfr. Par. XXV, vv. 67-69)

È questa la risposta che il poeta dà al primo quesito postogli da S.Giacomo sulla speranza, “dì quel ch’ell’è…” (cfr. ib. v. 46), traducen-do fedelmente una sententia di Pietro Lombardo (III, 26), sommodottore e maestro di S. Tommaso.

Dante, infatti, ormai giunto alla porta di S. Pietro (cfr. Inf. I, v.134), come aveva auspicato all’inizio del suo viaggio, che sin d’allorasi prospetta come un itinerario di speranza 2, incontra nel cielo dellestelle fisse tre anime eccellenti, quelle di S. Pietro, S. Giacomo e S.Giovanni: loro compito, prima di affidarlo all’autorevole sostegno delsanto sene, S. Bernardo (cfr. Par. XXXI, v. 54), è quello di sottoporload un severo giudizio per verificarne i meriti umani e la consapevo-lezza teologica. I tre apostoli lo esaminano pertanto sulle virtù teolo-gali da essi rappresentate figuralmente, secondo l’interpretazione de-gli intellettuali medievali e di Dante stesso, per cui Beatrice, nell’ac-cogliere S. Giacomo, figura scritturale della speranza cristiana, alludenei vv. 32-33 del nostro canto alla costante presenza della triade apo-stolica accanto a Gesù, proprio in virtù di tale valore simbolico:

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__________2 Cfr. Inferno I, v. 41: Sì ch’a bene sperar m’era cagione…; ib. v. 54 Ch’io per-

dei la speranza de l’altezza; ib. vv. 119-120 …perché speran di venire / quando chesia a le beate genti.

“fa risonar la spene in questa altezza:tu sai, che tante fiate la figuriquante Iesù ai tre fe’ più carezza” 3.

Fede e speranza – come gli apostoli – sono dunque strettamentecongiunte nella loro quiditate ( cfr. Par. XXIV, v. 66), ossia nella loroessenza, come sostiene anche S. Tommaso ( S. Th. II, II, IV, 1), poi-ché l’una è certezza dell’altra e la seconda, in quanto attender certo dela gloria futura, è essa stessa fede incrollabile di verità imperscrutabi-li; l’intima connessione tra di esse è ben esplicitata dal poeta nel c.XXIV:

“… Le profonde coseche mi largiscon qui la lor parvenza, a li occhi di la giù son sì ascose,che l’esser loro, v’è in sola credenza,sopra la qual si fonda l’alta spene;” (Par. XXIV, vv.70-74)

Dante si rivela ai suoi esaminatori in pieno possesso di quelle vir-tù, sostanziate da dottrina Da molte stelle mi vien questa luce (ib. v.70) e professate con serena fermezza: con atteggiamento esperto, maumile

“Come discente ch’a dottor secondapronto e libente in quel ch’elli è esperto,perché la sua bontà si disasconda,” (ib. vv. 64-66)

Dante personaggio appare finalmente trionfante, dopo le tante vi-cissitudini patite e le innumerevoli emozioni provate, sia sul pianodottrinario che su quello umano e letterario: la sua sofferta degnitàviene, infatti, benedetta tre volte dalla primizia / che lasciò Cristo d’i

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__________3 Solo Pietro, Giacomo e Giovanni avevano, infatti, condiviso con Gesù, per

sua espressa volontà, tre momenti particolarmente significativi, riportati dai Van-geli: la resurrezione della figlia di Giairo (Luca VIII, 40-56), la trasfigurazione sulmonte Tabor (Matteo XVII, 1-39) e la preghiera nell’orto del Getsemani (Mat-teo XIV, 32-42).

vicari suoi (cfr. ib. vv. 14-15), S. Pietro, il quale, dopo averlo esamina-to sulla fede:

“così, benedicendomi cantando, tre volte cinse me, sì com’io tacqui,l’appostolico lume al cui comandoio avea detto; sì nel dir li piacqui” (Par. XXIV, vv. 151-154)

Ma essa soprattutto viene riconosciuta da Beatrice, quella pia cheguidò le penne/de le mie ali a così alto volo (cfr. ib. vv. 49-50), la qua-le ammette:

“La Chiesa militante alcun figliuolonon ha con più speranza, com’è scrittonel Sol che raggia tutto nostro stuolo:” (ib. vv.52-54)

Non così elogiativa risuonava la breve allocuzione di Beatrice nel-la radura del Paradiso terrestre, quando, rivelandosi a Dante per laprima volta, lo aveva duramente interpellato: “Come degnasti di acce-dere al monte?” (Purg. XXX, v. 74). Ella, dunque, nel Purgatorio,apostrofando in vario modo il suo fedele, lo aveva costretto ad am-mettere le proprie colpe, sollecitando un amaro esame di coscienza,che era culminato in un vero e proprio atto penitenziale, seguito dal-la liturgia lustrale: Beatrice stessa, ministra dell’intera sequenza con-fessionale, aveva immerso Dante nel Letè per cancellare ogni residuamemoria di peccato, facendo seguire alla prima fase sacramentalequella purificatrice del battesimo. Subito dopo la donna lo aveva affi-dato alle sue prime ancelle (cfr. Purg. XXXI, v.108), le quattro virtùcardinali, che lo avevano circondato a passo di danza, distendendo lamano sul suo capo, come a proteggerlo dalle tentazioni terrene, le in-sidie della vita attiva. Le quattro belle (cfr. Purg. XXXI, v. 104) ave-vano, a loro volta, esortato il poeta a guardare intensamente Beatricenegli occhi, poiché in essi egli avrebbe scorto le tre di là, che miran piùprofondo (Purg. XXXI, v. 111), ossia le virtù teologali, che sono fon-damento della vita contemplativa: questo perché Beatrice-Cristo è alcentro della storia umana, in quanto rivelazione divina, e pertanto levirtù cardinali l’hanno preceduta:

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“pria che Beatrice discendesse al mondo,fummo ordinate a lei per sue ancelle” (Purg. XXXI, vv. 107-108)

mentre le virtù teologali procedono da lei, in quanto consentono alcristiano, che fruisce della rivelazione, di vedere Dio.

Tale rito iniziatico del Purgatorio terminava con la balbettante ri-chiesta di aiuto del poeta alla sua Madonna e con una sostenuta esor-tazione da parte di questa ad una nuova, lucida consapevolezza:

“Ed ella a me: “Da tema e da vergognavoglio che tu omai ti disviluppe, sì che non parli più com’om che sogna”. (Purg. XXXIII, vv. 31-33)

Ed è quindi con rinnovato abito, con una sicurezza che non è iat-tanza (cfr. ib. v. 62), che il poeta, confortato, testimonia ai santi che nesono figura le sue convinzioni teologiche. Così San Giacomo lo so-stiene nella sua professione di dottrina:

“Leva la testa e fa che t’assicuri:ché ciò che vien qua sù del mortal mondo,convien ch’ai nostri raggi si maturi”. (ib. vv. 34-36)

E ciò che induce Beatrice a prevenire la risposta di Dante alla se-conda domanda di S. Giacomo sulla speranza “…dì come se ne ’nfio-ra / la mente tua …” (cfr. ib. vv. 46-47), non è il tentativo di sollevareil poeta dalla difficoltà dei quesiti “…ché non li saran forti” (cfr. ib.v.61), ma è l’urgenza di attestare anch’ella, da testimone oculare, l’av-venuta conoscenza della verità:

“però li è conceduto che d’Egittovegna in Ierusalemme per vedere, anzi che ‘l militar li sia prescritto” (ib. vv.55-57)

L’allusione da parte di Beatrice al viaggio figurale di Dante èespressa metaforicamente con questo riferimento scritturale: comeper gli Ebrei erranti, liberati dalla cattività dell’Egitto, Gerusalemmeera la terra promessa ed il tragitto per raggiungerla costituiva un per-

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corso di formazione e di purificazione, irto di difficoltà, ma costella-to d’eventi prodigiosi; così anche per Dante pellegrino, salvato dallaschiavitù del peccato, l’Empireo rappresenta la meta designata dallaGrazia divina, conquistata con fami / freddi o vigilie (cfr. Purg. XXIX,vv. 37-38).

L’Itinerarium mentis in Deum di Dante è quello che in termini nar-ratologici moderni si definirebbe un bildungsroman: un procederedalla conoscenza della realtà, tramite l’astrazione, che traduce il par-ticolare in universale, alla visione del divino e all’appagamento misti-co; ed è proprio attraverso le tappe fondamentali di questo tragittopasquale che Dante sperimenta e consolida le tre virtù sulle quali sa-rà chiamato a rispondere.

La realtà del mondo disperato della dannazione alimenta in lui laFEDE, concepita come ardente desiderio, pur sempre insoddisfatto,di redenzione e condivisa in tal senso anche da Virgilio e dagli spiritimagni del Limbo:

“semo perduti, e sol di tanto offesiche sanza speme vivemo in disio” (Inf. IV, vv.41-42) 4

Nel Purgatorio risorge in Dante la SPERANZA, poiché tutto il re-gno della purgazione vive nell’attesa certa della beatitudine, promes-sa dall’angelo nocchiero col suo segno della croce alle anime ben na-te allorquando, già sul punto di approdare sulla spiaggia della Mon-tagna sacra, esse intonano il salmo CXIII “In exitu Israel de Aegyp-to” (cfr. Purg II v. 146), apprestandosi ad affrontare quell’ascesa pu-rificatrice che le condurrà, come prefigura la teodia (cfr. ib, v. 73), al-l’affrancamento da ogni colpa.

Infine, la gravitazione spirituale di Dante attraverso le sfere celestiè tutta un tripudio di CARITA’: essa è sensibilmente percepibile nel-la stessa luminosità delle anime che si intensifica quando possono ren-

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__________4 Una condizione che, per estensione, è simile a quella di tutti gli altri dan-

nati, i quali, senza alcuna speranza di salvezza, desiderano comunque affrontareil giudizio di Dio, per quanto lo temano: “e pronti sono a trapassar lo rio, / ché ladivina giustizia li sprona, / sì che la tema si volve in disio” (Inf. III, vv.124-126).

dersi utili al viaggiatore, uniformandosi alla volontà di Dio, abisso dicarità infinita; essa si manifesta nella rotazione armoniosa dei cieli,che si muovono per l’intenso desiderio che le intelligenze motrici han-no di obbedire a Dio 5; il Paradiso è il ritorno all’amore di Dio che ilpoeta aveva smarrito sulla terra.

Nel corso di questo viaggio di formazione Dante, inizialmente ti-moroso e sfiduciato, muta quindi profondamente 6: quel camminotormentato ed accidentato, nell’affrontare il quale egli si riconoscevainerme:

“…e io sol unom’apparecchiava a sostener la guerrasì del cammino e sì de la pietate” (Inf. II, vv. 3-5)

viene superato grazie ad armi invincibili, elargite a Dante dall’inter-cessione della Madonna – la carità –, dall’intervento di Lucia – la spe-ranza – e dalla sollecitudine di Beatrice – la fede –, nonché dal soste-gno di Virgilio – la ragione –, e si conclude proprio con quest’ultimoesame, a cui egli si prepara come per sostenere una nuova guerra:

“sì come il baccialier s’arma e non parlafin che ’l maestro la question propone,per approvarla, non per terminarla,così m’armava io d’ogni ragionementre ch’ella dicea, per esser prestoa tal querente e a tal professione” (Par. XXIV, vv. 46-51).

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__________5 Cfr. Paradiso I, vv. 76-78.6 L’immagine del viaggio di formazione trapela nel nostro canto anche ai vv.

17-18, nei quali Beatrice, indicando in perifrasi l’avvento di S. Giacomo, fa rife-rimento esplicito al pellegrinaggio terreno dei cristiani verso una delle mete piùfrequentate in epoca medievale, quella di Santiago de Compostela, nel cui san-tuario, secondo la tradizione accolta anche da Dante, sarebbe stato sepolto il cor-po dell’Apostolo. Il pellegrinaggio terreno della cristianità verso il luogo di cul-to riservato a S. Giacomo anticipa e prefigura , dunque, il pellegrinaggio celestedel poeta, figura dell’intera umanità, verso il cielo delle Stelle fisse ed il suo in-contro soprannaturale col foco secondo (cfr. ib., v. 37).

Ma ciò che differisce ormai è lo spessore della sua armatura ri-spetto agli esordi, quando, rivolto con esitazione a Virgilio, avevaesclamato:

… “ Poeta che mi guidi,guarda la mia virtù s’ell’è possente,prima ch’ a l’alto passo tu mi fidi”. (Inf. II, vv. 10-12)

E ancora:

“Ma io, perché venirvi? O chi ’l concede?Io non Enea, io non Paulo sono; me degno a ciò né io né altri ’l crede.” (Inf. II, vv. 31-33),

avanzando anche il timore che la propria indegnità potesse trasfor-marsi in follia, in un atto di dissacrante arroganza 7, ben diversamen-te da quei magnanimi, Enea e Paolo, visitatori dell’al di là, presceltidalla Provvidenza per finalità eccelse.

Anche Enea e Paolo, infatti, sono protagonisti d’un viaggio di for-mazione: ad Enea è concesso il privilegio di visitare l’oltretomba per isuoi meriti umani: la sua pietas ed il senso profondamente religioso del-le azioni, lo renderanno degno di fondare la potente stirpe romana:

“ch’ e’ fu dell’alma Roma e di suo impero ne l’empireo ciel per padre eletto” (Inf. II, vv.20-21).

Il lungo viaggio di Enea però non muta la sua indole: l’eroe, devo-to e rispettoso della volontà dei fati, rimane irremovibile nei suoi in-tenti predeterminati e la visione delle anime, che si incarneranno perdare lustro alla gloria di Roma, non interferirà con la missione intra-presa, solo lo renderà più consapevole del valore universale di essa.

S. Paolo invece folgorato dalla Grazia sulla via di Damasco, viene

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__________7 Cfr. Inferno II, v. 35: temo che la venuta non sia folle. È immediato il riferi-

mento al folle volo di Ulisse, artefice d’un viaggio temerario di conoscenza, per-ché privo di quel giusto senso del limite umano, che connota gli animi nobili.

elevato fino al terzo cielo per poter vedere quelle cose non parventidella fede cristiana, il cui argomento avrebbe dovuto diffondere tra iGentili. S. Paolo muta dunque radicalmente la sua vita e i suoi ideali,dopo essere stato toccato dalla Grazia: egli, persecutore dei primi Cri-stiani, si fa miracolosamente apostolo delle genti, assumendosi il com-pito della predicazione del Verbo proprio in quegli ambienti sociali eculturali, nei quali era precedentemente integrato e che ora lo accol-gono con diffidenza ed ostilità. La sua ascesa comporta, dunque, unasvolta radicale, alla quale la visione delle verità arcane conferisce mag-giore efficacia persuasiva ed indiscussa autorità dottrinaria:

“Andovvi poi lo Vas d’elezione, per recarne conforto a quella fedech’è principio a la via di salvazione” (Inf. II, vv.28-30).

Il poeta si sente inadeguato rispetto ai due modelli, ma alle sue vali-de perplessità, Virgilio non fornisce sul momento una risposta esaurien-te: solo nel Paradiso Dante comprenderà, dalle parole di San Giacomo,perché proprio lui sia stato scelto dal Sommo duce (cfr. ib. v. 72) per con-fortare nell’umanità la speranza d’una “renovatio rerum”:

“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti lo nostro Imperadore, anzi la morte, ne l’aula più secreta co’ suoi conti,sì che, veduto il ver di questa corte, la spene, che là giù bene innamora,in te e in altrui di ciò conforte” (ib. vv.40-45).

Il suo mandato si configura ormai chiaramente come la summadelle due esperienze di Enea e di Paolo: nasce dai meriti e procedeper Grazia; guarda alla terra, ma si proietta nel cielo; ha un pregnan-te valore politico che si risolve in un arduo progetto di edificazionemorale e religiosa. Come ebbe a dire Cosmo: “Anch’egli voleva del-l’Egitto nel quale viveva fare Gerusalemme” 8.

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__________8 U. Cosmo, L’ultima ascesa, Bari 1936.

Tale viaggio di formazione viene descritto dal poeta in forma di vi-sione, quasi come un sogno fatto alla presenza della ragione 9, poichél’intera esperienza salvifica si proietta fuori dalla realtà, ma, partendoda essa, la reinterpreta anagogicamente con lucida, superiore consa-pevolezza. Solo nelle circostanze iniziali Dante rileva l’oscurità dellapropria coscienza e la simboleggia nel sonno, quel nocivo torpore del-la ragione, che determina l’aversio a Deo:

“Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,tant’era pien di sonno a quel puntoche la verace via abbandonai” (Inf. I, vv. 10-12).

Anche per Dante il sonno della ragione genera mostri, materializzatinelle tre fiere che sottomettono la volontà dell’individuo, fino a portarlaall’autodistruzione: nella notte passata con tanta pieta (Inf. I, v. 21) nellaselva, in questo sonno ottundente c’è solo accidia, inerzia morale, pauradell’ignoto e rappresentazioni del peccato che minacciano di condan-narlo alla mortalità; il sogno, invece, secondo Dante, è sperienza d’im-mortalità, emanazione e prova del trascendente: “Ancora vediamo continuasperienza della nostra immortalità nelle divinazione de’ nostri sogni, le qua-li essere non potrebbono, se in noi alcuna parte immortale non fosse; con-ciossiacosachè immortale convegna essere lo rivelante, o corporeo o incor-poreo che sia, se ben si pensa sottilmente” 10. L’attività onirica è legata per-tanto ad una coscienza vigile, in grado di recepire l’ispirazione divina, laquale si palesa nelle prime ore del giorno, al risorgere della Grazia:

“Nell’ora…e che la mente nostra, peregrina più dalla carne e men da’ pensier presa, alle sue vision quasi è divina” (cfr. Purg. IX, vv. 13/16-19).

Nell’inferno, dunque, è inibita a Dante ogni attività onirica: la per-petua notte del peccato non è mai rischiarata dalla luce della Grazia

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__________9 T. Ceva, Saggio su F. Lemene.10 Cfr. Convivio II, VIII, 13.

e in quell’aura sanza tempo tinta (cfr. Inf. III, v. 29) il pellegrino devetenere sempre allertata la sua ragione, senza abbandonarsi al sonno etanto meno al sogno: nel primo infatti si configurerebbe un’irrepara-bile condizione di regressione, nel secondo, invece, un’impossibileprogressione in assenza di Grazia.

Tre sogni si susseguono in altrettante notti trascorse in purgatorio,dove le tenebre del peccato vengono naturalmente dissipate dalla lu-ce della virtù, e si manifestano tutti all’alba, quando: …presso al mat-tin del ver si sogna (cfr. Inf. XXVI, v. 7).

Si tratta di eventi prodigiosi, disposti secondo una scansione sim-bolica segnata dal numero 9 – il numero del miracolo – nei canti IX,XVIII - XIX e XXVII; ricorrono in situazioni particolarmente ardue,che giustificano l’intervento provvidenziale di alcune donne allegori-che, attestanti gli effetti benefici delle virtù. Nel primo, infatti, Lucia,simboleggiata da un’aquila, rapisce Dante che dorme, sollevandolodalla valletta dei principi alla porta del purgatorio:

“Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,quando l’anima tua dentro dormia,sovra li fiori ond’è là giù addornovenne una donna, e disse: “I’ son Lucia;lasciatemi pigliar costui che dorme;sì l’agevolerò per la sua via.” (Purg. IX, vv. 52-57):

solo così, solo affidandosi alla SPERANZA, il poeta avrebbe potutosuperare quel dislivello tra antipurgatorio e purgatorio, insormonta-bile per chi va sanz’ala (cfr. Purg. III, v. 54). Nel secondo si fronteg-giano due figure femminili, una femmina balba (cfr. Purg. XIX, v. 7)e una donna …santa e presta (cfr. Purg, XIX, v. 26), la prima simbolodell’incontinenza, ultima categoria di peccati espiati nel purgatorio,l’altra ancora allegoria della Grazia 11, necessaria a svelare l’insidia la-tente anche nei piaceri apparentemente inoffensivi: con questo sognoDante si rivestirà d’una corazza morale contro le lusinghe dei diletti.Sulla radura dell’Eden, infine, appare in sogno a Dante una donna

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__________11 Forse Beatrice, la Verità rivelata.

giovane e bella, che va cogliendo fiori e canta: l’attiva Lia evoca im-mediatamente nelle sue parole la contemplativa Rachele, entrambe ri-flesso della felicità terrena e di quella celeste, l’una prefigurata, l’altrapromessa al viaggiatore:

“Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;ma mia suora Rachel mai non si smagadal suo miraglio, e siede tutto giorno.Ell’è d’i suoi belli occhi veder vagacom’io de l’addornarmi con le mani;lei lo vedere, e me l’ovrare appaga.” (Purg. XXVII, vv.103-108).

Questi sogni sono allegorici, in quanto costituiscono l’equivalentedi ciò che Dante desidera, ed anagogici insieme, in quanto rappre-sentano ciò a cui il poeta aspira e si collocano nel regno della speran-za perché ne interpretano figuratamente le istanze; nel primo caso so-no dunque veritieri e palesano al poeta di quali armi efficaci servirsi,nel secondo sono divinatori e ne profetizzano la vittoria. In seguito,nel Paradiso, la contemplazione della beatitudine sfuggirà alla memo-ria del veggente e di quel sogno estatico del Divino rimarrà nel cuoresoltanto una dolcezza ineffabile:

“Qual è colui che sognando vede, che dopo ’l sogno la passione impressarimane, e l’altro a la mente non riede,cotal son io, ché quasi tutta cessamia visione, e ancor mi distillanel core il dolce che nacque da essa”. (Par. XXXIII, vv. 58-63)

Dante è dunque figura impleta sia di Paolo che di Enea: come Pao-lo, si fa ricettacolo di Grazia per diffondere presso l’intera umanità imisteri della realtà ultraterrena 12; come Enea, viene prescelto per ri-fondare nel mondo l’autorità politica, garanzia per gli uomini di feli-cità terrena. Lo rendono degno di ciò i suoi precedenti merti, il suo in-

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__________12 Cfr. anche Purgatorio XVI, vv. 40-41.

gegno posto al ben fare 13 ed il suo infaticabile impegno militante nel-la realtà.

È nel canto XV del Paradiso che Cacciaguida fornisce indiretta-mente a Dante quelle risposte ai quesiti che Virgilio aveva eluso: Cac-ciaguida, come Anchise verso Enea, si fa incontro a suo figlio (cfr. v.52) con l’ardente affetto (cfr. v. 43) di un padre che lungamente lo haatteso 14, perché la sua venuta era scritta in Dio e voluta da Dio, con-fermando così il significato provvidenziale ed universale del suo apo-stolato:

…“Grato e lontano digiuno,tratto leggendo del magno volumedu’ non si muta mai bianco né bruno,solvuto hai, figlio, dentro a questo lumein ch’io ti parlo, mercé di colei ch’ a l’alto volo ti vestì le piume”. (Par XV, vv. 49-54)

Ma a Cacciaguida, martire della fede, spetta anche il compito dichiarire a Dante che tale missione è il giusto riconoscimento d’unmartirio immeritato, l’esilio da Firenze, di cui egli stesso lo ragguaglianell’ultima profezia della Commedia:

“Qual si partio Ipolito d’Ateneper la spietata e perfida noverca,tal di Fiorenza partir ti convene”. (Par. XVII, vv. 46-48)

Tale definitiva sentenza, sollecitata con accoramento da Dante,giunge tanto più dolorosa in quanto preceduta da un’ampia e sugge-stiva rievocazione nostalgica della Firenze antica:

“Fiorenza, dentro da la cerchia antica,ond’ella toglie ancora e terza e nona,si stava in pace, sobria e pudica” (Par. XV, vv. 97-99)

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__________13 Cfr. Inferno VI, v. 81 e XV, v. 64.14 Cfr. Paradiso XV, vv. 25-27.

scevra da tutti quei mali che l’ hanno funestata in così breve volgered’anni. Quella città ideale in cui il trisavolo era nato non conoscevacontrasti civili, sfarzo e lussuria; coltivava i valori morali e custodivagli affetti famigliari: Cacciaguida si riconosce in quella società e pro-prio da essa attinge le virtù che gli avrebbero consentito di militarequale crociato incontro alla nequizia 15:

“Con queste genti, e con altre con esse,vid’io Fiorenza in sì fatto riposo,che non avea cagione onde piangesse.Con queste genti vid’io gloriosoe giusto il popol suo, tanto che ’l giglio non era ad asta mai posto a ritroso,né per division fatto vermiglio.” (Par. XVI, vv. 148-154).

Non è così per Dante, di cui pure Cacciaguida è anticipazione: eglinon ritrova più quegl’irrinunciabili pregi celebrati dal suo antenatonella Firenze che idoleggia il fiorino:

“La gente nuova e i subiti guadagniorgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni” (Inf. XVI, vv.73-75);

nella Firenze, in cui intrighi e rissosità inquinano e corrompono gli animi:

“…la città che nel Batistamutò ’l primo padrone: ond’ei per questosempre con l’arte sua la farà trista” (cfr. Inf. XIII, vv.143-14);

nella Firenze, in cui sulla generosità degli ideali e degli affetti preval-gono gli interessi personali ed il gretto materialismo:

“Molti han giustizia in cuore, e tardi scoccaper non venir sanza consiglio a l’arco;

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__________15 Cfr. Par. XV, v. 142.

ma il popol tuo l’ha in sommo de la bocca.Molti rifiutan lo comune incarco;ma il popol tuo solicito rispondesanza chiamare, e grida: “I’ mi sobbarco!”.Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:tu ricca, tu con pace e tu con senno!” (Purg. VI, vv. 130-137);

nella Firenze, in cui mode volgari e atteggiamenti spregiudicati ren-dono le donne spudorate:

“a le sfacciate donne fiorentinel’andar mostrando con le poppe il petto” (Purg. XXIII, vv.101-102).

Dall’indignazione per tanta abiezione morale e nello stesso tempodall’insopprimibile amore che egli continua a nutrire per la sua cittànasce lo straziante conflitto che lo dilania: da un lato, il senso rigoro-so della giustizia, che fa del poeta un cantor rectitudinis, gl’impone didenunciare ogni sorta di bassezze e perversioni consumate in quel ni-do di malizia tanta (cfr. Inf. XV, v. 78); dall’altro, il martirio dell’esilio,che fa del pellegrino un eletto, non gl’impedisce di rimpiangere acer-bamente i valori perduti della sua città e di compiangere amaramen-te la propria sorte:

“Tu proverai sì come sa di salelo pane altrui, e come è duro callelo scendere e ’l salir per l’altrui scale” (Par. XVII, vv. 58-60).

L’allusione a Firenze è già ravvisabile nella selva oscura, le cui fieresimboleggiano i vizi capitali dei suoi abitanti, avarizia, invidia e superbia 16,ai quali fa riferimento anche il giudizio morale sulla società fiorentina,espresso con toni sentenziosi e severi dal suo maestro Brunetto Latini:

“Ma quello ingrato popolo malignoche discese di Fiesole ab antico,

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__________16 Cfr. Inferno VI, vv. 74-75; XV, v. 68; Purgatorio XIV, v. 64.

e tiene ancor del monte e del macigno,ti si farà per tuo ben far nimico;ed è ragion, ché tra li lazzi sorbisi disconvien fruttare al dolce fico”. (Inf. XV, vv. 61-66).

Questi stessi costumi corrotti, fustigati con sottile ironia dal poe-ta, hanno reso famosa la sua città per mare e per terra e persino al-l’Inferno:

“Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grandeche per mare e per terra batti l’ali,e per lo ’nferno tuo nome si spande!Tra li ladron trovai cinque cotalituoi cittadini onde mi ven vergogna,e tu in grande orranza non ne sali”. (Inf. XXVI, vv. 1-6).

Dante, dunque, disorganico al tessuto civile dal quale è stato ge-nerato, deplora le penose condizioni in cui versa la sua patria: “Ohmisera, misera patria mia! Quanta pietà mi stringe per te, qual voltaleggo, qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto!” 17,ma proprio per questo riconosce il suo esilio iniquo quasi come unanecessità ineluttabile, seppure angosciosa:

“ E io, che ascolto nel parlar divinoconsolarsi e dolersicosì alti dispersi,l’essilio che m’è dato, onor mi tegno:ché, se giudizio o forza di destinovuol pur che il mondo versii bianchi fiori in persi,cader co’ buoni è pur di lode degno.E se non che da gli occhi miei ’l bel segnoper lontananza m’è tolto dal viso,che m’have in foco miso,

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__________17 Conv. IV, XXVII, 11; cfr. anche Convivio I, III, 4.

lieve mi conterei ciò che m’è grave.Ma questo foco m’havegià consumato sì l’ossa e la polpa,che Morte al petto m’ha posto la chiave”(Tre donne intorno al cor, vv. 73-87).

La speranza d’un possibile ritorno in patria è pertanto remota, manon soffocata: essa viene dapprima affidata al congedo della CanzoneCXVI (vv. 76-84):

“O montanina mia canzon, tu vai:forse vedrai Fiorenza, la mia terra,che fuor di sé mi serra,vota d’amore e nuda di pietate;se dentro v’entri, va dicendo: “Omainon vi può far lo mio fattor più guerra:là ond’io vegno una catena il serratal, che se piega vostra crudeltate, non ha di ritornar qui libertate”

È indubitabile la consonanza testuale con l’esordio del nostro can-to; ma se nella rima il rientro appare precluso al suo fattor, nonostan-te ai suoi versi sia ancora possibile, nel “proemio” del canto XXV delParadiso la speranza che ciò possa avvenire sembra materializzarsiproprio per l’intermediazione di quel poema sacro che lo ha reso permolti anni macro (cfr. ib. vv. 1-3).

Quello che la speranza gl’impromette (cfr. ib. v. 87) non è soltan-to, quindi, la ricompensa eterna decretata per lui dal giudizio divi-no, secondo l’autorità de “le nove e le scritture antiche” (cfr. ib. v.88) 18, ma anche il risarcimento terreno, che gli proviene dal giudi-zio degli uomini:

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__________18 Sorte analoga a quella del poeta è stata anche quella di S. Giacomo, co-

m’egli stesso dice di sé ai vv. 82-84 del canto in oggetto.

“con altra voce omai, con altro velloritornerò poeta, e in sul fontedel mio battesmo prenderò ’l cappello” (ib. vv.7-9).

La speranza di tornare al bello ovile ove dormì agnello (cfr. ib. v. 5)non può significare soltanto per il poeta una rivalsa personale, ma siarricchisce di finalità superiori alla grettezza e all’individualismo mer-cantile della sua terra: vuol dire essere incoronato sommo poeta pro-prio in virtù di quella fede alla quale egli è stato consacrato in S. Gio-vanni e che ora lo introduce nella basilica (cfr. ib. v. 30) divina a col-loquio con i principi gloriosi (cfr. ib v. 23); significa trionfare nell’a-ringo (cfr. Par. I, v. 18) della poesia, la cui ispirazione proviene diret-tamente da Dio:

“O divina virtù, se mi ti prestitanto che l’ombra del beato regnosegnata nel mio capo io manifesti,vedrami al piè del tuo diletto legnovenire e coronarmi de le foglieche la matera e tu mi farai degno” (Par. I, vv. 22-27).

Ma l’incoronazione poetica, di cui è simbolo il cappello dotto-rale dovrebbe essere singolarmente in terra riflesso di quell’inve-stitura spirituale ch’egli riceve nell’al di là 19; si capovolge così ilnesso figurale tra tempo ed eterno: nel cielo Dante viene insignitodella missione di restaurator orbis e tale onorificenza gli viene con-ferita proprio come un’incoronazione, una designazione solennerappresentata colle forme rituali di una cerimonia cavalleresca 20,durante la quale l’adepto, rigerenato da simboliche procedure ini-

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__________19 Il v. 12 del nostro canto: “Pietro per lei sì mi girò la fronte” sembrerebbe

proprio alludere ad un’incoronazione ricevuta per fede (Purg. XXVII, v. 142).20 Un’immagine di cerimonia solenne è adombrata nel nostro canto ai vv. 103-

111, in cui si fa riferimento all’avvento dell’ultimo foco (cfr. ib. v. 121), S. Gio-vanni: la similitudine in cui essa è inserita evoca una scena nuziale ed è contestadi termini afferenti alla sfera amorosa, in quanto allusivi all’ardore di carità chel’apostolo prediletto da Cristo rappresenta.

ziatiche, è reso consapevole dei propri valori e responsabile deipropri doveri.

Per ch’io te sovra te corono e mitrio (Purg. XXVII, v. 142); con que-sta formula sacramentale Beatrice per prima ordina Dante sacerdote,ne fa un nuovo apostolo delle genti, lo segna col crisma della miliziaspirituale, esortandolo alla divulgazione della verità, di cui è deposi-tario:

“…e quel che vedi,ritornato di là, fa che tu scrive” (Purg. XXXII, vv.104-105),

o ancora:

“Tu nota; e sì come da me son porte,così queste parole segna a’ vivi…” (Purg. XXXIII, vv. 52-53).

Anche Cacciaguida lo rafforza nell’assolvimento dei suoi uffici:

“Ma nondimen, rimossa ogne menzogna tutta tua vision fa manifesta;e lascia pur grattar dov’è la rogna.Ché se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimentolascerà poi, quando sarà digesta.” (Par. XVII, vv. 127-132);

S. Pietro insiste sulla funzione profetica della poesia dantesca, al fi-ne di distogliere l’umanità dal male:

“e tu, figliuol, che per lo mortal pondoancor giù tornerai, apri la bocca,e non asconder quel ch’io non ascondo” (Par. XXVII, vv. 64-66).

Anche S. Giacomo sollecita la valenza didattica della Commedia ele conferisce il compito di insegnare agli uomini la speranza; al suo in-vito Dante risponde con entusiasmo, riconoscendo di essere sovrab-bondante di quel carisma che ha ricevuto dai suoi scritti e di volerlodistillare agli altri:

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“Tu mi stillasti, con lo stillar suo,ne la pistola poi 21; sì ch’io son pieno,e in altrui vostra pioggia repluo” (ib. vv. 76-78).

La metafora della pioggia contiene in sé un significato vivificatore:la larga ploia / de lo Spirito Santo 22, di cui Dante si è impregnato e chetrasmette agli altri, si risolve in dono, in un atteggiamento d’amore ver-so il prossimo, che, nella oblazione caritatevole di sé e della sua opera,rinnova il vigore della sua stessa fede ed alimenta la speranza d’una be-nefica purificazione dell’umanità. Il versetto davidico “Sperino in te”(S. IX, 11), due volte ripetuto ai vv. 73 e 98 del nostro canto, echeggiaora come professione di fede da parte del poeta nell’aiuto di Dio:

“Sperino in te”, ne la sua teodiadice, “color che sanno il nome tuo”:e chi nol sa, s’elli ha la fede mia? (ib. vv. 73-75),

ora come atto di consacrazione da parte dei cieli, che lo designanoquale depositario delle speranze umane:

“Sperent in te” di sopr’a noi s’udì;a che rispuoser tutte le carole” (ib. vv. 98-99).

Ordunque, S’elli ama bene e bene spera e crede (Par. XXIV, v. 40),allora è certamente lui quel veltro tanto atteso, quel detentore di sa-pienza, amore e virtute (cfr. Inf. I, v. 104), nimico ai lupi (ib., v. 6) cu-pidi e voraci che l’invidia ha disseminato per il mondo.

“Se per grazia di Dio questi prelibadi quel che cade de la vostra mensa,prima che morte tempo li prescriva” (Par. XXIV, vv.4-6)

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__________21 L’Epistola di S. Giacomo, ora attribuita non più all’Apostolo, ma a S. Gia-

como minore, tratta della larghezza (cfr. ib., v. 29), ossia della generosità di Dio.Dante ne fa un modello di speranza, poiché da essa trae il precetto dell’irrinun-ciabile concorso delle opere nel conseguimento della salvezza.

22 Cfr. Par. XXIV, vv. 91-92.

ciò significa che Dante ha assimilato la FEDE, la certezza che Dio Pa-dre non abbandonerà mai l’uomo alla sua storia; ha concepito la su-prema SPERANZA della redenzione, annunciata da Dio Figlio perl’uomo in preda al peccato; ha gustato la dolcezza della CARITA’, l’a-more di Dio Spirito Santo per l’uomo in balia di se stesso:

“ché l’essere del mondo e l’esser mio la morte ch’el sostenne perch’io viva,e quel che spera ogne fedel com’io,con la predetta conoscenza viva,tratto m’hanno del mar de l’amor torto,e del diritto m’han posto a la riva” (Par. XXVI, vv. 58-63).

Con queste parole il poeta potrà davvero dimostrare di aver supe-rato l’esame: l’esule che porta in sé l’esperienza di una realtà di mise-rie umane, eletto per grazia divina e per meriti, come fregiato d’unadoppia vesta (cfr. ib., v. 92), alla conquista della verità e alla contem-plazione di Dio, affiderà alla dettatura divina della sua Commedia,come Mosé alle tavole della legge 23, il compito di riportare nel mon-do la speranza della rinascita ed il sogno di un ritorno all’innocenzaedenica.

Siracusa, marzo 2002

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__________23 A Mosè si riferisce infatti il v. 42 del c. XXVI del Paradiso: “Io ti farò ve-

dere ogne valore”; pertanto Dante è il novello Mosè, destinato a ricondurre la cri-stianità dall’Egitto a Gerusalemme.

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INFERNO, c. V

Graditissimo al mondo giovanile il canto di Paolo e Francesca;notissimo ed amatissimo perché parla d’amore, perché riflette nellatrascinante passione dei due eroi gli stati d’animo adolescenziali, in-clini alla scoperta delle prime emozioni e delle nuove manifestazio-ni del sentimento amoroso; perché evoca i desideri sconosciuti ed iturbamenti improvvisi del cuore al progressivo rivelarsi d’un “piacersì forte”.

Tutto ciò suggerisce istintivamente al lettore ingenuo una inter-pretazione romantica dell’episodio dantesco ed ispira una commozio-ne irrazionale che, sin dalle letture critiche di Foscolo e De Sanctis,contribuisce a consacrare il personaggio di Francesca come quello diuna donna moderna, “eroina della sua passione” 1; per lo stesso equi-voco, nella convinzione di poterne attualizzare il mito, Sanguineti in-dividua in Francesca una “Bovary del Duecento, che sogna i baci diLancillotto” 2, confondendo nella sua tragica idealizzazione del senti-mento d’amore la realtà con la fantasia letteraria.

Ma la vera Francesca, concepita da Dante come la raffinata ma-donna d’una corte medievale, partecipe dei gusti e del clima cultu-rale fedelmente riprodotti nel “De Amore” di Andrea Cappellano,non è soltanto una giovane patetica, innamorata, vittima quasi in-consapevole della sua turbinosa passione, piuttosto è l’incarnazionedi un’intensa meditazione etico-filosofica sulla origine, sui modi esulle finalità dell’amore, che impegnerà Dante nel corso della Com-media in ogni cantica, dallo stadio materiale dell’amore sensitivo, aquello filosofico dell’amore intellettivo, a quello religioso dell’amo-re mistico. Francesca è dunque l’espediente letterario di cui Dantesi serve per esecrare i valori fuorvianti d’un amore cortese che, lun-gi dal promuovere il perfezionamento dell’animo e la sua conse-guente salvezza, giunge sino alla perversione – il mal perverso (v. 93)

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__________1 Cfr. G.Giacalone, Inferno, Canto V (postilla critica), Signorelli ed. Roma

1972, pag. 84.2 Cfr. E. Sanguineti, Il realismo di Dante, Firenze 1966, pg. 28.

– ed allo stravolgimento dell’etica religiosa, accogliendo financo iltopos dell’amore adulterino.

Così discesi del cerchio primaiogiù nel secondo, che men loco cinghiae tanto più dolor, che punge a guaio. 3Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:essamina le colpe ne l’intrata;giudica e manda secondo ch’avvinghia. 6Dico che quando l’anima mal natali vien dinanzi, tutta si confessa;e quel conoscitor de le peccata 9vede qual loco d’inferno è da essa;cignesi con la coda tante voltequantunque gradi vuol che giù sia messa. 12Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:vanno a vicenda ciascuna al giudizio,dicono e odono e poi son giù vòlte. 15“O tu che vieni al doloroso ospizio”,disse Minòs a me quando mi vide,lasciando l’atto di cotanto offizio, 18“guarda com’entri e di cui tu ti fide;non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!”.E ’l duca mio a lui: “Perché pur gride? 21Non impedir lo suo fatale andare:vuolsi così colà dove si puoteciò che si vuole, e più non dimandare”. 24Ora incomincian le dolenti notea farmisi sentire; or son venutolà dove molto pianto mi percuote. 27Io venni in loco d’ogne luce muto,che mugghia come fa mar per tempesta,se da contrari venti è combattuto. 30La bufera infernal, che mai non resta,mena li spirti con la sua rapina;voltando e percotendo li molesta. 33Quando giungon davanti a la ruina,

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quivi le strida, il compianto, il lamento;bestemmian quivi la virtù divina. 36Intesi ch’a così fatto tormentoenno dannati i peccator carnali,che la ragion sommettono al talento. 39E come li stornei ne portan l’alinel freddo tempo, a schiera larga e piena,così quel fiato li spiriti mali 42di qua, di là, di giù, di sù li mèna;nulla speranza li conforta mai,non che di posa, ma di minor pena. 45E come i gru van cantando lor lai,faccendo in aere di sé lunga riga,così vid’io venir, traendo guai, 48ombre portate da la detta briga;per ch’i’ dissi: “Maestro, chi son quellegenti che l’aura nera sì gastiga?”. 51“La prima di color di cui novelletu vuo’ saper”, mi disse quelli allotta,“fu imperadrice di molte favelle. 54A vizio di lussuria fu sì rotta,che libito fé licito in sua legge,per tòrre il biasmo in che era condotta. 57Ell’è Semiramìs, di cui si leggeche succedette a Nino e fu sua sposa:tenne la terra che ’l Soldan corregge. 60L’altra è colei che s’ancise amorosa,e ruppe fede al cener di Sicheo;poi è Cleopatràs lussuriosa. 63Elena vedi, per cui tanto reotempo si volse, e vedi ’l grande Achille,che con amore al fine combatteo. 66Vedi Parìs, Tristano”; e più di milleombre mostrommi e nominommi a dito,ch’amor di nostra vita dipartille. 69Poscia ch’io ebbi ’l mio dottore uditonomar le donne antiche e’ cavalieri,

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pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. 72I’ cominciai: “Poeta, volontieriparlerei a que’ due che ’nsieme vanno,e paion sì al vento esser leggieri”. 75Ed elli a me: “Vedrai quando sarannopiù presso a noi; e tu allor li priegaper quello amor che i mena, ed ei verranno”. 78Sì tosto come il vento a noi li piega,mossi la voce: “O anime affannate,venite a noi parlar, s’altri nol niega!”. 81Quali colombe dal disio chiamatecon l’ali alzate e ferme al dolce nidovegnon per l’aere, dal voler portate; 84cotali uscir de la schiera ov’è Dido,a noi venendo per l’aere maligno,sì forte fu l’affettuoso grido. 87“O animal grazïoso e benignoche visitando vai per l’aere personoi che tignemmo il mondo di sanguigno, 90se fosse amico il re de l’universo,noi pregheremmo lui de la tua pace,poi c’hai pietà del nostro mal perverso. 99Di quel che udire e che parlar vi piace,noi udiremo e parleremo a voi,mentre che ’l vento, come fa, ci tace. 102Siede la terra dove nata fuisu la marina dove ’l Po discendeper aver pace co’ seguaci sui. 105Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,prese costui de la bella personache mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. 108Amor, ch’a nullo amato amar perdona,mi prese del costui piacer sì forte,che, come vedi, ancor non m’abbandona. 111Amor condusse noi ad una morte.Caina attende chi a vita ci spense”.Queste parole da lor ci fuor porte. 114

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Quand’io intesi quell’anime offense,china’ il viso, e tanto il tenni basso,fin che ’l poeta mi disse: “Che pense?”. 117Quando rispuosi, cominciai: “Oh lasso,quanti dolci pensier, quanto disiomenò costoro al doloroso passo!”. 120Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,e cominciai: “Francesca, i tuoi martìria lagrimar mi fanno tristo e pio. 123Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,a che e come concedette amoreche conosceste i dubbiosi disiri?”. 126E quella a me: “Nessun maggior doloreche ricordarsi del tempo felicene la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. 129Ma s’a conoscer la prima radicedel nostro amor tu hai cotanto affetto,dirò come colui che piange e dice. 132Noi leggiavamo un giorno per dilettodi Lancialotto come amor lo strinse;soli eravamo e sanza alcun sospetto. 135Per più fïate li occhi ci sospinsequella lettura, e scolorocci il viso;ma solo un punto fu quel che ci vinse. 138Quando leggemmo il disiato risoesser basciato da cotanto amante,questi, che mai da me non fia diviso, 141la bocca mi basciò tutto tremante.Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:quel giorno più non vi leggemmo avante”. 144Mentre che l’uno spirto questo disse,l’altro piangëa; sì che di pietadeio venni men così com’io morisse.E caddi come corpo morto cade. 148

129

GALEOTTO FU ’L LIBRO

I peccator carnali vengono definiti da Virgilio coloro che la ragionsommettono al talento (v. 39), cioè coloro nei quali l’appetito sensua-le prevale sulla constantia della ragione 3; la lussuria è pertanto pecca-to d’irrazionalità, come tutti i peccati d’incontinenza, imprevedibileed irresistibile, come simboleggia anche l’allegoria della lonza leggie-ra e presta molto (cfr. Inf. I, v. 32), nella cui immagine seducente – dal-la gaetta pelle (cfr. Inf. I, v. 42) – si avverte proprio la fulmineità del-l’attrazione per l’oggetto desiderato, quel fascino fatale che afferra si-multaneamente chi è sanza alcun sospetto (cfr. ib., v. 129). La legge-rezza attribuita alla lonza ritorna nel nostro canto nelle insistite simi-litudini ornitologiche, nel volo degli stornelli, che vanno a schiera lar-ga e piena (v. 41); in quello delle gru che fanno in aere di sé lunga riga(v. 47), nelle colombe con l’ali alzate e ferme al dolce nido (v. 83), enello stesso incedere abbandonato di

…“quei due che insieme vanno, e paion sì al vento esser leggieri” (cfr. ib. vv. 74-5)

Amore è dunque una forza impetuosa, rappresentata nel canto co-me una tempesta, una bufera infernal:

“La bufera infernal, che mai non resta,mena li spirti con la sua rapina;voltando e percotendo li molesta” (ib. vv. 31-33);

è un fiato che “mena” “li spiriti mali”, “di qua, di là, di giù, di su” (cfr.vv. 42- 43); è una briga, una diuturna lotta, un eterno contrasto. Amo-re è quel vento incessante che travolge le anime impotenti, tanto cheVirgilio esorterà Dante ad interpellare i due amanti proprio in nomedi quell’amor che i mena ed ei verranno (v. 78) perché da sempre in-capaci di resistergli, a meno di un suo provvidenziale tacere.

130

__________3 Cfr. Vita Nuova, XXXIX, 2.

L’immagine dell’amore come forza calamitante è un altro toposdella lirica medievale, ricorrente nella Scuola poetica siciliana comenello Stilnovo: basti ricordare il sonetto di Pier della Vigna, Però ch’a-more non si po’ vedere, in cui il poeta sostiene che amore sia quale ca-lamita che

“come lo ferro attira no si vede,ma sì lo tira signorevolmente” (vv. 10-11),

o ancora la canzone “Al cor gentil…” di Guido Guinizzelli, in cui“amore in gentil cor prende rivera per suo consimel lococom’adamas del ferro in la minera” (vv. 28-30).

E dunque l’amor che “regna tra la gente” è

“uno desio che ven da coreper abbondanza di gran piacimento” (vv. 1-2),

come sostiene Jacopo da Lentini, e “lo cor… imagina e li piace quel de-sio” (v. 13), istituendo un legame invisibile, ma dominante, tra amoree piacere. È questo l’amore avocato anche da Francesca:

“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprendeprese costui della bella personache mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.Amor, ch’a nullo amato amar perdona,mi prese del costui piacer sì forte,che, come vedi, ancor non m’abbandona”. (ib. vv. 100-105)

Quest’amore sensuale, romanticamente idealizzato nell’attrazionedegli sguardi, nello scolorir del viso, nei dolci pensieri e dolci sospiri,negli ambigui desideri (quanto disio! - dubbiosi disiri - disiato riso), neldiletto e nel piacere, ha un “modo” che “offende” e preannunzia ildramma del doloroso passo.

I verbi di trasformazione nel testo dantesco sono ripetuti ed ine-quivocabili: “menare” e “condurre” indicano l’ineluttabilità del furor

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dei sensi contrapposto alla ratio dell’intelletto; in esso non v’è appa-gamento, ma dolore, poiché la bufera infernale “percuote” e “mole-sta” gli spiriti affannati , alterati dalla pena d’amore, in questo

…“loco d’ogne luce mutoche mugghia come fa mar per tempesta” (cfr. ib. vv. 28-29).

Le anime esprimono la loro pena con dolenti note (v. 25) e moltopianto (v. 27), con strida, compianto e lamento (v. 35), in un climax di-scendente che raffigura il lacerante tormento intimo di questi pecca-tori; ma più disperata è la sofferenza delle ombre che amor di nostravita dipartille (v. 69), le quali avanzano solitarie e sconsolate, cantan-do lor lai (v. 46) e traendo guai (v. 48); ecco perché Francesca parleràa Dante come colei che piange e dice (v. 126) ed il pianto di Paolo, insilenzio accanto a lei, simultaneamente diverrà condanna morale d’unamore colpevole.

Si rinnova qui tragicamente il connubio classico di Amore e Mor-te, suggerito dall’opposizione semantica di termini-spia d’una piùprofonda dialettica psicologica: il conflitto Amore / Morte è analogoa quello di ragione / talento, libito / licito, dolci pensieri / doloroso pas-so, tempo felice / miseria, dolci sospiri / dubbiosi disiri, pace / mal per-verso, diletto / martiri e tutti insieme i termini citati forniscono il sin-tomo della fragilità umana e la trasformazione tragica d’un bene chesi risolve in catastrofe.

Tale trasformazione è infatti connessa alla “radice” di questo amorepiù che alla fenomenologia di esso, del tutto usuale in epoca medievalee consacrata da vasta ed illustre tradizione lirico-filosofica: che “l’amors’apprenda al cor gentil” o che “a nullo amato amar perdoni” sono prin-cipi d’autorità nella cultura contemporanea a Dante e pertanto difficil-mente censurabili dal poeta che in vari luoghi s’è fatto banditore di es-si; ma se questo amore, invece di apportare salvezza, conduce ad unamorte (v. 106), è inevitabile che la sua stessa finalità perversa ne denun-ci il modo ambiguo ed, in particolare, l’origine difforme dai precettidella morale vigente, derivanti sia dalle cognizioni filosofiche che dal-l’influenza religiosa. Ecco perché Dante, dopo un primo colloquio conFrancesca sulla natura del suo amore, avverte con sgomento e commo-zione l’esigenza di conoscer la prima radice di esso (v. 124):

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“a che e come concedette Amoreche conosceste i dubbiosi disiri?” (ib. vv. 119-120)

Non morbosa curiosità spinge il poeta a sollecitare quest’ultimaconfessione, ma il bisogno di comprendere come Amore, questa gui-da consacrata dai cuori gentili, abbia ceduto il posto a Lussuria; in-fatti a quell’amore operante nella lunga sequenza dei vv. 100-106 sisostituisce un nuovo soggetto agente, il libro di Lancillotto e Ginevra.Demiurgo non è più Amore, forza intima e naturale, che rende i duegiovani vittime innocenti della sua potenza, ma un libro, un elementoestraneo ad essi e colpevole di seduzioni morbose, idolo che provocauna progressiva identificazione con vicende note di donne antiche ecavalieri (v. 71), trasformando i due cognati da lettori inconsapevoli inpeccator carnali, emuli di altri:

“quel giorno più non vi leggemmo avante” (ib. v. 138).

È questo il momento in cui il talento sopraffà la ragione: la scenad’amore del romanzo rivive nella sala del castello di Gradara ed il li-bro galeotto traduce l’amore-virtù in amore-passione, proprio perchéle suggestioni letterarie si concretano “in un punto” nella vita reale:

“ma solo un punto fu quel che ci vinse” (v. 132).

Il bacio che Lancillotto dà a Ginevra 4, considerato nelle conven-zioni dell’amor cortese pegno formale di fedeltà, si configura nel ca-so dei due amanti come improvvisa rivelazione di affezione recipro-ca, ed è conseguenza inevitabile d’una situazione eccitante, espres-sione di quella raffinata galanteria, in cui si riflette lo stile ricercatodella società aristocratica dedita all’otium della lettura ed ai corteg-giamenti rituali. L’epilogo tragico della vicenda è pudicamente cela-to nella negazione dell’atto della lettura, col quale si apre l’intera se-quenza finale:

133

__________4 La scena del bacio ha ispirato opere pittoriche e scultoree: Previati, Grigo-

letti, Munro.

“noi leggiavamo un giorno per diletto” (v. 127)“quel giorno più non vi leggemmo avante” 5 (v. 138).

Ma il verbo “ leggere” è posto in posizione centrale ed enfatica an-che nel v. 133: Quando leggemmo il disiato riso, preceduto e seguitodai termini lettura (v. 131) e libro (v. 137): come l’appello all’amorcortese dei versi precedenti anche questa attribuzione di colpa al li-bro galeotto suona come una giustificazione studiata ed efficace , sep-pur tardiva, del loro peccato carnale.

La perorazione della propria causa da parte di Francesca fa vibra-re corde pietose nel cuore di Dante, che riconosce nella vicenda del-la fanciulla i sintomi d’un’umana debolezza, che può traviare gli ani-mi più indifesi: al rigoroso giudizio morale del poeta non è estraneo,infatti, un coinvolgimento emotivo ed affettivo, che lo rende dappri-ma pensoso ed infine profondamente turbato, sino alla perdita deisensi. Il suo sgomento, ribadito lessicalmente dal sostantivo pietà /pietade e dagli aggettivi smarrito, tristo e pio, sottolinea che non v’è in-dulgenza per il peccato, inammissibile per la coerenza morale di Dan-te, ma v’è συµπα′ θεια umana ed immedesimazione nelle vicende d’unamore che pur distoglie dalla retta via.

Se dunque l’amore è dominio della ragione sul talento, processonel contempo di elevazione e trascendenza, se è davvero forza natu-rale che nasce dall’intimo d’un cuore gentile ed opera la sublimazionedello spirito che vede perfettamente onne salute 6, allora l’amore diFrancesca e Paolo è tutto quello che non dovrebbe essere, poiché èfuor d’orto di ragione ed è diventato appetito di fera 7.

Il canto V attinge dunque all’ampia tradizione della lirica corte-se medievale ed attesta la capillare diffusione dei coevi romanzi cor-tese-cavallereschi, rigorosamente sentimentali, e, ricorrendo anche aitoni e al registro linguistico tipici del contenuto amoroso, cioè di Ve-

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__________5 Tragica opposizione tra i due versi: il primo rappresentante líamore, il se-

condo la morte.6 Cfr. Vita Nuova, cap. XXVI.7 Cfr. Rime CVI.

nus, esso è intensamente tragico e coerentemente utilizza quello sti-le tragico, codificato dal Poeta nel secondo libro del De Vulgari Elo-quentia 8.

Il dramma risiede nel dissidio tra amore e virtù, tra l’amore che èe quello che dovrebbe essere, tra giudizio morale e pietà; il conflittodialettico della terminologia e delle sequenze poetiche è anche quellopsicologico dei personaggi e da esso scaturiscono la καθαστροϕη′ de-gli eventi e la catarsi finale di Dante.

Il canto non si presta, quindi, solo ad una lettura lirico-sentimen-tale, ma anche ad una drammatizzazione scenica, proprio per la den-sità del πα′ θος e per l’individuazione in esso delle principali partistrutturali della tragedia: il prologo di Minasse, la πα′ ροδος delle ani-me lussuriose ed il coro delle ombre morte per amore; gli atti, carat-terizzati dai colloqui dei personaggi, attraverso i quali le vicende – daltempo felice alla miseria – incalzano fino alla α’′κµη del bacio, καθα−στροϕη′ di peccato/morte, che determina la catarsi del Poeta:

“E caddi come corpo morto cade”.

Siracusa, maggio 1999

135

__________8 Ciò è dimostrato anche dalla sua continuità letteraria nei secoli successivi:

basti pensare alla “Francesca da Rimini” di Silvio Pellico, tragedia di struttura al-fieriana (quattro soli personaggi, azione breve e rapida) ed il dramma omonimoscritto da Gabriele D’Annunzio per Eleonora Duse.

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PARADISO, c. III

“Fatti non foste a viver come bruti…E le veline?”.Ad una tale provocazione avremmo potuto rispondere con una

sussiegosa dissertazione sul concetto di vera cultura contrapposto aifalsi idoli mediatici, sugli alti valori della conoscenza incompatibilicon le vuote immagini martellate dalla società dei consumi. Ma intal caso avremmo argomentato l’ovvio e forse avremmo dovuto pie-gare il testo dantesco ad improponibili attualizzazioni da talk-show.Perché allora non interpretare testualmente l’assunto? In epoca me-dioevale bruti erano considerati gli uomini privi d’intelletto (Conv.III), il cui comportamento era determinato da pulsioni sensitive, co-me gli animali; essi, totalmente privi di freni inibitori, erano spessoefferati carnefici di donne indifese, su cui si accanivano con violen-za ad ulteriore esibizione della loro gratuita prepotenza. Tre di que-ste donne, di grande spessore poetico, puntellano le cantiche dan-tesche nei canti iniziali ed il loro sacrificio personale, al di là del giu-dizio morale espresso dal poeta, si staglia su una folla di femmineimpudiche e spregiudicate, disseminate qua e là nel poema, al paridi anonime veline dei tempi moderni; contro di esse si avventa Fo-rese nel c. XXIII del Purgatorio, stigmatizzandone, specie a Firen-ze, la scandalosa lascivia.

“O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?Tempo futuro m’è già nel cospetto,cui non sarà quest’ora molto antica,nel qual sarà in pergamo interdettoa le sfacciate donne fiorentinel’andar mostrando con le poppe il petto.Quai barbare fuor mai, quai saracine,cui bisognasse, per farle ir coperte,o spiritali o altre discipline?”. (Purg. XXIII, vv. 97-105)

Al di sopra di tutte costoro è l’idealizzazione stilnovistica delladonna, rappresentata da Beatrice nell’opera dantesca, il modello didonna angelicata che sfiora appena la terra, destinata a raggiungere il

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cielo del tutto intatta dalle contaminazioni mondane. Beatrice, lacreazione poetica più compiuta e più complessa dell’universo femmi-nile dantesco, non si commisura con nessuna delle altre, ma ciò nonpriva Francesca, Pia e Piccarda di quella coinvolgente intensitàespressiva, che rivela l’attrazione emotiva di Dante per ciascuna di es-se. E Piccarda è quella che meglio funge da tramite tra le precedentie Beatrice. Questa triade femminile di creature dal tratto rispettiva-mente drammatico, elegiaco e sublime, accomunata da un tragico de-stino, racchiude in sé una sofferenza umana che Dante non nasconde,ma anzi rivela provocatoriamente a tutti, denunciando la meschinaprotervia che l’uomo esercita in qualunque tempo e latitudine controla donna. Il poeta non è solo l’alfiere di Beatrice, dunque, ma ancheun fine psicologo della vita privata e un acuto testimone del clima so-ciale in cui si dibatte l’altra metà del cielo.

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto, di bella verità m’avea scoverto, provando e riprovando, il dolce aspetto; 3e io, per confessar corretto e certo me stesso, tanto quanto si convenne leva’ il capo a proferer più erto; 6ma visïone apparve che ritenne a sé me tanto stretto, per vedersi, che di mia confession non mi sovvenne. 9Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non sì profonde che i fondi sien persi, 12tornan d’i nostri visi le postille debili sì, che perla in bianca fronte non vien men forte a le nostre pupille; 15tali vid’ io più facce a parlar pronte; per ch’io dentro a l’error contrario corsi a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte. 18Sùbito sì com’ io di lor m’accorsi, quelle stimando specchiati sembianti, per veder di cui fosser, li occhi torsi; 21e nulla vidi, e ritorsili avanti

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dritti nel lume de la dolce guida, che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. 24“Non ti maravigliar perch’ io sorrida”, mi disse, “appresso il tuo püeril coto, poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida, 27ma te rivolve, come suole, a vòto: vere sustanze son ciò che tu vedi, qui rilegate per manco di voto. 30Però parla con esse e odi e credi; ché la verace luce che le appaga da sé non lascia lor torcer li piedi”. 33E io a l’ombra che parea più vaga di ragionar, drizza’mi, e cominciai, quasi com’ uom cui troppa voglia smaga: 36“O ben creato spirito, che a’ rai di vita etterna la dolcezza senti che, non gustata, non s’intende mai, 39grazïoso mi fia se mi contenti del nome tuo e de la vostra sorte”. Ond’ ella, pronta e con occhi ridenti: 42“La nostra carità non serra porte a giusta voglia, se non come quella che vuol simile a sé tutta sua corte. 45I’ fui nel mondo vergine sorella; e se la mente tua ben sé riguarda, non mi ti celerà l’esser più bella, 48ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda, che, posta qui con questi altri beati, beata sono in la spera più tarda. 51Li nostri affetti, che solo infiammati son nel piacer de lo Spirito Santo, letizian del suo ordine formati. 54E questa sorte che par giù cotanto, però n’è data, perché fuor negletti li nostri voti, e vòti in alcun canto”. 57Ond’ io a lei: “Ne’ mirabili aspetti vostri risplende non so che divino

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che vi trasmuta da’ primi concetti: 60però non fui a rimembrar festino; ma or m’aiuta ciò che tu mi dici, sì che raffigurar m’è più latino. 63Ma dimmi: voi che siete qui felici, disiderate voi più alto loco per più vedere e per più farvi amici?”. 66Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco; da indi mi rispuose tanto lieta, ch’arder parea d’amor nel primo foco: 69“Frate, la nostra volontà quïeta virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta. 72Se disïassimo esser più superne, foran discordi li nostri disiri dal voler di colui che qui ne cerne; 75che vedrai non capere in questi giri, s’essere in carità è qui necesse, e se la sua natura ben rimiri. 78Anzi è formale ad esto beato esse tenersi dentro a la divina voglia, per ch’una fansi nostre voglie stesse; 81sì che, come noi sem di soglia in soglia per questo regno, a tutto il regno piace com’ a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia. 84E ’n la sua volontade è nostra pace: ell’ è quel mare al qual tutto si move ciò ch’ella crïa o che natura face”. 87Chiaro mi fu allor come ogne dove in cielo è paradiso, etsi la grazia del sommo ben d’un modo non vi piove. 90Ma sì com’ elli avvien, s’un cibo sazia e d’un altro rimane ancor la gola, che quel si chere e di quel si ringrazia, 93così fec’ io con atto e con parola, per apprender da lei qual fu la tela onde non trasse infino a co la spuola. 96

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“Perfetta vita e alto merto inciela donna più sù”, mi disse, “a la cui norma nel vostro mondo giù si veste e vela, 99perché fino al morir si vegghi e dorma con quello sposo ch’ogne voto accetta che caritate a suo piacer conforma. 102Dal mondo, per seguirla, giovinetta fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi e promisi la via de la sua setta. 105Uomini poi, a mal più ch’a bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. 108E quest’ altro splendor che ti si mostra da la mia destra parte e che s’accende di tutto il lume de la spera nostra, 111ciò ch’io dico di me, di sé intende; sorella fu, e così le fu tolta di capo l’ombra de le sacre bende. 114Ma poi che pur al mondo fu rivolta contra suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor già mai disciolta. 117Quest’ è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave generò ’l terzo e l’ultima possanza”. 120Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave, Maria’ cantando, e cantando vanio come per acqua cupa cosa grave. 123La vista mia, che tanto lei seguio quanto possibil fu, poi che la perse, volsesi al segno di maggior disio, 126e a Beatrice tutta si converse; ma quella folgorò nel mïo sguardo sì che da prima il viso non sofferse; 129e ciò mi fece a dimandar più tardo.

141

LE VELATE SVELATE

Chissà se è vero che il cognome degli Alighieri proviene da unadonna! Eppure sembra suggerirlo il venerando progenitore della fa-miglia, Cacciaguida, incontrato da Dante tra gli spiriti militanti delParadiso, in un’ambigua terzina del XV canto:

“Moronto fu mio frate ed Eliseo;mia donna venne a me di val di Pado,e quindi il soprannome tuo si feo.” (Par. XV, vv. 136-138)

Questo sarebbe stato possibile soltanto in una realtà in cui la figu-ra femminile fosse centrale e positiva; ne sarebbe conferma lo scorciodi quella Fiorenza dentro da la cerchia antica (Par. XV, v. 97), tra l’XIed il XII sec., delineato dalle parole del trisavolo, in cui Dante scorgeun invidiabile modello di pace, sobrietà e pudicizia (cfr. v. 99), fon-dato sulla solidità della famiglia, nucleo originario essenziale di ogniforma di convivenza sociale 1. È così che Cacciaguida ritrae un perfet-to interno domestico costituito da coppie affiatate, accomunate daimedesimi valori morali, pur nella consapevolezza dei ruoli distinti:

“Bellincion Berti vid’io andar cintodi cuoio e d’osso, e venir da lo specchiola donna sua sanza ’l viso dipinto;e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchioesser contenti a la pelle scoperta,e le sue donne al fuso e al pennecchio.Oh fortunate! Ciascuna era certa de la sua sepultura, e ancor nullaera per Francia nel letto diserta.L’una vegghiava a studio de la culla,e, consolando, usava l’idïoma che prima i padri e le madri trastulla;

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__________1 Cfr. Par. XV, vv. 130-132.

l’altra, traendo a la rocca la chioma, favoleggiava con la sua famigliad’i Troiani, di Fiesole e di Roma.” (Par. XV, vv. 112-126 )

Bellincion Berti 2 e la donna sua ci sembrano provenire dalla stan-za da letto l’uno modestamente abbigliato, l’altra senza trucco; e ciparrebbe quasi di vedere gli esponenti delle note famiglie dei Nerli edei Vecchietti uscir di casa con indumenti di umile fattura, lasciandole loro donne intente alle consuete occupazioni femminili. Cacciagui-da non sa trattenersi dall’esaltare la sana vita borghigiana di cui ledonne fiorentine sembravano godere, garantendo quasi, come antichevestali, gli affetti sinceri e le poche, ma solide certezze della loro esi-stenza: il legame profondo col luogo natio, la fedeltà coniugale, lapriorità del vincolo maritale sulla cupidigia determinata dalle esigen-ze di mercato. Le giovani spose, dedite alla cura materna dei figliuo-li, consolando il loro pianto, pargoleggiano a loro modo; alle anziane,occupate nella filatura,è affidato il compito di tramandare le antichetradizioni per rinnovare nell’intimità del focolare l’amore per le pro-prie onorevoli radici.

La sapiente comparatio per contrarium che caratterizza la tessitu-ra di questo idillico quadretto di costume ci consente, attraverso lasottile tramatura dell’ordito, di scorgere con chiarezza i nodi crucialidel testo: se quelle donne non si atteggiavano con frivolezza ed appa-riscente ostentazione di sé; se era ancora ritenuta una gioia la nascitad’una figlia femmina; se le case erano allietate da piccoli eredi; alloraè lecito dedurre che la Firenze di Dante sia ormai frequentata da don-ne impudiche ed esibizioniste; che atterrisca il padre l’idea di doverfornire una dote esorbitante e prematura alla figlia; che la lussuria ela depravazione dei costumi sessuali 3 abbia drasticamente limitato lenascite, impoverendo ulteriormente l’intera popolazione. La contrap-posizione tra camera (cfr. v. 108) e letto (cfr. v. 120) evidenzia la mu-

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__________2 Cfr. Inf. XVI, v. 37, in riferimento alle virtù morali della figlia Gualdrada de’

Ravignani, sposa di Guido il Vecchio, capostipite dei Conti Guidi del Casentino.3 Cfr. Inf. XVI, vv. 43-54, sul presunto peccato di sodomia all’interno di una

coppia eterosessuale.

tata destinazione dei luoghi in relazione alle diverse abitudini coniu-gali: l’ambito del puro piacere subentra a quello destinato primaesclusivamente alla procreazione (cfr. il termine culla al v. 121); perciò stesso sarebbe stato evento eccezionale trovare nella Firenze diCacciaguida una Cianghella, donna di dubbia moralità, sicuramenteben nota all’epoca di Dante, forse una Bocca di rosa dei tempi mo-derni; piuttosto, secondo l’utopistica ricostruzione del poeta, sarebbestato possibile incontrare molte Cornelie, fiere dei loro figli, esempla-ri in estinzione di virtù femminile 4.

A suffragare la testimonianza dell’antenato di Dante era già inter-venuto nel Purgatorio il suo amico di giovinezza, Forese Donati, che,a proposito della moglie Nella, le ascrive addirittura il merito dellapropria rapida purgazione 5 e ne sottolinea la singolarità tra le donnefiorentine contemporanee:

“Tanto è a Dio più cara e più diletta la vedovella mia, che molto amai,quanto in bene operare è più soletta;chè la Barbagia di Sardigna assaine le femmine sue più è pudicache la Barbagia dov’io la lasciai.” (Purg. XXIII, vv. 91-96)

Le donne fiorentine, paragonate a quelle della Barbagia, di cui era-no proverbiali i rozzi costumi, le superano in lascivia e, quasi irredi-mibili, non temono ammonizioni religiose o disposizioni civili. Ma,aggiunge Forese, se sapessero ciò che il Cielo ha in serbo per loro inbreve volger di tempo, già griderebbero di dolore: la grottesca silen-te maschera delle sfacciate donne fiorentine (cfr. v. 101) è ritratta conespressionistica densità nel v. 108 “già per urlare avrian le bocche aper-te”, e lascia ben intendere quanto i costumi scandalosi di tutta la so-cietà, ed in particolare del nume tutelare femminile di essa, imponga-no una vendetta divina che prima o poi, in quale forma non ci è dato

144

__________4 Cfr. Par. XV, vv. 127-129.5 Cfr. Purg. XXIII, vv. 85-90: …“Sì tosto m’ha condotto/a ber lo dolce assenzo

d’i martiri / la Nella mia con suo pianger dirotto. / Con suoi prieghi devoti e consospiri/tratto m’ha de la costa ove s’aspetta, / e liberato m’ha degli altri giri.”

ancora di sapere, dovrebbe rieducare a più morigerate usanze le sver-gognate (cfr. v. 106) 6.

Svergognate, in antitesi con la Nella di Forese, sono anche le moglidegeneri come Giovanna, citata da Bonconte da Montefeltro nel can-to V del Purgatorio, che non si cura della sorte estrema del marito 7,o peggio, Beatrice d’Este che, vedova di Nino Visconti, guelfo signo-re della Gallura, trasmuta le bianche bende vedovili passando a nuo-ve nozze con Galeazzo Visconti, ghibellino futuro signore di Milano 8.Su di lei si concentrano amare, ma toccanti e delicate espressioni delmarito che, incontrato da Dante nella valletta dei principi negligentiin purgatorio, prega il poeta di ricercare la figlia Giovanna 9 in vecedella consorte, ormai distaccata dal precedente legame coniugale:

“Per lei assai di lieve si comprendequanto in femmina foco d’amor dura,se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende.” (Purg. VIII, vv. 76-78)

Beatrice, non più moglie ma pur sempre madre della propria figlia,è per Nino l’esemplare di donna che si nutre ancora della sensualitàcortese, ignorando senza sua colpa i valori della spiritualità stilnovi-stica. In questi versi una sopita fisicità vibra nel dritto zelo (cfr. Purg.VIII, v. 83) che emerge dalle parole del personaggio (femmina - foco -occhio - tatto - accende) e insinua una tenue fiamma che si effonde trale membra 10 a sollecitare i sensi, pur nella mutata condizione di di-stacco morale del Purgatorio.

Al pregiudizio umano espresso dal poeta nei riguardi di questedue vedove, colpevoli semplicemente di aver elaborato il loro lutto, sisottraggono per talune attenuanti altre due donne già sottoposte al

145

__________6 Cfr. Purg. XXIII, vv. 98-111.7 Cfr. Purg. V, v. 89.8 Cfr. Purg. VIII, vv. 73-75.9 Cfr. anche Purg. III, v. 143: anche Manfredi sollecita i suffragi della buona

Costanza, sua figlia, informandola indirettamente della propria salvezza; sembrache solo le donne siano vere depositarie di spirito di carità.

10 Cfr. Catullo LI, vv. 9-10 “tenuis sub artus / flamma demanat”.

giudizio divino, entrambe vittime d’una brutale violenza consumatatra le pareti domestiche, dissimulata quale delitto d’onore: Francescada Rimini e Pia de’ Tolomei.

La prima, nutrita di storie d’amore attraverso la lettura dei ro-manzi francesi, costretta ad un matrimonio imposto dalla ragion distato, subisce la presenza fastidiosa d’un marito deforme e dai modisgradevoli e concepisce la naturale attrazione per il bel Paolo, l’affa-scinante cognato a cui forse aveva sperato di unirsi. Francesca, inse-parabile dall’amante terreno, incapace di scindere la realtà vissuta dalsogno di felicità, vive la sua travolgente passione con sincero traspor-to rispetto all’uomo, che forse nel suo ostinato silenzio oltremondanorimugina sentimenti contrastanti e sensi di colpa. Il presunto bovari-smo 11 di Francesca va dunque ridiscusso: non è in lei lo spirito dellasognatrice inconsapevole né della donna tediata dalla monotonia del-le consuetudini borghesi, tutt’altro; piuttosto le sue dotte ammissionid’amore e di colpa testimoniano anche nell’al di là la determinazionea sottomettere la ragione a quel preciso talento (cfr. v. 39); Paolo nonè per lei un qualunque amore della sua vita, ma l’Amore:

“Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.Amor, ch’a nullo amato amar perdona,mi prese del costui piacer sì forte,che, come vedi, ancor non m’abbandona.Amor condusse noi ad una morte.Caina attende chi a vita ci spense”. (Inf. V, vv. 100-107)

Francesca, isolata con Paolo quali colombe nella schiera delle gru,è l’unico personaggio femminile medievale tra tutte le donne antichee i cavalieri (cfr. Inf. V, v. 71) che affollano il girone dei lussuriosi: conlei anime rinomate del mito e della storia antica, Semiramide, Dido-ne, Cleopatra ed Elena, Achille, Paride e Tristano 12 testimoniano

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__________11 Cfr. E. Sanguineti, Il realismo di Dante, Firenze, 1966, pag. 28.12 Cfr. Inf. V, vv. 58-69.

quanto il foco d’amor possa fiaccare e distogliere dalla realtà persona-lità di grande vigore umano; e se ciò è vero per gli uomini, lo è ancordi più per le donne citate dal poeta, eroine in cui amore e potere po-litico si sovrappongono tragicamente.

Con la stessa lucida sintesi con cui nel canto V dell’Inferno il poe-ta disegna la storia al femminile dal mito alla modernità, dal XV sec.a.C. fino ai suoi tempi, attraverso ritratti brevi ed intensi di perso-naggi illustri, così nel canto V del Purgatorio presenta in una fugaceapparizione lo spettro mite e delicato d’una donna dalla vita poco no-ta e dalla morte ancor più misteriosa. Assai più reticente e riservata diFrancesca, quasi desiderosa di rievocare il tempo felice pur nella mi-seria della dannazione, Pia de’ Tolomei rivela in un fulmineo versochiastico la sua breve parabola di nascita e di morte:

“Siena mi fè, disfecemi Maremma:salsi colui che ’nnanellata priadisposando m’avea con la sua gemma”. (Purg. V, vv. 133-136)

Taluni elementi suggeriscono la sostanziale affinità tra le due damedi corte: il linguaggio raffinato e squisito, calibrato ad arte nelle ri-spettive formule di approccio, le associa culturalmente e socialmente;entrambe fanno espresso riferimento ai rispettivi luoghi d’origine,collegandoli indirettamente alle potenti famiglie d’appartenenza 13; leidentifica, infine, la condizione anagrafica di giovani spose più o me-no contemporanee, vittime di un dispotico diritto maritale. Il toposcavalcantiano di Amore e Morte, esternato con loquace pathos daFrancesca, viene quasi adombrato con pudico riserbo dalla fanciullasenese tra monosillabi e silenzi, rotti soltanto dai due lunghi quadri-sillabi ’nnanellata e disposando, in posizione enfatica negli ultimi ver-si del canto. Intorno ad essi ruota tutta la tragica vicenda umana diPia: un marito, Nello de’ Pannocchieschi, che la impalma, promet-tendole chissà quale radioso avvenire, ed il matrimonio che si risolvein una tomba sia in senso proprio che metaforico, poiché tutto fa pen-sare che il consorte sia stato il vero responsabile della sua orribile fi-

147

__________13 Cfr. Inf. V, vv. 97-99.

ne 14. Ma se Francesca nell’ammettere le proprie colpe consegna al lu-dibrio perenne l’uxoricida, destinato al castigo divino nella Caina,Pia, al contrario, non confessa e non accusa, piuttosto pentendo e per-donando (Purg. V, v. 53), preferisce infondere la suggestione d’un’a-gognata felicità violata dalla cruda realtà.

“Luogo è in inferno detto Malebolge” (Inf. XVIII, v. 1), che nellaprima ripa interna brulica d’un ampio corteo di ruffiani e seduttori:tra di essi Dante, procedendo a ridosso della parete, s’imbatte in un’a-nima, quella di Venedico Caccianemico, un torvo figuro bolognese dipotente famiglia guelfa, di cui il poeta conosce l’avida indole ed i tur-pi mercimoni. È l’appello diretto di Dante 15 che lo chiama estesa-mente per nome e cognome ad indurre il personaggio, che aveva ten-tato di celarsi, a palesare la causa della sua dannazione eterna:

“Ed elli a me: “Malvolontier lo dico;ma sforzami la tua chiara favella,che mi fa sovvenir del mondo antico.I’ fui colui che la Ghisolabellacondussi a far la voglia del marchese,come che suoni la sconcia novella.” (Inf. XVIII, vv. 52-57)

Si autodenuncia, dunque, Venedico ed accusa i molti bolognesipresenti nella bolgia 16 e tutti i concittadini comunque di essere affet-ti dal medesimo avaro seno (cfr. Inf. XVIII, v. 63), che li induce agliatti più scellerati, “esponendo alla libidine figlie, sorelle e mogli, persoddisfare la loro gola e i loro piaceri” (Benvenuto) 17. Così costui ave-

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__________14 Pia fu fatta precipitare da una finestra del castello della Pietra in Marem-

ma, non si sa se perché scoperta infedele o perché il marito intendesse passare anuove nozze.

15 Cfr. Inf. XVIII, vv. 48-51.16 Cfr. Inf. XVIII, v. 58: “E non pur io qui piango bolognese.”.17 Cfr. Vincenzo Presta in Enciclopedia Dantesca, Biblioteca Treccani, vol. 6,

pg. 420: “...ideo faciunt turpia lucra, aliquando cum ludis, aliquando cum furtis,aliquando cum lenociniis, exponentes filias, sorores et uxores libidini, ut satisfa-ciant gulae et voluptatibus suis”.

va costretto la sorella Ghisolabella ad accondiscendere per denaro al-le voglie del Marchese di Ferrara, Obizzo II d’Este, e la sconcia no-vella, divenuta di pubblico dominio, aveva già suscitato tale curiositàe sdegno da indurre Dante ad anticipare di alcuni anni il debito ca-stigo, se è vero che egli muore solo nel 1302. Caccianemico è dunqueil più crudele esempio di lenocinio ai danni di stretti consanguinei ela sua condanna viene rimarcata dalle tempestive scudisciate d’un de-monio che lo schernisce brutalmente:

…“Via,ruffian! Qui non son femmine da conio”. (Inf. XVIII, vv. 65-66)

Il malcostume famigliare non ammette distinzioni: i fratelli, aguzzi-ni non meno dei mariti, non sembrano minimamente avvertire i forti le-gami di sangue e di tenerezza che dovrebbero congiungerli alle sorelleinermi; ma anzi spesso le usano per procacciarsi alleanze strategiche ele sacrificano ad interessi di partito. Anche Piccarda Donati è martiredi questa stessa aberrante follia, ricompensata da Dio già sulla terra conuna morte precoce che le offre nell’al di là il riscatto dell’ingiustizia su-bita. Ella, precedentemente evocata da Dante nel XXIV canto del Pur-gatorio durante l’affettuoso colloquio col fratello Forese 18 che glieneanticipa il trionfo celeste, compare in tutto il suo splendore, appena ve-lato dal fulgore della beatitudine, nel primo cielo del paradiso.

Nel cielo della luna, ombreggiato da un effetto chiaroscurale, dot-tamente spiegato da Beatrice nel secondo canto in relazione alla gra-dualità della beatitudine, Dante rivela e nasconde le fattezze umane de-gli spiriti mancanti ai voti: essi gli appaiono improvvisamente davantiagli occhi e tale è la loro evanescenza che il poeta crede erroneamentesi trovino dietro le sue spalle e si riflettano come su uno specchio:

“Subito sì com’io di lor m’accorsi,quelle stimando specchiati sembianti,per veder di cui fosser, li occhi torsi;

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__________18 Cfr. Purg. XXIV, vv. 12-15: “La mia sorella, che tra bella e buona / non so

qual fosse più, triunfa lieta/ne l’alto Olimpo già di sua corona”.

e nulla vidi, e ritorsili avantidritti nel lume de la dolce guida,che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.” (ib. vv. 19-24)

Questo coro ci appare tutto al femminile. La femminilità delle ani-me viene adombrata nei termini di genere promiscuo (facce - spec-chiati sembianti - vere sustanze - ombra - spirito - aspetti), adoperati adarte per lasciare nel vago ciò che dal lettore viene sensibilmente av-vertito: per indicare la labilità dei tratti fisiognomici delle anime Dan-te ricorre, infatti, al raffinato uso muliebre di adornare la fronte conun pendente di perla impercettibile sul candore dell’incarnato, provaindiscussa di perfezione estetica e di pudore verginale. Ora, ci par-rebbe perlomeno insolito introdurre una simile icona medievale, sem-pre riferibile, anche nell’arte, a soggetti femminili per individuare de-gli uomini, peraltro difficilmente preda indifesa di violenze altrui, co-me qui ci appaiono Piccarda Donati e Costanza d’Altavilla. L’am-bientazione è quindi squisitamente claustrale: lo sciame impalpabiledelle visioni rievoca una leggiadra schiera di suorine 19, che si affac-ciano, uscendo per un attimo dalla clausura, simbolicamente rappre-sentata dai vetri trasparenti e tersi e dalle acque nitide e tranquille (cfr.ib. vv. 10-11), pronte a parlare (cfr. ib. v. 16) per poi ritornare veloce-mente, intonando l’Ave Maria, al colloquio fiducioso con Dio.

La prima ombra che si fa incontro a Dante mostra visibilmente ilsuo intenso desiderio di soffermarsi con lui ed il poeta, incoraggiatoda Beatrice, le si rivolge con un formulario cortese che sembra ri-echeggiare quello utilizzato da Francesca nell’inferno (dolcezza - gra-zioso - mirabili - risplende), come se toccasse ora a lui rivolgere al bencreato spirito (cfr. ib. v. 37) una doverosa captatio benevolentiae. Pic-carda, già disposta ad esaudire la voglia (cfr. ib. v. 36) del pellegrino,non rimanda la sua identificazione, ma l’accompagna ad una vera pro-fessione di carità: lo stesso spirito divino anima tutta la corte paradi-siaca ed ella, improntata alla volontà di Dio, non può sottrarsi alla for-ma che la beatitudine le infonde, per cui gode e trasmette la sua gioiaceleste:

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__________19 Cfr. B. Croce, La poesia di Dante, Bari 1943.

“Li nostri affetti, che solo infiammatison nel piacer de lo Spirito Santo,letizian del suo ordine formati”. (ib. vv. 52-54)

Il suo nome tanto atteso viene proferito al v. 49, quand’ella ha or-mai rivelato all’amico di gioventù la sua remota condizione mondanae la sua recente perfezione oltremondana:

“I’ fui nel mondo vergine sorella;e se la mente tua ben sé riguarda,non mi ti celerà l’esser più bella,ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,che, posta qui con questi altri beati,beata sono in la spera più tarda.” (ib. vv. 46-51)

La terminologia correlata all’incontro con Piccarda, figlia di SimoneDonati , sorella di Forese 20 e di Corso, capo dei Guelfi neri a Firenze,parrebbe ancora evocare suggestioni cortesi-stilnovistiche (occhi ridenti- mente - bella - piacer - letizian - sorrise - lieta - arder - amor - foco), benpoco confacenti alla condizione paradisiaca del personaggio, talché lacritica ottocentesca aveva denunciato quest’ambigua semantizzazionelessicale, tendente a traslare passioni e ardori dalla terra al cielo. Ma nelriferire a Piccarda l’aggettivo bella 21, Dante non intende attribuirgli lamedesima accezione che connota la bella persona di Francesca (cfr. Inf.V, v. 101), poiché mentre Piccarda riconosce di aver ormai acquisito unabellezza spirituale che addirittura la trasmuta dai primi concetti (cfr. ib.v. 60), Francesca rivendica la sua avvenenza fisica, sottrattale violente-

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__________20 Cfr. Ernesto Sestan, in Enciclopedia Dantesca, Biblioteca Treccani, vol. 8,

pg. 281: “...una volta, nella tenzone con Forese (Rime LXXVII 12-14), in un’a-spra allusione alla vita dissoluta di Forese e dei suoi fratelli, di Bicci e de’ frateiposso contare / che, per lo sangue lor, del male acquisto / sanno a lor donne buoncognati stare, (sanno essere e mantenersi verso le loro donne buoni cognati, BAR-BI-MAGGINI), cioè non le trattano da mariti, ovvero, ma meno probabilmen-te, commettono adulterio l’un con l’altro”.

21 L’idea della bellezza, intesa come pura contemplazione ideale, sembrereb-be anticipata dal paragone con Narciso ai vv. 17-18 dello stesso canto.

mente; pertanto, ciò che alberga nel cuore di Piccarda è il piacere infu-so dalla soavità dello Spirito Santo, nell’anima di Francesca, invece, è an-cora viva l’attrazione dei sensi esercitata dal corpo di Paolo. Inoltre Pic-carda, a differenza di Francesca e Pia, non individua uno specifico luo-go d’origine, ma ripete come un refrain la sua scelta di lontananza dalmondo 22, esibendo la sua vocazione religiosa come naturale apparte-nenza al cielo: ed infatti, seguendo la regola di S. Chiara,

... “si veste e vela,perché fino al morir si vegghi e dormacon quello sposo ch’ogne voto accettache caritate a suo piacer conforma”. (ib. vv. 99-102)

La fanciulla si promette quindi allo Sposo divino e liberamentecontrae quelle mistiche nozze che fanno di lei una sposa appagata: ilvelo e l’abito monacale, la solenne promessa nuziale, la dolce chiostra(ib. v. 107) sono anticipazioni di beatitudine in terra ed ella vi si rifu-gia per evitare il male del mondo:

“Dal mondo, per seguirla, giovinettafuggi’mi, e nel suo abito mi chiusie promisi la via de la sua setta”. (ib. vv. 103-105)

Ma l’idillio terreno è fugace, poiché uomini avvezzi al male piut-tosto che al bene, scoperta allusione al fratello Corso 23, la strappanoalla sua dimora ed al suo vincolo maritale per consegnarla ad altraunione “contra suo grado e contra buona usanza” (ib. v. 116):

“Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,fuor mi rapiron de la dolce chiostra;Iddio si sa qual poi mia vita fusi”. (ib. vv. 106-108)

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__________22 Cfr. ib. vv. 46-99-103-115.23 Di Corso Dante non parla mai direttamente nella Commedia, ma in una

profezia post eventum fatta pronunziare da Forese in Purg. XXIV, vv. 82-84 sene decreta la morte violenta e la dannazione eterna.

L’epitaffio conclusivo del v. 108 “Iddio si sa qual poi mia vita fusi”sfuma in dissolvenza gli ultimi istanti della sua breve esistenza con lastessa delicata ritrosia percepibile anche nelle parole della Pia senese.

Piccarda ha sì mancato al suo voto monacale, ma è ugualmentebeata perché “non fu dal vel del cor già mai disciolta” (ib. v. 117) e nonle fu mai strappato dal cuore lo sposo prescelto: il velo ch’ella avevaindossato, consacrandosi a Lui in terra, è dunque umbra futurorum,è ora in paradiso quel velo di luce che adorna le sue virtù ed abbelli-sce la sua essenza. Ella, svelata dagli uomini e velata da Dio, fa di que-sto velo di mistica luce la propria identità impleta che trasfigura il to-pos di Amore e Morte, valido per le due protagoniste precedenti: ilsuo amore indissolubile per Cristo le procaccia infatti la morte terre-na, ma le assicura la vita eterna.

E dello stesso splendor (cfr. ib. v. 109) rifulge Costanza d’Altavilla,che Piccarda assimila a se stessa 24 – lei, in cielo accanto ad una regi-na! – poiché:

...”sorella fu, e così le fu toltadi capo l’ombra de le sacre bende”. (ib. vv. 113-114)

Una leggenda guelfa tramandava infatti le nozze sacrileghe di Co-stanza, smonacata a forza, con Enrico VI, figlio di Federico Barba-rossa, da cui sarebbe nato Federico II, ’l terzo e l’ultima possanza (cfr.ib. v. 120) 25. Queste due donne, vittime di soprusi politici, oppresseda parenti oppressori, sembrano anticipare e capovolgere nel Paradi-so dantesco il dramma romantico dell’Ermengarda manzoniana, an-ch’ella sacrificata alle ragioni del potere: le prime incapaci di ritrova-re nel mondo ristoro all’amore proibito per Dio, la seconda invanodesiderosa di appagare nella vita claustrale lo strazio subito dal tradi-mento del suo amore terreno 26.

Ancora più in alto rispetto a Piccarda Dante inciela (cfr. ib. v. 97)

153

__________24 Ib. v. 112.25 Ib. vv. 118-120.26 Cfr. A. Manzoni, Adelchi, coro dell’Atto IV.

altre due figure femminili che, pur avendo goduto pienamente dellegioie irradiate dall’influenza della bella Ciprigna (cfr. Par. VIII, v. 2),hanno evidentemente meritato una maggiore ricompensa, commisu-rata ai loro meriti. Se i meriti di Piccarda e di Costanza sono palesi econdivisibili in virtù della loro innocenza, o per lo meno di una noncolpevole sottomissione alla prevaricazione altrui, non altrettantochiari appaiono quelli di Cunizza da Romano e di Raab, collocate nelcielo di Venere: entrambe peccatrici riconosciute rispettivamente dal-le cronache contemporanee e dalle Sacre Scritture 27, sicuramente re-dente agli occhi di Dio, ma non forse agli occhi degli uomini, se Cu-nizza afferma che la sua condizione “parria forse forte al vostro vulgo”(cfr. Par. IX, v. 36).

Di Rahab nell’Antico Testamento si legge che fosse una meretricedi Gerico, che diede ospitalità ai due esploratori mandati da Giosuèper conquistare la città e, riconoscendo la forza della giustizia divina,quasi ispirata, suggerì loro la strategia per la salvezza e per il succes-so dell’impresa, garantendosi l’incolumità per sé e per i suoi famiglia-ri. Tale azione meritoria le assicura dunque la promozione divina, percui ella, la prima anima liberata dall’inferno al momento del trionfodi Cristo, viene rivisitata sin dagli albori dell’era cristiana come alle-goria della Chiesa 28; ma come accettare la salvezza decretata da Dioper una libertina conclamata come Cunizza da Romano?

Nel testo dantesco è lei stessa a fornire di sé, come di consueto, gliessenziali requisiti biografici: il luogo di nascita, individuato nellaMarca Trevigiana, i nobili natali, l’illustre parentela ed infine il no-me 29; come causa della sua beatitudine, poi, ella adduce la positivadominanza dell’astro di Venere, lasciando ad intendere di aver per-

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__________27 Giosuè 2,1 segg.28 E. Auerbach, Studi su Dante... La presenza di Rahab in cielo è giustificata

dall’interpretazione figurale, che la ripropone come modello della Chiesa reden-ta dal sacrificio di Cristo attraverso la purificazione della confessione.

29 Cfr. Par. IX, vv. 25-32: “In quella parte de la terra prava/italica che siede tra-Rïalto / e le fontane di Brenta e di Piava, / si leva un colle, e non surge molt’alto,/ là onde scese già una facella / che fece a la contrada un grande assalto. / D’unaradice nacqui e io ed ella: / Canizza fui chiamata, e qui rifulgo / perché mi vinse illume d’esta stella;”.

donato a se stessa le possibili intemperanze che l’inclinazione all’a-more ha potuto farle commettere:

“ma lietamente a me medesma indulgola cagion di mia sorte, e non mi noia;” (Par IX, vv. 34-35)

L’espressione finale “e non mi noia” indica chiaramente che talepropensione non l’ha affatto danneggiata, richiamando per antitesil’espressione di Francesca, assai meno disinvolta nella sua lussuria,che lamenta invece “e ’l modo ancor m’offende.” (Inf. V, v. 102): sequello di Francesca è un consapevole amore carnale, del quale l’eroi-na pretende a ragion veduta di fornire giustificazioni ed attenuantipersonali sulla base d’un legittimo codice comportamentale dell’epo-ca 30, la franca e serena affermazione di Cunizza lascia intravedere lasua libera volontà di assecondare un appetito naturale che l’ ha voltaal Bene.

Si è tanto dissertato sull’opportunità di questa scelta dantesca, chemerita più d’una considerazione: la critica individua in lei la necessa-ria premessa, o è piuttosto la conclusione 31, di un discorso politicovolto a denigrare le recenti scelte antimperialistiche che hanno indot-to la Marca Trevigiana a schierarsi contro Arrigo VII e Cangrandedella Scala, per cui la sua presenza sarebbe funzionale all’aspra in-vettiva a chiusura del colloquio con il poeta. Se pure così fosse, faredi lei, una donna di dubbia moralità agli occhi dei ben pensanti, unostrumento di denuncia dei subdoli intrighi di potere nella sua regio-ne, non ne sminuirebbe l’importanza, semmai l’accrescerebbe. Pernoi Cunizza è nel paradiso la peccatrice del Vangelo di Luca 32, figu-ra emblematica e senza nome, che nella casa del Fariseo si prostra da-vanti a Gesù, bagnandogli i piedi con le sue lacrime ed asciugando-glieli con i capelli; e riferendosi a lei, Gesù sentenzia: “Perciò io ti di-co (Simone): i suoi numerosi peccati sono stati perdonati perché es-

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__________30 Andrea Cappellano, De amore.31 Il Par. IX si apre infatti con le ultime parole proferite da Carlo Martello sul

malcostume politico degli Angioni.32 Cfr. Luca 7,36-50

sa ha amato molto; colui, invece, al quale poco è perdonato, pocoama”. Come già avvenne ai tempi di Cristo, potrebbe apparire pro-vocatoria la redenzione d’una tal donna 33, perché incomprensibile al-l’opinione comune, sempre troppo attenta a dirimere il bene dal ma-le secondo criteri morali tutti umani; ma Dante sovverte le ottichemiopi della terra, nella convinzione autenticamente evangelica che alpeccatore pentito tocchi, come all’operaio dell’ultima ora, la stessa ri-compensa dei giusti e tale mercede è appannaggio esclusivo di Dio.Inoltre tutti i personaggi danteschi, rinnovati dalla sensibilità perso-nale del poeta, assumono valore esemplare 34 e la loro stessa condi-zione scandalosa ha l’effetto voluto di disturbare le coscienze degliuomini e di rovesciare i sistemi preconcetti di giudizio: pertanto, anostro avviso, la vera ragione della beatitudine di Cunizza sta nellasua intensa capacità di amare, per cui in lei l’amore, dapprima natu-rale, si trasforma in amor d’animo, frutto di libera scelta, consape-volmente perseguita 35; la stessa capacità d’amare è severamente puni-ta in Francesca, perché mai riscattata dall’amore per Dio, mentre ècertamente l’ignavia in amore che determina il pregiudizio dantescoverso le vedove consolabili di Bonconte da Montefeltro e di Nino Vi-sconti. Che anzi, con esplicita ammissione dottrinaria Dante nel Con-vivio loda chi nella vecchiaia si avvia al porto finale, dopo aver am-mainato le vele della gioventù e delle mondane operazioni: “chè nellaloro lunga età a religione si rendero, ogni mondano diletto e opera di-ponendo. E non si puote alcuno scusare per legame di matrimonio, chein lunga età il tenga; chè non torna a religione pur quegli che a San Be-nedetto e a Sant’Agostino e a San Francesco e a San Domenico si fa d’a-bito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può torna-re in matrimonio stando, chè Iddio non vuole religioso di noi se non ilcuore” 36. Orbene, secondo Pietro di Dante il poeta avrebbe cono-sciuto Cunizza, già avanti negli anni, a Firenze, dov’ella morì nel1279, dama decaduta, ma caritatevole al punto da rendere la libertàalla propria servitù: alla luce di quanto detto, il riconoscimento per

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__________33 Cfr. Luca, 8,1-3: le donne della sequela di Cristo; Giovanni 8, 1-11: l’adultera.34 Cfr. Par. XVII, vv. 139-142.35 Cfr. Purg. XVII, vv. 90-96.36 Cfr. Convivio, IV, 28.

Cunizza, che ha saputo astrarsi dalle intemperanze giovanili per ri-volgere l’indole generosa a gesti più nobili, non è meno doveroso, daparte del poeta, di quello per Piccarda, a cui l’accomuna peraltro laparentela con un fratello violento e sanguinario 37.

Le donne dantesche sono comunque amabili, nonostante le lorocolpe, o degne del paradiso; i loro congiunti, fratelli e mariti, vili per-secutori, sono esseri ignobili, spesso destinati all’inferno. Questi bru-ti, visibile malessere di un mondo insano, affetti da putrida malattiadell’animo, sono cristallizzati in un contrappasso per contrasto: irri-ducibili nel diffondere guasti e violenze nel pubblico e nel privato,vengono immobilizzati da Dio nella loro dimora eterna; al contrariole donne, statiche vittime delle loro angherie, assumono nell’aldilàuna dimensione dinamica, che traduce la leggerezza e la spontaneitàdel loro cuore. Così Francesca rotea turbinosamente nella bufera in-fernal, che mai non resta (Inf. V, v. 31), preoccupandosi di non op-porle resistenza; Pia, impegnata in un arduo percorso di redenzione,accorsa con le altre anime morte di morte violenta verso il poeta perchiederne i suffragi, gli augura un felice ritorno sulla terra che lo ri-paghi della via faticosa, la stessa che ella si accinge a compiere; le ani-me beate, poi, gli si fanno incontro accordando il loro movimento aquello dei cieli concentrici, proiettate dalla Luce dilagante dell’Empi-reo 38. Così Canizza è luce, ma per Piccarda c’è di più 39: alla luce chela vela e la rivela si aggiunge la mobilità dell’acqua, che lungi dal ce-larla, ne estende l’immagine.

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__________37 Ezzelino III da Romano, fratello di Cunizza, ch’ella definisce nel suo col-

loquio con Dante come “una facella / che fece a la contrada un grande assalto”(Par. IX, vv. 29-30), con probabile allusione alla violenza politica, per cui egli èpunito tra i tiranni (violenti contro il prossimo), immerso nel Flegetonte “infinoal ciglio” (Inf. XII, v. 103); ma di lui sappiamo che non fu restio a compiere de-litti privati, come quello di Bornio, amante della sorella, da lui vilmente sgozza-to mentre deteneva la carica di Vicario imperiale della città di Padova.

38 Il movimento delle anime beate verso Dio è bene espresso in Par. IX daneologismi come s’inluia (v. 73); m’intuassi e t’inmii (v. 81).

39 Nell’impegnativo discorso dottrinale di Piccarda (ib. vv. 70-87) v’è un’insi-stenza lessicale interessante: termini-chiave come volontà / volerne / disiassimo /

L’acqua è simbologia d’un ordine cosmico a cui già ella appar-tiene

“ell’è quel mare al quale tutto si moveciò ch’ella cria o che natura face”. (ib. vv. 86-87),

ed emergendone temporaneamente per palesarsi a Dante, in essascompare

“...e cantando vaniocome per acqua cupa cosa grave”. (ib. vv. 122-123)

assimilandosi definitivamente al Creatore: E ’n la sua volontade è no-stra pace (ib. v. 85); quella stessa pace a cui avrebbe aspirato ancheFrancesca se fosse amico il re dell’universo (Inf. V, v. 91) e che ella no-stalgicamente rievoca nel confluire delle acque del Po nel mare Adria-tico 40.

Con queste donne che hanno troppo amato, in opposizione all’o-dio protervo degli uomini, provate dalla vita, cosa ha da spartire Bea-trice, onnipresente nell’opera dantesca ed in posizione enfatica nelnostro canto, di cui costituisce l’incipit ed il suggello? Nella metaforainiziale e finale della luce e del calore, qualità inscindibili dell’amorestilnovistico e dell’ardore paradisiaco, si palesa l’amorevole presenzadella gentilissima, rievocata non soltanto nel suo ruolo di dolce guidae cara 41, ma come memoria d’un inestinguibile amore giovanile: “quel-la Beatrice beata, che vive in cielo con gli angioli, e in terra con la miaanima” 42 ritorna a lui come Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto(ib. v. 1) in una sintesi suggestiva di figura reale e simbolica.

La solarità di Beatrice, infatti, bella dell’accecante fulgore della lu-

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disiri / voler / divina voglia / nostre voglie / ’n suo voler ne ’nvoglia / volontadeindicano come nel suo amore per Dio non vi sia alcuna larvata reminiscenza del-la passività terrena, ma una essenziale conformità alla sua carità.

40 Inf. V. vv. 97-99: “Siede la terra dove nata fui/su la marina dove ’l Po di-scende / per aver pace co’ seguaci sui”.

41 Cfr. Par. XXIII, v. 34.42 Cfr. Convivio, II, 2, 1.

ce paradisiaca, condensa in questo contesto sia l’apparire primo de lagloriosa donna de la sua mente 43, in cui Dante riconosce che abitava lasua beatitudine 44, sia la sua funzione speculare, che è quella che ’mpa-radisa la mente 45 del poeta; ella cioè è raggio luminoso che unisce Dioall’intelletto e l’intelletto a Dio:

“così la mia memoria si ricordach’io feci riguardando ne’ begli occhionde a pigliarmi fece Amor la corda”. (Par. XXVIII, vv. 10-12) 46

Beatrice è quindi un sole in terra e in cielo, le altre donne sono ani-me lunari, in cui la carne ha scontato l’appartenenza alla terra. A que-sta schiera non appartiene di certo l’angiola giovanissima, che si vestee vela di umiltà, quella umiltà che la fa andare tanto gentile e tantoonesta, donando salute benignamente d’umiltà vestuta 47; quella umil-tà che fa umile e alta Maria più che creatura, colei che ha nobilitato l’u-mana natura a tal punto che l’essere donna non è stato un vincolo, maun privilegio:

“Nel ventre tuo si raccese l’amore,per lo cui caldo ne l’etterna pacecosì è germinato questo fiore”. (Par. XXXIII, vv. 7-9)

E Dante, provocando paradossalmente la sua società, si affida sin

159

__________43 Cfr. Vita Nova, II, 1.44 Cfr. Vita Nova, XI, 3.45 Cfr. Paradiso, XXVIII, V. 3.46 Cfr. Par. XXVIII; vv. 4-9: interessante l’analogia tra questi versi e quelli, in

cui si presentano le anime del cielo della luna: anche qui un effetto ottico di ri-flessione. La conoscenza del divino avviene dunque per speculum, attraverso gliocchi: la teologia è mediatrice tra l’uomo e Dio. “Dante accoglie in tal senso ladottrina dell’analogia, secondo la quale ogni aspetto del mondo è specchio delsuo creatore, la cui impronta si rivela tanto più tersa e limpida, quanto più per-fetto è lo specchio in cui si riflette. L’eccezionalità di Beatrice consiste nel ri-specchiare più limpidamente l’immagine di Dio rispetto al resto dell’umanità”.(Bruscagli Tellini, Letteratura e storia, vol. I pag. 335).

47 Cfr. Vita Nova, cap. XXVI.

dall’inizio del suo viaggio a tre donne benedette 48, manifestazione delvolto caritatevole di Dio, che ha scelto proprio la donna come ultimoessere del creato, perché senza di lei tutto sarebbe stato difettivo edimperfetto; è per questo che se l’immagine di Eva, l’antica matre il cuipalato a tutto ’l mondo costa 49, ricorre frequentemente nel poema dalc. VIII del Purgatorio, sempre correlata all’idea del peccato, Dante al-la fine ne presenta il riscatto, collocando la prima mulier 50 ai piedi diMaria nella Rosa mistica:

“La piaga che Maria richiuse e unse,quella ch’è tanto bella da’ suoi piediè colei che l’aperse e che la punse”. (Par. XXXII, vv. 4-6)

In Eva, nella carne che si piega allo spirito, è l’archetipo dell’eter-no femminino.

Siracusa, 8 marzo 2006

160

__________48 Cfr. Inf., II, v. 124.49 Cfr. Purg. XXX, v. 52; Par. XIII, v. 39.50 Cfr. De vulgari eloquentia, I, II, 6.

PURGATORIO, c. XXX

La lettura intende indagare il metodo della salvezza emerso dallaCommedia dantesca, partendo, non a caso, dal canto XXX del Pur-gatorio, canto centrale, come è stato dimostrato attraverso una serra-ta dissertazione numerologica, della struttura salvifica del poema.Centrale perché è in questo canto che, insieme all’epifania di Beatri-ce, che segna un vero e proprio spannung nella struttura narrativadell’opera, si conclude la missione affidata a Virgilio e proprio in que-sta staffetta ideale tra i due si ravvisa la chiave del metodo salvifico.Di Virgilio si analizza allegoricamente il ruolo svolto nell’Inferno e nelPurgatorio di duca, di segnore e di maestro, ossia di modello poetico,ma soprattutto di simbolo della scienza umana, fondata sulla ragione;di Beatrice, attraverso un puntuale raffronto intertestuale con la VitaNuova, si delinea la complessa interpretazione figurale che le attri-buisce già in terra connotati divini, destinati a completarsi nell’al dilà: ecco perché ella, già nella vita terrena associabile a Cristo, la rationella Trinità, si rivela come la sapienza divina nella sua apparizionesulla radura del Paradiso terrestre. Ed indubbiamente scienza umanae scienza divina, colte nella loro consistenza terrena di INTELLET-TO e AMORE, costituiscono i due momenti essenziali del percorsoascetico di Dante, ma non i soli, poiché a completamento di essi, sen-za né rinnegarli né contraddirli, l’estasi mistica concluderà nell’Empi-reo ciò che dai primi era stato intrapreso. A simboleggiare ciò è l’in-tervento di una terza guida di Dante, S. Bernardo di Chiaravalle che,superata la fase della ragione e della teologia, consentirà al poeta diabbandonarsi alla Grazia.

L’intera conversazione, scandita da frequenti citazioni non solo let-terarie, affronta anche in termini filosofici l’argomento, soffermando-si sulle possibili cause del traviamento di Dante, simboleggiato dallanotissima selva oscura nel canto proemiale del poema e ribadito nelcanto in questione dall’aspra requisitoria di Beatrice: escluse, con ar-gomentazioni circostanziate, le ipotesi di nuovi amori successivi allamorte della gentilissima o di sospetta eresia, determinata dalla conta-minazione di fonti averroistiche e islamiche, la tesi è che Dante, giun-to allo stato di perfezione, possa finalmente confessare a Beatrice, al-

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legoria della verità rivelata, di aver per alcun tempo preferito alla ve-ra Sapienza “le cure insensate” dei beni mortali: il pentimento since-ro sarà garanzia del risarcimento della colpa e pertanto Dante inver-tirà con piena coscienza la sua rotta, anteponendo definitivamente lateologia alla filosofia. Fino all’ultimo, però, il poeta non rinnegherà losforzo razionale della conoscenza, solo lo sublimerà nel privilegioineffabile della “conoscenza” di Dio.

Quando il settentrïon del primo cielo, che né occaso mai seppe né ortoné d’altra nebbia che di colpa velo, 3e che faceva lì ciascuno accortodi suo dover, come ’l più basso facequal temon gira per venire a porto, 6fermo s’affisse: la gente verace,venuta prima tra ’l grifone ed esso,al carro volse sé come a sua pace; 9e un di loro, quasi da ciel messo,“Veni, sponsa, de Libano” cantandogridò tre volte, e tutti li altri appresso. 12Quali i beati al novissimo bandosurgeran presti ognun di sua caverna,la revestita voce alleluiando, 15cotali in su la divina basternasi levar cento, ad vocem tanti senis,ministri e messaggier di vita etterna. 18Tutti dicean: “Benedictus qui venis!”,e fior gittando e di sopra e dintorno,“Manibus, oh, date lilia plenis!”. 21Io vidi già nel cominciar del giornola parte orïental tutta rosata,e l’altro ciel di bel sereno addorno; 24e la faccia del sol nascere ombrata, sì che per temperanza di vaporil’occhio la sostenea lunga fiata: 27così dentro una nuvola di fioriche da le mani angeliche saliva

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e ricadeva in giù dentro e di fori, 30sovra candido vel cinta d’ulivadonna m’apparve, sotto verde mantovestita di color di fiamma viva. 33E lo spirito mio, che già cotantotempo era stato ch’a la sua presenzanon era di stupor, tremando, affranto, 36sanza de li occhi aver più conoscenza,per occulta virtù che da lei mosse,d’antico amor sentì la gran potenza. 39Tosto che ne la vista mi percossel’alta virtù che già m’avea trafittoprima ch’io fuor di puerizia fosse, 42volsimi a la sinistra col respittocol quale il fantolin corre a la mammaquando ha paura o quando elli è afflitto, 45per dicere a Virgilio: “Men che drammadi sangue m’è rimaso che non tremi:conosco i segni de l’antica fiamma”. 48Ma Virgilio n’avea lasciati scemidi sé, Virgilio dolcissimo patre,Virgilio a cui per mia salute die’mi; 51né quantunque perdeo l’antica matre,valse a le guance nette di rugiadache, lagrimando, non tornasser atre. 54“Dante, perché Virgilio se ne vada,non pianger anco, non pianger ancora;ché pianger ti conven per altra spada”. 57Quasi ammiraglio che in poppa e in prora viene a veder la gente che ministraper li altri legni, e a ben far l’incora; 60in su la sponda del carro sinistra,quando mi volsi al suon del nome mio,che di necessità qui si registra, 63vidi la donna che pria m’appariovelata sotto l’angelica festa,drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio. 66

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Tutto che ’l vel che le scendea di testa,cerchiato de le fronde di Minerva,non la lasciasse parer manifesta, 69regalmente ne l’atto ancor protervacontinuò come colui che dicee ’l più caldo parlar dietro reserva: 72“Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.Come degnasti d’accedere al monte?non sapei tu che qui è l’uom felice?”. 75Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,tanta vergogna mi gravò la fronte. 78Così la madre al figlio par superba,com’ella parve a me; perché d’amarosente il sapor de la pietade acerba. 81Ella si tacque; e li angeli cantarodi sùbito “In te, Domine, speravi”;ma oltre “pedes meos” non passaro. 84Sì come neve tra le vive traviper lo dosso d’Italia si congela,soffiata e stretta da li venti schiavi, 87poi, liquefatta, in sé stessa trapela,pur che la terra che perde ombra spiri,sì che par foco fonder la candela; 90così fui sanza lagrime e sospirianzi ’l cantar di quei che notan sempredietro a le note de li etterni giri; 93ma poi che ’ntesi ne le dolci temprelor compartire a me, par che se dettoavesser: “Donna, perché sì lo stempre?”, 96lo gel che m’era intorno al cor ristretto, spirito e acqua fessi, e con angosciade la bocca e de li occhi uscì del petto. 99Ella, pur ferma in su la detta cosciadel carro stando, a le sustanze pievolse le sue parole così poscia: 102“Voi vigilate ne l’etterno die,

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sì che notte né sonno a voi non furapasso che faccia il secol per sue vie; 105onde la mia risposta è con più curache m’intenda colui che di là piagne,perché sia colpa e duol d’una misura. 108Non pur per ovra de le rote magne,che drizzan ciascun seme ad alcun finesecondo che le stelle son compagne, 111ma per larghezza di grazie divine,che sì alti vapori hanno a lor piova,che nostre viste là non van vicine, 114questi fu tal ne la sua vita novavirtualmente, ch’ogne abito destrofatto averebbe in lui mirabil prova. 117Ma tanto più maligno e più silvestrosi fa ’l terren col mal seme e non cólto,quant’elli ha più di buon vigor terrestro. 120Alcun tempo il sostenni col mio volto:mostrando li occhi giovanetti a lui,meco il menava in dritta parte vòlto. 123Sì tosto come in su la soglia fuidi mia seconda etade e mutai vita,questi si tolse a me, e diessi altrui. 126Quando di carne a spirto era salita,e bellezza e virtù cresciuta m’era,fu’ io a lui men cara e men gradita; 129e volse i passi suoi per via non vera,imagini di ben seguendo false,che nulla promession rendono intera. 132Né l’impetrare ispirazion mi valse, con le quali e in sogno e altrimentilo rivocai: sì poco a lui ne calse! 135Tanto giù cadde, che tutti argomentia la salute sua eran già corti,fuor che mostrarli le perdute genti. 138Per questo visitai l’uscio d’i morti,e a colui che l’ha qua sù condotto,

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li preghi miei, piangendo, furon porti. 141Alto fato di Dio sarebbe rotto,se Letè si passasse e tal vivandafosse gustata sanza alcuno scottodi pentimento che lagrime spanda”. 145

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IL METODO DELLA SALVEZZA

Il metodo per raggiungere la salvezza Dante lo conosceva bene sindalla puerizia:

“ Tosto che nella vista mi percossel’alta virtù che già m’avea trafittoprima ch’io fuor di puerizia fosse” (Purg. XXX, vv. 40-42)

La vicenda a cui i versi citati alludono è fin troppo nota: all’età dinove anni, infatti, gli appare per la prima volta l’angiola giovanissima,la cui alta virtù procede attraverso tutti gli spiriti sensitivi e suggerisceal suo intelletto le parole rivelatrici: “Apparuit iam beatitudo vestra” 1.Ella si mostra dunque al poeta con le sembianze di un angelo che“non parea figliuola d’ uom mortale, ma di deo” 1 e sin d’allora la suanobilissima virtù impedisce alcun tipo di coinvolgimento passionale,ed anzi rovesciando la tragica visione cavalcantiana, non “soffersech’Amore mi reggesse sanza ’l fedel consiglio de la ragione” 1.

“Compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto”, “nellanona ora del giorno” 2, Beatrice gli rivolge il saluto, “Tanto che (mi)parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine” 2; qui la metaforatopica saluto/salute, associata ad altro lessico riconducibile alla stessaarea semantica (ineffabile cortesia, meravigliosa visione, mirabile cosa,fino all’intera espressione “Ego dominus tuus”) 2 esplicita il caratteredivino della salvezza, di cui la gentilissima è ministra e messaggera:“Conobbi ch’era la donna della salute” 2, si legge sempre nel cap. IIdella Vita Nuova. Tale salvezza eterna è confermata anche dalla insi-stita relazione numerica presente nel capitolo suddetto – tra il 9 - mul-tiplo di 3 - numero perfetto – e l’epifania della mirabile donna, oltreche dalla simbologia dei colori ad essa associati. Nel primo incontroella “apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto sangui-gno” 1; nel secondo, “vestita di colore bianchissimo” 2. Degli stessi co-

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__________1 Cfr. Vita Nova, Cap. I.2 Cfr. Vita Nova, Cap. II.

lori, emblemi insieme al verde delle tre virtù teologali, s’ammanta glo-riosa anche sulla radura del paradiso terrestre:

“Sovra candido vel cinta d’ulivadonna m’apparve, sotto verde mantovestita di color di fiamma viva”. (ib. vv. 31-33)

Nel Purgatorio è cinta d’uliva – pianta sacra a Minerva (cfr. ib. v.68) – ad indicare il primato della sapienza divina da lei incarnato; ilλóγος, la ratio divina, è la seconda persona della Trinità, ossia Cristo;Beatrice è dunque figura di Cristo e nella sua apparizione in cima alPurgatorio è invocata con le espressioni scritturali “veni, sponsa, deLibano” e “Benedictus qui venis”. Entrambe le formule nell’esegesibiblica suonano come acclamazioni trionfali, l’una tratta dal Canticodei Cantici, riferita alla Chiesa, sposa di Cristo e depositaria della ve-rità rivelata, l’altra rivolta allo stesso Cristo, accolto con esultanza da-gli Ebrei al suo ingresso in Gerusalemme 3; ma nel nostro canto gli an-geli alleluiando (v. 15) intonano anche un noto verso virgiliano:

“Manibus, oh, date lilia plenis!” (ib. v. 21)

Alla citazione virgiliana (En., VI, v. 883),del tutto fedele alla tradi-zione manoscritta, eccetto che per l’interpolazione dell’“oh” esclama-tivo, la critica non riserva in verità particolare attenzione, né conferi-sce una specifica funzione; solo G. Giacalone riscontra nell’immaginedel giglio “da un lato la figura di Cristo e dall’altro delle anime deigiusti e delle loro virtù” 4, simbologia questa che potrebbe riferirsiproprio al corteo sacro che accompagna la processione allegorica: es-sa si compone di sette candelabri (i septem triones, ossia le sette stel-le delle due Orse), cui fanno seguito ventiquattro seniori – la gente ve-race (v. 7) – vestiti di bianco, col capo cinto – per l’appunto – di unacorona di gigli; poi quattro animali alati in mezzo ai quali la divina ba-sterna (v. 16) guidata dal grifone; intorno alla ruota destra venian dan-

168

__________3 Cfr. Cantico dei Cantici. Matteo XXI, 9; Marco XI,10; Luca XIX, 33. 4 Cfr. Giacalone. Purgatorio c. XXX, n. 21.

zando 5 tre donne, vestite una di rosso, una di smeraldo 5 ed una di ne-ve 5; intorno alla ruota sinistra quattro facean festa / in porpora vestite 5;infine sette vecchi vestiti di bianco e coronati di fiori rossi . La lettu-ra allegorica individua nei sette candelabri i sette doni dello SpiritoSanto, nei ventiquattro seniori i libri del Vecchio testamento, neglianimali alati i quattro Vangeli e nel Grifone – animale dalla duplicenatura di leone e di aquila – Cristo, che assomma in sé natura umanae divina; il carro trionfale è la Chiesa guidata da Cristo e sorretta da-gli ordini mendicanti (le due ruote rappresentano rispettivamente in-fatti l’ordine francescano e domenicano); le fanciulle danzanti intor-no alle ruote simboleggiano rispettivamente, le prime le tre virtù teo-logali, e le seconde le quattro cardinali; a chiudere, i sette vegliardi so-no gli ultimi libri del Nuovo Testamento. Al centro, in piena apoteo-si, dentro una nuvola di fiori (ib., v. 28), appare Beatrice quale effica-ce sintesi spirituale di tutta questa sacra rappresentazione: in lei è larivelazione delle Scritture e la verità della Chiesa; da lei germoglianole virtù che presiedono alla vita attiva e contemplativa, in lei convivo-no la natura terrena e quella celeste, come in Cristo. Ecco perché aBeatrice si riferiscono, a nostro avviso, sia le espressioni scritturali te-sté citate che il verso profano dell’Eneide: il sincretismo letterario èqui indizio rivelatore della doppia entità, storica e metastorica, diBeatrice. A conferma di ciò si può addurre la nota interpretazione diCharles Singleton 6 che ravvisa l’immagine di Cristo in Beatrice giànella Vita Nuova (cfr. cap. XXIII, Donna pietosa, vv. 59-61), in cui ladipartita della gentilissima, salutata dall’Osanna degli angeli, evocal’ascensione di Cristo al Cielo:

“ li angeli che tornavan suso in cielo…gridavan tutti osanna” .

Nello scorgere la donna velata Dante coglie contemporaneamentela luce della grazia divina e la potenza dell’antico amore: la prima laravvisa nel la faccia del sol che nasce

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__________5 Cfr. Purg. XXIX, v. 122 e segg.6 Cfr. C. Singleton: Studi su Dante, pag. 243-49.

… “ombratasi che per temperanza di vaporil’occhio la sostenea lunga fiata” (ib. vv. 25-27)

la seconda per occulta virtù che da lei mosse (cfr. v. 38), virtù che, “per-cuotendo” la vista, determina e rinnova l’antica conoscenza (cfr. v. 37),per cui il poeta ricorrendo, – stavolta in traduzione – ad un altro no-tissimo verso virgiliano 7, prorompe: conosco i segni dell’antica fiamma(ib. v. 48).

Conseguenza della immaginazione d’amore 8 è la medesima di untempo. Infatti già nel XXIV cap. della Vita Nuova aveva confessato:“io mi sentio cominciare un tremuoto nel cuore, così come che io fossestato presente a questa donna” ed ora il poeta, risentendo ancora del-la occulta virtù, ispirata da colei che dà beatitudine, esclama:

“ E lo spirito mio, che già cotantotempo era stato ch’ a la sua presenzanon era di stupor, tremando, affranto, sanza de li occhi aver più conoscenza,per occulta virtù che da lei mosse,d’antico amor sentì la gran potenza.” (ib. vv. 34-39)

Quindi il poeta, emozionato tal quale un fantolino, si rivolge aVirgilio come alla mamma (cfr. v. 44). Sollecita mamma è Virgilio,madre superba appare invece Beatrice (cfr. v. 79), che con espressio-ne insolitamente aspra, pur dettata da sincero affetto (si noti l’ossi-moro pietade acerba al v. 81, con cui Dante-narratore mette in evi-denza l’utilità pedagogica del rimprovero), si rivela finalmente aDante: “Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.”. La teofania diBeatrice avviene dunque al v. 73, cioè nel verso centrale del nostrocanto, che consta di 145 versi: Beatrice, inserita in una triplice epa-nalessi (ben son) al centro del canto, è così davvero il centro della Ri-velazione. Dante che crede alla teoria numerologica, in questo canto

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__________7 Cfr. Eneide, IV, 23.8 Cfr. Vita Nuova, Cap. XXIV.

sembra concentrare ossessivamente, come nei primi capitoli della Vi-ta Nuova, corrispondenze numeriche. Infatti la somma dei numeri7+3=10 equivale alla perfezione divina; gli stessi numeri corrispon-dono nella loro somma a 9+1, dei quali l’1 è simbolo del principio deltutto ed il 9, multiplo di 3 – simbolo della Trinità – è emblema delmiracolo. Si legge nel XXIX cap. della Vita Nuova: “Questa è una ra-gione di ciò, ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veri-tà, questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò in-tendo così. Lo numero 3 è la radice del 9, però che senza numero altroalcuno, per sé medesimo fa 9, si come vedemo manifestamente che 3via 3 fa 9. Dunque se ’l 3 è fattore per sé medesimo del 9, e così il fat-tore dei miracoli è 3, ciò è Padre e Figliuolo e Spirito Santo, li quali so-no 3 ed 1, questa donna fue accompagnata da questo numero del 9 adare a intendere ch’ella era un 9, ciò è uno miracolo, la cui radice, ciòè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade” 9. La sacralità delcanto aleggia anche nella ripetizione insistita del numero 10: esso è ilXXX del Purgatorio, ossia 3x10; consta di 145 versi, ossia 1+4+5, lacui somma è uguale a 10; esso stesso è il 64° della Commedia, e6+4=10; tale sacralità viene anche confermata dal ricorrere magico-simbolico del numero 9, e infatti 63 canti lo precedono e 36 lo se-guono, e la somma di queste cifre equivale sempre a 9. Il nome diVirgilio ricorre 3 volte consecutive (vv. 49, 50, 51) e al v. 55, tra Vir-gilio e Beatrice, per la prima ed unica volta, compare nella Comme-dia il nome di Dante, che di necessità qui si registra (v. 63): tale ne-cessità non è davvero obiettiva, poiché non si presenta inderogabil-mente e per la prima volta, piuttosto è pretestuosa e gli consente diporre se stesso al centro della vicenda salvifica di cui la Commedia ètestimonianza insieme a Beatrice, sua guida eletta sin dalla trascorsavicenda umana. E non solo: nell’Inferno è Beatrice a correre in aiutodel suo amico (cfr. Inf. II, v. 61):

“ Per questo visitai l’uscio dei morti,e a colui che l’ha qua su condotto,li preghi miei, piangendo, furon porti” (ib. vv. 139-141)

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__________9 Cfr. Vita Nuova, Cap. XXIX.

Ella si presenta dunque a Virgilio con le parole:

“I’ son Beatrice che ti faccio andare:vegno dal loco ove tornar disio;amor mi mosse, che mi fa parlare.” 10 (Inf. II, vv. 70-72)

La Beatrice che sollecita Virgilio in soccorso di Dante ha le sem-bianze della donna-angelo:

“ Lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella” (Inf. II, vv. 55-57),

ma se nella creatura angelicata della Vita Nuova si adombra l’astra-zione della concezione amorosa stilnovistica, intesa come trascenden-za dell’assoluto, nella donna beata e bella della Commedia (cfr. Inf. II,v. 53) si avverte la piena consapevolezza di sé e delle sue virtù; è fattada Dio, sua mercé, tale (cfr. Inf. II, v. 91) che la miseria del peccatonon la tange e pertanto non si limita a miracol mostrare, ma per vole-re di Amore opera la salvezza, chiarendone addirittura le finalità esca-tologiche. Pur se interpellata da Lucia, a cui è la stessa Madonna araccomandare Dante, è Beatrice che senza tema alcuna si muove finoagli Inferi per far completare al suo fedele (cfr. Inf. II. v. 98) quell’iti-nerario di redenzione già intrapreso nell’età giovanile, limitato alloraad uno stato contemplativo ed individuale, che diviene ora un pro-cesso dinamico volto non solo al raffinamento interiore, ma all’impe-gno attivo di chi, privilegiato dalla sua straordinaria esperienza, gua-dagna per sé e per tutta l’umanità l’eccellenza spirituale. Pertanto, nelII c. dell’Inferno Lucia si rivolge a Beatrice dicendo:

“ …Beatrice, loda di Dio vera,chè non soccorri quei che t’amò tanto,ch’ uscì per te de la volgare schiera?” (vv. 103-105),

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__________10 La discesa di Beatrice al limbo è modellata su quella di Cristo agli Inferi,

documentata dal Vangelo apocrifo di Nicodemo.

sottolineando la funzione già svolta da Beatrice sulla terra ed esplici-tata nella Vita Nuova; ma nel c. XXXI del Paradiso è Dante stessoche, nel contemplare Beatrice nell’atto di tornare a l’etterna fontana(cfr. v. 93) si congeda da lei con una preghiera di ringraziamento:

“O donna in cui la mia speranza vige,e che soffristi per la mia salutein inferno lasciar le tue vestigie,di tante cose quant’ i’ ho vedute,dal tuo podere e da la tua bontate riconosco la grazia e la virtute.Tu m’hai di servo tratto a libertateper tutte quelle vie, per tutt’ i modiche di ciò fare avei la potestate.La tua magnificenza in me custodi,sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana, piacente a te dal corpo si disnodi.” (Par. XXXI, vv. 79-90)

La consapevolezza del metodo salvifico traspare dai versi del Para-diso appena citati; ben altro è l’atteggiamento del poeta sulla raduradell’Eden: nonostante gran parte del cammino di purificazione sia giàstato compiuto, la sua condizione di fragilità emotiva è resa dramma-ticamente dalle espressioni: paura (v. 45), lagrimando (v. 54), pianger(ripetuto ben 3 volte ai vv. 56- 57), tanta vergogna (v.78), lagrime e so-spiri (v. 91) e dall’intera terzina:

“ Lo gelo che m’era intorno al cor ristrettospirito e acqua fessi, e con angosciade la bocca e de li occhi uscì del petto” (ib. vv. 97-99)

L’analisi introspettiva, in un crescendo che culmina nella terzinacitata, tende a materializzare, attraverso il ricorso a frequenti correla-tivi oggettivi, la contrizione dell’animo di Dante, il quale oltre tutto dapochi attimi si trova privo del suo antico sostegno e della sua primaguida, Virgilio, il cui determinante ufficio è sottolineato dall’insistitametafora parentale a lui riferita: il fantolin corre a la mamma (v. 44) eVirgilio dolcissimo patre (v. 50). Virgilio è dunque per lui padre e ma-

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dre; è comprensibile che all’emozione determinata dalla comparsa diBeatrice succeda lo smarrimento dovuto alla scomparsa di Virgilio:

“ né quantunque perdeo l’antica matre,valse a le guance nette di rugiada,che, lagrimando, non tornasser atre” (ib. vv. 52-54)

Virgilio nel c. I dell’Inferno si era presentato a Dante come chi perlungo silenzio parea fioco (cfr. Inf., I v. 63): l’espressione in senso alle-gorico sta ad indicare il silenzio della ragione nello stato di perdizio-ne morale in cui versa il poeta. Il rapporto che si istituisce tra Virgilioe Dante sancisce dunque il risveglio della ragione ed è pertanto me-diato dall’intelletto: essi condividono una straordinaria altezza d’inge-gno (cfr. Inf., X v. 59), si riconoscono nel comune culto delle lettere edello stile poetico illustre, riscontrano il fine supremo dell’opera let-teraria nell’edificazione morale 11; è per questo che Dante riconosce inVirgilio, per la loro totale comunanza d’intenti, il suo autore per an-tonomasia: “Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore” afferma nel I cantodell’Inferno al v. 85, e in seguito aggiunge:

“ or va, ch’ un sol volere è d’ambedue:tu duca, tu segnore e tu maestro” (Inf. II, vv. 139-140)

sintetizzando in un sol verso la complessa funzione ch’egli è deputa-to a svolgere per lui campare. Spiega infatti Boccaccio: “Non si po-trebbe in altra guisa bene andare se non fosser la guida ed ’l guidato inun volere. Tu duca, quanto è nell’andare, tu segnore, quanto è alla pre-minenza e al comandare, e tu maestro, quanto è al dimostrare; perciòche uficio del maestro è il dimostrare la dottrina e il solvere i dubbi”.

Virgilio assolve dunque l’arduo compito di additare al poeta il me-todo della conoscenza razionale, che può far conseguire in rebus agliuomini la salvezza: e infatti nell’andare è la perceptio sensibile, ossiail procedere nella conoscenza; nel comandare è la riflessione superio-

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__________11 G. Getto: La poesia dell’intelligenza, in “Aspetti della poesia di Dante”.

Sansoni. Firenze 1965.

re della ragione, cioè la ragione usare 12, nel dimostrare è l’enucleazio-ne della verità. Virgilio, in quanto allegoria della ragione, rinnovadunque nella Commedia quel culto della scienza che era già stato ilprogetto del Convivio, fondato sulla riprovazione del dubbio siste-matico (la confutazione delle false opinioni) e sul metodo sillogisticodeduttivo, cui si applica un serrato esercizio dialettico. Ma nel Con-vivio Dante si propone quale banditore di un convito di filosofia edattraverso di essa intende compilare una summa enciclopedica del sa-pere umano per rimuovere gli impedimenti del corpo e dell’animache non consentono all’uomo di giungere al perfezionamento dellevirtù naturali, dunque nel Convivio è il poeta che elargisce cultura;nella Commedia, invece, egli è il discepolo che segue docilmente gliinsegnamenti di Virgilio: ancora una volta si propone il rapporto an-titetico che abbiamo già rilevato tra la Vita Nuova e la Commedia,poiché nel Convivio si attua una prospettiva statica del sapere, pro-pria del saggio che soddisfa prima di tutti per se stesso, come bene in-dividuale, la voluptas cognoscendi, mentre nella Commedia si realiz-za quel progresso dinamico della sapienza, utilizzata non più come fi-ne dell’approccio scientifico, ma come strumento per conquistare lasomma virtù. In quest’ottica può intendersi, a nostro avviso, il travia-mento di Dante rimproveratogli da Beatrice:

“ Si tosto come in su la soglia fuidi mia seconda etade e mutai vita,questi si tolse a me, e diessi altrui” (ib. vv.124-126)

In apparenza il nostro canto dai vv. 115 e segg. sembra tratteggia-re ancora la vicenda narrata nella Vita Nuova: Dante, pur potenzial-mente ricco di buone attitudini, che avrebbero dovuto essere poste inatto, a causa della sua condotta dissennata, resa nelle parole di Bea-trice ancora più peccaminosa dal riferimento scritturale alla paraboladel seminatore 13, si distoglie ad un tratto dalla dritta parte (v. 123), acui la donna amata lo aveva indirizzato; e proprio quando il trasuma-

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__________12 Cfr. Convivio.13 Cfr. Vangelo: San Matteo, XIII; San Luca, VIII.

nar di Beatrice avrebbe dovuto confermarlo nella determinazione del-la salvezza

“fu’ io a lui men cara e men gradita;e volse i passi suoi per via non vera,immagini di ben seguendo false,che nulla promession rendono intera” (ib. vv. 129-132)

A tal proposito la Vita Nuova riferisce l’episodio della “donnagentile” (cfr. capp. XXXV-XXXVIII), la fanciulla pietosa che sembracompatire il dolore del poeta; ma è Dante stesso che nel Convivio at-tribuisce alla donna gentile il significato allegorico della filosofia.D’altronde anche la canzone dottrinale commentata nel terzo trattatodel Convivio, Amor che nella mente mi ragiona, conferma l’allegoriz-zazione in chiave filosofica dell’amore stilnovistico, in cui il rapportocon l’intelletto diviene nesso irrinunciabile e determinante (i terminiAmore ed Intelletto ricorrono 6 volte ciascuno nell’arco dell’interocomponimento): non nuovi amori dunque attraggono il suo spirito,ma l’esperienza ben più travolgente dell’ardore della conoscenza.

Tale curiositas, tale eclettismo culturale, che si configura come lacondizione essenziale su cui fondare ogni possibile sapere, emerge dal-la materia enciclopedica del Convivio, che compendia le discipline delTrivio e del Quadrivio (Grammatica, retorica e dialettica; astronomia,geometria, aritmetica e musica), tutte propedeutiche alla Filosofia:pertanto Filosofia per Dante non è solo la conciliazione dei sistemiclassici di Aristotele e di Platone, del primo dei quali si privilegia inepoca medievale soprattutto la logica e la fisica e del secondo il rap-porto Dio-mondo-uomo, utile a chiarire il concetto di bene e di male;ma essa è nel Convivio la contaminazione della concezione classico-cri-stiana con il pensiero di Avicenna, che tende a platonizzare in chiavemistica l’Aristotele fisico e metafisico, e con l’Aristotelismo radicale diAverroè che, sostenendo l’indipendenza del pensiero dai vincoli dellafede, dimostra – nel senso aristotelico del termine – che tra Rivelazio-ne e filosofia non solo vi è compatibilità, ma una connessione tale darendere la seconda uno strumento argomentativo decisivo per la pri-ma e giunge a speculare su questioni metafisiche, quali il rapporto ani-ma/corpo, immortalità/mortalità dell’anima, fede/scienza.

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Sulla reale portata di quest’ultima influenza culturale sia nel Con-vivio che nella Commedia si avanzano ipotesi contrastanti: che Danterecepisca talora asserzioni averroistiche, specie nel Convivio, è anchepossibile, ma che attraverso le speculazioni dei filosofi arabi si facciastrada nel suo genio espansivo anche l’eco delle scritture islamiche ap-pare argomento critico seducente, ma pur sempre discutibile 14. Si sadi certo che Dante ricevette da Brunetto Latini una traslatio alexan-drina (un riassunto arabo) dell’Etica Nicomachea di Aristotele; è pos-sibile che tramite lo stesso canale Dante abbia potuto consultare il Li-ber Scalae Maomethi dell’VIII sec., tradotto nel 1264 dal castiglianoin latino e in francese da Bonaventura da Siena, notaio a Toledo, allacorte di Alfonso X il Savio, presso cui visse anche Brunetto, amico diAlfonso. Nella Commedia sono reperibili vari spunti tratti da questotesto scritturale, diffuso anche in Sicilia alla corte di Federico II, cen-tro propulsore della comunicazione islamico – cristiana (ad es. il di-vieto di varcare le colonne d’Ercole nel c. di Ulisse 15; gli edifici di Di-te chiamati meschite/moschee; la legge del contrappasso); ora, cichiediamo perché non ritenere che essi siano semplicemente indiziodella usuale “interdiscorsività” culturale di cui Dante è partecipe, co-sicché temi e linguaggi diversi possano confluire nel patrimonio col-lettivo dell’intellettuale privi di specifiche connotazioni ideologiche,piuttosto che ipotizzare una presunta posizione ereticale del Nostro?

L’errore di Dante non ci sembra certamente ravvisabile in un pec-cato di eresia: se simpatie averroistiche lo coinvolsero in un certo mo-mento della sua vita, esse si potrebbero ricondurre alla comunanza in-tellettuale con Guido Cavalcanti, il poeta-filosofo suo amico di gio-ventù; ma certo è che dalle tendenze “epicuree” di Guido Danteprende apertamente le distanze nel c. X dell’Inferno, quando nel cor-

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__________14 Sono gli studi che da circa un ventennio conduce Maria Corti, la quale cer-

ca di collocare qualche volume in più nella fantomatica e sconosciuta bibliotecadantesca. Tra questi volumi lo storico Leonardo Capezzone pone come tacitafonte della D. C., l’opera di Ibn ‘Arabi, discepolo di Averroé ed uno dei più gran-di mistici dell’Islam.

15 Il divieto non esiste nel mondo greco-latino. Si tratta di un espediente esco-gitato dagli Arabi per impedire a Svedesi e Norvegesi di occupare le vie di traf-fico e di commercio musulmani.

so del drammatico colloquio col padre di lui, Cavalcante de’ Caval-canti, ribadisce senza possibilità di equivoci che il suo percorso di sal-vezza procede dalla ragione verso la fede:

“ Colui ch’ attende là, per qui mi menaforse cui Guido vostro ebbe a disdegno” (Inf. X, vv. 62-63).

Il vero peccato di Dante può invece presumibilmente consisterenell’aver subordinato in un certo periodo della sua vita la Teologia al-la Filosofia 16, come coloro che volevano far convivere la verità di fe-de con divergenti verità di scienza (doppia verità), quindi in apertocontrasto con il sistema culturale della Scolastica secondo cui, al con-trario, una sola è la possibile verità, ma la filosofia, pur essendo pre-paratoria alla Teologia (anticipazione e prefigurazione di essa in terra,direbbe E. Auerbach) diverge da essa nel metodo, non può divergerenei principi o nelle conclusioni: con la Scolastica si giunge quindi al-la definizione della Teologia come scienza. Di questa colpa Dante fagià ammenda nel c. II del Purgatorio: infatti il commosso incontrocon Casella, che intona per lui proprio “Amor che nella mente mi ra-giona”, rievocando elegiacamente le esperienze autobiografiche dellagiovinezza e l’amore terreno della filosofia, lo distoglie dall’itinerariodi purificazione; pertanto Catone, intervenendo severamente, richia-ma alle proprie responsabilità non solo il penitente Dante, ma anchela sua ragione, Virgilio 17. Tra la composizione del Convivio e quelladella Commedia Dante approfondisce il metodo della Scolastica, chetende non all’analisi delle cause dei fenomeni (il quid sit), ma al per-corso dialettico tra fisica e metafisica, tra molteplice ed Unità, trascienza umana e Sapienza divina. È dunque chiaro il ruolo affidato aVirgilio nella Commedia perché, come osserva G. Gentile 18 per Dan-te la stessa “Teologia non giunge all’uomo, non lo salva, se non permezzo della ragione”. Infatti, benché Virgilio lo abbia guidato attra-verso i regni dell’Inferno e del Purgatorio, appartenenti pur sempre

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__________16 La consapevolezza del traviamento determina il repentino passaggio dalla

compilazione del trattato filosofico al trattato teologico?17 Cfr. Purg. III, vv. 7-9.18 G. Gentile, Studi su Dante, Firenze 1990.

alla sfera terrestre, poiché egli costituisce la scienza umana, di cui co-munque non perde occasione di dichiarare la limitatezza, rimandan-do spesso la risoluzione dei dubbi o la rivelazione della verità a Bea-trice, che rappresenta la scienza divina:

“E se mia ragion non ti disfamavedrai Beatrice, ed ella pienamenteti torrà queste e ciascun’altra brama” (Purg. XV, vv. 76-78),

tuttavia senza di lui sarebbe stato impossibile a Dante proiettarsi nel-le sfere celesti. Virgilio è dunque instrumentum veritatis. Beatrice è laVerità. Ecco perché Virgilio, conclusa la missione affidatagli da Bea-trice, a Beatrice stessa consegna il testimone.

Beatrice assume il suo ruolo rimproverando aspramente Dante sindalle prime battute:

“ Come degnasti d’accedere al monte? Non sapei tu che qui è l’uom felice?” (ib. vv. 74 -75)

Che nell’espressione risuoni l’ironia o la riprovazione, cosa su cuila critica vanamente discetta, o a quale monte intenda riferirsi Beatri-ce, se alla montagna del Purgatorio (lectio facilior, dunque poco plau-sibile) o se invece esso si contrapponga espressamente al qui del v. 75e ne costituisca quindi un simmetrico altrove terreno (presumibil-mente quel colle della vita virtuosa a ridosso della selva oscura, im-possibile da ascendere senza aver prima conquistato la perfezioneumana) è questione superflua nell’economia della nostra lettura; cer-to è che Beatrice non esita a rinfacciargli i suoi trascorsi:

…“Si poco a lui ne calse! “ (cfr. ib. v. 135)

cosicché

“ Tanto giù cadde, che tutti argomentia la salute sua eran già corti,fuor che mostrarli le perdute genti” (ib. vv.136-138).

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Le intelligenze angeliche, più misericordiose, intonando il salmoXXX “In te, Domine, speravi”, sembrano aver compassione di Dante

… “ par che se detto avesser: “Donna, perché sì lo stempre?” (ib.vv. 95-96).

Inflessibile è la risposta di Beatrice: “perché sia colpa e duol d’unamisura” (ib. v. 108), ossia affinché Dante comprenda che il perdono èlecito solo quando la contrizione è commisurata alla colpa. Il viaggionel purgatorio non avrebbe potuto concludersi se Dante, umile pec-catore, non avesse maturato la consapevolezza dell’errore e la dispo-sizione al risarcimento di esso, prima di perderne coscienza a causadell’immersione nel Leté:

“ Alto fato di Dio sarebbe rotto,se Leté si passasse e tal vivandafosse gustata sanza alcuno scottodi pentimento che lagrime spanda” (ib. vv. 142-145).

I tre momenti della liturgia della confessione – la confessio oris, lacontritio cordis e la satisfactio operis – corrispondenti ai tre gradini diaccesso alla porta del Purgatorio 19 si svolgono sotto la tutela di Bea-trice, vero ministro del sacramento, al cui cospetto, vergognoso epiangente, Dante ammette:

… “Le presenti cosecol falso lor piacer volser miei passi,tosto che ’l vostro viso si nascose” (Purg. XXXI, vv. 34-36).

L’assunzione di responsabilità da parte di Dante di essersi lasciatogravare le penne in giuso (cfr. Purg. XXXI v. 58) diventa piena consa-pevolezza nel cielo del Sole, in cui il Poeta, incontrando gli spiriti sa-pienti disposti nelle due corone concentriche dei teologi e dei mistici,esalta l’ideale della vera sapienza:

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__________19 Cfr. Purg., IX, vv. 94-108.

“ O insensata cura dei mortali, quanto son difettivi sillogismiquei che ti fanno in basso batter l’ali!” (Par. XI, vv. 1-3).

Le due corone, che si muovono concordemente nel Paradiso, rin-novano la simbologia delle due ruote del carro della Chiesa, di cuisi è detto: di teologi e di mistici si composero infatti i due ordini piùimportanti del Medioevo, quello dei Domenicani e dei Francescani,ed ai loro rispettivi fondatori S. Tommaso e S. Bonaventura inneg-giano nel cielo del Sole, integrando in forma chiastica la comple-mentarità delle loro opere: perch’ ad un fine fur l’opere sue (Par. XI,v. 42); ma S. Francesco fu tutto serafico in ardore (v. 37) mentre S.Domenico per sapienza in terra fue/ di cherubica luce uno splendore(vv. 38-39): dal che si evince con chiarezza che la complementaritàa cui si riferisce S. Tommaso è la stessa che rende interdipendentiAmore ed Intelletto. Che Dante mutui dal Tomismo lo schema asce-tico e dal Francescanesimo l’interpretazione morale è risaputo: restada verificare come egli abbia utilizzato tali metodi nella struttura del-la Commedia.

I gradi di perfezione ascetica procedono, dice San Tommaso 20

“secundum diversa studia, ad quae homo perducitur per caritatis ar-gumentum”: la prima fase, quella dei principianti, consiste nel dis-taccarsi dal peccato (ad recedendum a peccato) e nel subordina-re l’istinto alla ragione, ciò che avviene nel percorso infernale (edequivale all’andare: I fase del metodo); la seconda è quella deiprogredienti, che si purgano attraverso un itinerario ascetico, ef-fettuato nella seconda cantica, grazie al quale il progredire nelbene perviene alla perfezione delle virtù umane (ed è il coman-dare, la ragione usare: II fase del metodo); in ultimo è la fase deiperfetti, i quali “cupiunt dissolvi et esse cum Christo”, per citareSan Paolo.

Da ciò appare chiaro che lo stesso Tomismo, che articola l’ap-prodo al divino attraverso precise tappe ascetiche, non escludeelementi neoplatonici e mistici, poiché il conoscere e l’amare so-

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__________20 Cfr. Summa Theologiae, II, 24, art. 9.

no strettamente compenetrati tra loro, di modo che l’uno – l’in-telletto – è conditio sine qua non dell’altro – l’amore – ma il se-condo è presupposto inevitabile del primo; ossia Intelletto eAmore costituiscono quel nesso irrinunciabile di cui s’è già det-to a proposito della canzone dottrinale Amor che nella mente miragiona. In conseguenza di ciò la beatitudine dell’Empireo è perDante quel

… “ciel ch’è pura luce: luce intellettual, piena d’amore.” (Par. XXX, vv. 39–40).

D’altro canto anche per il mistico S. Bonaventura da Bagnoregioi due termini sono inscindibili nel processo ascetico: “chiunque vuo-le ascendere a Dio è necessario che ascenda al di sopra di se stesso at-traverso l’universo che è scala a Dio per una ascesi dell’anima, eserci-tando le naturali potenze: senso, immaginazione, ragione, intelletto,apice della mente”.

Se dunque l’intelletto è proteso in un incessante dis-correre (cfr.Par. XXIX, v. 21) attraverso fasi rigorosamente razionali, è però veroche esso non si può spingere al di là del “quia est”, ossia di ciò che èin quanto è; dinanzi al “quid sit” è impotente, perché incapace, per lasua limitatezza, di cogliere ed esprimere il mistero della natura dellecose e delle verità di fede ed è la stessa guida-ragione che pone comecondizione a Dante di non indagare:

“Matto è chi spera che nostra ragionepossa trascorrer la infinita viache tiene una sustanza in tre persone. State contenti, umana gente, al quia;chè, se potuto aveste veder tutto,mestier non era parturir Maria” 21 (Purg. III, vv. 34-39).

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__________21 Di questo inesausto desiderio di vedere Dio, soffrono Aristotele e Platone

nel limbo, ma tra gli spiriti magni è anche Averroè che il gran comento feo (Inf.,IV, v. 144).

Il quid sit, assurdo della logica e certezza di fede, non è dimostra-bile neanche dalla Teologia, e pertanto nel c. XXXI del Paradiso, vol-gendosi Dante verso Beatrice, che nell’ultima lezione teologica si è in-trattenuta sulla sostanza dei cieli e sulle intelligenze ad essi preposte,per interpellarla su la forma general di paradiso (v. 52), non lei si tro-va accanto, ma un sene

…………………… “in atto pioquale a tenero padre si convene.” (Par. XXXI, v. 62-63).

S. Bernardo, tenero padre (si rinnova ancora una volta il tropo pa-rentale), inviato da Beatrice perché Dante possa terminare il suo per-corso di salvezza, raccoglie a sua volta il testimone: la Teologia, cheaveva continuato ciò che la ragione aveva intrapreso, ha condotto ilpellegrino alla verità, ma la contemplazione del Divino è prerogativaesclusiva di un atto di fede.

S. Bernardo svolge il ruolo di terza guida, il monaco cistercen-se, per essere stato un asceta ed un mistico, avverso alle correntirazionalistiche e promotore del culto mariano, è l’unico che puòavvicinare Dante al mistero divino. Il suo compito non è quello disolvere i dubbi, ma anzi di accentuare l’irrazionalità dell’atto di fe-de, infatti la preghiera che Bernardo rivolge alla Vergine, la sola aconciliare l’umano e il divino, la sola ad accettare senza interro-gativi l’incarnazione in Lei dell’amore di Dio 22, è tutta tramata diantitesi:

“Vergine Madre, figlia del tuo figlio,umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio,tu se’ colei che l’ umana naturanobilitasti sì, che ’l suo fattorenon disdegnò di farsi sua fattura.” 23 (Par. XXXIII, vv. 1-6).

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__________22 Nel ventre tuo si raccese l’amore, si legge nel c. XXXIII del Paradiso al v. 723 Si completa qui la circolarità della Commedia, da Maria a Maria si muove

l’impulso di Grazia che sostiene il cammino del viandante nei mondi ultraterreni.

S. Bernardo, il mistico, consegna a Dante la chiave, il “guado” “delo primo perché” 24.

Solo così nel canto XXXIII del Paradiso al di là delle acquisi-zioni razionali già prodotte, Dante può cogliere, attraverso la visio-ne estatica in un vincolo inestricabile d’amore, il quid sit dell’uni-verso:

“Nel suo profondo vidi che s’interna,legato con amore in un volume,ciò che per l’universo si squaderna:sustanze e accidenti e lor costumequasi conflati insieme, per tal modoche ciò ch’i’ dico è un semplice lume.” (Par. XXXIII, vv. 85-90)

Dunque, ciò che sarebbe assurdo per la logica umana diviene il va-lore culminante del processo dialettico e catartico della Commedia:

“ne la profonda e chiara sussistenzade l’alto lume parvermi tre giridi tre colori e d’una contenenza;e l’un da l’altro come iri da iriparea riflesso, e ’l terzo parea focoche quinci e quindi igualmente si spiri”.

(Par. XXXIII, vv.115-120)

e ancora:

“Quella circulazion che sì concettapareva in te come lume reflesso,da li occhi miei alquanto circunspetta,dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige:per che ’l mio viso in lei tutto era messo”

(Par XXXIII, v.127-132).

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__________24 Cfr. Purg. VIII, v. 69.

La mente percossa da un fulgore (cfr. vv. 140-141), improvvisa illu-minazione della Grazia, irrazionale ed ineffabile, appaga il desideriodell’intelletto; l’excessus mentis finale non contraddice l’esperienzarazionale, ma la supera, lasciandosi dietro il finito e l’umano, placan-do il disio e il velle ne

“l’amor che move il sole e l’altre stelle.” (Par. XXXIII, v.145).

Siracusa, aprile 2000

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INFERNO, c. XXVI

Ogni canto è una avventura nuova e suggerisce ai lettori e ai cul-tori danteschi immagini, suggestioni, percorsi analitici di volta in vol-ta diversi: questo in particolare ci ha indotto ad indagare tra le pieghedi un personaggio multiforme, qual è Ulisse, per cercare di carpire ilvero significato delle sue camaleontiche reincarnazioni – infatti è unavera araba fenice – nella storia letteraria sia classica che moderna.

Il XXVI canto dell’Inferno è certamente il passaggio centrale edobbligato di questo lungo percorso che attraversa secoli e secoli diproduzione letteraria, da Omero a Kazantzakis, che sono i limiti delnostro viaggio culturale, ma volendo citare Kerouac, molti Ulisse so-no ancora “on the road”.

Procedendo pur con qualche comprensibile difficoltà di sintesi sitenterà di dimostrare come l’Ulisse di tutti i tempi altri non sia chel’immagine di quel viaggio, reale od allegorico, mistico o materialisti-co, ma sempre esistenziale, in cui ciascuno di noi si proietta quandosi pone o un traguardo concreto o una meta ideale.

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grandeche per mare e per terra batti l’ali, e per lo ’nferno tuo nome si spande! 3Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali. 6Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. 9E se già fosse, non saria per tempo. Così foss’ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com’ più m’attempo. 12Noi ci partimmo, e su per le scaleeche n’avea fatto iborni a scender pria,rimontò ’l duca mio e trasse mee; 15e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra’ rocchi de lo scoglio

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lo piè sanza la man non si spedia. 18Allor mi dolsi, e ora mi ridoglioquando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, 21perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m’ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. 24Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ’l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, 27come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’e’ vendemmia e ara: 30di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. 33E qual colui che si vengiò con li orsi vide ’l carro d’Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi, 36che nol potea sì con li occhi seguire, ch’el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire: 39tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra ’l furto, e ogne fiamma un peccatore invola. 42Io stava sovra ’l ponte a veder surto, sì che s’io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz’esser urto. 45E ’l duca che mi vide tanto atteso, disse: “Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso”. 48“Maestro mio”, rispuos’io, “per udirti son io più certo; ma già m’era avviso che così fosse, e già voleva dirti: 51chi è ’n quel foco che vien si diviso di sopra, che par surger de la pira dov’ Eteòcle col fratel fu miso?” 54

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Rispuose a me: “Là dentro si martira Ulisse e Diomede, e così insiemea la vendetta vanno come a l’ira; 57e dentro da la lor fiamma si geme l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme. 60Piangevisi entro l’arte per che, morta, De_damìa ancor si duol d’Achille, e del Palladio pena vi si porta”. 63“S’ei posson dentro da quelle faville parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego e ripriego, che ’l priego vaglia mille, 66che non mi facci de l’attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi piego!”. 69Ed elli a me: “La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto;ma fa che la tua lingua si sostegna. 72Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto”. 75Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi: 78“O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco 81quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi”. 84Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica; 87indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: “Quando 90mi diparti’ da Circe, che sottrasse

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me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse, 93né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, 96vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore; 99ma misi me per l’alto mare apertosol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. 102L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna. 105Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi 108acciò che l’uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l’altra già m’avea lasciata Setta. 111“O frati”, dissi, “che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia 104d’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. 107Considerate la vostra semenza:fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. 110Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; 113e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. 116Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,

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che non surgëa fuor del marin suolo. 119Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo, 122quando n’apparve una montagna, brunaper la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna. 125Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;ché de la nova terra un turbo nacquee percosse del legno il primo canto. 128Tre volte il fé girar con tutte l’acque;a la quarta levar la poppa in susoe la prora ire in giù, com’altrui piacque, 131infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.

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ULISSE E DANTE: EROI OFF-LIMITS

Dante: “ Allor mi dolsi, e ora mi ridoglioquando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,e più l’ingegno affreno ch’i non soglioperché non corra che virtù nol guidi”

(Inf. XXVI, vv. 19-22)

Virgilio: “… per questo ciecocarcere non vai per altezza d’ingegno”

(cfr. Inf. X, vv. 58-59)

“ Vuolsi così colà dove si puoteciò che si vuole, e più non dimandare”

(Inf. III, vv. 95-96) *

È questo passaporto, consegnato al poeta da Virgilio, che consacrala direzione ascensionale del viaggio di Dante; esso è concepito cometensione verso Dio, come superamento di ogni limite umano dell’in-telletto, virtù divina concessa agli uomini per Grazia, che si profondanella luce della verità rivelata, abbandonandosi estaticamente alla vi-sione dell’ Amor che move il sole e le altre stelle:

“perché appressando sé al suo disire,nostro intelletto si profonda tanto,che dietro la memoria non può ire” (Par. I, vv. 7-9)

È il viatico ascetico che manca ad Ulisse, il cui viaggio si muove inuna dimensione orizzontale, diretto verso Occidente, là dove il sole,francescanamente simbolo della Grazia divina, volge al tramonto, esempre acquistando dal lato mancino (ib. v. 116).

Pur percorrendo itinerari diversi, l’uno mistico e l’altro terreno, è

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* I versi danteschi che introducono la conversazione e le battute di dialogotra Dante e Virgilio sono un nostro gioco letterario.

analogo in entrambi i viaggi il senso del superamento del limite uma-no, che accomuna Dante ed Ulisse in una incessante ricerca di verità,controcorrente rispetto alla loro società e alle manifestazioni cultura-li che le sono proprie.

Ulisse e Dante, gli eroi off-limits del mito e della storia, si con-frontano idealmente nel canto XXVI attraverso la mediazione di Vir-gilio, che si offre quale interlocutore naturale fra la cultura classica, dacui emerge la figura di Ulisse, e quella medioevale, di cui Dante in-terpreta lo spirito e la mentalità.

Tale sintesi culturale è inaspettatamente propria anche dei poemiomerici, in cui la figura di Ulisse coagula elementi antichissimi, rac-conti favolosi di naviganti cretesi o egiziani addirittura pre-greci, risa-lenti al II millennio a.C., con i νο′στοι e la leggenda troiana. AncheOmero riscopre in Ulisse nuove suggestioni, lo spirito ionico in asce-sa che si oppone alle origini storiche del popolo ellenico, incarnate nelpoema da Achille: saggia avvedutezza dell’uno contro nobile oltranzadell’altro, abile diplomazia contro dura intransigenza, calcolata consi-derazione dell’utilità contro lo slancio generoso dell’idealismo. È giàfigura moderna, nell’Odissea di Omero, quest’Ulisse sincretico, pattoper il futuro (cfr. Od. XXIV v. 546), ed è da quest’ultimo che trae ori-gine il mito dell’eroe non pago dell’approdo, l’immagine dell’eternoavventuriero che, non frenato né da patria né da affetti, simboleggiala ricerca incessante ed energica d’un confine lontano, d’un territorioulteriore, di terra sconosciuta da abitare. L’Ulisse dell’Odissea è quin-di il colonizzatore dell’VIII sec., l’ecista del Mediterraneo che animaanche la fantasia di Livio Andronico nell’Odysìa: il πολυτρε′πων, mo-bilissimo ed attivo dell’Odissea subentra al πολυ′τροπος, scaltro emutevole dell’Iliade, e penetra con fortuna nel mondo romano, allor-quando esso si appresta all’espansione politica e culturale nella Ma-gna Grecia.

L’ascendenza della poesia omerica rivendica certamente Virgilioquando si propone nella Commedia come interlocutore di Ulisse, nonsolo in quanto poeta epico, quando nel mondo li alti versi scrissi (ib. v.82), ma anche quale corretto interprete del mito-storico, perché con-sacrato dalla tradizione, dell’eroe secondo i parametri dell’Iliade: nel-l’Eneide come nell’Iliade, infatti, Ulisse è privo di virtù morali, piut-tosto lo si appella quale “seducente”, “funesto” e “inventor scele-

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rum” 1 per evidenziarne i tratti del politico consumato, che complot-ta ai danni del pius Aeneas, l’eroe giusto destinato ad essere il capo-stipite della gens Giulia, come Dante sottolinea nel nostro canto ondeuscì dei Romani il gentil seme (ib. v. 60).

Certo, il giudizio inclemente di Virgilio nei confronti di Ulisse ap-pare una voce isolata nel mondo romano del I sec. a.C. 2, poiché davarie altre fonti sembrano emergere i tratti umani del personaggiodell’Odissea, insaziabile indagatore di conoscenza e pioniero delmondo. Cicerone, nel “De finibus bonorum et malorum” (V, 18, 48 esegg.) riconosce in Ulisse il simbolo dell’ardore di sapere, innato ne-gli uomini sin dall’ infanzia, anche inconsapevolmente: “Ed invero, ildesiderio di sapere ogni cosa, di qualunque genere sia, è proprio dellepersone curiose; ma il sentirsi attratto al desiderio di sapere dalla con-templazione dei fenomeni più importanti è da ritenersi degli uominisommi”. Ed individua proprio nell’episodio delle Sirene, che soleva-no richiamare i naviganti non per la dolcezza della voce, ma perchédichiaravano di sapere molte cose, il mito della conoscenza e il mitodi Ulisse desideroso di sapienza. Inoltre nel “De officiis” (III, 26)l’autore esalta l’honestum consilium che spinge l’eroe greco ad ab-bandonare il vivere ozioso ad Itaca e gli affetti familiari pur di perse-guire la gloria attraverso quotidiane fatiche e pericoli; immagine, que-sta, sicuramente presente alla fantasia dantesca, e coincidente con lasua esperienza personale, come appare dai vv. 94-99 del canto in og-getto:

“né dolcezza di figlio, né la pietadel vecchio padre, né ’l debito amorelo qual dovea Penelopè far lieta,vincer potero dentro a me l’ardorech’ i’ ebbi a divenir del mondo espertoe de li vizi umani e del valore”

Anche Orazio vede in Ulisse un “exemplar” (Ep. I, 2, 18) fornito-

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__________1 En. II, col che si intende conferire debito rilievo alla sua trascinante facondia.2 Potrebbe essere una prova dell’intento encomiastico nei confronti di Augusto.

ci da Omero per rivelarci “quid virtus et quid sapientia possit” (cfr., v.17), nell’atto di guardare attentamente e da ogni parte l’alto mareaperto (ib. v. 100) 3. In questa fonte latina l’eroe viene presentato nel-la disposizione di colui che è attratto dal canto delle Sirene, che gliconsegnano la conoscenza, mentre si sottrae saggiamente al filtro del-la maga Circe, etimologicamente “uccello rapace”, che abbrutisce l’a-nimo e rapisce le potenzialità dell’ingegno. Anche questa ci è appar-sa una fonte particolarmente gradita all’immaginario dell’Alighieri,che ricorre agli stessi termini virtute e canoscenza (ib. v. 120), prescel-ti da Orazio. Inoltre nel testo il poeta fa espresso riferimento al sog-giorno di Ulisse nel promontorio Circeo, quale punto di partenza ver-so nuove mete agognate o sconosciute (ib. v. 91).

Le peripezie del nostro eroe trovano ampia risonanza nelle Meta-morfosi di Ovidio 4 (ma Ulisse è presente anche nell’Heroides e nel-l’Ars amatoria); nelle Metamorfosi l’eroe, sempre a proposito dell’e-pisodio di Circe, viene rappresentato come il vendicatore dei compa-gni, resi “tardi” 5 dall’insidiosa pozione della maga e da lui costretti aprendere il mare. In Seneca, infine, nel “De costantia sapientis” (II,2) Ulisse ci appare come il prototipo del saggio stoico, che affrontadure prove, spregia il piacere e vince il timore pur di conseguire la sa-pientia mundi, intesa dal filosofo di età imperiale come studium vir-tutis, tutti caratteri sicuramente affini a quelli intellettuali dell’eroedantesco.

Dante recepisce in vario modo le fonti latine sul personaggio grecoe, pur senza averne consapevolezza, poiché non conosce direttamentequelle greche, nell’interpretarne poeticamente il mito, recupera quellavisione sincretica e moderna che anche i poemi omerici ci tramanda-no: l’Ulisse di Dante è sia il πολυ′τροπος dell’Iliade, arrogante per lasfrenata esuberanza del suo ingegno e della sua eloquenza e perciò ir-retito in una lingua di fuoco che si porta in giro per la bolgia come cor-relativo oggettivo della sua fraudolenza, sia il πολυτρε′πων dell’Odis-

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__________3 In Orazio: “latumque per aequor”, v. 20.4 Ovidio, Metamorfosi, libri XIII e XIV.5 Si usa lo stesso termine in Ovidio, Met. XIV, 436 / Inf., XXVI, 106

sea, che diviene ora figura del navigatore medievale, esploratore dinuove rotte, come i fratelli Vivaldi e Tedisio Doria, che nel 1291 nonavevano fatto ritorno dal viaggio intrapreso per affrontare l’Oceano. Eper di più, ammantato di quell’alone avventuroso che gli conferisce an-che l’identità del moderno cavaliere – non tanto “senza macchia”quanto “senza paura” – l’Ulisse di Dante tradisce la suggestione ope-rata dai romanzi bretoni, in ispecie dal libro de Alexandre e dall’Ale-xandreis di Gautier: circostanze precise, intrecci, temi peculiari si cor-rispondono fino a dare adito a riproduzioni lessicali specifiche, per cuil’Alessandro di Gautier è detto “vesanus” o “demens” così come il viag-gio di Ulisse è detto folle. Ci riporta, inoltre, all’individuazione di fon-ti medioevali l’espressione perduto a morir gissi (cfr. ib. v. 84), spia sco-perta di quello spirito avventuroso che connota tanta tradizione ro-manza e che viene rielaborato poeticamente da Dante in chiave squisi-tamente religiosa.

Perduto e folle sono pertanto i termini centrali e complessi del can-to di Ulisse, da cui riteniamo di dover prendere avvio poiché essi con-notano perfettamente l’esperienza senz’altro infruttuosa, ma non ne-cessariamente negativa, dell’ardore temerario dell’intelletto attratto dalmistero della conoscenza. Essi, infatti, in una forma estesa di medietaslinguistica si riferiscono tanto alla “calliditas” di Ulisse, tramandata aDante da Virgilio, da Seneca nelle Troades e da Stazio nell’Achilleide 6,ed è questa – a nostro avviso – l’unica vera ragione della sua dannazio-ne eterna, quanto alla sua “caliditas”, suffragata da tutte le altre fontigià citate e recepita anche dall’arditezza dei versi del nostro canto:

“Considerate la vostra semenza:fatti non foste a viver come bruti,ma per seguir virtute e canoscenza” (ib. vv. 118-120)

Questi versi trovano precisa consonanza col trattato del Convivio,in cui Dante conferma il giudizio del suo Aristotele, secondo il quale“tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere” (Conv. I, 1), se-parando i bruti, che vivono solo per conservare se stessi e non aspira-

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__________6 Stazio, Achilleide: blandus, I, 911.

no ad elevarsi (Conv. III), dagli uomini, la cui ultima felicità è la scien-za: non consiste, dunque, nel ricercarla la colpa di Ulisse, quanto nel-la sua mancanza di umiltà nel conseguirla; l’umiltà è infatti virtù pro-pria dei magnanimi; lo stesso Dante sovente ne paventa l’insufficien-za per se stesso ed è compito del magnanimo Virgilio incoraggiarlo avarie riprese:

… “La tua preghiera è degnadi molta loda”… (cfr. ib. v. 70-71)

Orbene, “magnanimo” – secondo S. Tommaso nel commento al-l’Etica Nicomachea – è chi non si affida al giudizio personale nel defi-nire i propri meriti e soprattutto nel predisporsi all’azione, ma si ren-de, fuor di ogni presunzione, effettivamente degno di essa: magnanimisono gli spiriti del Limbo, raccolti in un luogo appartato e luminoso,uomini che hanno lasciato di sé onrata nominanza 7; tutti pagani e tut-ti noti per la loro incessante ricerca di conoscenza, come emerge anchedal canto III del Purgatorio in cui, a proposito del rapporto fra Fede eRagione, Virgilio rievoca con amarezza la finitezza propria e di quanticondividono con lui lo stato di sospensione dalla Grazia:

“e disiar vedeste sanza fruttotai che sarebbe lor disio quetato,ch’etternalmente è dato lor per lutto:io dico d’Aristotile e di Platoe di molt’ altri”; e qui chinò la fronte,e più non disse, e rimase turbato” . (Purg. III, vv. 40-46)

La magnanimità non garantisce pertanto la conoscenza, ma ne costi-tuisce il pre-requisito indispensabile, ed è in antitesi con la follia, poichéla prima è virtù cardinale, anzi summa di virtù che presiedono alla vitaattiva, simboleggiate da Dante nelle quattro stelle del polo antartico

“non viste mai fuor ch’a la prima gente” (Purg. I, v. 24);

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__________7 Cfr. Inf. c. IV, v. 76.

esse brillano sul volto di Catone l’Uticense, anch’egli magnanimo pa-gano assurto ad allegoria della libertà morale dal peccato. Non è uncaso che sia proprio Catone , infatti, ad esortare Virgilio a recingereDante d’un giunco schietto, simbolo dell’umiltà, appunto, prima diprender il monte a più lieve salita (Purg. I v. 108), perché è questa checonforma l’accettazione del proprio destino alla volontà di Dio. L’al-tra, invece, la follia è eccesso di magnanimità, ossia la virtù che per ar-roganza e temerarietà trabocca, inabissandosi così dinanzi alla visionedella “bruna montagna” della salvezza che, tanto alta da apparire in-sormontabile alle potenzialità, per quanto eccelse, dell’uomo finito,s’erge nel mondo sanza gente (cfr. ib. v. 117).

È senz’altro singolare che il folle volo di Ulisse (cfr. ib. v. 125) si ri-proponga anche nel canto XXVII del Paradiso, in cui il Poeta, guar-dando verso il basso dalla costellazione dei Gemelli, individua nonpiù le colonne d’Ercole, ma il varco/ folle di Ulisse (cfr. Par. XXVII,vv. 82-83), quasi a voler sottintendere che il gesto di quell’uomo au-dace ha squarciato in realtà l’orizzonte, creando un varco, uno sfon-damento, laddove la superstizione medievale aveva posto il limite:

“dov’ Ercule segnò li suoi riguardiacciò che l’uom più oltre non si metta” (ib. vv. 108-109) 8

Se Ulisse compie, dunque, un viaggio temerario, al di fuori dellagiusta misura, in preda ad una libidine di conoscenza, per cui l’istin-to naturale di sapere innato nell’uomo – secondo Aristotele – divienein lui quasi peccato di incontinenza, che sottomette la ragione al ta-lento – secondo S. Tommaso –, dal canto suo Dante teme che la suavenuta non sia folle (cfr. Inf. II v. 35), ossia esita ad intraprendere ilsuo viaggio, avvertendolo come un colpevole ardimento: incide sen-z’altro sul suo atteggiamento quella disposizione filosofica scolasticache fa intendere la virtù come freno morale, inducendolo ad affidarsiumilmente a Virgilio, simbolo della ragione, che lo rassicura:

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__________8 Cfr. G. Leopardi, Ginestra vv. 82-86...“e appelli...solo...magnanimo colui che se schernendo o gli altri, astuto o folle, fin sopra gli astri il mortal grado estolle.”

… “tre donne benedettecuran di te ne la corte del cielo” (Inf. II, vv. 124-125)

Il consenso viene direttamente da Dio.Ne consegue che il dovere dell’umiltà non è soltanto un precetto

cristiano, ma, precorrendo la cultura umanistica, è per Dante dotedell’uomo in quanto tale. Ne godono infatti allo stesso modo Enea ePaolo, l’uno pagano e l’altro cristiano, entrambi eletti ad un viaggioesoterico in virtù della loro magnanimità.

“Io non Enëa, io non Paulo sono;me degno a ciò né io né altri ’l crede”

afferma Dante nel II canto dell’Inferno (v. 32-33). Enea e Paolo sonostati destinati entrambi alla conoscenza del mistero, l’uno proiettatonella visione della progressione storica:

“ch’e’ fu dell’alma Roma, e di suo imperone l’empireo ciel per padre eletto:la quale è ’l quale a voler dir lo vero,fu stabilita per lo loco santou’ siede il successor del maggior Piero” (Inf. II, vv. 20-24)

e l’altro, lo Vas d’elezione 9, rapito in un excessus mentis fino alla bea-titudine del terzo cielo:

“Andovvi poi lo Vas d’elezïone ,per recarne conforto a quella fedech’è principio a la via di salvazione” (Inf. II, vv. 28-30) 10.

Quindi l’uno è depositario della felicità terrena, l’altro di quellaultraterrena. Dante, che si interroga: “Ma io perché venirvi? O chi ’l

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__________9 Act. Apost. IX, 15 e Par. XXI, 127: “il gran vasello”.10 Anche San Paolo nell’epistola ai Corinzi (II, XII, 4) dice di essere stato ra-

pito in Paradiso e di avervi udito “arcana verba quae non licet homini loqui”.

concede?” (Inf. II v. 31) è immagine sincretica di entrambi: renova-tor orbis, è prescelto per grazia divina a compiere un viaggio alle-gorico attraverso la storia dell’umanità fino alla redenzione, chiama-to alla conoscenza della storia terrena ed alla trasfigurazione escato-logica di essa attraverso i vari regni oltremondani. Dante procedepertanto, con l’ausilio della RATIO-Virgilio, ma soprattutto con l’au-torizzazione della FIDES-la grazia, verso la conoscenza del mistero;Ulisse, invece, è sollecitato dalla umana curiositas verso il misterodella conoscenza: per il primo intercede S. Bernardo con la pre-ghiera alla Vergine, poiché

…“qual vuol grazia e a te non ricorre,sua disianza vuol volar sanz’ali” (Par. XXXIII, v. 14-15),

l’altro accende l’animo dei compagni con un’ orazion picciola (ib.v.122) e

“e volta nostra poppa nel mattino,dei remi facemmo ali al folle volo” (ib. v. 124-125).

Le immagini appena citate appaiono analoghe ed ossimoriche in-sieme: simmetrici sono i significati semantici della parola “preghiera”e “orazione” 11, ma antitetiche sono le finalità di tali immagini, poichél’una, la preghiera di S. Bernardo, è rivolta ad ottenere la visione bea-tificante del mistero della Trinità, mentre l’altra, l’orazion picciola diUlisse, sostiene la causa della conoscenza, dello sconfinamento

… “in sul lito diserto,che mai non vide navicar sue acqueomo, che di tornar sia poscia esperto” (Purg. I, vv. 130-132).

E ancora, le ali del desiderio di Dante, sostenute dalla volontà di-

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__________11 La parola preghiera è ripetuta per ben 6 volte dal v. 29 al v. 42 nel XXXIII

c. del Par., e 4 volte dal v. 64 al v. 70 nel XXVI c. dell’Inf. ed inoltre “prieghi” e“priego” ricorrono sia come sostantivi che come forme verbali.

vina, lo conducono al conseguimento della vita eterna, mentre i remidella nave di Ulisse sono le ali che gli fanno librare quel volo della fol-lia in conseguenza del quale, volgendo le spalle alla Grazia, simboleg-giata dal mattino (v. 124), egli vedrà la prora ire in giù, com’altrui piac-que (v. 141) ed il mare richiudersi su di lui e sulla sua “picciola com-pagna” in una sentenza inesorabile di morte. Peraltro, l’immagine dei“remi che sono ali alle navi” è un interessante calco dell’XI libro del-l’Odissea, in cui compare il vaticinio del viaggio di Ulisse ad opera diTiresia:

“E quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spentoo con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato,allora parti, prendendo il maneggevole remo, perché a genti tu arrivi che non conoscono il marenon mangiano cibi conditi con sale,non sanno le navi dalle guance di minioné maneggevoli remi che sono ali alle navi” (vv. 119-125) 12

Il presagio di Tiresia si è avverato: Ulisse non è rimasto cristalliz-zato nell’opera di Omero, ma è l’eterno viaggiatore che, approdatodopo vari scali nell’opera di Dante, da essa ha tratto nuovo impulso;il suo naufragio non lo consegna alla morte, ma ad una vita rinnovatanella letteratura mondiale. Molti autori si sono confrontati con il loroUlisse, personaggio concreto o fantasma del loro immaginario, chepuò operare scelte di vita non consentite, che viola i luoghi comunidel sapere e dell’essere, che osa percorsi mai tentati, che supera co-lonne d’Ercole invisibili.

Questa tensione romantica verso l’oltranza, che sembrerebbe ri-solversi in una volontà di rivolta contro l’ordine divino, ha creato in-torno al personaggio di Ulisse un alone sentimentale che non appar-tiene realmente al testo dantesco, ma quest’alone è comunque ravvi-sabile in tanti altri Ulisse della letteratura dell’Ottocento e del Nove-

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__________12 Odissea, Einaudi Torino 1981 - trad. Rosa Calzecchi Onesti. Straordinaria

coincidenza per un poeta che ignora il greco.

cento, da cui spira un’aura prometeica o intimistica, assai più conso-na alle conflittualità moderne.

L’Ulisse di Foscolo è nel sonetto “A Zacinto”: l’eroe positivo ap-pare come l’alter ego del poeta; come lui è bello di fama e di sventura,è lontano dalla patria, di cui sente intensamente la nostalgia e, nel-l’atto di tornare alla sua petrosa Itaca, ne bacia devotamente il suolo.Ulisse è, dunque, il fantasma di Foscolo che approda, che rinuncia alviaggio e risolve finalmente il dramma esistenziale dell’esilio. Que-st’Ulisse, solo apparentemente classico, è al contrario la trascrizionesentimentale delle più profonde aspirazioni del poeta, ben lontanodal personaggio mitologico dell’Iliade, che ricompare invece nella tra-gedia “Aiace” e nel carme “Dei Sepolcri”, in cui i tratti della tradi-zione più antica, ossia quelli del πολυ′τροπος, riemergono privi di fil-tri psicologici ed Ulisse torna così ad essere l’eroe della ragion di sta-to, l’uomo dal senno astuto:

“né senno astuto, né favor di regiall’ Itaco le spoglie ardue serbava,ché alla poppa raminga le ritolsel’onda incitata dagl’inferni Dei” (vv. 222-225)

Lo streben – l’ansia di assoluto – accomuna anche due persona-lità così diverse, come Ulisse e Leopardi; il confronto fra i due è ov-viamente indiretto, ma i punti di consonanza tra l’Infinito di Leo-pardi e il folle volo dell’Ulisse dantesco ci sono apparsi degni di ri-lievo: la siepe leopardiana è il limite del finito che ostacola la vista,ma non l’attingimento d’un infinito spaziale e temporale, colto dal-la facoltà immaginativa dell’uomo, che dolcemente naufraga in unmare interminato ed eterno. La foce stretta (cfr. ib. v. 107) segna an-che nel nostro canto il limite invalicabile del mondo conosciuto: l’in-finito oceano che si spalanca al di là di essa da l’altro polo (cfr. ib.v. 127) è metafora della condizione ultraterrena che l’eroe antico,pur con le sue straordinarie doti intellettive, non può navigare ed ilsuo tentativo di farlo non si risolve in un dolce naufragar, ma nel ti-more della sconfitta:

“Noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto” (cfr. ib. v. 136).

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Al di là, quindi, del valore religioso o materialistico di questo infi-nito pur sempre metafisico, entrambi muovono da una intima solleci-tudine di conoscenza, ma in Leopardi all'insufficienza dei sensi sub-entra il mi fingo, che sancisce il successo dell’attività del pensiero,mentre in Ulisse all’esaltazione dell’ingegno fa seguito il fallimentodell’esperienza sensibile:

“d’i’ nostri sensi ch’è del rimanentenon vogliate negar l’esperienza” (cfr. ib. vv. 115-116).

Ma la trascrizione romantica più suggestiva dell’Ulisse dantesco èquella operata dal poeta inglese A. Tennyson nel 1842: l’eroe ormaivecchio, ma risoluto a non consumare l’ultima parte della sua esisten-za nell’ozio, ad arrugginire non combusto, sceglie di vivere l’estremaavventura della conoscenza:

“A che serve essere un re oziosodavanti ad un focolare tranquillo…”“ Non mi so frenare dal viaggiare: voglio berela vita fino alla feccia…”

Come l’Ulisse dantesco anche questo titano dell’Ottocento indivi-dua il senso della sua vicenda personale come parte della vita univer-sale che è in lui:

“Io sono una parte di tutto ciò che ho conosciuto;eppure tutta l’esperienza è un arco attraverso il qualeluccica il mondo inesplorato, i cui confinisbiadiscono per sempre quando mi muovo”

To follow knowledge, seguire la conoscenza, dice il poeta, è dun-que l’aspirazione dell’eroe e navigar fin oltre il tramonto, com’eglistesso confessa ai fidi marinai, ormai vecchi come lui.

Le consonanze col testo dantesco non possono passare inosserva-te: il termine esperienza ricorre nel nostro canto al v. 116 nello stessocontesto e con la stessa accezione, cui fa seguito quel seguir virtute ecanoscenza del v. 120, inteso proprio come tensione massima d’uno

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spirito condannato entro i limiti della materia, che Dante peraltro in-dividua nella brutalità del mondo animale; analoga ancora l’allocu-zione ai marinai, compagni di cento mila perigli (cfr. ib. vv. 112-113),a cui Ulisse fa intravedere il fascino di nuove conquiste; ma il rischioconnesso alla loro scoperta è tutto nuovo nell’Ulisse di Tennyson e ri-vela una malinconia latente, pur nell’enunciata speranza di raggiun-gere le Isole Felici, plaghe edeniche ben più ridenti della bruna moledel Purgatorio dantesco.

La tempra di questo Ulisse è quella sentimentale e umana d’uncuore eroico, reso debole dal tempo e dal destino, ma ancora forte nellavolontà di lottare interiormente, di cercare e trovare, senza mai arren-dersi, senz’altro privo di quella superbia intellettuale che costringel’Ulisse dantesco alla morte.13

Per l’Ulisse di Dante e di Tennyson, dunque, esistere equivale a co-noscere il mondo e se stessi (Tennyson: myself, v. 16); per l’Ulisse diPascoli invece, l’esistenza non è un viaggiare, ma un vagare senza me-ta e senza comprendere il valore del proprio essere:

“E il mare azzurro che l’amò, più oltrespinse Odisseo, per nove giorni e notti,e lo spinse all’isola lontana,” 14 (vv. 1-3)

È l’Ulisse dell’esistenzialismo decadente, che ripercorre la rotta deisuoi viaggi, vecchio e stanco, non per librarsi nel folle volo, ma per ap-prodare ad Ogigia, all’ isola deserta che frondeggia / nell’ombelico del-l’eterno mare (vv. 43-44): un ritorno ai luoghi ancestrali della memoriatra le braccia della “nasconditrice”, di Calypso, che è morte e madre 15:

“Era Odisseo: lo riportava il marealla sua dea: lo riportava mortoalla Nasconditrice solitaria,all’isola deserta che frondeggia

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__________13 Cfr. A. Tennyson: Ulisse (vv. 68-70), parafrasi.14 Pascoli: I poemi conviviali: L’ultimo viaggio, Calypso.15 Significativo, quasi lapsus freudiano, è il termine ‘ombelico’ che rivela l’in-

nell’ombelico dell’eterno mare.Nudo tornava chi rigò di piantole vesti eterne che la dea gli dava;bianco e tremante nella morte ancora,chi l’immortale gioventù non volle. (vv. 40-48)

Calypso è l’unica depositaria della risposta all’insistente interroga-tivo posto da Ulisse: “Chi sono io?” ed è lei che ulula sul flutto sterileall’eroe:

“Non esser mai! non esser mai! più nulla,ma meno morte, che non esser più” (vv. 52-54).

La sdegnosità di Ulisse nel canto dantesco, rivelata da Virgilio evariamente interpretata dai critici 16, trova la sua più diretta estensio-ne nel mito del superuomo, dell’Ulisside-D’Annunzio in Maia. Il va-te si identifica con Ulisse e riproduce nel proprio viaggio in Ellade larotta esplorativa di Odisseo nello Ionio: in essa, però, viene meno ladimensione umana dell’Ulisse dantesco che, uomo tra gli uomini, co-involge il proprio equipaggio nell’esperienza de li vizi umani e del va-lore (v. 99), appellandolo o frati (v. 112) e li miei compagni (v. 121), ri-conoscendo la loro fedeltà e la loro amichevole complicità, fino ad as-similarli dal v. 125 nell’identità di soggetto. L’Ulisse superuomo sde-gna invece la compagnia altrui, va alla ricerca dell’anima pagana delmondo e proclama la propria smisurata grandezza, affidandola ai ver-si del poeta:

“e in me solo credetti.Uomo, io non credetti ad altravirtù se non a quella

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capacità di Pascoli di spezzare il cordone ombelicale con la madre. Altrettantosignificativo e spia della personalità dell’autore la traduzione etimologica di Ca-lipso, che deriva dal verbo greco καλυ′πτω (nascondo).

16 Ch’ei sarebbero schivi, / perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto (cfr. ib. vv. 74-75).

inesorabile d’un cuorepossente. E a me solo fedeleio fui, al mio solo disegno”.

“Nessuna cosami fu aliena;nessuna mi saràmai, mentre comprendo.Laudata sii, Diversitàdelle creature, sirenadel mondo!…

Tutto fu ambitoe tutto fu tentatoQuel che non fu fattoio lo sognai;e tanto era l’ardoreche il sogno eguagliò l’atto” 17.

In una situazione originale un Ulisse giovane ed uno vecchio siconfrontano nel componimento omonimo del Canzoniere di Saba. Ilgiovane Ulisse, stranamente, si è negato l’esperienza del viaggio in altomare:

“ Nella mia giovinezza ho navigatolungo le coste dalmate” (vv. 1-2)

Il vecchio, invece, osa l’avventura:

“ me al largosospinge ancora il non domato spirito” (vv. 11-12)

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__________17 D’Annunzio, Maia, L’incontro di Ulisse, vv. 55-60; La Sirena del mondo, vv.

43-49; vv. 106-111. Riguardo al termine “sirena” cfr. Cicerone, De finibus bono-rum et malorum (V, 18, 48 e segg.) e Orazio, Ep. I, 2, 18.

In questo viaggio l’eroe-poeta abbandona i porti sicuri destinati adaltri e si slancia al largo, senza sfuggirne l’insidia, disposto ad esseretravolto dall’alta marea e dalla notte (sono parole di Saba). Il solipsi-smo che caratterizza tanti eroi del Novecento è enfatizzato nel com-ponimento dai versi:

“ Oggi il mio regnoè quella terra di nessuno” (vv. 9-10)

Ma il vero πολυτρε′πων moderno, mimetico e multiforme è l’Ulis-se-Leopold Bloom di J. Joyce, approdato solo fisicamente alla meta,ma intellettualmente alla deriva tra i suoi pensieri, tra il passato ed ilpresente in lui strettamente coesistenti: è un navigante senza rotta neivicoli di Dublino, senza punti di riferimento perché privo di punti divista, intento alla molteplicità dell’esperimento e non all’unicità del-l’esperienza. Questo anti-eroe moderno, che calato nella quotidianitàsi mostra a volte cinico, a volte sprovveduto, è uno spaccato di un’u-manità in cui si sono sovvertiti i valori ed in lui “l’insignificante è il si-gnificativo, il volgare è l’eroico, il familiare è l’esotico e viceversa” 18.

Con l’Odissea di N. Kazanthzakis (1938) l’eroe classico ritorna avivere in un moderno poema epico greco, che trae inizio là dove siconclude quello omerico: il tema sinfonico è costituito dalla riflessio-ne sul destino umano, sulla libertà, sulla morte. La riflessione sul de-stino umano rende inquieto il re, che ritornato ad Itaca rifiuta l’ozioed i legami familiari, rappresentati dalla razionalità di Telemaco, perintraprendere la conquista del mondo. In un primo appello ai suoimarinai egli esalta il valore del viaggio come conquista della libertà:

“ Libertà non è vino, fratelli, né dolce donnaneppur benessere nelle dispense vostre e figlio in culla”

(Od. I, 54-55)

I versi riecheggiano quelli del nostro canto, già citati, dal 94 al97; anche l’invito incalzante e ripetuto “Ehi, compagni di viaggio,

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__________18 D. Daiches: Storia della letteratura inglese, II, Garzanti, p. 730.

ai remi, il capitano giunge” (I, v. 70) richiama certamente il moti-vo dantesco e rivela l’amore dell’autore greco per la Commedia, dalui tradotta e assimilata alle sue esperienze di viaggi e cultura. L’e-roe omerico e dantesco di Kazanthzakis compie il suo viaggio, co-me avviene per Dante, sul piano fisico e metafisico, accostando luo-ghi e tempi lontani e tracciando un percorso ideale popolato di im-magini e figure storiche: Sparta e Creta, S. Francesco e Buddha. Ilnostro insaziabile navigatore si perde nella sconfinata desolazionedel mare sopra un iceberg; su questa zattera, gli è compagna lamorte, con la quale affronta l’ultimo colloquio sul senso della vita.La risposta che l’Ulisse di Kazanthzakis ci affida è un enigmaticosorriso.

Se l’Odissea si configura come il racconto del νο′στος di Ulisse, ilrientro e l’approdo definitivo alle proprie origini ed ai propri affetti,dal canto XXVI dell’Inferno in poi il peregrinare dell’eroe si realizzacome esodo, l’uscita del genio dai chiusi serrami delle porte della na-tura, per dirla con Lucrezio 19.

È esodo anche il viaggio di Dante: come il popolo eletto sotto laguida di Mosè nel libro dell’Esodo si muove dalla cattività egizianaper raggiungere la terra promessa, così Dante, dietro la scorta dellesue guide, si libera dall’intrico della selva per giungere all’Empireo,sede di Dio. Ma, a ben vedere, eccetto quello di Foscolo, è esodo ilviaggio di tutti gli Ulisse da noi esaminati; esodi di volta in volta di-versi nello spirito e nelle mete: fughe, alienazioni, introspezioni, me-ditazioni esistenziali. In ognuna di queste svariate forme di viaggioUlisse si trascina dietro il fardello di esperienze personali, di cultura,di sogni, frustrazioni ed inquietudini del suo autore, che inevitabil-mente lo travolgono come fossero le onde di quel mare in cui egli con-tinuamente si immerge. È per questo che nessun Ulisse ne viene fuo-ri vittorioso o s’appaga d’un traguardo raggiunto e sembra fino infondo conseguire quella conoscenza del mondo e di sé di cui va allaricerca.

La risposta a questo disagio esistenziale, metaforicamente indivi-

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__________19 Lucrezio: De rerum natura, I, v. 71.

duato in Ulisse da tanti intellettuali, non la daremo noi, ma l’affidere-mo alle parole di Seneca:

…“Ti stupisci, come di un fatto strano, di non essere riuscito a dis-sipare la tristezza ed il tormento del tuo cuore con un viaggio così lun-go e con la varietà dei luoghi da te visitati? devi mutare l’animo, non ilcielo. Anche se attraverserai il mare immenso […] dovunque andrai, ituoi vizi ti seguiranno. Ad un tale che rivolgeva la stessa domanda, So-crate rispose: ‘perché ti stupisci che i viaggi non ti rechino alcun giova-mento, dal momento che porti in giro te stesso? Lo stesso motivo che tiha cacciato lungi dalla tua casa, non cessa di tormentarti’. Che sollievopuò darti visitare nuovi paesi, conoscere nuove città o contrade? Cote-sta agitazione è vana. Tu chiedi perché pur vagabondando da un luogoad un altro non ti senti meglio? Vagabondi in compagnia di te stesso…agiti un malato.” 20

L’unico vero naufrago che

“uscito fuor dal pelago a la rivasi volge a l’acqua perigliosa e guata” (Inf. I, vv. 23-24)

è Dante; solo il suo viaggio è vero appagamento e vera conoscenza:

“Per correr miglior acque alza le veleomai la navicella del mio ingegno,che lascia dietro a sé mar sì crudele” (Purg. I, vv. 1-3)

Siracusa, dicembre 1998

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__________20 Seneca: Ep. Ad Lucilium, III, 28.

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PURGATORIO, c. XI

L’XI canto del Purgatorio è tra tutti quello che meglio si presta al-l’indagine sul mondo dell’arte duecentesca che ci accingiamo a tratta-re; è significativo che nel presentare i superbi si parli di arte, si discu-ta sul cambiare delle mode estetiche e sull’effimera vanagloria: perchéchi se non l’artista ha spesso la presunzione di sentirsi creatore e l’am-bizione di rimanere eterno nella memoria dei secoli?

La figura centrale del canto è infatti Oderisi da Gubbio, noto mi-niatore del Duecento, e purtroppo assai meno conosciuto ai giorninostri, a cui Dante affida significativi giudizi critici sulla miniatura, lapittura e la poesia contemporanee, facendo di lui quasi il depositariodella sua stessa concezione estetica. Il canto suddetto, inoltre, non èisolabile dal precedente e dal seguente, coi quali costituisce un tritti-co di spiccato gusto medievale; e questi ultimi in particolare, attra-verso le descrizioni dei bassorilievi che il poeta vi inserisce, ci con-sentono di volgere lo sguardo anche alla fioritura della scultura coevae di individuare in essa visibili contatti con la poetica dantesca.

Questo canto, insomma, studiato dalla critica per il Padre Nostroiniziale o per la statura poetica dei tre personaggi che vi campeggianoo ancora per l’allusione all’esilio di Dante, è per noi l’humus naturale,dal quale far germogliare la folta messe delle arti figurative del tempo,filtrate attraverso la sensibilità del poeta. La nostra intenzione è dunquequella di farvi osservare l’arte dell’ultimo ventennio del Duecento at-traverso la lente della Commedia, che la recepisce, la discute, la valutae spesso la trascende, sintetizzandola nei suoi singolari esiti poetici.

Infine, il canto dei superbi nel Purgatorio rimanda immediatamente aquello dell’umiltà francescana nel Paradiso: la corrispondenza tra i cantiundicesimi delle due cantiche è innegabile ed emerge anche da alcuni ri-chiami interni, quali gli echi francescani del Padre Nostro (laudato sia ’ltuo nome e ’l tuo valore / da ogne creatura) o la stessa citazione bonaven-turiana utilizzata a proposito di Provenzan Salvani (Omni verecundia de-posita, mendicavit); ma a nostro avviso in quest’ottica si prospetta legitti-mamente anche un confronto con l’opera di Giotto ad Assisi, non a casochiamato in causa da Oderisi nella sua accorata esecrazione della vana-gloria artistica. Sul valore autentico dell’umiltà, rappresentato in quegli

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anni solo da S. Francesco, si confrontano Dante e Giotto, per conferma-re che la renovatio rerum comincia da qui, per diffondere attraverso duelinguaggi, l’uno esplicito, l’altro simbolico, il messaggio consegnatoci dalVangelo: “Beati i poveri di spirito, poiché di essi è il regno dei Cieli.” E se èvero, come affermò il poeta greco Simonide di Ceo, che la poesia è pittu-ra parlante e la parola è immagine della cosa, non v’è dubbio che la pittu-ra di Giotto e la poesia di Dante abbiano concorso autorevolmente a con-sacrare il “mito” di S. Francesco, facendo l’uno della sua pictura quasi unascriptura e l’altro della sua scriptura quasi una pictura.

Immaginate allora di entrare con noi in una cattedrale gotica, comela Basilica superiore di Assisi, e di lasciarvi avvolgere dalla sua atmo-sfera mistica, docili e recettivi alle suggestioni che tutte le arti medie-vali riescono a trasmettere; solo così vedrete la poesia della Commedia.

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Assisi, Basilica superiore di S. Francesco.

“O Padre nostro, che ne’ cieli stai, non circunscritto, ma per più amore ch'ai primi effetti di là sù tu hai, 3laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore da ogne creatura, com’ è degno di render grazie al tuo dolce vapore. 6Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, ché noi ad essa non potem da noi, s'ella non vien, con tutto nostro ingegno. 9Come del suo voler li angeli tuoi fan sacrificio a te, cantando osanna, così facciano li uomini de’ suoi. 12Dà oggi a noi la cotidiana manna, sanza la qual per questo aspro diserto a retro va chi più di gir s’affanna. 15E come noi lo mal ch’avem sofferto perdoniamo a ciascuno, e tu perdona benigno, e non guardar lo nostro merto. 18Nostra virtù che di legger s’adona, non spermentar con l’antico avversaro, ma libera da lui che sì la sprona. 21Quest’ ultima preghiera, segnor caro, già non si fa per noi, ché non bisogna, ma per color che dietro a noi restaro”. 24Così a sé e noi buona ramogna quell’ ombre orando, andavan sotto ’l pondo, simile a quel che talvolta si sogna, 27disparmente angosciate tutte a tondo e lasse su per la prima cornice, purgando la caligine del mondo. 30Se di là sempre ben per noi si dice, di qua che dire e far per lor si puote da quei c’hanno al voler buona radice? 33Ben si de’ loro atar lavar le note che portar quinci, sì che, mondi e lievi, possano uscire a le stellate ruote. 36“Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi

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tosto, sì che possiate muover l’ala, che secondo il disio vostro vi lievi, 39mostrate da qual mano inver’ la scala si va più corto; e se c’è più d’un varco, quel ne ’nsegnate che men erto cala; 42ché questi che vien meco, per lo ’ncarco de la carne d’Adamo onde si veste, al montar sù, contra sua voglia, è parco” 45.Le lor parole, che rendero a queste che dette avea colui cu’ io seguiva, non fur da cui venisser manifeste; 48ma fu detto: “A man destra per la riva con noi venite, e troverete il passo possibile a salir persona viva. 51E s’io non fossi impedito dal sasso che la cervice mia superba doma, onde portar convienmi il viso basso, 54cotesti, ch’ancor vive e non si noma, guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco, e per farlo pietoso a questa soma. 57Io fui latino e nato d’un gran Tosco: Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre; non so se ’l nome suo già mai fu vosco. 60L’antico sangue e l’opere leggiadre d’i miei maggior mi fer sì arrogante, che, non pensando a la comune madre, 63ogn’ uomo ebbi in despetto tanto avante, ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno, e sallo in Campagnatico ogne fante. 66Io sono Omberto; e non pur a me danno superbia fa, ché tutti miei consorti ha ella tratti seco nel malanno. 69E qui convien ch’io questo peso porti per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia, poi ch’io nol fe’ tra ’ vivi, qui tra ’ morti”. 72Ascoltando chinai in giù la faccia; e un di lor, non questi che parlava,

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si torse sotto il peso che li ’mpaccia, 75e videmi e conobbemi e chiamava, tenendo li occhi con fatica fisi a me che tutto chin con loro andava. 78“Oh!”, diss’ io lui, “non se’ tu Oderisi, l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’ arte ch’alluminar chiamata è in Parisi?”. 81“Frate”, diss’ elli, “più ridon le carte che pennelleggia Franco Bolognese; l’onore è tutto or suo, e mio in parte. 84Ben non sare’ io stato sì cortese mentre ch’io vissi, per lo gran disio de l’eccellenza ove mio core intese. 87Di tal superbia qui si paga il fio; e ancor non sarei qui, se non fosse che, possendo peccar, mi volsi a Dio. 90Oh vana gloria de l’umane posse! com’ poco verde in su la cima dura, se non è giunta da l'etati grosse! 93Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura. 96Così ha tolto l’uno a l’altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l'uno e l'altro caccerà del nido. 99Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perché muta lato. 102Che voce avrai tu più, se vecchia scindi da te la carne, che se fossi morto anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ’l ‘dindi’, 105pria che passin mill’ anni? ch’è più corto spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia al cerchio che più tardi in cielo è torto. 108Colui che del cammin sì poco piglia dinanzi a me, Toscana sonò tutta; e ora a pena in Siena sen pispiglia, 111

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ond’ era sire quando fu distrutta la rabbia fiorentina, che superba fu a quel tempo sì com’ ora è putta. 114La vostra nominanza è color d’erba, che viene e va, e quei la discolora per cui ella esce de la terra acerba”. 117E io a lui: “Tuo vero dir m’incora bona umiltà, e gran tumor m’appiani; ma chi è quei di cui tu parlavi ora?”. 120“Quelli è”, rispuose, “Provenzan Salvani; ed è qui perché fu presuntüoso a recar Siena tutta a le sue mani. 123Ito è così e va, sanza riposo, poi che morì; cotal moneta rende a sodisfar chi è di là troppo oso”. 126E io: “Se quello spirito ch’attende, pria che si penta, l’orlo de la vita, qua giù dimora e qua sù non ascende, 129se buona orazïon lui non aita, prima che passi tempo quanto visse, come fu la venuta lui largita?”. 132“Quando vivea più glorïoso”, disse, “liberamente nel Campo di Siena, ogne vergogna diposta, s’affisse; 135e lì, per trar l’amico suo di pena, ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo, si condusse a tremar per ogne vena. 138Più non dirò, e scuro so che parlo; ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini faranno sì che tu potrai chiosarlo.Quest’ opera li tolse quei confini”. 142

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EXEGI MONUMENTUM AERE PERENNIUSCritica ed estetica nella Commedia

“Oh vana gloria de l’umane posse!com’ poco verde in su la cima dura,se non è giunta da l’etati grosse!” (Purg. XI, vv. 90-92)

Sulla dissennatezza degli uomini, che affidano alle proprie im-prese la sopravvivenza laica del nome, si sofferma con queste paro-le Oderisi da Gubbio, interlocutore di Dante nella cornice dei su-perbi. Prima di lui il poeta ha incontrato Omberto Aldobrandeschie sempre da lui, in sequenza narrativa, gli sarà presentata l’anima si-lenziosa, ma imponente, di Provenzan Salvani; i tre fotogrammi, co-me nel sapiente montaggio di una pellicola cinematografica, costi-tuiscono le trame drammatiche, ora loquenti ora silenti, della su-perbia umana, intrecciate tra loro da una comune esigenza di mor-tificazione per se stessi e nel contempo da un insopprimibile aneli-to di testimonianza per i vivi: “Ciò che esce dall’uomo, quello conta-mina l’uomo! Infatti dal di dentro, dal cuore degli uomini escono icattivi pensieri, dissolutezze, latrocini, assassini, adulteri, cupidigie,cattiverie, frode, impudicizia, invidia, diffamazione, orgoglio, stoltezza.Tutte queste cose malvagie vengono dal di dentro e contaminano l’uo-mo” (Marco 7, 20-23) 1.

È il dramma dell’uomo che proietta nei propri affetti (OmbertoAldobrandeschi), materializza nelle proprie opere (Oderisi da Gub-bio), manifesta nelle proprie azioni (Provenzan Salvani) le sfrenateambizioni del suo animo, nell’insensata presunzione di distinguersidai propri simili per sentirsi pari solo a Dio. Nella concezione mora-le di Dante il peccato di superbia è il più grave ed insidioso, poichéall’origine della creazione e della stessa storia umana: è il peccato diLucifero, immortalato tra i bassorilievi del canto XII:

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__________1 In ciò consisterebbe il simbolico rapporto tra il canto XI del Purgatorio e

l’XI dell’Inferno, in cui Virgilio illustra a Dante la struttura morale dell’inferno,secondo l’enumerazione evangelica.

“Vedea colui che fu nobil creatopiù c’altra creatura, giù dal cielofolgoreggiando scender, da l’un lato.” (Purg. XII, vv. 24-26);

ed è il peccato di Adamo, per sanare il quale fu indispensabile l’u-miltà di Maria, come si ammonisce negli altorilievi del canto X, vv.34-45:

“L’angel che venne in terra col decretode la molt’anni lacrimata pace,ch’aperse il ciel del suo lungo divieto,dinanzi a noi pareva sì veracequivi intagliato in un atto soave,che non sembrava immagine che tace.Giurato si saria che il dicesse “Ave!”;perché iv’era imaginata quellach’ad aprir l’alto amor volse la chiave;e avea in atto impressa esta favella“Ecce ancilla Deï”, propriamentecome figura in cera si suggella”.

Perciò Omberto fa ammenda del suo orgoglio per l’antico sangue(cfr. ib. v. 61) 2, riconoscendo in quel peccato come l’esantema di unamalattia (cfr. danno, v. 67; malanno, v. 69), che ha infestato la sua in-tera famiglia, trascinandola alla rovina

“Io sono Omberto; e non pur a me dannosuperbia fa, ché tutti miei consortiha ella tratti seco nel malanno”. (ib. vv. 67-69)

Oderisi rievoca quasi con rammarico quell’onore (cfr. ib. v. 84), già

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__________2 Della nobile e potente famiglia degli Aldobrandeschi, duchi di Santafiora e

della Maremma senese, fu signore di Campagnatico; proseguì la politica del pa-dre Guglielmo contro i Senesi, con l’aiuto dei Fiorentini. Sulla sua morte, avve-nuta nel 1259, si diffusero due versioni: in battaglia contro i Senesi o per manodi sicari, pagati dagli stessi, nel suo letto.

attribuitogli con insistenza da Dante (cfr. ib. v. 80) 3, poiché, perdutoin parte sulla terra, dove egli mai avrebbe accettato l’eccellenza di al-tri, è ora la causa della sua espiazione ultraterrena in nome dell’eccel-lenza di Dio:

“Ben non sare’ io stato sì cortesementre ch’io vissi, per lo gran disiodell’eccellenza ove mio core intese.Di tal superbia qui si paga il fio;e ancor non sarei qui, se non fosseche, possendo peccar, mi volsi a Dio” (ib. vv. 85-90).

Provenzan Salvani, curvo sotto il peso materiale che lo ingombraper la spregiudicatezza dei suoi comportamenti politici 4:

…“cotal moneta rendea sodisfar chi è di là troppo oso” (cfr. ib. v. 125-126),

non parla, ma dichiara proprio col volume dimesso della sua gigante-sca figura quanto le vanità terrene impallidiscano di fronte alla po-tenza del divino:

“La vostra nominanza è color d’erba, che viene e va, e quei la discoloraper cui ella esce de la terra acerba”. (ib. vv. 115-117)

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__________3 Di questo miniatore, di cui poco si conosce, è attestata la presenza a Bolo-

gna tra il 1268 e il 1271, dove D. può averlo incontrato, e a Roma, dove morì nel1299. Il Vasari, che non fornisce su di lui notizie dettagliate, gli attribuisce le mi-niature di molti libri della biblioteca papale.

4 Provenzan Salvani, capo dei Ghibellini di Siena, che governò nel 1260,cer-cò di ricondurre spregiudicatamente in suo potere la città. Significativa la suapresenza nella vittoria di Montaperti; nel concilio di Empoli propose con altri ladistruzione di Firenze; fu ucciso dai Fiorentini nella battaglia di Colle Val d’El-sa nel 1269, in seguito alla quale i guelfi ripresero il potere a Siena, rimovendoogni ricordo di Salvani. Si racconta che si umiliò, chiedendo l’elemosina per pa-gare il riscatto di un amico (Mino dei Mini, Bartolomeo Saracini), fatto prigio-niero da Carlo I d’Angiò nella battaglia di Tagliacozzo nel 1268.

I tre interlocutori di Dante, esemplari della superbia contempora-nea in tutte le sue forme, sono incastonati come formelle di un fregioarchitettonico sul monumento dell’espiazione, svettante al cielo comeuna cattedrale gotica, ed inseriti su uno sfondo accuratamente predi-sposto da un sapiente scenografo, il poeta stesso, che fa di essi la se-quenza centrale di un’ampia rappresentazione plastica del loro pec-cato nella continuità dei tempi. Nel canto precedente infatti, egli apo-strofa i peccatori di superbia ancora in vita, allorché vede avanzare ipenitenti a passi radi (cfr. Purg. X, v. 100), rannicchiati sotto massi in-gombranti (cfr. vv. 116-119), in atto di battersi il petto (cfr. v. 120):

“O superbi cristiani, miseri lassi,che, de la vista de la mente infermi,fidanza avete ne’ retrosi passi,non v’accorgete voi che noi siam verminati a formar l’angelica farfalla,che vola a la giustizia sanza schermi?Di che l’animo vostro in alto galla,poi siete quasi antomata in difetto,sì come vermo in cui formazion falla?” (Purg. X, vv. 121-129)

La durezza dei versi è accentuata da vocaboli fortemente realistici,come vermi, o da altri anche foneticamente aspri (infermi, retrosi,schermi, etc.), che insistono, mutuando il linguaggio scritturale, sullamancata metamorfosi spirituale di quei miseri cristiani, incapaci, perl’infermità della loro mente, di librarsi in volo quale angelica farfallafino a Dio; anzi da Dio si allontanano, volgendo indietro i passi, co-me a retro va chi più di gir s’affanna (cfr. ib. v. 15), regredendo allacondizione innaturale di eterni insetti. Moniti spietati di tale soccom-bente realtà sono le immagini riprodotte nei bassorilievi, accurata-mente descritti dal poeta nel canto XII, che simbolicamente i peni-tenti calpestano, come lastre di tombe terragne, costretti dalla loro in-felice postura a contemplarli: il fulmineo precipitare di Lucifero giùdal cielo; poi Briareo, fitto dal telo / celestial giacere (vv. 28-29) e lemembra d’i Giganti sparte (v. 33); Nembrot, il costruttore della torredi Babele, a pie’ del gran lavoro / quasi smarrito (vv. 34-35); e Niobe,che osò schernire Latona per aver messo al mondo solo due figli,

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Apollo e Diana, con occhi dolenti (v. 37), tra sette e sette suoi figliolispenti (v. 39); Saul, morto in su la propria spada (v. 40), dopo essere in-corso nell’ira divina per la sua superbia ed essere stato sconfitto aGelboè dai Filistei; ed ancora Aragne, trasformata in ragno da Mi-nerva ch’ella aveva sfidato, e Roboamo, figlio di Salomone, che piendi spavento fugge su un carro, senza ch’altri il cacci (vv. 47-48) dopo lasollevazione del popolo di Israele; di Erifile, madre di Alcmeone emoglie di Anfiarao, di cui ella rivelò il nascondiglio e determinò lamorte nella guerra contro Tebe, Dante non parla, ma a lei allude conil riferimento alla collana, lo sventurato addornamento (v. 51), che leera giunto in eredità da Venere e che fu infausta a tutte le donne chela indossarono; ed ancora l’uccisione di Sennacherib per mano dei fi-gli, lo scempio del cadavere di Ciro, assetato di sangue; la decapita-zione di Oloferne e la distruzione del superbo Ilion (cfr. Inf. I, v. 75).Fra i tredici esempi di superbia punita episodi tratti dal mito si alter-nano con altri desunti dalla storia antica precristiana, quasi a sottoli-neare la inammissibilità di tale peccato dopo la Rivelazione di Cristoche non venne per essere servito, ma per servire (Mt. 20,28) ed inoltreessi figurano in altrettante terzine che iniziano con le lettere V (ini-ziale della parola vedea), O (vocativo) ed M (iniziale della parola mo-strava) e ciascun lessema è ripetuto in anafora per quattro volte con-secutive; i tre versi dell’ultima terzina, infine, riprendono in posizio-ne iniziale le parole suddette, a formare visibilmente l’acrosticoUOM: con un’ardita concorrenza di simboli grafici e plastici insieme,Dante rende più efficace il suo sarcastico giudizio verso quegli uomi-ni che attribuiscono ingiustificato pregio alla loro infima condizioneumana:

“Or superbite, e via col viso altero,figliuoli d’Eva, e non chinate il voltosì che veggiate il vostro mal sentero!” (Purg. XII, vv. 70-72).

Al contrario, gli esempi di umiltà premiata si stagliano sulla pare-te della montagna, in posizione visibile anche a chi procede a capochino, a voler rimarcare l’antitesi evangelica che chi si esalta, sarà umi-liato e chi si umilia sarà esaltato (cfr. Mt. 23,12). Tali rilievi sembranocostituire un trittico medievale, che compendia tutta la storia dell’u-

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manità in tre complesse figurazioni; in esse è possibile ravvisare nonsolo il dato reale, ma anche il significato allegorico, il riferimento aglieventi moderni, le aspettative del futuro. Così modello assoluto diumiltà è Maria, umile e alta più che creatura (cfr. Par. XXXIII, v. 2), lacui suprema virtù trascende l’umano:

“Tu se’ colei che l’umana naturanobilitasti sì, che ’l suo fattornon disdegnò di farsi sua fattura” (Par. XXXIII, vv. 4-6),

poiché l’Onnipotente 5 ha fatto di Lei il termine fisso del suo etternoconsiglio, scegliendola fin dall’inizio dei tempi come discrimine tra ilpeccato e la redenzione 6. L’annunzio dell’angelo a Maria precedel’immagine scolpita di Davide, l’umile salmista che, trescando alzato emen che re (cfr. Purg. X, vv. 65-66), si umilia rendendo omaggio a l’ar-ca santa e manifestando in tal modo la letizia della fede 7. Davide è,dunque, il credente in Cristo venturo, che rappresenta l’attesa fidu-ciosa dell’evento realizzato da Maria; egli diviene, in prospettiva, fi-gura di Cristo stesso e l’Arca santa, presso cui esulta nella iconografiamedievale, è figura della Chiesa raminga, vittima delle persecuzioniprima, ma anche della cattività avignonese all’epoca del poeta. Infine,l’imperatore Traiano, nella storia cristiana, col suo esemplare gesto dicarità nei confronti della vedovella che attendeva da lui giustizia peril figlio 8, per intercessione di Papa Gregorio Magno, si rende merite-vole di essere tratto dall’Inferno e di godere della grazia di Dio tra glispiriti giusti, dove insieme a Davide, re di Israele, rappresenta allego-ricamente la giustizia umana:

“Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,colui che più al becco mi s’accosta,la vedovella consolò del figlio:

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__________5 Cfr. il Magnificat, Luca I, 46-55.6 Cfr. Par. XXXIII, vv. 3-12.7 Si può facilmente riscontrare un’eco francescana nell’immagine di Davide,

giullare di Dio.8 Cfr. Purg. X, vv. 82-93.

ora conosce quanto caro costanon seguir Cristo, per l’esperïenzadi questa dolce vita e de l’opposta” (Par. XX, vv. 43-48).

Per una tortuosa Via Crucis procedono dunque le anime dei peni-tenti, soffermandosi di volta in volta nella contemplazione di questestazioni che mortificano la loro presunzione, esortandole alla contri-zione; la fase culminante di questa teoria, che compendia i momentifondamentali del sacramento della riconciliazione, quello della con-tritio cordis e della satisfactio operis, è costituita dalla confessio oris:essi confessano apertamente la loro stoltezza, intonando il Padre No-stro, la preghiera per eccellenza, pronunziata nello spirito evangelico.La preghiera dei superbi è un atto formale di sottomissione alla vo-lontà divina e di accettazione dei limiti umani; proclama con sugge-stivi echi francescani la nuova disposizione delle anime purganti a ri-conoscere in Dio l’unico Padre di tutti gli esseri e risuona quale cari-tatevole augurio per i viventi:

“Così a sé e noi buona ramognaquell’ombre orando, andavan sotto ’l pondo,simile a quel che talvolta si sogna,disparmente angosciate tutte a tondoe lasse su per la prima cornice,purgando la caligine del mondo”. (ib. vv. 25-30)

Il Padre Nostro si risolve dunque per contrappasso in un suffragiorovesciato: quella medesima invocazione a Dio che sulla terra antici-pa e prefigura la condizione delle anime purganti, nell’oltretomba èvolta ad ottenere generosamente la salvezza per i vivi:

“Se di là sempre ben per noi si dice,di qua che dire e far per lor si puoteda quei ch’hanno al voler buona radice?” (ib. vv. 31-33).

È singolare che il poeta concentri proprio nella trilogia dei super-bi (c. X, XI, XII) tante sollecitazioni sull’arte contemporanea: lungidal supporre che il poeta ritenga l’arte in sé un bene effimero, sog-

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getto a “trascolorare” con il trapassar dei tempi, purché non soprag-giunto da età di decadenza (perché è piuttosto la fama, la nominanzaa trascolorare), siamo anzi obbligate a riconoscere che l’intera se-quenza fornisce sotto vari aspetti un’attenta ed appassionata disami-na dell’arte medioevale nelle sue diverse forme espressive, la scultura,la miniatura, la pittura e la poesia, alle quali tutte è sotteso il criterioestetico già formulato nel Convivio 9: “Quella cosa dice l’uomo esserebella, le cui parti debitamente rispondono, perché dalla loro armonia re-sulta piacimento”. Pertanto la contemplazione dell’opera d’arte, la cuibellezza nasce dall’armonica rispondenza delle parti, produce in pri-mo luogo un piacere sensibile, il quale, ingenerando un soverchio de-siderio di guardare, si sublima in una forma di conoscenza intelletti-va 10. Ora, “siccome la bellezza del corpo resulta dalle membra, in quan-to sono debitamente ordinate; così la bellezza della sapienza (…) risul-ta dall’ordine delle virtù morali, che fanno quella piacere sensibilmen-te” 11. All’interno di questa circolarità che dal piacere del BELLO, at-traverso l’interpretazione razionale, approda al piacere del BENE 12, sirealizza quello stesso climax ascendente, ma simultaneo, che Danteindividua nell’interpretazione delle scritture, quando dal testo “lite-rale” 13; attraverso l’interpretazione allegorica 14, si approda al signifi-cato morale 15.

Ciò detto, il poeta non avrebbe potuto non condividere la con-

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__________9 Cfr. Convivio I, V, 13.10 Cfr. Convivio, III, 15, 4 “E in questo sguardo solamente la umana perfezio-

ne s’acquista, cioè la perfezione della ragione, dalla quale, siccome da principalissi-ma parte, tutta la nostra essenza dipende, e tutte l’altre nostre operazioni, sentire,nutrire, e tutte sono per questa sola, e questa è per sé e non per altri”.

11 Cfr. Convivio III, XV, 11.12 Cfr. Convivio III, XV, 12: “…appetito diritto, che si genera nel piacere della

morale dottrina, il quale appetito ne diparte eziandio dalli vizi naturali, nonché da-gli altri”.

13 Cfr. Convivio II, 1 ,3 “…e questo è quello che non si stende più oltre che lalettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti”.

14 Cfr. Convivio, II, 1, 4 : “…e questo è quello che si nasconde sotto ‘l manto dibelle favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna…”.

15 Cfr. Convivio II, 1, 5: “…e questo è quello che li lettori deono intentamenteandare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti…”.

cezione artistica medievale, sostenuta anche da Gregorio Magno,della pictura quasi scriptura, ossia della valenza educativa dell’arte fi-gurativa che per gli illetterati assolve la medesima funzione formati-va che la letteratura svolge presso i dotti. In tal senso vengono con-cepite le sculture della prima cornice: le immagini riprodotte inmarmo candido, che mette maggiormente in luce la perspicuità de-gli esempi, favoriscono nei penitenti la conoscenza del peccato e liinducono all’edificazione morale. E non basta, perché in esse si con-creta anche lo quarto senso che “si chiama anagogico, cioè sovrasen-so; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la qualeancora sia vera, eziandio nel senso letterale, per le cose significate si-gnifica de le superne cose de l’etternal gloria.” 16: ed infatti gli episo-di che vi sono raffigurati rimandano ad un evidente significato mi-stico, cioè a quella prospettiva ultraterrena ed atemporale che, rav-visabile già negli eventi del passato, si realizza compiutamente nellacondizione presente delle anime purganti e si proietta quale tensio-ne catartica per tutte le genti a venire

“…per color che dietro a noi restaro” (cfr. ib. v. 24).

Il gusto classico, a cui esse si ispirano, rievoca quello delle metopedegli antichi templi, concettualmente connesse al culto religioso a cuiil monumento era consacrato. Nei rilievi del Purgatorio si rivela dun-que perfettamente l’ideale scultoreo dell’autore, che è sintesi di reali-smo gotico, che equivale alla rappresentazione testuale, di simbolismoromanico, che corrisponde all’interpretazione allegorica, e di misuraclassica, quel godimento sensibile dell’armonia che determina la pu-rificazione morale. Essi sono infatti dotati di una straordinaria corpo-reità e comunicatività, tali da trasmettere percezioni ottiche (cfr.Purg. XII: vedea… etc.), uditive (cfr. Purg. X vv. 39-40; 43-44), tatti-li (v. 45) ed olfattive (vv. 61-63), talora anche sinestetiche, non solo aifruitori diretti, ossia gli stessi penitenti, ma anche ad un più vastopubblico, sia implicito che reale, di lettori, ai quali pare di vedere,udire, cogliere attraverso la parola del poeta la plasticità delle imma-

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__________16 Cfr. Convivio II, 1, 6.

gini ed insieme il loro significato morale 17. Siamo solo apparentemen-te al cospetto di un livello primario di comunicazione artistica; se èvero che la scultura concorre più attivamente delle altre forme espres-sive alla contemplazione dei contenuti morali, perché il vero cono-sciuto attraverso il realismo dei corpi artificiali prefigura il bene desi-derato (S. Tommaso) 18, è indubbio, però, che nel Purgatorio tale co-municazione passi ai riceventi grazie alla mediazione poetica di Dan-te, il quale si fa sensibile interprete di un’opera di cui Dio stesso è l’e-mittente:

“Colui che mai non vide cosa novaprodusse esto visibile parlare,novello a noi perché qui non si trova” (Purg. X, vv. 94-96)

e con un’iperbole efficace e veritiera proclama la perfezione dell’ope-ra creatrice di Dio al di sopra di qualunque imitazione umana: non so-lo Policleto, colui che determinò il canone della scultura classica, mala natura stessa si riconoscerebbero vinti dalla sapiente creazione diDio, poiché se l’arte classica è imitazione della natura (µι′µησις ari-stotelica) e la natura è emanazione concreta dell’idea divina (Platone),nel Purgatorio è lo stesso Demiurgo-Dio che è sommo artefice sia del-la natura che dell’arte:

“Là su non eran mossi i piè nostri anco,quand’io conobbi quella ripa intornoche dritto di salita aveva manco,

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__________17 Cfr. F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, pp. 338-40: “trascinato dall’i-

stinto poetico, il poeta ha sforzato la natura del marmo e datogli movimento e suc-cessione…ha trasformato il marmo in parola; ha immaginato un marmo poeticoche si muove e cangia: scultura umanamente assurda, epperò il poeta la chiama mi-racolosa opera di Dio, e la divinità della scultura non è altro se non la scultura in-nalzata a poesia e fatta parola”.

18 Ecco perché nell’inferno, a nostro giudizio, non compaiono opere d’arted’alcun genere; la deformità dell’anima dei dannati è insensibile al richiamo este-tico e pedagogico dell’arte, la quale in nulla potrebbe modificare la loro condi-zione di disumana brutalità.

esser di marmo candido e addornod’ intagli sì, che non pur Policleto,ma la natura lì avrebbe scorno” (Purg. X, vv. 28-33).

Ed infatti nel contemplare l’imagini di tante umilitadi (Purg. X,v. 98), gli occhi del poeta si dilettano di mirare (v. 103) la straordi-narietà dell’arte divina, pregna di novitadi (v. 104) sia nella formache nel significato. Questo insistere di Dante sui termini cosa nova,novello, novitadi ed il suo stesso sincretismo artistico sono chiaro sin-tomo del suo modernismo culturale, che nel modello scultoreo è an-ticipato dalle recenti soluzioni formali adottate da Nicola e Giovan-

ni Pisano e da Arnolfo diCambio, artisti assai notisin dalla metà del ’200nell’Italia centro-setten-trionale, ai quali si devein gran parte se la scultu-ra si era affermata comearte-guida dell’epoca: laricezione luminosa accen-tua nelle loro opere laplasticità delle figure, de-terminandone la dinamici-tà spaziale e la complessi-

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Giovanni Pisano: Strage degli innocenti (par-ticolare del pulpito della chiesa di S. Andrea aPitoia).

Arnolfo di Cambio: Monumento Annibaldi, S. Giovanni in Laterano, Roma(1276-77) Processione di Chierici.

tà drammatica 19.Forse anche die-tro la suggestionedei loro pregevo-li manufatti,Dante immaginagli spiriti dei su-perbi come veree proprie cariati-di, assimilate al-l’impianto sculto-reo di questa cat-tedrale del penti-mento (la monta-gna del Purgato-rio), di cui, se-

condo il sistema architettonico romanico e gotico, essi sostengono lapossente struttura: la spinta ascensionale si ottiene, dunque, dall’e-quilibrio dei due sistemi di forze, l’una legata alla terra, verso cuiumilmente converge lo sguardo dei penitenti-telamoni, l’altra che,tesa verso il cielo, è sostenuta dalla loro intima tensione all’ascesi:

“Come per sostentar solaio o tetto,per mensola talvolta una figurasi vede giugner le ginocchia al petto,la qual fa del non ver vera rancuranascer in chi la vede; così fattivid’io color, quando puosi ben cura”. (Purg. X, vv. 130-135)

Se la scultura, inserita in strutture architettoniche, costituisce in

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Nicola e Giovanni Pisano: fontana di piazza a Perugia(1275-78),

__________19 Cfr. G.C. Argan: Storia dell’arte italiana, Sansoni vol. I, pag. 343: “La luce

di Giovanni (Pisano) è divina e penetrante come quella del Paradiso di Dante, ne-mica di tutto ciò che è inerte ed opaco, distrugge della figura tutto ciò che non è vi-ta spirituale, moto, tensione…La scelta formale di Giovanni è ben chiara: dal ‘si-stema’ di Nicola isola ed accentua la componente gotica e moderna, così come Ar-nolfo isola ed accentua la componente classica o antica”.

epoca medievale il livello più immediato di comunicazione sia esteti-ca che morale, le arti di cui Dante discetta con Oderisi nel nostro can-to rappresentano senz’altro una forma più elevata ed elitaria di mes-saggio artistico.

Oderisi è un miniatore assai conosciuto ai suoi tempi, nonostan-te la sua arte fosse considerata minore, non certo per lo scarsopregio, quanto piuttosto per la sua limitata diffusione, ascrivibilesia alla rarità dei testi istoriati, sia al ristretto ambito sociale difruizione. I miniatori, spesso monaci dediti all’illustrazione dimanoscritti, destinavano la loro attività all’apprezzamento di chie-rici, adusi all’utilizzazione di libri preziosi, come Exsultet, lezio-nari, salteri e Bibbie istoriate; ad intellettuali, in grado di com-prendere la ricercatezza dei disegni; o, infine, a facoltosi aristo-cratici o mercanti, a cui era possibile acquistare oggetti rari edesclusivi, esibiti come status symbol. Gli stessi materiali utilizzati,come l’oro, l’argento, il minio, contribuivano al valore commer-ciale di questa “pittura colta”, riproducente in scala ridotta temi

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Nicolò Di Giacomo: ms. 603 c. CLIX.Museo civico medievale, Bologna.

Nicolò Di Giacomo: ms. 603 c. CXXV.Museo civico medievale, Bologna.

iconografici e narrativi analoghi a quelli musivi, di gusto squisi-tamente bizantino.

Oderisi rappresenta presumibilmente questa tendenza orientaleg-giante, ancora persistente all’età di Dante, ed utilizza una gammacromatica calda e intensa, che spazia dal carminio all’azzurro oltre-mare, all’oro e al bianco, con l’intento di realizzare, come sostengonole recenti attribuzioni di alcuni studiosi 20, figure ispirate ad elementinon solo simbolici, ma anche reali, attinenti alle Scritture. Non v’èdubbio, dal colloquio che intercorre tra i due, che il nostro riconoscaall’amico degli anni bolognesi il ruolo indiscusso di caposcuola, poi-ché lo apostrofa come:

“l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’artech’alluminar chiamata è in Parisi ” (ib. vv. 80-81);

e nello stesso tempo allude all’effetto luminoso delle sue miniature,sottolineando l’etimologia del francese alluminar da aluminium (alu-me o allume), cioè la sostanza metallica che dà lucentezza ai colori. Sidiscute piuttosto sulla tecnica utilizzata da Oderisi, che egli stesso inseguito rapporterà a quella di Franco Bolognese:

“Frate”, diss’elli, “più ridon le carteche pennelleggia Franco Bolognese;l’onore è tutto or suo, e mio in parte”. (ib. vv. 82-84)

Ciò farebbe pensare ad un tocco più ampio “pennelleggiato”da Franco Bolognese rispetto alla più calligrafica definizione deltratto utilizzata da Oderisi: si configurerebbe perciò una moder-nizzazione anche nell’arte della miniatura, per cui le carte di Bo-lognese risultano più vivaci e per la tecnica e per l’introduzionedi nuove tinte, come il verde, il giallo, l’ocra, il celeste, lo sme-raldo 21. Il “rider de le carte”, a cui Dante si riferisce a propositodi Franco Bolognese trova peraltro un riscontro significativo ed

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__________20 Castelfranco, Longhi, Bottari e Venturi.21 Cfr. Giovanni Fallani, Il canto della vanagloria, in L’Alighieri, I, 1961.

un chiarimento teorico nel Convivio 22: “E che è ridere, se non unacorruscazione della dilettazione dell’anima, che è un lume apparentedi fuori secondo che sta dentro?”. La novità dell’arte consistereb-be allora nell’esternazione del diletto dell’anima, che si manifestacome lume, una luce corrusca, effusa con dovizia, lontana dallestilizzazioni bizantine e sarebbe dunque paragonabile alla mo-dernità dello Stilnovo rispetto alle poetiche precedenti, come ilpoeta stesso puntualizza nel canto XXIV della stessa cantica, inoccasione del colloquio con Bonagiunta Orbicciani, il quale cosìlo interpella:

“Ma dì s’i’ veggio qui colui che foretrasse le nove rime, cominciando“Donne ch’avete intelletto d’amore”.E io a lui: “I’ mi son un che, quandoAmor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”. (Purg. XXIV, vv. 49-54)

Il “sorriso”, di cui parla Dante nel Convivio, non è altro chel’espressione artistica, intesa quale rappresentazione immediata esublime dell’ispirazione interiore, in un’operazione complessa incui l’artista è l’interprete, il notarius, che trascrive in segni visi-bili la trascendenza del dettato d’Amore. E non è solo Bona-giunta ad esser consapevole del distacco tra il proprio stile e que-sto novo, com’egli stesso ammette nei versi successivi del cantosuccitato:

“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodoche ’l Notaro e Guittone e me ritennedi qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!” (Purg. XXIV, vv. 55-57),

ma anche con lo stesso Guinizzelli Dante riafferma nel canto XXVIdel Purgatorio la modernità della poesia stilnovistica, attraverso untoccante dialogo che per molti versi sembra rievocare quello con

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__________22 Cfr. Convivio III, VIII, 11.

Oderisi. Guinizzelli, infatti, riconosciuto espressamente da Dantecome

… “il padremio e de li altri miei miglior che mairime d’amor usar dolci e leggiadre;” (cfr. Purg. XXVI, vv. 97-99) 23

ossia come iniziatore della nuova maniera poetica, quasi con pudoresi schernisce, additando in Arnaldo Daniello il più rappresentativopoeta di lingua romanza e definendolo miglior fabbro del parlar ma-terno (cfr. Purg. XXVI, v. 117). Così, chi contrappone ad Arnaut Da-nielh il lemosino Giraut de Bornelh commette lo stesso errore di chicontinua a proclamare la supremazia di Guittone:

“Così fer molti antichi di Guittone,di grido in grido pur lui dando pregio, fin che l’ha vinto il ver con più persone.” (Purg. XXVI, vv. 124-126).

Da tali considerazioni emerge un possibile parallelismo tra le diversepersonalità: Oderisi sta a Guittone, come Franco Bolognese sta a Gui-nizzelli, per cui l’indubbio merito di aver dato vita ad uno stile non negarantisce per Dante la perpetuità, ma anzi il superamento delle scelteculturali dei predecessori operato dai due bolognesi conferma in lui l’in-timo convincimento della necessità del progressismo in arte, nella cer-tezza che l’affinamento degli strumenti concettuali ed espressivi rispec-chi il raffinamento dei valori umani.

Anche la pittura, nelle parole di Oderisi, segna il medesimo mu-tamento:

“Credette Cimabue ne la pitturatener lo campo, e ora ha Giotto il grido,sì che la fama di colui è scura.” (ib. vv. 94-96)

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__________23 All’atto di umiltà di Oderisi e di Guinizzelli fa riscontro quello di Dante

stesso, che in questo passo di critica militante riconosce la superiorità d’ingegnodegli amici Guido Cavalcanti e Cino da Pistoia.

Le due tendenze neoellenistiche, la metropolitana o aulica, dalsentimento più contenuto, e la provinciale, più concitata e irregolare,dal vigore evocativo più intenso e drammatico, convivono nella pittu-ra di Cimabue, attivo a Firenze fino al 1280 e presumibilmente ad As-sisi tra il 1280 e il 1290 24; è nella fabbrica di Assisi, infatti, che ven-gono più direttamente a contatto il maestro Cimabue ed il suo allievoGiotto e che meglio si differenziano le loro rispettive tecniche pitto-riche. Cimabue, epigono del gusto bizantino “scabroso, goffo e ordi-nario” (Vasari), inizialmente eredita nel suo tratto inquieto i caratterifortemente icastici della pittura di Coppo di Marcovaldo, di cui ap-prezza nel Battistero di Firenze la decorazione musiva, a cui anch’egliin seguito parteciperà.

Nel famoso Giudizio Universale di Coppo, l’Inferno, che ancheDante sembra riprodurre nei gironi di Malebolge, accentua in senso

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Coppo di Marco Valdo: Inferno - part. del Giudizio Universale, mosaico Batti-stero di Firenze (c. 1260-70).

__________24 Unici dati certi della biografia di Cenni di Pepo, detto Cimabue, sono la

presenza a Roma nel 1272 e la morte nel 1302, presumibilmente a Pisa.

macabro e grottesco l’espressionismo irruente della maniera greca,traducendo in forme ripetitive ed ossessive, con colori intensi e con-trastanti, la drammaticità popolare tipica delle laude religiose umbree toscane e delle sacre rappresentazioni.

La stessa tensione passionale di Coppo è infatti nella poesia di Ja-copone da Todi, la cui carica emotiva “esmesurata” si risolve in toniruvidi e apocalittici e financo nel ricorso ad accenti polemici violentie dissacranti:

“Omo, mittete a pensareonne te ven lo gloriare.Omo, pensa de che simoe de che fommo e a che gimoed en che retornarimo;ora mittete a cuitare…”

(J. da Todi, Omo, mittete a pensare, vv. 1-6)

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Cimabue:Crocifisso di S. Croce a Firenze(1280 c.)

Se l’opera di Coppo è paragonabile alla poesia di Jacopone (1230/36-1306), la pittura di Cimabue è raffrontabile alla produzione letterariacoeva di Guido Cavalcanti (1250-1300): entrambi risentono di spinte ir-razionalistiche che l’uno traduce in un sapiente effetto di chiaroscuri, incui, come nel Crocifisso di Santa Croce a Firenze, gli spazi e le profon-dità si intuiscono per il gioco delle ombre ed il panneggio immateriale èmodellato sul corpo come un involucro luminoso; l’altro invece le tra-scrive in un impianto letterario-filosofico che risente del materialismoaverroistico, sconfessato però dall’aspirazione inconsapevole ad un inef-fabile contatto con l’Assoluto: il chiaroscuro di Cimabue sembra averela stessa valenza del misticismo eretico di Cavalcanti, nel quale al laici-smo della ragione si oppone la tensione metafisica dello spirito:

“Non fu sì alta già la mente nostrae non si pose in noi tanta salute,che propiamente n’aviàn canoscenza.”

(G. Cavalcanti, Chi è questa che vèn…, vv. 12-14)

Il confronto tra i due appare ancor più visibile nella Crocifissionedel transetto sinistro della Basilica superiore di Assisi: in essa Cristo,maestoso nelle sue proporzioni gigantesche, campeggia sullo sfondo diun cielo affollato di angeli dolenti, nel piano superiore, e, nel piano in-feriore, di figure esasperate, il cui strazio è reso più eloquente sui vol-ti dal viraggio dei colori 25. L’immagine schiacciata, priva di profondi-tà, conferisce maggior risalto alla figura centrale che, collegando cieloe terra, partecipi di uno stesso dolore, concentra su di sé la focalizza-zione dei rimiranti ed appare come svuotata dello spirito vitale, im-pressosi piuttosto negli spiritelli svolazzanti, quasi fossero le facoltàsensitive che abbandonano il corpo trafitto di Cristo in croce. Torna al-la memoria l’esperienza tutta umana, ma egualmente tormentata, di al-cuni testi di Cavalcanti, in cui il topos letterario di Amore e Morte èraffigurato con analoga soluzione descrittiva: l’io poetico in primo pia-no patisce una sofferenza mortale determinata dalla trafittura d’amo-

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__________25 Per il viraggio dei colori l’affresco appare come un negativo fotografico: le

tinte chiare sono diventate scure e viceversa.

re e i deboletti spiriti, disertandone la mente ed il corpo, lo abbando-nano in una condizione letale d’indicibile sgomento:

“È ven tagliando di sì gran valore,che’ deboletti spiriti van via:riman figura sol en segnoria e voce alquanta, che parla dolore”.

(G. Cavalcanti, Voi che per li occhi…, vv. 5-8)

Ma se Cimabue è in pittura il Cavalcanti della poesia duecentesca,per quel suo tentativo di astrazione metastorica della realtà, Giotto,suo allievo e rivale, è colui che, radicando la sua opera nella realtà del-la storia, riproduce in arte il pluristilismo dantesco.

“Così ha tolto l’uno a l’altro Guidola gloria de la lingua; e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido”. (ib. vv. 97-99)

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Cimabue: Crocifissione, Assisi, Basilica Sup. (1288 c.).

Il confronto tra Cimabue e Giotto, G. Guinizzelli e G. Cavalcantici viene proposto senza possibilità di equivoci da D. stesso; meno per-spicuo è il rapporto indiretto tra Giotto e Dante, tanto che i versi so-pracitati sono stati variamente interpretati: chi l’uno e l’altro cacceràdel nido è sicuramente Dante, ma chi siano l’uno e l’altro è ancora og-getto di dibattito critico. Sia che l’uno e l’altro siano i due Guidi, co-me comunemente s’intende, sia che si tratti di Giotto e Guido Caval-canti, i due attuali eroi dell’agone artistico, Dante, riconoscendosivincente su entrambi, si autoproclamerebbe il più grande artista vi-vente. Il che solo apparentemente contrasterebbe con la professionedi umiltà alla quale è chiamato dall’esperienza penitenziale compiuta,poiché in nessun modo egli stesso potrebbe sottrarsi all’inevitabileprogredire e decadere delle mode e dei gusti estetici, cui è soggettatutta l’arte:

“Non è il mondan romore altro ch’un fiatodi vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,e muta nome perché muta lato.Che voce avrai tu più, se vecchia scindida te la carne, che se fossi mortoanzi che tu lasciassi il “pappo” e ’l “dindi”,pria che passin mill’anni? ch’è più cortospazio a l’etterno, ch’un muover di cigliaal cerchio che più tardi in cielo è torto”. (ib. vv. 100-108)

Nella formulazione dantesca della vanità umana intervengono echidell’Ecclesiaste, del Somnium Scipionis ciceroniano e del De consola-tione philosophiae di Severino Boezio, che saggiamente inducono ilpoeta a riconoscere quanto siano insensate le cure dei mortali e quan-to imperfetti siano i sillogismi che li conducono rovinosamente versoi beni mondani:

“O insensata cura de’ mortali,quanto son difettivi silogismiquei che ti fanno in basso batter l’ali!”. (Par. XI, vv. 1-3)

È significativo il fatto che con tali parole s’introduca nel Paradiso

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la celebrazione dell’umiltà francescana. È palese nell’interpretazionedi Dante il legame tra questi due canti undicesimi, che si completanoa vicenda, costituendo un originale ossimoro: la superbia umana stig-matizzata da Oderisi trova il suo celestiale riscatto nell’umiltà per an-tonomasia di S. Francesco d’Assisi e non sembra casuale che in que-gli stessi anni si misurino sullo stesso soggetto, nello specifico delle lo-ro arti, proprio Giotto e Dante.

Giotto (1267-1337) opera nella fabbrica di Assisi tra il 1290 ed il1300, dapprima al seguito di Cimabue, ma ben presto autonomo nel-la realizzazione del grandioso fregio pittorico della Basilica superiore,destinato dall’ordine alla predicazione visiva delle opere del Santo 26.Infatti, dopo la ricomposizione delle dispute interne all’ordine fran-cescano tra Conventuali, favorevoli alla ricca illustrazione delle vicen-de biografiche del Santo fondatore, e Spirituali, ostili all’introduzionedello sfarzo mondano e del valore laico dell’arte 27, Giotto introduceuna monumentale rappresentazione ciclica, che sviluppa in 28 riqua-dri i momenti salienti della vita di S. Francesco.

Le fonti utilizzate dal pittore sono quelle vulgate: dalle biografie diTommaso da Celano e di S. Bonaventura, ai Fioretti e alle leggendepopolari, sorte ovunque a consacrare la fama del poverello di Assisi.Ogni fotogramma contiene un’ambientazione spaziale realistica, incui assumono nuovo spessore i volumi dell’architettura urbana e delpaesaggio circostante, le proporzioni anatomiche dei corpi, la gestua-lità e l’espressività dei volti, nonché la prospettiva, grazie alla qualeogni personaggio interagisce con lo spazio e con le altre figure con unnaturalismo d’immediata percezione.

Tutto ciò pertiene anche alla plasticità linguistica e stilistica dellaCommedia dantesca: gli sfondi oltremondani si diversificano in ungioco di ombre e di luci nell’Inferno e nel Paradiso, per acquistare

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__________26 Anche architettonicamente la Basilica superiore viene concepita come luo-

go deputato alla predicazione ai fedeli, a differenza della Basilica inferiore, sortacome cripta-santuario, luogo di preghiera degli stessi monaci.

27 A seguito di queste dispute per molti anni si era ricorso alla conciliante al-ternativa della composizione su tavole, adatte alla rimozione e all’utilizzazionedelle stesse durante le processioni.

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Giotto: storie di S. Francesco, Assisi,Basilica Sup. Tav. V. La rinuncia ai beni. Tav. VII. La conferma della regola.

Tav. XVII. La predica davanti a Ono-rio III. Tav. XI. La prova del fuoco.

…“che per tal donna; giovinetto, in guerradel padre corse, a cui, come a la morte,la porta del piacer nessun diserra:e dinanzi a la sua spirital corteet corampatre le si fece unito,poscia di dì in dì l’amò più forte”. …“ma regalmente sua dura intenzione

ad Innocenzio aperse, e da lui ebbeprimo sigillo a sua religione”.

…“di seconda corona redimitafu per Onorio da l’Eterno Spirola santa voglia d’esto archimandrita”.

“E poi che, per la sete del martiro,ne la presenza del Soldan superbapredicò Cristo e li aaltri che ’l seguiro…”.

contorni naturali solo nel mondo purgatoriale, con scorci paesaggisti-ci e cromatici che rimandano alla realtà terrena; le anime assumonoconsistenza volumetrica proporzionale alla loro statura umana e spi-rituale, ponendosi in relazione simbiotica, ma anche simbolica, con lospazio circostante; la prospettiva, intesa come focalizzazione poetica,è cangiante ed allude alla condizione individuale degli esseri che po-polano il mondo terreno ed ultramondano, fino ad assumere un in-dubbio valore universale nell’intento didascalico dell’intero poema.

Eppure, nel presentare il personaggio di Francesco e le sue vicen-de biografiche, Giotto e Dante giungono ad esiti parzialmente divari-cati e su talune figurazioni è addirittura possibile confrontare le di-verse chiavi interpretative utilizzate dai due: Francesco rinuncia ai be-ni (TAV. V/ vv. 58-63); la conferma della regola (TAV. VII / vv. 91-93);la predica davanti ad Onorio III (TAV. XVII/ vv. 97-99); la prova delfuoco (TAV. XI/ vv. 100-102); le stimmate (TAV. XIX/ vv. 106-108);la morte di Francesco (TAV. XX/ vv. 109-117).

Giotto lascia “leggere” a chi non è in grado di farlo la storia diFrancesco, non sempre aggiungendo l’interpretazione simbolica allareferenzialità delle fonti: la bellezza impareggiabile delle sue decora-zioni parietali sta proprio in quella precisione descrittiva ed in quellaricchezza cromatica, che contribuiscono a fare di questa pictura qua-si una scriptura, come se le immagini diventassero parole. Dante, in-vece, interpreta sempre la storia di Francesco, zoommando sul prota-gonista e sul suo amore mistico per madonna Povertà: la biografia delSanto diventa un’allusiva storia d’amore, che traveste coi modi dellamoderna letteratura romanza la straordinaria avventura di questo ca-valiere d’eccezione.

Nella pittura giottesca Francesco mantiene una dimensione uma-na, che scompare del tutto nel canto dantesco, in cui il pusillo assumeproporzioni regali, se non addirittura, come sostiene Auerbach, so-vrumane. E ciò perché l’ineffabilità del Paradiso non consente più alpoeta di utilizzare i segni della comunicazione quotidiana: l’apoteosidi Francesco non può più coincidere con una usuale agiografia terre-na, poiché si riveste di sovrasensi mistici che trasfigurano tutti i mo-menti della sua vita terrena in senso anagogico. Pertanto, Francescorinuncia ai beni per sposare Madonna Povertà; quando si sottoponeall’approvazione papale, viene incoronato dallo Spirito Santo; riceve

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le stimmate come l’ultimo sigillodella sua identità con Cristo; almomento della morte, ascende alcielo, il suo regno, come Cristostesso. La mirabil vita del fraticel-lo di Assisi, illustrata da Giottoper accrescere la devozione po-polare, è ora cantata dal sapienteS. Tommaso nella gloria del cielo(cfr. Par. XI, vv. 95-96) al cospet-to di Dio stesso.

Se Giotto guarda dunque allesomme virtù umane del santo, lacui esistenza terrena si colloca neiluoghi ben definiti e riconoscibili

del paesaggio umbro, tra la gentecomune che li affolla, persino ibambini, Dante ne esalta l’ardoreserafico (cfr. v. 37), facendo di luiun quasi sol oriens, il cui stessoluogo di nascita, Ascesi (cfr. v. 53),prefigura il Paradiso.

Esiti distinti, giustificati da in-tenti diversi proprio perché desti-nati ad una fruizione diversa, sen-sibilmente differenziati nel tem-po, certamente non in gara con lostesso modello 28.

Invece di allegorie francescaneparlerà la pittura della basilica in-feriore di Assisi, proprio perché

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Tav. XIX. Le stimmate.

Tav. XX. La morte di S. Francesco.

__________28 È certo che D. attinge principalmente ad un opuscoletto latino della misti-

ca francescana, il Sacrum commercium beati Francisci cum domina Paupertate,non contemplato tra le fonti giottesche.

…“nel crudo sasso intra Tevero e Arnoda Cristo prese l’ultimo sigilloche le sue membra due anni portarno”.

“quando a colui ch’a tanto ben sortillopiaque di trarlo susi a la mercedech’el meritò nel suo farsi pusillo,a’ frati suoi, si com’agiuste rede,raccomandò che l’amassero a fede;e del suo grembo l’anima preclaramover si volle, tornando al suo regno,e al suo corpo non volle altra bara”.

concepita come luogo di raccoglimento e di meditazione. Delle quat-tro allegorie affrescate sulle vele della volta a crociera 29, due in parti-colare sollecitano la nostra curiosità: l’allegoria della Povertà, raffigu-rante lo sposalizio di S. Francesco con Madonna Povertà, attribuibilead un discepolo della scuola giottesca, detto Parente di Giotto, e da-tabile intorno al 1316-18 30, costituisce quell’elemento spiccatamentemistico, non inseribile nel disegno comunicativo della basilica supe-riore, ma certamente appropriato alla condivisione della regola daparte dei confratelli; che i committenti francescani conoscessero giàl’undicesimo canto del Paradiso? Anche se ciò non è dimostrabile, ècerto, però, che Dante figura insieme a S. Francesco e S. Chiara nellaseconda allegoria, quella della Castità: si vuole forse in tal modo con-sacrare ufficialmente colui che ha espresso in una poesia casta e cele-stiale il messaggio francescano, facendo della sua scriptura una mira-bile pictura?

Se Dante, e non solo nel canto dei superbi, fa ripetutamente pro-fessione di umiltà artistica, riconoscendo anche alla propria poesia lastessa caducità che caratterizza tutte le altre espressioni di vanagloriaterrena, è però vero che in altri celebri passi del poema egli rivelaapertamente la sua alta aspirazione alla gloria: tornano in mente l’in-vocazione ad Apollo nel canto I del Paradiso 31 o l’incipit del cantoXXV della stessa cantica in cui rivendica l’incoronazione poetica nelsuo bel S. Giovanni 32. “C’è, come pensano alcuni, un conflitto inDante tra desiderio di gloria e di eccellenza e consapevolezza della lo-ro vanità?” 33. Per rispondere a tal quesito non basta distinguere tragloria e nominanza, l’una durevole e meritoria, l’altra effimera e trans-eunte; tra l’opera e il grido, solida costruzione la prima, fugace fiato divento il secondo. Ciò varrebbe infatti per tutti gli artisti, ma per Dan-

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__________29 Esse sono l’allegoria della Povertà, della Castità, dell’obbedienza e il trion-

fo del Santo.30 L’opera, originariamente commissionata al Maestro, fu successivamente da

lui stesso affidata ai suoi migliori allievi.31 Cfr. Par. I, vv. 22-27.32 Cfr. Par. XXV, vv. 7-9.33 Cfr. U. Bosco - G. Reggio, Purgatorio, Le Monnier, p. 188.

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Scuola di Giotto, Assisi, Basilica Sup., vele della volta a crociera.Allegoria della povertà.

Scuola di Giotto, Assisi, Basilica Sup., vele della volta a crociera.Allegoria della castità.

te c’è di più: c’è che l’arte di cui egli riconosce il possibile tramonto èquella che segue la moda, che, in gara col tempo e con la modernità,ad essi dovrà inevitabilmente cedere, e ciò forse potrà accadere allasua stessa poesia stilnovistica, ma non al Poema.

L’interpretazione anagogica è il valore aggiunto della Commedia,che non è soltanto un affresco di eventi reali o di immagini fittizie, li-mitati nel tempo e nello spazio, ma attinge all’eterno, dov’è silenzio etenebre / la gloria che passò, e dove la fama acquistata in opere meri-torie risplende perennemente dinanzi a Dio, che ne è il vero dictator:la poesia pluristilistica e mitopoietica di Dante è dunque sintesi di tut-te le arti, ne condivide i criteri estetici, ma ne sublima con l’anagogiala forma e il significato e si rivela come cosa nova agli occhi di chi, at-tratto dalla sua bellezza esteriore, ne penetri la perfetta essenza ripo-sta, traendone sicura vertute e canoscenza (cfr. Inf. XXVI, v. 120): lalegittimazione dell’arte poetica del Nostro sta proprio nella procla-mata sacertà del Poema al quale ha posto mano e cielo e terra (Par.XXV, v. 2).

Exegi monumentum aere perennius, esultava Orazio; sostenuto daben altra fede nella creatività dell’uomo, anche Dante ha eretto con laCommedia un monumento che né l’incessante procedere degli anniné la fuga dei tempi potrebbe mai demolire.

È per questo che ci piace concludere coi celeberrimi versi manzo-niani, per l’occasione riferiti al poeta 34:

Fu vera gloria? Ai posteril’ardua sentenza: nui chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in luidel creator suo spiritopiù vasta orma stampar.

Siracusa, 9 aprile 2003

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__________34 Cfr. A. Manzoni, Il cinque maggio, vv. 31-36.

PARADISO, c. I

Nell’analessi iniziale della terza cantica, Dante, novello Davide,eleva il suo canto vittorioso a proclamare l’agognato compimento delsuo itinerario spirituale (cfr. Salmo 19, 1-4)

“I cieli narrano la gloria di Dioil firmamento proclama l’opera delle sue mani…non è racconto, non è linguaggio;non è voce che possa essere intesa”.

Ma all’emozione profonda suscitata dall’unicità dell’esperienzaestatica, subentra il turbamento determinato dalla coscienza del li-mite dell’umana natura, per cui l’intelletto, facoltà divina elargitaall’uomo, che pure ha colto l’infinita potenza di Dio, si smarriscedavanti ad essa e retrocede fino all’afasia. In strettissima sequenzasorge spontanea l’invocazione ad Apollo-Dio, con cui il poeta, ri-nunciando definitivamente alla propria altezza di ingegno, si offreinvece quale vas electionis, disposto a fornire la trascrizione uma-na d’una ispirazione sovrumana, inevitabilmente inficiata dal limi-te terreno della memoria 1. Si pone, quindi, sin dalle prime battu-te quella dissagguaglianza che Dante lamenterà anche nel colloquiocol trisavolo Cacciaguida tra la voglia di manifestare il proprio sta-to di grazia e l’argomento, ossia lo strumento espressivo concessoai mortali:

“Ma voglia ed argomento ne’ mortali,per la cagion ch’a voi è manifesta,diversamente son pennuti in ali”. (Par. XV, vv. 79-81)

Consapevolezza che, ribadita in vario modo, lo costringerà infinead ammettere:

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__________1 Cfr. ib., vv 7-9.

“Oh, quanto è corto il dire e come fiocoal mio concetto! E questo, a quel ch’i’ vidi,è tanto, che non basta a dicer “poco”. (Par. XXXIII, vv. 121-123)

* * *La gloria di colui che tutto move per l’universo penetra, e risplende in una parte più e meno altrove. 3Nel ciel che più de la sua luce prende fu’ io, e vidi cose che ridire né sa né può chi di là sù discende; 6perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire. 9Veramente quant’ io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sarà ora materia del mio canto. 12O buono Appollo, a l'ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso, come dimandi a dar l’amato alloro. 15Infino a qui l’un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso. 18Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsïa traesti de la vagina de le membra sue. 21O divina virtù, se mi ti presti tanto che l’ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti, 24vedra’mi al piè del tuo diletto legno venire, e coronarmi de le foglie che la materia e tu mi farai degno. 27Sì rade volte, padre, se ne coglie per trïunfare o cesare o poeta, colpa e vergogna de l’umane voglie, 30che parturir letizia in su la lieta delfica deïtà dovria la fronda

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peneia, quando alcun di sé asseta. 33Poca favilla gran fiamma seconda: forse di retro a me con miglior voci si pregherà perché Cirra risponda. 36Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo; ma da quella che quattro cerchi giugne con tre croci, 39con miglior corso e con migliore stella esce congiunta, e la mondana cera più a suo modo tempera e suggella. 42Fatto avea di là mane e di qua sera tal foce, e quasi tutto era là bianco quello emisperio, e l’altra parte nera, 45quando Beatrice in sul sinistro fianco vidi rivolta e riguardar nel sole: aguglia sì non li s’affisse unquanco. 48E sì come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pelegrin che tornar vuole, 51così de l'atto suo, per li occhi infuso ne l'imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso. 54Molto è licito là, che qui non lece a le nostre virtù, mercé del loco fatto per proprio de l’umana spece. 57Io nol soffersi molto, né sì poco, ch’io nol vedessi sfavillar dintorno, com’ ferro che bogliente esce del foco; 60e di sùbito parve giorno a giorno essere aggiunto, come quei che puote avesse il ciel d'un altro sole addorno. 63Beatrice tutta ne l'etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote. 66Nel suo aspetto tal dentro mi fei, qual si fé Glauco nel gustar de l’erba che ’l fé consorto in mar de li altri dèi. 69

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Trasumanar significar per verba non si poria; però l’essemplo basti a cui esperïenza grazia serba. 72S’i’ era sol di me quel che creasti novellamente, amor che ’l ciel governi, tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti. 75Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso con l’armonia che temperi e discerni, 78parvemi tanto allor del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso. 81La novità del suono e ’l grande lume di lor cagion m'accesero un disio mai non sentito di cotanto acume. 84Ond’ ella, che vedea me sì com’ io, a quïetarmi l'animo commosso, pria ch’io a dimandar, la bocca aprio 87e cominciò: “Tu stesso ti fai grosso col falso imaginar, sì che non vedi ciò che vedresti se l'avessi scosso. 90Tu non se’ in terra, sì come tu credi; ma folgore, fuggendo il proprio sito, non corse come tu ch’ad esso riedi”. 93S’io fui del primo dubbio disvestito per le sorrise parolette brevi, dentro ad un nuovo più fu’ inretito 96e dissi: “Già contento requïevi di grande ammirazion; ma ora ammiro com’ io trascenda questi corpi levi”. 99Ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro, li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante che madre fa sovra figlio deliro, 102e cominciò: “Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l'universo a Dio fa simigliante. 105Qui veggion l’alte creature l’orma

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de l'etterno valore, il qual è fine al quale è fatta la toccata norma. 108Ne l'ordine ch’io dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, più al principio loro e men vicine; 111onde si muovono a diversi porti per lo gran mar de l’essere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti. 114Questi ne porta il foco inver’ la luna; questi ne' cor mortali è permotore; questi la terra in sé stringe e aduna; 117né pur le creature che son fore d'intelligenza quest’ arco saetta, ma quelle c’hanno intelletto e amore. 120La provedenza, che cotanto assetta, del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto nel qual si volge quel c'ha maggior fretta; 123e ora lì, come a sito decreto, cen porta la virtù di quella corda che ciò che scocca drizza in segno lieto. 126Vero è che, come forma non s’accorda molte fïate a l’intenzion de l’arte, perch’ a risponder la materia è sorda, 129così da questo corso si diparte talor la creatura, c’ha podere di piegar, così pinta, in altra parte; 132e sì come veder si può cadere foco di nube, sì l’impeto primo l’atterra torto da falso piacere. 135Non dei più ammirar, se bene stimo, lo tuo salir, se non come d'un rivo se d’alto monte scende giuso ad imo. 138Maraviglia sarebbe in te se, privo d’impedimento, giù ti fossi assiso, com’ a terra quïete in foco vivo”. 141Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.

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IL SEGNO DELL’INEFFABILETra Dante e il ’900

Dante sente distintamente la povertà della parola umana di fronteall’oltranza della trasumanazione: le sue esperienze pregresse di poetae filosofo, legate strettamente alla realtà terrena e alla dimensione sto-rica, non sono più sufficienti a disegnare scenari metafisici e metasto-rici: di qui l’esigenza di affidarsi non più solo alle Muse, entità alle-goriche indicanti i più alti valori della scienza e della tecnica umane,ma ad Apollo, figura della Grazia e della stessa manifestazione poeti-ca atta a celebrarla:

“Infino a qui l’un giogo di Parnasoassai mi fu; ma or con ambeduem’è uopo intrar ne l’aringo rimaso”. (Par. I, vv. 16-18)

Inoltre l’assenza di un patrimonio letterario ed iconografico cherappresenti il Paradiso nell’immaterialità della contemplazione beati-ficante del Divino, muove il Poeta alla ricerca di nuovi significanti lin-guistici, che scardinino l’accentuata plasticità espressiva fin qui utiliz-zata. Il poeta “né sa né può ridire” (ib., vv. 5-6) 2 ciò che ha visto: nonpuò fare altro che subordinare il mezzo umano alla trascendenza del-la parola divina che penetra in lui rendendolo Profeta, per la primavolta – etimologicamente – colui che parla per bocca di Dio. Si sdop-pia, così, nel Paradiso la dimensione profetica della poesia dantesca:Dante non è più solo il poeta-viandante, attore di un percorso salvifi-co individuale e collettivo, e pertanto depositario di verità arcane de-stinate a rigenerare l’umanità, ma diviene anche il poeta- veggente,colui che discorrendo 3 di verità in verità – analogicamente – ci conse-gna l’arcano. Il ruolo del poeta-veggente rimane, dopo Dante, sospe-so per secoli nella letteratura e ritorna con rinnovata funzione inizia-tica solo nel ’900: se comunque nel Medio Evo il poeta “alta creatu-

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__________2 Ep. XIII a Cangrande, 29.3 Indica l’atto della creazione di Dio in Par. XXIX, v. 21.

ra” scandaglia il macrocosmo dell’universo, cercando in esso l’ormadell’etterno valore (ib., vv. 106-107), decifrandone così il finalismoescatologico, il “veggente” decadente, prometeico e dissacrante ladrodi fuoco, si tuffa nel microcosmo dell’io per cogliere il punto di con-tatto profondo tra soggetto ed oggetto, instaurando un rapporto disensi fra fenomeno e noumeno: “Egli cerca se stesso…Ineffabile tortu-ra, nella quale egli ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovru-mana, nella quale egli diventa il grande infermo, il grande criminale, ilgrande maledetto…e il sommo sapiente. Egli giunge infatti all’igno-to…e quand’anche, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle pro-prie visioni, le avrà pur viste: …All’incarico dell’umanità, degli anima-li, addirittura, dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; seciò che riporta di laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dàl’informe: trovare una lingua… questa lingua sarà dell’anima per l’ani-ma, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; …il poeta definirebbe laquantità d’ignoto che nel suo tempo si desta nell’anima universale” 4.Diversa risulta essere, dunque, la missione del poeta moderno, chedall’abisso dell’ignoto, attraverso la poesia, fa riemergere le ambigui-tà illuminanti del magma difforme della esistenza, ma analogo è co-munque il compito di dar voce all’ineffabile.

Dante profeta, allora, per far ciò, modula la parola profana con laparola sacra, attingendo con sapiente accortezza al patrimonio scrit-turale ed a quello mistico-medievale, dal linguaggio della Scolastica edalla tradizione classica, approdando così a nuove e sincretiche formeespressive, che arricchiscono ulteriormente il suo plurilinguismo.

Già nel Vecchio Testamento la PAROLA si pone come archeti-po della creazione e nel Nuovo come archetipo della rivelazione.La PAROLA nelle Scritture è insieme evento ontologico ed epifa-nico. Nei due incipit del libro del Genesi e del Vangelo di Gio-vanni, infatti, la creazione e la rivelazione sono affidate alla PA-ROLA, sono eventi sonori: “Iddio disse: “Sia la luce” e la luce fu”;“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo eraDio”. Dio dunque non si manifesta agli uomini nella oggettualità

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__________4 Cfr. A. Rimbaud, Lettera al Veggente, 1871.

dell’immagine, ma nella voce; è il λóγος, senza cui nulla esiste diciò che esiste 5.

Dante è senz’altro consapevole del primato della parola rispettoall’immagine sancito dall’autorità scritturale: “Il Signore parlò a voi dimezzo al fuoco; voi udiste il suono delle parole, ma non vedeste nessu-na immagine, non udiste che una voce” 6; è per questo che il Paradisodi Dante perde la materialità della tradizione precedente e si rarefànell’inconsistenza della luce e del suono. Ma come descrivere l’inten-sità della luce o l’armonia celestiale delle sfere rotanti? Se il λóγος, laparola creatrice, irradiandosi nell’universo produce l’α’ν ′αλογος, cioèil rapporto tra creatore e creato 7, anche la parola del poeta risuoneràcome emanazione del divino e produrrà un canto (cfr. ib. v. 12) che,rifrangendosi, per analogia riattingerà l’assoluto. Questo movimentocircolare della creazione sonora è patrimonio scritturale di tutte le re-ligioni: ricorre nella Thora e nella Bibbia, nel Corano e nei libri delVeda; Dante se ne appropria e su di esso fonda nel Paradiso il segnodell’ineffabile, l’unica possibile forma espressiva in cui la Parola, mi-mesi dell’atto creativo di Dio, sia capace di veicolare l’altro e l’oltre, siponga come sola rete di collegamento tra finito ed infinito, tra tempoed eterno. Ineffabile è l’infinità dell’Empireo, il fulgore della sua lu-ce, la melodia dei cieli e l’eternità della beatitudine, ma la poesia, se-gno di riconoscimento dell’essenza, diventa σ ′υµβολον, perfetta cor-rispondenza tra le cose create da Dio e la loro percezione umana;simbolica è dunque la parola che unisce suono umano e valore divinoe di essa Dante va alla ricerca, sottraendosi proprio con la poesia del-l’ineffabile alla temerarietà del folle volo, cioè alla tentazione diaboli-ca di utilizzare segni esclusivamente umani, insufficienti a significarequella vista nuova (Par. XXXIII, v. 136).

Analogia e simbolo sono inequivocabili strutture espressive diascendenza scritturale dunque, ma anche la circolarità ontologica edepifanica, per cui Dio creatore, irradiandosi nelle varie parti dell’u-niverso, riconduce a sé ogni cosa, evidente sia nell’incipit che nel-

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__________5 Cfr. Genesi, 1,3; Giovanni 1,1; 1,3.6 Cfr. Deuteron. 4,12.7 Cfr. ib. vv. 103-105.

l’explicit del nostro canto e – in gradatio – nell’intera cantica, è pre-sente, come già detto, nella tradizione biblica. È Dante stesso chenell’epistola XIII a Cangrande della Scala ci fornisce a tal proposi-to le fonti illuminanti 8: “Dice infatti lo Spirito Santo per mezzo di Ge-remia: “Io riempio il cielo e la terra”; e nel Salmo: “Dove mi sottrar-rò dallo spirito tuo? E dove fuggirò dalla tua presenza? Se salirò inCielo Tu ci sei; se scenderò nell’inferno, ci sei. Se prenderò le mie pen-ne…”. E la Sapienza dice che “lo spirito del Signore riempì il mondo”.E l’Ecclesiaste nel quarantaduesimo: “Della gloria di Dio è piena lasua opera”. Il che attestano anche gli scritti dei pagani; onde Lucanonel nono libro: “Giove è dovunque guardi, dovunque vai.” 9. Ma è an-che vero che riferendosi allo stesso libro della Sapienza (cfr. 13,5),Dante trae il modello della complessità dell’ordine universale e lo ri-flette nel sistema dell’ineffabile: ad un movimento deduttivo (“lo spi-rito del Signore riempì il mondo”) dall’universale al particolare, cor-risponde, sempre nella Sapienza un movimento induttivo (“…dallagrandezza e bellezza delle creature, ragionando, si arriva a conoscere illoro autore”), dal particolare all’universale. È quanto realizza Danteprofeta e poeta: Apollo spira nel petto suo (cfr. ib. v. 19) e vi entra,informando di sé deduttivamente la poesia con la sua divina virtù(la parola nelle parole: e Dante si fa profeta); quando, poi, Dantepoeta ascende col suo “cantico della salita” 10 fino all’Empireo, la Ge-rusalemme celeste, induttivamente svela l’essenza del λóγος, co-gliendone sinesteticamente la luce e il sorriso (dalle parole alla pa-rola). Nella poesia dantesca, in cui ancora il simbolo mantiene unaradice razionale ed è propriamente un segno, rimanda cioè ad un’es-senza definita, simbolismo ed allegorismo di fatto coincidono e con-corrono ad interpretare quelle mille sfaccettature del reale che con-vergono nell’universalismo compatto della cultura medievale. Nelsimbolismo moderno, invece, simbolo ed allegoria si differenziano,perché il primo coglie fulmineamente per via intuitiva ed alogica l’u-

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__________8 Cfr. Ep. XIII, pr. 22, in Tutte le opere a cura di L. Blasucci, Firenze, Sanso-

ni 1966. 9 Lucano, Pharsalia, IX, 580.10 Sembrerebbe quasi di riscontrare il modello dei “salmi delle ascensioni”,

intonati dai pellegrini che andavano a Sion, la Gerusalemme terrena.

niversale impressionisticamente frantumato nel particolare; pertantola realtà si presenta a Charles Baudelaire in “Corrispondenze” comeuna “foresta di simboli”, in cui

“… i profumi e i colorie i suoni si rispondono come echilunghi che di lontano si confondonoin unità profonda e tenebrosa vasta come la notte ed il chiarore”. 11

L’allegoria consiste invece nella separazione tra particolare eduniversale: il poeta perviene attraverso un’indagine razionale econsequenziale (dis-correndo) ad un assoluto che non è palese-mente intuibile e la cui cognizione, quando c’è, è l’esito faticosodi un procedere per gradus, di cui comunque si sottendono spes-so i nessi di raccordo. La poesia italiana del ’900 va sempre piùverso un allegorismo complesso ed ambivalente, come si nota ades. nella poesia di Camillo Sbarbaro: “Io che come un sonnam-bulo cammino” 12.

L’apparizione improvvisa di una donna che cammina “lenta comeuna regina” sveglia il poeta dal sonnambulismo di un’esistenza alie-nata; ne deriva il tentativo di adattare il passo per spezzare l’isola-mento e per stabilire un rapporto attivo con la realtà sensuale:

“Tu mi cammini innanzi lenta comeuna regina.Regolo il mio passo- io subito destato dal mio sonno -sul tuo ch’è come una sapiente musica” (vv. 4-8)

La donna viene dunque a rappresentare una possibilità di armoniatra realtà e soggetto, ne risveglia gli istinti vitali e ne determina la svol-ta esistenziale:

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__________11 C. Baudelaire, Corrispondenze, vv. 5-9. 12 C. Sbarbaro, “Io che come sonnambulo cammino” in Pianissimo, 1914.

“Una luce si fa nel dormivegliadella mia vita.Tutto è sospeso come in un’attesa.Non penso più. Sono contento e muto:batte il mio cuore al ritmo del tuo passo” (vv. 16-20)

Nel trasalire di Sbarbaro e nell’apparizione della donna c’è lastessa allegoria dell’esperienza dantesca e la medesima funzione sal-vifica di Beatrice; nel “sonno” del poeta è la “selva oscura”, nella lu-ce che lo desta dal torpore è la grazia di una rivelazione inattesa;nella sintonia tra il battito del cuore e il passo della donna è l’avve-nuta simbiosi tra il particolare e l’universale, da cui nascono l’appa-gamento e il silenzio.

La compenetrazione tra il poeta e il valore infinito nel Paradi-so, prima di risolversi nella folgorazione conclusiva del trenta-treesimo canto, in cui davvero ogni facoltà umana si annulla nel-l’armonia suprema di Dio “la mia mente fu percossa / da un ful-gore in che sua voglia venne” (cfr. Par. XXXIII, vv. 140-141), siattua tramite il ricorso a particolari procedimenti espressivi, gra-zie ai quali Dante persegue il suo tentativo “ineffabile” di coniu-gare sensi ed intelletto, realtà e visione, terra e cielo. Partecipa al-l’assolvimento di questo arduo compito l’apporto consistente del-la tradizione mistica del Medio Evo, a cui il poeta attinge a varilivelli: ora ne rievoca il linguaggio e le metalessi usuali, che ten-dono ad un realismo accentuato per meglio evidenziare nella con-cretezza delle immagini il valore spirituale in esse simboleggiato;ora ne utilizza i sovrasensi interpretativi in chiave precipuamentecristologica, fondendoli originalmente con l’icasticità del mitoclassico. Nel nostro canto sono presenti in vario modo tutti que-sti stilemi dell’esposizione mistica: l’espressione l’intelletto si pro-fonda (v. 8), ad es., anticipa il campo metaforico del mar dell’es-sere, che rappresenta l’ordine provvidenziale e l’infinità incom-mensurabile del cosmo:

“onde si muovono, a diversi portiper lo gran mar dell’essere”… (cfr. ib. vv. 112-113).

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Così ancora, per spiegare l’inevitabilità della gravitazione spiri-tuale del pellegrino, Beatrice ricorre al topos metaforico dell’istinto-freccia (v. 19), l’impeto primo (v. 134) che proietta l’uomo verso ilbene:

“e ora lì, come a sito decreto,cen porta la virtù di quella cordache ciò che scocca drizza in segno lieto”. (ib. 124-126). 13

Di ascendenza mistica possono ritenersi le domesticae compara-tiones che, molto frequenti nell’intera cantica, vi costituiscono un ir-rinunciabile orizzonte umano, pur nella verticalità della tensione vi-sionaria, perché contribuiscono ad inglobare anche il lettore nellacircolarità comunicativa del sacrato poema ed assolvono in tal modoalla sua essenziale funzione didattica. Così – in strettissima sequen-za – ai vv. 48-51 si fa riferimento al fenomeno fisico della riflessio-ne della luce, che si arricchisce dell’immagine del falcone pellegrino,nota agli esperti di arte venatoria; a cui ancora si può accostare quel-la dell’aquila, l’unico uccello che, capace di tollerare la luce del so-le, riesce a librarsi fino ad esso: tutti paragoni facilmente compren-sibili per un lettore che abbia normali conoscenze naturalistiche; eancora

“parvemi tanto allor del cielo accesode la fiamma del sol, che pioggia o fiumelago non fece alcun tanto disteso” (ib. vv. 79-80)

e

“Non dei più ammirar, se bene stimo,lo tuo salir, se non come di un rivose d’alto monte scende giuso ad imo” (ib. vv. 136-138),

256

__________13 Attinenti ad esso sono tutti i verbi di movimento presenti nel canto, indi-

canti entrambe le direzioni basso-alto, alto-basso, tra i quali è notevole l’antitesitra il salire e lo scendere nella penultima terzina (vv. 136-138).

che ci riportano ad efficaci scorci paesaggistici, mentre, infine comeferro che bogliente esce del foco (ib. v. 60) e come a terra quiete in focovivo (ib. v. 142) riproducono scene di vita quotidiana, la cui espressi-vità risulta particolarmente evidente nell’immagine di Beatrice, madreansiosa verso il figlio in delirio:

“Ond’ella, appresso d’un pio sospiro,li occhi drizzò ver me con quel sembianteche madre fa sovra figlio deliro” (ib. vv. 100-102)

Il realismo descrittivo si accentua, inoltre, col ricorso ad espres-sioni sentenziose, come in “Poca favilla gran fiamma seconda” (v. 24).

Ma è sicuramente di impronta mistica e cristologica la complessi-tà dell’impianto anagogico dell’intera cantica: per quanto la tensionealla salvezza sia sottesa all’ideazione di tutto il poema, essa è menoevidente nell’Inferno, si configura come spinta morale nel Purgatorioe solo nel Paradiso assume il valore effettivo di sursum ductio; solonella terza cantica infatti è possibile al lettore accorto scindere la so-vrapposizione dell’anagogia dall’analogia in uno stesso elemento, in-dividuando la valenza dei primi tre sensi, letterale, allegorico e mora-le, dal quarto, l’anagogico.

Nel nostro canto tale duplice lettura è sovrapponibile a tutti i rife-rimenti tratti dal mito: così Apollo è buono (v. 13) e padre (v. 28), mal’anagogia ce lo restituisce come figura di Cristo; il diletto legno del-l’alloro (v. 25) non è più soltanto metafora dell’amata Dafne, ma ana-gogicamente si rivela lignum crucis, le cui fronde segnano il trionfo,oltre che di Cristo stesso, anche di chi, attraverso la vita attiva o con-templativa (Cesare o poeta, v. 29), consegue la perfezione spirituale.Nel caso di Marsia 14, il satiro che sfidò col suono del suo flauto agre-ste la cetra di Apollo, si individua l’arroganza dell’artefice che, fidan-do solo sulle sue forze umane, osa gareggiare in ingegno con Dio: lalettura anagogica del mito pagano ci riporta all’ispirazione diabolicadi quella poesia che scinde il suono umano dal divino e presume cheil primo possa prevalere sul secondo.

257

__________14 Ovidio, Metamorfosi, VI, 382-400.

Sempre dalle Metamorfosi di Ovidio Dante trae il mito di Glauco,il pescatore della Beozia che, cibandosi di alcune alghe prodigiose,viene tramutato in dio marino 15: l’interpretazione anagogica qui è di-retta e fornita dallo stesso testo poetico:

“Trasumanar significar per verbanon si poria; però l’essemplo bastia cui esperïenza grazia serba”. (ib. vv. 70-72)

Nella poesia dantesca, dunque, l’ineffabile non rinuncia al comu-nicabile, ma trova con esso un mirabile equilibrio proprio grazie aquesti sapienti accorgimenti interpretativi e stilistici; nella poesia del’900, invece, “la parola è molto più impegnata con l’ineffabile che conil comunicabile” (E. Gioanola), come appare anche dalla nota affer-mazione montaliana “Non chiederci la parola”, in cui la poesia è pro-posta come conoscenza al negativo.

Nella poesia di E. Montale più che la parola, infatti, è l’oggetto chediventa evocativo della negatività dell’esistenza, riproponendo in ter-mini moderni, sulla scorta del dantismo di T. S. Eliot, l’espressioni-smo delle immagini e l’allegorismo morale della poesia dantesca. Lasua produzione poetica, infatti, dis–correndo dall’essenzialità e dalrealismo degli “Ossi” all’accentuato allegorismo delle “Occasioni”,giunge in “Bufera ed altro” a visionarie descrizioni di situazioni stori-che apocalittiche, la cui soluzione può essere affidata soltanto all’av-vento di una presenza soterica, Clizia, che anagogicamente annunciaed ottiene il riscatto dell’umanità. È obbligato il riferimento al com-ponimento “Primavera hitleriana”: i rimandi danteschi sono esplicitinell’epigrafe e nel testo, in cui compaiono due versi di un sonetto at-tribuito a Dante da G. Contini: “Né quella ch’a veder lo sol si gira”(epigrafe) e “…che il non mutato amor, mutata serbi” (cfr. v. 34). Sitratta in entrambi i casi di Clizia, la ninfa trasformata in girasole, checontinua ad amare Apollo, dio del Sole, rivolgendosi verso la sua lu-ce. Nella funzione allegorica di Clizia si assommano anche nella poe-sia montaliana reminiscenze classiche, innestate in un impianto neo-

258

__________15 Ovidio, Metamorfosi, XIII, 898-968.

stilnovistico, che non esclude echi biblici e suggestioni cristologiche:Clizia conserva, pur avendo mutato forma, l’immutato amore ed ilsuo destino è di guardare verso l’alto fino a che il suo amore non sicongiunga con il Divino per sconfiggere i mostri della storia e propi-ziare un’alba di salvezza per tutti:

… “Guarda ancorain alto, Clizia, è la tua sorte, tuche il non mutato amor, mutata serbi,fino a che il cieco sole che in te portisi abbacini nell’Altro e si distruggain Lui, per tutti”. … (cfr. vv. 32-37)

Alla circolarità stilistica dell’ineffabile partecipa in larga misuraquello che Dante nell’epistola a Cangrande indica come modustransumptivus, ossia quella fitta trama di connessioni analogiche checomprende tutto il repertorio dei traslati (campi semantici e metafo-rici, sinestesie, ossimori, antitesi etc.). Nel nostro canto le transump-tiones più rilevanti sono quelle attinenti al tema della “luce” e della“visione”, topoi letterari già ampiamente consacrati dalla tradizionestilnovistica, ma qui caricati d’una significazione religiosa prevalente.Vastissimo è il campo semantico relativo alla luce, che determina qua-si una disseminazione lessicale in tutto il canto (fiamma, favilla, lucer-na, raggio, foco, lume, sfavillare), ciascuno di questi termini assommain sé componenti evocative fortemente variate: i singoli significanti sipiegano alle esigenze descrittive in modo sempre nuovo, ora ricor-rendo alla variante sinonimica complessa (mane, giorno, bianco), oraaccostando la suggestione sinestetica (Nel ciel che più de la sua luceprende, v. 4 o l’espressione m’accesero un disio, v. 83), ora inserendo ladittologia ossimorica (mane/sera, bianco/nero, luce/ombra), ora infineapprodando alla vera e propria polisemia nei termini letizia, v. 31 eacume, v. 84, che rendono iperbolicamente il concetto di intensità. Alv. 66 le luci sono utilizzate metaforicamente ad indicare gli occhi, mail primato assoluto spetta al termine sole che ricorre nel canto quattrovolte in senso proprio ai vv. 47-54-63-80 ed una volta in perifrasi la lu-cerna del mondo, v. 88: tale insistenza è giustificata dal sovrasenso mi-stico connesso all’immagine del pianeta come significazione di Dio

259

stesso, per cui anche il buon Apollo è allegoricamente il Dio del soleed anagogicamente Cristo 16; così in evidente climax ascendente, Cri-sto trionfante tra i beati nel c. XXIII si manifesta proprio come un so-le che illumina le stelle:

“vid’ i’ sopra migliaia di lucerneun sol che tutte quante l’accendea, come fa ’l nostro le viste superne;e per la viva luce traspareala lucente sustanza tanto chiaranel viso mio, che non la sostenea”. (Par. XXIII, vv. 28-33) 17

Quest’ultima citazione introduce naturalmente il tema della vi-sione, dato essenziale dell’ineffabilità, dal momento che proprio lastraordinarietà della visio determinerà alla fine l’afasia del poeta.L’abbondanza dei verbi estetici nel nostro canto è palese: il verbovedere ricorre ben otto volte (vv. 5-25-47-59-89-90-106-133) alterna-to con intensivi (affisse - fisse - fissa) e frequentativi (riguardare - ri-volse) o introdotto in perifrasi (per li occhi infuso, v. 50; a sé mi fe-ce atteso, v. 77); le varianti attenuative parve (v. 61) e parsemi (v. 79)sono ancora limitate in questo canto, in cui il poeta gode di un no-tevole potenziamento delle facoltà sensoriali, grazie al raggiunto gra-do di perfezione umana simboleggiato dalla radura dell’Eden in cuisi trova: è il poeta stesso, infatti, a confessarci di aver potuto, graziealla presenza di Beatrice, fissare li occhi al sole oltre nostr’uso (cfr.ib. v. 54) e ci spiega:

“Molto è licito là, che qui non lecea le nostre virtù, mercè del locofatto per proprio de l’umana spece”. (ib. vv. 55-57)

260

__________16 Non è un caso che un analogo riferimento al Valore divino ricorra anche

nell’esordio del c. X, vv. 1-6 in cui Dante e Beatrice si apprestano a salire nel cie-lo del sole.

17 I canti X e XXIII del Paradiso rappresentano, secondo Bernardo di Chia-ravalle, il passaggio ai gradi successivi della disposizione del paradiso: vestigiumDei - imago Dei - claritas Dei.

Per lo stesso motivo il verbo soffersi non ha un’accezione negativa,piuttosto si configura come una vox media: io non soffersi molto, nésì poco (v. 58); è intuitivo che la frequenza delle forme attenuative,nella doppia accezione di sembrare ed apparire, aumenterà in misuraproporzionale alla difficoltà della visione 18. Infine, interessante inter-sezione tra due campi semantici della luce e della visione è il verbo ri-splende, v. 2, che analogicamente ci rimanda al tema dottrinario dellarivelazione divina.

L’esuberanza di segni legati alla luce e alla vista informa, dunque,l’ineffabilità del Paradiso, poiché l’essenza stessa della beatitudine simanifesta come ardore di carità, metaforicamente rappresentato dal-la luce, e come pura contemplazione; ciò non toglie che nel nostrocanto vi siano anche termini legati al senso dell’udito, che contribui-scono a rendere quella simbiosi di luce e di suono di derivazione scrit-turale: armonia, v. 78 e suono, v. 82 compaiono in senso proprio, men-tre le espressioni sorrise parolette brevi, v. 95 e la materia è sorda, v.129 ricorrono all’accezione sinestetica a cui, nella seconda, si aggiun-ge anche il significato metaforico afferente al concetto di libero arbi-trio e quello analogico con l’atto della creazione artistica:

… “come forma non s’accordamolte fiate a l’intenzion de l’arte,perch’a risponder la materia è sorda”. (cfr. ib. vv. 127-129)

Ed altra intersezione tra il campo semantico della visione e quellodel suono può intendersi il verbo manifesti, v. 24, anch’esso allusivoal valore epifanico della poesia del Paradiso.

La poesia del ’900 fa del modus transumptivus, di cui parla Dante, l’e-lemento costitutivo della sua poetica e, pur avvalendosi delle stesse figuredi suono e di immagine, si avvia sempre più verso il dissolvimento dellestrutture lirico-narrative, di modo che, quand’anche esse permangonoapparentemente classiche, s’insinua una tensione eretica con la tradizio-ne, tesa ad evocare palpiti segreti e legami ignoti ed irrazionali col cosmo.

261

__________18 In Par. XXXIII, ad es., il verbo parere ricorre ben sette volte, ai vv. 69-113-

116-119-128-131.

Scrive Giovanni Pascoli ne “Il fanciullino” 19 che il poeta “scoprenelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose (…). A costituireil poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione che ilmodo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra (…). Il poeta è coluiche esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessunoavrebbe detta (…). La poesia consiste nella visione di un particolareinavvertito, fuori e dentro di noi”.

Il poeta sente il mistero ineffabile della natura e lo svela grazie al-la poesia: egli è colui che “trova nelle cose il loro sorriso e la loro la-crima”, che “impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter am-mirare”, con una visione deformante che dall’impressionismo percet-tivo giunge allo stravolgimento del reale, rigorosamente inconoscibi-le. Ecco perché tramite i simboli, le analogie, le metafore e soprattut-to le sinestesie nella poesia del ’900 i contorni del reale si sfumano, glispazi si intersecano, i piani temporali si sovrappongono, i colori e isuoni si confondono, e tutto ciò all’arbitrio del poeta, che avverte in-distintamente e spesso coagula in un’unica immagine suggestioni con-trastanti.

Cosi in Novembre, per es., l’ambiguità del paesaggio agreste in-ganna i sensi: lo spazio esteriore, segnato dalle nere trame della natu-ra, si proietta nello spazio interiore del poeta, ossessionato dalla mor-te: le percezioni visive ed olfattive lo illudono, per cui l’estate si dile-gua nella fragilità e nel silenzio dell’autunno:

Gemmea l’aria, il sole cosi chiaroche tu ricerchi gli albicocchi in fiore, e del prunalbo l’odorino amarosenti nel cuore…

Ma secco è il pruno, e le stecchite piantedi nere trame segnano il sereno,e vuoto il cielo, e cavo al piè sonantesembra il terreno.

262

__________19 G. Pascoli: “Il fanciullino, da Miei pensieri di varia umanità, Marzocco FI

1897.

Silenzio intorno: solo, alle ventate,odi lontano da giardini ed orti,di foglie un cader fragile. È l’estate,fredda, dei morti.

Tutto ciò non avviene certo nella poesia dantesca, in cui ogni av-vertimento, razionale o sensibile, è sempre connesso ad uno sforzo in-tellettivo, ad una precisa volontà di comprendere lo scibile nella suatotalità, ad una decifrazione del reale che ricalca quella del geometra(cfr. XXXIII, v. 133), per il fatto che prelude a quella reductio adunum tipicamente medievale che, in specie nel Paradiso, coincide conla visione di Dio, abisso infinito di conoscenza: a lasciar intendere ciòil poeta ricorre, nell’ultimo canto, alla consueta metafora del volumeche si squaderna alla difettiva cognizione terrena dell’uomo, pur es-sendo perfettamente coeso, conflato, nella sua forma universal (cfr.XXXIII, v. 91)

“Nel suo profondo vidi che s’internalegato con amore in un volumeciò che per l’universo si squaderna”. (Par. XXXIII, vv. 85-87)

La perpetua sete del deiforme regno 20 si palesa dunque nella ric-chezza di termini estetici, ma tale desiderio è sistematicamente umi-liato dall’eccezionalità della materia, che l’umana memoria non riescea trattenere. Precisa opportunamente Cesare Federico Goffis: “A vo-ler leggere con attenzione il Paradiso, vi traspare un mondo sentitocome ombra del reale, affiorante nell’esperienza mistica fondata sualcune certezze razionali e su una straordinaria fede fatta di cose spe-rate, in sostituzione di una memoria che non può esistere per assenzadi esperienza storica” 21. Anche in questo caso è Dante stesso a for-nirci le indicazioni necessarie a decifrare i modelli della sua condizio-ne ascetica: cita “l’apostolo che parla ai Corinzi, quando dice: “So unuomo, non so se col corpo o senza corpo, lo sa Iddio, rapito fino al ter-

263

__________20 Cfr. Par. II, vv. 19-20.21 Goffis, Il linguaggio mistico del Paradiso.

zo cielo, e vide gli arcani di Dio, che non è lecito all’uomo di riferire” 22,e vi si identifica addirittura nel nostro canto:

“S’i’ era sol di me quel che creastinovellamente, amor che ’l ciel governi,tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti”. (ib. vv. 73-75)

E continua ancora nello stesso passo dell’epistola a Cangrande: “Ec-co, dopo che l’intelletto aveva sorpassato la ragione umana con l’ascen-sione, non ricordava che cosa fosse avvenuto fuori di sé. E questo ci è sta-to comunicato da Matteo, laddove i tre discepoli caddero bocconi, non ri-ferendo poi nulla come immemori”. Il riferimento è, ovviamente, alvangelo della trasfigurazione di Gesù, eccezionale prodigio di cui fu-rono testimoni Pietro, Giovanni e Giacomo, i quali videro Gesù tra-sfigurarsi “davanti a loro: il suo volto risplendette come il sole e le suevesti divennero candide come la luce”, dice l’evangelista. “Ed è scritto inEzechiele “Vidi e caddi bocconi”, insiste il poeta, aggiungendo con il suotono polemico contro i malevoli: “E quando non basti ciò ai cavillatorileggano Riccardo da San Vittore nel libro Sulla contemplazione, legganoBernardo nel libro Sulla considerazione, leggano Agostino nel libro Sul-la Quantità dell’anima, e non cavilleranno”. A Dante come a San Pao-lo, come agli Apostoli è stato concesso il privilegio di un’esperienza ini-ziatica, grazie alla quale egli non solo testimone, è anche protagonistadi un processo di elevazione e di trasfigurazione allo stesso tempo; al-la sublimità della meta corrisponde pertanto l’innalzamento del regi-stro linguistico che, quasi in forma osmotica, passa attraverso l’uso dellatino o di latinismi inconsueti e ricercati, atti a solennizzare, con la lin-gua propria del culto, il rito dell’iniziazione religiosa, e procede alla co-niazione di neologismi, necessari ad esprimere le inusitate suggestionidi questa progressiva trasfusione dell’umano nel divino.

Il nostro canto è contesto di latinismi, dai più consueti e quasi la-tenti (surge, foci, mane, acume, commosso, ammirazione, ammirare, mi-ro, maraviglia, quieto e quiete, ed altri) ai più scoperti (ire, licito non le-ce, unquanco, aspetto, atteso, accline, riedi, ad imo, assiso, viso); ricorre

264

__________22 Epistola XIII, 28.

al calco di termini (veramente, assai mi fu, m’è uopo, de l’atto suo, mifei, com’io, permotore) e di costrutti sintattici latini 23; inserisce, infine,per due volte espressioni in lingua latina (per verba, v. 70, e requievi, v.97) espediente a cui ricorrerà in varie occasioni per rendere più appro-priatamente il valore misterico e liturgico del suo viaggio.

Meno numerosi, ma senz’altro pregnanti di significato, i neologismipresenti nel testo, “trasumanar” (v. 70) è la parola-chiave del canto e Dan-te le conferisce un rilievo particolare, ponendola in posizione enfatica nel-la terzina centrale, a collegamento sincretico tra il mito classico di Glaucoe il riferimento paolino alla lettera ai Corinzi, di cui si è già detto, proprioperché il poeta stesso condivide l’elevatio ad coelum di entrambi. I termi-ni disvetito (v. 94) ed inretito (v. 96), in forte opposizione ossimorica, scan-discono il procedimento filosofico del dubbio sistematico; il verbo sempi-terni (v. 76) è coniato come intensivo latino, a sottolineare il moto costan-te ed atemporale delle sfere celesti, racchiuse nell’immobile Empireo.

Ma al culmine della progressione linguistica del Paradiso, dai lati-nismi al latino, al mai detto, sta un ultimo possibile livello il non det-to, l’afasia, il silenzio.

La verticalità della parola poetica che tende a trascendere se stessadal piano letterale all’anagogico, fino all’annullamento di ogni possibi-le significato nell’afasia è comune a Dante e a tanti poeti del ‘900. È U.Saba a parlare di un verticalismo di Ungaretti, alludendo al suo inces-sante interrogativo religioso, che porta a compimento nelle ultime rac-colte, da Sentimento del tempo attraverso il Dolore fino alla Terra pro-messa, quella stessa attitudine a proiettarsi nell’immenso e ad ascoltareil silenzio, presente sin da Allegria: la poesia di Ungaretti nasce dalla suacondizione di esule e dalla contemplazione dello spazio silente del de-serto, emblema di un contatto misterioso ed ancestrale con l’Universo,di cui egli stesso si riconosce docile fibra 24. Nella poesia Mattina:

M’illumino d’Immenso

265

__________23 Notevoli, in ispecie, i participi congiunti: desiderato (v.77), così pinta (v.

132) e torto (v. 135).24 Cfr. I fiumi, vv. 30-31.

la fulgurazione poetica dell’immensità del Cosmo si traduce in un’im-magine di Luce, i versi-parola pongono in stretta relazione il finito el’infinito; in Commiato la collocazione della parola, che materializza ilsilenzio, è valorizzata dal rapporto con lo spazio bianco, l’abisso dacui essa emerge, che ne fa risaltare l’unicità e l’essenzialità:

GentileEttore Serrapoesiaè il mondo l’umanitàla propria vitafioriti dalla parolala limpida meravigliadi un delirante fermento.

Quando trovoin questo mio silenziouna parolascavata è nella mia vitacome un abisso.

Ed ancora ne Il porto sepolto Ungaretti attinge alla profondità de-gli abissi per tornare alla luce con i suoi canti e poi disperderli: dun-que il poeta, dopo il rito battesimale di purificazione e iniziazione,partecipa alla rivelazione del Divino e, riproducendo il gesto della Si-billa del XXXIII canto del Paradiso, disperde i suoi oracoli, rinun-ciando così alla possibilità di comunicare con la poesia verità inson-dabili:

Vi arriva il poetae poi torna alla luce con i suoi cantie li disperde.

Di questa poesiami restaquel nullad’inesauribile segreto.

266

Anche nella poesia di Ungaretti, allora, il silenzio, visualizzato dal-l’uso sapiente dello spazio bianco, corrisponde, come nella poesiadantesca, all’afasia, di chi, raggiunta l’estasi, riconosce l’impossibilitàdi esprimerla.

Dante fa poesia anche nell’atto di non poterne fare e consapevoleche lo spannung del Paradiso non avrebbe potuto essere trasmessocon gli usuali strumenti narrativi, si affida anche ad accorgimenti nonpercettibili alla vista e all’udito, ma ugualmente significativi di un al-tro ed evocativi di un oltre: la sua poesia è fatta anche di silenzi, anziè proprio dal gioco del detto e del non detto, dei segni e delle pauseche essa trae gran parte della sua suggestività. Eloquenti manifesta-zioni del silenzio sono le pause forti, segnate dalle cesure spesso anti-cipate, in conseguenza di un accentuato inarcamento del verso prece-dente in enjanbement, che servono a mettere in rilievo suoni, parole,immagini, isolandoli per una frazione di secondo nel testo 25; sono leinterpunzioni in genere che, pur in assenza di suono, divengono verie propri segni espressivi, perché contribuiscono a creare l’effetto del-la suspance nella narrazione, fatta ora di balbettii, ora di sospensionidi fiato (i punti esclamativi), ora di ritmi incalzanti, ora di rallenta-menti meditativi; sono le interiezioni, che con una minima emissionedi voce, svelano le ansie del poeta, servono ad invocare l’aiuto e adesprimere lo stupore.

Dice bene, a spiegare il fenomeno dell’afasia nel Paradiso, A. Ja-comuzzi: “Il cammino annunciato nel c. I della Commedia verifiche-rà al termine l’insufficienza della mediazione sensibile e quindi la pa-gina bianca nel libro della memoria, il silenzio” 26.

Linguaggio iniziatico è dunque quello del Paradiso, per lettori chenon sono in piccioletta barca 27; esso si arricchisce, inoltre, di innestisquisitamente filosofici, o più ampiamente strutturali, per dirla conCroce, che però – in chiave figurale – partecipano al sistema dell’inef-

267

__________25 Molti termini in enjanbement sono solo di tre sillabe, per cui la cesura è mol-

to anticipata: fu’ io, v. 5; venire, v. 26; peneia, v. 33; tal foce, v. 44; tu ’l sai, v. 75.26 A. Jacomuzzi: L’imago al cerchio: invenzione e visione nella Divina Commedia.27 Cfr. Par. II, v. 1.

fabile, poiché il linguaggio della filosofia e della teologia sulla terra an-ticipa e prefigura quello delle verità celesti. È per questo che, in con-clusione, ci sembra opportuno allargare le nostre considerazioni ai duecanti estremi della terza cantica, perché nel primo, quando il poeta èancora sulla terra, si pongono quelle premesse indispensabili che tro-veranno la loro piena formulazione nell’ultimo, quando Dante sarà alcospetto di Dio nell’Empireo: così la prima terzina del nostro canto ri-costruisce una circolarità narrativa, a cui abbiamo già accennato:

“La gloria di Colui che tutto moveper l’universo penetra, e risplendein una parte più e meno altrove”. (ib. vv. 1-3)

In penetra e risplende è ravvisabile il linguaggio della scolastica, tribu-tario di suggestioni aristoteliche (Dio come primo motore immobile) e neo-platoniche (Dio come emanazione dell’universo), come Dante stesso spie-ga nell’Epistola XIII al par. 64: “penetra in quanto all’essenza e risplende inquanto all’esistenza”. Ma già questa prima asserzione anticipa circolar-mente quegli ultimi 40 versi del canto, occupati dalla dotta dissertazionedottrinaria sulla provvidenzialità della gravitazione metafisica del poeta, ilcui concetto-chiave è la perfezione dell’ordine universale – la forma – os-sia il principio essenziale, che rende l’universo simile a Dio. Anche nelXXXIII canto ritorna la medesima terminologia filosofica relativa alla for-ma universal, con la differenza che allora Dante ha ascoltato la dimostra-zione teologica di Beatrice, ora, invece, vede con i suoi occhi direttamentein Dio sustanze ed accidenti e lor costume (cfr. v. 88), pervenendo – comeuna freccia giunta finalmente al bersaglio – alla fine di ogni suo desiderio:

“Ed io ch’ al fine di tutt’ i disiiappropinquava, sì com’io dovea,l’ardor del desiderio in me finii”. (Par. XXXIII, vv. 46-48)

E ancora la positio loci, successiva all’invocatio nel canto I, è costellatadi complicate coordinate astronomiche, in cui l’intersecazione dei quattrocerchi immaginari si carica di significazioni simboliche e morali, alluden-do alle virtù cardinali e teologali, che cooperano per la redenzione del-l’uomo. In seguito il poeta, ascendendo attraverso i cieli concentrici del si-

268

stema astronomico tolemaico, giunge finalmente nell’Empireo: ebbene,anche nel c. XXXIII s’insiste sull’immagine del cerchio, che diventa in ter-mini matematici emblema della perfezione di Dio 28; tre giri simboleggia-no la trinità, di tre colori e di una contenenza; la quadratura del cerchio espri-me lo sforzo dell’intelletto di razionalizzare il dogma; ma, soprattutto laforma della circolarità sigilla l’ultima terzina del poema nella similitudined’una ruota che gira uniformemente in ogni punto, ad indicare l’attimosupremo in cui il disio e il velle si conformano all’amore divino:

“ma già volgeva il mio disio e ’l vellesì come rota ch’igualmente è mossa,l’Amor che move il sole e l’altre stelle”. (Par. XXXIII, vv. 143-145)

Solo nel momento estatico disio e velle si compenetrano, cioè vogliaed argomento in Dante, ancora mortale, si corrispondono prodigiosa-mente, impedendogli, però, di librarsi con le sue penne, espressione del-la fantasia del poeta, nel mistero del dogma divino. Se ciò fosse accadu-to, se Dante profeta, eco delle parole di Dio, avesse osato descrivere l’i-mago al cerchio e come vi s’indova, la sua poesia sarebbe diventata diabo-lica, avrebbe sfidato il limite consacrato dall’autorità scritturale che ciconsegna di Dio solo la voce, inibendocene sempre l’immagine. Il divinocrea l’umano, ma l’umano non può creare il divino: al poeta manca l’at-to primordiale della creazione e la sua parola sarà epifanica, non può es-sere ontologica. Dunque l’ineffabile nella poesia dantesca non è solo unespediente stilistico e linguistico, ma risponde senza ambiguità alcuna aduna scelta di ortodossia religiosa che allinea il Poema alla sacralità delleScritture, per diretta ammissione del Poeta stesso: il suo è davvero

…. “’l poema sacroal quale ha posto mano e cielo e terra”. (Par. XXV, vv. 1-2)

Siracusa, maggio 2001

269

__________28 In termini numerologici, poi, il c. XXXIII è anche il n. 100: l’unico canto

a tre cifre, la prima delle quali è l’unità da cui spirano i due zeri, e corrispondeal 10x10, cioè alla Perfezione divina.

270

PURGATORIO, c. I

Sulla spiaggia della remota isoletta del purgatorio Dante s’imbattein un

... “veglio solo,degno di tanta reverenza in vista,che più non dee a padre alcun figliuolo.” (Purg. I, vv. 31-33)

Si tratta di un personaggio storico, dall’aspetto solenne e ieratico,poeticamente rivisitato, come spesso avviene, rispetto alle fonti classi-che cui il poeta attinge 1: Catone l’Uticense, che vi risiede quale cu-stode del secondo regno (ib. v. 4), allegoria della libertà morale dalpeccato; quattro luci sante ne illuminano il volto come se risplendessedella Grazia divina, poiché egli ha davvero goduto d’un privilegiostraordinario quando Cristo, scendendo nel Limbo dopo la sua re-surrezione, lo ha liberato insieme ad Adamo per destinarlo a così altamansione spirituale e per salvarlo 2.

Le sue perplessità nell’accogliere Dante vivo e Virgilio dannato so-no comunque fugaci: Virgilio stesso lo informa di quanto si sta com-piendo per volontà di Dio ed egli, benigno e severo ad un tempo, in-dica loro la strada e le necessarie procedure da seguire per intrapren-dere il laborioso cammino di purificazione.

Ma perché Dante ha fantasiosamente collocato in questo ruoloproprio Catone l’Uticense, pagano, eppur fornito d’una religio impli-cita che gli proviene dall’esercizio assiduo delle virtù naturali; suicida,ma per fede stoica e rigore etico; nemico di Cesare, ma per strenua di-fesa della propria libertà individuale? Non è il caso di addentrarci nel-la vasta mole di critica dantesca destinata a dirimere la questione; anoi basti qui rilevare come Catone, figura svelata e compiuta del con-dottiero che in Utica rinunciò alla vita 3, costituisca un ennesimo ed

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__________1 Cfr. Lucano, Bellum civile, II, 372-91.2 Cfr. ib. v. 75.3 E. Auerbach, Studi su Dante, Milano 1963 pagg. 217-223.

eccelso modello per il poeta: essi condividono quella magnanimitàche è sofferto e consapevole ripudio della follia (e infatti Catone edUlisse si fronteggiano, contrapponendosi quasi agli estremi dello stes-so canto!); li accomuna il culto della libertà personale, efficacementeesplicitato da Virgilio nei celeberrimi versi:

“libertà va cercando, ch’è sì cara,come sa chi per lei vita rifiuta.” (ib. vv. 71-72);

ma la comunanza profonda tra i due consiste soprattutto nell’esserestati entrambi prescelti ad assolvere una missione di salvezza, com-piutasi in un duplice processo, dapprima discendente ed in seguitoascendente. Alla luce di ciò anche la captatio benevolentiae apparen-temente pretestuosa, con cui Virgilio richiama alla memoria di Cato-ne la moglie Marzia 4, si arricchisce d’un ulteriore valore morale seconfrontiamo la sequenza del poema col passo del Convivio 5, in cuiDante attribuisce a questa figura femminile il significato simbolicodell’anima che, degradata nel corpo, ritorna infine al Creatore: “perche significa la nobile Anima...tornare a Dio. E quale uomo terreno piùdegno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo.” Si riproponeancora allegoricamente questo doppio movimento verticale, verso ilbasso e verso l’alto, che caratterizza l’intera Commedia nello spazio,nel tempo e nella stessa concezione morale.

Ed è in questa chiave di lettura che abbiamo interpretato il rap-porto tra l’orizzonte e l’infinito: la terra che, ritrattasi per ribrezzo inun emisfero, si slancia verso il Cielo nell’altro; il tempo che, varia-mente scandito nella storia e nel racconto, si risolve comunque nel-l’eterno; l’umano che, corrotto dal peccato, si proietta pur sempre neldivino. A questi tre requisiti risponde pienamente il mondo purgato-riale: attraverso il suo paesaggio, le sue implicazioni metaforiche, lesue estensioni concettuali nell’intero Poema abbiamo provato a trac-ciare quegli assi ideali che disegnano nell’universo dantesco le coor-dinate spirituali per giungere a Dio.

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__________4 Cfr. ib. vv. 78-84.5 Cfr. Convivio IV, 28.

Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé mar sì crudele; 3e canterò di quel secondo regno dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno. 6Ma qui la morta poesì resurga, o sante Muse, poi che vostro sono; e qui Calïopè alquanto surga, 9seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro lo colpo tal, che disperar perdono. 12Dolce color d’orïental zaffiro, che s’accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro, 15a li occhi miei ricominciò diletto, tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta che m’avea contristati li occhi e ’l petto. 18Lo bel pianeto che d’amar conforta faceva tutto rider l’orïente, velando i Pesci ch’erano in sua scorta. 21I’ mi volsi a man destra, e puosi mente a l’altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch’a la prima gente. 24Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle: oh settentrïonal vedovo sito, poi che privato se’ di mirar quelle! 27Com’ io da loro sguardo fui partito, un poco me volgendo a l ’altro polo, là onde ’l Carro già era sparito, 30vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che più non dee a padre alcun figliuolo. 33Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a’ suoi capelli simigliante, de’ quai cadeva al petto doppia lista. 36Li raggi de le quattro luci sante

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fregiavan sì la sua faccia di lume, ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante. 39"Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?”, diss’ el, movendo quelle oneste piume. 42"Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte che sempre nera fa la valle inferna? 45Son le leggi d'abisso così rotte? o è mutato in ciel novo consiglio, che, dannati, venite a le mie grotte?”. 48Lo duca mio allor mi diè di piglio, e con parole e con mani e con cenni reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio. 51Poscia rispuose lui: “Da me non venni: donna scese del ciel, per li cui prieghi de la mia compagnia costui sovvenni. 54Ma da ch'è tuo voler che più si spieghi di nostra condizion com’ ell’ è vera, esser non puote il mio che a te si nieghi. 57Questi non vide mai l’ultima sera; ma per la sua follia le fu sì presso, che molto poco tempo a volger era. 60Sì com’ io dissi, fui mandato ad esso per lui campare; e non lì era altra via che questa per la quale i’ mi son messo. 63Mostrata ho lui tutta la gente ria; e ora intendo mostrar quelli spirti che purgan sé sotto la tua balìa. 66Com’ io l’ho tratto, saria lungo a dirti; de l'alto scende virtù che m’aiuta conducerlo a vederti e a udirti. 69Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. 72Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti

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la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara. 75Non son li editti etterni per noi guasti, ché questi vive e Minòs me non lega; ma son del cerchio ove son li occhi casti 78di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni: per lo suo amore adunque a noi ti piega. 81Lasciane andar per li tuoi sette regni; grazie riporterò di te a lei, se d’esser mentovato là giù degni”. 84"Marzïa piacque tanto a li occhi miei mentre ch’i’ fu’ di là”, diss’ elli allora, “che quante grazie volse da me, fei. 87Or che di là dal mal fiume dimora, più muover non mi può, per quella legge che fatta fu quando me n’usci’ fora. 90Ma se donna del ciel ti move e regge, come tu di’, non c’è mestier lusinghe: bastisi ben che per lei mi richegge. 93Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso, sì ch'ogne sucidume quindi stinghe; 96ché non si converria, l'occhio sorpriso d'alcuna nebbia, andar dinanzi al primo ministro, ch’è di quei di paradiso. 99Questa isoletta intorno ad imo ad imo, là giù colà dove la batte l’onda, porta di giunchi sovra ’l molle limo: 102null’ altra pianta che facesse fronda o indurasse, vi puote aver vita, però ch’a le percosse non seconda. 105Poscia non sia di qua vostra reddita; lo sol vi mosterrà, che surge omai, prendere il monte a più lieve salita”. 108Così sparì; e io sù mi levai sanza parlare, e tutto mi ritrassi al duca mio, e li occhi a lui drizzai. 111

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El cominciò: “Figliuol, segui i miei passi: volgianci in dietro, ché di qua dichina questa pianura a’ suoi termini bassi”. 114L’alba vinceva l’ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar de la marina. 117Noi andavam per lo solingo piano com’ om che torna a la perduta strada, che ’nfino ad essa li pare ire in vano. 120Quando noi fummo là ’ve la rugiada pugna col sole, per essere in parte dove, ad orezza, poco si dirada, 123ambo le mani in su l’erbetta sparte soavemente ’l mio maestro pose: ond’ io, che fui accorto di sua arte, 126porsi ver’ lui le guance lagrimose; ivi mi fece tutto discoverto quel color che l’inferno mi nascose. 129Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto. 132Quivi mi cinse sì com’ altrui piacque: oh maraviglia! ché qual elli scelse l’umile pianta, cotal si rinacque 135subitamente là onde l’avelse.

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...PURO INFINO AL PRIMO GIRO

“Dolce color d’orïental zaffiro,che s’accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro,a li occhi miei ricominciò diletto, tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta che m’avea contristati li occhi e ’l petto.” (Purg. I, vv. 13-18)

Il sollievo di Dante pellegrino, uscito finalmente a riveder le stel-le 6, si effonde in un piacevole stato d’attesa che si concreta in questanuova atmosfera di luce tersa ed accogliente, resa ancor più confor-tante dalla consapevolezza di aver definitivamente abbandonato l’au-ra morta, la terribile esperienza infernale. Per la prima volta si profilaalla sua vista l’orizzonte geografico, quasi confuso tra il mare e il cie-lo, sintesi di umano e di divino, che il poeta avverte subito inconsa-pevolmente come transito salvifico.

Già nell’Inferno Dante si era paragonato ad un naufrago che, sfug-gito al mare in tempesta, si rincuora dello scampato pericolo, volgen-do ancora indietro lo sguardo affannato ad un orizzonte inquieto, po-polato di ombre e di mostri:

“E come quei che con lena affannata,uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata,così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,si volse a retro a rimirar lo passoche non lasciò già mai persona viva.” (Inf. I, vv. 22-27);

ma ora si accinge ad approdare nel regno della purificazione, un’altamontagna emergente da acque nitide e tranquille 7, illuminata da unaluce ridente che induce all’amore e al bene. La stessa immagine in

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__________6 Cfr. Inf. XXXIV, v. 139.7 Cfr. Par. III, v. 11.

un’altra luce folgorò Ulisse nel suo colpevole viaggio nell’altro emi-sfero, quando quella montagna, bruna / per la distanza 8, tutt’altro cheapprodo ospitale, si rivelò per lui inesorabile mausoleo di morte, latomba della velleitaria conoscenza che spinge l’uomo a sfidare conarmi inefficaci l’altezza divina. Ecco perché ad Ulisse non è concessodi raccontare ad alcuno il suo folle volo 9, se non a chi, come Dante,testimone e vettore, si appresta a solcare quella medesima distesa ma-rina 10 con la navicella del suo alto ingegno, sfuggito alla follia 11 e pre-disposto all’umiltà. E se il primo narra:

“Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;ché de la nova terra un turbo nacquee percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l’acque;e la quarta levar la poppa in susoe la prora ire in giù, com’altrui piacque,infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.” (Inf. XXVI, vv. 136-142)

Dante, invece,“come altrui piacque” (cfr. ib. v. 133) si cinge nel no-stro canto d’un giunco schietto, simbolo dell’umiltà necessaria all’e-spiazione dei peccati, a differenza di Ulisse che dalla medesima vo-lontà divina viene inabissato per sempre.

Alla precoce allegria fa seguito nell’eroe omerico l’amaro pianto;all’iniziale sconforto, invece, subentra il diletto dell’animo in Dante:nel primo parlano i sensi, nel secondo si manifesta lo spirito.

L’evidente relazione, sottolineata dal lessico e dalla metafora, rive-la la misura di Dante uomo, corda tesa tra due punti fermi della sto-ria precristiana, Ulisse, che ha conosciuto la disfatta, e Catone, veritàeterna di quanto con il suo gesto ha prefigurato nella storia umana.

L’immagine paesaggistica del mare e la metafora del viaggio per

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__________8 Cfr. Inf. XXVI, vv. 133-34.9 Cfr. Inf. XXVI, vv. 131-32.10 Cfr. ib. vv. 130-32.11 Cfr. ib. vv. 58-60.

nave sono emblematiche nel poema dantesco, come risulta sin dallaprima terzina del nostro canto (vv. 1-3):

“Per correr miglior acque alza le veleomai la navicella del mio ingegno,che lascia dietro a sé mar sì crudele”.

Il mare nell’Inferno è oggettivazione della vita terrena: nelle se-quenze già riportate dalla prima cantica la sua forza naturale ed im-petuosa evoca la materialità dell’esistenza trascorsa nel rincorrere pia-ceri mutevoli e beni effimeri; nell’emisfero antartico, invece, esso di-viene sostanza vitale e lustrale per ogni creatura che aspiri al difficileraggiungimento del Bene supremo. Esso segna quella distanza incol-mabile dalla terra che fa del mondo purgatoriale l’area di confine na-turale tra finito e infinito 12; così, nel canto II del Purgatorio il vasellosnelletto e leggero condotto dall’Angelo nocchiero solca quel mare au-strale senza affondare la chiglia, trasportando quasi a volo radentesulla superficie dell’acqua le anime prive di peso dalla lontana focedel Tevere 13, a rimarcare l’abissale distanza dalla terra e l’incipienzadella meta celeste:

“Vedi che sdegna li argomenti umani,sì che remo non vuol, né altro veloche l’ali sue, tra liti sì lontani.” (Purg. II, vv. 31-33);

ed anche nel canto VIII ritorna la locuzione lontane acque (v. 57) inoccasione del toccante incontro con Nino Visconti che, caduto inequivoco, suppone l’amico defunto e lo interpella:

... “Quant’è che tu venistia piè del monte per le lontane acque?”,

da cui appare chiaro che la lontananza logistica tra le due terre, quel-

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__________12 Cfr. ib. vv. 100-01; II, vv. 13-15.13 Cfr. Purg. II, vv. 13-42.

la mondana e quella oltremondana, evidenziata proprio dalla presen-za delle acque, determina il distacco morale non già dagli affetti sin-ceri, ma solo dalle vane passioni.

Nel Paradiso, infine, il mare è espressione dell’universo infinito ,fisico e metafisico insieme, realtà molteplice derivante dall’Uno, chela informa sia nell’essenza che nell’esistenza 14:

“Ne l’ordine ch’io dico sono acclinetutte nature, per diverse sortipiù al principio loro e men vicine;onde si muovono a diversi portiper lo gran mar de l’essere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti.” (Par. I, vv. 109-14)

È il mare del mitico pescatore Glauco 15 che, mangiando un’algamiracolosa, da essa, quasi fosse cibo ecumenico, viene deificato:

“Nel suo aspetto tal dentro mi fei,qual si fé Glauco nel gustar de l’erbache ’l fé consorto in mar de li altri dei.” (Par. I, vv. 67-69);

è il mare dei mistici medievali, di Ugo da S. Vittore, figura immedia-ta dell’Infinito e dell’oltranza divina, specchio dell’Empireo.

Diverso è di conseguenza lo stato d’animo nell’affrontare il mardell’essere: chi lo solca fidando soltanto sulle proprie forze, nutritodell’ardore del suo viaggio temerario, lo vede come una sfida alla ma-teria insensibile, eterno capitano Achab all’inseguimento della balenae all’affermazione esasperata di se stesso 16; chi, invece, come l’esule,lo attraversa con la speranza di raggiungere una meta agognata, river-sa su di esso malinconiche aspettative, sorte dall’intimo dualismo tral’errare e il procedere, tra il rimpianto di occasioni perdute e l’ansiadi terre promesse:

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__________14 Cfr. Par. I, vv. 1-3.15 Cfr. Ovidio, Metamorfosi XIII, 904 etc.16 Cfr. Inf. XXVI, v. 100: ma misi me per l’alto mare aperto.

“Noi eravam lunghesso mare ancora,come gente che pensa a suo cammino,che va col cuore e col corpo dimora.” (Purg. II, vv. 10-12)

E ancora, nel celeberrimo esordio del canto VIII della stessa can-tica, il Poeta, rievocando emozioni terrene di lontananza e di esilio, lesintetizza nel navigante che sul far della sera avverte il lancinante rim-pianto della patria e la nostalgia degli affetti più cari:

“Era già l’ora che volge il disioai navicanti e ’ntenerisce il corelo dì c’han detto ai dolci amici addio;” (Purg. VIII, vv. 1-3).

Chi, infine, come il pescatore, si nutre della sostanza marina, sianel mito pagano che nella tradizione cristiana, vive l’esperienzastraordinaria della pesca miracolosa, della moltiplicazione dei beni edel trasumanare, l’inspiegabile sensazione di aver superato i limitiumani:

“Trasumanar significar per verba non si poria; però l’essemplo basti a cui esperienza grazia serba.” (Par. I, vv. 70-72)

Ecco perché Dante, novello Glauco, nel II canto del Paradiso sisente in dovere di mettere in guardia i lettori sprovveduti dal prose-guire il viaggio al suo seguito:

“O voi che siete in piccioletta barca,desiderosi d’ascoltar, seguitidietro al mio legno che cantando varca,tornate a riveder li vostri liti:non vi mettete in pelago, ché forse,perdendo me, rimarreste smarriti.L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;” (Par. II, vv. 1-7).

È ancora forte il monito dell’esperienza ulissiaca : ingegni ben piùraffinati, sostenuti dalla titanica tensione verso l’infinito e tuttavia non

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sorretti da ali adeguate alla sublimità del volo, sono già miseramentenaufragati sulla linea dell’orizzonte umano; è dunque più prudenteche in pochi, ma saldamente conformati ai valori dello spirito, si av-venturino per la stessa rotta tracciata dal poeta:

“Voialtri pochi che drizzaste il colloper tempo al pan de li angeli, del qualevivesi qui ma non sen vien satollo,metter potete ben per l’alto sale vostro naviglio, servando mio solcodinanzi a l’acqua che ritorna equale.” (Par. II, vv. 10-15).

Dopo il buio d’inferno e di notte privata / d’ogne pianeto 17 inquesto paesaggio purgatoriale d’un realismo spirituale, come diceE. Bigi 18, torna a splendere la quotidianità del cielo mattutino: lastella di Venere, scortata dai Pesci, annuncia il sorgere del sole incongiunzione con l’Ariete, la costellazione più benefica per la mon-dana cera 19. Le congiunzioni astrali descritte dal Poeta all’inizio diquesto nuovo percorso palingenetico manifestano un clima spiri-tuale di serena predisposizione alla salvezza che si compirà solo nelParadiso:

“L’alba vinceva l’ora mattutinache fuggia innanzi, sì che di lontanoconobbi il tremolar de la marina.” (ib. vv. 115-117)

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__________17 Cfr. Purg. XVI, vv. 1-2.18 E. Bigi, Canto I del Purgatorio, in G. Getto 1966, pgg. 661-682.19 Cfr. Inf. I, vv. 37-38; Par. I, vv. 37-42: Surge ai mortali per diverse foci / la

lucerna del mondo; ma da quella / che quattro cerchi giugne con tre croci, / con mi-glior corso e con migliore stella / esce congiunta, e la mondana cera / più a suo mo-do tempera e suggella.

La positività di questa congiunzione astrale è sottolineata nel I canto di ognicantica. Sotto la costellazione dell’ariete, secondo la cultura medievale, Dio creail mondo, nasce Adamo, si incarna e muore Cristo. Molteplici significati esoteri-ci ed escatologici le si affidano.

La medesima ora del tempo e la dolce stagione 20 che già avevanofatto illudere Dante peccatore ai piedi del colle di poterlo ascendere,superando l’ostacolo della prima fiera, si ripropongono ora come fo-riere d’una nuova certezza, verso cui gli stessi corpi celesti orientanoil viator. Egli, infatti, illuminato da lo bel pianeto che d’amar conforta(ib. v. 19), avverte il riverbero dell’amore-carità e si volge verso destraa contemplare in alto quattro stelle / non viste mai fuor ch’a la primagente (cfr. ib. vv. 23-24), il cui immediato conforto lo induce a pro-rompere:

“Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:oh settentrïonal vedovo sito,poi che privato se’ di mirar quelle!” (ib. vv. 25-27).

Esse gl’infondono, infatti, l’ansia della purgazione, accendendo inlui l’ardore delle virtù cardinali, necessarie alla rigenerazione morale;come un navigante nell’emisfero boreale governa la propria rotta leg-gendo la mappa astronomica del cielo e, seguendo l’ago magneticodella bussola, si lascia guidare dall’Orsa Maggiore, così Dante, con-templando quei nuovi astri che sorgono proprio quando nell’altroemisfero tramonta il Carro, ha l’impressione di aver finalmente ritro-vato la diritta via:

“Noi andavam per lo solingo pianocom’om che torna a la perduta strada,che ‘nfino ad essa li pare ire in vano.” (ib. vv. 118-20)

L’andare in vano è nocivo nel Purgatorio, dove ogni sosta invo-lontaria può causare un ritardo nel compimento del processo peni-tenziale e risolversi quindi in una colpevole negligenza:

“ché perder tempo a chi più sa più spiace” (Purg. III, v. 78) 21.

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__________20 Cfr. Inf. I, v .43.21 Cfr. ancora Purg. V, vv. 10-11; XII, vv. 77-78 / 84-87; XV, vv. 120-3 / 136;

XVIII, v. 103; XXIII, vv. 4-7; XXIV, vv. 1-2; XXVII, vv. 61-63.

La dinamicità del Purgatorio si evidenzia anche nei rapidi tra-passi temporali: Dante e Virgilio, ben consapevoli dell’urgere del-la salvezza, incedono veloci, proiettati verso il futuro per un tra-gitto particolarmente lungo e tortuoso, disseminato di balze sco-scese ed ardui dirupi 22, che potrebbero rallentarne il passo. Il viag-gio, intrapreso all’alba della domenica di Resurrezione, si conclu-de, infatti, dopo tre giorni, al mezzogiorno del mercoledì succes-sivo, in un crescendo di luci e di ombre, in un’alternanza di gior-ni e di notti, di esperienze ascetiche e di sogni profetici; poichéanche le notti, in cui non si può fisicamente procedere per la pre-senza delle tenebre, rischiarate comunque dalle tre facelle che sim-boleggiano le virtù teologali 23, lungi dall’essere statiche ed op-pressive, costituiscono momenti fondamentali di conoscenza edavanzamento: così Lucia, mentre Dante dorme, lo trasporta al dilà dello scoscendimento del Purgatorio, consentendogli di rag-giungere l’Angelo portiere; la femmina balba lo ammonisce sui fal-si piaceri terreni; Lia e Rachele, infine, gli rammentano il valoremorale della vita attiva e contemplativa per il conseguimento del-la Grazia.

Al contrario, la buia voragine infernale sanza tempo tinta 24 s’i-noltra verso il centro della terra sino alla terrificante presenza del-l’angelo ribelle: la discesa è resa ancor più accidentata dalle diffi-coltà visive determinate dal fioco lume 25 e dalla persistenza delleombre del peccato; non v’è temporalità oggettiva in questo regnocreato da Dio prima che fosse il mondo 26, in cui l’inesorabilità del-la dannazione cristallizza gli stessi personaggi in un immobilismostatuario; semmai il tempo della coscienza emerge come memoriae rimpianto della vita perduta 27, quasi ad esorcizzare la mancanzadi futuro e l’assenza di un cambiamento. Anche il percorso di Dan-te sembrerebbe improntato alla stessa atemporalità, se non fosse

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__________22 Cfr. Purg. III, vv. 46-51; IX, vv. 49-51...23 Cfr. Purg. VIII, vv. 88-93.24 Cfr. Inf. III, v. 29.25 Cfr. Inf. III, v. 75.26 Inf. III, vv. 7-8.27 Cfr. Inf. V, vv. 121-123.

per Virgilio, che più volte lo richiama alla realtà del viaggio, am-monendolo sullo scorrere del tempo, di cui egli sembra inconsa-pevole:

“Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace;ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta, e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace”... (Inf. XI, vv. 112-14).

Nel c. XX:

“Ma vienne omai, ché già tiene ’l confined’ambedue gli emisperi e tocca l’ondasotto Sobilia Caino e le spine;e già iernotte fu la luna tonda;” (vv. 124-127)

e nel XXIX:

“E già la luna è sotto i nostri piedi:lo tempo è poco omai che n’è concesso,e altro è da veder che tu non vedi”. (vv. 10-12),

dove la velocità del tempo è anche scandita dal moto della luna, chenel regno infernale è l’astro guida in opposizione alla luce solare. Nel-l’ultimo canto la sollecitazione di Virgilio, esplicitamente riferita allalunghezza e alla difficoltà della via, ci fornisce un dato cronologicopreciso:

Ma la notte risorge, e oramaiè da partir, che tutto avem veduto” (Inf. XXXIV, vv. 68-69)

si conclude il tragitto discendente ed inizia quello ascendente:

“Levati sù”, disse ’l maestro, “in piede:la via è lunga e ’l cammino è malvagio,e già il sole a mezza terza riede.” (Inf. XXXIV, vv. 94-96):

Virgilio dunque afferma che nel momento in cui essi si apprestano

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a percorrere la natural burella 28 il sole si trova già in posizione me-diana tra la prima e la terza ora, ossia sono le 7.30 del mattino del sa-bato santo, ma non secondo il meridiano di Gerusalemme, per il qua-le sarebbero le 19.30 dello stesso giorno. Dopo la notte passata contanta pieta 29 tra il giovedì e l’alba del venerdì santo, l’itinerario infer-nale si snoda dunque nell’arco di un solo giorno, dal venerdì al saba-to, che però vede raddoppiare le sue ore a causa del passaggio dei duepellegrini da un emisfero all’altro: e infatti Lucifero è sospeso dallacintola in su nell’emisfero boreale, ma lungo i suoi arti inferiori pro-tesi verso l’alto i due viaggiatori guadagnano la risalita a Dio nell’e-misfero australe, fuoriuscendo all’aria aperta proprio mentre sorge lastella di Lucifero; pertanto il viaggio nelle viscere della terra si protraeper 20 ore circa, enfatizzando con questa lunga percorrenza , analogaa quella della selva, la stagnazione morale del peccato.

In paradossale coincidenza con il percorso infernale si delineaquello paradisiaco: la fulminea gravitazione spirituale in un tripudiodi luce si compie nel corso di un solo giorno, tra mercoledì e giovedì,da zenit a zenit 30, nell’eternità del presente:

“e di subito parve giorno a giornoessere aggiunto, come quei che puoteavesse il ciel d’un altro sole addorno.” (Par. I, vv. 61-63),

... “Noi siamo usciti foredel maggior corpo al ciel ch’è pura luce:luce intellettual, piena d’amore;amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore.” (Par. XXX, vv. 38-42)

La persistenza della luce nel paradiso, come nell’inferno del buio,sottrae i due regni alla dimensione del Tempo e li consegna all’Eter-

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__________28 Cfr. Inf. XXXIV, v. 98.29 Cfr. Inf. I, v. 21. 30 Dante è fedele al Vangelo di Luca che indica nelle 12 il momento in cui spi-

ra Cristo e non nelle 15, come gli altri Evangelisti.

no, mentre il purgatorio vive appieno una condizione temporale stret-tamente connessa all’escatologia dell’anima: esso, infatti, è l’unico re-gno destinato all’estinzione al momento del Giudizio Universale,quando in eterno Iddio separerà il Bene dal Male. C’è di più: nel can-to XXVII del Paradiso la stessa Beatrice raffigura simbolicamente iltempo come un albero che, tenendo le sue radici nell’eternità del Pri-mo Mobile, il cielo che non ha altro dove / che la mente divina 31, si di-rama poi, invisibile e fecondo, verso il basso, proliferando variamen-te sulla terra:

“e come il tempo tegna in cotal testole sue radici e ne li altri le fronde,omai a te può esser manifesto.” (Par. XXVII, vv. 118-120)

Anche nel purgatorio, nella cornice dei golosi, compaiono duestrani alberi, esemplari forse di quell’albero della vita o della Scienzadel bene e del male 32 che, secondo la tradizione biblica, sarebbe sta-to collocato nel giardino dell’Eden 33; entrambi hanno le radici sullaterra e sono ricchi di frutti, ma nel primo viene dato rilievo alla chio-ma, che invece di rastremarsi verso l’alto, si assottiglia in basso, perimpedirne la spoliazione:

“un alber che trovammo in mezza strada,con pomi a odorar soavi e buoni;e come abete in alto si digradadi ramo in ramo, così quello in giuso,cred’io, perché persona sù non vada.” (Purg. XXII, vv. 131-135)

intorno al secondo 34, si dà visibilità alle anime, che vanamente ai frut-ti tendono le mani. I due alberi derivano dal lignum genesiaco che siinnalza nel paradiso terrestre:

287

__________31 Cfr. Par. XXVII, vv. 109-110.32 Cfr. Purg. XXXIII, vv. 58-72. Beatrice chiarisce la natura di questo albero:

grandezza e forma figurano l’inaccessibile profondità della giustizia divina.33 Cfr. Genesi 2,9.34 Cfr. Purg. XXIV, vv. 103-105.

“Io senti’ mormorare a tutti ‘Adamo’;poi cerchiaro una pianta dispogliatadi foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.La coma sua, che tanto si dilatapiù quanto più è sù,”… (cfr. Purg. XXXII, vv. 38-42)

d’intorno i penitenti deplorano la colpa de l’anima prima 35 e lo-dano il Redentore. L’albero che ha radice nel Primo mobile, quel-lo del tempo cosmico, e quello della vita, eccelsa…e sí travoltane la cima 36 si presentano dunque come simbologie complemen-tari, poiché dal primo germina il secondo, ma anche antitetiche,perché

“Qualunque ruba quella o quella schianta,con bestemmia di fatto offende a Dio,che solo a l’uso suo la creò santa.” (Purg. XXXIII, vv. 58-60):

non è dato, dunque, alla umana gente 37 di conoscere la naturadel Bene e del Male, che risiede ab aeterno soltanto nella men-te di Dio. Proprio in vista di ciò è interesse degli spiriti avanza-re con celerità, sostenuti anche dai suffragi dei vivi, ed espletarei riti penitenziali che li redimeranno, rendendoli degni di adirealla Verità 38.

Fino a quando Catone non esorta Dante penitente al primo rito lu-strale 39, sembra quasi che questa massiccia mole del Purgatorio, allespalle dei due pellegrini, non abbia presenza scenica, perché per Dan-te, ancora offuscato dalla caligine infernale, ne sarebbe prematura lavisione; ma il sorgere del sole ed il rito di abluzione e di umiltà, a cuiil Poeta viene sottoposto, la proiettano in primo piano, come stradaobbligata, tramite la quale conseguire la perfezione:

288

__________35 Cfr. Purg. XXXIII, v. 62.36 Cfr. Purg. XXXIII, vv. 65-66.37 Cfr. Purg. III, vv. 34-45.38 Cfr. ib. v. 6.39 Cfr. ib. vv. 121-129.

“Poscia non sia di qua vostra reddita;lo sol vi mosterrà, che surge omai,prendere il monte a più lieve salita.” (ib. vv. 106-108)

La montagna si staglia altissima sull’orizzonte marino sino a14.000 metri, totalmente isolata nell’emisfero delle acque e intatta alsuo culmine da perturbazioni atmosferiche 40. È la seconda volta cheDante, uscito da una condizione di pena, si trova a fronteggiare unpercorso ascetico, caratterizzato dagli stessi elementi: fuori della selvail colle illuminato dai raggi del pianeta 41, fuor del fiume infernale lamontagna che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga 42. Nel primo caso l’in-tervento della ragione, accorsa in suo aiuto, lo distoglie dal prosegui-re quell’ascesa impossibile con risorse umane deficitarie; nel secondocaso, invece, lo stesso Catone lo esorta, dato il suo ravvedimento, adaccelerare il passo, insieme alle altre anime appena sbarcate, verso laliberazione dal peccato:

... “Che è ciò, spiriti lenti?qual negligenza, quale stare è questo?Correte al monte a spogliarvi lo scoglioch’esser non lascia a voi Dio manifesto.” (cfr. Purg. II, vv. 120-123)

Che il colle della salvezza sia o meno identificabile con la monta-gna del Purgatorio non si può escludere né affermare con certezza; sepure si voglia prescindere dalla rispettiva collocazione geografica, illoro valore allegorico può considerarsi analogo: entrambi segnano in-fatti un cammino verticale, illuminato dalla Grazia, ad indicare unaterza dimensione, ascetica e contemplativa, che si erge oltre il pianoterreno ed il mondo umano 43.

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__________40 Cfr. Purg. XXI,vv.43-57.41 Cfr. Inf. I, v. 17.42 Purg. III, v. 15.43 Cfr. V. Sermonti, Inferno, Rizzoli 2003, pg. 21: “Forse questo colle qui non

è che un miraggio antipodale, la sagoma illusoria d’una promessa”; o forse lo sipotrebbe intendere come il colle della prova di Abramo, contrapposto al monteTabor, luogo della trasfigurazione di Gesù, l’uno segno figurale dell’altro?

La montagna, cronotopo della redenzione, si caratterizza, lungo lacosta e sulla vetta, per una vegetazione corrispondente al martirio pe-nitenziale. Il giunco schietto, umile pianta (cfr. ib. v. 135) inadatta afar fronda ed indurare, alla base del monte, si piega a favorire l’attodell’espiazione, all’opposto di un alto e superbo fusto, vanamente ri-goglioso, che resisterebbe all’onda spirituale dell’acqua purificatri-ce 44; ed inoltre esso si rigenera istantaneamente, ad indicare il rinno-vamento morale a cui miracolosamente predispone. Al culmine del-l’ascesa, invece, la divina foresta spessa e viva 45, incontaminato luogonel polo opposto a Gerusalemme, lontano dalla terra e dal Male, vi-cino alle stelle e al Bene:

“Quelli ch’anticamente poetarol’età dell’oro e suo stato felice,forse in Parnaso esto loco sognaro.” (Purg. XXVIII, vv. 139-141)

Qui, dove si adempie il ciclo della rigenerazione, un’aura dolce,sanza mutamento, eterna primavera, foglie tremolanti, uccelli canteri-ni, picciole onde, vermigli e gialli fioretti, rivelano che:

“Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,fé l’uom buono e a bene, e questo locodiede per arr’a lui d’etterna pace.” (Purg. XXVIII, vv. 91-93)

Il mondo naturale di questo luogo mediano, ove fu innocente l’u-mana radice 46, regolato da meccanismi cosmici, la rotazione dei cieli,e da volontà sovrannaturale, realizza la capacità visionaria ed oniricadel suo autore, che ha voluto collocare questa selva antica 47 agli anti-podi di quella terrena, avamposto di paradiso.

Ed infatti non solo simbolicamente, la selva del peccato si presen-ta al nostro istintivo immaginario popolata da alberi deformi e nodo-si, da ombre bieche ed inquietanti, da strani suoni e bisbigli, non se-

290

__________44 Cfr. ib. v. 100-105.45 Purg. XXVIII, v. 2.46 Purg. XXVIII, v. 142.47 Cfr. Purg. XXVIII, v. 23.

gnata da neun sentiero 48, così simile al bosco dei suicidi da farci com-prendere, anche fuor di metafora, il suicidio dell’umanità che scegliedi dannarsi. In Dante il ricordo di esta selva selvaggia e aspra e forterinnova la paura e conferma la certezza che poco è più morte, a tal pun-to da collocarla all’inizio del suo processo spirituale, quale icona del-la bestialità ed irrazionalità dell’istinto. In contrasto chiaroscurale,

... “ in questo luogo elettoa l’umana natura per suo nido,” (cfr. Purg. XXVIII, vv. 77-78)

sono tutti i topoi del locus amoenus, ombroso, ventilato, un vero e pro-prio giardino irrigato 49 da acque perenni, la cui fonte inesauribile è ali-mentata dal voler di Dio 50. Quale ambiente vegetale è più ordinato di ungiardino e più dissimile dal disordine di una selva? La stessa ricchezzadella sua vegetazione è il necessario presupposto della fecondità terre-na, poiché ogni pianta di questa campagna santa 51, percossa dall’aria pro-dotta dalla rotazione provvidenziale dei cieli, la impregna delle proprievirtù generative, che a loro volta si profondano nel regno umano:

“e l’altra terra, secondo ch’è degnaper sé e per suo ciel, concepe e figliadi diverse virtù diverse legna.” (Purg. XXVIII, vv. 112-114)

Solo un albero è qui che non è in terra e frutto ha in sé che di lànon si schianta 52: è l’albero della vita e della conoscenza del bene e delmale, a causa del quale l’uomo ha perduto la felicità:

“Per sua difalta qui dimorò poco;per sua difalta in pianto e in affannocambiò onesto riso e dolce gioco.” (Purg. XXVIII, vv. 94-96)

291

__________48 Cfr. Inf. XIII, v. 3.49 La parola “paradiso” di origine persiana, con analogo significato in ebrai-

co e greco, indica un giardino irrigato.50 Cfr. Purg. XXVIII, v. 125.51 Cfr. Purg. XXVIII, v. 118.52 Purg. XXVIII, v. 120.

Se dunque l’Eden di Dante è ancora il regno della natura in-corrotta, assegnato da Dio all’uomo perfetto, àdham, al di là del-le nubi, fuori dall’atmosfera terrestre e volto a lambire il Cielo, ilsuo paradiso è piuttosto un deiforme regno 53. Il nostro poeta col-loca quest’estensione immateriale fuori dalle categorie spazio-temporali e celebra con essa l’instaurarsi di un “cielo e terra nuo-vi”, nel gaudio della Gerusalemme celeste, da cui trae origine ilgenesiaco albero della vita 54; esso sembra risuonare dell’eco evan-gelica della frase rivolta da Gesù sulla croce al buon ladrone: “Inverità ti dico: oggi sarai con me in paradiso” 55, come una pro-messa di vita eterna che debella l’angoscia della morte. Pura Lu-ce si oppone al Buio tetro. Qui indurisce Lucifero, lì germogliail Nazareno.

Nel mondo gli esseri dotati di intelletto possono riconoscere l’epi-fania del divino, di cui il creato porta inequivocabili orme 56, e infattiBeatrice afferma che:

... “Le cose tutte quantehanno ordine tra loro, e questo è forma che l’universo a Dio fa simigliante.” (Par. I, vv. 103-105),

per cui, come proclama S. Paolo 57, “noi ora vediamo...come per mezzodi uno specchio, in immagine; allora invece vedremo faccia a faccia; oraconosco solo in modo imperfetto, ma allora io conoscerò perfettamentenello stesso modo con cui sono conosciuto”. Pertanto solo nel giardinocosmico, tra un tripudio di luci e di canti, al magnanimo sarà rivelatal’incarnazione, sarà percepibile il volto di Cristo, sarà consentita la vi-sione intuitiva ed estatica di Dio:

292

__________53 Cfr. Par. II, v. 20; cfr. Convivio II, III, 8. “Questo è lo soprano edificio del

mondo, nel quale tutto lo mondo s’inchiude, e di fuori dal quale nulla è: ed essonon è in luogo, ma formato fu solo nella prima Mente”.

54 Giovanni, Apocalisse, 2,7: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo spirito dice allechiese: al vittorioso farò mangiare dall’albero della vita che è nel paradiso di Dio”.

55 Luca, 23-43.56 Cfr. Par. I,vv. 106-108.57 S. Paolo, Ep. ai Corinti (I,13,12).

“Ne la profonda e chiara sussistenzade l’alto lume parvermi tre giri di tre colori e d’una contenenza,e l’un da l’altro come iri da iriparea reflesso, e ’l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri.” (Par. XXXIII, vv. 115-120)

Nell’immagine astrattamente geometrica dei tre cerchi si superacosì ogni vegetomorfismo e si imparadisa il nostro poeta.

Se dunque l’abisso infernale è perpendicolare alla superficie terre-stre o marina, è segno che le distese di terre e di acque costituisconola demarcazione morale tra il negativo e il positivo, l’orizzonte geo-metrico su cui si riflette la trascendenza del raggio divino e attraversocui discorre l’intelletto umano. Come il raggio riflesso suole uscire dalraggio d’incidenza e proiettarsi verso l’alto 58, così dalla trascendenzadivina si determina quella via ascendente che induce la creatura a tor-nare al Creatore: il raggio d’incidenza è dunque la Provvidenza, quel-lo riflesso è il creato che tende a Dio 59, di cui l’uomo è l’esito piùcompleto, partecipe di intelletto ed amore 60.

Nell’ordine universale, molteplice ed armonico, l’uomo riscontral’evidenza dello spirito creatore, le fronde onde s’infronda tutto l’orto/ de l’ortolano etterno 61, ne interpreta i segni e attraverso di essi risa-le alla contemplazione del Divino: è il processo culturale che, inaugu-rato da S. Agostino 62, informa tutta la visione del mondo medievale,fino a culminare nella mistica francescana. La montagna è così il cor-relativo oggettivo di questo itinerario della mente verso Dio 63, è laperpendicolare che dall’orizzonte umano traccia l’ordinata spazialeverso l’infinito; pertanto l’uomo per istinto naturale, specchiandosi

293

__________58 Cfr. Par. I, vv. 49-50.59 Cfr. Par. I, vv. 106-108.60 Cfr. Par. I, vv. 118-20.61 Cfr. Par. XXVI, vv. 64-65.62 S. Agostino: De dialectica (387 d.C.), De magistro (389 d.C.) e De doctrina

christiana (396-97 d.C.).63 Cfr. S. Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum (a.D. 1259).

nell’immagine che lo rappresenta, si orienta, una volta privo d’impe-dimento, verso il ricongiungimento con Chi lo ha generato:

“Maraviglia sarebbe in te se, privod’impedimento, giù ti fossi assiso,com’a terra quiete in foco vivo.” (Par. I, vv. 139-141)

L’uomo è la corda tesa tra il ferino e il Divino, partecipe di en-trambe le forme, cuore pulsante, corporeo e spirituale, del creato; edAdamo, capostipite della specie umana, è l’antonomasia della crea-zione 64, responsabile della dannazione di tutti gli uomini fino al sacri-ficio di Cristo:

“Per non soffrire a la virtù che volefreno a suo prode, quell’uom che non nacque,dannando sé, dannò tutta sua prole; onde l’umana specie inferma giacque giù per secoli molti in grande errore,fin ch’al Verbo di Dio discender piacqueu’ la natura, che dal suo fattores’era allungata, unì a sé in personacon l’atto sol del suo etterno amore.” (Par. VII, vv. 25-33)

In Adamo, creato dal fango, Dio soffia il suo spirito creatore, il Be-ne, per dar forma all’informe, che è principio del Male, l’aversio aDeo; dopo Adamo, Cristo generato, non creato da Dio e quindi della

294

__________64 Cfr. G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate (1485-86): “...La

natura degli altri esseri, stabilita una volta per sempre, è costretta entro leggi da mefissate in precedenza. Tu invece, da nessun angusto limite costretto, determineraida te la tua natura, secondo la tua libera volontà, nel cui potere ti ho posto. Ti homesso al centro del mondo perché di lì più agevolmente tu possa vedere, guardan-doti intorno, tutto quello che nel mondo esiste. Non ti ho fatto né celeste né terre-no, né mortale né immortale, perché tu, come se di te fossi il libero e sovrano crea-tore, ti plasmi da te secondo la forma che preferisci. Tu potrai degenerare abbas-sandoti sino agli esseri inferiori che sono i bruti, oppure, seguendo l’impulso del tuoanimo, rigenerarti elevandoti agli spiriti maggiori che sono divini”.

sua stessa forma, vestirà l’informe per riscattare l’umanità corrotta dalpeccato originale:

“Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona:questa natura al suo fattore unita,qual fu creata, fu sincera e buona;ma per sé stessa pur fu ella sbanditadi paradiso, però che si torse da via di verità e da sua vita.” (Par. VII, vv. 34-39)

È proprio Adamo a svelare a Dante in paradiso quale sia stato l’at-to di allontanamento da Dio da lui commesso e trasmesso all’interagenerazione umana:

“Or, figliuol mio, non il gustar del legnofu per sé la cagion di tanto essilio, ma solamente il trapassar del segno.” (Par. XXVI, vv. 115-117)

Il peccato di Adamo è anche quello di Ulisse; è quello delle novePieridi, che si ostinarono a sfidare le Muse nel canto e quando la pri-ma di esse, a nome di tutte le altre, esaltando la ribellione dei Gigan-ti, extenuat magnorum facta deorum, come narra Ovidio 65, Calliope dirimando le intonò il mito di Cerere e Proserpina, decretandone lasconfitta:

“e qui Calliopè alquanto surga,seguitando il mio canto con quel suonodi cui le Piche misere sentirolo colpo tal, che disperar perdono.” (ib. vv. 9-12);

sull’esaltazione del prometeico ingegno umano prevale la saggia ac-cettazione della volontà del Sommo Giove 66, nobilitata dalla coscien-za dei duri travagli affrontati e del premio futuro. È la tracotanza del

295

__________65 Cfr. Ovidio, Metamorfosi V, v. 320.66 Cfr. Purg. VI, v. 118.

satiro Marsia, che presume di poter superare lo stesso Apollo nel suo-no del flauto 67:

“Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsia traesti de la vagina de le membra sue.” (Par. I, vv. 19-21);

è questo il peccato per eccellenza, cui tutti gli esseri sono inclini in vir-tù del loro libero arbitrio ed al quale Dante intende sfuggire, costan-temente ammonito a seguire senza intemperanze il cammino che lo ri-porterà a Dio.

Dunque Ulisse e Catone stanno agli antipodi sull’asse verticale eDante, per gradus, ha lasciato lo stretto ambito della superba curiosi-tas del primo elevandosi alla umile magnanimità dell’altro.

È invece chiaramente speculare il rapporto tra Adamo e Cristo: l’uno ilfrutto maturo del creato 68, l’altro il Creatore generato; l’uno l’orizzonte,l’altro l’Infinito; l’uno l’anno 0 del tempo umano, l’altro l’anno 0 della sto-ria cosmica. E Dante discorre dall’uno all’altro, ripercorrendo l’esperien-za dell’uno per giungere all’altro: Adamo, infatti, artefice della colpa pri-migenia, a causa di essa degrada al ferino, ma fatto oggetto del perdono diCristo, che dopo la sua resurrezione discende agli Inferi per liberarlo, ri-conquista la beatitudine; ed anche Dante, sottratto dall’intercessione del-la Madonna alla selva del peccato e calatosi giù sin nell’intimo della terra,si guadagna faticosamente la risalita a Dio. Il duplice itinerario, discen-dente ed ascendente, che li accomuna rende ancor più suggestivo il loro in-contro nel cielo delle stelle fisse; Dante è così divoto 69 che quasi non trovaparole per la sua supplica e lo stesso Adamo deve interpretarne la voglia:

“Tu vuogli udir quant’è che Dio mi puosene l’eccelso giardino, ove costeia così lunga scala ti dispuose,e quanto fu diletto a li occhi miei,” (Par XXVI, vv. 109-112).

296

__________67 Cfr. Ovidio, Metamorfosi VI, vv. 382 etc.68 Cfr. Par. XXVI, vv. 91-92.69 Cfr. Par. XXVI, v. 94.

Le risposte a queste prime due domande, che solo apparentemen-te sembrerebbero soddisfare la mera curiosità d’un cronista, assumo-no, se interpretate esotericamente, un’importanza assai rilevante, per-ché Adamo svela a Dante l’arco temporale della sua vita, dalla dimo-ra nell’Eden, della durata di 7 ore circa:

“Nel monte che si leva più da l’ondafu’ io, con vita pura e disonesta, da la prim’ora a quella che seconda,come ’l sol muta quadra, l’ora sesta.” (Par. XXVI, vv. 139-142),

fino alla morte; dall’attesa nel Limbo alla promozione divina:

“Quindi onde mosse tua donna Virgilio,quattromila trecento e due volumidi sol desiderai questo concilio;e vidi lui tornare a tutt’i lumide la sua strada novecento trentafiate, mentre ch’io in terra fu’mi.” (Par. XXVI, vv. 118-123) 70

Ora è necessario fare due calcoli: è già curioso constatare che ancheDante, giunto sulla sommità della montagna, vi sosti per circa 7 ore, trariti lustrali e processioni allegoriche, dall’alba al mezzodì; ma non ba-sta, poiché se sommiamo ai 930 anni di vita terrena di Adamo i 4302trascorsi nel Limbo fino al fatidico anno 33 d.C., e di conseguenza sot-traiamo questi ultimi 33 anni alla data in cui si svolge il viaggio di Dan-te, il 1300 71, ci risulta senza possibilità di errore che Dante colloca l’an-no 0 del tempo umano all’incirca 6.499 anni e 7 ore prima; e se poi col-leghiamo a questi dati cronologici lo stesso incipit della Commedia:

“Nel mezzo del cammin di nostra vita”

297

__________70 Cfr. Purg. XXXIII, vv. 61-63: “Per morder quella, in pena e in desio \ cin-

quemila anni e più l’anima prima \ bramò colui che ‘l morso in sé punio”.71 Cfr. Inf. XXI, vv. 112-114: “Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta, \ mille

dugento con sessanta sei \ anni compiè che qui la via fu rotta”.

come un’indicazione temporale non più soggettiva, ma collettiva, cheriguarda cioè l’intera umanità, allora è lecito desumere che Dante in-dividui nel 1300 d.C. l’anno centrale del tempo umano, aggiungendoal quale, dopo le 7 ore da lui trascorse nel paradiso terrestre, altri6.499 anni, è possibile ottenere come risultato il tempo cosmico di cir-ca 13.000 anni.

Ecco perché Dante si colloca proprio a metà, è la vera corda tesanel tempo della storia tra Ulisse e Catone, nell’eterno tra Adamo eCristo; è quello “spirito guida” che ci accompagna sin nell’Empireo acontemplare l’effige di Adamo nella seconda persona della Trinità:

“Quella circulazion che sì concettapareva in te come lume reflesso,da li occhi miei alquanto circunspetta,dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta della nostra effige:per che ’l mio viso in lei tutto era messo.”

(Par. XXXIII, vv. 127-132),

e nello stesso momento in cui egli si sforza di capire come possa l’o-rizzonte esser compreso nell’infinito, come si convenne / l’imago alcerchio, e come vi s’indova 72, ce li consegna per sempre, e non più co-me un dogma di fede, ma come una realtà.

Siracusa, gennaio 2005

298

__________72 Cfr. Par. XXXIII, vv. 137-138.

299

INDICE

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 7

Paradiso, c. XVII. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 9Legno sanza vela e sanza governo . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 14

Inferno, c. XIX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 35Una spelonca di ladri. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 40

Purgatorio, c. VI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 53Il planh di Dante. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 60

Purgatorio, c. XVI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 79Il vate della rinnovata barbarie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 84

Paradiso, c. XXV. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 99Le virtù teologali tra realtà e sogno . . . . . . . . . . . . . . . . ” 104

Inferno, c. V . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 125Galeotto fu ’l libro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 130

Paradiso, c. III . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 137Le velate svelate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 142

Purgatorio, c. XXX . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 161Il metodo della salvezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 167

Inferno, c. XXVI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 187Ulisse e Dante: eroi off-limits . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 192

Purgatorio, c. XI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 211Exegi monumentum aere perennius. . . . . . . . . . . . . . . . ” 217

Paradiso, c. I . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 245Il segno dell’ineffabile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 250

Purgatorio, c. I. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 271…Puro infino il primo giro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ” 277

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NELLA STESSA COLLANA

Giorgio Bàrberi Squarotti, Ottocento ribelle, (pp. 344, € 15, 2005)

Bruno Fabi, Il tutto e il nulla: saggio di una filosofia dell’irrazionale,(pp. 328, € 13, 2006)

Alessandro Masi, L’italiano delle parole: appunti per una politica lin-guistica (pp. 176, € 12, 2007)

Walter Mauro, Vita di Giuseppe Ungaretti, (pp. 184, € 13, 2006)

Marcello Verdenelli, Foscolo: una modernità al plurale, (pp. 424, € 18,2007)

Aldo Onorati, Virginio Cesarini, Galileo, i Licei e la Roma di UrbanoVIII (pp. 160, € 13, 2007)

Bruno Fabi, Delirium: diario d’inganno, (pp. 128, € 10, 2008)

302

303

A ricordo del nostro ascoltatore assoluto,lettore ideale, Mons. Sebastiano Gozzo,

parroco di S. Martino

304

Finito di stamparepresso la Tipolitografia Santa Lucia

00047 Marino (RM)Via Cairoli, 28 - Tel. 06.938.51.53

nel mese di aprile 2008