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“LE FATTISPECIE DI ANNULLABILITATIPIZZATE DALLA LEGGEPROF. GIAMPAOLO LA SALA

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Università Telematica Pegaso Le fattispecie di annullabilita’ tipizzate dalla legge

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 CASS., 20 GENNAIO 2011, N. 1361 ---------------------------------------------------------------------------------------- 3

2 CASS., 24 LUGLIO 2007, N. 16393 ---------------------------------------------------------------------------------------- 15

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1 Cass., 20 gennaio 2011, n. 1361

La delibera di aumento del capitale sociale, impugnata per pretesa violazione del diritto di

opzione spettante ai soci, in quanto viziata da anomalie nel procedimento di approvazione con

particolare riguardo alle modalità di calcolo del quorum deliberativo, non è affetta da nullità

rilevabile d'ufficio per illiceità dell'oggetto, ma è soltanto annullabile, non avendo tale violazione

alcuna valenza di ordine generale, essendo invece funzionale all'interesse dei singoli soci a

mantenere inalterata la partecipazione proporzionale al capitale sociale anche in caso di aumento

del capitale medesimo.

La deliberazione assembleare di una società per azioni, di cui si assuma la non corretta modalità di

computo delle maggioranze all'uopo occorrenti ai fini del quorum deliberativo, è meramente

annullabile e non inesistente; infatti, la sua difformità al modello legale, già nel contesto normativo

anteriore alla riforma societaria di cui al d.lg. 17 gennaio 2003 n. 6 ne lascia permanere i lineamenti

essenziali, trattandosi di una decisione assunta dai soci con la proclamazione del risultato ed è un

atto giuridico certamente venuto ad esistenza, laddove la conseguenza dell'inesistenza sarebbe

contraria alle fondamentali esigenze di certezza e di affidamento che ispirano (ed ispiravano anche

nel regime anteriore alla riforma societaria) la disciplina degli art. 2377 ss. c.c.

Fatto

Svolgimento del processo

Il sig. T.A., socio della Banca Popolare di Todi s.p.a., con atto notificato il 23 luglio 1996 citò detta

società in giudizio dinanzi al Tribunale di Perugia per far dichiarare nulla o annullare una

deliberazione assembleare, assunta il 25 aprile 1996, con cui gli amministratori erano stati

autorizzati ad acquistare 7.000 azioni proprie della società.

Essendo stata la domanda rigettata dal tribunale, il sig. T. propose gravame, che fu però del pari

rigettato dalla Corte d'appello di Perugia con sentenza depositata il 18 ottobre 2004.

La corte umbra, per quanto ancora in questa sede interessa, anzitutto negò fondamento alla tesi

dell'impugnante secondo cui l'acquisto di azioni proprie della società sarebbe avvenuto in

violazione dell'art. 2357 c.c., comma 1, ossia oltre il limite degli utili distribuibili e delle riserve

disponibili. Tale limite, a giudizio della corte, non era stato superato, potendosi tra le riserve

computare anche quella iscritta nel bilancio relativo all'esercizio 1995 come "fondo sovrapprezzo di

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emissione", divenuta disponibile per effetto dell'avvenuta trasformazione della Banca di Todi in

società per azioni in epoca anteriore alla deliberazione impugnata; nè poteva convenirsi con

l'assunto dell'appellante - peraltro inammissibile, perchè dedotto per la prima volta nel giudizio di

gravame - secondo cui, per rendere disponibile detto fondo, sarebbe occorsa l'approvazione di un

ulteriore bilancio successivo alla trasformazione.

Fu del pari escluso dalla corte d'appello che l'acquisto di azioni proprie fosse stato autorizzato

dall'assemblea oltre il limite del dieci per cento del capitale, posto dal citato art. 2357, comma 3,

(nella formulazione vigente all'epoca dei fatti di causa). La corte ritenne che si dovesse a tal fine

tener conto del capitale risultante all'esito di un aumento deliberato il 6 marzo 1996, ancorchè

successivo all'approvazione dell'ultimo bilancio, non potendo trovare ingresso in appello l'eccezione

con la quale il sig. T. aveva contestato la mancata informazione all'assemblea dell'avvenuta

sottoscrizione di detto aumento di capitale; sottoscrizione comunque tempestivamente documentata

in causa dalla difesa della banca, la quale aveva provveduto a depositare il proprio fascicolo di

parte, precedentemente ritirato, entro quattro giorni dalla scadenza del termine per la presentazione

delle memorie di replica alla comparsa conclusionale.

Fu disattesa anche l'eccezione di nullità, o di giuridica inesistenza, della deliberazione di aumento

del capitale sociale sopra menzionata: in parte per difetto di specificità del dedotto motivo di

gravame ed in parte per l'infondatezza dell'assunto dell'appellante secondo cui l'aumento del

capitale, con esclusione del diritto di opzione, non avrebbe potuto esser deliberato contestualmente

alla trasformazione dell'ente in società azionaria ed avrebbe dovuto necessariamente essere adottato

nelle forme e con le maggioranze richieste per quest'ultimo tipo di società.

Venne infine rigettato il motivo di gravame concernente la pretesa invalidità della delibera

assembleare del 25 aprile 1996 per eccesso di potere della maggioranza, non essendo state dedotte

prove idonee a sorreggere l'assunto dell'appellante.

Avverso tale sentenza il sig. T. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, al

quale la Banca di Todi ha replicato con controricorso e successiva memoria.

Diritto

Motivi della decisione

1. La questione posta all'esame di questa corte dal primo motivo del ricorso concerne il dettato

dell'art. 2357 c.c., comma 1, che consente ad una società azionaria di acquistare azioni proprie solo

"nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall'ultimo bilancio

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regolarmente approvato".

1.1. La corte d'appello ha escluso che, nel caso in esame, quel limite sia stato superato ed a tale

conclusione è pervenuta computando tra le riserve disponibili della Banca di Todi anche una posta,

denominata in bilancio "fondo sovrapprezzo azioni", che era stata inizialmente costituita, a norma

del previgente art. 2525, comma 3 (ora sostituito dall'art. 2528 c.c., comma 2, quando la società

aveva ancora veste di cooperativa. La successiva trasformazione dell'ente in società per azioni ha

indotto la corte territoriale a reputare che detta riserva, all'atto della deliberazione avente ad oggetto

l'acquisto di azioni proprie della società, fosse divenuta pienamente disponibile e che, perciò, se ne

potesse tener conto per ampliare il limite entro cui l'acquisto di dette azioni era consentito.

Il ricorrente, lamentando la violazione di varie norme di diritto sostanziale e processuale, oltre che

vizi di motivazione dell'impugnata sentenza, contesta siffatta conclusione e sostiene che, viceversa,

avendo il legislatore fatto riferimento alle riserve disponibili risultanti dall'ultimo bilancio

approvato ed essendo stato l'ultimo bilancio della Banca di Todi approvato, prima dell'impugnata

delibera, quando la società era ancora una cooperativa, il "fondo sovrapprezzo azioni" non avrebbe

potuto esser considerato disponibile. Per raggiungere un tale scopo, sempre secondo il ricorrente,

sarebbe prima occorsa l'approvazione di un nuovo bilancio, che tenesse conto della diversa veste

giuridica assunta dalla società ed anche di ogni ulteriore fatto sopravvenuto.

Lamenta ancora il ricorrente che quest'ultimo rilievo - quello concernente la necessità

dell'approvazione di un bilancio successivo alla trasformazione per poter computare il suddetto

fondo tra le riserve disponibili - sia stato giudicato inammissibile dalla corte d'appello, perchè

nuovo, senza però tener conto che non si trattava di un'eccezione, bensì di una mera argomentazione

difensiva. E si duole anche che la stessa corte non abbia preso in considerazione le circostanze,

dedotte nell'atto di gravame, dalle quali risultava come, per l'acquisto delle azioni proprie, la società

avesse in concreto utilizzato fondi diversi da quello per sovrapprezzo azioni sopra menzionato.

1.2. Le riferite censure non sono convincenti, o almeno non al punto da indurre alla cassazione della

sentenza impugnata.

Può darsi che l'assunto prospettato dall'appellante secondo cui sarebbe occorso un nuovo bilancio

per rendere disponibili riserve che all'origine non lo erano non integri una vera e propria eccezione.

Non è però possibile rimettere in discussione in questa sede l'entità delle riserve di cui si discute, nè

il modo del loro reale utilizzo ed il rapporto quantitativo tra esse e le azioni, proprie cui si riferisce

l'impugnata delibera assembleare, trattandosi di profili di fatto, accertati in modo preciso nel

giudizio di merito e non suscettibili di essere rivisti dal giudice di legittimità se non a patto di un

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non ammissibile riesame diretto delle risultanze istruttorie.

La questione decisiva resta, allora, unicamente quella di stabilire se fosse o meno disponibile, per

essere utilizzata nell'acquisto di azioni proprie a norma del citato art. 2357, comma 1, la riserva da

sopraprezzo iscritta nell'ultimo bilancio approvato, avendo nel frattempo la cooperativa assunto la

veste di società per azioni.

A tale domanda la risposta non può che essere positiva.

Già prima della riforma del diritto societario attuata nel 2003 era opinione della prevalente dottrina

che, nelle società cooperative, non essendo previsto un tetto massimo per la riserva legale, la riserva

costituita dal sovrapprezzo di azioni fosse indisponibile, e quindi non utilizzabile per l'eventuale

acquisto di azioni proprie della società. Una volta, però, che la cooperativa abbia dismesso questa

veste per assumere quella di società per azioni, e che siano divenute quindi ad essa applicabili le

disposizioni vigenti per quest'ultimo tipo sociale, mentre la riserva non cessa di esistere nel

patrimonio dell'ente, viene meno la ragione d'indisponibilità strettamente legata al vigore di

disposizioni riferibili alle sole società cooperative e si rendono invece applicabili le norme in tema

di società azionaria, nel cui ambito le riserve da sovrapprezzo sono disponibili quando ricorra la

condizione richiesta dall'art. 2431 c.c..

L'obiezione secondo la quale il riferimento dell'art. 2357, comma 1, alle "riserve disponibili

risultanti dall'ultimo bilancio" implicherebbe che anche l'indicato requisito della disponibilità delle

riserve debba sussistere alla data di chiusura di detto bilancio, non rilevando le eventuali vicende

societarie successive (se non risultanti dall'approvazione di un eventuale ulteriore bilancio) non

appare persuasiva.

La ratio della norma risiede nella tutela del capitale sociale, per impedire che l'acquisto delle azioni

proprie della società mascheri un'indebita restituzione dei conferimenti ai soci (come potrebbe

accadere se fosse a tal fine impiegato una parte del capitale sociale formato da detti conferimenti) o

che siano intaccate riserve non utilizzabili in quanto destinate (per legge o per statuto) a preservare

la solidità patrimoniale dell'ente o, comunque, a scopi diversi. Ciò che necessita è perciò, in primo

luogo, che le riserve da utilizzare per l'acquisto delle azioni effettivamente sussistano ed, in secondo

luogo, che siano legittimamente adoperabili a questo fine.

Il riferimento del legislatore alle risultanze dell'ultimo bilancio approvato attiene, evidentemente,

alla prima di siffatte condizioni, ma non anche alla seconda. E' dal bilancio che si può ricavare

l'attestazione dell'esistenza della riserva patrimoniale di cui si tratta (ferma ovviamente la

responsabilità degli amministratori nel verificare che la riserva non sia medio tempore venuta

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meno): perchè la funzione del bilancio è appunto quella di dar conto dell'esistenza di valori

patrimoniali classificati in base al sistema di contabilità aziendale; non, invece, di determinare se e

quale regime debba trovare applicazione per detti valori e per le poste che contabilmente li

rappresentano.

Non è infatti il bilancio, bensì direttamente la legge, che disciplina la disponibilità della riserva da

sovrapprezzo, il cui regime, sotto questo profilo, non muterebbe di certo sol perchè eventualmente

nel bilancio medesimo essa fosse stata erroneamente classificata disponibile, se tale non era, o

viceversa.

Acclarato, perciò, che la riserva da sovrapprezzo esisteva, ne consegue che la possibilità di

adoperarla per acquistare azioni proprie correttamente è stata vagliata in base alle disposizioni

applicabili, all'atto della deliberazione di acquisto di siffatte azioni, avuto riguardo al tipo di società

che quella deliberazione ha assunto.

2. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso riguardano, sotto differenti profili, una diversa

questione: se la più volte menzionata deliberazione assembleare di autorizzazione all'acquisto di

azioni proprie sia stata o meno rispettosa del disposto del medesimo art. 2357, comma 3.

Tale norma, nella formulazione vigente al tempo dei fatti di causa (prima delle modifiche apportate

dal D.Lgs. n. 142 del 2008), circoscriveva la possibilità di acquistare azioni proprie da parte di

qualsiasi società entro un limite di valore non eccedente la decima parte del capitale sociale,

comprendendo nel computo anche le azioni possedute tramite società controllate.

2.1. Il tribunale, prima, e la corte d'appello, poi, hanno reputato che neppure tale disposizione sia

stata violata nel caso in esame, dovendosi tener conto dell'ammontare del capitale sociale risultante

all'esito di un aumento deliberato alcun tempo prima dall'assemblea straordinaria della società.

2.1.1. Il ricorrente contesta questa conclusione, denunciando svariati errori di diritto sostanziale e

processuale, nonchè vizi di motivazione dell'impugnata sentenza, anzitutto perchè, a suo parere, il

limite quantitativo posto dalla norma alla possibilità di acquisto di azioni proprie andrebbe

individuato unicamente nel capitale indicato dall'ultimo bilancio, che nel caso in esame era quello

chiuso al 31 dicembre 1995. Avrebbe perciò errato la corte d'appello nel prendere invece in

considerazione il capitale risultante a seguito della deliberazione di aumento assunta dall'assemblea

il 6 marzo 1996. Per poter tenere conto di siffatto aumento di capitale, sarebbe stato almeno

necessario presentare all'assemblea una situazione patrimoniale aggiornata, o comunque mettere i

soci in condizione di verificare l'avvenuta sottoscrizione del capitale aumentato, non potendo un

simile accertamento aver luogo solo successivamente, in sede giudiziaria. Nè sarebbe fondato,

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sempre a parere del ricorrente, il rilievo della corte d'appello in ordine all'inammissibilità di

quest'ultima eccezione, sollevata per la prima volta in secondo grado, trattandosi anche in questo

caso di una mera argomentazione difensiva, del resto già insita nelle difese formulate dinanzi al

tribunale.

2.1.2. In ogni caso, sostiene ancora il ricorrente, per poter ampliare il limite entro cui alla società era

consentito acquistare azioni proprie, sarebbe occorso che l'aumento di capitale deliberato il 6 marzo

1996 fosse stato anche sottoscritto (se non addirittura versato) e, contrariamente a quanto affermato

dalla corte d'appello, ciò non è stato idoneamente provato in giudizio dalla Banca di Todi, poichè la

relativa documentazione era contenuta nel fascicolo di parte di detta banca, che lo aveva ritirato e

poi ridepositato prima che la causa fosse posta in decisione dinanzi al tribunale; ma questo deposito

era stato tardivo, siccome effettuato dopo lo scadere del termine per la presentazione delle comparse

conclusionali indicato dall'art. 169 c.p.c., comma 2. Nè sarebbe da condividere la contraria opinione

manifestata dalla corte d'appello secondo cui, nel regime successivo alla novella processuale del

1990, il deposito del fascicolo di parte in precedenza ritirato può aver luogo fino a quattro giorni

prima della scadenza del termine per le memorie di replica, in coerenza con quanto stabilisce l'art.

111 disp. att., comma 1. E neppure avrebbe fondamento l'ulteriore affermazione della stessa corte

che ha ritenuto comunque non rilevante l'eventuale violazione del predetto termine, in quanto non

disposto a tutela del diritto di difesa della controparte.

2.1.3. Il ricorrente sostiene, poi, che non si sarebbe potuto tener conto del suindicato aumento di

capitale anche perchè la relativa deliberazione assembleare è da considerare nulla (o giuridicamente

inesistente); e contesta che fosse generico il motivo di gravame da lui formulato sul punto, avendo

egli invece ben evidenziato le ragioni dell'eccepita invalidità del menzionato aumento di capitale.

Invalidità derivante dal fatto che quell'aumento era stato adottato con la medesima deliberazione

con cui la società cooperativa era stata trasformata in società per azioni: il che avrebbe reso

necessario procedere a due distinte deliberazioni, essendo ormai la seconda soggetta alle differenti

regole di votazione proprie della società azionaria.

Osserva ancora il ricorrente che, ove si volesse invece condividere l'opinione del tribunale e della

corte d'appello secondo cui l'aumento di capitale era stato deliberato dalla società quando questa

aveva ancora la forma giuridica di una cooperativa, non si potrebbe sfuggire al rilievo che il quorum

deliberativo in tal caso richiesto dalla legge, commisurato al numero dei soci e non all'entità del

capitale da ciascuno di essi sottoscritto, non risultava essere stato conseguito. Ed a questo rilievo,

contrariamente a quanto affermato nell'impugnata sentenza, il tribunale aveva dato risposta, sia pure

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erroneamente, e l'appellante se ne era doluto: sicchè la corte d'appello avrebbe dovuto farsi carico

della questione ed avrebbe dovuto dare atto della nullità o dell'inesistenza del deliberato aumento

del capitale, derivanti anche dall'indebita esclusione del diritto di opzione, pure del quale

l'appellante si era tempestivamente lagnato.

2.2. Esaminando in ordine le diverse doglianze cui s'è fatto cenno, è necessario anzitutto confermare

l'esattezza del principio di diritto enunciato dalla corte d'appello, secondo cui, nel valutare se un

acquisto di azioni proprie sia stato deliberato nel rispetto del limite fissato dall'art. 2357 c.c., comma

3, occorre tener conto anche dell'eventuale aumento di capitale deliberato e sottoscritto

successivamente all'ultimo bilancio d'esercizio approvato, senza che sia a tal fine necessario

procedere all'approvazione di un ulteriore bilancio.

Inducono a tale conclusione argomenti sia di ordine testuale sia di ordine logico.

Sul piano testuale è agevole constatare come il citato dell'art. 2357, comma 3, si limiti a richiedere

che il valore delle azioni proprie acquistate dalla società non ecceda il dieci per cento del capitale

ma, a differenza del comma 1, non faccia alcuna menzione dell'ultimo bilancio approvato.

Sul piano logico è da considerare che tale prescrizione, diversamente dall'altra cui sopra s'è fatto

cenno, non appare dettata dall'intento di salvaguardare l'integrità del capitale sociale, bensì dallo

scopo d'impedire un eccessivo accumulo di potere nelle mani dell'organo amministrativo della

società e la possibilità che ciò influenzi indebitamente il mercato delle azioni ed eventualmente

anche la futura composizione dell'azionariato. Quel che conta, a tal fine, è perciò la misura attuale

del capitale e delle azioni in circolazione, con cui occorre confrontare il numero delle azioni proprie

acquistate dalla società, e non quale fosse la misura del medesimo capitale in un momento

precedente, indipendentemente da quando l'ultimo bilancio sia stato approvato.

2.2.1. Naturalmente, per le medesime ragioni, il capitale cui si deve fare riferimento non è quello

meramente deliberato, bensì quello effettivamente sottoscritto, cui corrisponde il numero delle

azioni emesse dalla società.

Nel caso in esame, come s'è accennato, il capitale al quale la corte di merito ha fatto riferimento, nel

giudicare del non superamento dei limiti posti dal citato art. 2357, comma 3, è, appunto, quello

sottoscritto. Nè ha fondamento l'obiezione del ricorrente, secondo cui la prova della sottoscrizione

di detto capitale non sarebbe stata ritualmente acquisita, perchè il fascicolo di parte che la conteneva

era stato prima ritirato e poi solo tardivamente ridepositato nella cancelleria del giudice di primo

grado. Se anche le cose stessero in questo modo, occorrerebbe considerare che quel medesimo

fascicolo di parte, con i documenti dai quali la corte di merito ha tratto il proprio motivato

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convincimento in ordine all'avvenuta sottoscrizione del capitale nell'indicata misura, è stato

incontrovertibilmente di nuovo depositato in secondo grado. Tanto basta a rendere utilizzabili i

summenzionati documenti, non ostandovi il divieto di nuove prove in appello: appunto perchè non

di documenti nuovi si è trattato, bensì di documenti già a suo tempo ritualmente prodotti dinanzi al

tribunale ed offerti all'esame dell'attore quando il fascicolo di parte convenuta è stato per la prima

volta tempestivamente depositato nella cancelleria del tribunale.

Accertato, allora, in punto di fatto, che furono acquistate azioni proprie in misura non eccedente il

limite del dieci per cento del capitale sociale sottoscritto, nessuna contrarietà alla legge o allo

statuto è dato ravvisare, sotto questo profilo, nella deliberazione assembleare che quell'acquisto

aveva autorizzato, non sussistendo alcuna prescrizione che imponga di fornire seduta stante ai soci

una specifica informazione sull'avvenuta sottoscrizione del capitale aumentato (verificabile in

qualsiasi momento, da chiunque, a seguito dell'iscrizione nel registro delle imprese disposta ai sensi

dell'art. 2444 c.c., comma 1).

2.2.2. Non ha pregio neppure l'assunto secondo il quale del riferito aumento di capitale non si

sarebbe potuto comunque tener conto perchè frutto di una deliberazione assembleare invalida.

Occorre a tal proposito osservare - ed è rilievo puntualmente sollevato dal Procuratore generale

nella discussione in pubblica udienza, assorbente anche rispetto alle diverse considerazioni svolte

sul punto nell'impugnata sentenza - che nessuno dei vizi dai quali il ricorrente afferma che la

menzionata deliberazione di aumento del capitale sarebbe affetta è tale da determinarne la nullità, e

tanto meno l'inesistenza giuridica.

E' ben noto che, in tema di deliberazioni assembleari di società per azioni, il regime dell'invalidità

differisce da quello previsto in generale per gli atti negoziali, giacchè, a norma dell'art. 2377 c.c., la

contrarietà della deliberazione a prescrizioni di legge imperative o a disposizioni dello statuto

sociale ne comporta la mera annullabilità, laddove è solo in presenza di una delle situazioni

tassativamente indicate dal successivo art. 2379 che la deliberazione può essere considerata

radicalmente nulla.

Ciò consente, anzitutto, di escludere subito che possa parlarsi di nullità della delibera di aumento

del capitale sociale per pretesa violazione del diritto di opzione spettante ai soci, giacchè tale diritto

è tutelato dalla legge solo in funzione dell'interesse individuale dei soci ed il contrasto con norme,

anche cogenti, rivolte alla tutela dell'interesse dei singoli soci determina un'ipotesi di semplice

annullabilità, laddove la nullità delle deliberazioni dell'assemblea delle società per azioni per

illiceità dell'oggetto, ai sensi dell'art. 2379 c.c., (anche nel testo anteriore alle modifiche introdotte

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dal D.Lgs. n. 6 del 2003), ricorre solo in caso di contrasto con norme dettate a tutela dell'interesse

generale, tale da trascendere quello del singolo socio (cfr., da ultimo, Cass. 7 novembre 2008, n.

26842).

Non diversamente è a dirsi anche per gli ulteriori vizi della deliberazione denunciati dal ricorrente,

che ugualmente non mettono capo ad un'ipotesi di oggetto illecito, tale evidentemente non

potendosi considerare nè la trasformazione della cooperativa in società per azioni (consentita alle

banche popolari già all'epoca dei fatti di causa) nè l'aumento del capitale sociale.

E' altresì da escludere che i denunciati vizi della deliberazione di aumento del capitale sociale

evidenzino deviazioni così radicali dal modello legale da configurare un'ipotesi d'inesistenza

giuridica della deliberazione stessa: la quale, a quanto risulta, è stata assunta da un'assemblea

ritualmente convocata, il cui andamento è stato normalmente verbalizzato, e che si è svolta senza

particolari anomalie, salvo ad essersi conclusa con una votazione contestuale vertente tanto sulla

proposta di trasformazione sociale che su quella di aumento del capitale.

I vizi che in ciò ravvisa il ricorrente si riducono, a ben vedere, ad un'asserita anomalia del

procedimento di votazione ed alla non corretta modalità di computo delle maggioranze occorrenti

per l'approvazione della proposta di aumento del capitale sociale. Ma, se anche si volessero

considerare esistenti tali anomalie, non se ne potrebbe dedurre altro se non che il procedimento di

votazione e le modalità di calcolo del quorum deliberativo non sono risultati conformi alla legge.

Non ignora il collegio che, in tempi peraltro assai risalenti, questa corte ha parlato d'inesistenza

della deliberazione assunta in difetto della maggioranza richiesta dall'atto costitutivo della società

(Cass. 13 gennaio 1987, n. 133);

ma una siffatta affermazione, che dovrebbe ovviamente a maggior ragione valere per il difetto di

quorum deliberativo prescritto dalla legge, anche alla luce degli orientamenti espressi da autorevole

dottrina non può essere qui confermata, o almeno non in termini assoluti e generali.

Neppure nel contesto normativo anteriore alla suaccennata riforma del 2003 (con la quale il

legislatore ha chiaramente manifestato l'intento di togliere spazio alla figura giurisprudenziale

dell'inesistenza giuridica delle deliberazioni societarie) si sarebbe potuto sostenere che una

deliberazione adottata in difformità dalle disposizioni di legge o dello statuto in materia di quorum

deliberativi non abbia i lineamenti essenziali richiesti per integrare il modello legale di una

decisione assunta dai soci della società in ordine alle proposte riportate nell'ordine del giorno

dell'assemblea. Una siffatta deliberazione, proveniente da un'assemblea formata da soggetti

legittimati ad assumerla e conclusasi con la proclamazione del risultato, è certamente un atto

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giuridico venuto ad esistenza. Nè vi osta il fatto che si sia proceduto ad un'unica votazione per una

pluralità di oggetti, volta che risulti comunque possibile riferire l'esito della votazione medesima a

ciascuno di essi.

La deliberazione è stata assunta e l'esito ne è stato proclamato e reso pubblico. L'eventuale errore

nel computo dei voti, se fosse effetto di una mera svista, non potrebbe logicamente produrre

conseguenze maggiori di quanto accade per l'errore ostativo in ambito negoziale; se invece - come

si sostiene essere avvenuto nella fattispecie in esame - si fosse in presenza di un'errata valutazione

circa le modalità di calcolo del quorum, operato secondo regole diverse da quelle legali o statutarie,

ciò non potrebbe che tradursi in una non conformità alla legge (nella parte in cui questa dispone,

appunto, in ordine alle suddette modalità di calcolo); ma in nessun caso potrebbe condurre a

conseguenze più radicali, come quelle dell'ipotizzata inesistenza della deliberazione proclamata,

palesemente contrarie alle fondamentali esigenze di certezza e di affidamento che ispirano (ed

ispiravano anche nel regime anteriore alla cennata riforma societaria) la disciplina dell'art. 2377 c.c.

e segg..

Si tratta, quindi, di una deliberazione semmai, annullabile, la cui stabilità ed i cui effetti non

possono perciò essere messi in discussione ove, entro il termine di decadenza fissato dal citato art.

2311, nessuno dei soggetti a ciò legittimati abbia proposto azione di annullamento.

Stando così le cose, ed avendo il ricorrente sollevato solo in una memoria depositata il 30 ottobre

1997 (si veda il ricorso, pag. 9) la questione dell'invalidità della delibera di aumento del capitale

sociale assunta dall'assemblea il 6 marzo 1996, è evidente che le asserite ragioni d'invalidità di detta

deliberazione sono state dedotte quando erano ormai precluse.

3. L'ultimo motivo di ricorso sposta l'attenzione su un tema del tutto diverso: l'asserita invalidità per

eccesso di potere della delibera assembleare che ha autorizzato gli amministratori della Banca di

Todi ad acquistare azioni proprie.

3.1. Avendo tanto il tribunale quanto la corte d'appello escluso che una tale ragione d'invalidità

fosse stata dimostrata in causa, il ricorrente si duole che il giudice del gravame non abbia preso in

considerazione alcune specifiche censure da lui rivolte alla sentenza di primo grado, nè abbia inteso

il senso delle argomentazioni con le quali era stato posto in evidenza l'abuso consumato dal socio di

maggioranza al fine di trasformare il proprio controllo di fatto in un pieno controllo di diritto della

società.

3.2. Neppure tale motivo di ricorso può essere accolto.

Premesso che nel giudizio di merito è stata fatta corretta applicazione del principio di diritto,

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sovente enunciato da questa corte, secondo cui l'abuso o eccesso di potere può costituire motivo di

invalidità della delibera assembleare soltanto quando vi sia la prova che il voto determinante del

socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure risulta in

concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli

di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (cfr., ex

multis, Cass. 17 luglio 2007, n. 15950), l'unica questione decisiva consisteva - e consiste - nello

stabilire se l'attore, sul quale grava il relativo onere, abbia fornito o meno la prova dell'abuso.

A questa domanda il tribunale ha dato risposta negativa e la corte territoriale ha poi ritenuto che i

rilievi formulati dall'appellante non fossero idonei a scalfire la prima decisione.

Poco giova, in questa sede, soffermarsi a discutere in dettaglio sulle singole argomentazioni che il

ricorrente asserisce di aver prospettato nell'atto di gravame e delle quali la corte d'appello non

avrebbe tenuto conto. Ciò potrebbe aver rilievo, al fine di dimostrare l'esistenza di un vizio di

motivazione dell'impugnata sentenza, solo a condizione che fosse possibile attribuire ad una o più

specifiche e ben determinate circostanze, pretermesse dalla corte di merito, una valenza logica

decisiva: tale, cioè, da far ipotizzare che, se di quelle circostanze detta corte si fosse invece fatta

carico, la conclusione del giudizio sarebbe risultata diversa.

Ma l'esposizione del ricorso non consente di esprimere una siffatta valutazione. A fronte di una

conclusione negativa circa l'assolvimento dell'onere della prova che, come riferisce la

controricorrente, era stata tratta all'esito di un'istruttoria sviluppatasi in primo grado anche

attraverso l'esame di testimoni, il ricorrente adduce l'esistenza di elementi indiziar dai quali, a suo

dire, dovrebbe scaturire la conclusione opposta. Per poter avallare una simile opinione

occorrerebbe, però, non solo poter esaminare direttamente ed in modo completo i documenti cui lo

stesso ricorrente allude, ma anche confrontare quanto da essi emergesse con le risultanze della

suindicata prova testimoniale; occorrerebbe, cioè, procedere ad una vera e propria rivisitazione

integrale dell'intero materiale istruttorio acquisito in causa. Ma questo significherebbe reiterare il

giudizio di merito e ciò esula dalla competenza di questa corte di legittimità.

4. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese

del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 15.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle

spese generali ed agli accessori di legge.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di

legittimità, che liquida in Euro 15.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali

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ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2010

Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2011

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2 Cass., 24 luglio 2007, n. 16393

Ancorché sia buona norma, ai fini della regolarità formale, che il verbale di assemblea di una

società per azioni dia atto dell'avvenuta identificazione dei partecipanti, deve escludersi che

l'omessa verbalizzazione dell'avvenuta identificazione dei partecipanti importi automaticamente

l'invalidità della deliberazione assembleare, quasi che questa debba, in tale caso, presumersi

adottata da soggetti non legittimati. Con riferimento alla previgente formulazione degli art. 2377 e

ss. c.c., infatti, l'identificazione dei partecipanti può avvenire anche in modo informale, in base alla

loro diretta conoscenza da parte del presidente o dei suoi immediati collaboratori (ciò pure nelle

grandi società, per la frequenza con cui i piccoli azionisti concentrano la loro rappresentanza in

poche e di solito abituali, persone fisiche e l'attestazione presidenziale della valida costituzione

dell'assemblea può implicitamente voler dire che la identificazione ha avuto luogo almeno nel modo

suddetto.

Fatto

Svolgimento del processo

Nel giugno 1996 P.M.R., M.C. e M.A., quali eredi legittimi di M.G., morto il (OMISSIS), e l'ultima

anche in proprio, citarono in giudizio davanti al Tribunale di Tempio Pausania la Maffei s.r.l.

sedente in (OMISSIS), esponendo che: al momento del decesso del loro dante causa, le azioni della

allora Maffei s.p.a. erano di proprietà di quest'ultimo e della di lui figlia A.; in seguito, le azioni del

loro, rispettivamente, marito e padre erano state cedute a terzi; in data 12 febbraio 1987 l'assemblea

ordinaria della Maffei s.p.a. aveva deciso di trasformare, con decorrenza 1 maggio 1987, "da conto

capitale a conto corrente" il debito, pari a L. 292.560.000, esistente nei confronti dei soci e di

riconoscere altresì l'interesse legale del 5% da calcolarsi a fine anno; tuttavia, la società non aveva

provveduto a effettuare le dovute restituzioni;

pertanto, ciascuno di essi era creditore iuxe haereditario, nella misura di un terzo, della somma di L.

292.560.000 e la sola M. A. anche della somma di L. 292.560. Su tali premesse, gli attori

domandarono la condanna della società convenuta a corrispondere loro le relative somme

maggiorate degli interessi legali.

La Maffei s.r.l. resistette alla pretesa e, in via riconvenzionale, chiese dichiararsi la nullità, per una

pluralità di motivi, della Delib. presa in data 12 febbraio 1987.

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La domanda attorea venne accolta dal Tribunale adito. Proposto gravame dalla soccombente, la

Corte d'Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, con sentenza non definitiva del 21 marzo

2002, ne respinse i motivi volti a contestare la legittimazione attiva degli attori e la validità della

Delib. assembleare febbraio 1987, ritenendo fondato l'atto impugnatorio solo con riferimento alla

misura degli importi dovuti dalla società. Quindi, con sentenza del 25 settembre 2003, in

accoglimento di altro motivo di appello, ridusse a L. 160.908.000 la somma che gli appellati

avevano diritto a ricevere, pro quota ereditaria, dalla s.r.l. Maffei. Con la prima delle due sentenze,

la Corte osservò che: la mancata convocazione dei soci e l'omessa comunicazione dell'ordine del

giorno non avevano comportato nullità della delibera, in quanto adottata da assemblea totalitaria

(art. 2366 c.c., comma 3); neanche la mancata identificazione dei partecipanti costituisce motivo di

nullità, trattandosi di adempimento non soggetto a particolari formalità cui è possibile supplire con

la personale conoscenza da parte del presidente dell'assemblea, sicchè è sufficiente la dichiarazione,

riportata nel verbale, della regolare costituzione dell'adunanza;

l'omesso deposito delle azioni costituisce non un caso di nullità, ma di vizio dell'assemblea, da farsi

valere nel termine di tre mesi di cui all'art. 2377 c.c., comma 2, e, quindi, non più invocabile da

parte della società che non provi la concreta mancanza della qualità di socio in capo a uno o a

entrambi i partecipanti o la mancata convocazione di terzi, acquirenti di azioni; la deliberazione

relativa alla trasformazione dei versamenti effettuati dai soci è legittima in quanto, benchè i

versamenti "in conto capitale" debbano essere restituiti soltanto all'atto dello scioglimento della

società, non è esplicitamente previsto che non se ne possa mutare la destinazione e disporre la

restituzione ai soci, ove vengano osservate le norme dettate dall'art. 2445 c.c., per la riduzione del

capitale sociale. Per il resto, occorreva appurare la misura dei conferimenti a suo tempo effettuati da

M.G. e, eventualmente, anche da M.A. e stabilire se, al momento dell'apertura della successione, il

credito per il rimborso del conferimento fosse ancora da computarsi nel patrimonio relitto dal de

cuius. Nessun titolo avevano gli appellati a richiedere la restituzione delle somme già dovute

all'altro socio M. E.. Con la sentenza definitiva, la Corte sarda rilevò come dall'esame della prodotta

documentazione fosse risultato che M. A. non aveva effettuato alcun conferimento, che M.G. era

titolare del 55% delle azioni e che quest'ultimo e M. E. avevano effettuato versamenti in conto

capitale per l'ammontare complessivo di L. 292.500.000; il credito maturato in capo al predetto e

trasmesso ai di lui eredi era quindi pari a L. (292.500.000 - 45% =) 160.908.000.

Avverso entrambe le sopra compendiate sentenze la Maffei s.r.l. ha proposto ricorso per Cassazione

sulla base di cinque motivi, cui resistono con controricorso P.M.R., M.C. e M.A., quali eredi

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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legittimi di M.G..

Diritto

Motivi della decisione

Con il primo motivo, si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2366 e 2375 c.c., omessa

o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. La corte Territoriale ha

ritenuto sanati i vizi della convocazione della" assemblea, poichè totalitaria, senza tenere conto

dell'ulteriore motivo di nullità della deliberazione basato sull'omessa identificazione dei

partecipanti. Il carattere plenario dell'adunanza non poteva ritenersi provato sulla scorta di un

giudizio formulato dal presidente, insuscettibile di verifica, non risultando nominate nè identificate,

con apposita indicazione della loro generalità nel verbale dell'assemblea, le persone intervenutevi.

Nessun rilievo poteva attribuirsi all'affermazione del presidente relativamente alla regolare

costituzione dell'assemblea, trattandosi di giudizio di cui non era possibile controllare la correttezza,

proprio a causa della mancata identificazione dei partecipanti.

Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione della L. 29 dicembre

1962, n. 1745, artt. 4 e 5, artt. 2375, 2377 e 2379 c.c., omessa o insufficiente motivazione circa un

punto decisivo della controversia. Era, anzitutto, onere degli attori dimostrare l'avvenuto preventivo

deposito dei titoli azionar da parte degli intervenuti all'assemblea, non risultando dal relativo

verbale l'adempimento di questa ineludibile formalità. Contrariamente a quanto opinato dalla Corte

d'Appello, il mancato deposito dei titoli importa vizio di inesistenza o nullità assoluta della

deliberazione assembleare.

I sopra compendiati motivi esigono trattazione congiunta poichè implicano la risoluzione di

questioni comuni (invalidità della delibera assembleare per pretesi vizi di costituzione

dell'assemblea) ed è unica la ragione del loro rigetto, prima di esplicitare la quale è d'uopo svolgere

alcune premesse.

Le censure in questione in tanto possono essere scrutinate "nel merito" in quanto con esse si

supponga che la società abbia inteso sollecitare i poteri di rilevazione di ufficio della nullità o della

inesistenza della delibera ai sensi del combinato disposto degli artt. 2379 e 1421 c.c., evidente

essendo che, per l'annullabilità della delibera assembleare (art. 2377 c.c.), la società difetterebbe di

legittimazione attiva. Particolare, questo, che sembra essere sfuggito alla Corte d'Appello la quale, a

proposito del dedotto mancato deposito delle azioni, parla, sia pure con argomentazione di rincalzo,

di decadenza della società dal diritto di far valere il conseguente vizio (ritenuto di annullabilità)

della delibera, per essere decorso il termine di cui all'art. 2377 c.c., comma 2, laddove più corretto

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sarebbe stato semmai rilevare il difetto di legittimazione attiva della convenuta, attrice in

riconvenzione.

La soluzione della questione che indirettamente viene sottoposta all'esame di questa Corte - id est,

la natura del vizio da cui può essere affetta la deliberazione di società per azioni adottata senza

l'identificazione a verbale dei partecipanti o da soci intervenuti in assemblea senza aver

preventivamente provveduto al deposito delle proprie azioni - non può essere data perchè deve

aversi riguardo a un elemento logicamente e ineludibilmente anteriore, e cioè alla prova richiesta

per fare valere quei vizi in sede di impugnazione della delibera.

L'art. 2377 c.c. e l'art. 2379 c.c. (vecchio testo) sanciscono, rispettivamente, l'annullabilità delle

deliberazioni non adottate in conformità della legge o dell'atto costitutivo e la nullità delle

deliberazioni recanti un oggetto illecito o impossibile. Di esse consentono l'impugnazione (la prima

norma a determinati interessati), con l'ovvio onere di colui che la propone di allegare e dimostrare,

secondo i principi generali dell'azione, lo specifico fatto che produce la difformità invalidante o

l'impossibilità o l'illiceità dell'oggetto.

Dato che nel caso in ispecie si discute sulla valida costituzione dell'assemblea in relazione alla

legittimazione dei partecipanti e quest'ultima deriva da una condizione sostanziale (qualità di socio

o titolarità di un diritto sull'azione, al quale è connesso il diritto di voto), ciò che l'attore deve

allegare e provare a fondamento dell'impugnazione è il concreto difetto, rispetto a taluno dei

partecipanti, di tale condizione e non l'astratta possibilità che essa non sussista. Al riguardo, va

richiamata la giurisprudenza di questa Corte, la quale, pur negando il carattere per cosi dire

analitico del verbale delle deliberazioni assembleari e, dunque, escludendo che ad esso debba essere

"attribuito lo scopo e l'efficacia di mezzo di documentazione posto a tutela dei soci dissenzienti o

assenti e comunque delle minoranze che non abbiano votato a favore", non ha dubitato che la

società sia tenuta a conservare non solo la documentazione relativa alle deleghe di rappresentanza

(come espressamente prescritto dall'art. 2372 c.c., comma 1), ma, per la stessa ragione, anche quella

concernente la verifica del diritto di intervento dei soci, vale a dire di tutti i fattori di costituzione

dell'assemblea secondo il disposto dell'art. 2370 c.c.. Sicchè, pur se non allegato al verbale e perciò

non parte integrante di esso, l'elenco dei soci ammessi e partecipanti, idoneamente formato dagli

organi della società e conservato ai suoi atti, costituisce la fonte primaria di prova della

composizione dell'assemblea e, indirettamente, delle assenze (vedi Cass. nn. 2263/1970,

3107/1956).

Per la soluzione della questione sollevata più specificamente con il secondo motivo, non offre

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argomento decisivo la sentenza di questa Corte n. 5197 dell'8 ottobre 1979, richiamata dalla

ricorrente a conforto della propria tesi, riguardando essa un caso in cui i partecipanti all'assemblea

erano risultati (provatamente) tutti privi del diritto di voto, non avendo potuto effettuare, ai sensi

della L. 29 dicembre 1962, n. 1745, art. 4, il previo deposito delle azioni, di cui non erano più in

possesso per averle dato in pegno.

Svolte le superiori premesse, con riferimento al primo motivo va osservato come sia ovviamente

buona norma che, ai fini della regolarità formale, il verbale di assemblea di una società per azioni

dia atto dell'avvenuta identificazione dei partecipanti, ma non può certo seguirsi la tesi della

ricorrente secondo cui l'omessa verbalizzazione dell'avvenuta identificazione dei partecipanti

importi automaticamente l'invalidità della deliberazione assembleare, quasi che questa dovesse, in

tal caso, presumersi adottata da soggetti non legittimati.

In contrario, va anzitutto rammentato che, perlomeno con riferimento all'assetto normativo vigente

all'epoca dei fatti di causa, l'identificazione dei partecipanti può avvenire anche in modo informale,

in base alla loro diretta conoscenza da parte del presidente o dei suoi immediati collaboratori (ciò

pure nelle grandi società per la frequenza con cui i piccoli azionisti concentrano la loro

rappresentanza in poche, e di solito abituali, persone fisiche) e che l'attestazione presidenziale della

valida costituzione dell'assemblea può implicitamente voler dire che l'identificazione degli

intervenuti abbia avuto luogo almeno nel modo suddetto (vedi Cass. nn. 5542/1997, 693/1976,

2263/1970).

Peraltro, la mancanza nel verbale di una specifica attestazione circa l'avvenuta identificazione dei

partecipanti - anche qualora se ne volesse inferire una reale omissione e, quindi, un'irregolarità

sostanziale anzichè solo formale, come invece deve ritenersi di fronte all'attestazione presidenziale

della valida costituzione dell'assemblea - non configura altro che un'astratta possibilità di vizio della

delibera per difetto di costituzione dell'organo deliberante. Ma perchè il Giudice possa dichiarare

l'invalidità della deliberazione occorre concretamente dimostrarne e non soltanto supporne la

difformità dalla legge o dall'atto costitutivo ovvero l'oggetto illecito o impossibile. E poichè, in

definitiva, la ricorrente si è limitata ad ipotizzare un vizio di costituzione dell'assemblea,

esattamente la Corte di merito (cui nessuna prova di specifici fatti invalidanti sotto il profilo qui

considerato è stata offerta) ha comunque respinto l'impugnazione della delibera, per invalidare la

quale la società avrebbe dovuto dimostrare che tutti coloro di cui non è stata accertata la

legittimazione a partecipare alla- riunione assembleare ne erano effettivamente privi.

Stesso discorso va fatto per il dedotto mancato deposito delle azioni cinque giorni prima

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dell'assemblea in cui fu adottata la delibera impugnata (secondo motivo). Quand'anche si volesse

ritenere che la delibera sia stata adottata con il concorso di soci iscritti nel relativo libro ma non in

regola con il deposito dei certificati azionari prescritto dalla L. n. 1745 del 1962, art. 4, il vizio

potrebbe essere rilevato solo in conseguenza della prova (il cui onere incombe su chi vuole far

valere il vizio) della concreta mancanza della qualità di socio in capo al soggetto che vi ha preso

parte, poichè è solo quella qualità (e non il previo deposito delle azioni) che legittima ad intervenire

all'assemblea. Di conseguenza, nel caso in cui il socio, ancorchè inadempiente, partecipi

all'assemblea, il difetto di legittimazione all'intervento (in relazione al successivo calcolo dei

quorum e delle maggioranze) deve essere dedotta non già con la semplice contestazione del

mancato deposito, bensì con la negazione della qualità di socio in capo al soggetto inadempiente.

Infatti, il previo deposito delle azioni è onere imposto dalla legge al fine di consentire agli organi

sociali il controllo degli aventi diritto alla partecipazione e l'unica sanzione del relativo

inadempimento non può essere che la non ammissione all'assemblea; ove però tale sanzione non sia

stata applicata, la legittimità della partecipazione non può essere contestata se non denunciando la

non appartenenza dell'intervenuto alla compagine sociale. Correttamente, dunque, la Corte

Territoriale ha rilevato che, vertendosi in ipotesi di assemblea totalitaria, il mancato deposito delle

azioni supponeva in ogni caso la prova incombente sulla società - tenuta a conservare tutta la

documentazione inerente l'intervento dei soci nelle riunioni assembleari - che alcuno o entrambi i

partecipanti avessero ceduto le proprie azioni.

Nella specie, quindi, non è stato provato che i partecipanti all'assemblea non erano soci, ma si

continua a insistere per la nullità della delibera, mettendo in dubbio quanto attestato dal presidente

dell'assemblea, e si pretende che siano gli attori a dare prova dei partecipanti alla riunione e del

regolare deposito dei titoli azionari. Di contro, tanto l'identità dei partecipanti alla riunione quanto

l'omesso deposito delle azioni, cinque giorni prima della assemblea, dovevano essere dimostrati

documentalmente in base alle scritture che la società deve conservare come espressamente

prescritto per i documenti inerenti alla convocazione e alla riunione dell'assemblea e per le deleghe

di rappresentanza, a comprova, se richiesto dagli interessati, della legalità del procedimento

assembleare.

Prescindendo, dunque, dalle problematiche relative alla latitudine dell'obbligo di procedere

direttamente all'identificazione di coloro che intervengono alla riunione assembleare e alla forma

(analitica o sintetica) del relativo verbale, deve ribadirsi che colui il quale abbia motivo di dubitare

della legittimazione di taluni dei partecipanti (e si proponga di impugnare sotto questo profilo la

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Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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deliberazione contraria ai suoi interessi) ha l'onere di fare le specifiche contestazioni in assemblea,

per sollecitare l'accertamento formale della loro identità, e le specifiche allegazioni (con la

produzione delle relative prove) in sede giudiziaria, per ottenere l'annullamento della deliberazione.

E', quindi, da condividere l'affermazione del Giudice a quo secondo cui tale onere probatorio

incombeva comunque sulla società, non solo perchè essa, in quanto tenuta a conservare tutta la

documentazione riguardante le operazioni di verifica del diritto di intervento e di voto dei soci,

aveva la disponibilità materiale della fonte di conoscenza della legittimazione degli attori, ma

proprio in ossequio ai principi che presiedono alla ripartizione dell'onere della prova. Chi impugna

una delibera societaria ha l'obbligo di dimostrarne i presupposti in fatto e in diritto.

Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2365, 2379 e

2445 c.c., nonchè omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia.

La delibera era nulla poichè, non ricorrendo le condizioni previste dall'art. 2445 c.c., non poteva

essere disposta la restituzione anticipata, rispetto alla liquidazione, dei versamenti in conto capitale,

da ritenersi assoggettati al rischio di impresa e assimilabili alle riserve indisponibili. Richiama

precedenti di questa Corte, secondo cui, non potendosi i versamenti in conto capitale equiparare ai

mutui, e non essendo essi divenuti capitale, l'eventuale mutamento di destinazione delle relative

somme potrebbe avvenire in corso di vigenza della società, a condizione che vengano osservate le

norme di cui all'art. 2445 c.c., per la riduzione del capitale sociale. Erroneamente i giudici di

appello hanno ritenuto, nel caso di specie, rispettata la predetta norma, in quanto la restituzione non

è stata disposta per motivi di riduzione del capitale e pertanto l'unica formalità prescritta era

l'indicazione dei motivi della restituzione nell'avviso di convocazione, adempimento tuttavia

superato dal carattere totalitario dell'assemblea che aveva adottato la deliberazione. Invero, nel

presupposto dell'applicabilità dell'articolo sopra citato, si sarebbe dovuto rilevare che la

deliberazione non era stata assunta, come dovuto, in una assemblea straordinaria, bensì in una

assemblea ordinaria, quale era stata quella del 12 febbraio 1987. Inoltre, per esigenze minime di

tutela dei terzi, la delibera avrebbe dovuto contenere i termini della eventuale esuberanza dei

conferimenti dei soci e dimostrare i fatti specifici a fondamento del relativo giudizio.

La censura non è fondata, anche se coglie l'erroneità di talune affermazioni dell'impugnata sentenza,

peraltro emendabili ai sensi dell'art. 384 c.p.c., essendo il dispositivo conforme a diritto.

Preliminarmente, va osservato che la destinazione "in conto capitale" dei versamenti oggetto di

delibera costituisce circostanza pacifica in causa. D'altra parte, non appare dubitabile che con tale

imputazione essi fossero stati registrati in contabilità.

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Specifiche ragioni di dissenso, compendiate nel motivo in esame, investono invece la disciplina in

concreto applicabile a questo tipo di apporti. La ricorrente si duole della ritenuta possibilità di una

successiva valida rimozione, da parte della società, del vincolo di indisponibilità che caratterizzava

ab origine i versamenti in questione.

In relazione a tali critiche, sono da approfondire le considerazioni svolte dalla ricorrente

sull'indisponibilità delle somme versate e sulla postergazione della loro restituzione.

I versamenti in conto capitale si inseriscono tra gli apporti finanziari o i conferimenti eseguiti,

normalmente in società sottocapitalizzate, al di fuori degli schemi giuridico-formali previsti dal

codice civile per la originaria costituzione della società o per l'aumento del capitale sociale; si

traducono in un incremento del solo patrimonio netto della società e non sono imputabili a capitale,

salvo che, con apposita delibera assembleare di modifica dell'atto costitutivo, non ne venga disposto

successivamente l'utilizzo per un aumento del capitale sociale. Dalla prassi si ricava che i

versamenti in conto capitale - diffusisi sia in ragione dei benefici fiscali ad essi collegati, sia,

soprattutto, perchè costituiscono un efficace e flessibile strumento che i soci possono utilizzare per

fare fronte a varie esigenze della società - sono diretti a creare disponibilità finanziarie

discrezionalmente de- stinabili dagli amministratori a scopi attinenti all'oggetto sociale.

Sono, quindi, destinati a costituire frazioni del "capitale di rischio", ovverosia "mezzi propri" della

società beneficiaria. Non essendo imputabili a capitale nel senso appena chiarito, i versamenti in

discorso, una volta eseguiti, vanno a costituire una riserva non di utili ma, come usa dirsi, "di

capitale", soggetta, secondo la condivisibile opinione della dottrina prevalente, alla stessa disciplina

della riserva da soprapprezzo, seppure, si precisa, "personalizzata" o "targata" in quanto di esclusiva

pertinenza dei soci che hanno effettuato i versamenti in relazione all'entità delle somme da ciascuno

erogate.

L'analogia tra apporti di patrimonio e soprapprezzo è evidente. Il socio, infatti, sia che versi un

soprapprezzo al momento della sottoscrizione delle azioni, sia che apporti entità patrimoniali

indipendenti dall'emissione di azioni, mette durevolmente a disposizione della società mezzi

economici per lo svolgimento dell'attività di impresa in vista dei risultati cui è chiamato a

partecipare. Il che spiega perchè l'apporto aggiuntivo del socio - di patrimonio o di sopraprezzo -

possa essere non proporzionale alla partecipazione al capitale. Infatti, in tutti i tipi di società è

possibile derogare al rapporto di proporzionalità tra conferimento e partecipazione ai risultati della

società e tale deroga non è soggetta ad alcun vincolo di procedura o di forma quando discende da un

comportamento spontaneo del socio.

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La disciplina del soprapprezzo prevede che il relativo fondo, fino al momento dell'integrale

costituzione della riserva legale, non sia disponibile per intero o, secondo un'interpretazione meno

restrittiva, solo per la parte corrispondente alla quota di riserva legale mancante. Verificatesi

comunque le condizioni di disponibilità, l'eventuale eccedenza del fondo di soprapprezzo diventa

assimilabile a una qualsiasi riserva facoltativa, distribuibile a seguito di una semplice decisione

dell'assemblea ordinaria.

Le conseguenze, in termini di disciplina, di tale impostazione (assimilazione della riserva in oggetto

alla riserva da soprapprezzo), sono facilmente immaginabili. Una volta che le somme in conto

capitale siano confluite nel coacervo del patrimonio comune, è escluso che i soci eroganti, finchè

dura la società, possano esercitare pretese restitutorie. Quindi, a differenza dei finanziamenti, cioè

dei prestiti, i versamenti in questione non generano crediti esigibili dei soci nei confronti della

società; la definitiva aggregazione al patrimonio netto dell'ente - dotato per tale via di ulteriori

mezzi propri di cui poter disporre - evidentemente non sarebbe possibile se l'acquisizione delle

somme erogate fosse bilanciata, al passivo, da debiti per restituzione di pari importo in favore dei

soci. Gli apporti in discorso possono essere utilizzati per l'aumento gratuito del capitale, con

attribuzione delle azioni di nuova emissione a tutti i soci, o impiegati per l'acquisto di azioni

proprie. I soci possono chiedere la restituzione delle somme versate solo per effetto dello

scioglimento della società e nei limiti dell'eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione

(quindi, dopo la liquidazione di tutte le passività sociali). I ridetti versamenti, tuttavia, in caso di

saturazione della riserva legale, possono essere distribuiti durante societate e le relative somme

andranno ripartite tra i soci (non in proporzione delle rispettive quote di partecipazione al capitale

da ciascuno possedute ma) in misura corrispondente a quanto da ognuno versato; in diversi termini,

la riserva formata con detti apporti sarà distribuitale nel corso della vita normale della società ai

sensi e nei limiti dell'art. 2431 c.c., naturalmente con delibera dell'assemblea ordinaria.

Nella specie, non essendo neanche dedotto che la società fosse in fase liquidatoria o che

sussistessero ostacoli connessi al livello della riserva legale (nel senso che questa fosse al di sotto

del limite di legge) , nulla impediva che la Maffei s.p.a., di sua spontanea volontà, decidesse di

restituire detti apporti ai soci conferenti.

La conclusione cui è pervenuta la Corte Territoriale è, dunque, corretta anche se è errato il

riferimento all'art. 2445 c.c., quasi che il rimborso ai soci dei versamenti in conto capitale

implicasse l'adozione di una delibera di riduzione del capitale esuberante.

Ribadito, infatti, che i versamenti in conto capitale non vanno imputati al capitale ma al patrimonio,

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che la volontà degli autori dei versamenti è proprio quella di non assoggettarli, fino a futura diversa

decisione, al regime del capitale e che, rispetto a detti apporti, sarebbe erroneo parlare di aumenti di

fatto di capitale, in quanto nella disciplina codicistica il capitale può essere costituito e aumentato

solo con procedure tipizzate, non sussistono, all'evidenza, i presupposti per ritenere la restituzione

dei versamenti disciplinata dalla norma (l'art. 2445 c.c.) che riguarda la riduzione, mediante

rimborso di quote ai soci, del capitale formalmente costituito. Dunque, in assenza di prova della

successiva imputazione a capitale dei versamenti a suo tempo eseguiti dai due soci della Maffei

s.p.a., la restituzione delle relative somme ai soci medesimi poteva essere disposta al di fuori del

paradigma normativo di cui all'art. 2445 c.c..

Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione dell'art. 2467 c.c., che, nel nuovo testo

introdotto dalla riforma del diritto societario (D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), posterga il rimborso

dei finanziamenti dei soci alla soddisfazione degli altri creditori. Ad avviso della ricorrente, la

norma predetta sarebbe applicabile alla destinazione dei versamenti dei soci all'atto della

deliberazione contestata, in considerazione che in quel momento gli stessi assolvevano

indiscutibilmente una funzione simile a quella del capitale, per le esigenze della attività sociale.

Il motivo è inammissibile e comunque infondato.

Sotto il primo profilo, va osservato che la norma è entrata in vigore il 1 gennaio 2004, vale a dire a

ben 17 anni di distanza dalla delibera contestata; non si vede, pertanto, come se ne possa invocare

la" applicazione per valutare la legittimità del deliberato assembleare. Al tempo stesso, la questione

sollevata con il mezzo in esame è dichiaratamente nuova, essendosi il giudizio di appello concluso

prima della entrata in vigore della disciplina invocata.

Ma, come anticipato, la censura è anche infondata.

Al riguardo, è opportuno chiarire, che nonostante l'uso, già nella rubrica, della locuzione

"finanziamenti dei soci", la proposizione normativa contenuta nell'art. 2467 c.c., è applicabile non a

ogni forma di finanziamento da parte dei soci, ma, esclusivamente, alla figura dei cosiddetti prestiti

anomali (o "sostitutivi del capitale") al fine di porre rimedio alle ipotesi di sottocapitalizzazione c.d.

nominale.

Per come chiaramente specificato nel comma 2, "ai fini del precedente comma si intendono

finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati

concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società,

risulta un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una

situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento".

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E' stato, quindi, introdotto, per le imprese che siano entrate o stiano per entrare in una situazione di

crisi, un principio di corretto finanziamento la cui violazione comporta una riqualificazione

imperativa del "prestito" in "prestito postergato" (rispetto alla soddisfazione degli altri creditori).

Nel caso di specie, la ricorrente non ha nemmeno dedotto che il rimborso del finanziamento durante

societate sia avvenuto in presenza di un eccesso di indebitamento rispetto al patrimonio netto

(dunque rispetto ai mezzi propri, non già al capitale sociale), o di una situazione finanziaria in cui

sarebbe stato ragionevole un conferimento, ovvero, in altre parole, in una fase in cui la società, in

relazione all'attività in concreto esercitata, aveva la necessità delle risorse messe a disposizione dai

soci (finanziatori) e non sarebbe stata in grado di rimborsarli.

Inoltre, la norma è prevista per le società a responsabilità limitata, pur se viene estesa anche alle

società per azioni quando facciano parte di un gruppo (art. 2497 quinquies c.c.). All'epoca della

delibera impugnata la M. era una s.p.a. e non risulta che facesse parte di qualche gruppo.

Con il quinto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., e

vizi motivazionali. La Corte sarda ha erroneamente ricavato la prova, ricadente sugli appellati,

dell'entità dei versamenti di M.G. dalla quota azionaria (55%) di cui egli risultava titolare in base

alle scritture contabili. In realtà, non è provato che, rispetto all'intero montante dei versamenti, la

somma conferita dal dante causa degli attori corrispondesse in percentuale alla sua partecipazione

azionaria.

Il motivo è infondato.

Se è vero, e lo si è detto in precedenza, che l'apporto aggiuntivo del socio - si tratti di apporto di

patrimonio o di soprapprezzo - può essere non proporzionale alla partecipazione al capitale,

altrettanto indubbio è che, nella maggioranza dei casi, detti apporti sono eseguiti dai soci in

proporzione alle rispettive quote di partecipazione.

Il Giudice a quo, ha pertanto legittimamente presunto, in base all'id quod plerumque accidit, che i

versamenti fossero stati effettuati dai due soci della Maffei s.p.a. in rapporto alla rispettiva

partecipazione sociale.

Come noto, è riservata al Giudice di merito la facoltà di valutare discrezionalmente se sia opportuno

fare ricorso a presunzioni e se sussistano i requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti

dalla legge per valorizzare elementi di fatto come circostanze idonee a giustificare illazioni secondo

il criterio dell' id quod plerumque accidit; l'unico sindacato riservato in proposito al Giudice di

legittimità è quello sulla congruenza della relativa motivazione. D'altra parte, le presunzioni

semplici costituiscono una prova completa alla quale il Giudice di merito può attribuire rilevanza,

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anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell'esercizio del potere

discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne

l'attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame,

quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell'eccezione e valutarne la

rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato,

sfugge al sindacato di legittimità (cfr. Cass. nn. 10135/2005, 9225/2005, 21047/2004, 16831/2003,

15737/2003, 15706/2002, 15399/2002, 12980/2002, 3974/2002).

A questo riguardo è peraltro inammissibile il profilo di censura relativo alla motivazione addotta sul

punto dalla Corte isolana. La censura per vizio di motivazione in ordine al ragionamento presuntivo

ne deve fare emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà e non può limitarsi ad affermare un

convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito.

Al rigetto del ricorso segue la condanna della sua proponente alle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in

Euro 3.600,00, di cui Euro 3.500,00 per onorari d'avvocato, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 21 giugno 2007.

Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2007