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DIREZIONE Ugo Finetti Sergio Scalpelli Stefano Carluccio (direttore responsabile) Email: [email protected] Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano GIORNALISTI EDITORI scarl Via Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano Tel. +39 02 6070789 / 02 683984 Fax +39 02 89692452 Email: [email protected] FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891 Rivista di Cultura Politica, Storica e Letteraria Anno CXX – N. 7 / 2011 Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Telestampa Centro Italia - Srl - Località Casale Marcangeli - 67063 Oricola (L’Aquila) - Abbonamento annuo: Euro 50,00 Euro - 10,00 Simona Colarizzi G li eventi successivi alla prima guerra mondiale rappresentano uno snodo ciu- ciale nella storia del Novecento italiano che, per quanto analizzato e interpre- tato da una storiografia ormai consolidata, lascia sempre aperti nuovi percorsi di ricerca quando si reperiscono documenti mai visionati o si rileggono carte d’archivio la- sciate negli armadi. Il lavoro di scavo, promosso dalla Fondazione Di Vaglio, testimonia quanto sia fecondo ripercorrere, attraverso una documentazione inedita e soprattutto con un bagaglio di conoscenze rinnovate negli anni, avvenimenti e momenti di questo tormentato dopoguerra che ha segnato la fine dello Stato liberale e l’avvento della dittatura fascista. Inevitabile un interrogativo preliminare: perché riportare alla luce proprio il “caso Di Va- glio”, il brutale assassinio del deputato socialista pugliese, caduto in un agguato squadrista, a Mola di Bari, il 25 settembre 1921? Certamente, Giuseppe Di Vagno, nella memoria che tanti cittadini pugliesi si sono traman- dati di padre in figlio, è una figura simbolo della lotta per la libertà violata e negata dal fa- scismo; il suo nome si iscrive tra le vittime illustri che hanno dato la vita in nome degli ideali antifascisti alla base della Costituzione repubblicana, celebrata oggi - a centocinquanta anni dall’Unità d’Italia - come la tappa fondamentale del percorso storico iniziato nel lontano 1861. Che Di Vagno appartenga alla storia nazionale non ci sono dubbi; ma Di Vagno ap- partiene anche alla sua terra. Immenso era stato il dolore per la morte atroce di questo dirigente socialista conosciuto, amato e apprezzato ben oltre i confini della Puglia, dai cittadini di ogni strato sociale, con- tadini, operai, borghesi che, in quel lontano autunno, da tutti i paesi del circondario di Con- versano, si erano riuniti in mesto corteo per rendergli l’estremo omaggio, sfidando le intimi- dazioni dei fascisti. Lì il lutto era continuato per anni non solo nella famiglia del defunto che aveva lasciato una giovane moglie con un figlio nel suo grembo; una devozione com- movente si perpetuava anche nel chiuso delle case più povere dove, accanto alle immagini religiose, non era infrequente trovare la fotografia ingiallita del “gigante buono”, come veniva definito il parlamentare del Psi che aveva speso la sua vita per riscattare il popolo dei deboli e dar loro una speranza di migliore esistenza. Il delitto, come quello di Giacomo Matteotti, aveva segnato un’epoca e aveva sancito il fallimento della classe dirigente liberale incapace di tutelare libertà e diritti della cittadinanza; una classe politica che si era auto-delegittimata consentendo il dilagare della violenza armata ila parte di una fazione, prima scatenata contro i “nemici” socialisti, poi pronta ad attaccare e a uccidere gli stessi esponenti liberali che, con maggiore o minore consapevolezza, avevano aperto la strada del potere agli eversori delle istituzioni liberali. Gli organizzatori dell’iniziativa hanno però voluto escludere un intento meramente cele- brativo proprio chiamando a raccolta studiosi di varie discipline per esaminare gli atti dei processi relativi all’omicidio, i primi celebrati nei mesi precedenti e successivi alla marcia su Roma, i secondi tra il 1945 e il 1948 quando, nell’Italia liberata, si sono gettate le fonda- menta della Repubblica democratica. I contributi raccolti appaiono di grande interesse e de- cisamente innovativi rispetto agli studi finora a disposizione innanzi tutto la biografia di Giu- seppe Di Vagno, ripercorsa alla luce dei risultati raggiunti dalla più recente storiografìa sul Movimento e sul Partito socialista, poi il contesto nel quale matura il delitto, dilatato dalla PROTAGONISTI DEL RIFORMISMO SOCIALISTA. UN CONVEGNO DELLA “FONDAZIONE DI V AGNOCON L ’ALTO P ATRONATO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA GIUSEPPE DI V AGNO, IL MATTEOTTI DEL SUD Continua a pagina 3 SECONDA EDIZIONE A CURA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI La seconda edizione del volume " Il processo Di Vagno" È stato presen- tato in luglio, presso la sala “Aldo Moro” della Camera dei Deputati. Con il sottotitolo "Un delitto impunito dal fascismo e dalla democrazia”. l’opera, edita dal primo ramo del nostro Parlamento, è il risultato della ricerca storica promossa dalla Fondazione “Giuseppe Di Vagno (1889- 1921)” sugli atti del processo Di Vagno ritrovati, dopo anni di ricerca, presso l’Archivio di Stato di Potenza. L’iniziativa rientra nel calendario delle Manifestazioni per il Novantesimo anniversario della scomparsa del martire socialista. Un nuoco appuntamento e il convegno del 24 settembre a Bari di cui si riporta in alto il programma ed il cumine della celebrazione e' previsto per il 4/5 novembre con la visita del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Una iniziativa editoriale, quella della Camera, che prosegue nel solco della continuità, ricordando l’attenzione rivolta alla figura di Giuseppe Di Vagno dai precedenti Presidenti della Camera Casini e Bertinotti. È dunque una storia, quella del “Gigante Buono”, che ha la forza di avvi- cinare esponenti del mondo politico con estrazione e formazione cul- turale di certo non affine. In queste pagine pubblichiamo una selezione degli interventi degli studiosi che hanno contribuito a realizzare l'ope- ra, con due documenti conclusivi: la commemorazione dei Bettino Craxi al teatro Petruzzelli di Bari con Felipe Gonzales nel 1977, e l intervento di Giuliano Vassalli in occasione della pre- sentazione della prima edizione del Volume alla Camera dei deputati (2005). Novantesimo anniversario dellʼassassinio di Giuseppe di Vagno (1889-1921) Con lʼAlto Patronato del Presidente della Repubblica CONVEGNO DI STUDI SOCIALISMO, DIRITTI E DEMOCRAZIA DEL LAVORO IN EUROPA E NON SOLO Aula Consiliare Comune BARI 24 settembre ORE 9,00 Ore 9,15 - Saluti: Michele Emiliano, Sindaco di Bari Corrado Petrocelli, Rettore dell’Università di Bari. Onofrio Introna, Presidente Consiglio regionale Puglia Presiede: Prof. Nicola Colonna, Comitato Scientifico Fondazione Di Vagno Ore 9,45 - Prof. Mario Ricciardi: SOCIALISMO e DEMOCRAZIA al bivio Ore 10,15 - Sen. Gennaro Acquaviva: Socialismo e diritti umani nelle relazioni internazionali Ore 11,15 - Prof. Lauralba Bellardi: Socialismo e democrazia industriale e del lavoro Ore 11,45 - Cofee Break Ore 12,00 - SOCIALISMO OGGI: PERCHÈ NO’? Coordina: On. Rino Formica Interventi: On. Fausto Bertinotti, direttore “Alternativa per il Socialismo” Ugo Finetti, direttore “Critica Sociale” On. Luigi Covatta, direttore “Mondoperaio” Sen. Emanuele Macaluso, direttore “Le nuove ragioni del Socialismo” On. Massimo D’Alema, Presidente “Italianieuropei” SOMMARIO POSTE ITALIANE S.p.A. Spedizione in a.p.D.L. 353/03 (conv. L. 46/04) Art. 1 comma 1, DCB Milano - Mens. 9 7 7 8 0 0 0 0 5 7 0 0 3 1 1 0 0 7 ISSN 1827-4501 PER ABBONARSI Abbonamento annuo Euro 50,00 c/c postale 30516207 intestato a Giornalisti editori scarl Banco Posta: IBAN IT 64 A 0760101600000030516207 Banca di Roma: IBAN IT 56 D 02008 01759 000100462114 E-mail: [email protected] Editore - Stefano Carluccio - Direzione editoriale - Carlo Tognoli, Francesco Forte, Rino Formica, Francesco Colucci, Massimo Pini, Spencer Di Scala, Giuseppe Scanni, Riccardo Pugnalin, Sergio Pizzolante La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250 IL PROCESSO DI VAGNO Un delitto impunito dal fascismo alla democrazia

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DIREZIONEUgo Finetti Sergio Scalpelli

Stefano Carluccio (direttore responsabile)Email: [email protected]

Grafica: Gianluca Quartuccio Giordano

GIORNALISTI EDITORI scarlVia Benefattori dell’Ospedale, 24 - Milano

Tel. +39 02 6070789 / 02 683984Fax +39 02 89692452

Email: [email protected]

FONDATA DA FILIPPO TURATI NEL 1891

Rivista di Cultura Politica, Storica e Letteraria

Anno CXX – N. 7 / 2011

Registrazione Tribunale di Milano n. 646 / 8 ottobre 1948 e n. 537 / 15 ottobre 1994 – Stampa: Telestampa Centro Italia - Srl - Località Casale Marcangeli - 67063 Oricola (L’Aquila) - Abbonamento annuo: Euro 50,00 Euro - 10,00

Simona Colarizzi

G li eventi successivi alla prima guerra mondiale rappresentano uno snodo ciu-ciale nella storia del Novecento italiano che, per quanto analizzato e interpre-tato da una storiografia ormai consolidata, lascia sempre aperti nuovi percorsi

di ricerca quando si reperiscono documenti mai visionati o si rileggono carte d’archivio la-sciate negli armadi. Il lavoro di scavo, promosso dalla Fondazione Di Vaglio, testimoniaquanto sia fecondo ripercorrere, attraverso una documentazione inedita e soprattutto con unbagaglio di conoscenze rinnovate negli anni, avvenimenti e momenti di questo tormentatodopoguerra che ha segnato la fine dello Stato liberale e l’avvento della dittatura fascista.

Inevitabile un interrogativo preliminare: perché riportare alla luce proprio il “caso Di Va-glio”, il brutale assassinio del deputato socialista pugliese, caduto in un agguato squadrista,a Mola di Bari, il 25 settembre 1921?

Certamente, Giuseppe Di Vagno, nella memoria che tanti cittadini pugliesi si sono traman-dati di padre in figlio, è una figura simbolo della lotta per la libertà violata e negata dal fa-scismo; il suo nome si iscrive tra le vittime illustri che hanno dato la vita in nome degli idealiantifascisti alla base della Costituzione repubblicana, celebrata oggi - a centocinquanta annidall’Unità d’Italia - come la tappa fondamentale del percorso storico iniziato nel lontano1861. Che Di Vagno appartenga alla storia nazionale non ci sono dubbi; ma Di Vagno ap-partiene anche alla sua terra.

Immenso era stato il dolore per la morte atroce di questo dirigente socialista conosciuto,amato e apprezzato ben oltre i confini della Puglia, dai cittadini di ogni strato sociale, con-tadini, operai, borghesi che, in quel lontano autunno, da tutti i paesi del circondario di Con-versano, si erano riuniti in mesto corteo per rendergli l’estremo omaggio, sfidando le intimi-dazioni dei fascisti. Lì il lutto era continuato per anni non solo nella famiglia del defuntoche aveva lasciato una giovane moglie con un figlio nel suo grembo; una devozione com-movente si perpetuava anche nel chiuso delle case più povere dove, accanto alle immaginireligiose, non era infrequente trovare la fotografia ingiallita del “gigante buono”, come venivadefinito il parlamentare del Psi che aveva speso la sua vita per riscattare il popolo dei debolie dar loro una speranza di migliore esistenza.

Il delitto, come quello di Giacomo Matteotti, aveva segnato un’epoca e aveva sancito ilfallimento della classe dirigente liberale incapace di tutelare libertà e diritti della cittadinanza;una classe politica che si era auto-delegittimata consentendo il dilagare della violenza armataila parte di una fazione, prima scatenata contro i “nemici” socialisti, poi pronta ad attaccaree a uccidere gli stessi esponenti liberali che, con maggiore o minore consapevolezza, avevanoaperto la strada del potere agli eversori delle istituzioni liberali.

Gli organizzatori dell’iniziativa hanno però voluto escludere un intento meramente cele-brativo proprio chiamando a raccolta studiosi di varie discipline per esaminare gli atti deiprocessi relativi all’omicidio, i primi celebrati nei mesi precedenti e successivi alla marciasu Roma, i secondi tra il 1945 e il 1948 quando, nell’Italia liberata, si sono gettate le fonda-menta della Repubblica democratica. I contributi raccolti appaiono di grande interesse e de-cisamente innovativi rispetto agli studi finora a disposizione innanzi tutto la biografia di Giu-seppe Di Vagno, ripercorsa alla luce dei risultati raggiunti dalla più recente storiografìa sulMovimento e sul Partito socialista, poi il contesto nel quale matura il delitto, dilatato dalla

■ PROTAGONISTI DEL RIFORMISMO SOCIALISTA. UN CONVEGNO DELLA “FONDAZIONE DI VAGNO” CON L’ALTO PATRONATO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

GIUSEPPE DI VAGNO, IL MATTEOTTI DEL SUD

Continua a pagina 3

SECONDA EDIZIONE A CURA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

La seconda edizione del volume " Il processo Di Vagno" È stato presen-tato in luglio, presso la sala “Aldo Moro” della Camera dei Deputati. Conil sottotitolo "Un delitto impunito dal fascismo e dalla democrazia”.l’opera, edita dal primo ramo del nostro Parlamento, è il risultato dellaricerca storica promossa dalla Fondazione “Giuseppe Di Vagno (1889-1921)” sugli atti del processo Di Vagno ritrovati, dopo anni di ricerca,presso l’Archivio di Stato di Potenza. L’iniziativa rientra nel calendariodelle Manifestazioni per il Novantesimo anniversario della scomparsadel martire socialista. Un nuoco appuntamento e il convegno del 24settembre a Bari di cui si riporta in alto il programma ed il cumine dellacelebrazione e' previsto per il 4/5 novembre con la visita del Presidentedella Repubblica, Giorgio Napolitano.Una iniziativa editoriale, quella della Camera, che prosegue nel solcodella continuità, ricordando l’attenzione rivolta alla figura di GiuseppeDi Vagno dai precedenti Presidenti della Camera Casini e Bertinotti. Èdunque una storia, quella del “Gigante Buono”, che ha la forza di avvi-cinare esponenti del mondo politico con estrazione e formazione cul-turale di certo non affine. In queste pagine pubblichiamo una selezionedegli interventi degli studiosi che hanno contribuito a realizzare l'ope-

ra, con due documenti conclusivi: la commemorazione dei Bettino Craxi al teatro Petruzzellidi Bari con Felipe Gonzales nel 1977, e l intervento di Giuliano Vassalli in occasione della pre-sentazione della prima edizione del Volume alla Camera dei deputati (2005).

Novantesimo anniversario dellʼassassiniodi Giuseppe di Vagno (1889-1921)

Con lʼAlto Patronato del Presidente della Repubblica

CONVEGNO DI STUDI

SOCIALISMO, DIRITTI E DEMOCRAZIA DEL LAVOROIN EUROPA E NON SOLO

Aula Consiliare Comune BARI 24 settembre ORE 9,00

Ore 9,15 - Saluti: Michele Emiliano, Sindaco di BariCorrado Petrocelli, Rettore dell’Università di Bari. Onofrio Introna, Presidente Consiglio regionale PugliaPresiede: Prof. Nicola Colonna, Comitato Scientifico Fondazione Di Vagno

Ore 9,45 - Prof. Mario Ricciardi: SOCIALISMO e DEMOCRAZIA al bivio Ore 10,15 - Sen. Gennaro Acquaviva: Socialismo e diritti umani nelle relazioni internazionaliOre 11,15 - Prof. Lauralba Bellardi: Socialismo e democrazia industriale e del lavoroOre 11,45 - Cofee BreakOre 12,00 - SOCIALISMO OGGI: PERCHÈ NO’?

Coordina: On. Rino FormicaInterventi: On. Fausto Bertinotti, direttore “Alternativa per il Socialismo”

Ugo Finetti, direttore “Critica Sociale”On. Luigi Covatta, direttore “Mondoperaio”Sen. Emanuele Macaluso, direttore “Le nuove ragioni del Socialismo”On. Massimo D’Alema, Presidente “Italianieuropei”

SOMMARIO

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Editore - Stefano Carluccio - Direzione editoriale - Carlo Tognoli, Francesco Forte, Rino Formica, Francesco Colucci, Massimo Pini, Spencer Di Scala, Giuseppe Scanni, Riccardo Pugnalin, Sergio Pizzolante

La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7/08/1990 n.250

IL PROCESSODI VAGNOUn delitto impunito

dal fascismo alla democrazia

CRITICAsociale ■ 37 / 2011

provincia di Bari e dalla regione Puglia all’in-tero Mezzogiorno; infine, il problema del-l’epurazione, che fa da cornice ai vani tentatividi far trionfare la giustizia dopo ventanni di re-gime fascista.

A Di Vagno socialista fanno riferimento nelvolume tutti i saggi pur con diversi accenti, maconcordi nel sottolineare la difficile conviven-za tra le tante anime del socialismo italiano;una convivenza già divisiva in età giolittianae destinata a diventare irrimediabilmente con-flittuale dopo la guerra e con l’esplosione dellarivoluzione russa.

Contrapposizioni e scissioni che indeboli-scono il corpo del Psi. proprio nel momentodell’attacco squadrista, quando sarebbe statoindispensabile presentare un fronte compattoe soprattutto accordarsi su una linea politica ingrado di fermare la spirale di violenza di cuierano bersaglio quotidiano militanti, quadri edirigenti.

I conflitti interni al socialismo non si posso-no circoscrivere all’antitesi riformismo-mas-simalismo, come rilevano (Gervasoni e Cor-vaglia. Ben più variegato è il quadro delle po-sizioni a confronto che, del resto, riflette la di-somogeneità del tessuto sociale di cui i socia-listi rivendicano la rappresentanza.

In questa disomogeneità (Gervasoni indivi-dua non tanto i limiti del riformismo turatianoche ha un messaggio forte e persuasivo, quan-to l’impossibilità per i riformisti di mantenereil primato nel Psi; un primato insidiato dal pro-gressivo risveglio sempre più tumultuoso delproletariato italiano impaziente di riscattarsi eaccecato dalla prospettiva di una via più pro-messa da massimalisti e rivoluzionari.

La disomogeneità di contadini e operai, sa-liti sulla scena politica, non si limita al macro-scopico diva rio tra Nord avanzato e Sud arre-trato o al classico cleavage città-campagna.

Come ha osservato Corvaglia, il mondoagrario meridionale e settentrionale, a sua vol-ta, ha l’aspetto di un mosaico non facilmentecomponibile in cui ogni tessera va riferita a re-altà locali differenti da provincia a provincia,persino da comune a comune, a seconda del li-vello di sviluppo economico raggiunto in quel-la determinata zona. Vale anche per la classeoperaia e per i ceti medio-piccoli progressistiattirati nelle file del socialismo.

Questa frammentazione è ancora più accen-tuata nel Mezzogiorno dove Di Vagno compie isuoi primi passi politici. Di lui si è scritto: “cer-vello borghese in anima socialista’, per indicarela sua provenienza da una benestante famigliadi proprietari terrieri che gli ha consentitoun’istruzione universitaria e l’ingresso nellaprofessione forense, praticata con successo.L”‘anima socialista” sta negli ideali che guidanola sua passione politica nel solco di un sociali-smo arricchito dal patrimonio culturale trasmes-so da figure eminenti del meridionalismo. DeViti De Marco, Sturzo, Colajanni, Salvemini.

Con essi Di Vagno condivìde la necessità difar nascere una nuova classe dirigente del Sud,di rinnovare il tessuto amministrativo, chiavedi volta per dare alle masse piena cittadinanza,ma soprattutto di rompere i rapporti feudaliche ancora dominano nelle campagne. Il suoapprodo al riformismo di Turati è conseguente,conseguente anche all’approccio pragmatistache caratterizza l’azione politica del giovaneavvocato socialista.

E al riformismo Di Vagno resta fedele tuttala sua vita, anche quando guerra e rivoluzionerussa sembrano intaccare la fiducia nella pro-gressiva ascesa delle masse entro la cornicedelle istituzioni democratiche.

La febbre massimalista lo sfiora, più per ra-gioni di opportunità politica legate all’ambien-te in cui opera, che per convinzione. Rispettoalla maggioranza delle regioni meridionali, la

Puglia vive una stagione di fermenti sociali pa-ragonabile a quanto avviene nelle zone agrariesettentrionali, con l’aggravante che la spiraledi lotte si sviluppa su un tessuto sociale ancoraai primi passi nell’organizzazione.

L’asprezza dei conflitti, però, avrebbe potu-to smorzarsi col trascorrere del tempo, quandosi tosse superata la fase più acuta dell’emer-genza del dopoguerra. Invece, a mantenere vi-vo l’incendio sociale interviene la reazione fa-scista addirittura anticipata di qualche mesedal contrattacco di gruppi armati finanziati da-gli agrari nelle province di Bari e di Foggia.

BASTONATORI E SQUADRISTI

Corvaglia e Gervasoni hanno tutti sottolineatoquale tosse il vero obiettivo della violenzasquadrista decisa a colpire laddove più com-patte e meglio organizzate sono le masse con-tadine. Non è il timore della rivoluzione comu-nista ad armare i fasci di combattimento, bensìla paura che lo sviluppo del Partito socialista edella Federterra tra i contadini alteri i secolarirapporti nelle campagne, rompa appunto queivincoli rendali su cui si tonda lo strapotere deilatifondisti e della grande agraria. Lo intuiscelucidamente Di Vagno che vede in Salamini,non in Giolitti, il vero avversario.

Per quanto la violenza dei fascisti abbia lostesso obiettivo di quella dei mazzieri, vale adire garantire l’immobilità del Sud, i “basto-natori”, in età giolittiana denunciati da Salve-mini, puntavano a sottocare la nascita di una

classe dirigente meridionale autonoma, indi-pendente, in grado di spezzare la spirale deltrasformismo clientelare - non a caso si scate-navano in occasione delle elezioni.

Gli squadristi, invece, sono strumento di in-tervento nelle lotte sociali; vogliono arrestarela crescita delle organizzazioni sindacali attra-verso le quali il proletariato rurale acquista co-scienza di sé e dei propri diritti.

Non stupisce che i veri nemici siano indivi-duati nei riformisti che vanno appunto elimi-nati, condannati a morte come Di Vagno.

Ben più agevole per gli agrari giustificare laviolenza fascista se il conflitto sociale vienedescritto non come il risultato della miseria edell’oppressione, ma quale frutto avvelenatoeli professionisti della rivo luzione che aizzanoe strumentalizzano Lina plebe rurale tino adallora prona alle autorità, per abbattere il siste-ma capitalistico e sovvertire le istituzioni delloStato. Li questa, in sostanza, la versione difen-siva presentata al primo processo per l’assas-sinio di Di Vagno che si conclude quando or-

mai il fascismo ha compiuto la sua tappa de-cisiva verso la conquista del potere.

I fascisti sono i salvatori della patria, i co-raggiosi patrioti che hanno impedito ai bolsce-vichi italiani di rovesciare lo Stato nazionale.E non basta.

Una volta compiuta la marcia su Roma, nel1922, Mussolini intende continuare l’equivocoche tanto gli ha giovato nella scalata alla Pre-sidenza ilei Consiglio. Intende, cioè, continua-re a presentare il suo partito come il pilastrodell’ordine, anche se i fasci non vengono di-sarmati e una seconda ondata squadrista si sca-tena ovunque, questa volta mirata a far tacereper sempre non solo i socialisti, ma liberali.democratici, popolari che adesso iniziano a ca-pire quanto illusoria sia stata la parlamentariz-zazione del fascismo.

In questa direzione, il delitto Di Vagno vaderubricato a un mero episodio locale e i cri-minali squadristi a poche “teste calde”, tra iquali ci sono anche “disoccupati e malviven-ti”. In questa chiave, il vero imputato diventalo stesso Di Vagno, agitatore comunista, re-sponsabile del clima di “feroce odio paesano”dominante a Conversano; è dunque sua lamassima colpa della tensione innestata su an-tiche rivalità e vecchi rancori che nulla hannoa che fare con la politica.

Nel suo saggio, Esposito ha messo in evi-denza quanto questa versione così distorta ab-bia però avuto una larga eco persino negli am-bienti antifascisti - da Ferri a Fiore - che hannodescritto quanto successo a Mola nei terminidi “crimine di ambiente”.

Certo, la morte di Di Vagno viene attuata daun commando di Conversano, ma era stataprogettata ai vertici del fascismo barese dovesi voleva mettere a tacere per sempre il depu-tato socialista che troppo seguito aveva tra lemasse; un seguito certificato dai successi nelleelezioni amministrative e politiche.

Non che fosse intenzione degli antifascistiminimizzare il tatto di sangue; ma nelle stessefile degli oppositori tarda a consolidarsi la per-cezione della vera natura del lascismo.

Nel caso pugliese poi, si perpetua nel tempol’equivoco di una identità tra mazzieri e squa-dristi che devia dalla corretta interpretazionedel fenomeno fascista.

Il fascismo, letto come perversa evoluzionedel giolittismo, impedisce di cogliere la naturadel tutto nuova del movimento politico entratonel cuore dello Stato liberale che si prepara adistruggere per instaurare una dittatura a forticonnotati totalitari.

In parte, questa stessa versione del delittoviene ripresa nel secondo dopoguerra, quando

si riaprono le carte processuali e gli assassiniin libertà ritornano sul banco degli imputali.

Leuzzi ha descritto, con particolare riferi-mento al contesto meridionale, il clima di que-gli anni, indispensabile per comprendere perquali motivi neppure nel 1945-48 Di Vagnoabbia avuto giustizia.

IL PROCESSO DI VAGNO

Il caso del deputato socialista pugliese ripro-pone con torza la questione dell’epurazione,un capitolo non di tacile lettura perché sonomolte le cause che determinano il fallimentoevidente di un obiettivo ritenuto irrinunciabileper gli antifascisti al momento del crollo delfascismo nel 1943. Il pur comprensibile inten-to di colpire i responsabili di ventanni di dit-tatura finiti in una guerra mondiale al fiancodell’alleato nazista allarga lo schema epurativoben oltre la punizione degli specifici atti cri-minali, col solo risultato di affogare in unostesso calderone delitti, complicità, cedimenti,ma anche consensi convinti o meno convinti,reati insomma di opinione di quei tanti che alfascismo avevano creduto e lo aveva appog-giato e servito. Il che significa intentare unprocesso a ventanni di storia d’Italia.

Certo, la nuova classe dirigente impegnataa costruire la Repubblica democratica si inter-roga su quale lealtà possano garantire al nuovoStato antifascista amministratori pubblici, mi-litari, industriali, magistrati, docenti e l’insie-me del mondo delle professioni e dell’econo-mia che al fascismo aveva applaudito.

Ma proprio la pervasività e la durata del re-gime, nonché l’adesione più o meno larga ri-scossa tra la popolazione, avrebbero richiestoun’operazione epurativa talmente radicale darendere ancora più complessa la costruzionedell’edificio istituzionale. Quanto poi alla so-cietà civile, duramente provata dopo gli annidel conflitto e della guerra civile, l’epurazioneavrebbe acuito le divisioni già così profondeda apparire incolmabili. L’Italia era un paesedi vinti, un paese alla fame, ridotto in maceriemateriali e morali. Lutti e sofferenze, odi erancori, desiderio di vendetta e paura dellavendetta pesavano negli animi di una popola-zione piegata che, nella granile maggioranza,guardava con diffidenza o addirittura con ti-more alla svolta politica in atto.

Riconciliare gli italiani diventa, a poco a po-co, un obiettivo prioritario per tutti i partili an-tifascisti, anche per i socialisti e gli azionistiche dell’epurazione avevano fatto una bandie-ra, ma che non hanno certo dimenticato che ilfascismo era stato il frutto dei conflitti politicie sociali esplosi nel primo dopoguerra.

La fondazione del nuovo Stato democraticorichiede un patto sui fondamenti largamentecondiviso perché possa assicurare solide basialla Repubblica mettendola al riparo dai ten-tativi eversivi, dal risorgere di un nuovo fasci-smo che in tanti, primo tra questi Di Vagno,avevano cercato invano di contrastare a rischiodella loro stessa vita.

Un ritorno della reazione, una nuova ditta-tura avrebbero reso vano il sacrificio del de-putato socialista e, nel 1945, questo vale per-sino più di una giustizia postuma tradita.

Del resto, a fare giustizia si è già incaricatala storia, intesa come lo svolgersi degli avve-nimenti che hanno portato alla caduta del fa-scismo; ma intesa anche come ricerca puntualesulle fonti che gli storici hanno negli anni de-dicato alla figura e all’opera di Di Vagno.

Una ricerca storica a cui questo volume ag-giunge oggi un ulteriore prezioso tassello. s

Simona Colarizzi – Ordinario di StoriaContemporanea - La Sapienza

Il “cannone e i rinforzi” inviati dalla Questura di Bari per la prima commemorazione di Di Vagno nel novembre 1921

4 ■ CRITICAsociale7 / 2011

O norevole Formica, delle vicen-de trattate in questo volume leiè stato un testimone privilegia-

to, sia per aver potuto raccogliere dalla vocedei diretti protagonisti quel che accadde tra il‘21 e il ‘23, sia per avervi partecipato diretta-mente all’indomani del luglio ‘43.

Quale il contesto politico-sociale nel qualesi colloca il delitto di Giuseppe Di Vagno?

È con il biennio 1919-1921 che lotte sociali elotta politica si intrecciano. La violenza è ovun-que: nei posti di lavoro e nelle strade. Nel 1920nel Sud si hanno più morti del Nord: 3 morti aCanosa, 2 a Ruvo, 2 a Minervino, 4 a Para bita,9 a Gioia del Colle, 3 a Nardò, 2 a Brindisi, e11 a S. Giovanni Rotondo. In Puglia l’elevatocontributo di sangue è causato da conflitti so-ciali che la crisi economica del dopo guerra tra-sforma in primitive lotte per l’esistenza. Il “Cor-riere della Puglia” cerca di bloccare la derivadella guerra civile e sceglie la via della ricornpo -sizione moderata. In un editoriale si legge: “Ilsocialismo è come una malattia, il fascismo èuna reazione che deve vincere la malattia, mal’uno e l’altro hanno preso una forma volgare ebrutale. Bisogna correggerli, bisogna correggerele nostre cono scenze se non vogliamo la morte”.Ma ormai divampa l’incendio. I nazional-fasci-sti assaltano la Camera del lavoro, lo squadri-smo agra rio di Giuseppe Caradonna imperversa,il “Corriere della Puglia” scende in campo peril successo elet torale del blocco nazionale conil sostegno ai candidati fascisti. I socialisti resi-stono ed eleggono Giuseppe Di Vagno e Giu-seppe Di Vittorio. Momenti di tregua e conatidi rivolta si alternano, mentre si lavora per unaccordo nazionale di pacifi cazione tra fascisti esocialisti, il fascismo delle campagne, violentoe bestiale, travolge il fascismo urbano, moderatoe compromissorio. In questo clima di doppioscontro (fascisti contro socialisti e conflitto trale fazioni del fascismo pu gliese) matura il de-litto Di Vagno. L’indignazione è vasta e toccaanche le aree del moderatismo pugliese che te-me nuove ed imprevedibili scosse sociali. È lapaura per la rottura degli equilibri di ordine e didisciplina più che un desiderio di crescita de-mocratica ad ispirare nei ceti medi pugliesi latendenza alla moderazione e alla temperanza.

La Puglia fu terra di scontro sin dall’iniziodel ‘900 tra i mazzieri giolittiani ed i bracciantipoveri. La situazione si aggravò nel dopoguer-ra sino ad assumere il carattere di guerra civileche vide fronteg giarsi gli squadristi del fasci-smo agrario ed i militanti delle organizzazioniproletarie e contadine. Ma vi fu anche un altroscontro tutto interno al crescente potere del fa-scismo tra Partito agrario e Partito urbano.

Simona Colarizi, una storica attenta ed acu-ta, con i suoi studi sul fascismo pugliese haanalizzato que ste divisioni e contraddizioni edha misurato l’intensità e l’evoluzione di uncontrasto che vide prevalere il moderato fasci-smo barese. Questa forza di controllo e di mi-sura sopravvisse alla caduta ufficiale del fasci-smo e produsse quell’assenza di ogni discon-tinuità tra passato e presente.

Qualifurono le caratteristiche del fascismobarese?

Nel 1923 il Partito fascista è partito di Gover-no, ma non ha una sua propria maggioranza par-lamen tare. I baresi sono rapidi e lesti nell’agiree solleciti nel capire la direzione del vento.

Il segretario del Fascio barese, l’avvocatoLimongelli, rozzo esponente del fascismo

agrario delle Murge è sostituito dal moderatoDi Crollalanza. La “Gazzetta della Puglia” davoce liberaldemocratica si trasforma in organodel moderatismo mercantile barese che appog-gia Mussolini in versione governa tiva. Loscambio tra Bari ed il fascismo ruota intornoal quotidiano pugliese. A Bari: porto, acque-dotto, Fiera del Levante, Università, operepubbliche e grande area commerciale. Per ilgoverno fascista: ridu zione dello squadrismoagrario nelle aree marginali e povere dell’in-terno e normalizzazione moderata nelle areeurbane e cooptazione di parte della protesta so-ciale con il combattentismo prima e con il sin-dacalismo fascista dopo.

Bari cresce con il fascismo, la borghesia ba-rese è legata al commercio e all’industria edile.

Come cambia il clima con la caduta del re-gime?

Con la caduta del fascismo la Puglia, chenon aveva sentito gli effetti devastanti deibombardamenti, diventa area di governo delSud e terreno di sperimentazione di un gradua-le affievolirsi del dominio degli alleati su unPaese sconfitto.

L’informazione (Radio Bari e la Gazzetta)furono i luoghi ideali d’incontro tra anglo-americani e moderatismo antifascista.

Il Governo militare alleato è chiamato a farfronte alle esigenze delle popolazioni meridio-nali e tra il luglio del ‘43 e l’agosto del ‘45giungono aiuti alimentari al Sud per 490 mi-lioni di dollari, di cui i 3/4 a carico degli StatiUniti. Nel Nord l’occupazione tedesca provo-ca una crescente penuria alimentare, i rastrel-lamenti di manodopera e le acquisizioni di rac-colti e di bestiame. Tutto ciò crea tensioni so-ciali esplosive, determina la disgregazione del-le istituzioni della Repubblica Sociale e ali-menta la lotta parti grana.

È per queste ragioni che lotta antifascista equestione sociale assumono caratteri comple-tamente di versi nel Nord e nel Sud dell’Italia.

Nel Sud la spinta di fondo era tutta indiriz-

zata verso il superamento delle antiche fratturee in dire zione dell’ avvio di iniziative per la ri-costruzione materiale e morale del Paese.

All’indomani dell’8 settembre ci fu un mo-vimento delle forze antijasciste per la revisio-ne dei processi fascisti conclusisi con sentenzescandalosamente assolutorie; da quello Di Va-gno a quello Matteotti. Quale posizione assun-se il Psi appena ricostituito nella revisione delprocesso Di Vagno?

Fu il Psi a porre la questione della revisionedel processo Di Vagno nel Congresso fondati-vo della Fondazione di Terra di Bari, celebratoil 18 novembre 1943 in un deposito della DittaBarsanti in via An drea da Bari 114. Il segreta-rio provinciale Eugenio Laricchiuta proponeanche l’istituzione di un Centro di Studi Giu-seppe Di Vagno.

Questo è il testo del comunicato, interessan-te perché ci consegna un linguaggio ingenuoe appassio nato che fa rivivere bene il clima el’atmosfera di genuina passione di quelle gior-nate alle quali ebbi la fortuna di partecipare:

Le finalità dell’Istituto consistono nella dif-fusione e propaganda dei principi del sociali-smo mediante conferen ze e corsi organici a ca-rattere politico ed economico.

Alle dirette dipendenze dell’Istituto verrà svi-luppata un’attività libraria avente lo scopo direndere accessibili le pubblicazioni riguardantiil pensiero e la prassi socialista sia mediantel’istituzione di una biblioteca circolante, sia conl’acquisto e la rivendita dei volumi che si ren-dessero disponibili e che verranno in seguitostampati in Italia o di cui sarà possibile l’impor-tazione dall’estero, che infine mediante l’edizio-ne diretta di nuove pubblicazioni e traduzioni eristampa di quelle ormai esaurite o introvabili.

Verrà inoltre curata la compilazione di unacompleta bibliografia del socialismo mondiale.

Il Centro Studi Giuseppe Di Vagno, si inse-diò in via Dante 84 e nello stesso novembre‘43, sotto la direzione di Antonio Lucarelli,pubblicò lo scritto inedito di Carlo Rosselli Fi-

lippo Turati e il movimento socialista italiano,che la rinata Fondazione Di Vagno opportuna-mente ha fatto ristampare nel 2004.

Ad animare il dibattito nel primo Congressolibero vi è un folto gruppo di compagni diversiper posizione sociale, interessi culturali e peresperienze vissute durante il fascismo. Alcunisono usciti dal carcere e dal confino, altri sonoprofughi politici che hanno attraversato le li-nee tedesche; molti sono gli anziani che hannoripreso a tessere il filo politico, pochi sono igiovani che sentono l’aria eccitante di una sco-nosciuta stagione di libertà.

Tuttavia si trattò di una libertà, per così di-re, “condizionata”?

La Puglia fu terra di transito e di sperimen-tazione. Passarono i tedeschi per raggiungereil Nord. Arrivarono il Re e Badoglio per col-locare a Brindisi una capitale provvisoria di ungoverno in fuga. Per gli anglo-americani fuuna passeggiata militare. La lª divisione aero-trasportata della VIII armata di Montgomeryil 9 settembre sbarca a Taranto, 1’11 settembreoccupa Brindisi, il 22-23 settembre raggiungeBari, mentre la 10ª armata tedesca del Gene-rale Von Vietinghoff abbandona la Puglia.

Gli Alleati aiutano il governo Badoglio per-ché nasca un embrione di Italia libera. Bari di-venta la voce della liberazione della patria dalfascismo e dalla occupazione nazista.

I partiti del Cln trovano in Puglia il punto diraccolta delle energie utili e necessarie per fron-teggiare i vincitori e per chiudere con il passato.Ed è in Puglia che esplodono tutte le questioniche segneranno il dibattito politico degli anniseguenti. Passaggio dal campo dei vinti in quel-lo dei vincitori; chiusura con il fascismo; que-stione istituzionale (monarchia o repubblica);rinascita democratica (ruolo dei partiti e deicorpi intermedi della società); e non ultimal’eterna questione del dualismo italiano.

Ci furono questioni politiche che influenzanol’esito della revisione del processo Di Vagno?

La revisione del processo Di Vagno è dentroun insieme di questioni che ne condizionanoil corso e l’esito.

Come in tutte le vicende giudiziarie vi è loscontro tra le parti, l’uso non sempre correttodelle pro cedure e l’accorta valutazione, da par-te dei difensori, del contesto generale e del pe-so esercitato dalla sensibilità dell’ opinionepubblica. Tutte le forze politiche si trovaronodi fronte ad un problema di lacerante soluzio-ne ma ineludibile: “Come ricostruire il Paesee come chiudere con il fascismo e le sue tra-gedie, dovendo scegliere tra trau matica di-scontinuità e colpevole continuità”.

Questo angoscioso tema è presente sin dalgiorno dell’armistizio nella terra più tranquilladella Na zione, perché sottratta alla ferocia deicombattimenti diretti. Ma la Puglia è ancheterra di sperimentazione.

I partiti entrano in contatto con la realtà del-la sconfitta e con una inesplorata ricerca nelcampo della via democratica alla trasforma-zione politica e sociale degli equilibri nazio-nali. È nei partiti di sinistra (socialisti, comu-nisti ed azionisti) che l’opzione rottura/conti-nuità anima la discussione e divide i militanti.

La rottura istituzionale e la discontinuità conil passato è all’ordine del giorno di ogni dibat-tito. Gli intransigenti sono dominanti sino alla“svolta Togliatti” di Salerno. Ma sulla scia del-la linea filo badogliana del Pci si muove tuttoil moderatismo meridionale: le tendenze re-

■ SENZA RISPOSTA PER IN UN DOPOGUERRA NEL DILEMMA POST-FASCISTA TRA “VOLTARE PAGINA” E “COLPEVOLE CONTINUITÀ”

IL DELITTO, IL PROCESSO E IL CLIMA POLITICO

Intervista con Rino Formica a cura di V.A. Leuzi e G. Mastroleo

pubblicane perdono vigore, la discontinuitàcon il passato segna il passo.

Quale ruolo assunse il Partito d’azione inquesto quadro politico?

Il gruppo barese del Pda clandestino fu il piùsollecito dopo l’armistizio a riprendere l’ini-ziativa politica. In esso confluirono liberalso-cialisti (Tommaso e Vittorio Fiore), liberalde-mocratici (Michele Ci farelli), salveminiani in-transigenti (Vincenzo Calace), massoni (PaoloTria, Prospero Milella), anarchici (Pechirone),sindacalisti (Di Marino, Avolos), filocomunisti(Vito Scarangella).

Dalla storia del Pda leggo questa citazioneche rende chiaro il contrasto che attraversò laforza politi ca più attiva nell’ antifascismo ba-rese e che azzerò una qualificata élite meridio-nale nelle elezioni del 1946 alla Costituente (lalista del Pda racimolò solo 0,5% dei voti):

Sotto l’incalzare delle scadenze politiche icontrasti non tardarono a manifestarsi; la citataoffensiva democrati ca di Badoglio, ad esem-pio, trovò una certa disponibilità nello stessoTommaso Fiore, apparso, in una drammaticariunione di metà ottobre dove fu messo in mi-noranza da Calace, possibilista circa una par-tecipazione azionista al rimpasto governativo,forte della promessa badogliana di ben tre mi-nisteri, compresi quelli dell’Agricoltura e dellaPubblica Istruzione.

Queste offerte non erano episodiche, ma te-stimoniavano la ripresa badogliana di alcunitemi di quella “strategia dell’attenzione” giàavviata, nella primavera del 1943, verso ilPdA: l’arresto di Vincenzo Calace, DomenicoPa stina e del tipografo Franco Petrarota, cheproprio negli stessi giorni del colloquio di Fio-re, il 21 ottobre, avevano pubblicato il primonumero dell’edizione meridionale de “L’Italialibera”, per “offese al capo del governo ed isti -gazione alla rivolta contro lo Stato” fu, adesempio, voluto e gestito direttamente dal mi-nistro della Real Casa, Ac quarone; Badoglio,dal canto suo, si affrettò, invece a scarcerare itre antifascisti e a varare il citato provvedi-mento del30 ottobre per il ripristino della li-bertà di stampa (e gli azionisti ne approfitta-rono immediatamente iniziando, a partire dal4 novembre 1943, la pubblicazione di un re-golare settimanale dalla testata “L’Italia delpopolo”, densa di reminiscenze mazziniane).

Era un disegno chiaramente strumentale,alimentato tuttavia da altre significative coin-cidenze tra alcune delle iniziative legislativedel governo (lo scioglimento della Milizia, gliaumenti salariali agli impiegati statali, la abo-lizio ne dell’articolo 19 del Testo Unico di Pssulla competenza dei Tribunali militari) edanaloghe posizioni della stampa azionista chele avevano precedute di pochissimi giorni.Non c’era da parte badogliana una opzionespecifica per il PdA, ma semplicemente l’esi-genza di reperire interlocutori “credibili” trale forze antifasciste; e del resto gli azio nisti ba-resi, inizialmente, erano stati attenti a non for-zare i toni della loro opposizione (...) dopo 1’8settembre noi abbiamo ripetutamente offertoal governo del re la nostra collaborazione”,scriveva “L’Italia del popolo” dell’l1 novem-bre, “abbiamo con tutta lealtà messo a tacerela pregiudiziale antimonarchica e rinviato ilproblema al dopo guerra”), adottando, anchedopo l’inizio della campagna per l’abdicazio-ne del re, una linea di cauta moderazione neiconfronti di Badoglio, limitandosi, ad esem-pio, a denunciare il tecnicismo e l’ambiguitàdel “governo dei sot tosegretari” ma accettan-done di fatto il programma e sospendendoogni giudizio politico definitivo (“prevarrannoi fascisti o gli antifascisti?” era l’interrogativoa cui legavano le loro riserve).

Le componenti del PdA barese che maggior-

mente avevano insistito per queste scelte mo-derate si erano giovate della riconosciuta ne-cessità di non urtarsi in nessun modo con gliangloamericani; l’equazione Alleatiedemocra-zia, elemento cardine del patrimonio politicoazionista, alimentava un equivoco nella con-siderazione della natura e dei compiti del go-verno Badoglio: da un lato la fiducia alleatanei suoi confronti veniva interpretata comeuna sorta di garanzia di democraticità che rac-comandava prudenza e moderazione nella bat-taglia di opposizione, dall’altra si era propensia ritenere quella stessa fiducia strumentale eprovvisoria, così da essere indotti ad una com-plessiva sottovalutazione dell’iniziativa bado-gliana. L’intreccio tra queste posizioni conti-nuò anche nella successiva radi calizzazionedella lotta antigovernativa; entrambe comun-que rinviavano ad una accentuata inclinazionepolitica ed ideologica verso il fascino delle“grandi democrazie”, il cui risvolto operativopiù immediato fu l’impegno di alcuni espo-nenti azionisti in quei settori, soprattutto spio-naggio e propaganda, nei quali per gli angloa-mericani era indispensabile ricorrere a perso-nale italiano (a Bari lavoravano alle dipenden-ze del Pwb-Psychological War fare Branch -Giuseppe Bartolo, Michele D’Erasmo, Miche-le Cifarelli). Ulteriori elementi si aggiungeva-no così ai motivi di dissenso con l’ala più in-transigente: nel marzo del 1944, mentre Cala-ce era a Napoli impegnato nella Giunta esecu-tiva varata al Congresso dei Cln a Bari del 28-29 gennaio, la pubblicazione su “L’Italia delpopolo” di un duro articolo di Fabrizio Canfo-ra contro gli Alleati, ed in particolare Chur-chill, provocò un’ aspra polemica interna cul-minata con le dimissioni dell’intero comitatodi redazione (Canfora stesso e i fratelli Pasti-na) e la sua sostituzione con il professorD’Erasmo.

Questo episodio poteva considerarsi tipicodell’intera vicenda del PdA meridionale: con-fluivano in esso, infatti, nodi politici decisivicome quello dei rapporti con gli Alleati ma an-che aspetti personalistici, legati a problemi in -terni all’ organizzazione di partito, ai suoi le-gami con la realtà sociale della città; proprioin quegli stessi giorni si era sollevato con mol-to clamore, da parte di Canfora, il caso dell’in-dustriale La Rocca, un ex gerarca fascista, cheper sottrarsi al procedimento di epurazione siera avvicinato al PdA facendosi anzi difenderedall’avvocato azionista Vittorio Malcangi(espulso poi dal partito per volontà di Vincen-zo Calace). Si era nella fase delicata della“scoper ta” dei partiti da parte dei protagonistidelle vecchie clientele meridionali, ansiosi diripetere operazioni trasformi ste collaudate consuccesso in passato, e naturalmente erano po-chissimi quelli che potevano vantare effettivimeriti antifascisti come Girolamo Lopriore, unfacoltoso industriale barese che, con l’avvoca-to Papalia, era il principale finanziatore delPdA e membro del direttivo di sezione.

Quale fu il ruolo del Pci barese e come sisvolse l’epurazione nel Mezzogiorno?

Nel Pci la svolta di Salerno ridusse l’in-fluenza del comunismo nato nelle campagnecon le lotte brac ciantili e favorì l’apertura delpartito verso la borghesia mercantile e delleprofessioni.

La Federazione giovanile comunista, direttadallo studente in medicina Aldo Talarico, fufrequentata da Bepy Gorjoux e da Antonio DeTullio, nipote del senatore fascista e la Fede-razione del Pci diretta da De Donato, compa-gno di lotta a Cerignola di Di Vittorio, riuscì areclutare gli avvocati, Mario Assen nato,Osvaldo Marzano, Mauro Gargano, i profes-sori Pietro Del Buono e Giovanni Traina, ilgiovane magistrato Ignazio De Felice, i giova-

ni intellettuali Franco Cagnetta, Pippo Dio-guardi, Nino Cattedra e tanti altri.

Mentre l’epurazione in tutto il Sud procedemale e non produce rinnovamento. Nella riu-nione dei delegati provinciali per l’epurazionedell’Italia meridionale tenutasi a Roma pressol’Alto Commissaria to, il 25 e 26 gennaio del1945, il delegato di Bari così si esprime:

Le ragioni che rendono difficile l’epurazio-ne nella provincia sono diverse e complesse.

Non si è avuto concorso da parte della forzapubblica, prefettura, carabinieri, P.S. ecc. -Difficoltà di avere informazioni - Scarsità delnucleo di polizia in relazione al lavoro delladelegazione. Informazioni dubbie sugli ele-menti segnalati da parte dell’ Arma dei RR.CC. Con la costituzione delle sotto-commis-sioni il lavoro delle Dele gazioni è divenutodoppio per il controllo e la sorveglianza daesercitare anche su di queste.

Fa presente la necessità di sostituire alcunielementi preposti alla Commissione provincia-le fra cui l’Avv. Giu seppe De Philippis che siè rivelato inadatto alla carica. Chiede chel’epurazione andrebbe attuata principalmentenella Polizia e negli ambienti giudiziarii.

Circa l’epurazione della Provincia di Bariosserva come occorrerebbe che il Prefetto del-la città venisse sostituito e così pure per ilQuestore. Il l° febbraio del 1946 il Consigliodei Ministri prende atto del fallimento dellaepurazione. Nenni nei suoi diari così descrivequella giornata:

Consiglio dei Ministri dalle diciotto alleventidue e trenta. C’era molta elettricità peraria. li primo prov vedimento era di mia inizia-tiva e concerneva lo scioglimento dell’AltoCommissariato per le sanzioni contro il fasci-smo. Con ciò mi sono tolto di mano un carbo-ne ardente. Un altro l’avrebbe fatto prima dime. Mi sono ostinato fino al voto delle dueleggi che considero giuste: quella per la puni-zione dei delitti fascisti che ha istituito le cortidi assise speciali e la mia legge sull’ epurazio-ne. Abbandono l’Alto Commissariato senzarim pianti e senza rimorsi. Non ho fatto quelche mi proponevo, ma non ho fatto neppurevendette o ingiustizie consapevoli e volonta-rie. Mi è stato di grande aiuto il compagnoCannarsa. C’è stato in materia di epurazioneun errore iniziale che era stato difficile correg-gere: quello di avere voluto non fare ma stra-fare. E chi troppo stringe, poco afferra...

Ma è con l’amnistia del 22 giugno del 1946che ha inizio la vera e propria inversione delcorso della rivoluzione italiana. È nata la Re-pubblica, si è insediata la Costituente, ma ilTrattato di pace non è ancora concluso ed ilquadro internazionale sta mutando. Nel campointernazionale già si intravede la divisione delmondo in due distinti e contrapposti campid’influenza.

Togliatti curò personalmente il disegno dilegge dell’amnistia. Nella relazione che inviòal Presidente De Gasperi così si espresse in unsignificativo incipit poli tico:

Signor Presidente, la Repubblica celebra ilsuo avvento emanando fra i suoi primi atti unprovvedimento generale di clemenza.

Non è necessario spender parole per moti-vare questo atto per quanto riguarda i reati co-muni, rientrando esso nella prativa costituzio-nale e politica italiana per le date storicamentesolenni; né potrebbe immaginarsi data più so -lenne di quella in cui, dopo che il popolo ita-liano, chiamato a esprimere la sua volontà cir-ca la formula istituzionale

Quali effetti ebbe questa svolta neo conser-vatrice nei partiti?

La politica dei partiti antifascisti a Bari enella Puglia subì la scossa restauratrice.

Il Pci si arroccò nelle grandi aree rurali e si

mosse lungo la linea tracciata da Togliatti allaCostituente: lotte sociali all’interno delle garan-zie costituzionali da costruire e da difendere.

I socialisti subirono la lacerazione della scis-sione in controtendenza con la svolta a destrameridionale. Gli scissionisti di Palazzo Barbe-rini a Bari appartenevano alle correnti di Ini-ziativa Socialista (i giova ni della F.G.S.) e diPertini-Silone (Eugenio Laricchiuta) e nonsfondarono nell’ area moderata della città.

È vero che la sede per il Psli fu offerta dalgiornale “La rassegna” dell’avv. AntonioAmendola, ma questi lasciò subito il partito e,nelle elezioni del ‘48, sostenne lo zio, dottoRenato Angiolillo, direttore del “Tempò” chesi presentò nel collegio senatoriale di Bari co-me indipendente nella Dc sotto il simbolodell’Orologio.

Rimase nel partito, invece, l’avv. DomenicoPaparella proveniente dal Pda, personalità po-litica di tutto rispetto, antifascista e socialistariformista. Nella parte rimasta nel Psi vi eratutta l’area massimalista morandiana (ErnestoDe Martino, Mario Potenza), l’ala bassiana(Pasquale Franco) e i massimalisti nenniani(Francesco Capacchione e Antonio Di Napo-li). Il Psi, per frenare la nascente socialdemo-crazia, aprì la porta a coloro che la Federazio-ne a maggioranza sinistra autonomista nonaveva voluto iscrivere (i dirigenti dell’Asso-ciazione combattenti, Stefano Lenoci e ItalaFrassineti, ex prete di Carbonara).

Nel Psi confluirono anche figure illustri delPartito d’azione (Tommaso Fiore, GiuseppePapalia, Vito Scarongella, Vincenzo Calace),che costituirono un punto di riferimento peruna nuova generazione di militanza politica.

Nella Democrazia cristiana ebbe inizio unalenta operazione di emarginazione della vecchiaguardia popolare (Loiacono, De Grecis, Lone-ro) ed un accelerato affermarsi di una nuova ge-nerazione che già si andava profilando in cam-po nazionale (dossettiani e fanfaniani).

Da queste due grandi sorgenti sgorgarono,nei decenni successivi, i morotei (Moro, Da-miani, Triso rio) ed i dorotei (Lattanzio).

Fra queste figure quella di Papalia fu cer-tamente la più significativa: quale la sua po-sizione politica?

Papalia è l’antifascista intransigente che,tuttavia, dialoga con il moderatismo urbano edi ceti pro fessionali, che gravitano intorno aipalazzi di giustizia e all’università, che preval-se sul ribellismo delle campagne.

Papalia, uomo di mediazioni, dopo la cadutadel fascismo fu nominato Presidente del Con-siglio di amministrazione de “La Gazzetta delMezzogiorno” su indicazione degli uominidell’ antifascismo e il governo Badoglio accet-tò la designazione.

Anche se frequenti furono gli scontri con ibadogliani - come si evidenzia rileggendo lepagine del giornale tra il ‘43 e il ‘45 - non vadimenticato, tuttavia, che nessuna forza poli-tica antifascista ebbe l’intuizione di condurreuna battaglia per assicurare ai ceti popolaril’egemonia sul secondo quotidiano del Sud.

Ma Papalia fu il garante della tutela del-l’equilibrio dell’informazione.

Il processo Di Vagno, dunque, andò comedoveva andare: per tutti era difficile aprire finoin fondo le vecchie ferite che il moderatismobarese aveva sanato, sia quelle nate dal con-flitto interno dal fascismo sia quelle prodottedalla fine della guerra.

Il moderatismo può tollerare la rissosità ver-bale, ma non può accettare rotture di ciclo, chesi annun ciano incerte e precarie.

Lo spirito mercantile barese, del resto, ruotaintorno ad un saggio adagio che ho sentito ri-petere tante volte: “non comperare se primanon hai già venduto”. s

7 / 2011CRITICAsociale ■ 5

Gianvito Mastroleo

A novant’anni di distanza c’èuna storia recuperata da co-loro che s’incaricano di cu-

stodire, all’interno della Memoria democraticapugliese, quella di Giuseppe Di Vagno il De-putato socialista vittima della violenza politi-ca, che potrebbe interessare ancora oggi, quan-do largamente prevale la tendenza a dimenti-care, se non a irridere ai ricordi del passato,con i messaggi che potrebbero essere utilizzatiper cercare di far girare un po’ meglio le cose.

Una storia che ciascuno potrebbe assumereper quello che potrebbe raccontargli, ma che èsicura testimonianza per tutti della condivisio-ne nazionale e della ricerca di coesione sui va-lori che quel delitto reca con sé.

Nell’estate appena passata una professores-sa che vive tra Firenze e il suo Casentino, allaquale gli 87 anni non hanno spento né la pas-sione civile e democratica, né l’indomita suasicurezza antifascista assorbita da genitorianarchici e da un nonno Pastore valdese, mo-strando interesse verso la Fondazione che por-ta il nome di Giuseppe Di Vagno, la cui vicen-da umana e politica le era ben nota, ricorda an-che d’aver conosciuto nel Casentino nei diffi-cili anni ’40 un suo coetaneo: un giovane par-tigiano come lei al quale nell’inverno 1921 ilpadre, il “compagno Conti” vecchio socialista,per l’emozione che il delitto Di Vagno provocòanche lontano dalla Puglia e per testimoniarequella che al tempo era una «fede», impose ilnome di battesimo «Divagno».

Sicchè questo fanciullo è registrato all’ana-grafe «Conti Divagno»; il prete che lo battezzòpretese che fosse aggiunto il nome di un santoe non fu difficile scegliere Giuseppe, ma dopola virgola.

Nel 1924, dopo il delitto Matteotti, al fan-ciullo «Conti Divagno, Giuseppe» con con-sueto atto di violenza, il fascismo impone disostituire «Divagno», che inesorabilmente ri-porta alle sue responsabilità, con «Mario».

Diversamente si comportò la nascente de-mocrazia repubblicana che consentì libera cir-colazione ai Benito o Vittorio Emanuele sparsiin Italia, o ai non pochi Araldo, giovinetti fra idieci e quindici anni, disseminati nella Regio-ne ma soprattutto a Bari.

Caduto il fascismo, «Conti Mario» che nelfrattempo aveva perso suo padre, senza esita-zione pretende e torna a chiamarsi «CONTIDIVAGNO» e abbandona per sempre il postic-cio Giuseppe e quel Mario, appiccicatogli perl’improbabile speranza di nascondere la ver-gogna assieme alla colpa dell’omicidio.

Fu chiesto a quella non comune professo-ressa, nonostante il tempo, di mettersi sulletracce nel suo Casentino del nostro CONTIDIVAGNO .

Si scopre così che egli vive a Marsala, portacon vivacità i suoi 89 anni; chi gli ha parlatodi persona, e con comprensibile emozione, siè fatto promettere una visita a Conversano, do-ve sarebbe accolto come uno di famiglia e por-tato sulla tomba del suo Di Vagno.

Di più, Conti Divagno in un messaggio scrit-to a penna, con grafia gagliarda e inviato viafax, aggiunge «…ti ringrazio per l’invito ... perme è anche un augurio, a quella data avrò 90anni ... nacqui due mesi dopo l’assassinio ...sarà un vero piacere avere questa fortuna ... unparticolare tengo a farti conoscere ... nel 1921tre cognate erano in dolce attesa e i tre maritierano mio padre e i suoi due fratelli, questi de-

cise che il primo che nasceva sarebbe statochiamato Divagno. Per paura di arrivare tardinacqui io di sette mesi e così questo onore toc-cò al sottoscritto, 15-11-1921.»

La storia è suggestiva, ma a generazionispesso irridenti, spesso ignare, segnala che sa-rebbe tuttora possibile ricorrere a uno degli ul-timi simboli di una generazione che ha credutonegli ideali che professava: dandone prova tal-volta indossando un nome-simbolo senza mairinunciarvi, tal’altra anche a prezzo del benesupremo della vita. (Vito Mastroleo)

* * *

Con la pubblicazione del Volume “IL PRO-CESSO DI VAGNO – UN DELITTO IMPUNITO TRAFASCISMO E DEMOCRAZIA” compie un decisivopasso avanti la ricerca storico - documentaleintorno alla figura del giovane Deputato socia-lista ucciso a Mola il 25 settembre 1921, nel-

l’insorgente clima dell’uso della violenza co-me strumento per la lotta politica e la conqui-sta del potere.

Il progetto della Fondazione “Giuseppe DiVagno (1889-1921)” d’indagare le forme dellaviolenza che hanno percorso l’insieme dellastoria politica nazionale del Novecento trovaun punto di riferimento essenziale nella com-plessa vicenda dell’esponente socialista diConversano, inspiegabilmente e per lungotempo rimasta ai margini della ricerca storio-grafica, come è stato messo in evidenza anchecon la Mostra documentaria “Giuseppe DiVagno e Giacomo Matteotti – fra storia ememoria” realizzata nel 2005.

Eppure l’eliminazione del deputato sociali-sta pugliese, al pari di quella di Matteotti, ave-va segnato diverse generazioni dei militanti disinistra, anche fuori d’Italia in tutto il primoed il secondo dopoguerra. Negli anni Cinquan-ta e Sessanta l’assenza di centri di documen-

tazione, particolarmente evidente nel Sud, hainciso sul recupero della memoria delle originidel movimento operaio e socialista; la stagionedi studi, caratterizzata dall’opera infaticabiledi Antonio Lucarelli e Tommaso Fiore, sem-brava essersi volatilizzata.

IL RUOLO DELLA FONDAZIONEPER LA RIPRESA DEGLI STUDI.

Gli anni Novanta, con la ripresa di attivitàdella Fondazione Di Vagno, rinata sulle ormedell’ «Istituto di cultura socialista “GiuseppeDi Vagno”» fondato nel novembre 1943 dallostesso Lucarelli, anche con il sostegno del-l’Istituto pugliese per la storia dell’antifasci-smo, segnano l’inversione di tendenza ancheattraverso la complessa operazione di acquisi-zione e valorizzazione di fonti scritte, orali efotografiche, sfociate poi nella costituzione di«Memoria democratica pugliese» il sito ar-chivistico che in progress raccoglie e mette inrete il patrimonio archivistico della Fondazio-ne Di Vagno assieme a quello dell’IPSAIC edella Fondazione Gramsci di Puglia.

In questo contesto è stata ricostruita la figuradi Di Vagno con le due precedenti pubblica-zioni, sempre con la Camera dei Deputati:

“GIUSEPPE DI VAGNO – TESTIMONIANZE EDOCUMENTI (1921 – 2001)” (Camera dei De-putati 2004) a cura di Guido Lorusso e VitoAntonio Leuzzi, con prefazione di Pier Ferdi-nando Casini;

“GIUSEPPE DI VAGNO (1889-1921) - SCRIT-TI E INTERVENTI” (Camera dei Deputati 2007)a cura di Guido Lorusso, con prefazione diFausto Bertinotti.

L’insieme della ricerca, fermamente volutadalla Fondazione, si deve alla sensibilità cul-turale dei Presidenti della Camera dei Depu-tati, Pier Ferdinando Casini, Fausto Bertinottie Gianfranco Fini i quali, nella continuità delsentimento dell’umana solidarietà che si è im-posta sui confini stretti dell’appartenenza, han-no voluto onorare un membro del ParlamentoItaliano, per quanto assai fugace fosse stato ilsuo passaggio per quell’Aula e assicurare unatessera ulteriore al grande mosaico della veritàe del rigore della Storia di un periodo trava-gliato del novecento italiano.

Sempre con l’incessante, discreto ma riso-lutivo sostegno di Francesco Colucci, questoredella Camera, un socialista pugliese che an-corchè lontano dalla sua Puglia non ha mai di-menticato la vicenda storica locale e nazionalelegata alla figura di Di Vagno.

IL SIGNIFICATO STORICO E POLITICO DELL’INIZIATIVA

Gli anniversari, le celebrazioni servono a ri-cordare, a ridare cuore, a restituire vita ai sim-boli di coloro che sono stati capaci di nonscendere a patti, di perseguire a qualunqueprezzo le idee delle quali erano convinti, recu-perando la forza di restare nella memoria con-divisa e di crescervi affrancati dalla violenzadi chi volle la morte e d’insinuarsi nei cuori dicoloro che li hanno conosciuti più studiandolibri di storia che guardando telegiornali.

Il contributo che a molti decenni di distanzala Camera dei Deputati ha assicurato alla co-noscenza di Giuseppe Di Vagno, perciò, assu-me un valore che trascende finanche la figurastessa: perché trasmette alle generazioni di og-

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■ LA PUBBLICAZIONE DEL VOLUME “IL PROCESSO DI VAGNO, UN DELITTO IMPUNITO TRA FASCISMO E DEMOCRAZIA” A CURA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

UN POPOLO SENZA MEMORIA NON ESISTE

■ CRONOLOGIA

LE DATE DELLA BIOGRAFIA

1889: Giuseppe Di Vagno nasce a Conversano il 12 aprile da una famiglia di piccoli pro-prietari. La cittadina del Sud-est barese contava circa 12.000 abitanti; un’economiaagricola dominata dalla grande proprietà terriera, cui si contrapponevano la miseria di granparte della popolazione contadina.

1895: La famiglia decideva di iscriverlo al locale Seminario Leone XIII, noto per il rigoredegli studi in tutta la regione.

1905: Durante gli studi nel Liceo di Conversano (frequentato qualche anno prima da Tom-maso Fiore) è attratto dai libri di storia. La biblioteca scolastica, grazie all’attività di Dome-nico Morea, si era arricchita di opere e documenti sulla storia locale. Il giovane Di Vagnolesse delle vicende dei Signori feudali come il Guercio di Puglia o la Badessa dell’antichis-simo monastero di S. Benedetto. Fu particolarmente colpito dalla ferocia e dalla prepotenzadelle vecchie classi dominanti.

1908: Si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza all’Università di Roma ed entra in contattocon Enrico Ferri.

1910: Prossimo alla Laurea aderisce ad un Comitato di agitazione, composto da Piero Del-fino Pesce, Raffaele Cotugno, Guglielmo Schiralli, Giovanni Colella, Domenico Fioritto, perrendere noto al suo paese lo stato di miseria e di abbandono della Puglia.

1914: Partecipa alle prime elezioni a suffragio allargato nelle consultazioni Comunali. Inalcuni comizi attacca con vigore il malgoverno dei “galantuomini” nell’amministrazione lo-cale. I risultati elettorali segnano la sua strepitosa vittoria.

Candidato alle consultazioni elettorali della Provincia di Bari nel giugno 1914 ottiene 1777preferenze. Come consigliere provinciale si batte con Salvemini e Colella per il completa-mento dell’Acquedotto.

1915: Collabora con vari giornali, quali «La Ragione», «Oriente» ecc, ove affronta i puntipiù importanti del dibattito politico nazionale. Assume una ferma posizione contro il milita-rismo, il nazionalismo e l’avventurismo nella politica estera.

1917: Nel Consiglio provinciale, dopo Caporetto, viene attaccato con l’accusa di disfatti-smo; in realtà come Segretario dell’Ente Autonomo di Consumo si prodiga non poco per al-leviare la sorte dei profughi e degli sfollati della Venezia Giulia riparati in Puglia.

1919: Percorre diuturnamente i Comuni pugliesi per diffondere in improvvisati ed appas-sionati comizi la propaganda socialista.

1920: Nel giugno del 1920 fu uno dei primi esponenti socialisti ad accorrere a Gioia delColle dove gli agrari si resero responsabili di un agguato che costò la vita a sei contadini,mentre altri 37 furono feriti. Nei funerali pronunciò un’orazione per le vittime davanti a10.000 persone. Nelle elezioni amministrative dell’ottobre viene eletto nel mandamento delsud est con oltre duemila voti, ma a Conversano un clima di tensione gli fa ottenere solo unamanciata di preferenze.

1921: Con gli avvocati socialisti Enrico Ferri e Giuseppe Papalia organizza la difesa deicontadini di Gioia del Colle sfidando apertamente i latifondisti locali. È candidato socialistanelle elezioni politiche del 15 maggio 1921 contro la lista del Blocco Nazionale (una forma-zione sedicente “moderata”, che presenta anche i fascisti) nella circoscrizione di Bari. Otte-nendo ben 74.602 voti e risultando il secondo degli eletti socialisti, subito dopo Vella, maprima di Di Vittorio, ottiene un seggio in Parlamento. Il 25 settembre 1921 cadde abbattutoda piombo fascista a Mola di Bari.

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gi e a quelle future l’esistenza di una culturadiversa, alternativa, capace di regolare la so-cietà senza violenza e sopraffazione, con il ri-spetto dei diritti in particolare dei più deboli edei repressi.

Oggi per le migliaia di poveri che sfidano ilmare in tempesta o le guardie dei confini.

Allora dei braccianti e degli analfabeti, delledonne e dei giovani con il loro diritto all’istru-zione come fu per Di Vagno, ma anche perAmendola, per Matteotti, per Don Minzoni,per Nello e Carlo Rosselli, per Buozzi, e perle tante vittime della violenza politica. Più direcente, di quella cieca e barbara del terrori-smo e della mafia: da Aldo Moro a Walter To-bagi a Giorgio Ambrosoli, da Giovanni Falco-ne a Paolo Borsellino, fra i tanti.

Esempi che resistono assai più dei loro sim-boli - statue, monumenti, targhe – e che appar-tengono a tutti, e ai quali tutti abbiamo il do-vere di ricorrere: come rifiuto della rassegna-zione e per cercare, ciascuno per la propriaparte, di essere interpreti di una cultura diver-sa, artefici di una società migliore, quando idanni irreparabili dell’indifferenza rischiano ilsopravvento.

GLI ATTI DEL PROCESSO: UN ATTODI ROTTURA DELLA COESIONE

SOCIALE DOPO 90 ANNI?

La rievocazione dei comportamenti indivi-duali e collettivi, degli autori della violenza edei manovratori occulti dei tragici fatti del ’21giudicati nel processo del ‘22, conclusosi conla generale impunità perché commessi «nel-l’interesse nazionale», dei protagonisti di pa-gine di coraggio e di civismo che portarono al-la «revisione» nel ’44 (i socialisti di Bari già afine ’43, aiutati poi da Sandro Pertini nel ‘44)è vero, rischia di portare con sé elementi di rot-tura e di divisione della coesione sociale cheil velo del tempo ha assicurato alla comunitàpugliese

Che non è nelle intenzioni di nessuno farriemergere: non dall’oblio, perché non sonostati mai dimenticati, ma dall’assuefazione aconviverci. La Fondazione, più che riprodurredivisioni, si ripropone di consentire alla veritàdocumentalmente accertata e criticamente va-lutata di riassorbire quei contrasti, adottarli co-me fattori di riconciliazione e di rinnovata coe-sione nazionale, assegnando ai risultati dellaricerca il carattere di positività che consente dicaptare dall’evento storico, per quanto negati-

vo e tragico, intimo senso e razionalità. Giac-ché nulla sta al di sopra della storia, che con isuoi valori ideali è sempre «giustificatrice» emai «giustiziera».

La ricerca ha raggiunto importanti risultatidal punto di vista storiografico, come mettebene in evidenza nella Prefazione Simona Co-larizi, ma non ha esaurito le sue finalità e pro-seguirà negli anni.

Diversi aspetti soprattutto giuridici e proces-suali restano da approfondire, a partire dalcontributo del Collegio della difesa degli im-putati composto dagli Avvocati più importantidell’Italia meridionale, identificati quasi tuttiper il ruolo di ciascuno nella politica e nellasocietà, che in prevalenza fu di conservazionee non di progresso.

Ma attesa la particolarità della vicenda DiVagno, a differenza di quella Matteotti, anchequelli politici relativi alle conseguenze del-l’amnistia del 1946 e al clima di restaurazioneproprio della svolta del 1947-48, e ai suoi ef-fetti sul processo di defascistizzazione, sull’as-setto dell’apparto dello Stato e sul funziona-mento della Giustizia nel Sud.

In questo faticoso lavoro la Fondazione èstata e sarà aiutata innanzitutto da Vito Anto-nio Leuzzi, direttore dell’IPSAIC alla cui in-transigenza politico-culturale e alla cui pazien-za, sempre sostenuta da Giulio Esposito, dopoanni di attente ma vane indagini, si deve il ri-trovamento delle «carte del processo»: un in-sieme di molte migliaia di pagine, la gran parterecuperato presso l’Archivio di Stato di Poten-za, che è stato possibile esplorare a fondo gra-zie alla non comune sensibilità culturale delladott.sa Valeria Verrastro, che ha accolto le no-stre richieste, sostenute per gli aspetti formalida Giuseppe Di Vagno jr.

Alla ricerca, e quindi alla realizzazione delVolume, in forme diverse hanno partecipatoRino Formica «testimone del tempo» e soprat-tutto studiosi che da anni si dedicano agli studisu socialismo e antifascismo, con riconosciutaautorevolezza; Leuzzi, Ennio Corvaglia, Giu-lio Esposito e Marco Gervasoni; e poi il giuri-sta Marco Miletti (che mi fu personalmente se-gnalato da Giuliano Vassalli), Vito Mormandoe Vito Fanizzi; i ricercatori della famiglia dellaFondazione, contagiati dalla stessa passionecivile, Antonio Colapinto, Sabino De Nigris,Anna Totaro, Filippo Giannuzzi, Cesare Tota-ro, Antonio Lacandela, Leonardo Musci, Roc-co Murro.

La ricerca si è avvalsa del contributo di ele-vato valore scientifico dello studioso di medi-

cina legale, il prof. Franco Introna, ordinariopresso la facoltà medica dell’Università di Ba-ri, offerto con rara generosità, che consente diinterpretare assai meglio la dinamica del de-litto e di stabilire senza ombre di dubbio la vo-lontarietà dell’omicidio.

Un posto particolare occupa Simona Cola-rizi perchè la vicenda Di Vagno fu al centrodei suoi tuttora attuali studi sul fascismo el’antifascismo in Puglia e che non si è mai sot-tratta a scriverne o a parlarne in pubblico suinvito della Fondazione: a Conversano già nellontano 15 maggio 1971, poi nel 2003, infinenel gennaio 2005 a Roma, in occasione dellapresentazione alla Camera dei Deputati delprimo Volume, assieme a F. Colucci, R. For-mica e G. Vassalli.

La Fondazione della Cassa di Risparmio diPuglia ha sostenuto con grande convinzione laricerca, non limitandosi ad assicurare risorseche nessun’altro avrebbe potuto, ma esprimen-do giudizi lusinghieri attraverso il PresidenteCastorani, il Direttore generale Paparella e ilProf. Girone del Consiglio di indirizzo, tuttiinterpreti e fedeli custodi delle finalità del-l’Istituto. Sincera gratitudine al Presidente del-la Camera dei Deputati Gianfranco Fini, unleader che marca i tempi difficili che attraver-sa, con la Democrazia parlamentare, l’Italiacontemporanea.

LA FAMIGLIA

Giuseppe Di Vagno (jr.), ormai alla soglia deisuoi 90 anni, ha seguito questo lavoro con l’at-tesa trepidante di una verità che dura da no-vant’anni, mai rinnegando lo spirito di «ricon-ciliazione nazionale» con il quale, con nobilegesto ispirato anche dalla memoria di sua Ma-dre, volle perdonare con senso civico affidan-dosi alla Giustizia dello Stato in nome del po-polo sovrano.

Gli storici posseggono, ormai, tutti gli stru-menti materiali per l’interpretazione ancorapiù approfondita di quello che accadde in Pu-glia negli anni dell’immediato primo dopo-guerra, con l’avvento del fascismo, intorno alsocialismo pugliese non meno che a quello na-zionale, con le sue alternanze fra riformismoe massimalismo rivoluzionario mai definitiva-mente risolte; e al cui interno si colloca l’epi-sodio dell’espulsione (rientrata dopo pochimesi) di Giuseppe Di Vagno dal Partito nel

1919, che Ennio Corvaglia e Marco Gervasonihanno intrapreso a raccontare, i cui documentisi trovano nel «Registro dei verbali della Se-zione del partito socialista di Bari tra il 1919e il 1924», una fonte di informazioni assai pre-ziosa, pervenuto all’Archivio storico del So-cialismo di Puglia della Fondazione attraversoun percorso al limite dell’avventuroso.

La Fondazione Di Vagno, dunque, assiemeagli Istituti, le numerose Fondazioni che si ri-chiamano alla Storia del Socialismo Italiano ealle Riviste, come Critica Sociale che fu fon-data da Filippo Turati che in onore di Di Vagnoscrisse parole eccelse, tutt’ora tengono accesaquella fiammella accesa da ormai 120 anninon solo per la tutela della Memoria o ancheper un contributo alla modernità. L’esperienzadi ciascuno, e la storia stessa, ci aiutano a ca-pire meglio perché un popolo senza Memorianon esiste, perché esaltare l’oblio significa uc-cidere due volte, e invece custodire la Memo-ria è premessa per creare il futuro.

Lo spirito del tempo si alimenta di una fre-netica bulimia del presente, rifiuta perché inu-tili i valori e la coscienza che vengono dallastoria, con ciò alimentando la perdita dello spi-rito pubblico, laddove «… l’idea di società dichi rimuove il passato spegne il futuro … an-che in ragione della sua crisi sociale e civilesi accorgerà presto che non si può vivere ecrescere senza una visione e un’idea forte».

Tocca alle Istituzioni culturali, dunque, tor-nare ai propri riferimenti, non solo per preser-vare la memoria dall’oblio, ma per dovere ver-so la verità inappellabile della storia; e interro-garsi sulla sostanza della propria identità stori-ca per non limitarsi alla funzione «frigidamenteconservativa e museale» della Memoria.

La cultura contemporanea, infatti, non puòridursi al catalogo del presente, ma deve sup-portarsi da quell’idea animatrice che porti ver-so le reliquie del passato, senza della qualequalunque storia, anche la più antica e glorio-sa, sarebbe destinata a dissolversi.

La Fondazione Di Vagno proseguirà conqueste convinzioni nel lavoro di ricerca e dipromozione politico-culturale, conscia dellaresponsabilità che comporta condividere l’ere-dità culturale del Socialismo Italiano, il riferi-mento più antico e più importante della storiapolitica recente. s

Gianvito MastroleoPresidente della Fondazione Di Vagno

Marco Nicola Miletti

L’ imponente materiale istrut-torio che si andò rapidamen-te accumulando negli uffici

della Procura barese squarciava il velo sul cli-ma “irrespirabile” nel quale era maturato il de-litto. A Conversano - fu riferito da più partiagli inquirenti - da tempo circolava la “voce”che il Di Vagno fosse stato condannato a mor-te. Testimoni vicini alla vittima retrodatavanol’astio alle elezioni amministrative del 1914,quando un giovane “appena laureato” avevasconfitto chi aveva sino ad allora “spadroneg-giato”, come Paolo Tarsia denominato Giolitti“perché pretendeva di disporre della cosa pub-blica, come se si trattasse d’un feudo”.

L’odio era montato dopo le amministrative del1920, quando Angelo Fanelli, cognato del mili-tante socialista, aveva formato una coalizionevincente. In quell’ occasione - secondo un vele-noso articolo di Arnaldo Ponzè apparso l’annoseguente, ed acquisito agli atti su richiesta dellaparte civile - Di Vagno si era accattivato “le sim-patie della infrollita borghesia barese e la prote-zione del prefetto De Fabritiis” cedendo il con-trollo del comune in cambio del “posto di con-sigliere provinciale”. Questo - tuonava Ponzè -“è l’uomo che per libidine di potere non ha esi-tato trasformare un paese quieto e civile in unabolgia infernale, dove il fuoco cova sotto la ce-nere”. Per buona sorte, concludeva l’articolo, ilFascio di combattimento avrebbe fronteggiatol’“ormai certa aggressione socialista”.

A Conversano il Fascio era nato nel novem-bre 1920 come “filiazione dei partiti dell’ordi-ne”. Vi si erano iscritti “i figliuoli degli avver-sari politici del Di Vagno”, innescando conflitticon la Camera del lavoro. Tra aprile e gli inizidi settembre del 1921 numerose iniziative po-litiche organizzate nel sud barese dal giovaneleader socialista erano state oggetto di minacciao disturbo. Ma soprattutto i primi testimoni con-vergono nel considerare gli scontri conversane-si del 25 febbraio e del 30 maggio 1921 l’im-mediato antefatto dell’ omicidio di Mola.

“Dopo i luttuosi avvenimenti del 25 febbra-io”, dichiarava al giudice istruttore la vedovaDi Vagno, Giuseppina Fanelli, “il mio poveromarito è stato fatto segno all’odio più intensodei suoi avversari po litici”. Quanto agli eventidi maggio, che avevano provocato la morte delfascista Emilio Ingravalle e del socialista Co-simo Conte, il citato articolo di Ponzè su“L’Araldo” addebitava al Di Vagno, “padroneassoluto del campo”, e al commissario Anconail torto d’aver messo sotto inchiesta i vertici fa-scisti con l’insussistente accusa di aggressionepremeditata e di complotto; e d’aver concessoai “bolsceviki locali” la “soddisfazione” dicondurre in carcere gli arrestati ammanettati.Inquietante la Conclusione di Ponzè:

“I fascisti di Puglia debbono imprimersi nel-la memoria un nome, quello dell’ono Giusep-pe Di Vagno. Si tratta di assegnarlo alla cate-goria delle tante sputacchiere nazionali. Sitratta di costringerlo a sostituire il suo compa-gno di fede Misiano. Forse Di Vagno è peg-giore di lui. Fascisti! A noi!”. Una Nota dellaredazione precisava d’aver pubblicato il testo“senza responsabilità e per debito d’imparzia-lità e d’indi pendenza” del giornale.

Insomma, come avrebbe sintetizzato unostorico locale, “il Partito socialista non potevalasciar impu niti gli autori dei moti del maggio;i fascisti non potevano permettere più a lungoche il Di Vagno, causa principale di tanti di-

sordini, quello che aveva sconvolto il paesetutto seminando ire e rancori di parte, se la go-desse”. Persino chi riconosceva al deputato so-cialista il merito d’aver lottato contro i residuifeudali di Conversano, lo giudicava strumen-talmente “vittima del suo temperamento: vit-tima forse, soprattutto, di quel destino quasiindeprecabile, tragico di tutti gli agitatorid’idee - grandi o piccoli - viventi un po’ tuttifuori il loro tempo, in contrasto con le leggipiù ordinarie e comuni di adattamento.

TRA MANDATO AD UCCIDERE E “DEPLOREUOL LEGGEREZZA”

Dal punto di osservazione penalistico, l’in-dubbia matrice politica del delitto si prestavaa molteplici gradazioni, tutte parimenti con-fortate dalle carte processuali: dall’ipotesi mi-nima della goliardata di adolescenti infiamma-

ti dai discorsi familiari, al regolamento di contiriconducibile a vecchie ruggini loca listiche, si-no allo scontro tra blocchi da inquadrare entrouno scacchiere più ampio, di portata regionaleo addirittura nazionale. A ciascun perimetrocorrispondevano differenti livelli di responsa-bilità e diverse qualificazioni della fattispecie.

I difensori degli imputati, anche a frontedell’ evoluzione dello scenario politico, privi-legiavano la pista del conflitto “di sistema” trasocialisti e fascisti, quasi che la coda sangui-naria del biennio rosso legitti masse, in fondo,gli opposti eccessi.

Di contro, l’entourage del Di Vagno si mo-strò agli inquirenti poco coeso. Nel giornostesso - il30 settembre - in cui la vedova Giu-seppina Fanelli dava mandato all’ avvocatoMichele Catalano perché si costituisse partecivile, un memoriale del fratello della donna,Angelo Fanelli, descriveva i “giovanissimi”incriminati come

dipendenti economicamente dalle loro fami-glie; pochi studenti veri e propri, altri figli di pic-coli proprietari ed operai. Gli studenti sono tuttimezze figure di giovani di scarsa intelligenza ecultura, poco inclini allo studio, figure scialbe digiovanotti senza alcuna comprensione o coscien-za di fatti politici e sociali, non in grado di ispi-rarsi ad un ideale ispiratore di gesti estremi. Glialtri sono figli di degenerati precoci, di oziosipronti allo scrocco e venali, piccoli delinquenti informazione. Gli uni e gli altri non potevano avereavuto contatti personali e tanto meno plausibiliragioni d’odio personale contro Peppino Di Va-gno. Come spiegare quindi il loro operato? Pro-prio tutto di loro iniziativa? Noi qui occorre ricer-care dei mandanti, che sono i loro genitori ed ami-ci e parenti essi: parlo di quelli appartenenti a fa-miglie benestanti. Sono essi che forniscono dena-ro ai propri figli ed agli amici dei figli, sono essiche pagano, credo, per il locale del fascio; sonoessi [...] che minacciano continuamente di morte.

Interrogato nello stesso giorno dal viceque-store, il trentanovenne Vincenzo Panaro, far-macista, amico personale e seguace del parla-mentare assassinato, escludeva invece un“mandato specifico dei signori di Conversanoo dei loro familiari onde sopprimere il Di Va-gno [...] E’ da ritenersi invece che su quei gio-vani vi sia stata una preparazione morale, inquanto continuamente veniva predicato l’odiocontro la persona del Di Vagno”. Nel corsod’un successivo interrogatorio Panaro ribadìche, a suo parere, la “responsabilità morale”non s’era tramutata in mandato.

Le due indicazioni, evidentemente, non col-limano. Una posizione mediana esortava a ri-cercare le radici dell’astio “non nella lotta ge-nerale tra fascisti e socialisti” bensì nello scon-tro tra “partiti amministrativi Iocali”. La ve-dova Di Vagno, interrogata il 7 ottobre, ammi-se sinceramente: “Per quanto io possa du bitareche i giovani che compirono la strage abbianoagito se non per un vero mandato esplicito, al-meno per la suggestione fatta sorgere dalla ne-cessità di compiere il delitto, io non ho proveda poter fornire su questo punto alla giustizia”.

La Questura di Bari, replicando prontamen-te alle gravi accuse del Fanelli, giudicò indi-mostrato che la missione a Mola fosse stataopera di “semplici esecutori materiali” e che imandanti dovessero “ricer carsi invece nei ge-nitori dei giovani predetti e negli elementi an-ziani del partito del fascio d’ordine”. Il giornoprecedente, il tenente dei carabinieri Innamo-rato, di stanza a Putignano, aveva parimentiescluso la configurabilità d’un mandato “tec-nico”, che avrebbe richiesto ben “altre caute-le”. Per Innamorato occorreva valutare l’“in-fluenza dell’ambiente ostile”, che aveva ali-mentato in rampolli benestanti “un momentodi esaltazione, caratteristica precipua della gio-vinezza irriflessiva, specialmente nei tempitor bidi che attraversiamo di fin troppo appas-sionate e non sempre disinteressate competi-zioni politiche.

È sin troppo scoperta l’impostazione “asso-lutoria” che la polizia giudiziaria trasmettevaalla magistra tura inquirente. Le informativenon negavano una responsabilità “ambientale”,ma quasi la giustificavano come effetto - cosìscriveva il questore di Bari - dell’ambizione deldeputato, “che aveva carpito dapprima al Par-tito dell’ordine i suffragi in suo favore, durantele elezioni amministrative, e poi, a suffragi ot-tenuti, aveva organizzato i contadini, lancian-doli contro i terrieri e seminando così la discor-

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■ L’AMNISTIA DI TOGLIATTI HA SIGILLATO DEFINITIVAMENTE UN VICENDA CHE SEMPRE PIÙ APPARIVA L’APPENDICE DELL’OMICIDIO

IL PROCESSO GIUSEPPE DI VAGNO

■ TESTIMONIANZA DI GIUSEPPE DI VITTORIO DEL 28 SETTEMBRE 1921

LA RESPONSABILITÀ DI CARADONNA

L’on. Di Vittorio ha diretto all’Avanti! La seguente dichiarazione: “Leggo sull’Epoca e sulCorriere delle Puglie di oggi alcune dichiarazioni dell’on. Caradonna tendenti ad escludereogni responsabilità sua e del fascismo pugliese, che egli ispira e dirige, sull’assassinio vile ebrutale di cui è rimasto vittima il nostro amatissimo Di Vagno.

Anzi l’on. Caradonna ha avuto il fegato di affermare d’avere sempre svolto opera di paci-ficazione, di deplorare l’assassinio e di aver semplicemente sconsigliato al sottoscritto di an-dare subito a Cerignola [……].

Per smentire queste allegre menzogne e per dimostrare la diretta grave responsabilità del-l’on. Caradonna e di tutto il fascismo nel truce assassinio che ha sollevato lo sdegno di tuttal’Italia basterà che io riporti alcune ciniche e folli dichiarazioni fatte dal Caradonna al sotto-scritto in presenza de Questore e del Vice Questore di Foggia, non più tardi di un mese fa,nella questura di quella città, ove io e il Caradonna convenimmo invitati dal medesimo Que-store, che volle in tal modo tentare di pacificare le parti.

1°. L’on. Caradonna, invitato dal Questore di Foggia a non opporsi coi suoi amici al ritornodel sottoscritto a Cerignola, rispose che non avrebbe mai permesso ciò, adducendo pretestipuerili come questo: avendo io riportato più voti a Bari che a Cerignola (perché ai lavoratoridi quest’ultima città fu impedito, con l’assassinio di 8 di essi, di votare) avrei dovuto ritirarmia Bari e non ritornare più Cerignola.

All’energico mio rifiuto, il Caradonna soggiunse che per soddisfare lui e i suoi amici avreidovuto impegnarmi almeno a non ritornare a Cerignola ancora per un altro mese. E poichérifiutai di subire tale imposizione, il Caradonna dichiarò che egli stesso si sarebbe messo allatesta dei fascisti cerignolesi per impedire ad ogni costo che io fossi entrato nella città.

2°. Il Caradonna chiese che il proletariato cerignolese fosse riconoscente a lui e ai fascisti pelfatto che i locali della Camera del Lavoro di Cerignola erano saltati in aria perché i fascisti eranoin possesso di decine di quintali di gelatina per far saltare in aria anche più solidi edifici.

3°. L’on. Caradonna, in seguito ad alcune osservazioni del Questore sul Patto di Pacifica-zione social-fascista e sull’autorità dello Stato dichiarò testualmente: a) che non poteva rico-noscere il patto perché frutto del volgare politicantismo di Mussolini che mirava a tornare al-l’ovile socialista; b) che egli, Caradonna, se ne fregava del socialismo, di Bonomi e deglialtri Ministri, perché i fascisti quando sentono il bisogno di sopprimere un avversario sorteg-giano fra di loro il destinato a consumare la soppressione, senza alcuna preoccupazione.

Queste dichiarazioni del Caradonna, le quali dimostrano come egli sia il prim’attore e l’isti-gatore delle aggressioni politiche in Puglia, ove, prima che fosse sorto il fascismo, nessunoha mai pensato di introdurre l’attentato alle persone nelle contese sociali e politiche, possonosembrare inverosimili per la loro fenomenale leggerezza più che per la cinica malvagità; maio mi assumo la responsabilità più completa e cito testimoni il Questore ed il Vice Questoredi Foggia, in presenza dei quali furono fatte. D’altra parte, si sa che in presenza di un funzio-nario P. S. nello scorso periodo elettorale l’on. Caradonna al compagno Vella ferito dai fascistia Barletta, dichiarò che gli deplorava che i suoi colleghi barlettani e minervinesi che andaronosul posto per prendere parte all’aggressione non lo avessero ucciso e non escludeva che luistesso potesse ammazzarlo.

Dopo di che il Caradonna continuerà ad affermare di essere pacificatore ed a negare la re-sponsabilità sua e del fascismo nell’assassinio vilissimo del nostro Di Vagno.

Bari 28 settembre 1921

CRITICAsociale ■ 97 / 2011

dia nel suo comune, mentre, poi, egli, che neicomizi imprecava contro la proprietà, curava,con molto interessamento, la sua”. La “conti-nua propaganda di odio - ammetteva il questo-re - fatta, con deplorevolleggerezza, innanzi aigiovani doveva produrre i suoi tristi effetti [...].Gli elementi ad ulti del Partito fascista hannoil torto di aver inoculato un odio feroce nel-l’animo dei giovani ancora inesperti e di nonaver saputo frenarne gli eccessi; ond’è che de-vesi ritenere gravi su di loro una qualche re-sponsabilità morale del misfatto”.

Carabinieri e polizia rimproveravano, dun-que, al notabilato conversanese un’indubbiasuperficialità, che tuttavia non assumeva con-torni penalmente rilevanti. Né fu seriamenteapprofondita la pista dell’ al leanza tra i leaderdel fascismo pugliese Giuseppe Caradonna eMario Limongelli e gli “accesi fascisti ceri-gnolani” Tatoli, Izzi e Vitulli. La ricerca dellaverità, peraltro, non trasse vantaggio dallacommistione politico-giudiziaria dei ruoli: av-vocati notoriamente avversari del Di Vagno,come Carlo Cavalluzzi Tarsia, scesero in cam-po al fianco dei principali imputati.

CAPI D’IMPUTAZIONE

La Procura si era concentrata sin dall’avviodelle indagini su un’incriminazione comples-sa: omicidio premeditato, mancato omicidio,esplosione di ordigno con pericolo alla vita divarie persone (legge 19 luglio 1894 n. 314),“porto di rivoltella senza licenza fuori dellapropria abitazione” (contravvenzione previstadall’art. 464 n. 2 c.p. e dall’art. 1 n. 50 dellalegge 19 luglio 1880 n. 5536 [e successive mo-difica zioni] sulle concessioni governative);contravvenzione agli artt. 1 e 3 del RD. 3 ago-sto 1919 n. 1360, “in relazione all’ordinanzaprefettizia 13 agosto 1919, per omessa denun-zia di detta arma”.

La contestazione più rilevante, quella diomicidio premeditato, scattava per effetto del-la sincrona vio lazione degli artt. 364 (omicidiovolontario), 365 n. 2 (incremento di pena ovela vittima fosse un membro del Parlamento “acausa” delle sue funzioni), 366 n. 2 (che com-minava l’ergastolo all’omicida con preme -ditazione) del c.p. Zanardelli. Il reato de qualegittimava l’emissione del mandato di catturaanche a carico dei presunti correi. Gli avvocatidei principali imputati, com’è ovvio, negavanoogni premeditazione o complotto ed insisteva-no sul carattere impulsivo, improvviso d’ungesto dettato da lunga esasperazione.

L’imputazione di mancato omicidio, nascen-te dal combinato disposto degli artt. 364 (omi-cidio volontario) e 62 (delitto mancato per cir-costanze indipendenti dalla volontà dell’ auto-re) del codice Zanardelli, si riferiva al fatto chel’azione criminosa di Mola aveva procuratouna ferita al braccio sinistro del ferroviereRocco Cesare.

L’esplosione dell’ordigno integrava la fatti-specie descritta dagli artt. 2 e 3 cpv. della legge19 luglio 1894 n. 314, una delle leggi “ecce-zionali” antianarchiche varate dal governo Cri-spi. La bomba fatta scoppiare nei concitatifrangenti dell’agguato aveva posto in pericolola vita degli astanti e provocato “una lesionepersonale” ad un’anziana casalinga.

L’omicidio era stato commesso da un singo-lo autore, armato di rivoltella, che aveva aper-to il fuoco a poca distanza dalla vittima. Il pun-to non sembra controverso, anche perché com-provato dalle scarne dichiarazioni rese dal de-putato in fin di vita.

Altrettanto indubbia appariva però la foltacompartecipazione al reato. La disciplina delcodice Za nardelli in materia di concorso dipersone era particolarmente complessa - spe-

cie se raffrontata a quel la prevista dal succes-sivo codice Rocco - giacché distingueva lacorreità fisica o morale (esecuzione o coope-razione immediata da parte di più soggetti [art.631], oppure aver determinato altri a delinque-re [632]) dalla complicità (eccitamento dell’al-trui proposito; promessa di aiuto precedente,contestuale o successiva al reato; somministra-zione di istruzioni o mezzi: art. 64). In tal mo-do il testo del 1889, come osservò uno dei suoipiù precoci commentatori, aveva individuatouna graduazione sanzionatoria tra concorso“assolutamente ed essenzialmente principale”(che si verificava sempre nel caso previsto dalprimo comma dell’art. 63) e forme di “aiuto”(di cui agli artt. 632 e 64) che potevano, di vol-ta in volta, rivelarsi indispensabili o accessorieall’ esecuzione.

Gli istruttori del processo Di Vagno accusa-rono sùbito tre imputati (Roca, Lopriore Roc-co e Aloi sio Ambrogio) di “complicità” inomicidio premeditato “per averne facilitata laesecuzione, fornendo istruzioni prima [el’Aloisio] fornendo anche assistenza duranteil fatto” (art. 64 nn. 2 e 3 c.p.). Poco alla volta,la cerchia della correità si sarebbe dilatata sinoa coprire la maggior parte degli inquisiti. Unaltro imputato, l’insegnante trentasettenne Lo-russo Luigi fu Giuseppe, era accusato di favo-reggiamento ex art. 225 c.p. “per avere, dopola consumazione dei reati ascritti ai primi 22imputati e senza concerto anteriore, aiutatoLorusso Luigi di Alfonso, colpito da mandatodi cattura, ad eludere le ricerche dell’ autoritàdi P.S. in Conversano e Brindisi il 28 settem-bre 1921”.

Il punctum dolens si situava qui: nella de-marcazione tra correità in senso proprio e ge-nerica induzione morale. Quando, nella prima-vera del 1922, la parte civile chiese alla Sezio-ne d’Accusa “un prosieguo istruttorio”, lamen-tando che sino a quel momento i magistratiavessero “trascurato di rintracciare gli autorimorali”, l’avvocato Ferrara obiettò che “ilconcorso di mandanti o di istigatori” ricorrevasoltanto in presenza dei requisiti di cui agliartt. 63 e 64 c.p. La parte offesa - incalzavaFerrara - confondeva “la cosiddetta propagan-da di odio, di cui impropriamente parla l’ac-cusa, col mandato o con la istigazione a ucci-dere. La prima può sussistere, senza che dialuogo a una responsabilità penale: può esseremoral mente degna magari di riprovazione e di

biasimo, ma può anch’ essere più che giustifi-cabile, o, come nella specie, giustificata; manon pertanto non costituisce una violazionedel codice penale”. L’esecrazione del Di Va-gno, secondo Ferrara, non “era una propagan-da” bensì “una profonda, sincera e giustificataconvinzione, appunto perché era la verità, erala realtà! [...] [L’]influenza dell’ambiente”,l’“opinione pubblica generalizzata”, la “natu-rale elettricità dell’atmosfera” non avrebberomai potuto “giuridicamente costituire per chic-chessia una imputabilità per istigazione, permandato, o per eccitamento a uccidere”.

IL PRIMO AZZERAMENTO: L’AMNISTIA OVIGLIO

Sulle ipotesi di reato avanzate dalla Procura diBari era chiamata a giudicare la Sezione d’Ac-cusa presso la Corte d’Appello di Trani. Lacompetenza di questo organismo si spiega inquanto ad esso il codice Finocchiaro-Aprile af-fidava la decisione al termine dell’istruzioneformale per i reati che il procuratore del re pre-vedeva di competenza della Corte d’Assise (art.272). Per il processo Di Vagno la Sezione erapresieduta dal commendator Raffaele Guada-gno; relatore era il cavalier Tommaso Gallo; ilterzo consi gliere si chiamava Nicola Lanubila.

Il 6 marzo del 1922 il sostituto procuratoregenerale presso la Corte d’Appello di Trani,Erminio Calcagni, pronunciava la requisitoria.Al termine d’una meticolosa ricostruzione deifatti, confortata da puntuali riscontri probatori,e dopo aver precisato che la competenza della

Corte d’Assise si estendeva alle “per connes-sità” alle “imputazioni minori”, il sostitutochiese alla Sezione d’Accusa di dichiarare“non doversi procedere” contro Cassano “perinsufficienza di prove”; contro Ingravalle, Lo-russo Paolo di Emilio, Loprete Domenico, Lo-russo Giuseppe di Emilio, Roca, LoprioreRocco e Aloisio “per non avere commesso ifatti” (gli ultimi tre erano accusati, ex art. 64nn. 2-3 c.p., di “complicità” per aver age volatol’esecuzione del reato “fornendo istruzioni pri-ma del fatto” e, nel caso di Roca, anche “assi-stenza durante il fatto”), con conseguente re-voca dei mandati di cattura. Calcagni chieseinvece di rinviare a giudizio (dinanzi alla Cor-te d’Assise di Bari) Lorusso Luigi per “omici-dio volontario aggravato e qualifi cato”; Berar-

di, Ippolito, Pace, Alessandrelli, Lofano, Lo-russo Nicola e Angelo, Mele, De Bellis Anto-nio e Francesco, Fanelli, Centrone, LoprioreRaffaele, Lovecchio Donatantonio, Lestingi,De Cesare Francesco per correità nel suddettodelitto “quali cooperatori immediati” ai sensidell’art. 63 prima parte c.p.; per tutti costoroil rinvio era altresì richiesto anche per: “cor-reità in lesioni volontarie con armi” ex artt.372 n. 1,373 e 63 prima parte c.p., per aver fe-rito senza fine di uccidere Rocco Cesare (vanotato che in tal modo veniva degradata l’im-putazione in rubrica di mancato omicidio);“correità nel delitto previsto” dalla legge1894/314 per l’esplosione della bomba con le-sione d’una donna; “contravvenzioni” per“porto di rivoltella senza licenza” e omessa de-nunzia del possesso dell’ arma. Infine Calca-gni chiedeva di rinviare a giudizio LorussoLuigi fu Giuseppe per favoreggiamento ex art.225 c.p., per aver aiutato “senza concerto an-teriore” Lorusso Luigi di Alfonso ad eludereil mandato di cattura.

Il 18 marzo, da Roma, i difensori di parte ci-vile, due prìncipi del foro quali Giovanni Por-zio ed Enrico Ferri, chiesero al presidente del-la Sezione d’Accusa di Trani “una proroga dialmeno 90 giorni per lo studio dei voluminosiatti processuali”. Il presidente Guadagno l’ac-cordò di soli trenta giorni, per sim metria conquanto concesso ai difensori degli imputati.Due ulteriori supplementi d’istruzione furonodisposti con ordinanze del 5 giugno e del 7agosto 1922. Sul secondo rinvio, in particola-re, incise l’istanza presentata dalla vedova DiVagno, sobriamente critica verso la superficia-le conduzione dell’inchiesta.

Della duplice proroga approfittarono anzi-tutto i difensori degli imputati, molti dei quali- com’era costume - affidarono a brevi pubbli-cazioni a stampa la loro sdegnata reazione allarequisitoria Calcagni del 6 marzo. Tali fasci-coletti, che confluirono nell’incartamento pro-cessuale, rivangavano il passato re cente e spar-gevano nuovi veleni. Obbedendo ad uno sche-ma retorico-forense ormai inflazionato, questiscritti individuavano la radice dell’ omicidiodi Mola nel corto circuito tra lo schietto gio-vanilismo fascista e l’estremismo del Di Va-gno che occultava un avido conservatorismo.

Anche la parte civile presentò delle NoteAggiunte nelle quali ribadiva che “la causaleremota e prossima dell’ assassinio di GiuseppeDi Vagno” andava rintracciata “nell’ ambienteda costui creato e in ragioni di carattere pura-mente locale”, “nei rancori” e nel “veleno”propinato “a dosi alte” dai suoi nemici.L’istanza fu interpretata dai difensori degli im-putati come pretesa di “porre mano ad unanuova istruttoria” e di portare alla sbarra“mezza Conversano”. E soprattutto, poiché leNote Aggiunte furono divulgate anche ai gior-nali, i legali della famiglia vennero tacciati di“gonfiare iperbolicamente questo processo,col voler dare a intendere che [ ... ] vi fosserostati dei mandanti” trascurati dalle indagini delgiudice istruttore. Non a caso l’avvocato Al-tomare accennava, nel suo fascicoletto a stam-pa, alla “gazzarra speculatrice della demago-gia stampaiola e piazzaiola”.

Il 25 settembre 1922 la Sezione d’Accusadella Corte d’Appello delle Puglie “sedente inTrani”, “letti gli artt. 14,24,271 e 274 c.p.p., inparziale difformità dalle conclusioni del Pub-blico Ministero”, ordinò il rinvio a giudizio da-vanti alla Corte d’Assise di Bari di LorussoLuigi di Alfonso, Berardi, Ippolito, Pace, Ales-sandrelli, Lofano, Mele, i due De Bellis, Fanel-li (tutti, in quel momento, sotto custodia cau-telare). Lorusso Luigi avrebbe risposto di omi-cidio volontario aggravato e qualificato, “peravere la sera del 25 settembre 1921 [ ... ], a finedi uccidere, e con premeditazione, esplosi vari

Segnaletica di Giuseppe Di Vittorio

10 ■ CRITICAsociale7 / 2011

colpi di rivoltella contro l’av vocato Di VagnoGiuseppe a causa delle sue funzioni di Depu-tato [ ... ], cagionandogli due lesioni [ ... ] conperforazione dell’intestino, per cui vi fu versa-mento di contenuto intestinale nel tratto peri-toneale e consecutiva sepsi, che fu causa unicaed esclusiva della morte”. Gli altri imputati an-davano a giudizio “quali cooperatori immedia-ti”, ai sensi dell’art. 63 prima parte c.p. “Tuttii suddetti” dovevano altresì rispondere di: “cor-reità in lesioni volontarie commesse con armi”,come aveva richiesto il Pm, “per avere [ ... ],nello esplodere numerosi colpi di rivoltellacontro il Di Vagno, ferito, senza il fine di ucci-dere, Rocco Cesare, cagionandogli” due lesio-ni; “correità nel delitto” di esplosione di bombache aveva posto “in pericolo la vita di variepersone”; “contravvenzione” per porto d’armisenza licenza; contravvenzione alla legge sulleconcessioni governative”; “omessa denunziadel possesso della rivoltella”. La Sezione d’Ac -cusa dichiarava invece “non doversi procede-re” contro Lorusso Nicola, Centrone, Lovec-chio, Lestingi “per insufficienza di prove”; econtro Cassano, Ingravalle, Lorusso Paolo diEmilio, Loprete, Lorusso Giuseppe di Emilio,Lopriore Raffaele e Rocco, Lorusso Angelo diAlfonso, De Cesare, Roca, Aloisio, LorussoLuigi fu Giuseppe “per non aver commesso ifatti medesimi”.

Se si raffrontano la requisitoria di Calcagnie la sentenza della Sezione d’Accusa (così ilc.p.p. aveva deciso di classificare il provvedi-mento di rinvio a giudizio), si nota che, su ven-

tisei imputati, sette (In gravalle, Lorusso Paolodi Emilio, Loprete, Lorusso Giuseppe di Emi-lio, Roca, Lopriore Rocco e Aloisio) si vede-vano confermare il prosciog1imento con for-mula piena richiesto dal Pm; dieci (LorussoLuigi di Alfonso, Berardi, Ippolito, Pace, Ales-sandrelli, Lofano, Mele, i due De Bellis, Fanel-li) erano rinviati a giudizio come proposto dall’accusa; erano respinte otto richieste di rinvio agiudizio, di cui quattro per insufficienza di pro-ve (Lorusso Nicola, Centrone, Lovecchio e Le-stingi) e quattro per non aver commesso il fatto(Lopriore Raffaele, Lorusso Angelo, De Cesa-re, Lorusso Luigi fu Giuseppe); mutava in me-lius la posizione del Cassano: dalla formula du-bitativa, richiesta dal Pm, al proscioglimentoper non aver commesso il fatto.

Un mese dopo, la marcia su Roma rendevaanacronistici anche i residui scrupoli che lasentenza di Tra ni aveva tentato di salvaguarda-re. A chiudere (provvisoriamente) il conto so-praggiunse il Rd 22 dicembre 1922, n. 1641,firmato dal guardasigilli Oviglio, che amnistia-va (art. 1) i reati “commessi in occasione o percausa di movimenti politici o determinati damovimenti politici, quando il fatto sia statocommesso per un fine nazionale, immediato omediato”. La nota di accompagnamento al so-vrano invocava l’esigenza di “ricomporre ledissenzioni interne”, recuperare “un assetto sta-bile e sicuro”, “rinsaldare l’armonia degli ani-mi”, e spiegava di voler “indulgere” a quellesole “violenze [...] in sostanza ispirate a finicoincidenti con quelli dello Stato”. Quanto al-

fine nazionale che giustificava il provvedimen-to di clemenza, la nota chiariva che esso anda-va individuato nel “motivo psicologico” cheaveva spinto a delinquere: sarebbe spettatoall’autorità giudiziaria accertarlo caso per caso.

La scure dell’amnistia si abbatté anche sulprocesso Di Vagno. La IV Sezione penale del-la Corte d’Ap pello di Trani, presieduta da An-gelo Romanni, con sentenza emessa in cameradi consiglio il30 dicembre 1922, dichiarò chedagli atti processuali “e specie dalla sentenzadi rinvio” del 25 settembre risultava che i “fattidelittuosi” erano stati” compiuti ad opera digiovani appartenenti al fascio di combattimen-to e determinati da movente politico per finenazionale”. Tale” causale”, proseguiva il col-legio, comportava l’applicazione del decretodi amnistia del 22 dicembre per tutti i delittiascritti, che avevano indotto, tre mesi prima,al rinvio a giudizio.

LA RIAPERTURA DELL’ISTRUZIONE

A riaprire il caso, dopo ventidue anni, prov-vide il decreto luogotenenziale conosciuto co-me Sanzioni contro il fascismo , emanato dalgoverno Bonomi da poco insediatosi. “In virtùdell’art. 6 D1l27 luglio 1944 n. 159”, la Sezio-ne feriale della Corte d’Appello di Bari, pre-sieduta da Michele Roberti, con sentenza del15 settembre 1944 revocò la declaratoria diamnistia del dicembre 1922: il collegio sosten-ne che “le amnistie concesse dopo il 28 ottobre

1922 [fossero] inapplicabili ai delitti commes-si per motivi fascisti o avvalendosi della situa-zione politica creata dal fascismo”. Poiché larevoca del beneficio imponeva di ripristinare“la condizione processuale preesistente”, oc-correva ricondurre gli imputati “in istato di de-tenzione”, ottemperando alla sentenza dellaSezione d’Accusa di Trani del 1922. Pertantoil presidente della Corte di Assise di Bari Giu-seppe Spinelli, il 25 settembre 1944, ordinò lacattura di Lorusso Luigi, Berardi, Ippolito, Pa-ce, Alessandrelli (del quale si apprese che eradeceduto il 20 febbraio), Lofano, Mele, DeBellis Antonio, Fanelli, De Bellis Francesco.

Non basta. In ossequio allo stesso art. 6 deldecreto luogotenenziale, secondo il quale lesentenze emanate contro i delitti “fascisti” po-tevano essere dichiarate giuridicamente inesi-stenti allorché su di esse avesse influito lo sta-to di morale coercizione determinato dal fasci-smo, l’Alto Commissario (figura istituitadall’art. 40 del decreto) dispose che la Questu-ra e il Comando della Legione dei Carabinieriaccertassero se tale coercizione fosse stataesercitata sulla sentenza di Trani del 1922.

In prima battuta, come avrebbe ammesso ilp.g. Tecce, le indagini della Procura generaledi Bari “non portarono allora a risultati apprez-zabili”. E tuttavia emersero” elementi, che val-sero a far riaprire l’istruttoria nei riguardi delCassano e di Centrone Domenico ed a proce-dere ex novo a carico di Tarsia in Curia Save-rio, quale complice morale del delitto. Fu ac-certata la partecipazione al fatto anche del fa-

Francesco Colucci

«L a competizione di parte, qua-lunque essa sia, quando col-pisce a tradimento l’uomo po-

litico che al trionfo di un’idea sinceramenteconcepita e fermamente professata offre la pro-pria attività e le proprie energie, diventa lo sfo-go cieco delle più basse e delle più ignobili pas-sioni».

Con queste parole, l’allora Presidente dellaCamera dei Deputati, Enrico De Nicola, com-memorava, nella seduta plenaria del 24 novem-bre 1921, il giovane deputato socialista Giusep-pe Di Vagno, assassinato a tradimento dopo uncomizio a Mola di Bari, il 25 settembre 1921.

Pur nel difficile clima politico del “bienniorosso”, era comunque la prima volta nella storiad’Italia che un deputato veniva assassinato perle idee che professava: un tragico presagio diquanto di lì a poco sarebbe accaduto a GiacomoMatteotti.

Sono frequenti i paragoni fra queste due fi-gure immortali di protagonisti della storia delsocialismo riformista italiano: analogo retroter-ra socio-culturale personale; analogo percorsoformativo; stesso generoso impegno per il mi-glioramento delle condizioni di vita dei ceti ru-rali; stesso approccio pragmatico nell’analisidei problemi sociali e stesso stile espressivo di-retto, antiretorico ed attento ai fatti.

Come per Matteotti, la tragica fine di Di Va-gno ha peraltro contribuito ad accreditarne ilmito quasi più come vittima di un vile assassi-nio politico che come attivo esponente del me-ridionalismo e del riformismo italiano; con laconseguenza che talora, dagli scritti e dai di-scorsi che lo riguardano, sembra che lo si co-nosca più per come è morto che per l’alto valo-re umano e politico del Suo impegno personaleche tuttavia è stato determinante per la forma-

zione della coscienza politica, democratica esocialista, di molte generazioni di giovani pu-gliesi, irradiata in molte contrade italiane.

Va quindi riconosciuto pieno merito a quantifinora ne hanno perpetuato la Memoria, ed inprimo luogo alla Fondazione che ne porta il no-me che ha promosso la pubblicazione dellepreziose raccolte di documenti e testimonianze,edite dalla Camera dei Deputati, e che viene oracompletata con la pubblicazione, in questo ter-zo volume, della ricerca sulle carte del ProcessoDi Vagno, finora inedite e alfine ritrovate, pre-miando la tenacia del lavoro di ricerca dellastessa Fondazione.

Un’iniziativa che nel suo complesso la Ca-mera dei Deputati non poteva non assecondaree favorire nella continuità del suo impegno cul-turale, prima con il Presidente Casini, poi conil Presidente Bertinotti, oggi con il PresidenteFini: una responsabilità che nulla concede aiconfini propri della contrapposizione delleideologie politiche.

Di soli quattro anni più giovane di Matteotti,Giuseppe Di Vagno visse il proprio impegnopolitico in un contesto socio-economico, comequello delle Murge, parzialmente diverso ri-spetto a quello “padano-veneto” dell’area delPolesine, da cui proveniva Matteotti: la man-canza nel Mezzogiorno di una tradizione orga-nizzativa e mutualistica del proletariato e leconseguenze deteriori del protezionismo doga-nale, vi perpetuavano infatti una condizionefeudale in cui i profitti e la proprietà terriera re-stavano concentrati nelle mani di un ristrettonucleo di possidenti, impedendo uno sviluppoeconomico diffuso e condiviso nelle comunitàlocali.

La sincera partecipazione umana e la lucidaconsapevolezza politica rispetto a tale situazio-ne accreditarono subito Di Vagno come una fi-gura di riferimento per i contadini della sua pro-vincia d’origine.

Nonostante la giovane età – ha da poco com-piuto venticinque anni quando nel giugno del1914 viene eletto consigliere provinciale e, do-po poche settimane, consigliere comunale, aConversano – sapeva bene come tradurre inpratica la lezione politica di Filippo Turati.

Sapeva bene, in particolare, che la giustiziasociale non si impone per decreto, ma che è ilrisultato di un processo graduale di riforme po-litiche ed economiche, attraverso cui il miglio-ramento delle condizioni materiali di vita deiceti meno privilegiati si accompagna alla cre-scita della consapevolezza dei propri diritti edella cultura della democrazia e della libertà.

La sua attività di promozione dell’associa-zionismo rivendicativo e mutualistico, unita al-le pubbliche denunce dello sfruttamento deicontadini, fu subito percepita dai possidenti lo-cali come pericolosa sovversione di equilibritradizionalmente consolidati e non mancò diprocurargli minacce ed aggressioni personali.

Allo scoppio della prima guerra mondiale,nel 1914, aderì prima all’orientamento di Turatinel “non aderire né sabotare”, per approdare inseguito alla più intransigente ostilità verso laguerra, seguendo soprattutto con attenzione levaghe promesse di redistribuzione di terre in-colte fatte ai contadini della Puglia e delle altreregioni meridionali per lenirne le sofferenze intrincea o spronarne la reazione, specie dopo ladisfatta di Caporetto.

Soldato semplice e poi caporale, anche in

tempo di guerra non abbandonò la propria vo-cazione all’impegno civile e come Consigliereprovinciale e Segretario dell’Ente ProvincialeAutonomo di Consumo, promosse l’apertura diuno spaccio dove in particolare i profughi e glisfollati della Venezia-Giulia, rifugiatisi in Pu-glia a seguito dell’invasione nemica, potesseroricevere gratuitamente generi alimentari.

Nello scenario drammatico del primo dopo-guerra, quando il rispetto delle promesse redi-stributive ricevute al fronte veniva invocato daireduci che occupavano pacificamente le terreincolte, Di Vagno fu ancora una volta al fiancodei contadini di Gioia del Colle e di MinervinoMurge colpiti, tra il ‘20 e ‘21, dalla violentissi-ma e sanguinosa reazione degli agrari e dallarepressione poliziesca.

E quando nel gennaio 1921, la tradizione sto-rica del socialismo italiano visse al Congressodi Livorno una delle sue più laceranti scissioni,rimase con Turati e Matteotti fra i socialisti uni-tari e riformisti e fu eletto deputato nel maggiosuccessivo, secondo candidato più votato nellacircoscrizione di Bari, dopo Arturo Vella e pri-ma di Giuseppe Di Vittorio.

Nel Parlamento nazionale però non avrà iltempo di lasciare altra tangibile traccia dellaSua personalità se non nelle parole di comme-morazione dei colleghi e compagni di partito.

Ancora oggi, la breve e grande storia di que-sto coraggioso riformista meridionale suscitasincera commozione ed ammirazione.

E lo studio delle carte raccolte in questo vo-lume, così come la riflessione sulla gestione esugli esiti del processo che seguì al suo spietatoassassinio con le scandalose sentenze di pro-scioglimento comunque motivate, costituisco-no tuttora preziose opportunità per rafforzare lanostra cultura democratica e presidiare con im-pegno e convinzione i diritti e le libertà oggi ga-rantiti dalla Costituzione della Repubblica che,idealmente, anche Giuseppe Di Vagno ha con-tribuito a scrivere. s

■ VOLUME DELLA CAMERA DEI DEPUTATI RAFFORZA LA CULTURA DEMOCRATICA

DI VAGNO, RIFORMISTA MERIDIONALE

12 ■ CRITICAsociale7 / 2011

scista Susca Francesco, ma nei riguardi di co-stui questo ufficio si riservò di procederequando, liberata tutta l’Italia”, fosse stato pos-sibile interrogarlo, visto che si trovava” a Trie-ste quale funzionario di P.S.”.

Alcuni difensori degli imputati associaronola decisione di riaprire l’inchiesta alla campa-gna di stam pa “inscena[ta]” nell’autunno 1944dai comunisti su “Civiltà proletaria”, nel ten-tativo di intimidire la magistratura e costrin-gerla alla ricerca dei presunti mandanti del-l’omicidio Di Vagno. Il Tarsia in Curia denun-ciò al ministro di Grazia e Giustizia la deter-minazione della vedova a “colpire i mandanti,che se condo lei erano stati i padri dei fascistied altri, tra i quali” lo stesso Tarsia, “presiden-te del locale Partito dell’ordine”.

In realtà la Sezione Istruttoria di Bari si erasemplicemente avvalsa dell’art. 402 C.p.p.1930, che im poneva di riaprire il procedimen-to ove fossero sopraggiunte nuove prove. Cir-costanza, quest’ultima, comprensibilmente ne-gata dai controinteressati.

Dei tre imputati nei cui confronti l’istruzio-ne si riapriva, Tarsia in Curia rappresentaval’autentica no vità. Risparmiato dalle indaginidel primo segmento, sebbene un rapporto dipolizia del 7 novembre 1921 lo etichettassecome uno” dei più noti avversari dell’on. DiVagno”, egli dichiarava ora di essersi iscrittoal Partito fascista soltanto nell’ agosto 1922 edi esserne stato espulso” per indisciplina” il5maggio 1923, riprendendo poi la tessera “pernecessità” nel 1932. In effetti, all’epoca del-l’omicidio di Mola, egli non era stato neppure“sospettato” perché a Conversano era a capodel Partito dell’ordine e non di quello fascista.Contro di lui -lamentava l’avvocato difensore- sussisteva solo una deposizione de auditu po-co “seria [...], tanto meno per determinarenientemeno che il rinvio di un cittadino allaCorte di Assise per rispondervi di correità inomicidio”.

Cassano era stato invece lambito dalla primatranche istruttoria ma ne era uscito immaco-lato. La sua linea difensiva si era attestata suuna presunta apoliticità sin dal primo interro-gatorio in carcere (30 set tembre 1921), allor-ché aveva dichiarato di non appartenere “ai fa-sci di combattimento” e di riprovarne anzi“l’azione”. Varie deposizioni lo avevano di-pinto come “molto mite e buono, incapace dicompiere reati di sangue”, distante dal fasci-smo anche perché il padre “aveva agevolato dimolto i socialisti di Gioia, cedendo buona par-te dei suoi beni ai socialisti”. Il 15 ottobre1921 il contadino di Conversano Paolo Rotun-no aveva spontaneamente riferito al pretoreGiovanni Ragone d’aver ascoltato da una do-dicenne, Maria Rosaria Totaro, il raccontod’un presunto piano per uccidere Di Vagno inoccasione del comizio a Mola: di quel progettoCassano sarebbe stato parte attiva. Interrogati,la Totaro e suo padre smentirono tutto, anched’aver taciuto sotto minaccia. Cassano era sta-to quindi pienamente prosciolto dalla sentenzadella Sezione d’Accusa del 1922.

La posizione dei tre imputati, tutti detenutia Bari, fu vagliata dalla “Sezione Istruttoriapresso la Corte d’Appello di Bari” il3 gennaio1945. Cassano e Centrone erano accusati di“correità nell’omicidio volontario aggravato [.. .] per avere cooperato nell’ omicidio com-messo da Lorusso Luigi”; “di correità in lesio-ni volontarie” cagionate dall’esplosione di col-pi di rivoltella, nonché nel delitto di esplosionedi ordigno; Tarsia in Curia ex artt. 63 cpv. e364-366 C.p. 1889 “per avere determinato Lo-russo Luigi e altri a commettere l’uccisione”.Su conforme richiesta del procuratore genera-le, il collegio dichiarò” chiusa l’istruzione” edordinò “il rinvio a giudizio” dei tre “davantialla Corte d’Assise di Bari”.

Proviamo a ricapitolare. All’inizio del 1945, la Corte d’Assise barese si apprestava ad uni-ficare due “tronconi” del processo Di Vagno.Il primo proveniva dal vecchio rinvio a giudi-zio disposto dalla Sezio ne d’Accusa di Tranicon sentenza 25 settembre 1922: provvedi-mento “rivitalizzato” dalla caducazione del-l’amnistia e riguardante soltanto coloro cheerano stati, all’epoca, condannati. Il secondofilone derivava dal recentissimo rinvio a giu-dizio di Cassano, Centrone e Tarsia in Curia,deliberato dalla Sezione Istruttoria di Bari il3gennaio ‘45 per effetto della riapertura del-l’istruzione.

Il dibattimento fu fissato ai primi di febbraiodel 1945 . Il 12 febbraio gli avvocati GiuseppePapalia e Franco Catalano si costituirono partecivile. In udienza, la difesa di Cassano - cui siassociarono gli altri legali - invocò la prescri-zione intervenuta ex art. 152 c.p.p. Il Pm si op-pose, rilevando che la prima parte dell’art. 6D1l27 luglio 1944 n. 159 vietava “espressa-mente” la prescrizione “a favore di coloro, chesono rimasti finora impuniti per l’esistenzastessa del regime fascista”. D’altronde - ag-giunse la pubblica accusa - prima che fosse ri-mosso l”‘ostacolo” dell’amnistia del 1922, in-dubbio strumento di “impunità” per i “rei fa-scisti”, sarebbe stato tecnicamente impossibilericercare nuove prove e riaprire l’istruzione.

DICHIARAZIONE D’INESISTENZADELLA PRIMA PRONUNCIA

Una nuova atmosfera pareva pervadere lamagistratura. Il 16 febbraio 1945 la II Sezionepenale della Cassazione, su istanza avanzata tremesi prima dalla Procura Generale di Bari, di-chiarava la giuridica inesistenza della sentenzacon la quale, il 17 novembre 1922, la Corted’Assise barese aveva mandato assolti alcunidei responsabili (parzialmente coincidenti congli imputati dell’omicidio Di Vagno) delle vio-lenze conversanesi del maggio 1921. La Supre-ma Corte riconobbe l’influenza dello “stato dimorale coercizione determinato dal fascismo”e rinviò gli atti alla procura generale di Bari.

Il nuovo orientamento giurisprudenziale in-coraggiò la parte civile, il 28 febbraio, a scri-vere al procu ratore generale di Bari: “Nell’in-teresse della vedova e del figlio dell’assassi-nato ono Giuseppe Di Vagno, ma anche e so-prattutto nell’interesse supremo della giustizia,rivolgiamo viva istanza all’E.V perché vogliachiedere alla Corte di Cassazione di annullarela sentenza della sezione di accusa di Trani del25.9.1922” . Quella pronuncia aveva

violato, anzi addirittura violentato i risultatidelle prove assunte nell’istruttoria [...]. Pur es-sendo stati identificati tutti i 19 squadristi cheparteciparono all’azione; pur essendo stato iden-tificato colui che accompagnò questi sino allespalle dell’assassinato; pur essendo stato accer-tato che la condanna a morte del Di Vagno erastata pronunziata da tempo dai dirigenti del mo-vimento fascista pugliese [...]; pur essendo risul-tati i giuramenti solenni [...] e la distri buzione[...] di rivoltelle e di bombe [...], la sezione di ac-cusa di Trani su 27 indiziati [in realtà 26, ndr] neassolse per i più strambi motivi ben 17 [rectius16], evidentemente per obbedire al comando chefu quello di non rendere giustizia e di minimiz-zare [...]. Tale ordine non poté che essere datodalla cricca fascista che in quel momento im -perava in Bari [...]. Non riteniamo che occorranoprove specifiche per dimostrare questo. Baste-rebbe consultare le pandette dei processi esistentipresso le RR. Procure; basterebbe ricordare i no-mi dei difensori degli imputati, tra i quali primeg-gia quello di Giuseppe Lembo, per due decennidominatore politico della provincia; basterebbe

ricordare il nome del procuratore generale chequella requisitoria fece, e che per essa assurse apiù alti incarichi di carattere politico [...] per con-vincersi che la sentenza della sezione di accusadi Trani fu frutto della coercizione

di cui all’ art. 6 del Decreto Luogotenenzia-le. La circostanza, ad avviso della parte civile,sarebbe stata agevolmente dimostrabile se fos-sero stati ancora in vita i giudici della Sezioned’Accusa, il procuratore generale e “il difen-sore della p.C. dell’epoca, avv. Tamburrini”.Era tuttavia ancora possibile “interpel larel’avv. Mario Assennato, nonché i sigg. Dome-nico De Leonardis, Raffaele Pastore, NicolaCapozzi ed Eugenio Laricchiuta, che alloraerano nel Partito socialista e che molte cose ri-cordano. D’altra parte VE. le condizioni dell’ambiente già le conosce per averle potute ri-costruire in altro processo anche di Conversa-no e coevo”: il riferimento alludeva, per l’ap-punto, al procedimento per i fatti del maggio1921, nel quale, “attraverso la dichiarazionedel requirente dell’epoca, avv. Italo Fico, ven-nero chiaramente a risultare come e quanto po-tenti e devastatrici fossero state le pressionipolitiche esercitate sui giudici”.

La famiglia Di Vagno usciva dunque allo sco-perto e chiedeva esplicitamente non più la sem-plice ria pertura dell’istruzione (le prove raccol-te nella prima fase erano fin troppe), bensì la di-chiarazione d’ine sistenza della deludente sen-tenza del ‘22. Le carte da giocare erano pochee si riducevano, in sostanza, alle testimonianzedei compagni socialisti sopravvissuti. Ma vale-va la pena d’imboccare quella strada.

L’opzione fu condivisa dalla Procura gene-rale barese. “Dopo tre movimentate sedute”,pubblico ministero e parte civile chiesero con-giuntamente alla Corte d’Assise di rinviare “ilprocedimento a nuovo ruolo”, così da otteneredalla Corte di Cassazione, ex art. 6 delD1l1944/159, “la dichiarazione di giuridicainesistenza della sentenza istruttoria del 25 set-tembre 1922” in quanto influenzata dallo “sta-to di morale coercizione determinato dal fasci-smo”. La Corte d’Assise accolse l’istanza disospensione; affidò “nuove indagini” alla Que-stura e al Comando dei Carabinieri di Bari; etrasmise gli atti alla Procura generale presso laCassazione. Il ricorso si incardinò davanti allaII Sezione penale della Suprema Corte.

La polizia giudiziaria si pose sùbito sulletracce indicate dalla parte civile. Il 22 marzodel 1945 due militari interrogarono nel suostudio brindisino il parlamentare socialista Fe-lice Assennato. Questi dichiarò che il defuntoavvocato Francesco Tamburrini, difensore diparte civile nella prima fase del procedimentoDi Vagno, gli aveva confidato d’esser “disgu-stato dall’andamento del processo da partedell’ autorità giudiziaria che riceveva continuepressioni per impedire di colpire i responsabi-li”. Assennato aggiunse che l’allora prefetto diBari Perez gli aveva fatto “presente che il dot-to Lorusso era l’uccisore del Di Vagno”, Daaltra fonte si apprende che lo stesso Tambur-rini aveva definito “tempo e denaro perduto”l’ipotesi di nominare un secondo difensore diparte civile (era circolato il nome di GenuzioBentini), dal momento che “nell’ambiente del-la Corte di Trani aveva avuto la precisa sensa-zione che con certezza la maggior parte degliimputati sarebbe stata assolta, anche perché imagistrati erano impauriti dalle continue pres-sioni e minacce”.

Ancor più incisiva la relazione di “rimessio-ne” inviata il 27 marzo 1945 dal procuratoregenerale di Bari Camillo Tecce al suo omologopresso la Corte di Cassazione e, per conoscen-za, al ministro di Gra zia e Giustizia e all’AltoCommissario contro il fascismo Carlo Sforza.Il procuratore barese rifletteva:

Accertati con sicurezza i nomi dei 19 fascisti,che componevano la spedizione, [...] identificati[...] il Lo russo esecutore materiale, il Cassano“pars magna” della spedizione, era facile arguireche tutti coloro, che da Conversano si mosseroper uccidere il Di Vagno, furono partecipi all’azione [...]. Senonché la Sezione d’Accusa pres-so la Corte d’Appello sedente in Trani rinviò agiudizio soltanto 10 di costoro, prosciogliendo inistruttoria, insieme ad altri, 9 dei componenti laspedizione: e se alcuni di costoro avevano tentatodelle difese, per altri ogni tentativo di discolpaera mancato. Sopratutto impressionante apparvela dichiarazione di non doversi procedere a cari-co del Cassano per non aver commesso il fatto.

Ad avviso di Tecce, atti processuali e rappor-ti di polizia evidenziavano che il Pm “dell’epo-ca” Er minio Calcagni “era un magistrato moltofavorevole al fascismo”; che il primo presiden-te della Corte d’Appello di Trani, il Grand’Uf-ficiale duca Ferdinando de Notaristefano, “eralegato da intima amicizia col sostituto procu-ratore del re applicato alla Procura generale,cav. Italo Fico, legato da rapporti di interessicon la famiglia Cassano”; che gli avvocatiLembo e Altomare, difensori di Cassano, Cen-trone e Lovecchio, “erano fascisti accesi ed au-torevoli [...], entrambi irruenti e temibili per laloro violenza”. In generale, proseguiva il pro-curatore, “in Puglia moltissimi furono gli attidi violenza compiuti dai fascisti, capeggiatidall’ono Caradonna. Tutto ciò non poté non in-fluire grandemente sui magistrati della Corted’Appello”, che oltretutto si pronunciarono ap-pena “un mese prima dello scoppio rivoluzio-nario”. Quei giudici erano ormai “defunti”. Perdue degli “imputati ingiustamente prosciolti”(Cassano e Centrone, ndr) la Procura generaledi Bari aveva già ottenuto la riapertura del-l’istruzione in base all’art. 402 c.p.p. Per gli al-tri non restava che applicare “l’art. 6 cpv. IIIlegge 27 luglio 1944 n. 159, non essendo a ca-rico di essi sorte nuove prove”,

La fonte principale della relazione Tecce èil documento - ad essa allegato - della Legioneterritoriale dei Carabinieri Reali di Bari, da-tato 24 marzo 1945 e stilato dal comandantemaggiore Carmelo Battaglia insieme con ilcommissario di P.S. Ubaldo Valenti. Ancorauna volta, le informative di polizia orienta vanouno snodo decisivo del processo Di Vagno.

All’istanza di rimessione avanzata da Teccenel marzo 1945 i difensori degli imputati rea-girono ora accampando, genericamente, la se-rietà della prima istruttoria o la presunta tran-quillità ambientale garantita da Trani nel con-vulso 1922, ora sviscerando la ratio del decre-to luogotenenziale.

Rosario Mazzone e Antonino da Empoli, di-fensori del Lestingi, rilevarono che “in ben 10mesi di applicazione del Dll 27 luglio 1944nessuno aveva mai pensato che lo stato di mo-rale coercizione de terminato dal fascismo po-tesse essersi costituito prima dell’avvento delfascismo al potere”. Una simile retrodatazione,non potendosi ricondurre al dato obiettivo del-la vigenza del regime, avrebbe costretto a ve-rificare” di volta in volta” la sussistenza dellamorale coercizione: ma così l’applicazionedell’ art. 6 del Dll sarebbe stata agevolmenteparalizzabile dal principio dell’ in dubio proreo, “cardine della nostra legislazione proces-suale penale”.

Anche ad avviso dell’avvocato romanoGian Carlo Angeloni l’eccezionalità dell’isti-tuto della dichiara zione di giuridica inesisten-za ne restringeva l’applicabilità alle sole sen-tenze emanate” dopo il 28 ottobre 1922”, giac-ché prima della marcia su Roma la vita nazio-nale, “pur in un clima di arroventate passionie tra episodi di bestiale violenza, si svolgevademocraticamente”. Per Angeloni le prove

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della coercizione fornite da Tecce erano assaifragili: la simpatia del Pm Calcagni per il fa-scismo, i “legami d’interessi ... a catena” tral’allora p.g. De Notaristefano, il sostituto Ficoe la famiglia Cassano. “Viceversa, obiettivo erealistico” appariva allegale “il rapporto deiCarabinieri”, che si era limitato a non poterescludere il turbamento ambientale. SecondoAngeloni, il legislatore del 1944 aveva volutoannullare “le sentenze non già inficiate da fa-ziosità fascista ma frutto di una vera e propriacoartazione della libertà morale dei magistratigiudicanti”. A riprova egli adduceva due pro-nunce emesse dalla Suprema Corte il6 novem-bre 1944. La prima aveva annullato un proces-so non solo perché si era svolto “in un’atmo-sfera e in un clima di suggestione e di coazio-ne” , ma per effetto di “un complesso di inde-bite e gravi ingerenze del governo e del Partitofascista dirette a turbar[n]e e a deviar[n]e” ilcorso. La seconda aveva precisato che la cen-sura ex art. 6 comma IV del decreto luogote-nenziale colpiva non già l’’’erronea valutazio-ne degli elementi di fatto e delle prove in ge-nere” ovvero “un’ erronea applicazione del di-ritto”, bensì il “vizio originario” della “man-cata libertà del giudice a causa di coercizionemorale esercitata su di lui [...]. Quando il Le-gislatore parla di stato morale di coercizionedeterminato dal fascismo non si riferisce aduno stato astratto come una situazione imma-nente del fascismo preso in sé e per sé comesistema o metodo politico di forza ma bensì auno stato concreto che deve essersi verificatoin rapporto a una data decisione sulla quale ab-bia agito come causa della decisione stessa”.Angeloni consigliava, in definitiva, di perse-guire gli assassini non già dichiarando la giu-ridica inesistenza della sentenza assolutoriatranese, bensì mediante la revoca dell’amnistiae la “conseguente riapertura dell’istruttoria” aisensi dell’art. 402 c.p.p. “nei confronti di co-loro che furono rinviati a giudizio o che sonostati raggiunti da nuove prove”.

Alla pretesa dei difensori di spuntare, conmotivazioni logiche o cronologiche, l’armadella dichiarazione d’inesistenza il procurato-re generale presso la Corte di Cassazione, Bat-taglini, nella requisitoria del 2 luglio 1945, re-plicò che il quarto comma dell’art. 6 del Dll1944 n. 159, a differenza dei primi due commiconcernenti la prescrizione e le amnistie, nonconteneva “alcun accenno esplicito o implicitoa un determinato limite temporale”: esso su-bordinava la dichiarazione d’inesistenza allaconcreta influenza “esercitata dal fascismo,anche come semplice organizzazione di parti-to” ed anche laddove l’incidenza si fosse indi-rettamente realizzata “attraverso il turbamentoe l’inquinamento” delle prove, l’intimidazio-ne di testi o periti, l’ostruzionismo giudiziario.Ebbene, ad avviso di Battaglini, le indagini diquestura e carabinieri condotte sotto la dire-zione del procuratore generale di Bari avevanoinequivocabilmente certificato che l’istruzionedel 1922 si era svolta “in condizioni ambien-tali” di “grave turbamento”. Il p.g. chiese per-ciò alla II Sezione penale della Cassazione didichiarare giuridicamente inesistente la sen-tenza tranese del 25 settembre 1922 nella parterelativa ai proscioglimenti (per non aver com-messo i fatti e per insufficienza di prove) e didisporre “la restituzione degli atti al procura-tore generale presso la Corte d’Appello di Bariper l’ulteriore corso”.

La presa di posizione della Procura generaledella Cassazione seminò sconcerto tra i difen-sori degli imputati. Qualcuno di loro propose“quanto meno” un supplemento d’istruttoria,ovvero di “soprasse dere” dal momento chesembrava che il Consiglio dei Ministri avesse“elaborato un decreto, di immi nente pubblica-zione, destinato a disciplinare la materia della

dichiarazione di giuridica inesistenza dellesentenze”. Ci si riferiva, forse, al D1l31 luglio1945 n. 464, Norme per la dichiarazione digiuridica inesistenza delle sentenze penali,preveduta nell’ art. 6 del Dll1944 n. 159: prov-vedimento che, in realtà, si limitava a dettareregole procedurali già rispettate nel processoDi Vagno.

Il 20 luglio 1945 la II Sezione penale dellaCassazione da un lato aderì alla tesi del pro-curatore generale circa l’applicabilità dell’ art.6 anche alle sentenze emesse ante-marcia,dall’ altro però accolse la richiesta degli avvo-

cati di effettuare “una più ampia istruttoria”,delegando all’uopo il p.g. di Bari. Ma l’ulte-riore approfondimento non fece che rafforzarenel procuratore generale della Cassazione - co-me ammise egli stesso -le convinzioni già con-densate nella requisitoria del 2 luglio: e infatti,il 28 ottobre 1945, Battaglini ribadì la richiestadi dichiarare inesistente la sentenza del ‘22.

Particolare credito Battaglini attribuì allesommarie informazioni rese ai giudici dellaCassazione il 26 settembre 1945 da Ettore Mar-tini, procuratore del re a Bari dal 1921 alla metàdel 1923 e poi ispettore ministeriale. Questiaveva asserito di essersi persuaso, ai tempi dellaprima istruttoria, che Di Vagno fosse stato uc-ciso per aver “portato un soffio di vita nuova inmezzo a quei paesi di Puglia, governata da tem-po da una consorteria di vecchi parrucconi”. Ilmagistrato escludeva che, finché si era occupatodel processo, ossia sino all’estate del ‘22, fos-sero state “esercitate pressioni da parte di ele-menti fascisti. Unico fascista intemperante èstato l’avvocato Lembo”, il quale “si dimostròcosì insistente, e direi anche prepotente, nellesue richieste a favore dei suoi difesi, che finiicon l’urtarmi e mandarlo via dal mio ufficio inmalo modo”. Martini aveva lasciato “l’istrutto-ria quasi completa nelle sue grandi linee e taleda darmi l’im pressione che tutti gli imputati, inuna forma e nell’ altra, avessero partecipato aldelitto. Fu perciò con meraviglia che più tardiseppi che il processo era stato smentito nelle suegrandi linee, ed ebbi il sospetto che ciò fossedovuto a qualche influenza politica”.

Alla fine di ottobre del 1945 la Cassazionedisponeva, dunque, di tutti gli elementi per de-liberare.

Per rendersi conto della tensione che accom-pagnava l’attesa, basti pensare che un memo-riale inviato in extremis alla Suprema Corte,per dissuaderla dalla tentazione dell’azzera-mento, lanciò un appello ad evi tare “ignobilispeculazioni politiche” contrastanti coi princi-pi di democrazia e libertà proclamati “ancherecentemente dal Comitato Centrale del Parti-to socialista” del compianto Di Vagno.

Il 5 novembre 1945 i giudici di legittimità,

relatore De Ficchy, dichiararono la “giuridicainesistenza” della sentenza del ‘22 nella parterelativa ai sedici imputati all’epoca prosciolti.Restava, ovviamente, ferma la sentenza di rin-vio a giudizio di Cassano, Centrone e Tarsiain Curia emessa dalla Sezione Istrut toria dellaCorte d’Appello di Bari il3 gennaio 1945.

Il processo fu rimesso alla Procura generaledi Bari. Il primo filtro, vale a dire la SezioneIstruttoria della locale Corte d’Appello, i126febbraio 1946 prosciolse per insufficienza diprove Francesco Susca (che poi, ricorrendo inCassazione, ottenne il17 luglio 1946 l’assolu-zione con formula piena), mentre, a sèguitodell’emersione di nuovi “elementi di respon-sabilità”, rinviò a giudizio con l’accusa di omi-cidio volontario aggravato e qualificato, lesio-ni volontarie ed esplosione di bomba LorussoNicola, Lovecchio, Lestingi (che nel 1922 era-no stati assolti per insufficienza di prove); eLorusso Angelo (che la Sezione d’Accusa diTrani aveva, nel ‘22, prosciolto con formulapiena). I quattro erano latitanti.

LA RIMESSIONE A POTENZA

Nel luglio 1946 la Corte d’Appello di Barifissò il dibattimento per il 20 novembre suc-cessivo. Poiché il 24 novembre si tenevano leelezioni amministrative, la parte civile ottenneun rinvio al 4 dicembre e poi ancora un ulte-riore differimento. Lo slittamento consentì dimodificare la competenza territoriale. Nella

camera di consiglio del 17 gennaio 1947 la IISezione penale della Corte di Cassazione, surelazione del consigliere De Ficchy ed acco-gliendo le conclusioni del p.g. Fornari, emiseordinanza di rimessione alla Corte d’Assise diPotenza, ai sensi dell’art. 55 c.p.p. Fornari ave-va ricevuto dalla parte civile la se gnalazione dell ‘“ opportunità che il procedimento venisserimesso ad altra sede giudiziaria non dandoquella di Bari pieno affidamento [...], tenutoconto della tensione politica locale e delleasperità delle lotte di parte, dalle quali gli stes-si decidenti potrebbero venir travolti”: e ciòsebbene la procura generale di Bari, la localequestura e i carabinieri avessero fornito ampierassicurazioni quanto “all’integrità ed all’im-parzialità dei giudici e degli assessori”.

Il dibattimento dinanzi alla Corte d’Assisedi Potenza fu fissato per il 27 giugno 1947. IlCollegio, che registrò in limine la defezione ditre giudici popolari, era presieduto da LuigiRocco e composto dal consigliere Carlo Trom-betti e da cinque assessori effettivi; Pm era Vi-tangelo Poli.

Due giorni prima dell’apertura del dibatti-mento, il presidente ricevette una lettera daGiuseppe Di Vagno, il quale dichiarava che,dopo la morte della madre, “come figlio” sen-tiva di non poter

perdonare agli assassini di mio padre, comecittadino non posso indulgere verso chi pensòdi soffocare nel sangue la libertà e tentò di con-trastare col delitto l’ascesa degli umili. Com-prendo per altro che in questo processo i cui ri-flessi tanta importanza hanno per la democraziaitaliana, stonano le private passioni, e che il giu-dizio deve essere affidato al popolo contro le cuilibertà attraverso la soppressione di mio padre,che le rivendicava, vollero agire i prevenuti edi loro mandanti; e resti il popolo del tutto liberodi giudicare i suoi nemici secondo legge e giu-stizia.

Dei ventisei imputati giudicati dalla Sezioned’Accusa di Trani nel 1922 ne restavano incampo quindi ci, cui andava aggiunto il Tarsiain Curia. I due forse più attesi, Cassano e Lo-russo Luigi, comunicarono la loro assenza permotivi di salute (per il secondo si trattava, inrealtà, di latitanza). Contumaci risultavano al-tresì i tre Lorusso e Lestingi.

Le udienze si susseguirono cominciandodalla lettura dei verbali d’interrogatorio degliimputati la titanti o assenti. Alcuni dei testimo-ni convocati in udienza a Potenza dichiararonodi non ricordare più i fatti e si rimisero alle de-posizioni rese nella precedente istruttoria; altriconfermarono appieno. Per qualcuno che cad-de in contraddizione rispetto a quanto asseritoun quarto di secolo prima il Pm chiese l’incri-minazione per falso, ma la Corte “si riserv[ò]ogni decisione in esito al dibattimento”.

I capi d’imputazione erano pressoché inal-terati rispetto al 1922. li solo Tarsia in Curiaera ora accusato di complicità in omicidio vo-lontario ex art. 64 nn. 1,2,3 C.p. 1889, ma igiudici ritennero che i com portamenti addebi-tatigli (come l’aver “capeggiato” a Conversa-no un festeggiamento per gli amnistiati o l’es-sersi congratulato con loro) non integrasserocomunque una complicità necessaria.

“In diritto”, la sentenza smontava anzituttola pretesa dei difensori che fosse “restituitoagl’imputati il beneficio dell’amnistia dellaMarcia su Roma”. Ad avviso dei legali, l’attodi clemenza non avrebbe dovuto revocarsi (edunque non si sarebbe dovuto applicare il DI27 luglio 1944 n. 159), perché il delitto era sta-to” determinato da risentimenti personali” ri-conducibili alla faziosità cittadina di Conver-sano. I magistrati potentini obiettarono inveceche il movente era stato

Tommaso Fiore

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politico. li Di Vagno aveva il cervello e l’ani-ma del socialista. Tenacemente entusiasta e ge-neroso, amava il popolo e ne aveva sposato lacausa con abnegazione e con fermezza. Nel suopaese aveva travolto tutto un passato. Egli miravaad organizzare la Puglia socialista. Eletto Depu-tato era l’apostolo più fervente della democraziasocialista. Quindi una visione larga ed integraledi politica generale, che non si adattava piùagl’intrighi particolari e alle beghe personali diConversano. Tuttavia è qui la sua tomba: è pro-prio il paese che scava la fossa. Si erano formatii fasci di combattimento per contrastarlo con laviolenza.

Di Vagno, proseguiva la Corte lucana, aveva“smosso dovunque le masse di popolo di con-tro le vec chie cricche che detenevano il potere.Questa è la in discutibile fisionomia dell’ av-venire, e quindi rimane legittima la revoca del-l’amnistia fascista che aveva soffocato il pro-cesso nel tempo lontano del 1922. Il Partito fa-scista considerava siffatte spedizioni punitivecome una di quelle azioni squadriste diretteall’ af fermazione della propria ideologia con-tro ogni tendenza avversa”: l’eventuale com-presenza d’un “motivo personale” veniva as-sorbita entro “la finalità generale del grandeapparato politico”.

Nel precisare che “la legge di applicazione[era] il codice Zanardelli del 1889, vigente al-l’epoca in cui fu commesso il reato”, la Cortescartava “il concetto unitario del delitto asso-ciato” e passava a differenziare “modalità” e“proporzioni” della compartecipazione. Un’at-tenta disamina delle testimo nianze e dei con-fronti induceva i giudici ad individuare in Lo-russo Luigi fu Alfonso lo “sparatore” e “inizia-tore dell’impresa”. Tra i “cooperatori immedia-ti” la Corte attribuiva un ruolo di primo pianoa De Bellis Vitantonio, non solo perché porta-va” dalla Capitale tutti gli effluvii della euforiafascista”, ma anche in qualità di vicepresidentedel fascio di Conversano e vera “anima dell’or-ganizzazione” locale. Berardi era “tra i dirigen-ti del Fascio di Conversano”. Centrone avevafatto “esplodere la bom ba” per seminare il pa-nico ed assicurarsi una “baldanzosa immunità”.Pace, ex “legionario fiumano, conosceva RocaFrancesco, tenente degli Arditi” e “vero filoconduttore per arrivare all’ assassinio”. Mele,dopo il delitto, corse al calesse e “scomparvenella latitanza”. Con questi nomi “si chiudel’anello delle grandi responsabilità. La Cortenon ha elementi per accrescere il numero diquelli che formarono il gruppo degli sparatori.Lorusso Luigi, autore principale; De Bellis Vi-tantonio, Berardi, Losano, Fanelli, Centrone eMele, correi del primo”.

Chiedendosi “se costoro agirono con preme-ditazione”, il collegio potentino evocò - in unoslancio campanilistico - “il pensiero del piùgrande penalista di questa nostra terra meri-dionale, Francesco Rubrichi, il quale diceva,con semplicità plastica, che si ha la premedi-tazione quando nell’individuo sono caduti tuttii venti dello spirito. Quindi nessuna movenzadi passione che alteri i moti della pro pria co-scienza e smuova i freni della propria sensibi-lità”. Tali caratteristiche, ad avviso della Corte,non erano rinvenibili in giovani minori di 18o 21 anni, che

cantavano per le strade l’inno della loro fedepolitica, che ritenevano incrollabile ed arra sicuradel loro avvenire: l’abbandono a quella malsanaeuforia che è la base di ogni movimento politico.Per consolidare la premeditazione in questo pro-cesso si è cercato di identificare i possibili man-danti in persone di astuta e fredda coscienza. Maè stata indagine vana. I giovani colpevoli sono ri-masti isolati alla loro dura realtà processuale. Delresto il marmo della tomba di Di Vagno, nel suo

immenso significato morale e politico, ha delleparole che sono chiarificatrici dell’ambiente e delmomento delittuoso. Vi si legge che cotesti gio-vani non intendevano quello che commettevano.Non pare che sia questa una certa qualificazionedella volontà criminosa dei nostri giudicabili?

I giudici scartavano però non solo la confi-gurabilità della premeditazione, ma anchequella, per certi versi antitetica, dell’omicidiopreterintenzionale, su cui aveva puntato la di-fesa. E ciò perché gli adolescenti erano partitida Conversano” con l’idea della violenza, co-me era costume di tutti i fascisti. Ma non sipuò stabilire, per le predette considerazioni,che essi ebbero il premeditato, esclusivo pro -posito di uccidere. La violenza fu un prodottodelle circostanze: essi, pronti alla esuberanzagiovanile, vollero uccidere il Di Vagno”.

La Corte d’Assise escludeva poi “l’aggra-vante di cui all’art. 365 n. 2 c.p. 1889, e cioè,che l’omicidio [fosse] stato commesso a causadelle funzioni di Deputato al Parlamento Na-zionale”. I giudici distin guevano: “Matteotti fuucciso per il grande discorso che egli pronun-ziò alla Camera. Ma Di Vagno era a Mola nel-l’interesse del suo Partito: per inaugurare il Cir-colo Socialista, la bandiera della Sezione. Egli,in quel caso, era un propagandista politico”.

Rispetto ad un simile iter logico, il cui ap-parente equilibrio denotava, in realtà, la pre-occupazione ‘conciliativa’ di rimarginarequante più piaghe si potesse, l’esito sanziona-torio fu quasi beffardo. Chiarita l’intenzionedi “irrogare la pena secondo il c.p. del 1889,vigente al tempo del commesso reato”, la Cor-te, per i sette imputati principali (De Bellis Vi-tantonio, Berardi, Pace, Centrone, LorussoLuigi, Lofano, Fanelli), stimava di partire “daanni diciotto di reclusione”, condonabili in ra-gione del fatto che quando avevano agito era-no minori. Degli altri nove (Cassano, Ippolito,Mele, De Bellis Francesco, Tarsia in Curia,Lorusso Nicola, Lovecchio, Lestingi, LorussoAngelo) non si poteva affermare con certezzache fossero stati “presenti alla sparatoria”: illoro apporto, “nella gamma infinita della coo-perazione delittuosa, come prevista dal CodiceZanardelli”, rientrava “nell’ipotesi della com-plicità non necessaria”, coperta dall’amnistiaTogliatti.

Tenuto conto del codice penale ma anchedel Decreto Presidenziale 22 giugno 1946, n.4, ossia della nota amnistia Togliatti, il dispo-sitivo emesso dalla Corte d’Assise di Potenzail31 luglio 1947 dichiarava Lorusso Luigi“colpevole di omicidio volontario” ma nonpremeditato né aggravato; De Bellis Vitan -tonio, Berardi, Pace, Centrone, Lofano e Fa-nelli “colpevoli di correità nell’omicidioascritto a Lorusso Luigi”. Condannava pertan-to Lorusso Luigi, Lofano e Fanelli, all’epocaminori di anni 18, a dieci anni di reclusione;Berardi, Pace, Centrone, minori di anni 21, adodici anni (tutti, tranne Lorusso Luigi, bene -ficiavano d’un condono di cinque anni); DeBellis Vitantonio a diciotto anni di reclusione(ma sei erano condonati); “tutti, inoltre, allainterdizione perpetua dai pubblici uffici, ed insolido alle spese proces suali”. Ai sensi dell’art.479 c.p.p., la Corte dichiarò “non doversi pro-cedere” contro Ippolito, Mele, De Bellis Fran-cesco, Cassano, Tarsia in Curia, Lorusso Ni-cola, Lovecchio, Lestingi, Lorusso Angeloperché il reato di “complicità non necessaria”era” estinto per amnistia”. Identica sorte toccòalle imputazioni di lesioni personali e alle”contravvenzioni ascritte in rubrica”. Infine, igiudici di Potenza ordinarono la scarcerazionedi Ippolito, Mele, De Bellis Francesco, Cassa-no, Tarsia in Curia e Lovecchio, mentre revo-carono i mandati di cattura contro Lorusso Ni-cola, Lorusso Angelo, Lestingi.

L’ULTIMA DELUSIONE: IL RICORSO ALLA SUPREMA CORTE

Nonostante il generoso riconoscimento dell’afflato ideale del Di Vagno e il giudizio severo(ma cir coscritto) sull’arroganza dei suoi car-nefici, la sentenza potentina ribaltava le pre-messe operando su più fronti: escludeva quasidel tutto il concerto criminoso, degradava lacorreità ad una pressoché casuale contiguitàtra i giovani conversanesi, recuperava la disci-plina zanardelliana sul concorso di reati, obiet -tivamente più favorevole. Le molteplici leveazionate permettevano di espandere tutte lepotenzialità (incluso il condono parziale di pe-na) offerte dall’amnistia Togliatti.

Avverso la sentenza della Corte d’Assise diPotenza, gli avvocati Bartolo Gianturco e Oron-zo Massari, a metà settembre del 1947, ricorseroin Cassazione per conto di Lorusso Luigi. Aisensi dell’ art. 524 n. 1 c.p.p. 1930, i legali tor-navano a censurare l’erronea applicazione deidecreti luogotenenziali del 1944 che sanziona-vano (con il codice penale o con la revoca dell’amnistia) i reati commessi per motivifascisti:circostanza che, a loro avviso, non riguardava ildelitto Di Vagno, originato - come la stessa sen-tenza impugnata lasciava intendere - non “damotivo fascista” bensì dalla “piccola lotta pae-sana. Nel ricorso presentato, pochi giorni dopo,per Berardi, gli avvocati Vittorio Malcangi e Al-do Morlino rilevavano come l’esclusione dellapremeditazione avrebbe dovuto portare i giudicidi Potenza ad esclu dere ogni forma di accordoprevio tra gli imputati. I due legali, inoltre, con-testavano la sentenza anche perché non solo“non spender[va] una sola parola sulla conces-sione o meno delle attenuanti generiche (difettoassoluto di motivazione)”, ma riservava una“semplice affermazione negativa” alla richiestadi dichiarare la preterintenzione. Gravi vizi dimotivazione erano segnalati anche dagli avvo-cati Armando Regina e Bartolo Gianturco nel ri-corso presentato il 23 settembre 1947 per conto

di Centrone. In tale sede i due legali impugna-vano altresì la sentenza potentina perché avevaqualificato cooperazione imme diata la fuga delloro assistito: una classificazione contrastantenon solo con la distinzione tra correità e com-plicità proposta da Pessina e da Manzini (e ba-sata sull”‘efficienza causale dell’azione”), maanche con la giurisprudenza.

Gli avvocati - e non solo in questo passaggioconclusivo della vicenda - denotavano un uti-lizzo degli strumenti dottrinali tutt’ altro cheraffinato, ma efficace. Poche, essenziali cita-zioni bastavano a scuotere castelli argomenta-tivi obiettivamente fragili, come quello innal-zato dai magistrati lucani.

Il 22 marzo del 1948 la I Sezione penale del-la Corte di Cassazione dichiarò inammissibilii ricorsi av verso la sentenza della Corte d’As-sise di Potenza presentati da Mele, De BellisFrancesco, Tarsia in Curia, Cassano, Lovec-chio e Lorusso Angelo, condannando i ricor-renti alle spese. Nei confronti di Lorusso Lui-gi, Berardi, Pace, Lofano, De Bellis Vitanto-nio, Fanelli e Centrone, “ritenendo la preterin-tenzionalità dell’ omicidio”, la Suprema Cortestabilì di “non doversi procedere, per estinzio-ne del reato a seguito di amnistia annullandosenza rinvio la impugnata sentenza”. Il colle-gio ordinò “la scarcerazione dei detenuti [...]e la revoca nel mandato di cattura nei riguardidel Lorusso Luigi”.

Il trionfo della preterintenzione, che la sen-tenza potentina aveva ambiguamente schivato,e l’amnistia Togliatti sigillavano definitiva-mente un processo che sempre più appariva ladolorosa appendice dell’omi cidio. “Stonano leprivate passioni”: così il figlio di Di Vagnoaveva motivato la scelta di ritirarsi dalla scena.Forse, più che una mossa tattica, un disillusopresagio. s

Marco Nicola MilettiProfessore Ordinario di Storia del Diritto

Università di Foggia (Pagine dedicateal ricordo di Giuliano Vassalli

N on solo la vicenda dell’assas-sinio “strategico” di Di Va-gno è fissata nella sua storia,

ma lo è stata, di conseguenza, anche quelladell’interpretazione e del modo di come la siè vissuta: dalle reazioni poli tiche all’intero iterprocessuale sino alla memoria che l’ha accom-pagnata. Del resto, anche in tempi più recenti,se dell’assassinio del parlamentare socialistaè stato offerto un approccio che in parte si sot-traeva al tradizionale paradigma del fascismo,nondimeno la figura storica di un Di Vagnomartire della rea zione continuava ad essere ri-tagliata su un cliché che, pur volendone esal-tare la dimensione antifascista, ne svisava inqualche misura percorso e significato storico.

Come abbiamo visto, l’assassinio fu stret-tamente legato all’impressione suscitata dalleelezioni del ‘21, dal loro risultato nelle areeurbane e dal contesto aperto dal patto di paci-ficazione. Se è questo il quadro generale, nelquale il fascismo agrario, quello non “onesto”secondo la classificazione di Colapietra, giocòcertamente un ruolo dirompente nel frantuma-re equilibri stabilizzati, si rischia tuttavia per

qualche verso di configurare il delitto comefrutto di una resa dei conti negli equilibri in-terni del Pnf, nel quale i soliti agrari avrebberogiocato un ruolo determinante, Sfugge in talmodo non solo la delicatezza del movimentodei rapporti di forza che si andavano costituen-do, dove sembrava che l’azione militare dei fa-scisti nelle zone “rosse” non bastasse a ridi-mensionare il radicamento socialista e capo-volgere i numeri del consenso, perché que-st’ultimo veniva riacquisito proprio in quei ter-ritori nevralgici dove era dato per minoritario(il rapporto città-campagna giocava un po’ pertutti!). Ma sfugge soprattutto - e sfuggiva agliocchi dei contemporanei - la dinamica gene-rale del fascismo, la quale individuava natu -ralmente i suoi avversari più pericolosi, indi-rizzando in quella direzione la violenza “pri-vata”, in quelle forze e in quelle figure che po-tevano costituire un ostacolo alla distruzionedelle aggregazioni politiche intermedie e allasemplificazione antagonistica dei soggetti.Questa natura del movimento fascista non fupercepita: si riteneva che anch’esso, al di là digiustifìcate reazioni radicali, fosse interessato

■ COMPRESE LA NATURA DELLA TATTICA FASCISTA

FU OMICIDIO POLITICOL’OSTACOLO ERA IL RIFORMISMO

Ennio Corvaglia

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in fondo (o, magari, dovesse essere costrettodalle rampogne) alla restaurazione di un qua-dro moderato e meno conflittuale. Non saràcasuale che, assieme alla scomparsa del pattodi pacificazione, si assistette ad un primo ridi-mensionamento della figura e del ruolo di Ca-radonna: una gran parte dello stesso fascismo,pur ap prezzando una certa utilità dell’uso dellaviolenza ed ereditandone i frutti, prese le di-stanze dall’“estremismo agrario”. Cominciòda allora ad emergere la figura di Di Crolla-lanza che operò in direzione di una ricostiru-zione di un blocco sociale a direzione urbana,riuscendo in seguito ad integrare forze e cetiche precedentemente si erano riconosciuti an-che nel variegato mondo del socialismo,

In quel contesto, da parte delle sinistre nonsi voleva riconoscere al fascismo la patente diun movi mento in grado di guidare il fronte“borghese”, ma ricondurlo ad un aggregato di“mercenari”, insigni ficanti al di là dei verimandanti: dall’altra parte, moderata, si avan-zava un ragionamento non dissimile, in quantoil fascismo era solo ospitato nelle fila del bloc-co nazionale. Nonostante le violenze si fosseroprolungate ben oltre la fine delle elezioni po-litiche, alle quali si volevano secondo tradizio-ne legate, sia l’opinione socialista, sia quellamoderata si trovavano d’accordo nel far risa-lire il delitto alle conseguenze di una conflit-tualità tradizionale - in tal senso era interpre-tata la presenza dei cerignolesi nell’atten tatodel maggio a Conversano - che aveva magaritrovato nell’odio dei notabili spodestati e deiloro accoliti un nuovo terreno fertile per rie-splodere con maggiore virulenza. L’Araldo, inun appello alla riconciliazione, tesseva ineditelodi alla vittima nel quadro di un indirizzo tut-to teso a ricondurre il delitto a motivazioniestranee alla storia, alla cultura e alla civiltàdel Mezzogiorno, dove non allignava la vio-lenza politica e che poteva addirittura “serviredi esempio alle altre parti d’Italia”. Occorreva.quindi, sottrarre il delitto ad ogni interpreta-zione che lo potesse riferire a nuove dinamichesociali e politiche. Era la riproposizione di unmodello edulcorato dei rapporti sociali e poli-tici dominanti che proprio Di Vagno, con lasua attività politica, aveva sostanzialmente ri-fiutato.

All’indomani del delitto, perciò, fu eviden-te una sorta di generalizzato tentativo di “spo-liticizzare” l’assassinio, riconducendolo al cli-ma creato dall’agraria nel quale le vecchie fa-zioni comunali avevano ri preso ruolo e fiato.Del resto, l’interpretazione fascismo che con-tinuava a prevalere, specie dopo che per qual-che tempo le violenze vennero attenuate ancheper l’impressione che il delitto aveva suscitatonell’opinione pubblica, rimaneva quella oscil-lante tra l’attribuzione ad esso della qualificadi strumento operativo degli agrari, ovvero unasua affiliazione alla criminalità comune e, nelcampo democratico, alla sua identificazione al-l’interno di una continuità storica col giolitti-smo e con le ben note camarille comunali. Cosìl’interpretazione che si dette del delitto fu com-misurata, magari mescolandola, su quella chesi dava del fascismo. Enrico Ferri, nella com-memorazione, parlava del fascismo come diun’accolita di “disoccupati e malviventi” eViolante, nella biografia, definiva l’assassiniocome “delitto di bassa cri minalità”, quasi a vo-ler porre una barriera morale tra la vittima e isuoi carnefici. Tria e Delfino Pesce sottolinea-vano sulla scia di un verbale redatto dagli ami-ci, nell’ottobre del ‘22, come non si fosse trat-tato di un “delitto politico”, ma che il parla-mentare fosse rimasto vittima “dei suoi avver-sari politici di Conversano”, ossia si trattassedi un delitto concepito nell’ambito di quelle fa-zioni che l’avvocato aveva estromesso dal po-tere municipale. D’altra parte, lo stesso Vella,

in un intervento alla Camera del marzo del ‘22ribadiva la tesi di un Di Vagno “vittima del li-vore e dei contrasti comunali”, caduto “per ra-gione di fazioni municipali”. Ancora nel ‘44Tommaso Fiore attribuiva il delitto “al feroceodio paesano” e, addirittura, ai fatti del Consi-glio provinciale del 1917.

Si può ragionevolmente affermare chel’opinione che metteva in collegamento il de-litto - al di là delle dinamiche reali e di un’ana-lisi differenziata - con la natura e l’afferma-zionc nazionale del fascismo co minciò ad es-sere avanzata con una certa limpidità solo nel‘24 all’indomani del delitto Matteotti. Nellacommemorazione del settembre “Puglia So-cialista” attribuiva ai fascisti l’interpretazionedel delitto come vendetta interna alle fazionidi Conversano e, in un altro articolo, s’inqua-drava nettamente l’assassinio di tre anni primacome il “preannunzio di quel terribile periodoche stiamo ancora attraversando”.

Solo in questo quadro ri sultano compren-sibili i termini storici del dibbattito processua-le nel corso del quale difesa e parte civile sem-brano concordi nell’escludere la natura politi-ca dell’assassinio e, soprattutto, che esso ossaricondursi ad uno scontro frontale tra fasci smoe socialismo che non sarebbero, invece, chemaschere di ben altre contrapposizioni: “il fa-scio - si scrive nella memoria difensiva - nonè che un mezzo”. La difesa, in parti colarequella che tutelava i più esposti e riconosciuti

assalitori, impostava la sua linea sull’ori ginelocale della maturazione del fatto di sangue esul con seguente carattere “irriflessivo”, dovu-to alla giovane età, dell’azione degli esecutori.Naturalmente la ricostruzione data del ruolo diDi Vagno era quella di un fomentatore d’odioe di un politico che “per smodata ambizioneed arrivismo creò in Conversano una sezionesocialista, pur non essendo egli in sua coscien-za un socialista, ma un ricco ed interessatobor ghese”: un moderato, in sostanza, divenutoestremista solo per ambizione. Il delitto, anziil “crimine d’ambiente”, come si esprimevanoalcuni avvocati della difesa, diveniva per con-seguenza “l’inevitabile epilogo di un inconci-liabile stato d’animo”, anzi addirittura una“necessità fatale per il pubblico bene, per lapace cittadina”. Di Vagno, in fondo, “volle se-minare il vento e raccolse la tempesta”, lui che“aveva seminato tanto odio e tan lo dolore”.Quest’impostazione, così diversa peraltro dal-le stesse giu stificazioni di Caradonna che in-

dicava il deputato socialista “tra i più tempe-rati” (naturalmente per giu stificarsi la suaestraneità alla vicenda), aveva certo il doppioscopo di escludere ogni “premeditazione” - di-segnando un clima generalizzato - ed ogni“correità morale”; ma contemporaneamenteintroduceva una subdola tesi politica facendoriferimento ad una “classe borghese” esaspe-rata contro il deputato, contro cui la giovanileesaltazione aveva creato l’occasione di unaunion sacrée. In questa luce il nota bilato loca-le non aveva nulla a che fare con l’ideologiadella violenza, non era responsabile dell’ope-rato dei giovani, ma ad esso si rivendicava ilruolo di restauratore della “pace cittadina”contro coloro che “volevano portare il bolsce-vismo in Italia”.

L’approccio della parte civile era esatta-mente simmetrico: origine del delitto internaai fatti ammini strativi, “rancori” suscitatidall’azione fattiva di Di Vagno, esclusione diquestioni di natura ideologica. Diversa. in que-sto caso, era la ricostruzione dell’attività poli-tica dell’ avvocato conversanese: Di Vagno erastato il modernizzatore della vecchia e poveravita politica cittadina dominata dal sopruso,sempre preoccupato che il dibattito si mante-nesse nei toni della moderazione, difensoredella crescita economica e civile dei ceti po-polari. La tesi difensiva, quindi, riconoscendoche l’odio nasceva da “interessi personali lesi”e non “dal contrasto delle idee politiche” e in-

dividuandolo nel notabilato messo ai marginida Di Vagno e i suoi amici, collegava la “gio-vinezza irriflessiva” all’opera di adulti cheavrebbero “inoculato” l’odio nelle menti deipiù giovani. Il problema della parte civile era,evidentemente, quello di dare espres sione giu-diziaria alla teoria della premeditazione e della“correità morale” del norabilato conversanesee, sul piano politico, contrapporre agli spasmisanguinosi del vecchio mondo che crollava lafigura di un maestro della nuova umanità.

È di rilevante interesse osservare come do-po l’annullamento della sentenza del processodi Trani da parte della Corre di Cassazione el’apertura di uno successivo prima a Bari e poia Potenza, le motivazioni poste alla base delnuovo processo dalla parte civile - alla finedell’esperienza fascista e nel corso di una resadei conti con il trascorso regime - ribaltinol’impostazione primitiva. incardinata sulla ge-nesi locale ed amministrativa del delitto, e ri-conducano l’intera vicenda al regime stesso e

al dispiegamento della sua intrinseca violenza,spostando dai notabili al fascismo storico laresponsabilità non solo morale ma direttadell’assassinio. Un’impostazione che dovevafar arretrare già alla fase vissuta da Di Vagnoil clima di pres sione e di controllo quasi totalesulle istituzioni, dalla polizia all’Arma, daiprefetti alla stessa magistratura. Non era per-ciò affar da poco - le raffinate analisi sul “to-talitarismo imperfetto” e le sue dinamiche in-terne erano di là da venire - difendere questetesi soprattutto sul piano giudiziario, mentreper altri versi le passioni politiche proiettavanol’immagine di una realtà conflittuale che nonera esattamente quella nella quale il delitto siera consumato. Sul filo di quest’approccio sisvilupperanno anni dopo le tesi sul “Matte ottidel Sud”, quelle che eleveranno il socialista diConversano a figura simbolo che agisce senzaconfini di spazio o limiti di tempo”, il suo so-cialismo “venato di umanitarismo” e l’esalta-zione - che per gli avversari era stata la testi-monianza vivente del tradimento - delle sueorigini non proletarie.

È anche vero, peraltro, che il tema del sa-crificio del martire era stato ripreso e diffusodalla stampa del Partito comunista, di cui al-cuni esponenti erano stati all’epoca arcigni av-versari dell’avvocato con versanese. La cosa,peraltro, offriva il destro alle accuse della di-fesa che adombravano l’idea della nascita diun nuovo “clima di coercizione” che impone-va la riapertura di un processo nei confronti dichi era stato già assolto e che anche nuove in-dagini sembravano non coinvolgere. Si contri-buiva così a dare al processo un timbro politi-co che non solo avrebbe aperto spazi alle tesidella difesa, ma gettava qualche contraddizio-ne nei sostenitori. Lo stesso avvocato Papaliaera conscio della difficoltà di ricostruire dopo24 anni attraverso le testimonianze le forme dipressione esercitate allora e, potremmo ag-giungere, dopo una sentenza della quale buonaparte del mondo democratico, e non solo al-l’epoca, aveva riconosciuto una sostanziale ir-nparzialità.

È significativo perciò che gran parte dellemotivazioni che la parte civile aveva sostenutoall’indomani dell’assassinio siano ora assuntequasi integralmente dalla difesa per legittimarela regolarità del processo di Trani. L’accaduto“non fu un delitto fascista” ma, come già ave-vano sostenuto gli avvocati Tria e Tanzarella,amici personali di Di Vagno, nacque nel con-testo delle lotte municipali e dei locali “odiiinveterati”: non ebbe “radici in contrasti dipartiti politici sul piano nazionale, ma fu l’epi-logo di antiche ed accanite lotte tra le fazioniamministrative del comune di Conversano”.Così si esprimevano gli avvocati Angelucci eBotti, difensori di un imputato prosciolto nelprimo processo, che parlarono anche di vecchi“parruc coni” che non sopportando l’aria nuo-va introdotta da Di Vagno instillarono nei figlil’odio contro di lui, in una sorta di “vendettalocale”. E si trattava di una tesi tra i cui soste-nitori vi erano anche testimoni della difesa, tracui Loiacono, uno dei fondatori del partito po-polare barese, che aveva ricordato come l’ade -sione al socialismo di un proprietario come DiVagno fosse stata presa malissimo dal “partitodei signori di Conversano”. Lo stesso Loiaco-no aveva sostenuta l’altra tesi, connessa allaprima, che il fascismo “non nacque qui ma vifu importato dal settentrione d’Italia. S’innestòperò e diede colore all’agrarismo e al lassismolocale”. Il fascismo, quindi, come “merced’importazione”, testimoniata dal “pochissimovalore personale - è la tesi anche di Angeluccie Botti - e da nessuna influenza”. In questoquadro non mancava - con l’esclusione di al-cuni difensori - il tributo alla vittima e il rife-rimento alla sua moderazione politica.

Commemorazione Di Vagno, settembre 1963 con l'on. Leonetto Amadei, sottosegretario all'Interno

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1946-1947 - L’AVVIO DEL DIBATTIMENTO TRA FORTI

TENSIONI POLITICHE

“Ieri per l’inizio del processo Di Vagno, ilpalazzo di Giustizia aveva assunto l’aspetto diuna fortezza, funzionari, ufficiali dei carabi-nieri e della polizia, con circa 200 uomini a di-sposizione; metà di via Garruba, dove dove-vano transitare i detenuti, sbarrata dalla forzapubblica, dovunque pattuglie armate”.

Con queste espressioni il maggiore quotidia-no pugliese, il 5 dicembre del 1946, presenta-va l’avvio del dibattimento, soffermandosi sul-la protesta degli avvocati difensori degli im-putati. Infatti, dopo l’annuncio del presidenteMasi di rinvio a nuovo ruolo della causa - erastata presentata dagli avvocati della parte ci-vile istanza alla Corte di Cassazione di remis-sione del processo in altra sede - il collegio didifesa degli imputati stilò un documento diprotesta inviato tra l’altro al Capo dello Statoed al ministro della Giusti zia, nel quale si au-spicava che “interessi particolari ed interessidi propaganda politica non valgano a disto -gliere dalla competenza ordinaria e naturalegiudizi che localmente possono svolgersi inpiena serenità.

Nei giorni precedenti il quotidiano socialistal’“Avanti!”, diretto da Pietro Nenni, era inter-venuto sull’andamento del processo agli assas-sini di Di Vagno denunciando la composizionedel nuovo Collegio giudicante, che risultavaformato da due persone iscritte all’Uomo Qua-lunque, la lista del partito di Gu glielmo Gian-nini (punto di riferimento in Puglia di un vasto

fronte monarchico-conservatore), nonché diun esponente del passato regime che, nel pro-cesso di epurazione, fu patrocinato dallo stessodifensore di due dei principali imputati.

Il quotidiano socialista non risparmiava at-tacchi ad alcuni avvocati degli imputati, inparticolare l’av vocato Giuseppe Perrone Ca-pano (eletto alla Costituente nella lista demo-liberale) denunciava la nuova dimostrazionedi forza delle forze conservatrici e degli agraripugliesi”.

Alla denuncia dell’“Avanti!” seguì la fermapresa di posizione degli avvocati difensori del-la famiglia Di Vagno, che alle accuse di volerritardare il processo, così replicarono:

il tempo maggiore è stato speso per decideresulle eccezioni proposte preliminarmente dai di-fensori di alcuni imputati e contrastate, come erasuo dovere dalla parte civile, che dovè combat-terle apponendone altre; per la susseguitaneasupplementare istruttoria, richiesta non dalla par-te civile, ma dagli imputati vennero proposti. Èvero che il clima locale di allora diverso da quel-lo attuale, non consigliava ai sol erti patroni degliimputati di avere soverchia fretta, ma è altrettan-to vero però che la insorta e inspiegabile premuradi oggi non autorizza i difensori a dolersi, forseper una ragione che solo ad essa il decorso deltempo non avrebbe giovato.

Nella risposta degli avvocati di parte civilePapalia e Catalano, infine, si stigmatizzò il ri-chiamo agli interessi particolari e di propagan-da politica indicati dai difensori degli imputatied al contempo si de nunciò l’atteggiamento

della stampa locale, “immemore delle nefan-dezze del delitto, nonché del dolore eterno deifamiliari dell’ucciso e sensibile solo alle sof-ferenze attuali dei rei [...]”.

Con un tempestivo pronunciamento la Cortedi Cassazione, nel gennaio del nuovo anno, ac-colse la richie sta degli avvocati della famigliaDi Vagno e indicò Potenza come nuova sedeper lo svolgimento del processo. La Corted’Assise del capoluogo lucano, infine, fissòl’inizio del dibattimento, il 27 giugno del 1947.

Tra gennaio e giugno del nuovo anno, tutta-via, il clima politico nazionale e locale registròalcuni si gnificativi cambiamenti. La tensionepolitica salì, ulteriormente, di tono per l’oppo-sizione della grande proprietà terriera alle mi-sure per fronteggiare la disoccupazione. A Ba-ri, a Lecce alla fine del 1946 si verificaronoduri scontri tra manifestanti e forza pubblica acausa dei ritardi nell’assegnazione della fa rina,che risultava ancora contingentata. Nei primimesi del 1947 in alcune località della Puglia,furono incendiate le Camere del lavoro, tra cuiquella di Gioia del Colle.

Non diversa si, presentava la situazione inaltre aree del Mezzogiorno. Il Presidente delConsiglio dei Ministri, Alcide De Gasperi, inun discorso radiofonico del 29 aprile 1947,non celando le sue forti preoccupazioni per lasituazione economica e politico sociale, affer-mò: “Un soffio di panico e di follia attraversacerte zone del paese, la speculazione fredda-mente calcolatrice gioca al rialzo, nasconde lemerci, trafuga all’ estero valute e gioielli, e at-tende in agguato la crisi nella criminosa spe-ranza di farsi ricca nella miseria generale”.

Dopo appena due giorni dall’allarme del Ca-po del Governo, il terrorismo di matrice ma-fiosa mise in atto uno dei suoi primi misfatti.A Portella della Ginestra (vicino Palermo), unnucleo ar mato di banditi capeggiato da Salva-tore Giuliano aprì il fuoco su una folla di con-tadini e braccianti inermi, tra cui donne e bam-bini, che si apprestavano a celebrare il l° mag-gio, Festa del lavoro, pro vocando 11 morti e27 feriti. La strage rappresentò l’epilogo diuna lunga serie di attentati contro Camere dellavoro e sedi di partiti di sinistra. SalvatoreGiuliano era in contatto da tempo, come emer-se dalle vicende processuali, con apparati delloStato e con la sezione italiana dell’Oss (Servizistrategici degli Stati Uniti).

Ma a tenere desta l’attenzione del confrontopolitico fu la diaspora socialista che, nei primimesi del ‘47 polarizzò l’attenzione generale.Dalla “scissione di Palazzo Barberini”, decisaall’indomani del XXV Congresso socialista,che si aprì a Roma il 9 febbraio 1947 e capeg-giata da Giuseppe Saragat, so stenitore di unavisione del socialismo non legata a rigide im-postazioni di classe, si produsse una nuovaformazione, il Partito socialista dei lavoratoriitaliani (Psli) che raccolse gran parte del vec-chio gruppo riformista. Il socialismo riformi-sta trovò nel capoluogo pugliese solidi puntidi riferimento in Eugenio Laricchiuta, uno deifondatori del Psi in “Terra di Bari” nel primodopoguerra, fondatore della sezione baresedell’Umanitaria” nel 1919, assieme a PeppinoDi Vagno. Seguirono il vecchio leader socia-lista, tra gli altri, l’avvocato Giuseppe Di Va-gno, figlio del deputato socialista di Conver-sano, l’avvocato Do menico Paparella e il gio-vane Rino Formica.

Anche nel capoluogo pugliese nel gennaio1947 si determinarono significativi cambia-menti sul fronte politico amministrativo. I duemaggiori protagonisti dello scontro politico,l’avvocato Giuseppe Papalia, punto di riferi-mento della coalizione di sinistra e l’avvocatoCarlo Russo Frattasi, (il fratello Vittorio difen-deva uno degli imputati del processo Di Va-gno) a capo di una coalizione di destra, dopo

la paralisi post-elettorale di circa due mesi e lagravissima crisi sociale che aveva investito lacittà, raggiunsero un accordo. Si pervenne, in-fatti, all’elezione di un sindaco, Antonio DiCagno della Dc e di una giunta che includevaesponenti delle due opposte coalizioni.

I riflessi, come vedremo, si registreranno,anche sull’andamento del processo agli assas-sini di Di Vagno, considerando il ruolo politicosvolto dagli avvocati dei diversi studi legalicoinvolti nel pro cesso, in particolare lo studioRusso Frattasi, del collegio di difesa degli im-putati e lo studio Papalia rappresentante dellaparte civile, nel quale prestava la sua opera ilgiovanissimo Giuseppe Di Vagno juruor.

In pochi giorni, prima dell’avvio del dibat-timento, si assistette ad una radicale svolta po-litica con l’uscita di scena della sinistra dal go-verno di unità nazionale che, senza soluzionidi continuità, sin dal 1944 aveva caratterizzatoil processo di transizione dalla Monarchia allaRepubblica. Nella nuova com pagine governa-tiva, guidata da Alcide de Gasperi, si determi-nò una egemonia neoconservatrice in settorichiave dell’organizzazione statuale, tra cui laPubblica istruzione, affidata a Guido Gonella,il ministero dell’Interno assegnato a MarioScelba e il ministero di Grazia e Giustizia at-tribuito a Giuseppe Grassi, un giurista salenti-no di formazione liberale.

1947 - IL PROCESSO A POTENZATRA PACIFICAZIONE E OCCULTAMENTO

DELLE RESPONSABILITÀ

Il fatto nuovo che caratterizzò l’avvio del di-battimento nel capoluogo lucano, una delle cittàdove il processo di defascistizzazione ebbe unadebole rilevanza, fu una dichiarazione da partedi Giuseppe Di Vagno junior, giovanissimo av-vocato che prestava la sua opera nello studioPapalia. Il giovane Di Vagno, con una signifi-cativa lettera al presidente della Corte, così mo-tivò il ritiro della costituzione di parte civile:

Compio il dovere di comunicarLe che mi sonodeciso a non insistere nella costituzione di P. C.a suo tempo eseguita contro gli assassini di miopadre. Dopo la morte di mia madre che seppe,superando l’angoscia e lo strazio, proteggermi edavviarmi alla vita ispirandosi alla memoria ed alculto del nostro grande scomparso, sono rimastosolo di fronte a coloro che a me ed ai miei hannorecato il più grande dolore. Come figlio sento dinon poter perdonare gli assassini di mio padre,come cittadino non posso indulgere verso chipensa di soffocare nel sangue la libertà e tentò dicontrastare con il delitto l’ascesa degli umili.Comprendo per altro che in questo pro cesso, i cuiriflessi hanno tanta importanza per la democraziaitaliana, stonano le private passioni e che il giu-dizio deve essere affidato al popolo contro le cuilibertà, attraverso la soppressione di mio padreche le rivendicava, vollero agire i prevenuti ed iloro mandanti; e resti il popolo del tutto libero digiudicare i suoi nemici secondo legge e giustizia.

La lettera riflette in primo luogo la determi-nazione materna, manifestata sin dai giornisuccessivi alla caduta del fascismo, di non ali-mentare il clima di per sé carico di tensione aConversano, per il coinvol gimento di diversedecine di famiglie degli imputati, quasi tuttiappartenenti alla media e piccola bor ghesiacittadina, medici, insegnanti, impiegati, non-ché piccoli proprietari e imprenditori. Al prin-cipale imputato Luigi Lorusso, medico del lo-cale ospedale, non erano mancati, nel corso delprocesso, segni di amicizia da parte di colle-ghi, esponenti dell’amministrazione comunalee della Curia come si evidenzia anche dal nu-

Del resto, poiché molte, e non di parte, era-no state le testimonianze a favore dell’“integri-tà” dei giudici di Trani, la parte civile aveva in-sistito sul carattere “ambientale” e non perso-nale delle pressioni. Era stato facile però, perla difesa, ricordare come all’epoca ben pochiimmaginavano che il fascismo meno di un an-no dopo sarebbe andato al potere, e come essoavesse a Bari ben pochi “proseliti” e non pre-occupasse le autorità. Era obiettivamente dif-ficile dimostrare la tesi espressa poi nitidamen-te da l’“Avanti!”. Dopo la sentenza che il de-litto fosse stato opera di un fascismo che, nonancora giunto al potere, già riceveva il plausodelle vecchie classi dirigenti con la complicità“dell’alto capitale terriero e industriale”.

Che il delitto fosse iscritto negli insonda-bili umori della vita locale. oppure che fosse ilprodotto naturale di un regime nazionale che,magari, aveva nel Nord d’Italia il suo luogod’elezione, ambedue le spiegazioni erano de-stinate a non fornire le basi né di un solido per-corso giudiziario, né di una con vincente spie-gazione storica. Quelle interpretazioni non era-no in grado di dar conto esaurientemente delsignificato del cursus politico, purtroppo assaibreve, di Di Vagno: innestare il mezzogiorno,con il riscatto del suo secolare lavoro e la suastoria civile, nel corpo del socialismo e del pro-gresso sociale. In fondo il suo assassinio testi-moniava proprio ciò su cui pochi all’epocaavrebbero scommesso: che anche il Mezzo-giorno era stato pienamente investito dai pro-

cessi di modernizzazione e che le dinamichesociali e politiche che l’investivano non eranosostanzialmente diverse da quelle dell’interopaese. È accaduto così che per molto tempo ilricordo incancellabile del “gigante buono” fos-se affidato alla memoria di chi lo conobbe e dichi, attraverso le testimonianze orali e scritte,ha voluto ispirare alle sue tracce l’impegnomorale e politico. Non era facile tradurre in di-segni politici e pregnanti ricostruzioni storichequel ri tratto così vivido e plumbeo dei funeralidi Peppino Di Vagno, con la sua folla dispera-ta, rabbiosamente primitiva, quale ci è statofissato nelle parole commosse del suo anticoamico Raffaele Pastore: “Non posso descriverelo schianto della popolazione di Conversano ilgiorno dopo, quando il corteo funebre girò peril paese sotto una pioggia torrenziale; una follaimmensa piangente taceva ala al corteo, quan-do la massa di popolo venuta da tutta la pro-vincia uscì dal paese e si avviò verso il cimite-ro vi fu un fuggi fuggi. Si sparse la voce cheda un balcone del personale autore del delittosi era tentato di sparare contro il corteo; vi fuun momento di sbandamento ma la massa su-bito si riprese e mentre una parte del corteocontinuò verso il cimitero, l’altra parte tornòindietro, assalì la casa, sfondò la porta e primache la pub blica sicurezza arrivasse, invase lacasa mentre il padrone fuggiva sui tetti. s

Ennio Corvaglia – Docente di ScienzeStoriche dell’Università di Bari

■ TENSIONI POLITICHE PERMANENTI

LA REVISIONETRA REAZIONE E DEMOCRAZIA

Vito Antonio Leuzi

18 ■ CRITICAsociale7 / 2011

mero rilevante di testimoni, tutti appartenential mondo delle professioni. La stessa situa -zione si determinò anche per tutti gli altri im-putati, i cui difensori chiamarono a deporre,insegnanti e compagni di Liceo sull’“indolemite” nella vita scolastica e sulla condotta “pa-cifica” negli anni del re gime. Per alcuni di essisi mise in luce, in particolare, un dato rilevanteai fini processuali, quello di non aver tratto be-nefici dal fascismo.

Esponenti della Curia di Conversano, tra cuimonsignor Gallo, molto noto nell’ambientescolastico e culturale (docente di lettere clas-siche preso il Liceo-Convitto) erano interve-nuti a favore di alcuni im putati, suscitando an-che commenti critici sulla stampa dell’epoca,

In particolare il quotidiano di sinistra “LaVoce della Puglia” con un titolo significativo,“Un sacer dote tesse l’elogio dell’ esecutoremateriale del delitto”, stigmatizzò soprattuttola richiesta di assoluzione generalizzata avan-zata dal prelato.

Nel corso del dibattimento a Potenza si ve-rificarono, in occasione di diversi incidentiprobatori, reiterati attacchi al pubblico mini-stero, I difensori degli imputati cercarono dieludere abilmente ogni riferimento al contestopolitico-ambientale e scolastico-familiare, incui erano cresciuti i giovani partecipanti allaspedizione squadristica di Mola (l’influenzaideologica del nazionalismo, l’esaltazio ne del-la guerra, il clima di odio nei confronti delneo-deputato). Bisogna poi considerare che di-versi imputati avevano da poco terminato glistudi secondari superiori e risultavano iscrittia facoltà uni versitarie.

Gli anni trascorsi al Liceo e all’annessoConvitto (frequentati negli ultimi anni del pri-mo conflitto mondiale e nell’immediato dopo-guerra) si caratterizzarono per l’intensa propa-ganda nazionalista e per l’educazione al pa-triottismo esasperato che rappresentarono l’al-veo ideologico-culturale su cui si inne starono,poi, le logiche della violenza squadristica. Al-cuni aspetti di questa pericolosa miscela ideo-logica trovano conferma nella memoria in pie-tra (lapidi affisse nell’ atrio della scuola) e neidiscorsi ufficiali del preside Rettore, monsi-gnor Donato Forlani (sacerdote patriota), perl’inaugurazione dell’anno scolastico o in oc-casione delle ricorrenze celebrative per i ca-duti del primo conflitto mondiale.

L’avversione antiproletaria e antisocialista,nei confronti della persona di Di Vagno, eraalimentata dalle famiglie della borghesia libe-ral-conservatrice, ma anche dai settori più re-trivi della Curia come si evidenzia dal proces-so per i disordini del 25 febbraio 1921 - con-seguenti ad uno sciopero generale in detto intutta la provincia di Bari - dove alcuni sacer-doti furono chiamati a deporre contro dirigentied iscritti della Camera del lavoro e del Partitosocialista perché nel corso dello sciopero nonsi erano potute svolgere alcune funzioni reli-giose.5

Il fascio di Conversano, uno dei primi a sor-gere nella Terra di Bari, ambiva, inoltre, adesercitare un ruolo guida in tutto il Sud-Est ba-rese con gesta esemplari, tali da porsi all’al-tezza delle spedizioni puni tive organizzate nelNord della Puglia dalle squadre di Caradonna.Nel corso dell’istruttoria non erano stati indi-viduati elementi di responsabilità dirette deifascisti legati a Caradonna per la spedizione diMola del 25 settembre, tuttavia erano emersigli stretti legami tra lo squadrismo di Cerigno-la e quello di Conversano per le altre spedizio-ni punitive (in particolare i fatti del 30 maggiodel 1921).6

Questi importanti e significativi aspetti, peruna esatta collocazione della fisionomia degliimpu tati e del contesto in cui si sviluppò l’ope-razione squadristica di Mola, furono comple-

tamente elusi dal dibattimento che si svolse al-l’insegna di una indifferenza e stanchezza dif-fusa, interrotta sporadi camente da segni d’in-tolleranza di un vero e proprio esercito di av-vocati difensori. Tra questi ultimi si annove-rano noti giuristi, molti dei quali in prima lineanella vita politica, tra cui Giuseppe Perro neCapano, deputato alla Costituente per demoli-berali (fu nominato sottosegrerario nel quartoGo verno De Gasperi), Oronzo Massari, puntodi riferimento del movimento monarchi coqualunquista di Lecce), Tommaso Siciliani,esponente significativo delliberalismo prefa-scista che assunse delicati incarichi ministeriali sotto il Governo Badoglio, l’ono PasqualeCaso (vittima di un incidente stradale poco pri-ma dell’avvio del dibattimento a Potenza), An-tonio Gabrielli, costituente eletto nelle listedel la Democrazia Cristiana e Michele De Pie-tro, consultore nel 1945 (candidato alla Costi-tuente nel ‘46 ed eletto deputato nel ‘48 nelleliste della Dc), fu ministro della Giustizia neiprimi governi centristi.

Nel corso del dibattimento si verificaronodiversi incidenti probatori, in particolare, at-tacchi al pubblico ministero da parte del col-legio di difesa degli imputati. Il magistrato in-

quirente, infatti, per gli atteggia menti reticentie per le ritrattazioni delle dichiarazioni rese daalcuni testi, avanzò diverse richieste di arrestoper falsa testimonianza. Suscitò impressionela ritrattazione di un testimone che negò le di-chia razioni rese precedentemente e regolar-mente sottoscritte affermando di essere statocostretto a firmare (nella fase istruttoria infattidescrisse la distribuzione delle pistole e dellebombe nella sede del fascio di Conversano).

Tra le diverse ritrattazioni e contraddizioni- ben evidenziate dalle cronache giudiziariedell’ epoca - si evidenziarono quelle del vettu-rino, ingaggiato nel ‘22 per trasportare daConversano a Casamassima un gruppo di fa-scisti. Il teste nella fase istruttoria aveva soste-nuto di aver riconosciuto qualcuno dei gio -vani, armati di rivoltella e di aver sentito cheavevano in mente di uccidere Di Vagno; tutta-via nel corso dell’interrogatorio egli cercò dimodificare le dichiarazione sottoscritte e, in-calzato dalle domande del presidente della

Corte, finì con il confermare le dichiarazionirese in istruttoria.

L’andamento del processo nel capoluogo lu-cano, ripreso da pochi quotidiani, si svolse inclima di generale stanchezza e in un caldo op-primente.

Il quotidiano di sinistra, “La Voce della Pu-glia”, così commentò gli ultimi giorni del pro-cesso: “le voci roboanti, le sottilizzazioni deidifensori hanno creato nella sala una soddisfa-cente atmosfera di ge nerale assoluzione”.

Tale situazione favorevole agli imputati nonfu modificata dalla lunga e puntuale requisito-ria del pubblico ministero che durò alcunigiorni e si concluse il 17 luglio con la richiestadi condanna per tutti gli imputati in ordine aldelitto di “omicidio premeditato”, sulla basedel codice penale del 1889. Le con danne, co-munque, furono diversificate (massimo trent’anni e minimo quindici anni) in base anche all’età degli imputati all’epoca del delitto; fu, co-munque, richiesta l’amnistia per tutti gli altrireati.

Per il principale imputato, Luigi Lorusso, siavanzò la richiesta di condanna per “omicidiovolontario aggravato e qualificato come pre-visto dagli articoli 364,365 n. 2 e 336 n. 2 c.P.

1889, per avere la sera del 25.9.1921, in Moladi Bari, a fine di uccidere e, con premeditazio-ne, esploso vari colpi di rivoltella contro l’av-vocato Di Vagno Giuseppe a causa delle suefunzioni di Deputato in Parlamento Naziona-le”; mentre per tutti gli altri imputati fu pro-posta la condanna “di correità”, quali coope-ratori immediati, ad eccezione di Tarsia Incu-ria (solo per correità).

POTENZA, 31 LUGLIO 1947,UNA SENTENZA A METÀ

La Corte d’Assise di Potenza si pronunciòcon una sentenza che conteneva alcuni aspettidiscutibili e non senza evidenti contraddizionicome si evidenzia nella denuncia del quotidia-no socialista l’“Avanti!”.

Furono respinte, infatti, le richieste della di-fesa degli imputati di considerare il delitto DiVagno, determinato da risentimenti personali

e di “restituire agli imputati il beneficio del-l’amnistia della marcia su Roma”. Si ribadì, inparticolare il movente politico:

Il Di Vagno aveva il cervello e l’anima del so-cialista temperamento entusiasta e generoso.Amava il popolo e ne aveva sposato la causa conabnegazione e con fermezza. Nel suo passo avevatravolto tutto un passato. Egli mirava ad organiz-zare la Puglia socialista. Eletto deputato era l’apo-stolo più fervente della democrazia socialista.Quindi una visione larga ed integrale di politicagenerale, che non si adattava più agli interessiparticolari ed alle beghe personali di Conversano.Tuttavia è qui la sua tomba; è il proprio paese chescava la fossa. Si erano formati i fasci di combat-timento per contrastarlo con la violenza.

Dopo queste premesse e valutazioni di ca-rattere generale, tuttavia, il collegio giudicanteconsiderò la spedizione squadristica di Molanon legata agli altri precedenti e analoghi ten-tativi (Noci e Casamassima) di attentare allavita dell’esponente socialista di Conversanoed escluse, soprattutto, la premeditazione.

Su quest’ultimo e principale aspetto, su cuipoggiava l’impianto accusatorio, la sentenzagiustificò la scelta della “non premeditazione”,richiamando il pensiero di Francesco Rubichi,uno degli esponenti più noti del diritto penalenel Mezzogiorno tra Otto e Novecento:

Si ha la premeditazione quando nell’individuosono caduti tutti i venti dello spirito: Quindi nes-suna movenza di passione che alteri i moti dellapropria sensibilità. Invece erano minori degli an-ni 18 e degli anni 21 quando davvero le esorbi-tanze incrinano le normalità della vita e, per lomeno, sono facili agli entusiasmi. Cotesti giovanicantavano per le strade l’inno della loro fede po-litica, che ritenevano incrollabile ed arcisicuradel loro avvenire. L’abbandono a quella malsanaeuforia che è la base di quel movente politico ...Questi giovani partirono con la idea della violen-za, come era costume di tutti i fascisti. Ma nonsi può stabilire, per le predette considerazioni,che essi ebbero il premeditato, esclusivo propo-sito di uccidere. La violenza fu un prodotto dellecircostanze, pronti alla esuberanza giovanile,vollero uccidere il Di Vagno.

Nella sentenza emessa nel capoluogo lucano,sembrò dissolversi nel nulla tutto il contestonon solo politico-sociale e ideologico-cultura-le; mentre assunsero centralità le dinamiche re-lative alle modalità della partecipazione indi-viduale alla sparatoria ed al lancio delle bombe.Il cerchio delle responsabilità si restrinse soloa sette individui e si fissò il grado di imputabi-lità in base all’ età dei partecipanti alla spe -dizione a Mola. Si considerarono, infine, colo-ro che non parteciparono direttamente alla spa-ratoria, rei di “complicità non necessaria”.

Per uno dei principali imputati, TommasoCassano, si giunse infatti a questa valutazione:

egli stava in villeggiatura a Cozze, con la for-tuna di un calesse. Ebbe il torto di recarsi a Molacon i fascisti. In sostanza prestò il suo calesse acostoro, commettendo una di quelle leggerezzeche a volte nella vita sono fatali. Ma oltre di que-sto non si può andare ... Ed allora, nella gammainfinita della cooperazione delittuosa come pre-vista dal Codice Zanardelli, la sua opera rientranell’ipotesi della complicità non necessaria, cheè coperta dall’ amnistia del 22 giugno 1946.

Con analoghe argomentazioni giuridiche siritenne Saverio Tarsia Incuria imputabile di

complicità non necessaria ... perché l’addebitopiù immediato al delitto che gli viene fatto èquello di aver capeggiato una dimostrazione che

CRITICAsociale ■ 197 / 2011

si fece in Conversano ai fascisti, ossia agli attualiimputati, quando vennero am ministrati... Ora èrisultato che egli con altri amici volle salutarliper congratularsi dello scampato pericolo, e dallastazione fece direttamente la strada della sua ca-sa, senza accompagnarsi alla dimostrazione cherisulta neanche pro vata. In ogni caso il delitto erastato consumato; e quindi non può trattarsi di unacooperazione post facto. Rimane il telegrammaa lui diretto da Cerignola, ma neppure questo hauna relazione causale con l’eccidio di Mola...

Anche per il noleggio delle vetture che por-tarono gli squadristi a Mola, la Corte ritenne“che tutto questo non può superare il concettodi una complicità non necessaria, che è copertadall’amnistia?”.

La Corte d’Assise di Potenza scelse, dun-que, una via di mezzo tra la tesi degli avvocatidifensori dell’omicidio preterintenzionale - “sivoleva fare una chiassata per creare il disordi-ne nelle file dei socia listi” - e quella sostenutadall’ accusa dell’ omicidio premeditato e ag-gravato.

Esclusa, dunque, la premeditazione e l’ag-gravante (non fu ucciso per la funzione di de-putato secon do la Corte), furono condannatiper omicidio volontario e le pene variarono da18 anni per i maggio renni, De Bellis Vitanto-nio (unico imputato all’epoca dei fatti di etàsuperiore ai ventuno), a 12 anni per i minoridi anni ventuno, Luigi Lorusso, Vitantonio DeBellis, Angelo Berardi, Natale Pace, Domeni-co Centrone, Riccardo Lofano e Vito OronzoFanelli, inoltre per tutti, escluso il Lorusso,perché latitante, furono condonati 5 anni peramnistia.

Mentre si dichiarò di non doversi procedereper Domenico Ippolito, Alfredo Mele, France-sco de Bellis, Tommaso Cassano, Saverio Tar-sia Incuria, Nicola Lorusso, Donato Lovec-chio, Domenico Lestin gi, Angelo Lorusso perl’estinzione del reato di “complicità non ne-cessaria”, coperto dall’amnistia del 22 giugno1946.

Il quotidiano socialista “Avanti!” all’indo-mani della lettura della sentenza, il l agosto del1947 , assun se la decisione di riprodurre il cli-chè della testata del giornale, del 4 ottobre del1921, e il titolo ad otto colonne con il quale sidenunciavano, all’opinione pubblica italiana,le complicità politiche che erano alla basedell’assassinio del deputato socialista di Con-versano.

Per il giornale socialista “i giudici di Poten-za hanno favorito l’atmosfera assolutorianell’aula ed una generica convinzione di irre-sponsabilità collettiva. Essi hanno condannatoa metà e per metà hanno as solto, hanno esclu-so, ed è questo l’elemento di meditazione piùgrave, la premeditazione. Hanno persino as-solto senza prima giudicare a fondo chi assol-vevano. È stata una sentenza a metà...”.

1948 - LA CORTE DI CASSAZIONETRA L’AMNISTIA TOGLIATTI E LA

CANCELLAZIONE DELLE RESPONSABILITÀ DEL FASCISMO

Esclusa la premeditazione ed aperta la stradaper l’applicazione dell’ amnistia del giugno1946, non fu difficile per la Prima Sezione Pe-nale della Cassazione inserirsi, dopo pochimesi, nell’ atmosfera assoluto ria che aveva ca-ratterizzato tutto l’iter processuale nel capo-luogo lucano, nell’estate del 1947.

L’evoluzione del quadro politico generale,profondamente mutato dopo la rottura dei go-verni di unità nazionale e l’esclusione delle si-nistre dalla coalizione governativa, sembravafavorire questa tendenza. In tutto il periodoconsiderato, la magistratura soprattutto nel

Centro-Sud, disattese le esigenze di giustiziache erano alla base della legislazione specialedel 1944. “Numerose risoluzioni della Cassa-zione - secondo le puntuali ricostruzioni diFranzinelli - rivalutarono personaggi, metodie valori del fascismo ... l’intervento della Cas-sazione andò ben oltre il ristabilimento dellalegge. Le Corti di Assise e poi le Corti d’Ap-pello, spe cie nella Capitale e nell’Italia Cen-tro-Meridionale, accentuarono una deriva as-solutoria indiscriminata.

Il 9 agosto del 1946, Giuseppe Caradonna,noto per aver promosso le azioni più eclatantidello squa drismo pugliese, specializzato nelladistruzione delle Camere del lavoro e delle se-di dei partiti di sinistra, (una squadra partita daCerignola prese parte ai fatti del 30 maggio1921 a Conversano) fu amnistiato dal la sezio-

ne istruttoria della Corte d’Appello di Bari dalreato di “atti rilevanti”; mentre l’impugnazio-ne da parte del procuratore generale che ricor-se in Cassazione fu respinta con “una sbriga-tiva motivazione”.

Sulla stessa lunghezza d’onda, nell’ ottobredi quell’ anno, la Corte d’Appello di Roma di-chiarò estinti per amministra i reati contestatiad Araldo (di) Crollalanza, ai vertici dell’azio-ne di governo e del par tito, negli anni del Re-gime, presidente dell’Opera nazionale Com-battenti, attivo sostenitore delle scelte guerra-fondaie nella seconda metà degli anni Trenta,delle politiche razziali ed infine esponente del-la Repubblica sociale italiana, dove si occupòdell’attività legislativa.

Il nuovo Guardasigilli, illiberale GiuseppeGrassi, noto giurista salentino di formazione li-berale, le gato da vincoli di amicizia a diversiavvocati difensori degli imputati del processoDi Vagno, fu l’estenso re assieme ad Andreottidello schema di un decreto legge del 7 febbra-io1948, n. 48 che dettava “Norme per la estin-zione dei giudizi di epurazione e per la revisio-ne dei provvedimenti già adottati”, al fine diraggiungere una pacificazione generale (nel go-verno unica voce discordante fu quella del mi-nistro degli Esteri Carlo Sforza, repubblicano).

Appare evidente il disegno neo conservatore

di togliere di mezzo la legislazione contro i de-litti fa scisti. Bisogna poi considerare che, a po-che settimane dalla prova elettorale per l’ele-zione del primo Parlamento repubblicano, fuvarato un altro decreto legge il 19 marzo 1948,che ripristinava i benefici di carriera ai membridella milizia. Il decreto Grassi-Andreotti “re-vocò licenziamenti, retrocessioni di qua lifica ecancellazione degli albi professionali dispostenei confronti dei fascisti - in gran parte squa-dristi ed elementi che avevano infierito controgli oppositori - e li reintegrò nel pubblico im-piego col diritto alle mensilità arretrate”.

La Prima Sezione della Corte di Cassazione,che aveva con diverse sentenze” disinnescatoin vario i reati tipici dello squadrismo e chi siera macchiato di gravi violenze (sino all’omi-cidio) nella fase della lotta per il potere”, emi-

se, inoltre, un verdetto perfettamente in lineacon la tendenza in atto, al fine di estendere almassimo l’amnistia e di cancellare le condan-ne inflitte agli squadristi.

Le sentenze della Cassazione - per MimmoFranzinelli - rivelano un orientamento generalefavorevole ai con dannati; la motivazione dell’ac-coglimento dei ricorsi si basava spesso su sotti-gliezze formali che comportavano ingiustizie so-stanziali, ovvero l’impunità per gravi crimini, Icolpevoli vennero rappresentati per lo più in mo-do positivo, traviati dalle circostanze e sorretti daaspirazioni condivisibili, le vittime rappresenta-vano una presenza scomoda, respinta sullo sfon-do: fantasmi evanescenti, il cui destino dipese dacircostanze imponderabili e di im possibile accer-tamento.

Si legge infatti nel pronunciamento dellaSuprema Corte per il ricorso relativo al pro-cesso Di Vagno: “la Corte ritiene di doversi ac-cogliere quello che tende all’ applicazionedell’ amnistia. La impugnata sentenza ha af-fermato la volontarietà dell’omicidio in perso-na del Di Vagno dilungandosi nella ricerca, di-retta a stabilire chi dei partecipanti sparò colpicontro la vittima, ma non ha speso una parolaper dimostrare la fondatezza della cennata af-

fermazione. Il che porta senza dubbio, all’an-nullamento della pronuncia contenutavi”.

In definitiva i giudici della Cassazione, nel1948, trasformarono la condanna per omicidiovolontario in omicidio preterintenzionale e mo-dificarono la sentenza dei giudici di Potenza.Si stabili, infatti, che la violenza fascista fu unprodotto dell’“esuberanza giovanile” e chel’azione delittuosa, “prodotto delle circostan-ze”, andò ben oltre le intenzioni dell’autore. Aconferma della preterintenzionalità dell’omici-dio i giudici della Suprema Corte sostenneroche lo sparatore era a pochi metri di distanzada Di Vagno e con una conclusione (difformedalla sentenza di Potenza e persino dalle risul-tanze medico legali del 1921 che indicavano leferite dell’addome) si escluse l’intenzione omi-cida perché “l’arma fu diretta verso il basso”.

(Quest’ultima asserzione della Corte di Cas-sazione, appare sconcertante e non supportatada ele menti di fatto. Il prof. Francesco Introna,docente di medicina legale dell’Università diBari, noto per le perizie in importanti processipenali, dopo aver attentamente esaminato larelazione dell’autopsia disposta dall’autoritàgiudiziaria dell’epoca, sostiene che i colpi spa-rati contro l’on. Giuseppe Di Vagno da distan-za ravvicinata e con una traiettoria orizzontale,evidenziano chiaramente la volontà omicida,pur considerando “l’impreparazione tecnica eduna mancata esperienza di chi commise il fe-rimento mortale”).

Nel giudizio definitivo della Corte di Cas-sazione si stabilì che l’autore materiale:

sparò tre colpi contro il Di Vagno, da dietro eperciò nelle migliori condizioni per la sicurezzadella propria persona e della mira; e diresse l’ar-ma verso il basso, tanto da attingere il Di Vagnonella regione lombare e sacrale con due colpi.Ora, se egli sparò nella posizione detta, come haritenuto la sentenza impugnata, appare manife-sto, che non ebbe intenzione omicida, diversa-mente tutti i colpi sarebbero stati posti a segnoed in regione sicuramente tale che i colpi avreb-bero prodotto la morte [...] deve perciò ritenersiche l’omicidio fu preterintenzionale, onde va ap-plicata l’amnistia, e ciò, anche nei confronti dellatitante Lorusso Luigi, il quale si giova del mo-tivo addotto agli altri condannati.

Di fronte a questa incredibile conclusione diun iter processuale così travagliato, tra le rea-zioni più significative, si registrò quella di Gae-tano Salvemini che alcuni anni dopo, in un ar-ticolo per la rivista” il Ponte”, fondata da Ca-lamandrei, dopo aver chiesto una relazione alprocuratore generale di Potenza, descrisse ailettori le modalità dell’ agguato e del brutaleassassinio di Di Vagno, definito dai giudici diTrani nel 1922 “una esplosione di giovinezza”.

Lo storico molfettese ricordò anche l’impu-nità garantita agli assassini con l’amnistia del1922, che passò un colpo di spugna su tutti i de-litti compiuti per “fini nazionali” ed aggiunse:

Inauguratosi il regime postfascista, l’inchiestagiudiziaria fu riaperta. La causa iniziata presso laCorte d’Assise di Bari, competente per territorio,fu rinviata per legittima suspicione alla Corted’Assise di Potenza. Qui i giurati dichiararono laresponsabilità degli imputati con pene varianti dai18 ai 10 anni. A questo punto intervenne la nonmai epurata Corte di Cassazione: esclusa la vo-lontà criminosa (proprio così!), affermò chel’omicidio poteva essere preterintenzionale - voiassalite un uomo a revolverate e a bombe a mano,e se quello muore, l’omicidio potrebbe essere an-che preterintenzionale, - e dichiarò estinto questoreato dall’amnistia Togliatti. Così si tornò allo sta-tus qua del dicembre 1922. s

Vito Antonio Leuzi – Direttore IPSEA

Sidney Sonnino,Ministro degli Esteriitaliano alla Conferenzaper la Pace di Versailles-Parigi nel primo dopoguerra.Disegno caricaturale di Frate Menotti. BNB

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Estratto dal testo del discorso tenuto a Ba-ri il 27 settembre 1977 nel teatro Petruz-zelli alla presenza del leader del Partitosocialista spagnolo Félipe Gonzales

Bettino Craxi

R ingrazio i compagni per l’acco-glienza fraterna che hanno ri-servato al compagno Félipe

Gonzales e a me, cui spetta il compito di ricor-dare Giuseppe Di Vagno, in questa suggestivacornice di solidarietà internazionale, di comu-nanza, profonda di sentimenti, di ideali, di pro-spettive.

Andare alle radici gloriose del socialismodella nostra terra è un’occasione importanteper voi e per noi non solo per fortificare glianimi e le volontà, nel ricordo di un esempioeroico, ma anche e soprattutto per compiereuna riflessione onesta e fraterna sul nostro tra-vaglio, sui valori che vanno posti alla base delnostro rinnovamento...

Quando il 25 settembre 1921 Giuseppe DiVagno cadeva ferito a morte in una via di Moladi Bari non aveva che 32 anni.

Eppure era già un simbolo: rappresentavacolui che più e meglio di tutti incarnava gliideali del socialismo, la guida carismatica didecine di migliaia di contadini pugliesi impe-gnati nella lotta contro lo sfruttamento degliagrari e le sopraffazioni dei fascisti.

Era stato eletto da poco alla Camera dei de-putati. Il numero delle preferenze ricevute –oltre 74.000, tremila in più dello stesso Di Vit-torio - indica in modo inequivocabile il presti-gio e la popolarità di cui godeva fra i lavoratoridella terra.

Non erano state, quelle del’21, elezioni nor-mali in Puglia, come nel resto d’Italia. Solo il10% de]le “zone rosse” era riuscito a votareliberamente. Dappertutto le squadre fascisteavevano creato un clima di intimidazione, gra-zie alla connivenza delle autorità locali, distor-cendo le elezioni. Basti pensar che nel paese,Conversano, dove Di Vagno era nato, solo 22compagni poterono votare per il loro leader.

ln quelle condizioni l’elezione di Di Vagno– come del resto quella di Di Vittorio allorarinchiuso nei carcere di Lucera - acquista ungrande significato morale oltre che politico:divenne la prova tangibile che i braccianti pu-gliesi vedevano nel giovane uomo politico laloro guida intellettuale e morale e riconosce-vano nel Partito Socialista lo strumento dellaloro emancipazione.

E Di Vagno questa fiducia era riuscito a con-quistarsela mettendo nella lotta politica e sin-dacale tutto se stesso e scontrandosi con i pre-giudizi, la grettezza e gli interessi dell’ambien-te sociale entro il quale era nato e si era for-mato: quella piccola borghesia intellettualeche non intendeva affatto abbandonare il ruoloparassitario, e gregario di “classe di comple-mento” dei latifondi pugliesi.

Ruppe con il suo mondo. Con quel gesto in-dicò la via che avrebbero trovato Salvemini eGramsci, i teorici a livello nazionale: l’alleanzastorica fra le masse contadine e l’intellighentiaquale alternativa al blocco moderato basatosulla saldatura degli interessi della borghesiaindustriale del Nord e degli agrari del Sud.

Di Vagno vide anche che solo il partito So-cialista poteva fornire le risorse organizzative,morali e culturali per spezzare il sistema di in-teressi di classe che paralizzava la società me-

ridionale e condannava i lavoratori alla mar-ginalità materiale morale. Egli fu, in effetti,uno di quei giovani che all’inizio del secolo,erano giunti al Psi attirati dal soffio di sinceritàe di schietto idealismo che il movimento so-cialista aveva introdotto prima nei paesi eco-nomicamente avanzati e poi nella stessa Italia.

Ma pugliese, profondamente attaccato alla“sua terra” e ai “suoi contadini”, vi portò an-che qualcosa che era rimasto marginale nel-l’ambito del Psi: un interesse appassionato perla questione meridionale.

Fu uno dei primi ad avvertire il dramma del-le “due Italie”: quella del Nord, relativamentesviluppata, moderna, ‘“europea”, e quella delSud, povera, statica, chiusa in se stessa, taglia-ta fuori dalla civiltà moderna, e in questa se-conda Italia, quella della miseria e della cor-

ruzione, bruciò la sua brevissima esistenza co-me organizzatore sindacale e come pedagogopolitico.

Il suo era il socialismo umanitario, etico,idealistico, dei padri fondatori del Psi. Nellepiazze, davanti a migliaia di braccianti analfa-beti ma tuttavia desiderosi di prendere co-scienza della loro condizione di sfruttati e dimettersi in movimento per cambiare le cose,predicò il dovere di ribellarsi all’oppressioneed allo sfruttamento e la necessità di riorganiz-zare la società su basi nuove, autenticamentedemocratiche.

Non si lasciò mai lusingare dal mito della ri-voluzione violenta, che pure subito dopo l’ot-tobre bolscevico, era vivissimo in ltalia e ave-va offuscato la coscienza etica di non pochi ca-pi del movimento operaio.

Rimase fedele ad una concezione riformista,gradualistica e umanitaria del socialismo, poi-ché istintivamente percepiva che la violenzaauspicata dai moderni giacobini avrebbe finitoper travolgere il generoso volto dell’ideale conil quale si era identificato.

Ma riformismo per Di Vagno non voleva di-re accettazione della logica moderata e rinviosine die dei problemi che bloccavano e avvili-vano la società meridionale. Voleva dire lottaquotidiana per organizzare i lavoratori e faresorgere in loro una salda e robusta coscienzadi classe; e voleva altresì dire mobilitazione di

massa, pressione sull’opinione pubblica e sulgoverno, propaganda, proselitismo, elabora-zione di proposte concrete per erodere il poteredelle classi dominanti e per migliorare le con-dizioni di vita degli sfruttati. E i risultati diquesta visione intransigente della lotta per ilsocialismo non si fecero attendere.

La Puglia, grazie anche al suo lavoro e aquello degli altri giovani che avevano corag-giosamente e generosamente compiuto la stes-sa “scelte di campo”, diventò la regione poli-ticamente più avanzata di tutto il Mezzogiornocon il suo formidabile sistema delle coopera-tive, i suoi grandi scioperi e le sue “zone ros-se”, dove i socialisti conquistarono, sotto losguardo allarmato e ostile degli agrari e deibenpensanti, la Maggioranza assoluta.

Ma intanto un avversario ben più spietato

sta facendo il suo ingresso nella scena politica:ii fascismo che dilaga nelle campagne.

Protetto dalla complicità delle autorità, so-stenuto finanziariamente dai ricchi possidenti,incoraggiato dai benpensanti, sferra una mas-siccia offensiva contro le cooperative contadi-ne e contro i dirigenti del Partito Socialista. Efra questi dirigenti Di Vagno è considerato ilnumero uno per il suo prestigio e per la sua po-polarità.

Va dunque eliminato immediatamente dallascena politica.

In un primo momento i fascisti cercarono diimpedire la sua elezione alla Camera dei de-putati ricorrendo alle intimidazioni ed ai ricat-ti. Ma senza successo.

Allora decisero di sopprimerlo. Organizza-no un attentato e lo ammazzano colpendolo al-le spalle con una scarica di proiettili.

Un’azione “esemplare” per colpire un uomo“esemplare”: un esempio di viltà e di barbarieper cancellare un esempio di coraggio e di vil-tà. Giuseppe Di Vagno va “religiosamente” ri-cordato. La sua figura non fa parte solo della“coscienza storica” dei movimento contadinopugliese, fa parte anche della “coscienza sto-rica” nazionale.

Perché Di Vagno sacrificò coscientementela sua vita per il socialismo e la libertà.

Prima di partire per Mola, dove lo attende-vano i sicari fascisti, lo avevano messo in

guardia e lo avevano consigliato ad essere pru-dente, a non esporsi. Ma andò lo stesso al suoappuntamento con i “suoi contadini”.

Di Vagno fa parte del patrimonio moraledell’Italia democratica, assieme agli altri gran-di martiri dell’antifascismo militante, da Mat-teotti a Gobetti, ai Rosselli, a Gramsci, a Bru-no Buozzi.

Lo ricordiamo quindi, e non solo come so-cialisti, ma anche come democratici. E lo ri-cordiamo perché sia sempre presente davantia tutti la coscienza di quello che significa laviolenza eretta a metodo di lotta politica. Unammonimento oggi più che mai attuale, per-ché la violenza, dietro altre formule e con altremotivazioni ideologiche, vuole tornare ad es-sere la norma delle lotte politiche. E noi ab-biamo il dovere di impedire che ciò avvenga,affinché l’esistenza di uomini come Di Vagnoed il loro sacrificio non siano stati inutili.

La tragedia che aveva investito l’Italia deldopoguerra si abbatterà quindici anni dopo, inmodo assai più cruento e devastante sul popo-lo fratello di Spagna, sulla repubblica demo-cratica di quel Paese, sui socialisti e su tutti idemocratici spagnoli.

I sentimenti con i quali onoriamo oggi lamemoria di Giuseppe Di Vagno si estendonoai martiri dell’antifascismo spagnolo, alle in-numerevoli vittime del fascismo trionfante, atutti coloro che pagarono con la vita la loro fe-deltà alla repubblica, alla democrazia, alla li-bertà. Un filo rosso robusto e ricco di storiagloriosa lega l’antifascismo italiano a quellospagnolo. I socialisti italiani a quelli spagnoli.

È una storia di solidarietà e di fraternità, na-ta in una visione comune del socialismo comedottrina di liberazione, di progresso e di ugua-glianza che si è cementata in una lotta comune,come ha ricordato il compagno Nenni nel mes-saggio di saluto che ieri ha indirizzato ai com-pagni del PSOE contro le due dittature fascistae falangista, che si è sviluppata anche negli an-ni più recenti mentre si avviava verso la suaconclusione vittoriosa la lunga lotta e la lungaresistenza dei compagni spagnoli. Ai socialistispagnoli è spettato e spetta un ruolo di primopiano nella storia moderna della Spagna e delmovimento dei lavoratori.

Il Partito Socialista Italiano è ad un passag-gio difficile della sua storia, ridotto nel suo pe-so elettorale, esso appare tutt’altro che rasse-gnato a svolgere un ruolo subalterno. Esso hacondotto un’ampia riflessione sulle sue espe-rienze passate che non rinnega, anzi che con-sidera troppo spesso oggetto di frettolose li-quidazioni e di giudizi ingenerosi e superficia-li. Tuttavia considera queste esperienze non ri-petibili.

Ci muoviamo oggi in una fase nuova chevede il partito impegnato in tre fondamentalidirezioni; la prima riguarda il concorso chediamo e intendiamo dare alla lotta contro lacrisi economica, la degradazione sociale il ri-tardo grave sul risanamento della finanza pub-blica e la riorganizzazione e il rammoderna-mento della amministrazione pubblica.

Le popolazioni meridionali ed il ceto giova-nile che si offre sul mercato del lavoro paganole conseguenze più dure di questa crisi.

Volevo parlare ai compagni il linguaggio de-lia fiducia e traggo dal successo della manife-stazione odierna motivo di fiducia nel nome diGiuseppe Di Vagno nella confermata solidarietàcon i compagni spagnoli che si associano a noi.

Via il socialismo nella libertà, viva il Psoe,viva il Psi. s

DOCUMENTO ■ IL SUO SOCIALISMO ERA COME IL NOSTRO: UMANITARIO, ETICO, IDEALISTICO. QUELLO DEI PADRI FONDATORI DEL PSI

UN SIMBOLO DA NON DIMENTICARE

CRITICAsociale ■ 217 / 2011

Giuliano Vassalli

N el contemplare il volume cheoggi viene qui presentato inmemoria e in onore di Giu-

seppe Di Vagno non posso non esprimere unapprezzamento sincere per i suoi curatori, VitoAntonio Leuzzi e Guido Lorusso, che hannoavuto la capacità di raccogliere documenti etestimonianze del più grande interesse per laricostruzione della figura del Martire e del suosacrificio, corredando la raccolta stessa di pre-cise annotazioni ad ogni documento o fotogra-fia e di una importante nota storico·bibliogra-fica di carattere generale: il tutto sotto la guidae l’attenzione della Fondazione Giuseppe DiVagno, presieduta, con impegno e nel cultodella memoria, dall’amico e compagno caris-simo Gianvito Mastroleo.

Il mio pensiero va anche alla Camera dei de-putati, editrice della cospicua pubblicazione,al questore della Camera Francesco Colucci,e al presidente della Camera stessa onorevolePierferdinando Casini, che nello scorso set-tembre, nell’83° anniversario della uccisionedi Giuseppe Di Vagno, volle recarsi a Conver-sano, accompagnato da Colucci e accolto daMastroleo e dal carissimo Peppino Di Vagno,Figlio del martire socialista, e pronunciarvi unelevato discorso, del quale vanno raccolti al-cuni moniti, fra cui fondamentale quello dellarinuncia alla violenza, in ogni caso, nella con-tesa politica.

Alto monito che ci auguriamo non vengamai dimenticato, quando invece vediamo chela violenza politica o parapolitica continua adinsanguinare il mondo e purtroppo ad avere laprevalenza: cosi come dimostrano, tra l’altro,ai giorni nostri, il terrorismo palestinese checerca di impedire ogni processo di pace e il ter-rorismo insediatosi in Iraq dopo l’infelice guer-ra americana, che é impegnato ad impedire li-bere e valide elezioni e che purtroppo potrebbe,alla lunga, riuscire nel suo intento di vanificareogni progetto di ricostruzione e di pace.

Il ricordo di Giuseppe Di Vagno, vittima diuna violenza ingiusta, egli che non era che labontà stessa, accompagnata ed illuminata dauna forte personalità, fisica e morale, tanto daessere chiamato ‘il Gigante buono’, ha dunquequesto primo, primario e universale significa-to: l’appello contro la violenza, dalla qualenon può che scaturire altro male, oltre quelloarrecato con la violenza stessa.

Ed ora veniamo alla breve ma non vana vitadi Giuseppe Di Vagno e ai suoi significati par-ticolari, nei contesti nei quali essa si svolse, nelprimo ventennio del secolo da poco trascorso,nel suo simbolismo, nella sua tragica fine. Chee stata una terribile fine fisica, ma soltanto que-sta perché la memoria e il nome di GiuseppeDi Vagno non si sono mai estinti e hanno con-tinuato a vivere sotto la dittatura e dopo la finedi questa cosi come questo bel libro in tante suepagine ed immagini ci ricorda.

Che altro contributo potrei dare io a quantosarà qui detto, con competenza di storica - e distorica del socialismo pugliese in particolare -da Simona Colarizi e da un politico di gran for-za, oltre che conterraneo, come Rino Formica?

Mi vi proverò tuttavia con poche parole, de-dicate oltre che alla vita del parlamentare aglisciagurati processi relativi alla sua morte.

Intervento in occasione della presentazionedell’omonimo volume alla Sala del Cenacolodella Camera dei deputati il 26 gennaio 2005

La vita. La vita è quella di un uomo nobilee generoso, che per puro spirito altruistico, sidedicò al riscatto di quelle plebi contadine cheda vicino conosceva, al tentativo di liberarleda una società feudale che ad esse non dava senon lavoro segnato da estrema fatica, sfrutta-mento e miseria.

Di Vagno, come è noto, non apparteneva aquella classe, anzi apparteneva a quella dellapiccola o media proprietà terriera; e proprioquesto fatto accrebbe gli odi contro il ‘distur-batore` di quella quiete apparente, egoistica eprofondamente ingiusta, e portò i suoi nemicipolitici a decretarne la morte.

Sotto questo aspetto vi sono effettivamentemolti punti di contatto tra Di Vagno e GiacomoMatteotti, tali che portarono qualche volta abattezzare Di Vagno, soprattutto dopo l’assas-sinio di Matteotti, come ‘il Matteotti delle Pu-glie’. Così egli fu chiamato da Carlo Muscettain una recensione al libro Un popolo di formi-che di Tommaso Fiore.

I molti punti in comune tra le due figure sonoposti egregiamente in rilievo da Gianvito Ma-stroleo nella sua prefazione a questo volume.

L’inclinazione agli studi giuridici sin dallapiù giovane età. Entrambi laureati in legge,l`uno a Roma, l`altro a Bologna. La specificapropensione per gli studi penalistici, che portosubito Di Vagno alla ribalta nel mondo forensee Matteotti a segnalati contributi scientifici,che gli avevano aperto la strada alla carrierauniversitaria.

E al tempo stesso la analoga rinuncia, l’unoa divenire un astro nella avvocatura, circonda-

to come sarebbe stato da fortune ed onori, l’al-tro alla carriera di professore. Al riguardo vor-rei leggere la lettera che Matteotti scrisse aLuigi Lucchini il 10 maggio 1924, esattamenteun mese prima del sequestro e deIl’assassinio.Egli era stato rieletto nell’aprile 1924 per laterza volta al Parlamento e Luigi Lucchini, al-tissimo magistrato e insieme professore, diorientamento liberale per non dire conservato-re, senatore del regno, gli aveva scritto esor-tandolo a riconcentrarsi negli studi per presen-tarsi alla libera docenza e intraprendere la car-riera universitaria.

Questa la risposta di Matteotti: «Illustre Professore, trovo qui la Sua lettera

gentile e non so come ringraziarLa delleespressioni a mio riguardo. Purtroppo io nonvedo prossimo il tempo nel quale ritorneròtranquillo agli studi abbandonati. Non solo laconvinzione, ma il dovere oggi mi comanda dire-stare al posto più pericoloso, per rivendicarequelli che sono secondo me i presupposti diqualsiasi civiltà e nazione moderna. Ma quan-do io potrò dedicare ancora qualche tempo aglistudi prediletti, ricorderò·sempre·la profferta el’atto cortese che del maestro mi sono venutinei momenti più difficili. Con profonda osser-vanza, dev.mo Giacomo Matteotti».

La rinuncia fu motivata, per entrambi, Mat-teotti e Di Vagno, dalla loro intera dedizioneal riscatto di plebi martoriate dalla malaria edalla miseria nel Polesine, dalla mancanza diogni assistenza e protezione oltre che dalla mi-seria in quella zona delle Puglie, a sud di Barie altrove.

E non solo da questo, ma anche dalla esi-genza di difendere elementari libertà politiche,per Matteotti fino ad essere causa specifica equasi immediata del suo assassinio, per Di Va-gno altrettanto chiaramente, anche se il suomartirio precedette di quasi tre anni quello diMatteotti e non attraverso il terribile periododei primi anni della dominazione fascista.

Entrambi affrontarono gli stessi nemici, nelprimo anno del cosiddetto ‘Biennio nero’, su-birono gli stessi attentati e gli stessi affronti.

Comune fu anche l’impegno di Matteotti edi Di Vagno nelle amministrazioni locali dellerispettive zone, Eletto Matteotti consigliereprovinciale di Rovigo (oltre che sindaco di va-ri comuni) nel 1910; eletto Di Vagno, che ave-va quattro anni di meno, nel 1914, alla stessacarica in Bari. Essi avevano dunque raggiuntoquell’incarico per la fiducia degli elettori e lastima dei compagni, nella medesima giovanis-sima età: 25 anni.

Entrambi appartenenti al Partito Socialista:eletto Matteotti sin dal 1919 alla Camera deideputati (XXV Legislatura), non presentato DiVagno a tali elezioni perché sospetto di dissi-denza in quanto legato all’insegnamento di Sal-vemini, critico della politica del partito del qua-le tuttavia condivideva gli ideali essenziali.

Deputati entrambi per la XXVI legislatura,nel 1921, ed eletti ai primi posti nelle rispettivecircoscrizioni. Ricordo, tra parentesi, che se-condo eletto a Bari-Foggia fu Giuseppe Di Vit-torio, che non faceva parte del partito ma checome `sindacalista rivoluzionario’ aveva pre-ferito presentarsi nella lista socialista (egli nonsi iscrisse al PCI che nel 1924 dopo una lungaopera di convinzione su di lui esercitata daRuggiero Grieco).

Entrambi, Di Vagno e Matteotti, riformisti,ma entrambi coraggiosamente combattivi,

Il Partito Socialista Unitario si formò - e ve-ro - il 4 ottobre 1922 quando Di Vagno da unanno non era più, ma i socialisti che si presen-tarono in Puglia nel 1921 si chiamavano so-cialisti unitari: vedasi la lista dei candidati riu-sciti eletti nel 1921 a pagina 112 di questo vo-lume.

Entrambi associati in quanto vittime di at-tentati, come ricorda Mastroleo nella sua bellaprefazione; Di Vagno a Bari, a Conversano(nel maggio del 1921) e a Noci, Matteotti invari luoghi del suo Polesine e altrove.

Ed entrambi associati nella morte avvenutaper mano fascista: Di Vagno per opera di gio-vinastri di buona famiglia di Conversano, re-catisi per ucciderlo a Mola di Bari in occasionedi un suo discorso per l`inaugurazione dellabandiera - e dunque della sezione - socialista;Matteotti ad opera di sicari quanto mai spre-gevoli, facenti parte della cosiddetta banda delViminale, detta anche la Ceka fascista.

Entrambi infine associati nelle pagine piùgloriose della storia del Partito Socialista difronte alla dittatura e nel ricordo imperiturodei compagni.

Ma vi è di più: un episodio personale, ricor-dato anch’esso in questo volume.

Alla Camera, nel 1921, il deputato fascistaCappa negli ambulacri stava aggredendo fisi-camente Matteotti, esile e fragile. Di Vagno sene accorse e prese Cappa sollevandolo e allon-ta-nandolo (il “Gigante buono’).

Desidero ancora ricordare che nel volumeintitolato Matteotti. Il mito, curato – come tantialtri ricordi sul Martire — da Stefano Caretti,sono pubblicate le lettere che tanto la madrequanto la moglie di Giuseppe Di Vagno scris-

DOCUMENTO ■ INTERVENTO IN OCCASIONE DELLA PRESENTAZIONE DELLA PRIMA EDIZIONE DEL VOLUME ALLA CAMERA DEI DEPUTATI NEL 2005

GIUSEPPE DI VAGNO (1889-1921)

22 ■ CRITICAsociale7 / 2011

sero a Velia Matteotti quando la morte di Gia-como era ormai certa. Le due signore eranopassate per la stessa terribile esperienza, e leloro parole erano trepidanti di commozione.

Ed ora lasciatemi ricordare che Di Vagno eMatteotti non furono gli unici deputati socia-listi uccisi dai sicari fascisti. Matteotti. assas-sinato nel 1924, quando il fascismo era da unanno e mezzo al potere, non fu l’ultimo.

Ottanta anni fa, nel 1925, accaddero in To-scana, e particolarmente a Firenze, fatti orri-bili. Si trattò di esecuzioni armate fasciste nel-le dimore di conosciuti antifascisti, soprattuttosocialisti, sorpresi di notte nelle loro abitazionied ivi uccisi in pre-senza delle mogli e dei fi-gli. Quella notte (tra il 3 e il 4 ottobre) fu chia-mata ‘la notte di san Bartolomeo’ per remini-scenza della storia francese. Le persone i cuinomi particolarmente sono legati alla storia delsocialismo fiorentino, che furono allora assas-sinate, sono l”avvocato Gustavo Console el`onorevole Gaetano Pilati.

Quest’ultimo non morì subito, ma il 7 otto-bre, dopo dura agonia.

Pilati non era più parlamentare, ma lo erastato nella XXV Legislatura e ricopriva tuttoracariche in organismi importanti. Era segretariodella federazione provinciale socialista. Era at-tivo propagandista del ‘Non Mollare’.

Pilati, diversamente da Matteotti e da Di Va-gno, era di estrazione operaia, ma era divenutofamoso per certi suoi ritrovati in tema di uti-lizzazione del cemento armato precompressoche fu brevettato come ‘solaio Pilati’. Egli eraallora capo operaio.

Proveniente da una famiglia di mezzadri delBolognese, si era trasferito a Firenze nel 1906e iscritto al PSI nel 1910.

Neutralista, Pilati fu tuttavia richiamato allearmi per la guerra, divenne ardito, conquistòuna trincea austriaca, meritò la medaglia d’ar-gento e la promozione sul campo ad aiutantedi battaglia nel febbraio 1917. Perdettel’avambraccio sinistro.

Creo una ‘Lega proletaria mutilati, invalidi,reduci, congiunti di caduti’, che assunse pro-filo politico e dette parecchia noia alle orga-nizzazioni fasciste e parafasciste.

Elemento trascinatore. divenuto imprendi-tore edile con 300 operai, simboleggiava laperdurante resistenza attiva, motivata e capa-ce, alla dittatura; ed aveva molti seguaci.

Dopo la scissione di Livorno era entrato nel-la direzione na-zionale del PSI ed era stato og-getto di attacchi e attentati. Nel 1925 fu bar-baramente trucidato. Anche nel suo caso ilprocesso agli assassini fu clamorosamente in-giusto Tanto per cambiare, fu celebrato a Chie-ti, come quello agli assassini di Matteotti. Lamoglie di Pilati, per quanto invitata a desistere,volle presentarsi in aula e riconobbe senza esi-tazione gli assassini. Ciononostante, assoluzio-ne per insufficienza di prove!

Avevo accennato a voler dire qualche cosasul processo, anzi sui processi per l’assassiniodi Giuseppe Di Vagno. Tutti questi processi,sia nel periodo della dittatura fascista, sia nelperiodo del dopoguerra, quando furono riaper-ti, hanno un andamento analogo: di non grandeconforto per la nostra giustizia, nell’uno comenell’altro periodo.

Di Vagno, dunque, era stato ucciso a Moladi Bari, nel tardo pomeriggio del 25 settembre1921, dopo che aveva tenuto un comizio perla consegna della bandiera socialista e dopoche, ritiratosi a conversare con compagni e co-noscenti, era uscito a passeggiare per il corsoprincipale della città. Qui fu colpito a morte,fatto oggetto di colpi di pistola nella schiena,partiti da un gruppo di giovani di Conversano,recatisi apposta a Mola dopo che avevano sa-puto della presenza colà del deputato socialistaper un comizio.

Questa provenienza dei colpi d’arma da fuo-co, che portarono a morte Di Vagno, è rimastasempre fuori discussione, qualche dubbio es-sendo rimasto nel corso dell’istruttoria circaquesto o quel partecipe all’attentato. Fu incri-minato per omicidio aggravato e premeditatoun esecutore materiale e gli altri lo furono percorreità e cooperazione immediata (anche quiabbiamo una diligente raccolta di atti impor-tanti del processo alle pagine 167 e seguenti,tutta la parte seconda del volume), Dei 26 im-putati di omicidio premeditato la Sezioned’Accusa (questa era la procedura secondo ilcodice di procedura penale del 1913 allora vi-gente) della Corte di Appello delle Puglie se-dente in Trani, ne aveva rinviati a giudizio die-ci (drammatico richiamo, la sentenza è del 25settembre 1922), dichiarando non doversi pro-cedere contro gli altri, in parte per insufficien-za di prove e in parte per non aver commessoil fatto. ln relazione a queste assoluzioni. tracui quella di chi era stato il principale organiz-zatore. si svolsero festeggiamenti tra i giovi-nastri di Conversano al grido di ̀ viva il 25 set-tembre’.

Senonché un mese dopo questo rinvio a giu-dizio intervenne la Marcia su Roma; e il 22 di-cembre 1923 veniva varato il primo dei nume-rosi decreti di amnistia del regime fascista, ilcui articolo 1, comma 1 diceva testualmente:

«E’ concessa amnistia per tutti i reati preve-

duti nel codice penale, nel codice penale perl’esercito, nel codice penale militare marittimoe nelle altre leggi, anche finanziarie, commessiin occasione o per causa di movimenti politicio determinati da movente politico, quando ilfatto sia stato commesso per un fine nazionale,immediato o mediato».

(Povero ministro fascista Oviglio, che do-vette presentare un simile scempio e a cui ciònulla valse quando tre anni dopo, per aver di-mostrato perplessità nei confronti del colpo diStato del 3 gennaio 1925. fu espulso dal Parti-to Fascista...)

La Corte d’Assise si trovò di fronte a questaamnistia e la applicò. Avrebbe potuto discuteresul concetto di fine nazionale, mediato o im-mediato, ma se ne guardò bene.

Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, mol-ti uomini politici, Sandro Pertini in testa, do-mandarono che si riaprisse il processo perl’uccisione di Giuseppe Di Vagno.

La richiesta era perfettamente in linea con

la legge perché sia l’art. 5 del regio decreto le-gislativo 26 maggio 1944 n. 234, emanato aSalerno, sia l`art. 6 del decreto legislativo luo-gote-nenziale 27 luglio 1944 n. 159 (che a Ro-ma sostituì quel regio decreto), premessa la re-vocabilità delle amnistie e degli indulti con-cessi dopo il 28 ottobre 1922, stabilivano chele sentenze pronunziate per delitti di violenzacommessi da fascisti potevano essere dichia-rare giuridicamente inesistenti quando sulladecisione aveva influito lo stato di morale co-ercizione determinato dal fascismo.

Ho nominato Sandro Pertini sia perché egli,proveniente dal nord Italia dopo aver vissutonell’agosto 1944 le giornate della insurrezionedi Firenze e promettendosi di rimanere al Sudsolo per qualche settimana, impegnato comesi era di ritornare a combattere al Nord (cosache poi fece in un avventuroso viaggio aereodiretto in Francia e in un ancora più avventu-roso passaggio per le Alpi, sempre con CeriloSpinelli — nome di battesimo ‘Silvio’ — dallaFrancia in Piemonte) ebbe tempo non solo peroccuparsi di questa rivendicazione, ma per re-carsi a Conversano alla tomba di Giuseppe DiVagno e fu partecipe con Giuseppe Di Vittoriodi un grande comizio unitario nel teatro Pic-cinni di Bari il 24 settembre 1944, nel 23° an-niversario dei terribili giorni del 1921.

Il procuratore generale presso la Corted’Appello di Bari aveva già provveduto —

sulla base del primo decreto tra i due sopra in-dicati — a chiedere la riapertura dell’istrutto-ria (traggo qualche notizia anche dal volumequi presentato, p. 225) nei confronti di tutti gliimputati prosciolti o amnistiati per il delitto diMola di Bari. E il procedimento fu perfezio-nato con la sentenza di giuridica inesistenzapronunciata, su conforme requisitoria del so-stituto procuratore generale Ernesto Batta- gli-ni, il 5 novembre 1945 (pubblicata in questovolume alle pp. 226-267), che pronunciò lagiuridica inesistenza della ricordata sentenzadella Sezione d’Accusa presso la Corte di Ap-pello di Trani del 26 settembre 1922.

Senonchè ad un certo punto il giudizio fuspostato per legittima suspicione alla Corte diAssise di Potenza, che con sen-tenza 31 luglio1947 condannò sei degli imputati (uno qualeesecutore materiale dell’omicidio e gli altricinque per correità) a pene varie intorno ai die-ci anni di reclusione, pronunciando l’amnistia— ovviamente sulla base di nuovi decreti nel

frattempo sopravvenuti - nei confronti di altri.Peraltro tutti (anche gli amnistiati) ricorsero

per Cassazione e quest’ultima con sentenzadel 22 marzo 1948 dichiarò tutti amnistiati sul-la base del ‘decreto Togliatti` del 22 giugno1946, ritenendo che l’omicidio dovesse rite-nersi preterintenzionale date le parti del corpocolpite (solo l’omicidio volontario era esclusoda quella amnistia).

Si pensi - tra l’altro - che dopo gli spari unabomba era stata fatta esplodere per darsi me-glio alla fuga approfittando della confusione,ulteriore riprova della organizzazione avvenu-ta me-ticolosamente a Conversano e dunquedella premeditazione.

Fu una sentenza sommaria, entrata in valu-tazioni di fatto (infondate) che caso mai sareb-bero spettate ad un giudice di rinvio. Una vi-cenda chiusa nel clima tipicamente postfasci-sta, a parte giudici e pm filofascisti che ben ri-cordo leggendone i nomi.

Fu una situazione analoga a quella del pro-cesso Matteotti (prima a Chieti sotto il fascismoe poi a Roma dopo il fascismo) e a quella delprocesso per l’assassinio di Gaetano Pilati, che- come ho accennato più sopra - vide assolto perinsufficienza di prove un assassino che era statocon assoluta sicurezza riconosciuto.

Matteotti fu ucciso a colpi di pugnale da ungruppo di sicari prontamente identificati attra-verso la targa della macchina annotata da unragazzo della deserta via Pisanelli in quel tra-gico pomeriggio del 10 giugno 1924. ll pro-cesso toccò alla Sezione d`Accusa, il cui pre-sidente era Mauro Del Giudice, magistrato pu-gliese anziano (aveva già 68 anni), presidentedella IV Sezione d’Appello a Roma, dopo unacarriera onorata e circondata di prestigio, au-tore tra l’altro di importanti saggi di storia deldiritto. Egli non poteva non assumere di per-sona il compito dell’indagine, che condusse inassoluta indipendenza anche se circondato dalsospetto e dalle ostilità fasciste. Le difficoltàche per un anno e mezzo incontrò (anche per-ché si cercava di impe-dire che fosse contesta-ta la premeditazione) furono da lui stesso nar-rate nel volume Cronistoria del delitto Matte-otti del 1947. Del Giudice verrà trasferito aCatania come procuratore generale.

Tolte così le carte a Del Giudice, i procura-tori generali Albertini e Del Vasto limitaronoil processo agli esecutori materiali e ne chie-sero il rinvio a giudizio per solo omicidio pre-te-rintenzionale. La Sezione d’Accusa si uni-formò. Poi per ‘motivi di sicurezza pubblica’avvenne il trasferimento del processo ad operadella Cassazione alla Corte di Assise di Chieti.In soli tre mesi si ebbe la decisione, dopo cheFarinacci più che da avvoca- to difensore spa-droneggiava da gerarca e voleva fare il proces-so al socialismo. Velia Matteotti per l’atmo-sfera che regnava a Chieti dovè ritirarsi dallaparte civile consideratane l’inutilità.

Gli imputati vennero condannati a 5 anni dlreclusione per omicidio preterintenzionale escarcerati.

Nel 1947 inesistenza giuridica della senten-za di accusa e della sentenza di Chieti, allar-gamento a nuovi imputati, di cui alcuni ritenutimandanti come Mussolini e De Bono, ma giàmorti, assoluzione per insufficienza dl provedi Giunta, fondatore della Ceka fascista (e inCassazione con formula piena), condanne dialcuni esecutori soltanto (Dumini, Viola e Po-veromo) a 30 anni, che essi scontarono solo inparte perché grazie a indulti vari recuperaronola liberta nel 1956.

Insomma una autentica generale vergogna,che ci conferma quanto sia difficile il cammi-no della giustizia quando la materia è politica,in tempi di dittatura e non soltanto. s

Giuliano Vassalli

Lʼon. Colucci nel 2005 commemora Di Vagno nella sala Consiliare del Comunedi Conversano, al suo fianco Gianvito Mastroleo Presidente della Fondazione

Signor Presidente della Repubblica,

Quella che Le presentiamo è la copia Masterdella Collezione storica di Critica Sociale, inedizione digitale, negli anni della direzione diFilippo Turati, dalla sua fondazione il 15gennaio 1891, fino all’ottobre del 1926, anno dicessazione delle pubblicazioni per l’esilio inFrancia del suo Fondatore.

Le offriamo, Signor Presidente, questa “primapietra” dell’opera che sarà editata entrol’autunno per farne dono a tutti i Sindaci italiani,

affinché i Comuni d’Italia abbiano nelle lorobiblioteche civiche e scolastiche unadocumentazione, altrimenti introvabile, chepermette di conoscere fin nei dettagli lo sforzoiniziale del movimento dei lavoratori dicontribuire con la propria educazione e con lademocratizzazione del nuovo Stato, a rafforzarecon l’unità sociale di un popolo unito nella suanuova Nazione indipendente, raccogliendo consollecitudine il suo richiamo a celebrare i 150Anni dell’Unità d’Italia.

Critica Sociale, nell’11 luglio del 2011

(dalla lettera di accompagnamento al Volume e ai DvD consegnati al Presidente Napolitano nell’Udienza al Quirinale)

”UN’OPERA DI GRANDE VALORE CULTURALE PER I 120 ANNI DELLA Critica Sociale

Più di 8.000 voci per lʼindice generale degli Autori in un volume di 170 pagine35 anni di pagine della rivista in soli 2 DvD

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