OXYGEN n.18 - Orgoglio industriale

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12.2012 La scienza per tutti 18 Il nuovo volto della produzione globale ORGOGLIO INDUSTRIALE

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Il nuovo volto della produzione globale.

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12.2012La scienza per tutti18

Il nuovovolto dellaproduzione globale

—ORGOGLIO

INDUSTRIALE—

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Oxygen nasce da un’idea di Enel, per promuovere la diffusione del pensiero e del dialogo scientifico.

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illustrazioniElena La Rovereundesign

rivista trimestrale edita daCodice Edizioni

via Giuseppe Pomba 1710123 Torinot +39 011 [email protected]/oxygen www.enel.com/oxygen

distribuzioneesclusiva per l’ItaliaMessaggerie Libri spat 800 804 900

promozioneIstituto Geografico DeAgostini spa

© Codice EdizioniTutti i diritti di riproduzione e traduzione degli articoli pubblicati sono riservati

comitatoscientificoEnrico Alleva (presidente)Giulio BallioRoberto CingolaniPaolo Andrea ColomboFulvio ContiDerrick De KerckhoveNiles EldredgePaola GirdinioHelga NowotnyTelmo PievaniFrancesco ProfumoCarlo RizzutoRobert StavinsUmberto Veronesi

direttoreresponsabileGianluca Comin

direttoreeditorialeVittorio Bo

coordinamento editorialePino BuongiornoLuca Di Nardo Giorgio GianottoPaolo Iammatteo Dina Zanieri

managingeditorStefano Milano

redazioneCecilia Toso

collaboratoriSimone ArcagniArmando BuonaiutoDavide Coero BorgaDaniela MecenateNicola NosengoFrancesca PellasPaolo PiacenzaAlessandra Viola

traduzioniSusanna BourlotLaura CulverGail McDowell

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Orgoglioindustriale

sommarioSm

L’industria è sicurezza perché è fabbricazione, creazione, unità di spirito e di materia, di corpo e anima della società; una sicurezza minata oggi dalla crisi economica mondiale. E così in Italia – il secondo Paese manifatturiero in Europa – fare le cose bene non basta più: bisogna saperle fare meglio degli altri. Per riuscirci è innanzitutto necessario ricostruire l’orgoglio industriale, valorizzare il lavoro in ogni ruolo, dare spazio alla creatività e all’iniziativa, mettere le piccole aziende in rete e quelle più grandi nelle condizioni di andare incontro ai nuovi bisogni globali e alle nuove tendenze tecnologiche. La chiave del successoè l’innovazione continua. Questo numero di Oxygen racconta molte storie vincenti, all’alba di quella che in molti già definiscono come la “nuova rivoluzione industriale”, che sta attraversando il mondo intero e rilanciando la qualità manifatturiera dei Paesi storicamente più industrializzati.

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editorialeLA NUOVAINDUSTRIA

di Giulio Sapelli

scenariIL MANIFATTURIERO:MOTORE DELLA CRESCITA

di Giorgio Squinzi

opinioniPROGETTAREIL FUTURO

di Davide Canavesio

approfondimentoLA PRODUZIONE DIDOMANI IN SETTE PAROLE

di Dario Di Vico

Le maggiori nazioni avanzate hanno nuovamente messo l’indu-stria di trasformazione al centro delle loro strategie di sviluppo. Se l’Italia vuole continuare a essere soggetto autorevole della vita eco-nomica su scala mondiale, non potrà che essere per la forza del suo sistema industriale, che è oggi l’unico ambito nel quale si possa pensare di investire per riavviare un percorso di sviluppo dell’intero sistema-Paese.

In questi anni di crisi si sono fatte sempre più insistenti le si-rene che cantano di un Paese che deve evolvere solo verso i servizi. E sempre più frequenti sono state le profezie di sventura su un settore manifatturiero non competitivo e ormai destinato al declino. Io non sono d’accordo né con una né con l’altra interpretazione. E lo dico da imprenditore manifatturiero.

Per delineare uno scenario presente e futuro dell’industria bisogna prima comprendere gli elementi che più la influenzano. Capire l’industria cominciando da alcune parole: ristrutturazione, esportazione, filiera, rete d’impre-sa, distretto, retail e sindacato.

«L’industria è sicurezza perché è fabbricazione, creazione, unità di spirito e di materia, di corpo e anima della società»

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Orgoglio industriale

—Il nuovo volto della produzione globale

editorialeORGOGLIO INDUSTRIALE

di Fulvio Conti

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scenariL’INDUSTRIA NELLA COMPETIZIONE GLOBALE

di Carlo Marroni

scenariLA QUINTA RIVOLUZIONEINDUSTRIALE

di Peter Marsh

contestiUN’ITALIA PIÙ MODERNA, EUROPEA, COMPETITIVA

di Corrado Passera

intervista ad alberto quadrio curzioLA VITALITÀ DELL’ITALIA CHE PRODUCE

di Paolo Piacenza

opinioniTWEET& QUOTES

passepartoutIL VALORE AGGIUNTO DELL’INDUSTRIA

data visualizationFARE IMPRESA: QUANTOÈ ATTRATTIVA L’ITALIA?

approfondimentoDOVREMO PRODURRE MENO “COSE”?

di Donato Speroni

contestiLE IMPRESERAGIONANO IN RETE

di Aldo Bonomi

I principali Paesi industrializza-ti si muovono in cerca di soluzioni alla crisi; alcuni stanno rallentando, altri esplorano nuovi territori. Una panoramica sui settori sui quali si concentrano e sulle interconnes-sioni globali che li condizionano.

Un’analisi sull’imminente rivo-luzione del settore manifatturiero, una panoramica sugli insegnamen-ti delle precedenti rivoluzioni in-dustriali e quelli del presente della crisi economica. E qualche benefi-cio sociale ed economico che una nuova rivoluzione potrebbe portare con sé.

Il cambiamento del nostro Pae-se è appena iniziato. Abbiamo trac-ciato un percorso chiaro con misu-re che potevano essere prese con le scarse risorse e lo scarso tempo a disposizione e già oggi abbiamo un’Italia più moderna, più europea, più competitiva. Ora bisogna anda-re avanti.

C’è ancora tanta vitalità nell’ Italia industriale. Nonostante la recessione e la concorrenza sem-pre più spietata in arrivo dall’Est. Non a caso, l’Italia resta al quinto posto tra le economie del G20 per surplus commerciale di manufatti industriali non alimentari, dopo Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud.

Le industrie produrranno sempre. Quel che gli economisti dibattono è se davvero si dovreb-be produrre meno, e in questo caso come potremmo sopravvive-re, o se il mondo – come pensano alcuni – sia invece in grado di cre-scere esponenzialmente, come la memoria di certi chip.

Una risorsa per creare rela-zioni di scambio e sostegno tra le aziende che devono affron-tare l’attuale momento di crisi economica e di cambiamenti: il contratto di rete come strumento guida per l’aggregazione a la col-laborazione tra le imprese.

«Il completamento e il potenziamento delle reti infrastrutturali, non solo del trasporto di beni e persone, ma anche dell’energia e dell’infotelematica, è essenziale per avviare la crescita»

«Le prospettive della Cina sono centrali per i destini di quasi tutte le aree del mondo, dagli Stati Uniti all’Europa, dall’estremo Oriente al Sudamerica»

«Il mondo èa un passo da una nuova era. Il cambiamento vissuto dall’industria del mondo sviluppato e dei Paesi in via di sviluppo s’invertirà nuovamente e la produzione dei Paesi ricchi conoscerà una riscossa»

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scenariUN NUOVO RINASCIMENTO ECONOMICO CHE PASSA DALLA PMI

di Andrea Di Benedettoe Luca Iaia

contestiIKEA: SPAZIOALL’ITALIA

intervista a nerio alessandriIMPRESA SANAIN CORPORE SANO

di Pino Buongiorno

Circa il 18% delle esportazio-ni italiane proviene dal mondo dell’artigianato. Il 50% dalle PMI. Sta avvenendo un riequilibrio fa-vorevole alle imprese di minori dimensioni che hanno saputo presidiare fette molto verticali di mercato, una riorganizzazione geografica dei mercati a vantag-gio delle economie emergenti, in particolar modo quelle asiatiche, da sempre vissute con il mito dell’Italia e della qualità della no-stra manifattura.

Oggi in 40 Paesi del mondo si può trovare almeno un negozio Ikea, e in ognuno di essi si può trovare almeno una cucina ita-liana. Perché oggi l’Italia, dopo Cina e Polonia, è il terzo Paese fornitore del colosso svedese.

Sapere unire capacità impren-ditoriali, design e uno stile vita e un’alimentazione sana e riuscire a creare un’azienda di successo. È la storia di Technogym, impre-sa leader nel settore del wellness: non uno sport, ma una filosofia di vita. E di impresa.

«Il mio concetto di imprenditore ha un approccio artistico: l’artigiano ci mette la testa e le mani quando realizza un prodotto, l’imprenditore va oltre e aggiungeil cuore alla testae alle mani»

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«La sfida che ci si pone di fronte è quella di portare la piccola impresa e l’artigianato a una modernità compiuta, ed è una sfida per il Paese. Il potenziale di crescita del settore è tale da essere forse l’unica chance che abbiamo per la ripartenza della nostra economia. Un nuovo Rinascimento»

«La rete non può essere l’unica soluzione alla crisi, ma deve rappresentare uno strumento di politica industriale a disposizione del sistema per affrontare, nel migliore dei modi, un periodo sfavorevole e di cambiamento»

contestiII “SAPER FARE”CI SALVERÀ: 10 STORIEDI SUCCESSO

di Daniela Mecenate

Le mani degli artigiani italia-ni, e menti brillanti e fantasiose, fanno miracoli internazionali. E così il Made in Italy può vantare numerosi esempi di imprese arti-giane virtuose che, con cappelli, occhiali, biciclette, stampanti, stanno arrivando a raccontarsi in tutto il mondo.

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scenariVALORI NUOVI PERUNA NUOVA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

di Gianluca Comin

approfondimentoMANIFATTURA 2.0

di Alessandra Viola

approfondimentoPRODUZIONE FAI DA TE:LE STAMPANTI 3D

di Nicola Nosengo

contestiLA RIVOLUZIONEDEI MAKERS

di Simone Arcagni

opinioniSTART-UP MENTALITY

di Riccardo Luna

intervista a edoardo nesiIL TIMORE DEL FUTURO? NON POSSIAMO PIÙ PERMETTERCELO

di Armando Buonaiuto

data visualizationLAVORATORI DI TUTTO IL MONDO, SPECIALIZZATEVI!

oxygen versus co2C’ERA DUE VOLTE,LO SPAZZACAMINO

la scienza da giocattolaio IL LAVORO HARD CHE NON SPAVENTA I PIÙ PICCOLI

Per uscire dalla crisi bisogna invertire il declino del ruolo dell’in-dustria. E per farlo bisogna operare non solo a livello strutturale, ma an-che culturale. In Italia in particolare è necessario ricostruire l’orgoglio industriale mettendo al centro va-lori come l’individuo e l’ambiente.

Le professioni operaie e mani-fatturiere sono definitivamente entrate nell’era 2.0. I nuovi “la-vori hard” sono quelli della ma-nifattura digitale, legati all’ICT e alle tecnologie che sostengono l’innovazione, ma anche alla ro-botica e alle rinnovabili. Oxygen ha condotto un’inchiesta in que-sti settori, facendoli raccontare a chi ci lavora.

Una ventata di aria fresca per l’industria potrebbe arrivare dalle stampanti 3D. Tecnologia e de-sign al servizio dell’immaginazio-ne dei makers per creare oggetti in plastica. L’era della personal fabrication non è ancora real-mente cominciata, ma potrebbe non essere mai stata così vicina.

Creativi digitali e tecnologici, garage innovators che, con le loro innovazioni e i loro nuovi modelli di business, stanno dando vita a quella che in molti non esitano a definire la “terza rivoluzione in-dustriale”.

I grandi colossi, messi davanti al cambiamento, inciampano e ca-dono». Per riuscire a tenere il ritmo dei cambiamenti, invece, il model-lo da seguire potrebbe essere quel-lo delle start-up: crescono perché sono l’unità elementare della cloud economy, molto adattabili ai cam-biamenti e incredibilmente efficaci nel fare una singola cosa.

Uno scrittore che ha portato avanti per anni un’azienda tessile, e che non vive la fabbrica come una realtà alienante, parla di futuro e fi-ducia. E descrive con ottimismo un Paese ricco di giovani e potenzialità.

«Noi siamo tutti work in progress... Le grandi persone come le grandi aziende sono in continua evoluzione. Non sono mai finite e mai interamente sviluppate»

«Abbiamo bisogno di nuove idee, di nuove aziende che usino la globalizzazione invece di subirla. Ci vorrà un patto tra le generazioni e ci vorranno anni, ma funzionerà. Perché se non funzionasse l’affidarci alla gioventù, allora vorrebbe dire che saremmo finiti davvero, e che ce lo saremmo meritato»

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EnEl lAB sostiEnE i progEtti più innovAtivi Di giovAni iMprEsE. lA nostrA EnErgiA prEMiA lA vostrA.

50 anni di energia, milioni di attimi insieme. non perderti il prossimo. enel promuove, in italia e in spagna, il laboratorio d’impresa. Un’iniziativa aperta ai progetti con il più alto potenziale nelle clean technologies dell’energia, e che premia l’innovazione e la ricerca. per far crescere,

grazie alle strutture e alla competenza che enel mette a disposizione, una nuova generazione di imprese e di imprenditori, accompagnandoli verso la realizzazione dei progetti. informati e scarica il regolamento su lab.enel.com

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EnEl lAB sostiEnE i progEtti più innovAtivi Di giovAni iMprEsE. lA nostrA EnErgiA prEMiA lA vostrA.

50 anni di energia, milioni di attimi insieme. non perderti il prossimo. enel promuove, in italia e in spagna, il laboratorio d’impresa. Un’iniziativa aperta ai progetti con il più alto potenziale nelle clean technologies dell’energia, e che premia l’innovazione e la ricerca. per far crescere,

grazie alle strutture e alla competenza che enel mette a disposizione, una nuova generazione di imprese e di imprenditori, accompagnandoli verso la realizzazione dei progetti. informati e scarica il regolamento su lab.enel.com

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Contributors

NerioAlessandri—Formazione da industrial designer, nel 1983 (a soli 22 anni) fonda a Cesena Technogym, oggi leader mondiale nei prodotti e servizi per il wellness e la riabilitazione. È pre-sidente della Wellness Foundation, dal 2004è membro del Consiglio Direttivo di Confindu-stria e vicepresidente del Comitato Leonardo.

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FulvioConti—Amministratore delega-to e direttore generale di Enel dal maggio 2005, è Consigliere di ammini-strazione di Barclays plc e di AON Corporation. È Vicepresidente di Eurelectric e di Endesa e Consigliere dell’Accade-mia Nazionale di Santa Cecilia. Dal 1999 al giu-gno 2005 ha ricoperto il ruolo di CFO di Enel.

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AndreaDi Benedetto—Amministratore delegato di 3logic MK (azienda che si occupa di immagini digitali), dal 2009 è presi-dente dei giovani impren-ditori di CNA (confedera-zione che conta 350.000 artigiani e 25.000 piccole e medie imprese) e dal 2011 di LinkedOpenData Italia. È socio fondatore di Wikitalia e vicepresidente del Polo Tecnologicodi Navacchio.

6DarioDi Vico—Sindacalista per la UILM di Torino a cavallo tra anni Settanta e Ottanta, è diventato un noto giornalista italiano scri-vendo sulla “Gazzetta del Popolo”, su “Il Mon-do” e su “Italia Oggi”. Dal 1989 è approdato al “Corriere della Sera” scrivendo di economia e politica; ne è stato vicedirettore dal2004 al 2009.

7RiccardoLuna—È stato vicedirettore del “Corriere dello Sport” e il primo direttore dell’edizione italiana di “Wired”. Scrive su “Il Post” e su “la Repubbli-ca”, per cui ha lavorato come caporedattore. È stato tra i promotori del Nobel per la Pace a Internet ed è presidente di Wikitalia. Dal 2012 è membro del CdA di Oxfam Italia.

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AldoBonomi—Aldo Bonomi è presi-dente e amministratore delegato del Gruppo Bonomi. È presidente di RetImpresa (www.retimpresa.it), l’agenzia di Confindustria per le reti d’impresa, vice-presidente esecutivo di Banca Cre.Lo.Ve. ed è membro del CdA di Bipop-Carire dal 2002.

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LucaIaia—Esperto di progettazione integrata, logiche di con-divisione, responsabilità sociale, aggregazione e sostenibilità delle impre-se, è referente nazionale e coordinatore nazionale dei Giovani Imprenditori presso la Confederazione Nazionale Artigianato e Piccola Media Impresa (CNA). È curatore di CNA NeXT, il Festival dell’In-telligenza Collettiva.

8DavideCanavesio—È amministratore delegato di Saet Group ed è una figura di punta tra i giovani impren-ditori italiani. È stato presidente dei Giovani Imprenditori di Torino dal 2010 al 2011 e uno degli ideatori del primo G8 Young Business Summit a Stresa e del G20 Young Entrepre-neurs Summita Toronto.

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GianlucaComin —Direttore delle Relazioni Esterne di Enel, è in-caricato della comuni-cazione e degli affari istituzionali nazionali e internazionali. È compo-nente del CdA di Civita, della giunta nazionale di Confindustria e di Unin-dustria, responsabile dei corsi in comunicazione dell’università Luiss. È autore di 2030 Tempesta perfetta. Come sopravvi-vere alla grande crisi.

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EdoardoNesi—Scrittore e sceneggiatore italiano, fino al 2004 ha portato avanti l’azienda tessile di famiglia.È autore di Fughe da fermo, Ride con gli angeli, Rebecca, Figli delle stelle, Storia della mia gente e Le nostre vite senza ieri. Ha scritto e diretto il film Fughe da fermo e ha tradotto le 1433 pagine di Infinite Jest di DavidF. Wallace.

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13CorradoPassera—Ministro per lo Sviluppo Economico, Infrastruttu-re e Trasporti, ha ricoper-to diverse cariche per CIR, è stato direttore generale di Arnoldo Mondadori Editore e amministratore delegato di Poste Italiane. Dal 2002 al 2011 è stato amministratore delegato e CEO di Banca Intesa e, dopo la fusione,di Intesa Sanpaolo.

14AlbertoQuadrio Curzio—Professore emerito di eco-nomia politica alla Catto-lica di Milano, è fondatore e presidente del consiglio scientifico del Cranec e membro del consiglio scientifico delle fondazio-ni Edison ed Eni Enrico Mattei. È direttore della rivista “Economia politica. Journal of Analythincal and Institutional econo-mics” e autore di oltre400 pubblicazioni.

15GiulioSapelli—Storico economico ita-liano è stato ricercatore e consulente presso istituti di tutto il mondo e ha lavo-rato nelle più grandi realtà industriali italiane e inter-nazionali. Dal 2002 è tra i componenti del World Oil Council e dal 2003 fa parte dell’International Board dell’OCSE per il no profit. Insegna storia dell’econo-mia all’università Statale di Milano.

GiorgioSquinzi—Cofondatore della Ma-pei (materiali ausiliari per edilizia e industria), è stato presidente di Fe-derchimica, consigliere superiore della Banca d’Italia ed è presidente del CEFIC, l’associa-zione dell’industria chimica europea a cui aderiscono 29.000 aziende. Dal 2012è il presidentedi Confindustria.

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10CarloMarroni—Ha iniziato la sua carriera nel 1988 come giornalista di finanza. È stato prima caporedattore dell’a-genzia “Il Sole 24 Ore Radiocor” e poi suo di-rettore responsabile. Attualmente scriveper “Il Sole 24 Ore” come esperto di politica ed economia internazionale e di in-formazione vaticana.

PeterMarsh—Laureato in chimica,si è occupato come giornalista di eco-nomia, tecnologia, industria chimica. Ha scritto per il “New Scientist” e oggi è ma-nufacturing editor del “Financial Times”.Il suo ultimo libro è The New Industrial Revolution: Consumers, Globalization and the End of Mass Production.

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illustrazioni:Elena La Rovere

16DonatoSperoni—Giornalista economico italiano, è stato collabo-ratore di “Corriere della Sera”, “Mondo”, “Gior-nale Nuovo”. Attualmen-te insegna economia e statistica all’Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino. Scrive per “East” ed è co-autore di 2030 Tempesta perfetta. Come sopravvi-vere alla grande crisi.

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n questi ultimi anni è sufficiente scor-rere forum e notizie sul web o dare uno sguardo ai titoli dei giornali per

veder apparire, davanti ai nostri occhi, un qua-dro generale dipinto a tinte fosche. Crisi econo-mica, governance globale in affanno, sovrappo-polazione, scarsità di energia e materie prime –  acqua e cibo  – sono alcuni dei temi che in questi anni rimbalzano senza sosta nei dibatti-ti dell’opinione pubblica. Eppure, dietro a tutto questo, tra le righe, è possibile leggere una sto-ria diversa.Limitandoci a guardare i dati reali, ci accorgiamo che, nonostante tutto, il mondo continua a produrre ricchezza: molto di più di quanto abbia mai fatto. Il PIL mondiale infatti, ad eccezione del 2009, ha sempre continuato a crescere, più o meno lentamente, trainato dalla locomotiva dei Paesi emergen-ti – Cina, India e America Lati-na – sostituitisi agli Stati Uniti al timone dell’economia mon-diale (World Economic Out-look, International Monetary Found). Un trend confermato dalle previsioni sull’andamen-to dei consumi dell’energia primaria, con un incremento di circa il 40% fra il 2009 e il 2035 (World Eco-nomic Outlook). A contribuire a questa crescita saranno soprattutto i Paesi non OCSE, dove l’u-tilizzo dell’energia, dovuto allo sviluppo econo-mico e al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, determinerebbe un aumento dei consumi del 90% al 2035. Questo soprattut-to in Cina, dove nello stesso anno si utilizzerà il 70% in più di energia rispetto agli Stati Uniti, che scaleranno così al secondo posto della classifica mondiale. Il rapido sviluppo economico dei Pae-si emergenti, in particolare Cina e India, che non ha precedenti nella storia, ha portato un incre-mento dei salari medi 10 volte superiore a quel-lo del Regno Unito durante la prima rivoluzione industriale. Tale crescita consentirà a più di tre miliardi di persone di entrare a far parte del ceto

medio entro il 2030 (McKinsey Global Institute).Saranno proprio questi tre miliardi di cittadi-ni emergenti a dare una spinta notevole alla domanda globale di beni di consumo primari, beni durevoli e di conseguenza materie prime. Una rivoluzione che ha comportato un aumen-to vertiginoso delle connessioni tra persone e oggetti: dal 2008 ci sono al mondo più disposi-tivi tecnologici connessi in rete che persone, nel 2020 saranno 50 miliardi (Cisco, The internet of things). Dieci anni più tardi, nel 2030, le automo-bili in circolazione nel mondo raddoppieranno rispetto al numero attuale, così come cresceran-no esponenzialmente il livello di nutrizione pro capite e le dimensioni delle città, in particolar modo per i Paesi in via di sviluppo. Proprio le grandi metropoli saranno il palcoscenico che

ospiterà questo cambiamen-to: un fenomeno che è già in atto. Dal 2008 a oggi, la popo-lazione che vive nelle città ha superato per numero quella che vive nelle campagne: un evento senza eguali, che si tra-duce in un profondo e radica-le cambiamento sociale e che porta a un inurbamento con-

tinuo. Questa crescita straordinaria renderà le città bisognose di risposte sempre più sofistica-te a sfide complesse: dalla gestione del traffico e dell’inquinamento atmosferico all’efficienza energetica e l’accesso all’elettricità. Le città stes-se diventano laboratori di innovazione. Proprio l’innovazione tecnologica rappresenta la chiave di volta in grado di sostenere questa delicata quanto complessa architettura, consentendoci di coniugare sostenibilità, efficienza e qualità della vita attraverso l’interazione di tre tipi di reti: quelle dell’energia, quelle delle informa-zioni e quelle dei cittadini. Una vera e propria «convergenza tra bit e atomi», come l’ha defini-ta lo scienziato del MIT, Carlo Ratti (Se la città non fa la stupida, “La Stampa”, 25 maggio 2012). L’innovazione è quindi lo strumento per costru-

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ORGOGLIOINDUSTRIALE

editoriale

Ed

di Fulvio Conti

I

L’innovazione è lo strumento per costruire un futuro prossimo e ilmezzo per affrontare il

contesto attuale

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ire un futuro prossimo e il mezzo per affrontare il contesto attuale, agendo come motore di una “nuova rivoluzione industriale”. Il settore ener-getico, in particolar modo quello elettrico, vive questa rivoluzione in maniera amplificata. Una costante negli anni è infatti il ruolo propulsivo svolto dall’elettricità per lo sviluppo sociale, economico e industriale delle comunità. L’ener-gia elettrica è, infatti, la soluzione più pratica, efficace ed efficiente per soddisfare le esigenze di un mondo che ha sempre più fame di ener-gia e che, proprio grazie alle nuove tecnologie, può essere prodotta e distribuita in modo sem-pre più capillare ed economico ai consumatori, secondo nuovi e innovativi modelli di business. L’Europa e l’Italia vantano nell’industria elet-trica una leadership a livello mondiale sull’in-tera filiera produttiva. Enel ha realizzato, nel corso degli ultimi dieci anni, centrali ter-moelettriche con il record di efficienza, impianti rinnova-bili più competitivi, progetti innovativi come la prima cen-trale a idrogeno, l’impianto a carbone pulito più avanzato del pianeta, progetti di cattura e sequestro della CO2, il primo impianto solare a concentrazione in Italia, la mobilità elettrica, il contatore elettronico e le smart grids. Un im-pegno che continuerà anche negli anni a venire, perché l’innovazione è parte integrante della nostra visione del futuro. Innovazione non vuol dire soltanto grandi progetti, ma anche leve e strumenti a supporto della ripresa economica del nostro Paese. Qualsiasi innovazione tecno-logica parte sempre e comunque da un suppor-to hardware, sia esso un microchip, un robot o una stampante 3D. L’industria manifatturiera avrà, quindi, una grande opportunità di rina-scita se sarà capace di reinventarsi, partendo dalla propria esperienza e dalle solide basi su cui può già oggi contare, in particolare in Italia. Forse troppo frettolosamente il nostro Paese

viene classificato come “a bassa crescita”, ma vi sono settori vivaci, con imprese che crescono ed esportano. Nel settore manifatturiero, in par-ticolare, i numeri sono incoraggianti: nel corso del primo semestre 2012, in Italia, un’impresa esportatrice su due ha incrementato le vendite dei propri prodotti all’estero, rispetto allo stesso periodo del 2011. Questo è il segno tangibile che le aziende più dinamiche possono essere quelle più competitive. Una dinamicità che può essere estesa con la creazione di una rete capillare che faccia circolare brillanti “idee di impresa”, ita-liane ed estere, riattivando lo spirito imprendi-toriale che da sempre contraddistingue il nostro Paese, e mettendo a fattore comune giovani, im-prese e innovazione. Un tessuto connettivo che ponga le premesse per la nascita e lo sviluppo

di nuove imprese e promuova gli investimenti su ricerca e sviluppo industriale. Ad esem-pio come fa Enel attraverso il Progetto EnelLab, che for-nisce a start-up promettenti finanziamenti, strumenti e ambienti adeguati ad affron-tare la competizione globale. Oppure attraverso iniziati-

ve che attivino le università, fornendo loro un sostegno concreto, con la Fondazione Centro Studi Enel. Non dobbiamo quindi lasciar ap-passire il nostro patrimonio di competenze e conoscenze tecniche, ma anzi dobbiamo valo-rizzarlo. La storia ci insegna che ogni rivoluzio-ne industriale è stata mossa da nuovi elementi tecnologici introdotti da imprenditori esperti del proprio settore che non hanno avuto paura di lanciarsi in nuove avventure. L’Italia e l’Eu-ropa hanno una grande storia, la maturità e le capacità per rilanciare il futuro e guadagnare nuovamente un ruolo di traino dell’economia universalmente riconosciuto. Guardiamo quin-di con fiducia al futuro, oltre la crisi, consape-voli delle nostre capacità e delle nostre dimen-sioni, e soprattutto essendo capaci di innovare.

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Nel nostro Paeseci sono settori

vivaci, con impreseche cresconoed esportano

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n tutto il mondo si risente parlare di industria. È come il venticello ros-siniano, ma questa volta non parla

di calunnia, ma di un ritorno alla verità. La verità dell’industria e del lavoro industriale. La ragione di ciò è semplice e drammatica in-sieme: la crisi finanziaria che si è sovrapposta in tutto il mondo a quella industriale fa molto più paura di quest’ultima. Il mondo vecchio e nuovo è passato attraverso grandi e ripetute crisi industriali di bassa intensità che hanno smosso i mari dell’economia tra i due grandi tsunami del 1907 e del 1929, sino al terzo iniziato alla fine degli anni Novanta e in cui siamo ancora immersi.Ma le crisi industriali distruggono per ricreare. Quelle finanzia-rie, invece, non ricreano mai un bel nulla. È la differen-za tra il DDT e il napalm. E quest’ultima crisi finanziaria da eccesso di rischio e da illimitata avidità dei top manager finanziari fa veramente paura, perché rischia di non finire mai se non si ri-spezza in due la macchina degli intermediari finanziari, dividendo le banche commerciali da quelle d’investimento. Quando si ha paura si ricerca la sicurezza. E l’industria è sicurez-za perché è fabbricazione, creazione, unità di spirito e di materia, di corpo e anima della so-cietà. Soprattutto oggi che la nuova industria non si sviluppa più solo per filiere merceolo-giche e tecnologiche, ma anche e soprattutto

per grappoli scientifici, tecnologici, produt-tivi nella costante diminuzione della dimen-sione di scala degli impianti e delle imprese contemporaneamente alla crescente interre-lazione sistemica fra queste ultime, creando nuove costellazioni nel cielo delle industrie. La cosa più sconvolgente di questa nuova in-dustria è la riclassificazione dei modelli di autorità e delle relazioni di potere. Queste ultime sono sempre meno importanti per-ché da sole non riescono a garantire una ge-stione efficiente dell’execution progettuale e

produttiva. Mi spiego me-glio. La proprietà non è più sufficiente da sola come un tempo per garantire l’imple-mentazione industriale. Non si possono più acquistare gli elementi essenziali della produzione. E questo perché gli elementi essenziali della produzione sono divenute

le capacità personali idiosincratiche che ga-rantiscono il flusso senza ridondanze delle tecnologie che oggi è necessario per avere una competitività distintiva. Se prima pote-vo acquisire i fattori e organizzarli sotto una gerarchia grazie alla transazione economica, oggi quest’ultima non è più sufficiente. È ne-cessario essere in grado di attrarre, grazie a un’autorità o autorevolezza tecnologica, espe-rienziale e anche morale, i talenti che sono la chiave di volta della nuova industria che avanza. Ciò che caratterizza il talento è la passio-

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LA NUOVAINDUSTRIA

editoriale

Ed

di Giulio Sapelli

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L’industria è sicurezza perché è fabbricazione,

creazione, unità di spirito e di materia, di corpo e

anima della società

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ne che unisce competenze e capacità. Ma la vera novità è che questa passione oggi la si vuole ritrovare e riscoprire tanto nel lavoro direttivo quanto in quello che un tempo si chiamava “lavoro esecutivo” e che oggi tale non è più perché tutti gli operai della nuo-va industria sono operatori qualificati che sul loro posto di lavoro dirigono e decidono quanto il manager dirige e decide nella sfe-ra più ampia della progettazione strategica. Se si gira il mondo, si sente il venticello della rinascita dell’orgoglio industriale che unisce padroni e operai, professio-nal e manager, senza che ciascuna di queste antiche ma oggi sempre nuove figu-re sociali perda la sua for-za creatrice. Naturalmente nonostante i molti ostacoli culturali che esistono in Ita-lia contro l’industrialismo, questo nuovo rinascimento industriale ha profonde radici anche nel no-stro Paese. Non dobbiamo dimenticare che nonostante la distruzione del nostro patri-monio, rappresentato dalla grande impre-sa, che si è consumato soprattutto negli anni Novanta del Novecento, rimaniamo ancora la seconda potenza industriale europea dopo la Germania e ricopriamo un ruolo mondia-le assai più rilevante di quanto non si pensi. Non bisogna dimenticare inoltre che questa nuova configurazione dell’orgoglio industriale passa per i mille fili di una tela che ha un or-

dito assai composito: le grandi imprese (Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Avio), le cosiddette medie imprese del “quarto capita-lismo” e la miriade di imprese piccole e arti-giane che sono assai meno arretrate di quanto non si pensi comunemente. In queste ultime infatti vi è un giacimento prodigioso di ca-pacità artigianali che si sviluppano nelle più diverse popolazioni organizzative: filiere oriz-zontali merceologiche, dove grande e piccolo si intersecano; filiere verticali funzionali, dove più tecnologie convivono; arcipelaghi di com-

petenze che sono isole mera-vigliose di capacità operaia e imprenditoriale insieme. Dappertutto si respira di nuo-vo la fierezza del mestiere, del saper fare le cose con le mani e con il cervello insieme. Dobbiamo fare ancora uno sforzo, però. Come famiglie, come padri, come Maestri,

dovremmo essere fieri anche noi se i nostri figli son contenti di andare all’istituto professiona-le o tecnico invece che prendere una laurea. E questo perché son certo che un buon operaio-operatore e un buon professional-manager pos-sono amare la lettura di Platone, Pascoli, Zan-zotto e Goethe anche se non hanno preso una laurea, oppure se l’hanno presa, ed è una laurea in ingegneria, in sismica, in geologia, in biolo-gia. E questo perché la nuova industria non po-trà costruirsi senza l’abbattimento di antiche gerarchie e senza l’unificazione delle culture.

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Si respira di nuovo la fierezza del mestiere,del saper fare le cosecon le mani e con il

cervello insieme

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Sc

scenari

IL MANIFATTURIERO: MOTORE DELLA

CRESCITAarticolo di Giorgio Squinzi

L’innovazione tecnologica è il motore della cre-scita e della produttività e la base su cui poggia lo sviluppo economico delle nazioni. E il sistema in-novativo è il cuore dell’industria manifatturiera. Il manifatturiero contribuisce più degli altri settori alla produzione di nuove conoscen-ze scientifiche e tecnologiche, perché sono le imprese attive nei settori industriali più pros-simi alla scienza quelle che finanziano e ge-stiscono i più importanti laboratori di ricer-ca, effettuano anche gran parte della ricerca e sviluppo privata, che è il principale input dell’attività innovativa, e riescono più di altre a utilizzare conoscenze esterne all’impresa e a sta-bilire rapporti di collaborazione con le università.

In Europa, la distribuzione geografica della capa-cità innovativa, misurata dal numero di brevetti per abitante, segue quella della vocazione indu-striale. Il manifatturiero, dunque, continua a es-sere la “sala macchine” della crescita perché dal-la sua attività originano i guadagni di produttività dell’intero sistema economico, direttamente o in-direttamente, attraverso cioè le innovazioni incor-porate nei beni utilizzati nel resto dell’economia. Ma la centralità dell’industria di trasformazio-ne nello sviluppo di un Paese non si misura sol-tanto sul terreno della sua capacità di produrre innovazione. L’industria di trasformazione è infatti anche la leva attraverso cui un Paese so-stanzialmente privo di risorse naturali diventa

«Le maggiori nazioni avanzate hanno nuovamente messo l’industria di trasformazione al centro delle loro strategie di sviluppo. Se l’Italia vuole continuare a essere soggetto

autorevole della vita economica su scala mondiale, non potrà che essere per la forza del suo sistema industriale, che è oggi

l’unico ambito nel quale si possa pensare di investire per riavviare un percorso di sviluppo dell’intero sistema-Paese»

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in grado di allentare il “vincolo esterno” alla crescita, ossia riesce a finanziare l’acquisto del-le sue importazioni. Nel caso dell’Italia, poiché le esportazioni sono costituite per quasi l’80% da prodotti manufatti, in loro assenza si avreb-be una situazione in cui non sarebbe possibile procurarsi le materie prime, a cominciare dall’e-nergia, il cui acquisto è finanziato proprio dal surplus negli scambi di manufatti con l’estero. Per tutte queste ragioni la rilevanza dell’attività manifatturiera va molto al di là di quanto non riveli-no le statistiche sul suo contributo diretto al valore aggiunto e all’occupazione dell’intera economia.

La consapevolezza di questo fatto sta alimentan-do in molti Paesi industriali una vera e propria ri-scoperta della centralità manifatturiera. Le mag-giori nazioni avanzate hanno nuovamente messo l’industria di trasformazione al centro delle loro strategie di sviluppo. Stati Uniti, Regno Unito e

Francia hanno avviato riflessioni e varato misure per puntare con decisione sul rilancio dell’indu-stria manifatturiera. La Germania l’ha fatto da tempo. Ma anche le economie emergenti gesti-scono programmi esplicitamente rivolti al raffor-zamento delle loro attività manifatturiere. Questi Paesi, avanzati o emergenti che siano, agiscono a partire da una visione chiara del problema e si dimostrano capaci di perseguire strategie di lun-go periodo coerenti con gli obiettivi individuati.L’Italia appare in ritardo. Ogni decisione assunta dalla politica dovrebbe, sempre, essere incardi-nata in una visione del futuro del sistema-Paese cui si riferisce. Purtroppo la storia che abbiamo alle spalle e gli stessi mesi che stiamo vivendo costituiscono un caso di come questo princi-pio sia troppo spesso disatteso. Di emergenza in emergenza, si sommano decisioni e provve-dimenti che non riescono ad andare oltre un orizzonte brevissimo, e che una volta saltato l’ostacolo di turno finiscono a loro volta per do-ver essere seguiti da altre decisioni e altri prov-vedimenti guidati dall’ansia di fare in fretta. È necessario uno sguardo più lungo, che con-senta di tornare a concepire la politica come strumento per guidare il futuro del Paese, sottra-endola alla deriva di dover piuttosto seguire un’a-genda dettata dall’urgenza, se non da altri. Ed è necessario che questo mutamento di prospettiva non tardi a configurarsi. I grandi Paesi industria-li con cui dobbiamo confrontarci, vecchi o nuovi che siano, hanno tutti molto da insegnarci dal punto di vista della costruzione di un sistema-Paese orientato verso obiettivi chiari ed espliciti. Il ritardo dell’Italia rischia di diventare pericoloso, perché già nel confronto internazionale il nostro

In un mondo in cui “saper fare bene le cose” non basta più, perché occorre saperle fare anche meglio degli altri, è necessario abbandonare la logica dell’adattamento passivo alle condizioni del contesto economico e agire attivamente come fa un soggetto che progetta il proprio futuro

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il manifatturiero: motore della crescita | oxygen

Paese sconta un deficit di crescita – anche manifat-turiera – e una minore crescita della produttività.Se la conoscenza è sempre stata l’elemento cru-ciale della competitività, oggi lo è diventata an-cora di più. In questa chiave, accrescere l’atti-vità volta alla creazione di nuove conoscenze e al loro utilizzo è diventato imprescindibile per rafforzare i fattori competitivi del Paese, per-ché una volta raggiunti elevati livelli di reddito pro capite la crescita di un’economia dipen-de dalla sua capacità autonoma di innovare. Per fare questo occorre ripartire dai molti punti di forza di cui l’industria manifatturiera italiana ancora dispone e, contemporaneamente, affron-tare le debolezze accumulate nei settori in cui essa appare in ritardo, che sono quelli in cui l’innova-zione è maggiormente legata ai progressi della conoscenza scientifica. E poiché l’innovazione è il risultato di un fitto intreccio di relazioni tra molti attori (imprese, università, centri di ricerca gover-nativi e non), occorre potenziare le condizioni isti-tuzionali che favoriscono l’identificazione e l’ado-zione di tecnologie e modelli organizzativi nuovi.Se l’Italia vuole continuare a essere soggetto au-torevole della vita economica su scala mondiale, non potrà che essere per la forza del suo sistema industriale, che è oggi l’unico ambito nel qua-le si possa pensare di investire per riavviare un percorso di sviluppo dell’intero sistema-Paese. La forte vocazione manifatturiera dei nostri ter-ritori e l’enorme capitale umano di cui dispone la nostra industria – troppo spesso miscono-sciuto da osservatori disattenti e superficiali – costituiscono la base di una possibile reindu-strializzazione della nostra economia, che è l’u-nica via attraverso cui il Paese può uscire dalla

situazione attuale. L’industria del Paese ha su-bito senz’altro negli anni colpi rilevanti, ma è ri-uscita, nonostante la durata e l’intensità di una recessione devastante, a mostrare una capacità di tenuta che tutti quelli che non ne conoscono a fondo la natura non avrebbero immaginato.Nello stesso tempo, nei confronti di chi fa impresa è bene che sia fatto valere prima di tutto il princi-pio che – in un mondo in cui “saper fare bene le cose” non basta più, perché occorre saperle fare anche meglio degli altri – è necessario abbando-nare la logica dell’adattamento passivo alle condi-zioni del contesto economico e agire attivamente come fa un soggetto che progetta il proprio futuro. La linea di demarcazione tra gli imprenditori che saranno capaci di gestire un cambiamento sempre più vorticoso e quelli che, non essendo-lo, si troveranno costretti a uscire dal mercato è definita dalla capacità di costruire, intorno alla “velocità di risposta” alla domanda, un know-how che altri non hanno. Il cardine della com-petitività saranno le competenze che l’impresa sarà in grado di sviluppare e la capacità di adot-tare soluzioni organizzative coerenti con esse.

In Europa la distribuzione geografica della capacità innovativa segue quella della vocazione industriale. Il manifatturiero continua dunque a essere la “sala macchine” della crescita

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Partiamo da un dato fon-damentale: l’Italia oggi è, nonostante tutto, il secon-do Paese manifatturiero in Europa. È vero, la crisi ha accentuato le conseguenze negative del processo di globalizzazione e abbiamo perduto posizioni di com-petitività a causa di tutte le zavorre del Paese Italia che il sistema produttivo si por-ta dietro. Ciononostante, è ancora possibile realizzare manifattura in Italia, pur-ché sia di alta qualità. Per farlo, occorre concentrarsi su alcuni fondamentali elementi.Partiamo dalla competitivi-tà. Negli ultimi anni è stato solo l’export industriale a guidare i casi di lieve ripresa nel nostro Paese.

Ciò conferma il fatto che i nostri prodotti sono ancora apprezzati all’estero. Scendiamo nello specifico e guardiamo a un caso solo: la Cina. La Cina è stata per anni un Paese di sbocco per la nostra manifattura; ora la notizia positiva su cui convergono molti degli analisti è che per i prossimi 10 anni, su tutto il settore della produ-zione di beni industriali e macchine utensili, la Cina non sarà competitiva in termini di qualità tecnolo-gica quanto il Nord Italia e la Baviera, le aree d’Europa che hanno nel manifattu-riero il loro punto di forza.Questo, che potrebbe sembrare in controtenden-za con l’investimento in

Progettareil futuro

opinioni

«In questi anni di crisi si sono fatte sempre più insistenti le sirene che cantano di un Paese che deve evolvere solo verso i servizi. E sempre più frequenti sono state le profezie di sventura su un settore manifatturiero non competitivo e ormai destinato al declino. Io non sono d’accordo né con una né con l’altra interpretazione. E lo dico da imprenditore manifatturiero».

articolo di Davide Canavesio

Op

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ricerca e sviluppo e con la crescita globale della Cina, in realtà è giustificato dal fatto che tutto ciò che è “produzione di sapere tecnologico” su macchine utensili o su processi industriali non è basato solo sull’innovazione e sui forti investimenti in R&D, ma anche su decenni di esperienza accumulata: una sorta di artigianato industriale che non si può comprare solo con il dena-ro, ma che richiede decen-ni di lavoro e di esperienza. Quell’esperienza che solo le grandi aree industriali europee conservano. Si tratta di una buona notizia per il nostro Paese: vuol dire che nei confronti della Cina, come anche di altri mercati emergenti, la competitività tecnologica è ancora un’arma importan-tissima su cui puntare. In realtà, l’innovazione stessa può aprire ancora grandi mercati: l’energia ad esempio. In Italia, quando si parla di energia, si tende a considerare solo l’ultima parte della filiera, trascurando le parti industriali che si collocano a monte del processo, su cui noi siamo molto forti e potremmo esserlo ancora di più. Per fare un esempio concreto, l’azienda che guido, la Saet, ha acquisito uno spin-off universitario a Padova e da tre anni lavoriamo a un nuovo prodotto per realizzare lingotti di silicio per il foto-voltaico, basati sulla nostra tecnologia. L’investimento fatto in ricerca e sviluppo, di qualche milione di euro, oggi sta pagando e stiamo firmando i primi contratti con i top five player a livello mondiale in mercati lontani da noi – non a caso di nuovo la Cina – e abbia-mo creato un settore che fino a oggi letteralmente non esisteva.Come abbiamo fatto? Sicuramente abbiamo seguito tre punti cardine: la

focalizzazione del business (con la costruzione di applicazioni attorno allo stesso focus tecnologico), l’internazionalizzazione e l’innovazione nella creazio-ne di prodotti che possano servire al mercato. Questo caso dimostra che ciò che serve al nostro Paese per ripartire è “scatenare” l’energia creativa delle nostre piccole multinazionali tascabili. In Italia siamo pieni di hidden champions, bisogna fare in modo che queste imprese possano crescere proprio sugli assi cui ho fatto cen-no: il focus sul business, la possibilità di aumentare nuove applicazioni intorno ad esso, un grandissimo supporto all’internaziona-lizzazione e incentivi sulla ricerca e sviluppo.È vero, l’Italia si trova agli ultimi posti nelle classifiche mondiali per investimenti in ricerca e sviluppo; sareb-be tuttavia semplicistico affermare che le imprese debbano muoversi da sole. Un po’ di storia può essere utile: anche la mitica Silicon Valley, l’incubatore di tutte le innovazioni tec-nologiche più dirompenti degli ultimi decenni, è cresciuta negli anni Cin-quanta e Sessanta non per semplice volontà privata o per incrocio di imprese, ma con fortissimi investi-menti del governo negli Stati Uniti da parte della Difesa e successivamente della NASA. Solo processi catalizzanti di questo tipo riescono a convogliare le energie necessarie per innescare processi virtuosi di innovazione.Un ulteriore tema su cui noi come imprenditori e Paese dovremmo ragio-nare in una dimensione nettamente europea è quello della prospettiva di politica industriale. Quello che veramente manca al nostro sistema produttivo, al di là di riforme fiscali, dell’alleviamento del peso

della burocrazia o di un forte focus sulla produtti-vità, è una fortissima presa di coscienza della necessità di una politica industriale. Da circa trent’anni questa politica industriale non è presa in considerazione dai nostri policy maker; eppure, individuare i settori strategici e convogliarvi le risorse partendo dal nostro DNA può veramente aiuta-re il nostro Paese e risultare più utile di miriadi di aiuti a pioggia. Politica industriale non vuole dire l’ingresso dello Stato nell’industria, ma vuol dire fornire linee guida e individuare le grandi direzioni strategiche lungo cui muoversi, in modo da dare serenità agli investitori di medio e lungo periodo. Quando la Germania annuncia che entro il 2050 più di metà dell’energia sarà prodotta da rinnova-bili, dà un indirizzo chiaro e inconfutabile di quello che è la politica industriale. Non è una questione di incentivi. Dietro una tale dichiarazione le imprese tedesche e mondiali che investiranno in Germania sanno che nei prossimi quarant’anni questo sarà uno dei driver di crescita del Paese e quindi gli investimenti, anche con un payback ventennale, sono giustificati. In un Paese come l’Italia, invece, nell’arco di tre anni gli incentivi creano bolle speculative che poi scom-paiono e lasciano le ceneri di imprese nate all’improv-viso, senza nemmeno mez-zo seme di industria futura. Il nostro è un Paese che ha nel DNA un forte senso della costruzione di beni materiali, della qualità, del-la manifattura. E in questo senso deve progettare il suo futuro, per realizzare appieno le prospettive della terza rivoluzione industriale che attende il Pianeta e per accrescere finalmente la sua competitività.

Saet—

La Saet da tre anni lavora aun nuovo prodotto per realizzare

lingotti di silicio per il fotovoltaico. Ora sta firmando i primi contratti con i top five player a livello mondiale in mercati

lontani e ha creato un settore che letteralmente non esisteva

(www.saetgroup.com).

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01 /RI-STRUTTRA-ZIONE

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La produzionedi domaniin sette parole

approfondimento

Per delineare uno scenario presente e futuro dell’industria bisogna prima comprendere gli elementi che più la influenzano. Capire l’industria cominciando da alcune parole: ristrutturazione, esportazione, filiera, rete d’impresa, distretto, retail e sindacato.

articolo di Dario Di Vico

Abbiamo alle spalle quattro anni di crisi e il futuro della nostra industria manifatturiera appare ancora, per usa-re un eufemismo, incerto. Ma più che esercitarsi in previsioni da Cassandra vale la pena tentare di fare il punto su alcune trasformazioni che sono già av-venute e su altre che sarebbe auspica-bile che avvenissero. Per comodità del lettore ho scelto alcune parole-chiave, un piccolo lessico della crisi e delle sue conseguenze in quello che rimane a tutti gli effetti uno dei grandi Paesi industriali del Vecchio Continente.

Ap

RistrutturazioneUna volta le imprese ristrutturavano a fronte di un’emergenza vuoi di merca-to vuoi finanziaria. Adesso hanno ca-pito tutti, anche i piccoli imprenditori, che non esiste soluzione di continuità e un’azienda che voglia stare in palla si sottopone a continui check-up. Le tec-niche sono le più svariate (e benvenute) ma emerge quasi sempre da parte degli industriali un’estrema attenzione alle competenze. Pur sapendo che la crisi esige di essere spietati nel taglio dei co-sti, nessuno si è privato del personale “approfittando” della recessione, anzi le difficoltà di oggi hanno accentuato la riflessione sul capitale umano e la sua strategicità. Sulla ristrutturazione è di grande interesse il lavoro di qual-che mese fa di Cipolletta-De Nardis, mentre manca una ricognizione sui processi di esternalizzazione e la loro evoluzione. Se ne sente la necessità per fare il punto anche sul rapporto tra industria e professioni. L’afferma-zione di un terziario Made in Italy qua-lificato e capace di servire il mercato internazionale (e non solo la propria regione) passa da quella relazione.

Le reti di impresa possono costituire uno strumento importante. In questo modello il piccolo imprenditore continua a sentirsi protagonista di un processo di sviluppo

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ExportQualcuno in campo sindacale ha avuto la leggerezza di sostenere che avremmo (colpevolmente) adottato un modello export led. Magari! In realtà non si può dire certo che il sistema si è mosso se-condo un principio canonico ma di fronte alla stagnazione della doman-da interna la strada dei mercati esteri è parsa l’unica carta da giocare fino in fondo. Se proprio volessimo essere fi-scali potremmo dire che ce ne sarem-mo dovuti accorgere prima perché se la Germania esporta più di noi nel set-tore alimentare, senza voler dir nulla di male su birra e wurstel, vuol dire che ci siamo addormentati sui facili allori e non abbiamo spremuto tutto il po-tenziale di export della nostra cultura industriale nel campo del food. Ciò che di importante è avvenuto riguarda l’at-teggiamento tenuto di fronte al cam-bio dei mercati; la relativa debolezza delle economie occidentali e la spinta dei BRICS avrebbe potuto tagliarci le gambe e invece la capacità di adatta-mento è stata più forte del trauma e qualche risultato importante nei nuo-vi mercati l’abbiamo messo a segno.

FilieraLa riorganizzazione delle aziende, so-prattutto quella che possiamo definire “non difensiva”, non si è certo fermata al perimetro della casa madre, anzi ha investito tutta la filiera della fornitu-ra. Esistono molti casi in cui questo si è rivelato un processo virtuoso sia in termini di efficienza sia in termini di coesione sociale. Di grande interesse è sicuramente il lavoro fatto da almeno tre multinazionali, due del lusso (Gucci e Louis Vuitton) e una della grande di-stribuzione (Ikea), che in territori diver-si hanno stipulato con il mondo della fornitura una forma di partenariato. In qualche caso, vedi la multinazionale sve-dese, con maggiore attenzione ai costi, negli altri alla qualità. Ciò ha permesso ai fornitori di avere orizzonti di impegno più certi e di poter contare su interventi della grande azienda tesi a razionaliz-zare o a innovare questo o quel punto del ciclo produttivo. Se guardiamo alle esperienze italiane è interessante osser-vare quei casi in cui è stato l’elemento immateriale a rimotivare la filiera e a innovarla. Penso al salone del Mobile di Milano e ai piemontesi di Slow Food.

02 /FILIERA

03 /EXPORT

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Nella nostra cultura industriale il culto del prodotto si è tradotto troppo spesso nella dimenticanza dello scaffale; non basta sfornare delle belle cose ma bisogna farle arrivare nel posto giusto al momento giusto

la produzione di domani in sette parole | oxygen

Reti di impresaLe polemiche sul nanismo delle im-prese italiane come ostacolo insor-montabile alla crescita lasciano il tempo che trovano e comunque non ci consentono di fare un solo passo in avanti. Le reti di impresa, la via dolce alle aggregazioni, invece possono co-stituire uno strumento importante. In questo modello il piccolo imprendi-tore continua a sentirsi protagonista di un processo di sviluppo e non gli viene chiesto di farsi brutalmente da parte, come faceva uno studio presen-tato da Confindustria qualche anno fa e che era stato catalogato sotto il nome di “T holding”. Ad oggi sono cir-ca duemila le imprese che in qualche modo si sono messe già in rete ma è poco, troppo poco. Non tutte le as-sociazioni di rappresentanza si sono impegnate come avrebbero dovuto e i ritardi si vedono. Alcune banche ave-vano promesso di aiutare il processo di aggregazione riconoscendo una sorta di rating premiale a chi collabo-rava per far aumentare la taglia azien-dale, però in periferia di tutto ciò è

arrivato ben poco e l’impressione è che le banche abbiamo più la tenden-za a investire in campagne di comu-nicazione pro-PMI più che ascoltare davvero il territorio. Anche la relazio-ne banca-impresa non riesce oggi a esprimere tutto il suo valore poten-ziale e sconcerta come questo tema non sia oggetto di un’attenta e auto-critica valutazione da parte dell’ABI.

02 /FILIERA

04 /RETI DI IMPRESA

Y = C + X - MIl modello economico

dell’export led, introdotto negli anni

Settanta, sostiene che la domanda

esterna (misurata in esportazioni)

generi lo sviluppo locale attraverso

effetti moltiplicatori sul reddito e

sull’occupazione.Le esportazioni

come propulsoredella crescita di un

sistema economico.

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05 /DISTRETTI

07 /SINDACATI

06 /RETAIL

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SindacatiSe mettiamo da parte il caso Fiat, as-solutamente eccentrico, è sempre più evidente che esistono in Italia due sistemi di relazioni industriali. Uno romano e l’altro territoriale. Il primo vive di interviste più o meno roboanti, di mediazioni all’interno delle singole confederazioni, di un dibattito domi-nato dalla necessità di sfornare sempre nuove leggi. Senza il tavolo della con-certazione il sindacalismo romano ha perso il suo core business, fatica a cam-biare mentalità e si agita per segnala-re quantomeno la sua presenza. È un associazionismo degli apparati. Esiste poi sul territorio una realtà di contrat-tazione articolata silenziosa, unitaria, collaborativa. Sovente il sindacalismo territoriale non invia a Roma nemme-no gli accordi che chiude in azienda per paura che qualche funzionario centrale emetta il suo potente “Niet!”. Dentro questa molteplicità di accordi ci sono molte novità, a cominciare dal peso che sta assumendo il welfare azienda-le sulla spinta dell’esempio Luxottica. Ma sono interessanti anche le soluzio-ni che di volta in volta vengono trovate in materia di lotta all’assenteismo, re-munerazione del merito, premialità, produttività. È dai territori che può nascere un sistema di relazioni indu-striali più moderno e utile alla ripresa.

PS: Se alle analisi più o meno ideolo-gizzanti sul futuro della nostra indu-stria sostituiamo la ricognizione dei fenomeni, il terreno diventa subito fertile. Chi sarà arrivato alla fine di questo articolo abbia la compiacen-za di considerarlo solo un antipasto.

I distretti sono chiamati ad allungarsi sul territorio, rompendo chiusure localistiche, e a prolungare le proprie reti all’estero. Ce la faranno?

DistrettiIl sistema distrettuale italiano sembra aver retto agli urti della recessione, an-che se non in modo omogeneo. Qual-che territorio ha pagato duramente i suoi ritardi nell’innovazione e nel ripo-sizionamento di mercato (vedi le sedie friulane), altri hanno saputo risponde-re colpo su colpo. Penso sicuramen-te a Sassuolo che cerca di coniugare piastrelle e green economy, penso alla concia di Arzignano che ha tagliato i tempi di produzione e ha iniziato a svi-luppare un prodotto moda. Secondo la Fondazione Nord Est i distretti però sono chiamati a diventare “dis-larghi”, ad allungarsi sul territorio, rompendo chiusure localistiche, e a prolungare le proprie reti all’estero. Ce la faranno? La risposta sta nella capacità di ri-specia-lizzarsi, ovvero di coltivare il segmento o la nicchia di mercato più tradizionale, ma al tempo stesso introdurre novità di prodotto o di concept. Anche in que-sto caso manca forse una ricognizione puntuale di quanto stia avvenendo.

RetailÈ una materia nella quale noi italiani non andiamo bene come dovremmo. Del resto se fossimo stati bravi nel ca-pire la forza negoziale della distribu-zione (a valle) rispetto alla produzione (a monte) non avremmo aspettato che gli svedesi creassero la multinazionale del mobile beffando i maestri italiani. Nella nostra cultura industriale il culto del prodotto si è tradotto troppo spes-so nella dimenticanza dello scaffale, non basta sfornare delle belle cose ma bisogna farle arrivare nel posto giusto al momento giusto. I nostri cugini fran-cesi in materia potrebbero insegnarci molto. I gruppi italiani della grande distribuzione non paiono oggi in grado di andare all’estero come hanno fat-to Auchan e Carrefour, e ci mancano quindi delle moderne trading company che possano fare da portaerei del Made in Italy. Sono sorte esperienze interes-santi come Eataly nel “food” ma siamo ancora molto al di sotto delle necessità e i tempi non giocano a nostro favore.

la produzione di domani in sette parole | oxygen

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Nell’ultimo anno l’Italia si è dimostrata un inte-ressante e, per molti versi, efficace laboratorio tra i Paesi dell’Unione Europea e nel mondo. A fine 2011 eravamo un Paese che stava pericolosamente scivolando verso una crisi potenzialmente dram-matica, tanto da rischiare di perdere la sovranità nazionale. Oggi, dopo un anno di intenso lavoro, abbiamo riacquistato la credibilità internaziona-le tornando a svolgere un ruolo di primo piano dentro l’UE e su tutti i principali tavoli globali.Il governo Monti è riuscito a realizzare il profondo cambiamento del nostro Paese intervenendo con decisione e attraverso riforme strutturali – come la modernizzazione del sistema pensionistico e la riforma fiscale – e mettendo innanzi tutto in sicu-rezza i nostri conti pubblici. Questo risultato fon-damentale è stato possibile grazie all’impegno di tutti – governo, parlamento, parti sociali – e al sen-so di responsabilità mostrato dai cittadini italiani. Fin dal primo atto del nostro governo, il Salva Ita-lia, abbiamo cercato di portare avanti in modo congiunto politiche di rigore e riforme orientate alla crescita. Nel corso di questi mesi abbiamo via via attuato una vera e propria agenda per la crescita sostenibile, che ha toccato e innovato i principali elementi che costituiscono le debolezze struttu-rali del nostro sistema economico e le principali

leve che possono rendere più competitivo il no-stro Paese e quindi più capace di crescere e crea-re occupazione. Tanti nodi sono venuti al pettine tutti insieme a causa di troppi anni di inazione.L’Italia può tornare a crescere risolvendo – come si sta facendo – i problemi accumulati e sfruttan-do i numerosi nostri punti di forza. La nostra eco-nomia è molto diversificata e non ha fatto l’errore di trascurare tutto a favore dei soli servizi. Non a caso continuiamo a essere il secondo Paese ma-nifatturiero europeo dopo la Germania e uno dei principali esportatori del mondo. L’Italia è leader mondiale in settori che non potranno che avvan-taggiarsi della globalizzazione, come la meccani-ca e l’automazione, l’agroalimentare, il sistema moda, il sistema casa. Ma prospettive positive vengono da vari altri comparti di nostra tradizio-nale forza come il turismo e il mondo della salute.Non ci mancano le energie imprenditoriali, il debi-to privato – sia delle famiglie, sia delle imprese – è contenuto, mentre la ricchezza complessiva delle famiglie italiane e la capacità di risparmio, anche se più ridotta, costituiscono elementi di forza. Il nostro sistema bancario è più solido che altrove e non ha comportato né operazioni di salvataggio né oneri per i contribuenti attraverso entrambe le crisi finanziarie. A differenza di molti altri Paesi non ab-

Co

contesti

UN’ITALIA PIÙMODERNA, EUROPEA,

COMPETITIVAarticolo di Corrado Passera

«Il cambiamento del nostro Paese è appena iniziato. Abbiamo tracciatoun percorso chiaro con misure che potevano essere prese con le scarse risorse e lo scarso tempo a disposizione e già oggi abbiamo un’Italia più moderna,

più europea, più competitiva. Ora bisogna andare avanti».

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biamo da smaltire bolle finanziarie o immobiliari.Partendo da queste basi, abbiamo iniziato a cre-are un Paese più moderno e competitivo, dotan-dolo di un ecosistema di norme più orientato a cogliere le nuove sfide dei mercati internazionali. Tra gli svantaggi competitivi ai quali abbiamo mes-so mano in modo significativo, possiamo menzio-nare i costi energetici, il gap infrastrutturale, la mancanza di liquidità e di credito soprattutto per le piccole e medie imprese e l’eccesso di burocrazia. Energia: la liberalizzazione del mercato del gas e la separazione proprietaria di SNAM da ENI, la riforma del sistema di incentivazione delle fonti rinnovabili sono già realtà e costituiscono punti qualificanti della nuova Strategia Energetica Na-zionale. Attraverso la SEN – oggi in consultazione – abbiamo tracciato la strada che il nostro Paese dovrà percorrere sul fronte delle politiche ener-getiche da qui al 2020, riducendo sensibilmente la bolletta energetica e la dipendenza dall’estero. Infrastrutture: abbiamo completamente rifor-mato la normativa di settore, introducendo semplificazioni radicali e accelerando i tem-pi di approvazione e realizzazione delle opere. Tramite il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) abbiamo sbloccato risorse per quasi 40 miliardi di euro, aprendo o mantenendo aperti tanti cantieri e mi-gliaia di posti di lavoro. Grazie all’introduzione dei project bond abbiamo dotato il Paese di uno strumento finanziario innovativo che ci consen-tirà, insieme ad altre misure, di attrarre capitali

privati nella realizzazione di opere strategiche. Credito e liquidità: è uno dei fronti su cui abbiamo lavorato fin dall’inizio, mettendo a disposizione delle imprese 20 miliardi di garanzie su credito tramite il Fondo Centrale di Garanzia dello Stato, dando la possibilità alle aziende di compensare debiti e crediti con la pubblica amministrazione e introducendo il regime dell’IVA per Cassa. Dal 1 gennaio 2013 ogni nuovo pagamento di fornitura dovrà avvenire entro massimo 60 giorni per effetto della direttiva europea sui pagamenti che, primi tra i grandi Paesi europei, abbiamo recepito lo scorso novembre. È certamente un passo avanti impor-tante per rendere il nostro Paese più “normale”. Burocrazia: lavorando soprattutto con le associa-zioni di categoria, abbiamo varato un’importante serie di semplificazioni per cittadini e imprese. Su questa strada bisogna continuare ancora e an-cora, alleggerendo sempre più il peso dello Stato laddove esso non è necessario, eliminando inutili intermediazioni e diritti di veto oggi molto diffu-si e chiarendo bene il chi fa che cosa in un asset-to istituzionale molto più leggero dell’attuale.Nel corso dell’anno abbiamo lavorato intensa-mente anche per consolidare le due principali leve di sviluppo imprenditoriale quali l’internaziona-lizzazione e la capacità di innovare. Per questo ab-biamo fortemente riformato e messo a sistema gli strumenti necessari per accompagnare le imprese sui mercati esteri, che ora lavorano sotto il coordi-namento di una cabina di regia presieduta dal mi-nistro degli Esteri e da quello dello Sviluppo econo-

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un’italia più moderna, europea, competitiva | oxygen

mico e partecipata, finalmente, da tutti i protago-nisti che per tanti anni si sono mossi non sufficien-temente coordinati: il Ministero dell’Agricoltura e quello del Turismo con l’ENIT (Ente Nazionale Ita-liano del Turismo), le principali associazioni di ca-tegoria, le Regioni, le Camere di commercio. L’ICE (Istituto per il Commercio con l’Estero) è stato ri-costituito su basi nuove e con una mission ben de-finita. Abbiamo inoltre avviato la razionalizzazione delle nostre reti estere, attraverso una maggiore integrazione fra le ambasciate, i consolati, le sedi dell’ENIT, le Camere di commercio e la stessa ICE. Per attrarre gli investimenti dall’estero è stata pre-vista la costituzione del cosiddetto “Desk Italia”, ovvero di un punto di accesso unico per gli investi-tori internazionali. La stessa operazione di coordi-namento a livello di sistema sta avvenendo ora sul-la parte finanziaria del supporto all’internaziona-lizzazione e in questa luce va visto il passaggio alla Cassa depositi e prestiti sia di SACE, sia di SIMEST.Sul fronte innovazione sono attualmente alla valu-tazione del parlamento due strumenti di rilevante importanza: l’Agenda digitale italiana e la valoriz-zazione delle start-up per aprire una nuova frontie-ra del “fare impresa”. L’Agenda digitale rappresen-ta un riferimento di politica industriale attraverso l’innovazione. Azzeramento del divario digitale, avvio dei servizi a banda ultralarga, servizi digi-tali della PA a cittadini e imprese sono i capisaldi di questa importante riforma di respiro europeo.Per quanto riguarda le start-up, abbiamo creato un contesto normativo tra i più avanzati e favorevoli

per la nascita di imprese innovative: burocrazia e costi iniziali molto ridotti, agevolazioni per i primi quattro anni di attività, con annessi incentivi fi-scali, un contratto di lavoro più snello e flessibile, possibilità di coinvolgere i collaboratori nel capita-le dell’azienda, raccolta di fondi anche on-line, un diritto fallimentare che permetta più facilmente all’imprenditore di ripartire. Gli artigiani posso-no essere al centro di questo nuovo paradigma. Combinare il saper fare del Made in Italy con la tecnologia è una delle strade di sviluppo del mani-fatturiero. Su questo l’Italia ha molte carte da gio-care. Su questa strada intendiamo andare avanti e, appena le risorse lo consentiranno, riteniamo importante dotare il nostro sistema imprendito-riale di un credito d’imposta che favorisca gli in-vestimenti nelle attività di ricerca e innovazione. Infine, altro risultato positivo da segnalare è l’accor-do raggiunto alcune settimane fa dalle parti sociali sulla produttività. Un’intesa importante, che con-tribuirà a recuperare uno spread che nel corso degli ultimi anni si è enormemente ampliato. Il governo ha messo a disposizione quasi 2,2 miliardi per de-tassare la parte di salario legata alla produttività a dimostrazione dell’importanza che attribuiamo ai contratti aziendali che aumentano la produttività.Il cambiamento del nostro Paese è appena ini-ziato. Abbiamo tracciato un percorso chiaro con misure che potevano essere prese con le scar-se risorse e lo scarso tempo a disposizione e già oggi abbiamo un’Italia più moderna, più euro-pea, più competitiva. Ora bisogna andare avanti.

Abbiamo iniziato a creareun Paese più modernoe competitivo, dotandolodi un ecosistema di normepiù orientato a coglierele nuove sfide dei mercati internazionali.

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In

intervista

In questa intervista rilasciata a Oxygen, Alberto Quadrio Curzio – presidente della Classe di Scienze morali, storiche e filosofiche dell’Accademia dei Lincei e del Centro di ricerche in analisi econo-mica (CRANEC) dell’Università Cattoli-ca – smentisce un po’ di luoghi comuni sulla salute dell’industria nazionale, ma ribadisce che per l’Italia la direzione da intraprendere non può che essere quella indicata dall’Unione Europea: più ricer-ca, infrastrutture ed energia. In pratica, un contesto più favorevole a chi produce.Quadrio Curzio ha da poco pubblicato per i tipi del Mulino, nella collana della Fondazione Edison, un volume a due mani con Marco Fortis intitolato L’in-dustria nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Paradigmi e protagonisti. Un’analisi di lungo periodo, molto utile per ricostru-ire un quadro di corrette proporzioni.

Quale disegno emerge, professore? E cosa è oggi l’industria in Italia?Da questa analisi emerge innanzitutto che l’industria italiana ha contribuito non solo al progresso economico e so-ciale, ma anche a quello politico-istitu-zionale lungo le direttrici di grandi per-sonalità, da Quintino Sella a Giuseppe Colombo. Dal Risorgimento a oggi la situazione è ovviamente molto mutata. In particolare nella seconda parte del Novecento il capitalismo industriale italiano si è modificato con una ra-refazione dei grandi gruppi privati e pubblici e con il successivo affermarsi delle piccole imprese e dei loro distret-ti. Più recentemente si sono affermate le imprese medie e medio-grandi, note anche come “quarto capitalismo”. L’industria è però rimasta la parte più competitiva dell’economia italiana.

Ci sono settori che soffrono di più e al-tri di meno: quali sono? E come evitare di perdere pezzi di patrimonio produt-tivo e il passo rispetto ad altri Paesi?I punti di forza dell’Italia sono costitui-ti, in base ai surplus commerciali, dalla meccanica, dall’alimentare, dall’arre-do, dal tessile e abbigliamento e dal de-sign. Su questi prodotti manifatturieri s’è coniato il termine-concetto “Made in Italy” che oggi potrebbe essere affian-cato da quello di “Italy Made”, perché molte imprese italiane sono forti anche nella produzione all’estero, ma non per questo hanno perso la loro caratterizza-zione italiana. Se l’Italia vuole rimanere tra i grandi del mondo nella manifat-tura, la crescita dovrà fondarsi sempre più sulla qualità, che nelle dimensio-ni medie di impresa trova la sua forza perché le piccole imprese da sole non

LA VITALITÀDELL’ITALIA

CHE PRODUCE intervista ad Alberto Quadrio Curzio, di Paolo Piacenza

C’è ancora tanta vitalità nell’Italia industriale. Nonostante la recessione e la concorrenza sempre più spietata in arrivo

dall’Est. Non caso, l’Italia resta al quinto posto tra le economie del G20 per surplus commerciale di manufatti industriali non alimentari, dopo Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud.

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oxygen | 18 — 12.2012

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ce la possono fare. L’Italia è oggi una delle cinque economie del G20 con un surplus commerciale per i manufatti industriali non alimentari, dopo Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud. Non deve perdere questa posizione.

Alcuni distretti continuano a dimo-strare una certa vivacità. Possiamo considerarli fondamentali per l’Ita-lia anche agli inizi del XXI secolo?Il distretto come sistema territoriale so-cio-economico può ancora reggere, ma deve essere affiancato anche da reti di impresa che sono distretti a-territoriali costruiti su complementarietà settoriali o intersettoriali. Questo per accrescere le dimensioni funzionali senza rinunciare alla soggettività di impresa che molto preme agli imprenditori. Le norme del 2009, recentemente perfezionate dal go-verno, sono molto utili a tali fini. Credo che le difficoltà italiane per far crescere le dimensioni d’impresa possano esse-re – se non superate – almeno attenuate. In particolare quando “al centro” delle “reti di impresa” previste dalla norma-tiva c’è una impresa medio-grande.

Nel confronto con la Germania quali fattori metterebbe in luce?L’Italia del Nord-Est-Centro (NEC, come la chiamava Fuà) ha una vocazione indu-striale molto simile alla Germania, pur differenziandosi dalla stessa per il fatto che non possiede molti grandi gruppi. Tuttavia, il nostro Paese è dualistico. Più precisamente il Nord-Ovest (con 1,7 mi-lioni di addetti nel 2007) e il Nord-Est (con 1,3 milioni di addetti) sono le prime due macro-regioni manifatturiere dell’Unio-ne Europea. Hanno più occupati della Re-nania-Westfalia, del Baden-Würtenberg o della Baviera. Numeri impressionanti e che smentiscono molti luoghi comuni.Ben diverso è il contesto economico e giuridico in cui devono operare le impre-se dei due Paesi. Più che concentrarmi su un’analisi comparativa vorrei cercare di delineare i margini di miglioramento. Come emerso nel recente report della Commissione Europea (Member States Competitiveness Performance and Policies 2012 e allegati) tra i fattori di appesanti-mento ci sono l’inefficienza della pub-blica amministrazione, della giustizia civile, la corruzione e le frodi. Sono tutti fattori che ci collocano al di sotto delle media della UE. Oltre al pesantissimo fardello fiscale, scontiamo un altro onere: per la qualità delle infrastrutture l’Italia si colloca tra i peggiori all’interno dell’U-nione. Questo problema ha ovvie riper-cussioni sulla competitività industriale.

Un punto debole è la ricerca, pubbli-ca e privata: ci sono eccezioni, ma il quadro complessivo non è incorag-giante. È un problema solo di risor-se, o anche di strategia e di coraggio?Secondo i dati Istat disponibili, la spe-sa per ricerca e sviluppo intra-muros negli ultimi anni (2006-2011) si aggira-va intorno ai 17-19 miliardi di euro. Più della metà della spesa è stata sostenu-ta dal settore imprese. Detto questo, è importante collocare l’Italia nel con-testo europeo. L’Italia, nel complesso, spende in ricerca e sviluppo l’1,26% del PIL (dato 2010). La media dell’Eu-ropa dei 27 è del 2%, con alcuni Paesi scandinavi che raggiungono picchi di oltre il 3,5%. Altri grandi Paesi europei, come la Germania e la Francia, si atte-stano a livelli ben più alti rispetto all’I-talia: rispettivamente 2,82% e 2,26%.Il problema delle poche risorse inve-stite in R&S è una costante per l’Ita-lia. Tra il 2005 e il 2010 la percentuale di spesa sul PIL è passata dall’1,09% all’1,26%. Nello stesso periodo la me-dia UE è passata dall’1,83% al 2%. Pro-gressi troppo modesti per rispettare gli obiettivi della strategia “Europa 2020” che fissa il target del 3% (essen-do 1,53% quello italiano). È necessario un cambiamento perché senza inve-stimenti in ricerca e sviluppo non sarà possibile né riprendere il sentiero della crescita, né mantenere la competitività rispetto a Giappone, Cina e altri Paesi emergenti. Ma avendo poche risorse, il cambiamento deve essere nell’uso delle stesse e quindi passare attra-verso una forte selettività della spesa.

Passiamo al ruolo del pubblico e al peso dei fattori macroeconomici. L’a-zione di risanamento dei conti del governo italiano e le scelte della BCE sembrano aver avviato un positivo cam-mino di riduzione del rischio finanzia-rio: quanto e come pesa il contenimen-to dello spread per l’industria italiana?Come sappiamo la crisi è nata e cresciu-ta negli USA. E tra il 2008 e il 2009 Euro-landia (UEM) credeva che la crisi rima-nesse lì. Nel 2010-11 ne è invece stata investita in pieno. Soltanto quest’anno hanno preso forza nella UEM molte innovazioni costruite faticosamente dal 2008. Molte sono state le carenze del quadro istituzionale sia europeo sia italiano. Tutto ciò si è riflettuto an-che sulle variabili macroeconomiche.Ora s’intravede una tenue luce in fondo al tunnel, ma c’è ancora molto da fare per uscire dalla crisi. Non è sufficiente che i tassi di interesse e gli spread ita-

Se l’Italia vuole rimanere tra i grandi del mondo

nella manifattura, la crescita dovrà fondarsi

sempre più sulla qualità, che nelle dimensioni

medie di impresa trova la sua forza perché le

piccole imprese da sole non ce la possono fare

5° PAESE DEL G20per surplus

commerciale sui manufatti non

alimentari

30 MILIONI di addetti alla

manifattura nel Nord Italia

PRIMATO UENord-Est e Nord-

Ovest sono le prime due macro-regioni

manifatturiere dell’UE

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la vitalità dell’italia che produce | oxygen

turali, non solo del trasporto di beni e persone, ma anche dell’energia e dell’in-fotelematica, è essenziale per avviare la crescita. La priorità dunque – per l’eco-nomia tutta e per rilanciare l’industria – sono gli investimenti in infrastrutture strategiche. La Commissione Europea ha stimato le necessità di finanziamen-to per gli anni e decenni a venire. E sono enormi: per l’energia 1000 miliardi entro il 2020; per i trasporti 1500 miliardi tra il 2010 e il 2030 di cui 500 entro il 2020; per le telecomunicazioni e la banda larga 270 miliardi entro il 2020. Apprezzabili sono dunque le iniziative della Commis-sione, come il “Connecting Europe Faci-lity” e la “Europe 2020 Project Bond Ini-tiative”, in cui la Banca europea per gli investimenti ha un ruolo fondamentale.Agli investimenti infrastrutturali an-drebbero affiancati anche quelli che ri-guardano l’industria europea. Secondo la comunicazione Un’industria europea più forte per la crescita e la ripresa eco-nomica della Commissione Europea, l’industria dovrebbe collocarsi al centro del piano di crescita europeo. L’obiet-tivo è portare il peso dell’industria eu-ropea dall’attuale 15,6% al 20% del PIL entro il 2020 attraverso queste direttrici:

investimenti e innovazione, espansio-ne del mercato (interno e internazio-nale), accesso al credito e ai finanzia-menti, capitale umano e competenze.

Altro nodo importante è l’annunciato piano energetico nazionale. Cosa deve chiedere l’industria italiana al governo?L’Italia necessita di una strategia energetica nazionale collocata nel contesto europeo ed internazionale dove operano le sue principali impre-se del settore energetico. Nel rispetto delle norme sulle liberalizzazioni vi è un problema di sicurezza energetica che non può mai essere trascurato. Per questo il fatto che Enel ed Eni si-ano rimaste nella sfera di controllo dello Stato è importante così come lo è il fatto che gli amministratori di queste imprese siano stati conferma-ti da governi a diversa maggioranza. Segno che anche la loro credibilità internazionale è significativa. In ogni caso per il problema energetico ita-liano sono da tenere ben presenti i profili geo-economici per lo sviluppo di reti trans-europee e di approvvi-gionamento attraverso il Mediterra-neo allargato fino al Medio Oriente.

liani (e altri) siano scesi. Certamente, avere uno spread attorno ai 350 punti base, da un picco di circa 550, è anche un risultato del governo Monti, che ha ridato credibilità all’Italia in Euro-pa. Inoltre per merito di Mario Draghi sono stati dati segnali importanti ai mercati. L’iniezione di liquidità della BCE per 1000 miliardi con gli inter-venti LTROs (Long Term Refinancing Operations) e poi le prefigurate OMT (Outright Monetary Transactions) han-no ridato stabilità al sistema bancario e finanziario della UEM. Rimane anco-ra il problema del credito alle imprese.

L’austerity però non basta: lo dicono le imprese e lo dice anche la Commis-sione Europea che ha da tempo indica-to la necessità di puntare sul risveglio degli investimenti a lungo termine per infrastrutture di trasporto, logistica, intermodalità, energia, banda larga e reti mobili di nuova generazione. Tut-to ciò servirebbe all’industria italiana?Ritengo che sia immediatamente indi-spensabile una strategia attiva che deve poggiare su due pilastri: infrastrutture e industria. Innanzitutto, il completamen-to e il potenziamento delle reti infrastrut-

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«È in corso una terza rivoluzione.La produzione sta diventando digitale»

@TheEconomist

«Da dove arriveranno le opportunità di lavoro? Dalle piccole imprese, dall’industria e dall’energia pulita»Bill Clinton

«Ora che CAD sono così facili da usare, la nuova frontiera è il Design for Manufactu-ring. È ciò che trasforma un maker in un produttore»@chr1sa (Chris Anderson)

«Se l’attività economica si sposta dalla produzione alla creazione di conoscenzae servizi, l'innovazione diventa strategiadi sopravvivenza»@JeremyScrivens

«Non importa se il Dow Jones è a 5000 o 50.000. Se sei un imprenditore,

è sempre un buon momentoper fondare un’azienda»

@GuyKawasaki

«Il mio piano per i prossimi quattroanni è questo: fare dell’istruzionee della formazione una priorità nazionale; incrementare il boom dell’industria; incentivare la produzione di energia Made in America. Questa è la strada da seguire»Barack Obama

Tweet& Quotes

opinioni

a cura di oxygen

Op

TWITTER TRENDING

TOPICS—

All time:Manufacturing: 2.037.967

Industry: 14.332.383 Innovation: 6.465.618

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«Incoraggiare le discussioni nel mondo dell’industria è un buon modo per aprirele porte all’innovazione»@AmadeusITGroup

«Imprese e start-up emergenti stanno guidando l'innovazione industriale»Som Mittal (presidente NASSCOM)

«Ora che l’industria sta vivendo una fase di rinascita, in America le aziende manifatturiere prosperano»@NBCNews

«Il futuro non è delle General Motors, General Electric, General Mills,ma di aziende chiamate Local Motors,Local Electric, Local Mills»@doctorow (Cory Doctorow)

«Contaminare la grande industriacon la cultura della start-up» @fullo

«In 20 anni, nel tempo di una sola generazione, possiamo raddoppiare il PIL.

È la nostra scommessa di imprenditori»Jacopo Morelli (vicepresidente

di Confindustria e presidentedei Giovani Imprenditori)

«L’Italia è la seconda nazione manifatturiera d’Europa dopo la Germania, ma se non avessimo costi di produzione e tasse così elevate forse saremmo la prima»Vincenzo Boccia(vicepresidente Confindustriae presidente Piccola Industria)

«La manifattura Italiana aiuta la micro-impresa a salvaguardare una filiera

d’eccellenza del Made in Italy»@GiornaleLusso

«Meno burocrazia, più incentivi all’avvio di nuove imprese. Non si potrà uscire dalle attuali difficoltà senza iniziare a investire veramente sulle giovani generazioni»Alessandro Benetton

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L’industria nellacompetizione globale

scenari

I principali Paesi industrializzati si muovono in cerca di soluzioni alla crisi; alcuni stanno rallentando, altri esplorano nuovi territori. Una panoramica sui settori sui quali si concentrano e sulle interconnessioni globali che li condizionano.

articolo di Carlo Marroni

Una notizia è passata quasi inosservata, nei mesi recenti. La più grande libreria del mondo, l’ame-ricana Barnes&Noble che conta ben 689 negozi, ha evitato di segnare nel proprio bilancio un calo delle vendite grazie al boom della trilogia sulle Cinquanta Sfumature. Quasi 30 milioni di co-pie, i volumi più venduti nella storia recente, più dell’allora considerato inarrivabile Henry Potter.Un caso? Forse. Ma di certo segnala anche un feno-meno economico che viene studiato non solo da chi si occupa di libri (che gioisce, visto che i lettori in libreria per acquistare ci vanno ancora). La glo-balizzazione ha appiattito il mondo, come descris-se bene anni fa Tom Friedman, ha permesso di livellare i divari e accelerare la diffusione delle ten-denze. Nel bene e nel male: prima la crescita, poi la crisi. Che dal 2007 – anno di massima espansione complessiva nel dopoguerra per l’intero pianeta – sta dilagando progressivamente nelle pieghe più profonde dell’economia reale. Ma la globalizzazio-ne ora rende anche più nitide le eccellenze, quelle da cui l’economia generale e i suoi segmenti tra-sversali (distretti, nazioni, macroaree, continenti) produrranno l’innesco per la ripresa. Come in qual-che modo è avvenuto per la più grande libreria d’A-merica, che dall’esperienza delle Sfumature trarrà una lezione per il proprio futuro imprenditoriale.E proprio dagli Stati Uniti – da dove il ceppo della crisi si è sviluppato con la crisi dei mutui, inizial-mente sottovalutata a Wall Street e Washington, ma anche e soprattutto in Europa proprio per la specificità americana di questi prestiti ipotecari “facili” – sembrano arrivare i segnali di una ripre-sa, sia del PIL sia dell’attività immobiliare. Ma tutti avvertono che si tratta una recovery fragile e tiepida, visto che deve smaltire l’indigestione debitoria del

Sc

decennio 1995-2006 che appesantisce le famiglie americane, il reale motore di un sistema basato per oltre il 70% sui consumi interni. La spinta per ora arriva dalla spesa governativa, mentre gli utili della Corporate America deludono gli azionisti. Gli analisti sono concordi: la locomotiva USA ripren-derà a muoversi solo con un progressivo calo del-la disoccupazione, che in alcuni segmenti – come l’edilizia – dovrà passare per una riqualificazione, visto che un riassorbimento non pare probabile. La prospettiva più concreta per l’economia ame-ricana è il rientro in patria nel breve termine di unità produttive che anni fa erano state deloca-lizzate, soprattutto in Cina. Ora produrre nell’ex Impero di Mezzo non è più così conveniente. Anzi. E accanto all’attività manifatturiera e quella dei servizi, in America si conta molto sul forte incre-mento delle entrate derivante dall’industria estrat-tiva di idrocarburi, specie collegata allo shale-gas, che sta rendendo gli Stati Uniti quasi autosuffi-cienti nell’approvvigionamento di gas naturale.E poi la Cina. Le prospettive della seconda poten-za economica al mondo sono centrali per i de-stini di quasi tutte le aree del mondo, dagli Stati Uniti all’Europa, dall’estremo oriente al Suda-merica, alcune delle quali appartenenti al ristret-to club dei BRICS, il gruppo di nuove economie (Brasile, Russia, India e Cina, cui si è aggiunto il Sudafrica) – a cui si può associare a diverso titolo la Turchia  – che hanno trainato la crescita negli ultimi dieci anni. Ora tutti stanno rallentando inesorabilmente, e ognuno cerca di trovare una sua strada originale ed efficace per evitare che la crescita tumultuosa si tramuti in una bolla.La Cina dall’inizio dell’anno sta crescendo a un tasso inferiore all’8%: una percentuale da capo-

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—Stati Uniti: shale gas

—653 miliardi di mc

di gas prodotti nel 2011

—Russia:

industriahi-tech

—300.000

persone lavorano nell’industria

high-tech in Russia

—Cina: clean technology

—Tra il 2010 e il

2011: +29% di investimenti

—Brasile:

automobili—

3,31 milioni di auto prodotte

nell’ultimo anno

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giro per l’Occidente, ma che da quelle parti vuol dire quasi ristagno se si pensa che (dati FMI) nel fatidico 2007 aveva messo a segno un +14%. Il tut-to si è tradotto in una vorticosa ascesa del costo del lavoro, tanto che anche le imprese cinesi or-mai per i nuovi investimenti delocalizzano in Vie-tnam e Birmania. Il nuovo piano quinquennale, che accompagnerà il congresso del partito a fine anno da dove uscirà la nuova leadership per il de-cennio a venire – guidata da Xi Jinping –, punterà sempre più su produzioni ad alto valore aggiunto (e meno a basso costo) e al contempo su una stra-tegia meno orientata all’export e più al soddisfa-cimento della domanda interna. In particolare, data anche la cronica scarsità di materie prime energetiche rispetto alla domanda, si punterà for-temente sulla produzione di veicoli elettrici e su tutte le tecnologie connesse alla green economy.Accanto alla Cina c’è l’India, che pure ha conosciu-to tassi di crescita a due cifre, mettendo in luce particolare le eccellenze sul fronte delle tecnologie informatiche. Ma la forte spinta produttiva non ha saputo colmare il deficit di infrastrutture di cui sof-fre il subcontinente, che frena il transito delle mer-ci e l’afflusso di investimenti esteri. E infatti la cre-azione di linee ferroviarie ad alta velocità sarà una delle linee guida della politica economica di Nuova Delhi. Scoraggiati anche dalle enormi difficoltà a fare impresa (è ancora altissima la forza di interdi-zione dei poteri locali), un eccesso di statalismo e l’arretratezza del sistema commerciale al dettaglio che impedisce l’affermarsi di grandi catene di di-stribuzione, essenziali per canalizzare le produzio-ni di altre aree dell’immenso Paese. Il superamento della crisi passa quindi per delle riforme strutturali, che devono tuttavia superare l’ostilità della politica.Anche il Brasile, sempre più potenza energetica ma anche agricola, sta segnando il passo: dopo una crescita vorticosa –  nel 2010 toccò il +7,5%  – ora la sua economia viaggia a un modesto +1,5%. La causa principale è il rallentamento della Cina, suo mercato di esportazione principale in parti-colare per le materie prime. Inoltre, come gli altri Paesi BRICS, anche il Brasile deve scontare un in-cremento del costo della vita e del lavoro che va a cozzare con una struttura produttiva poco elastica, vista la forte presenza dello Stato nell’economia. Inoltre il real è ipervalutato. Il mix di questi fattori sta alimentando la tentazione del governo federale di aumentare i dazi verso l’esterno, evento che tut-tavia è considerato improbabile visti i due eventi-chiave che attendono il Paese: l’organizzazione dei campionati del mondo di calcio nel 2014 e le Olimpiadi nel 2016, da cui è attesa e scontata una spinta al PIL. In ogni caso l’industria dell’auto è uno dei settori di punta su cui Brasilia conta per po-ter innescare un nuovo circolo virtuoso di crescita.Per quanto riguarda la Russia, anche a Mosca si sta lavorando per diversificare l’economia, troppo dipendente dall’esportazione di petrolio e gas. La sfida per il dopo-crisi è creare una solida struttura industriale ad alto valore aggiunto, in particolare nelle alte tecnologie, come dimostra il progetto per la creazione di Skolkovo, la Silicon Valley russa.

Anche il Brasile, sempre più potenza energetica ma anche agricola, sta segnando il passo: dopo una crescita vorticosa ora la sua economia viaggia a un modesto +1,5%

—Giappone:

green economy

—483 miliardi di dollari in investimenti

pianificati per i prossimi 20 anni

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La ex seconda economia mondiale, il Giappone, sta vivendo una profonda trasformazione nella sua struttura tradizionale. Le grandi conglomera-te (portate ad esempio negli anni Ottanta e inizio anni Novanta) che operavano su praticamente tut-te le aree sono da tempo in crisi: la diversificazione su vasta scala non paga più, e la sfida in atto è la ri-focalizzazione su specifiche aree di core business. Inoltre l’incidente alla centrale di Fukushima e la conseguente decisione di uscire (perlomeno par-zialmente) dal nucleare sta già spingendo le impre-se giapponesi a spostare le produzioni nelle stesse aree dove si stanno dirigendo i cinesi. Al contempo è chiara la volontà del governo di puntare sulle tec-nologie e le applicazioni delle energie rinnovabili.In Europa, dove l’uscita dalla crisi ha aspetti e di-namiche del tutto peculiari a causa dell’euro, è il fenomeno tedesco a dettare l’agenda anche nel mantenimento della supremazia dell’industria manifatturiera, che pure sta segnando il passo nell’export specie verso la Cina dove per anni ha avuto la supremazia nella gamma alta. In Germa-nia l’eccedenza di risparmio non viene reinvestita nel Paese, e questo impone al sistema industriale (che non può quindi contare su impieghi ingen-ti di capitale su base domestica) per difendere la competitività deve alzare il livello della produzio-ne interna in termini di qualità, ricerca e innova-zione. E in parallelo viene ritenuto indispensabile che vada a buon fine il processo di riqualificazio-ne della forza lavoro attraverso gli investimenti in istruzione (il bilancio federale registra un incre-mento dell’11% nel 2012 a questa voce), per aumen-tare la supremazia sul manifatturiero di alta fascia.La Francia sul fronte della ricerca e innovazione interna parte in vantaggio, anche con un modello di delocalizzazione mirata sui mercati che inten-de presidiare al meglio. Ma Oltralpe la situazione è difficile: la fiducia è in calo, con ordini in fles-sione e un elevato grado di incertezza, accentua-to dalla supertassa sui “super-ricchi”. Inoltre sta entrando in crisi il modello delle grandi catene di distribuzione, tradizionale canale di commercia-lizzazione (anche all’estero) di una consistente fet-ta di Made in France, specie nell’agroalimentare. Infine il caso Africa: il FMI stima che nei prossimi 30 anni sei delle dieci nazioni a più alto tasso di cre-scita saranno del continente africano, dove entro il 2060 – stima della Banca Mondiale – si sarà for-mata una classe media di un miliardo di persone. Quindi oltre a Nigeria e Angola – Paesi “petrolife-ri” – e il Sud Africa, ormai consolidato nella posi-zione di locomotiva continentale, saranno da tene-re presenti Etiopia, Mozambico e l’intera fascia del Maghreb. Aree che si integreranno sempre più tra loro, con rapporti privilegiati, oltre che con la Cina, con i Paesi MIST (neologismo di recente co-nio): Messico, Indonesia, Corea del Sud e Turchia, quest’ultima nuova frontiera soprattutto nelle tele-comunicazioni e i servizi finanziari. Tutti Paesi che – insieme ad altri come Pakistan, Bangladesh, Vie-tnam e Filippine – hanno una popolazione giovane (e in alcuni casi particolarmente povera) pronta a entrare nella partita della nuova globalizzazione.

l’industria nella competizione globale | oxygen

La prospettiva più concreta per l’economia americana è il rientro in patria nel breve termine di unità produttive che anni fa erano state delocalizzate, soprattutto in Cina

—Germania: istruzione industriale

—+11% gli

investimenti per la riqualificazione della forza lavoro

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Il valoreaggiuntodell’industria

a cura di Oxygeninfografica di Undesign

L’industria non è più il principale settore economico trainante delle economie mondiali. Ma, anche se con una percentuale più bassa rispetto a quella del terziario, pesa in modo cruciale sul prodotto interno lordo globale (in molti Paesi è responsabile di circa un terzo del PIL). Nonostante i nuovi comparti industriali sui quali le nazioni puntano per risollevare le proprie economie, sono ancora i settori manifatturiero, edile, minerario ed elettrico le forze trainanti nei Paesi del G8. A volte, anche se hanno piccole percentuali se calcolate sul totale del PIL, esercitano un ruolo strategico.

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DatiApporto percentuale al PIL totaleFonti: OECD Stan databaseEurostat 2012, CIA The World Factbook World Development Indicators Database

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La quinta rivoluzioneindustriale

Un’analisi sull’imminente rivoluzione del settore manifatturiero, una panoramica sugli insegnamenti delle precedenti rivoluzioni industriali e quelli del presente della crisi economica. E qualche beneficio sociale ed economico che una nuova rivoluzione potrebbe portare con sé.

articolo di Peter Marsh

scenariSc

Gli ultimi dieci anni sono stati tem-pi bui per le prospettive del settore manifatturiero dei Paesi più ricchi. La storia racconta di una continua perdita di competitività e di capaci-tà produttiva delle fabbriche delle nazioni più sviluppate del mondo. Il risultato è stato un costante sposta-mento della produzione nei Paesi con salari più bassi, soprattutto in Cina.Tuttavia adesso il mondo è a un pas-so da una nuova era. Il cambiamento vissuto dall’industria del mondo svi-luppato e dei Paesi in via di sviluppo s’invertirà nuovamente, e la produ-zione dei Paesi ricchi conoscerà una riscossa. Questa nuova tendenza di-pende da una molteplicità di fattori legati alla tecnologia, all’economia, alle abitudini dei consumatori, alle reti di distribuzione globali e a internet.Ho definito questo cambiamento la «nuova rivoluzione industriale»1. Que-sta etichetta è un modo efficace per separare la nuova epoca da altri gran-di mutamenti che hanno coinvolto nel passato il settore manifatturiero.La “nuova” rivoluzione è il quinto mutamento storico di questo tipo, come spiegherò tra poco. Al centro di questo passaggio c’è una semplice os-servazione: nei prossimi dieci anni la quota totale di produzione dei Paesi

ricchi diminuirà, ma a un tasso non paragonabile a quello sperimentato nel decennio passato, e potrebbe per-sino verificarsi un suo lieve aumento.Ci saranno conseguenze importanti per i leader tradizionali dell’industria mondiale – i Paesi dell’Europa Occiden-tale, Stati Uniti, Canada e Giappone. Il nuovo periodo coinciderà con un tem-po di fiducia crescente nelle imprese di produzione e progettazione stabilite in queste aree. Le opportunità di lavoro nelle imprese in questi Paesi ad alto co-sto saranno più abbondanti che altrove per un decennio, in particolare per chi ha competenze tecniche di alto livello. La nuova rivoluzione industriale ar-riva in un momento difficile. Per di-versi anni le economie dei Paesi più avanzati hanno mostrato un’estrema fragilità. Questo è dipeso dalla crisi finanziaria del 2007-2008 e dalle sue conseguenze: l’elevato indebitamen-to pubblico e dei consumatori e il crollo nella fiducia degli investitori, soprattutto nei Paesi dell’Eurozona.Quindi i politici, gli imprenditori e gli altri operatori del mercato avran-no motivo di accogliere di buon grado questo cambiamento, che in-trodurrà un tempo nel quale l’otti-mismo nell’economia comincerà a risalire, dopo un lungo periodo buio.

Dal 2000 al 2011, di tutte le economie emergenti è stata quella cinese a con-durre i progressi nell’industria. Pro-gressi che hanno coinvolto –  sebbene in grado minore  – anche altre tra le nazioni più povere, quali India, Bra-sile, Russia ed Europa dell’Est. Alcu-ni dei fattori chiave sono stati i bassi costi di produzione in queste regioni, dovuti principalmente ai salari con-tenuti. Questo ha incoraggiato molte aziende a spostare lì la produzione, nonostante il consumatore finale fosse occidentale. Allo stesso tempo la do-manda crescente per prodotti sempre più sofisticati fabbricati nei Paesi in via di sviluppo ha stimolato maggiori investimenti industriali in queste zone.Il risultato di questo cambiamento è stato un forte incremento nella quan-tità mondiale di prodotti fabbricati nei Paesi più poveri e meno sviluppati. La cifra è salita dal 24% della produ-zione complessiva totale del 1990 e dal 27% del 2000 fino al 46% del 2011.Ne consegue che la quantità di produzione industriale del mon-do ricco e occidentale ha subito un forte declino, che è stato particolar-mente veloce nello scorso decennio. Si è passati dal 76% del 1990 e dal 73% del 2000 al 54% dell’ultimo anno2.Buona parte di questa trasformazione

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ORGOGLIO BRITANNICONella storia dellaGran Bretagna, oggetto della cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Londra 2012 all’Olympic Stadium, non poteva mancare la celebrazione della Rivoluzione industriale. E per ricordarla tra le ciminiere è stato spettacolarmente forgiato uno dei cinque anelli olimpici.

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dimentale. I miglioramenti nella pro-duttività associati ai moderni processi industriali –  la possibilità di ottenere una maggiore produzione per ogni la-voratore in seguito all’avanzamento tecnologico  – dovevano ancora essere concepiti. Per questo motivo la capaci-tà produttiva andava di pari passo con il numero dei lavoratori: una nazione con una popolazione maggiore avrebbe ot-tenuto una produzione più elevata.Ma il cambiamento era dietro l’ango-lo. La prima rivoluzione industriale – quella che la maggior parte delle per-sone chiama la Rivoluzione Industria-le  – rese possibili grandi incrementi nella produttività delle fabbriche in un’ampia varietà di settori, dal tessi-le alle macchine utensili. Di conse-guenza, le nazioni con meno abitanti e quindi con un minor numero di la-voratori nelle fabbriche, per la prima volta potevano cavarsela meglio del previsto nella produzione industriale.

Prima rivoluzione industrialeLa prima rivoluzione industriale ebbe inizio intorno al 1780. Per qua-si cinquant’anni ebbe un impatto dirompente e crescente sul mondo. I suoi effetti più grandi e più imme-diati si verificarono in Gran Bretagna.La trasformazione che seguì alla pri-ma rivoluzione industriale dipese dal-la meccanizzazione della produzione tessile, dalle nuove conoscenze nella metallurgia e dall’avvento della mac-

è dovuta alla Cina. Nel 2000 la Cina era responsabile del 7% della produzione manifatturiera mondiale; nel 2005 il valore era salito al 9,8% e nei sei anni successivi la quota della Cina è raddop-piata fino al 19,8% (nel 2011). Queste cifre proiettano la Cina sopra gli Stati Uniti in termini di quota di produzione industriale. È stata una svolta storica: per la prima volta da più di un secolo, nel 2011 gli Stati Uniti non hanno occu-pato la prima posizione della classifica mondiale per produzione industriale.La crescita cinese è stata molto più stupefacente di quella di qualsiasi al-tro Paese del blocco dei mercati emer-genti. Durante il periodo 2000-2011 la quota del Brasile nella produzione ma-nifatturiera mondiale è salita dall’1,7% al 2,9%; l’India è passata dall’1,2% al 2,3% e la Russia dallo 0,8% al 2,3%.L’immagine speculare di questi cam-biamenti riguarda il mondo sviluppato. La quota degli Stati Uniti nella produ-zione manifatturiera mondiale è passa-ta dal 27,1% del 2000 al 18% del 2011; nello stesso periodo il Giappone è sci-volato dal 18,3% al 10,2%, mentre per la Germania la diminuzione è stata dal 6,9% al 6,4% e per l’Italia dal 3,6% al 3%.Questi numeri necessitano di una contestualizzazione storica. La Cina è diventata il più grande produttore mondiale, risultato che vent’anni fa sarebbe stato quasi inimmaginabile. Ma nel 1800 – per chiunque conosces-se le tendenze economiche globa-li  – era innegabile che la Cina avesse la più grande capacità produttiva. Infatti per molti secoli, fino al 1840 circa, la Cina comandò la graduatoria per nazioni della produzione indu-striale. Naturalmente all’epoca non si parlava di produzione industriale e anche il termine “fabbrica” era stato a malapena inventato. Quando parlo di “produzione industriale” riferen-domi a tempi lontani intendo la fab-bricazione di beni materiali derivanti dal lavoro e dalle idee degli uomini.Nel 1800 la quota di produzione cinese raggiungeva il 33%, poco sopra quella indiana. In quell’anno quelle che oggi chiamiamo economie emergenti erano responsabili del 71% della produzione mondiale, mentre il restante 29% toc-cava alle nazioni del mondo occidenta-le. È facile capire il perché. Cina, India e le altre nazioni che noi ora etichet-tiamo come paesi poveri avevano una popolazione ben più numerosa delle altre regioni, come l’Europa Occiden-tale e il Nord America. Le manifatture allora esistevano solo in una forma ru-

china a vapore. Questi cambiamenti si trasmisero anche agli altri settori industriali e accompagnarono altri mutamenti di rilievo –  per esempio la nascita di nuove forme di organizza-zione aziendale, la crescita dei tassi di alfabetizzazione (grazie ai miglio-ramenti nell’istruzione), i progressi nell’agricoltura e nell’offerta alimen-tare. La prima rivoluzione industriale –  il cui impatto accelerò nel XIX seco-lo  – spiega perché il Regno Unito di-venne la principale nazione in termini di produzione industriale poco prima del 1850. Il primato britannico nelle manifatture durò soltanto una cin-quantina di anni: intorno al 1895, il Regno Unito fu scalzato dagli Stati Uni-ti, che restarono in vetta fino al 2011.Il ruolo britannico di leader nella pro-duzione industriale – al suo massimo, nel tardo Ottocento, il Paese era respon-sabile del 15-20% della produzione in-dustriale mondiale  – fu dovuto anche alla seconda e alla terza rivoluzione. Entrambe riguardarono soprattutto la Gran Bretagna (benché altri Paesi come Germania, Francia e Stati Uniti avessero giocato un ruolo di rilievo).

Seconda rivoluzione industrialeLa seconda rivoluzione fu quella dei tra-sporti e delle comunicazioni. Cominciò intorno al 1850 e portò a un progresso dell’ingegneria navale, alla comparsa della ferrovia (alimentata in origine dal vapore) e all’invenzione del telegrafo.

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la quinta rivoluzione industriale | oxygen

Terza rivoluzione industrialeLa terza rivoluzione introdusse un alto numero di cambiamenti dovuti al nuovo pensiero scientifico; le di-scipline chiave furono la matemati-ca, la chimica e la fisica. Questa tra-sformazione si manifestò dal 1890 in poi, e permise per la prima volta di poter disporre dell’elettricità “su ordinazione”. Questo nuovo tipo di energia fu in grado di alimentare una moltitudine di processi industriali.Inoltre vi furono cambiamenti nelle tecnologie produttive che portarono – tra le tante cose – a un acciaio meno costoso e più abbondante e a un ampio assortimento di nuovi prodotti chimici, tra i quali farmaci, coloranti e sostan-ze industriali quali l’acido solforico.

Quarta rivoluzione industrialeLa quarta rivoluzione industriale ebbe luogo nel XX secolo. Cominciò intorno al 1950, e i suoi effetti accele-rarono per 30-40 anni; questa quarta rivoluzione riguardò i computer e l’e-lettronica e diede origine al personal computer, ai router ad alta velocità di trasmissione dei dati e a internet. L’impatto delle prime quattro rivo-luzioni fu in larga parte limitato alle nazioni ricche, come sono tuttora definite, il che spiega perché questi Paesi –  che nell’Ottocento raccolse-ro per primi i frutti dello sviluppo industriale moderno  – non solo bal-zarono in vetta agli albori di quell’e-

ra, ma ci rimasero fino al 1990 circa. Fu solo dopo che l’impatto dei cam-biamenti introdotti dalle quattro rivoluzioni riuscì a farsi sentire an-che nei Paesi fuori dal blocco dei più sviluppati. In questo modo –  e per la prima volta dopo 150 anni  – le na-zioni leader emergenti, guidate dalla Cina, iniziarono a giocare un ruolo importante nel mondo industriale.

Quinta rivoluzione industrialeCosa si nasconde dietro la nuova –  la quinta  – rivoluzione industriale? E come si rifletterà sul mondo? Sono sette i fattori che stanno dietro a que-sto nuovo periodo di cambiamento.Il primo riguarda la tecnologia e l’im-patto che avranno le sue innovazioni –  nei campi del controllo numerico, della scienza dei materiali, delle na-notecnologie e delle nuove forme di produzione meccanizzata (incluse idee come la produzione “additiva”, basata sulle nuove generazioni di stampanti 3D). In molti di questi set-tori i Paesi ricchi –  Stati Uniti, Giap-pone ed Europa Occidentale  – hanno fatto passi da gigante e sono anche i maggiori beneficiari del progresso.Il secondo fattore riguarda la maggio-re richiesta di personalizzazione dei prodotti, cioè l’aumento dei prodotti su misura, dai gadget alle macchine industriali, per soddisfare le esigenze degli utenti. Questo cambiamento può richiedere che la fase di produzione sia più vicina al luogo dove i beni saranno usati, in modo da incorporare con più efficacia le variazioni necessarie nel de-sign. Nel caso in cui i clienti si trovino nei Paesi sviluppati, avrà senso stabili-re lì la produzione, a discapito dei Paesi emergenti e distanti, e malgrado costi di produzione più alti. L’aumento della richiesta di beni personalizzati andrà di pari passo con nuovi cambiamenti nella tecnologia, come sofisticati me-todi di automazione, che rendono più facile e conveniente realizzare serie li-mitate di prodotti perfezionati in modo da soddisfare le esigenze dei clienti.Il terzo aspetto riguarda la crescita delle catene di distribuzione globale e i net- work di informazione (questi ultimi ba-sati su internet). Questi mutamenti da-ranno un nuovo vantaggio competitivo alle imprese manifatturiere stabilite in nazioni a costo elevato. Anche quando scelgono di localizzare la produzione fisica dei beni in nazioni con bassi li-velli salariali, come la Cina, i paesi con costi elevati si troveranno spesso in una posizione favorevole per ospitare

Cosa si nasconde dietro la nuova – la quinta – rivoluzione industriale? E come si rifletterà sul mondo? Sono sette i fattori che stanno dietro a questo nuovo periodo di cambiamentomacchine” della crescita

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le attività di ricerca e sviluppo. Qui le imprese saranno in grado di impiega-re una parte piuttosto consistente (e ben pagata) di forza lavoro, che si oc-cuperà non degli aspetti concreti del-la produzione bensì di quelli “soft”, cioè dello sforzo intellettuale neces-sario alla creazione di nuovi beni.Il quarto fattore si riferisce all’ascesa della Cina. La sua ricomparsa relati-vamente improvvisa come potenza industriale ha dato un forte impulso all’attività globale della produzione di beni. È possibile considerare la cre-scita cinese come una minaccia, così almeno è stata vista da più parti, non ultimi dai produttori delle nazioni ad alto costo che hanno visto emer-gere come pericolosi concorrenti le nuove fabbriche localizzate in Cina.Tuttavia il modo in cui la Cina s’in-serisce nelle catene di distribuzione globali può tornare utile a un’impresa che abbia sede in un Paese sviluppa-to: quest’ultima infatti può avvantag-giarsi delle capacità produttive di un sito industriale cinese usandolo come fornitore. Inoltre la Cina è diventata un mercato importante per le impre-se che producono nuovi tipi di beni industriali e di consumo e che hanno sede in Occidente; infine, la minaccia della concorrenza diretta di produ-zioni cinesi si ridurrà (anche se non

scomparirà del tutto) in seguito all’in-cremento dei salari e di altri costi che iniziano a farsi sentire anche in Cina. Il quinto fattore è la nascita di nuo-ve industrie che operano in una ri-dottissima area di produzione (e di servizi collegati). Sono le cosiddette “nicchie” che in passato esistevano appena. Ma oggi –  grazie ai cambia-menti nella tecnologia e nell’orga-nizzazione aziendale, oltre alle nuove possibilità di vendere globalmente usando internet e reti di trasporto migliorate  – queste nicchie si confi-gurano come aree nelle quali le pic-cole imprese possono competere su base globale. Nella maggioranza dei casi le imprese di nicchia si trovano nelle nazioni occidentali più che nel-le economie emergenti. Esempi di queste nuove realtà includono: la fab-bricazione di punte ad aria compres-sa per perforatrici ad alta velocità; la produzione di nuove forme di luci specialistiche grazie all’uso di diodi luminosi che usano i semicondutto-ri; tubi di acciaio ultrasottili e talvolta flessibili per attività industriali che vanno dalla ricerca di energia all’ap-parecchiatura medica; pompe ad alta precisione da usare nell’industria ali-mentare, aeronautica e nel campio-namento dei fluidi, ad esempio per il settore sanitario o per l’ambiente.

Oggi che le fabbriche sono diffuse un po’ dappertutto, gli effetti della nuova rivoluzione industriale avranno un impatto praticamente dovunque

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Il sesto fattore chiave concerne l’im-portanza crescente di piccoli gruppi di imprese e organizzazioni di ricerca –  spesso con esperienza nella stes-sa disciplina tecnica o in una com-plementare  – che sono concentrati nella stessa, piccola, area geografica. Questi gruppi si trovano soprattutto nelle economie industriali avanzate; sono tutt’altro che nuovi, ma il loro impatto sarà ancora maggiore nella nuova rivoluzione industriale, perché le forze della globalizzazione consen-tono di diffondere l’impatto della vi-vacità tecnologica e commerciale di un dato luogo in molte più parti del mondo di quanto non fosse possibile in passato. Nella nuova era, piccole concentrazioni di eccellenza indu-striale – possono essere in un angolo d’Italia, Germania o Stati Uniti – sfrut-tano le catene di distribuzione globali e le reti di supporto per ottenere una grande diffusione in vaste aree mon-diali. L’ultimo punto è legato ai fatto-ri ambientali e alla loro influenza sul modo di operare delle imprese. Nel passato le imprese manifatturiere erano quasi sempre associate all’im-poverimento dell’ambiente, dovuto o all’inquinamento generato durante il processo produttivo o al modo in cui i beni venivano usati dopo aver lasciato la fabbrica. Oggi i fattori ambientali

sono utilizzati dalle imprese in ma-niera più positiva, come un potenzia-le vantaggio comparato. Le imprese dell’automotive stanno investendo in nuovi processi produttivi o in nuovi tipi di prodotto che rendano il pro-prio business molto più enviromental-ly friendly; inoltre sono emersi nuovi settori, quali la produzione di cellule fotovoltaiche e di turbine eoliche. Il loro scopo non è solo di fare soldi per i loro investitori, ma anche di ridurre i pericoli ambientali che minaccia-no il mondo. La nuova rivoluzione industriale può rappresentare il pri-mo grande cambiamento industria-le, in cui gli effetti negativi sull’am-biente si stabilizzano –  o in alcuni casi si riducono  – invece di crescere.Sfruttando alcuni se non tutti questi fattori, diverse imprese localizzate in nazioni ad alto costo si rafforzeranno nei prossimi 10-20 anni, e si tratta di realtà industriali sia piccole sia gran-di, dai grandi nomi dell’imprenditoria ad aziende poco conosciute al di fuori del proprio settore. Ne sono un esem-pio la milanese Luxottica, il maggiore produttore mondiale di montature per occhiali che produce i suoi pezzi grazie a un insieme di processi diver-si e ad alto contenuto di tecnologia in fabbriche localizzate in Italia, Cina e Stati Uniti; Trumpf, un’impresa tede-

sca leader mondiale nelle macchine per il taglio laser dei metalli, che trae il suo vantaggio competitivo dal com-binare i progressi tecnologici con la capacità di connettersi globalmente con migliaia di clienti; ABB, gigante elvetico-svedese dell’engineering che realizza nuove forme di automazio-ne e hardware per la distribuzione di elettricità; Whitford, produttore sta-tunitense di rivestimenti in fluoro-po-limeri per una grande varietà di appli-cazioni, dalle piattaforme petrolifere all’industria alimentare; la britannica Strix, il più grande produttore di ter-mostati per bollitori, con stabilimenti in Cina; Oiles, produttore giappone-se di cuscinetti senza lubrificazione.La prima rivoluzione industriale mi-gliorò le prospettive dei produttori –  che erano concentrati principal-mente nelle nazioni ricche. Oggi che le fabbriche sono diffuse un po’ dap-pertutto, gli effetti della nuova rivo-luzione industriale avranno un im-patto praticamente dovunque, anche se inizialmente si avvertiranno con maggiore intensità nel mondo ricco. Durante l’Ottocento, la prima rivolu-zione industriale fu un fattore chiave per la crescita dell’industria nell’Occi-dente. Con l’avanzare del XXI secolo, la nuova rivoluzione industriale pro-babilmente farà qualcosa di simile.

NOTE1. The New Industrial Revolution: Consumers, Globalization and the End of Mass Production, giugno 2012, Yale University Press.2. In questo articolo le nazioni povere – che possono anche essere definite in altri termini come “in via di sviluppo”, “a nuova industrializzazione”, “emergenti” e così via – sono tutti quei Paesi al di fuori della parte “ricca” o “sviluppata” del mondo, altrimenti etichettati come “occidente”. Le definizioni sono basate sulle condizioni mondiali della fine del XX secolo. In periodi precedenti, quando il differenziale in termini di benessere tra Europa e Stati Uniti e le altre parti del mondo

era molto minore di oggi, si applicavano altre definizioni. Nei giorni nostri “Occidente” è definito dall’insieme di: 15 nazioni dell’Unione Europea prima dell’allargamento del 2004 (Germania, Italia, Francia, Regno Unito, Svezia, Danimarca, Finlandia, Lussemburgo, Belgio, Olanda, Spagna, Grecia, Portogallo, Austria, Irlanda); Svizzera, Norvegia, Stati Uniti, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Canada.I dati sulla produzione manifatturiera sono basati sul calcoli dell’IHS Global Insight, istitutodi consulenza economica statunitense. Ulteriori dettagli sulle fonti delle cifre si trovano sul mio libro.

la quinta rivoluzione industriale | oxygen

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L’Italia? Non troppo attrattiva né molto libera. L’indice Doing Business (doingbusiness.org) del World Bank Group – che calcola l’attrattività di 185 Paesi del mondo per l’attività imprenditoriale – posiziona infatti l’Italia al 73° posto nel mondo, ma penultima tra i Paesi dell’OCSE ad alto reddito. L’Index of Economic Freedom (heritage.org/index) elaborato dalla Heritage Foundation, invece, determina il grado di libertà economica di 179 Paesi e mette l’Italia al 92° posto (36° dei 43 Paesi europei). I 10 indicatori che compongono ciascun indice raccontano, infatti, un Paese con un sistema giudiziario poco efficiente, una burocrazia macchinosa e lenta, e appesantito da molte tasse; ma anche un Paese in cui gli investitori sono mediamente protetti e in cui c’è buona libertà di commercio, monetaria e d’investimento. Un Paese poco sopra e poco sotto la media mondiale.

data visualizationDv

84° postoAVVIO DIUN BUSINESS

L’Italia è 84a su 185 Paesi per la facilità nell’avviare un’impresa.Al primo postola Nuova Zelanda.

160° postoEFFICIENZA

L’Italia è 160a per efficienza nel risolvere dispute commerciali.Al primo posto il Lussemburgo.

a cura di Oxygen

Fare impresa: quantoè attrattiva l’Italia?

DoingBusiness

—Index

of Economic Freedom

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103° postoPERMESSI EDILIZI

102 Paesi devono chiedere meno permessi edilizi dell’Italia. Primo fra tuttiHong Kong.

92° postoLIBERTÀECONOMICA

L’Italia è al 92° posto per libertà economica, con 58,8 punti. La media mondiale è 59,5 e il Paese più libero è Hong Kong.

12° postoLIBERTÀDI COMMERCIO

L’Italia è al 12o posto per la libertà di commercio.I primi tre Paesi della clas-sifica sono Hong Kong, Macao e Singapore.

169° postoTASSAZIONE

L’Italia ha 169 volte più tasse del Bahrain, che guida la classifica dei Paesi dove le imprese sono meno gravatedal fisco.

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Come sarà la fabbrica del futuro? I grandi cam-biamenti avvenuti nel recente passato hanno già rivoluzionato il lavoro di produzione. Molti compiti ripetitivi sono stati sostituiti da robot, mentre l’informatica ha consentito una maggiore flessibilità, passando dal-le produzioni di massa a quelle personalizzate sulla base delle richieste del cliente. Il lavoro è diventato meno pesante della vecchia catena di montaggio, ma richiede competenze e attenzioni nuove. La fabbrica è cambiata ma non è scomparsa,

perché il virtuale non può sostituire il reale: abbiamo comunque bisogno di “cose” e di qualcuno che le produ-ca. Anzi, il progresso economico apre nuove prospettive perché fa aumentare la domanda di Paesi finora rimasti ai margini. Ma quali sono gli spazi di crescita delle produzioni manifattu-riere sui quali possiamo contare, considerando i vincoli ambientali? L’innovazione tecnologi-ca riuscirà a rimuovere le costrizioni che minaccia-no il progresso? Le diagnosi s’incrociano e si contraddicono. In

Dovremoprodurremeno “cose”?

approfondimento

Le industrie produrranno sempre.Quel che gli economisti dibattonoè se davvero si dovrebbe produrre meno, e in questo caso come potremmo sopravvivere, o se il mondo – come pensano alcuni – sia invece in gradodi crescere esponenzialmente,come la memoria di certi chip.

articolo di Donato Speroni

Ap

Abundance—

Parte dal concetto di crescita esponenziale, applicato al progresso

tecnologico. Il caso più noto è la legge di Moore, che prevede il raddoppio, a parità di prezzo, della

capacità di memoria deichip necessari per

i computer

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uno studio molto dibat-tuto, diffuso nell’agosto scorso (Is U.S. Economic Growth Over? Faltering Innovation Confronts the Six Headwinds), l’economista Robert J. Gordon sostiene che le tre rivoluzioni industriali che abbiamo finora sperimentato (vapore e ferrovie dal 1750 al 1830, elettricità, petrolio e comunicazioni dal 1870 al 1900, computer e cellulari dopo il 1960) hanno dato impulsi alla crescita sempre più brevi e che numerosi “venti avversi”, dalla demogra-fia al diffondersi delle diseguaglianze, faranno sì che il reddito pro capite per il 99% degli americani non crescerà più dello 0,5% all’anno per i prossimi decenni. Il discorso fatto per gli Stati Uniti vale anche per gli altri Paesi industrializ-zati e la diagnosi non è troppo lontana da quella dei “catastrofisti” come Richard Heinberg (The End of Growth), convinti che la sovrappopola-zione, i cambiamenti di clima e l’esaurimento delle materie prime porteranno la Terra alla “fine della crescita”. Una diagnosi che per loro s’i-dentifica soprattutto con un calo della produzione manifatturiera. C’è però chi la pensa in modo radicalmente di-verso, come gli autori di Abundance – The Future Is Better Than You Think [che verrà pubblicato in Italia da Codice Edizioni]. Peter Diamandis è un imprenditore che ha fondato una dozzina di società high tech; Steven Kotler è un noto divulgatore scientifico. Abundance parte dal concetto di crescita esponenziale, applicato al progresso tecnolo-gico. Il caso più noto è la legge di Moore, che

prevede il raddoppio, a parità di prezzo, della capacità di memoria dei chip necessari per i computer, ma la stessa regola si applica a nume-rosi altri casi. L’effetto di questo progresso è di mettere a disposizione dell’umanità nel giro di pochi anni tecnologie che oggi è addirittura difficile immaginare. Non a caso, Diamandis è con Raymond Kurzweil tra i fondatori della Singu-larity University, che da un centro di ricerca della NASA in California stu-dia l’effetto combinato di biotecnologie, sistemi informatici, network e sensori, intelligenza artificiale, robotica, me-dicina e nanotecnologie. Una grande attenzione è dedicata anche alla manifattura digitale, cioè alla possibilità di poter produrre oggetti tridimensionali con la stessa facilità con la quale oggi produciamo le fotocopie. Sarà questa la manifattura del futu-ro? In un certo senso, perché molte produzioni semplici potranno essere realizzate attraverso queste macchine, senza bisogno di una “fabbri-ca” vera e propria. Ma è difficile immaginare che la fabbrica, intesa come luogo di realizzazione e assemblaggio degli oggetti più complessi, possa scomparire. È possibile che gli autori di Abundance siano eccessivamente ottimisti. Le rivoluzioni industriali non nascono solo dall’in-novazione tecnologica, ma anche dalle disponi-bilità di materie prime e capitali, nonché dalle capacità politiche e orga-nizzative per accogliere il nuovo. Gli strumenti del-la crescita sono insomma a nostra disposizione, ma utilizzarli al meglio non sarà facile.

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Le impreseragionano in rete

contesti

Una risorsa per creare relazioni di scambioe sostegno tra le aziende che devono affrontare l’attuale momento di crisi economica e di cambiamenti: il contratto di rete come strumento guida per l’aggregazione a la collaborazionetra le imprese.

articolo di Aldo Bonomi

Nel corso della presidenza Marcega-glia mi è stata affidata la realizzazione di un progetto ad hoc: dare impulso all’aggregazione tra imprese per mi-gliorare la competitività e l’innovazio-ne del tessuto imprenditoriale italiano. Il 28 ottobre 2009 è nata così l’agenzia di Confindustria RetImpresa, con l’o-biettivo di creare condizioni favorevoli per la diffusione e la valorizzazione delle aggregazioni attraverso l’allora nuovo strumento del contratto di rete. A distanza di soli tre anni dall’intro-duzione, nel panorama giuridico na-zionale, di questa forma contrattua-le, ben 458 reti sono venute alla luce, con il coinvolgimento di 2469 impre-se in tutte le regioni della penisola.Le aziende praticano da tempo forme di collaborazione e integrazione, e le ag-gregazioni nate spontaneamente sono divenute patrimonio delle imprese ita-liane. Tuttavia, gli imprenditori oggi sottolineano la volontà e l’interesse a collaborare per la realizzazione di pro-grammi specifici, condivisi e ben deli-neati, ma di fare tutto ciò continuando a mantenere indipendenza e autonomia nella gestione della propria impresa.Il contratto di rete, pertanto, è una pos-sibilità in più per le imprese rispetto ai tradizionali meccanismi di aggregazio-ne come fusioni societarie, consorzi, ATI e joint venture. Un salto culturale verso un’aggregazione non solo nume-

Co

rica e quantitativa ma ragionata intor-no a un programma comune, che fa cre-scere insieme le aziende allargandone il raggio di azione per realizzare obietti-vi individualmente molto impegnativi.Lo sviluppo dell’ICT ha consentito il su-peramento di quei meccanismi di col-laborazione, su base esclusivamente territoriale, che si sono dimostrati ina-deguati a rispondere ai crescenti scam-bi di tipo relazionale, informativo ed economico delle imprese. Seppure par-tendo dalle specificità e dalle tradizioni locali, è necessario superare la dimen-sione distrettuale costruendo collabora-zioni più estese ed extraterritoriali, che possano migliorare la competitività del-le aziende sui mercati nazionali ed esteri.Mentre il distretto si riferisce per defini-zione a un fenomeno locale e circoscrit-to in cui le imprese sono specializzate in un determinato settore, il concetto di rete abbraccia un ideale di collabora-zione più ampio, basato non solo sulla vicinanza geografica ma anche sulla re-ale ed effettiva possibilità di accrescere la competitività attraverso lo scambio di tecnologie, informazioni e conoscen-ze. Per questo motivo la rete, unendo imprese di diversi settori che possono trovare vantaggi nel reciproco scam-bio di saperi e competenze, risponde alla richiesta di superamento del loca-lismo e si configura come la naturale evoluzione del modello di collabora-

zione del sistema produttivo moderno.Il contratto di rete è stato lo strumento che ha risposto con successo alla richie-sta delle imprese di avere un riferimen-to guida che renda ancora più efficace la loro collaborazione, uno schema al quale attenersi seppure in maniera flessibile e che garantisca il manteni-mento dell’autonomia imprenditoriale.Il contratto di rete garantisce una go-vernance snella, priva di sovrastruttu-re burocratiche che ne complichino l’operatività, ma senza rinunciare agli imprescindibili elementi pragmatici.

La portata fortemente innovativa di questo strumento permette alle reti di acquisire una struttura ben definita e facilmente riconoscibile, vincolata solo all’oggetto del contratto e a quan-to stipulato nel programma comune. Il contratto di rete, modellato e “cucito

La rete, unendo imprese di diversi settori che possono trovare vantaggi nel reciproco scambio di saperi e competenze, risponde alla richiesta di superamento del localismo

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su misura” sulle caratteristiche dei suoi contraenti, è efficace e adattabile alle esigenze delle aziende di qualsiasi set-tore economico, di tutte le tipologie e dimensioni. Tali peculiarità rendono la collaborazione duttile al suo interno ma estremamente robusta verso l’esterno.Il nuovo modello favorisce i processi di innovazione sia organizzativa sia pro-duttiva; è una filosofia che abbraccia una visione più ampia delle relazioni economiche e che cerca di superare la convinzione “piccolo è bello”, ed è utile e conveniente mettersi in rete per affron-tare le sfide del mercato e migliorare le proprie performance economiche. Molto spesso, infatti, imprese troppo piccole o con risorse insufficienti non riescono a entrare o a rimanere con successo nei mercati internazionali. Ed è proprio in questa difficile fase di stagnazione dei consumi interni che l’internazionalizzazione emerge come una delle finalità più spesso ri-chiamata da uno sguardo d’insieme sui programmi di rete: sono ben 78 quelli siglati che hanno tra gli obietti-vi lo sviluppo di progetti per l’interna-zionalizzazione per intercettare nuove opportunità di business oltre i confini.Riporto tra le iniziative più interessanti su questo tema i casi di Five for foundry, la prima rete di respiro internazionale con

al suo interno aziende francesi, polacche e ceche, e il caso Italian Tecnology Cen-ter, contratto di rete che ha come ogget-to la penetrazione nel mercato indiano. In un contesto di sempre minore di-sponibilità di risorse, la rete acquista una forza e una dimensione capaci di dimostrare ai suoi interlocutori crescita e affidabilità. In questo senso, banche e istituzioni pubbliche possono valutare l’opportunità di erogare finanziamen-ti anche attraverso la valutazione della validità dei progetti imprenditoriali presentati dalla rete. Il cosiddetto ra-ting di rete può essere determinante e superare quello della singola impresa.La rete non può essere l’unica soluzio-ne alla crisi, la panacea per le nostre imprese, ma deve rappresentare, que-sto sì, uno strumento di politica indu-striale a disposizione del sistema per affrontare, nel migliore dei modi, un periodo sfavorevole e di cambiamento nei rapporti tra territorio ed economia. Uno strumento in cui Confindustria e la nostra agenzia ha creduto fin da su-bito e che sosteniamo dalla sua nascita.Anche il governo, allo stesso modo, ha messo in campo una misura notevole a sostegno delle aziende in rete: un regime di sospensione di imposta per la quota di utili di esercizio che le singole aziende destinano alla realizzazione degli inve-

stimenti previsti dal programma di rete. L’ammontare del beneficio fiscale ero-gato dallo Stato è stato di 48 milioni per il triennio 2010-2012; ci stiamo adope-rando – lo riteniamo indispensabile – af-finché l’importo venga aumentato a 100 milioni di euro per il prossimo triennio. È importante il contributo delle istitu-zioni: aumentano i bandi di Regioni, Province, Comuni e Camere di Com-mercio territoriali per la concessione di contributi a favore delle reti d’impresa e anche il MIUR ha predisposto un bando per lo sviluppo e potenziamento dei Clu-ster Tecnologici Nazionali. Importanti misure sono state inserite nel Decreto Crescita per le reti del settore turistico.Uno dei presupposti per accedere alle agevolazioni fiscali è la preventiva asse-verazione del programma di rete a opera di organismi abilitati e riconosciuti. Per questo motivo, a giugno 2011, RetIm-presa ha fondato la società RetInsieme srl, organismo asseveratore che, in due tornate, ha certificato 69 contratti di rete. Inoltre le reti hanno catturato positiva-mente l’attenzione delle istituzioni co-munitarie: proprio di recente è arrivato un importante riconoscimento da par-te della Commissione Europea che ha inserito nell’European Competitiveness Report 2012 un capitolo interamente de-dicato a cluster e network, riconoscendo

La rete non può essere l’unica soluzione alla crisi,

ma deve rappresentare uno strumento di politica industriale a disposizione

del sistema per affrontare, nel migliore dei modi, un periodo sfavorevole e di

cambiamento

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le imprese ragionano in rete | oxygen

loro un ruolo positivo per raggiungere massa critica, scambiare informazioni e ampliare la capacità industriale delle imprese. Nei mesi scorsi, anche, la Ban-ca europea per gli investimenti (BEI) si è mossa a sostegno delle reti preveden-do un plafond di 100 milioni di euro.Pertanto, abbiamo contatti frequenti con il Gabinetto del Commissario An-tonio Tajani per consentire alle reti di accedere ai fondi strutturali e ai vari finanziamenti della prossima pro-grammazione comunitaria 2014-2020. In questi anni abbiamo abbracciato la rete d’impresa in tutte le sue declinazio-ni: promuovendo studi e ricerche con il mondo accademico, collaborando con le associazioni d’impresa e creando impor-tanti sinergie con il sistema bancario per un migliore accesso al credito per le im-prese in rete. Tutto questo per cercare di raggiungere l’obiettivo, definito all’inizio di questa presidenza con Giorgio Squin-zi, di 2000 contratti di rete entro il 2016.Insieme a Unioncamere e la Fondazione Bruno Visentini (FBV), infatti, abbiamo promosso “Il laboratorio sulle reti” per l’elaborazione di studi e analisi sui con-tratti di rete, e a marzo con il Comitato Interregionale dei Consigli Notarili delle Tre Venezie abbiamo presentato le “Li-nee guida per il contratto di rete”, uno strumento per professionisti e impren-

ditori dove trovare utili indicazioni prati-che per la redazione del contratto di rete.Per le aziende, è ancora il credito il vero ostacolo all’attività di impresa orientata alla crescita: per questo la-voriamo per infondere il concetto di “premialità” per le imprese in rete e garantire, così, migliori condizioni e prodotti finanziari specifici. Per ora ab-biamo stipulato accordi con Unicredit e BNL ed è stata avviata da pochi giorni una collaborazione con Banca Carige.

Gli obiettivi raggiunti fino ad oggi sono molti e rappresentano un grande passo in avanti, ma la nostra azione deve pro-seguire per rendere ancora più strut-turale e autorevole il contratto di rete. Abbiamo dedicato attenzione e impe-gno affinché le reti d’impresa siano

inserite tra le forme di aggregazione ammesse alla partecipazione delle gare d’appalto. Riteniamo sia possi-bile e l’incontro con l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici è stata l’occasione per fornire nuove indica-zioni che speriamo trovino applicazio-ne nei provvedimenti per la semplifi-cazione attualmente in discussione.Ulteriori iniziative in cantiere riguarda-no la formazione e il lavoro: il progetto “Reti Scuola-Impresa”, che si propone di monitorare le sinergie esistenti a livello nazionale e quelle in via di realizzazio-ne, presentato il 23 novembre a Verona nell’ambito della fiera Job&Orienta. L’iniziativa WIN (Work In Network), come strumento di politica attiva per il lavoro, è un progetto definito per la gestione delle risorse umane all’inter-no della rete, per facilitare l’impiego di manodopera e avere ricadute positive sull’occupazione e quindi sulla crescita. È indubbio ormai che le reti sono una realtà e un’alternativa che coinvolge il panorama economico nazionale e non solo; unendo le proprie forze e iniziando a collaborare con imprese più grandi e più stabili, anche realtà imprenditoriali di piccole dimensioni possono riuscire a crescere e affron-tare la crisi come un cambiamento costruttivo e uscirne più rafforzate.

Gli imprenditori oggi sottolineano l’interesse a collaborare per realizzare programmi condivisi e ben delineati, ma continuando a mantenere autonomia nella gestione della propria impresa

RETIMPRESANata a ottobre2009, l’agenziadi Confindustriaper l’aggregazionedi imprese ha frai suoi soci associazioni territoriali, confindustrie regionali, associazioni nazionali di categoriae federazioni di settore per un totale di circa 70 soci supportatie sensibilizzati al contratto di rete. (www.retimpresa.it)

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«L’utilizzo effettivo della conoscenza richiedeva non solo la possibilità e gli incentivi per creare o avere accesso a una nuova tecnologia, ma anche la competenza per farne uso e per eseguire le “istru-zioni” contenute nel suo blueprint. Molta della conoscenza applicata dagli artigiani e dagli inge-gneri era “tacita”, non era cioè descritta formal-mente nella “ricetta” usata per la produzione, ma era il frutto di accorgimenti e di un know-how ba-sato sull’esperienza o sull’imitazione» (Joel Mokyr)

«L’errore che il sistema economico sta pagando è l’essersi basato su una visione a breve termi-ne e sul modello della flessibilità organizzativa, dell’instabilità e della velocità per adeguarsi ai cambiamenti. È stato così anche nella gestio-ne del capitale umano. Non si è investito sulla conoscenza e i lavoratori, in questi anni, hanno potuto acquisire solo un’esperienza incompleta. Il modello artigiano del passato ci insegna una cosa importante: il senso del tempo. Per diven-tare maestri ai tempi antichi ci volevano anni. La bottega di oggi è la piccola impresa, che per que-sto va sostenuta come modello e va messa nelle condizioni di investire sulle persone. Oggi serve più la crescita che la flessibilità» (Richard Sennett)

Sc

scenari

UN NUOVORINASCIMENTO

ECONOMICO CHE PASSA DALLA PMI

articolo di Andrea Di Benedetto e Luca Iaia

Circa il 18% delle esportazioni italiane proviene dal mondo dell’artigianato. Il 50% dalle PMI. Sta avvenendo un riequilibrio favorevole alle imprese di minori dimensioni che hanno saputo

presidiare fette molto verticali di mercato, una riorganizzazione geografica dei mercati a vantaggio delle economie emergenti, in particolar modo quelle asiatiche, da sempre vissute con il mito

dell’Italia e della qualità della nostra manifattura.

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Due scritti di epoche molto diverse. Entrambi però sot-tolineano l’esistenza di un capitale invisibile, assente dallo stato patrimoniale delle imprese, che è compo-sto dal know-how e dall’esperienza delle persone che ci lavorano. Questo capitale è tanto più rilevante percen-tualmente quanto meno l’impresa è industrializzata e dispone di processi profondamente formalizzati.Joel Mokyr individua come fattore chiave della rivolu-zione industriale inglese l’ampia disponibilità di abili-tà ad alta specializzazione capace di sostenere l’inno-vazione; Richard Sennett, ai nostri tempi, individua il modello della piccola impresa come unica capace di investire in conoscenza a lungo termine, garantendo una coltivazione di abilità e una rapida contamina-zione attraverso le nuove forme di comunicazione.

I livelli di spesa in ricerca e sviluppo nel nostro Pa-ese, per quanto riguarda il settore privato, sono indubbiamente inferiori rispetto alla media euro-pea e sotto la metà della media tra Francia e Ger-mania. La colpa di questi numeri, normalmente, viene addossata al sistema frammentato dell’im-presa diffusa di piccole dimensioni che non avreb-be la capacità di investire in ricerca e sviluppo.Siamo invece convinti che questo sia un problema di misurazione: è evidente che se il tasso di R&D viene valutato attraverso il numero di brevetti o la capitalizzazione “fiscale” degli investimenti in ricerca, la gran parte dell’innovazione prodotta dalle piccole imprese risulta trasparente, perché frammentata e inglobata nella funzione produttiva.

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L’impresa di piccole dimensioni forma costante-mente i propri dipendenti (a volte anche uno soltan-to) all’arte del lavoro e alla cura dei dettagli, trasmet-te storia e tradizioni, cultura del saper fare. I processi produttivi vengono ottimizzati per step successivi, l’efficienza viene migliorata regolarmente, i prodot-ti si modificano sempre per inseguire le esigenze del mercato. Conoscenza e innovazione, appunto. Cosa serve, quindi, a questo settore per rilanciare la crescita?Un documento del Ministero dello Sviluppo Econo-mico (DG PMI ed enti cooperativi – Div VIII) descrive il mondo artigiano come «un settore dell’economia italiana a modernità incompiuta, nel senso che lo stesso non ha mostrato un percorso evolutivo chia-ro verso una dimensione imprenditoriale che oggi risulta vincente sul mercato. L’impresa moderna ha, infatti, la capacità di controllare la concorrenza inter-na ed estera, di operare su scala globale, di sfruttare le potenzialità dell’ICT, di disporre di tecniche pro-duttive altamente innovative». Quindi: imprendito-rialità, digitalizzazione, trasferimento tecnologico.Manca una cultura all’imprenditorialità, si sente forte il bisogno di collegare le scuole all’impresa. Esistono molte esperienze, anche di successo, per trasformare attività di ricerca in start-up, per formare e avviare giovani talenti al mondo del lavoro. Non c’è

ancora però nella nostra offerta formativa un’educa-zione trasversale all’impresa: manca nel DNA di una nazione a vocazione manifatturiera, che ha basato le proprie fondamenta sulla manualità e sulla qualità della produzione, la consape-volezza della scientificità del fare impresa. È dunque neces-sario riuscire a innovare i pro-cessi formativi e contaminare le istituzioni scolastiche a tutti i livelli: soltanto attraver-so un grande coinvolgimen-to delle nuove generazioni e una massiccia iniezione di “digitale” e managerialità, sarà possibile il cambiamen-to di cui abbiamo bisogno.Circa il 18% delle esportazioni italiane proviene dal mondo dell’artigianato. Il 50% dal-le PMI. E rassicuranti sono i trend che evidenziano una democratizzazione dell’internazionalizzazione sia dal punto di vista commerciale sia produttivo, gra-zie all’abbattimento dei costi e alla riduzione delle intermediazioni necessarie, soprattutto per effetto

La sfida che ci si pone di fronte è quella di portare la piccola impresa e l’artigianato a una modernità compiuta, ed è una sfida per il Paese. Il potenziale di crescita del settore è tale da essere forse l’unica chance che abbiamo per la ripartenza della nostra economia. Un nuovo Rinascimento

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di internet. Sta avvenendo un riequilibrio favore-vole alle imprese di minori dimensioni che hanno saputo presidiare fette molto verticali di mercato, una riorganizzazione geografica dei mercati a van-taggio delle economie emergenti, in particolar modo quelle asiatiche, da sempre vissute con il mito dell’I-talia e della qualità della nostra manifattura. E per finire un fenomeno di crescente interesse da parte della domanda internazionale di prodotti/servizi del Made in Italy – anche di brand meno noti – ma ricchi invece di qualità artigianali, storia e cultura.E, ultimo ma non meno importante, la piccola impresa ha un grosso gap di consapevolezza del proprio potenziale e di appeal per i nuovi talenti, ha sempre avuto un ruolo centrale nella nostra eco-nomia ma non nel nostro immaginario collettivo. Non basta infatti produrre percentuali di PIL enor-mi e rappresentare la maggioranza del panorama imprenditoriale: cinema, letteratura, media, hanno sempre puntato l’accento su un’Italia industriale degli anni Sessanta, quella del boom economico trainato dalle industrie di Stato. È mancata capa-cità di comunicazione, attenzione dei media tutti, che hanno trascurato una parte vitale del Paese. L’attenzione al bello, alla storia e alla cultura c’è sempre stata: sono però cambiati i modi e gli

strumenti per raccontare. L’insieme di tante sto-rie vincenti può creare un’epica per un mondo produttivo che sta nascendo: potrebbe essere questo l’elemento chiave di una rinascita econo-mica che si basi sulla cultura, sul territorio e su imprese pensate come “processori di conoscen-za”, capaci cioè di tradurre il sapere in economia.La sfida globale dal punto di vista della produttività si giocherà sulla capacità di gestione della comples-sità: modelli efficienti di interazione tra i sistemi produttivi distribuiti, ripensare le filiere rendendole più corte ed efficaci, ridisegnare i distretti non in ter-mini geografici, coniugare il profitto con lo sviluppo del territorio, delle tradizioni e della storia italiana. Industria culturale, Made in Italy e imprese dovranno interagire su piattaforme sempre più internazionali ed attente alla qualità di prodotti e servizi offerti. Il tutto accompagnato da servizi e tecnologie moderni derivanti da un massiccio processo di digitalizzazio-ne delle imprese e della pubblica amministrazione.La sfida che ci si pone di fronte è quella di por-tare la piccola impresa e l’artigianato a una mo-dernità compiuta, ed è una sfida per il Paese. Il potenziale di crescita del settore è tale da essere forse l’unica chance che abbiamo per fare riparti-re la nostra economia. Un nuovo Rinascimento.

Manca una cultura all’imprenditorialità e si sente forte il bisogno di collegare le scuole all’impresa. Esistono molte esperienze, anche di successo, per trasformare attività di ricerca in start-up, per formare e avviare giovani talenti al mondo del lavoro. Non c’è ancora però nella nostra offerta formativa un’educazione trasversale all’impresa

un nuovo rinascimento economico che passa dalla pmi | oxygen

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II “saper fare”ci salverà: 10 storie di successo

contesti

Le mani degli artigiani italiani, e menti brillantie fantasiose, fanno miracoli internazionali.E così il Made in Italy può vantare numerosi esempi di imprese artigiane virtuose che, con cappelli, occhiali, biciclette, stampanti, stanno arrivandoa raccontarsi in tutto il mondo.

articolo di Daniela Mecenate

Il futuro? È nelle nostre mani. Letteral-mente. Crisi o non crisi, infatti, il “sa-per fare” ci salverà: è questo il motto delle migliaia di aziende manifatturie-re che compongono il tessuto impren-ditoriale italiano, dove artigiani e “ma-nifattori” di ogni tipo tengono dritta la barra della nave. Falegnami, sarti, pasticceri, orafi e cappellai. Sediari, ce-ramisti, carpentieri e birrai. Che diven-tano impresa, piccolissima o grande, familiare o da business internazionale. Ma sempre con una base irrinunciabi-le: la tradizione e la capacità di mante-nere vive le arti e le conoscenze di sem-pre. E con un elemento in più, ossia l’innovazione: è il “saper fare” abbina-to alla tecnologia, la tradizione aggan-ciata alle opportunità contemporanee, le mani accostate a una mente digitale. «È questa la nostra benzina –  spiega Stefano Micelli, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia e autore del li-bro Futuro Artigiano – sia per la picco-la impresa sia per la grande azienda. Anche le grandi, di questi tempi, non

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possono fare a meno della personaliz-zazione, della produzione “su misura”, e stanno riscoprendo l’importanza del-la base artigianale rispetto alla catena di montaggio. Oggi, la piccola impresa artigiana non è più in conflitto con le grandi aziende e col settore industria-le, anzi ne è l’ispirazione e un prezio-so complemento. Solo puntando sul nostro artigianato e giocando sull’in-novazione potremo competere sui mercati internazionali e correre contro chi fa prodotti seriali, come la Germa-nia». E non a caso, anche in tempi di crisi, l’export del manifatturiero ita-liano corre più di ogni altro settore: oltre il 52% delle imprese ha aumen-tato (anche se di poco) la sua presenza internazionale e l’export è cresciuto di più tra le imprese che finora era-no meno esposte all’estero. Dunque il mercato globale, reso più selettivo dalla congiuntura economica sfavo-revole, cerca il nostro manifatturiero: da quello dei giganti internazionali a quello delle microimprese artigiane.

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In principio fu una bottega artigia-na a Taranto, con tre collaboratori. Oggi, a oltre 50 anni di distanza, conta più di 6000 dipendenti ed è quotata a Wall Street. E la Natuzzi, leader mondiale nella produzione di divani in pelle, è un faro per le aziende del sud Italia: dalla Puglia con amore. Pasquale Natuzzi, che ha iniziato a 19 anni costruendo poltrone e divani per il mercato lo-cale, di strada ne ha fatta ed è ora presente in 143 Paesi con 11 stabili-menti in tutto il mondo, ma è rima-sto sempre legato alla Puglia, al suo stabilimento nei pressi di Bari dove si è trasferito nel ’72. E soprattutto non ha mai smesso di credere nella forza delle mani, nel “saper fare” di quelle centinaia di artigiani che lavorano nei suoi laboratori. I mer-cati internazionali lo hanno accolto con favore da quella volta, nel 1980, che riuscì a vendere divani in pelle ai grandi magazzini Macy’s a un prez-zo che era un terzo di quello medio negli Stati Uniti. Suscitando l’invidia dei competitor e l’ammirazione dei guru del marketing americano. Così oggi, mentre il manifatturiero è di casa soprattutto in Veneto o in To-scana, lui dal “tacco” della Penisola guarda ai mercati di tutto il mondo con la fierezza del vecchio artigiano che ha saputo osare e che ha saputo innovare. Senza perdere la speranza nemmeno quando, nel 1973, il suo laboratorio prese fuoco e dovette ricominciare da capo. «Mi trasferii a Santeramo in Colle, dove siamo tut-tora – racconta lui – e qui mi rimboc-cai le maniche per ripartire da zero».

Chi non conosce la Nutella, i Fer-rero Rocher, le barrette Kinder e le Tic Tac? Le produce un gigante mondiale, la Ferrero di Alba. Gli in-gredienti base sono stati un piccolo laboratorio di pasticceria, aperto nel 1942 da Pietro Ferrero e sua mo-glie, e una gran voglia di inventare, sperimentare, creare golosità senza arrendersi. Come quando, durante la guerra, non avendo più a dispo-sizione gli ingredienti adatti per le leccornie da cioccolataio, Pietro ebbe l’idea di ripiegare su un ma-teriale povero e facilmente dispo-nibile sugli alberi della zona, senza sapere che sarebbe stato la sua for-tuna: le nocciole. Da allora i labora-tori Ferrero non si sono più fermati, e a forza di sperimentare, a forza di impastare e macinare nocciole, nel ’64 è nata la regina mondiale delle creme: la Nutella. Che ha accolto anche i leader mondiali all’ultimo G8, quando a colazione è stata ser-vita, su un vassoio d’argento, una ricca porzione di pane e Nutella. An-cora oggi gli eredi di Pietro Ferrero non si fermano. Impastando e me-scolando, grazie all’opera di cen-tinaia di “mastri pasticceri”, sono arrivate le merendine, gli ÉstaThé, gli ovetti Kinder. «Certo sono lonta-ni i tempi in cui – raccontano dall’a-zienda di Alba – il fondatore Pietro Ferrero, volendo allargare il suo mercato, andava in giro per i Paesi limitrofi col carretto a vendere i cre-mini di nocciola preparati dalla mo-glie. Ma se oggi ci espandiamo in tutto il mondo è merito del suo in-tuito e della sua voglia di crescere».

NATUZZI FERRERO01 03

Dare forma reale a un disegno. Buttare giù uno schizzo e vederlo diventare un oggetto vero, veder-lo uscire da una vera e propria stampante tridimensionale. Un vaso? Una scatola colorata, una lampada, un paio d’occhiali? Si può disegnare e poi basta un click per crearlo, toccarlo, met-terlo sulla scrivania. Tutto questo è possibile con le stampanti 3D della Kentstrapper, azienda fa-miliare di Firenze nata appena un anno fa, in piena e rombante crisi economica. Il nome è un po’ tedesco, ma l’anima e la fantasia sono tutte italiane. «Esistono di-versi modelli di queste stampanti che noi realizziamo praticamente una a una –  spiega Lorenzo Can-tini  – anche se le componenti in plastica possono essere replicate. Un software converte un disegno

in un linguaggio tridimensionale che viene interpretato da queste nostre stampanti, le quali grazie all’applicazione di strati di plasti-ca e altri materiali sono in grado di realizzare il disegno. Inizialmente pensavamo che avremmo vendu-to queste macchine alle aziende, invece le acquistano soprattutto i privati. Anche perché il modello base costa pochissimo e può esse-re acquistato ad esempio da un ar-tigiano per realizzare i suoi ogget-ti. Abbiamo notato poi che molte scuole, soprattutto all’estero, stan-no acquistando le nostre stam-panti per dare forma ai modelli e i disegni creati dagli alunni». Un modo per liberare l’immaginazio-ne e rendere reale un’idea, per far superare alla fantasia gli ostacoli della materia. La libertà di imma-ginare ha il marchio Made in Italy.

KENTSTRAPPER02

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il “saper fare” ci salverà: 10 storie di successo | oxygen

Su misura. Dalle asole agli orli, dalle finiture ai bottoni, fino al nome stampato sulle etichette: tutto come il cliente vuole. In casa Zegna, gli artigiani sono ancora i protagonisti di que-sta azienda nata nel 1910 per un’intuizione di Ermenegildo, ultimo di 10 figli di un orolo-giaio che un giorno aveva de-ciso di cambiare strada e met-tere su un laboratorio tessile.Ora che il marchio Zegna è presente in 60 mercati mon-diali e i dipendenti sono oltre 7000, la lana è ancora quella australiana, un tempo impor-tata su grandi navi da carico, e l’approccio sempre lo stes-so: la personalizzazione. Nel 1972, infatti, l’azienda, diven-tata ormai un gigante, ha av-viato la linea “su misura”: nei

laboratori Zegna si prendono le misure, il cliente sceglie tra 700 tessuti, il prodotto è re-alizzato sulla base delle sue indicazioni. E da Trivero, nei pressi di Biella, quest’azienda manifatturiera, bandiera del tessile Made in Italy, è arrivata sui mercati internazionali già dagli anni ’30. Oggi l’80% del suo fatturato viene dall’este-ro e l’espansione sul mercato cinese è stata fondamentale per la crescita dell’azienda, visto che nel 2003 Zegna ha acquisito un’impresa in Cina che produce abbigliamento di qualità per il mercato interno. E anche in una fase di contra-zione, il gigante manifatturiero Made in Italy non conosce crisi e viaggia verso fatturati ben al di sopra del miliardo di euro.

Cosa ci fa Harry Potter, il maghetto più famoso del mondo, a Trebase-leghe, ridente centro in provincia di Padova? Qui la magia l’ha fatta Fabio Franceschi, amministrato-re delegato della Grafica Veneta SpA, a cui è stata affidata la stam-pa e la produzione dei libri del mago per eccellenza. E non solo. Qui si stampano gli inserti della “Pravda”, del “New York Times”, di “Le Figaro” e del quotidiano bra-siliano “Il Globo”, per citarne solo alcuni. Nonno e papà stampatori e rilegatori, il nuovo proprietario della Grafica Veneta ha scelto la via della personalizzazione e della velocità e riesce a stampare, nel suo stabilimento di Trebaseleghe, qualunque tipo di prodotto in 24 ore e consegnarlo ovunque nel mondo, mentre altri impiegano anche tre settimane. Una magia?

«Non siamo più solo stampatori –  spiega Fabio Franceschi  – e ab-biamo cercato di conciliare espe-rienza artigianale con le richieste di un mercato sempre più esigente: ci siamo dotati di macchinari inno-vativi e se necessario stampiamo anche di notte per essere puntuali». E tutto questo con uno approccio eco-friendly: sul tetto dello stabi-limento, 50.000 metri quadrati di pannelli solari fanno funzionare i macchinari e forniscono l’ener-gia necessaria per produrre libri e inserti, quasi tutti biodegradabili. «Siamo l’unica azienda al mondo a impatto zero», afferma il mago di Trebaseleghe. Che ora si prepa-ra a un altro prodigio: il debutto a Piazza Affari entro marzo 2013: «il progetto di quotazione è pronto –  conferma  – e la capitalizzazione prevista è di 500 milioni di euro».

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«Siamo ebanisti contemporanei». Con questa strana definizione l’azienda Ermes Ponti sintetizza il suo business: progettare e pro-durre arredi di alta qualità. Un po’ studio d’architettura un po’ falegnameria, un po’ sartoria e un po’ cantiere. Una piccola azienda che sulle ali della tradizione fa-miliare («nonno Walter Ponti era falegname fin dal ’37») è volata dalla Bassa Padana fino all’altra parte del globo. I suoi arredi sono negli yacht più esclusivi del mon-do, nelle boutique di Tokyo e Du-bai, negli show-room Montblanc, nei grandi magazzini Blooming-dales di New York e dentro il Quirinale. O anche nei più ricchi appartamenti di Parigi, Mosca e Shangai e nelle ville principesche di Porto Cervo. Tutto questo gra-zie all’adozione di quello che loro stessi chiamano il “metodo Pon-ti”: «ascoltiamo l’idea del cliente, poi progettiamo e creiamo nello stesso luogo, ossia dentro il no-stro laboratorio. Così adottiamo un metodo di produzione coor-dinata e non ci sfugge nulla, dalla progettazione alla realizzazione. Nel nostro grande laboratorio convivono tessitori, ebanisti, falegnami e carpentieri: siamo una vera sartoria dell’arredo».

Lo sguardo va indietro al 1741, Ducato di Modena. Qui nasce la più antica ceramica di Sassuolo, la Marca Corona, dove maestran-ze locali lavoravano la terra rossa e i laterizi per la dinastia dei du-chi d’Este. Oggi, il distretto della ceramica di Sassuolo è tra i pri-mi poli manifatturieri in tutto il mondo e le aziende hanno nomi riconosciuti come brand di qua-lità. Dalle ceramiche Ragno al Cotto d’Este, dal Gruppo Marazzi alla linea per la casa di Versace. Un mercato che vale milioni di euro e che mantiene una quota di mercato mondiale da far invi-dia ai competitor cinesi, che pro-ducono a bassi costi in catena di montaggio. Qui invece, accanto alla produzione su larga scala, sopravvive l’approccio artigia-

nale, anzi viene riscoperto come nuova carta vincente su cui pun-tare di più per il futuro. E così i “riflessi setosi”, i “colori nuvola-ti”, le “superfici venate” e tutto quello che la fantasia (e il clien-te) richiede, possono prendere forma in questo distretto dove la materia prima è ancora quella di un tempo, quella della Marca Corona: la terra argillosa degli affluenti del Po e i marmi dei ri-lievi preappenninici. E se la crisi globale e la concorrenza cinese hanno fatto sentire i loro artigli negli ultimi anni, «questo non significa –  spiegano dall’azien-da  – che non siamo sulla strada giusta: quella della continuità con una tradizione antichissima, che resta il nostro punto di forza e che nessuno ci potrà togliere».

CERAMICHESASSUOLO

ERMESPONTI

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08Avere in testa un’idea e trasformar-la in un caso di successo interna-zionale. È andata così per tre ragaz-zi di Firenze che dal 2010 creano cappelli interamente artigianali e li vendono ormai in tutto il mondo, dall’Inghilterra al Giappone, dalla Germania agli Stati Uniti. L’azien-da si chiama SuperDuper (che in americano significa “fantastico”) ed è nata per gioco e per passione di tre ragazzi tutt’altro che sarti o cappellai. Niente tradizioni fami-liari, stavolta: lui musicista rock, le due ragazze una danzatrice e l’altra architetto. Ma fatale è stato l’in-contro, in un mercatino, con delle antiche forme per fare cappelli, e soprattutto con una sarta fiorenti-na che ha svelato ai tre ragazzi, ap-passionati di design e di copricapi, tutti i segreti del mestiere. È nata così una linea vintage-modaiola di cappelli fatti a mano che hanno sfilato nelle più importanti fiere di moda di Milano e Parigi, attraver-sato i confini nazionali e conqui-stato le pagine di Vogue e Vanity Fair. Crisi o non crisi, il loro merca-to è in continua espansione: «ven-diamo per l’80% sui mercati esteri –  spiegano  – dove per assurdo il Made in Italy è più apprezzato che in Italia». Per fare un cappello im-piegano circa due ore, ma ogni pez-zo dimostra che avere un’idea per la testa, e realizzarla con passione e qualità, può dare buoni frutti.

SUPERDUPER06

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Il loro motto è: Orgoglio Italia-no. Un orgoglio che corre su due ruote e pedala in tutta Italia con un traguardo ben preciso: gli Stati Uniti e poi ancora più lon-tano, fino al Giappone e all’Au-stralia. Sarà una lunga corsa, per l’azienda Italia Veloce – Of-ficina Italiana Velocipedi di Pre-gio, fondata nel 2010 da quattro compagni di scuola di Parma. Appassionati di bici, certo, ma anche di design, i quattro han-no rilevato un vecchio labora-torio artigianale e gli hanno ridato vita. Così sono nate que-ste due ruote fatte a mano dal look anni ’50 ma dalla tecnolo-gia contemporanea, realizzate “su misura” in senso letterale: in base alla statura del cliente viene elaborato tutto il resto. Poi c’è la possibilità di sceglie-re –  anche on line  – colori e modelli del telaio, del sellino,

delle ruote. Un’unica costante: la forma “a freccia” del manu-brio, ormai un tratto distintivo. E come una freccia è schizzato anche il business, visto che il 2011 si è già chiuso con un fat-turato di 500.000 euro. «Faccia-mo ancora un prodotto di nic-chia e di alta gamma, dedicato a chi ama l’ambiente, l’arte e il design: molti scelgono le nostre bici persino come pezzi d’arre-damento – spiega uno dei quat-tro, Massimiliano Rabaglia, responsabile marketing  – ma stiamo investendo per sbarcare l’anno prossimo con distributo-ri specifici negli Stati Uniti. Ed è solo il primo passo». Intanto, non si ferma la ricerca sul set-tore della mobilità urbana, che ha già dato un frutto speciale: la bici superleggera pieghevole da yacht. Una chicca per pochi, un’altra pedalata verso il futuro.

Un incontro: quello del legno con l’alluminio, quello della natura con la tecnologia. Così nascono gli occhiali più particolari e più eco-friendly del mondo, quelli della W-Eye, un’azienda di fami-glia dove si producono occhiali in legno superleggeri (10 grammi), super ecologici e super glamour. Ad aver avuto l’idea è un falegna-me, o meglio un sediaro, cresciuto nella bottega del padre tornitore. Torcere il legno, dargli forme curve e dolci, renderlo flessibile e duttile: questa la sfida di Doriamo Mattellone, che nella sua azienda di Udine, dal 2001, lavora le mon-tature una a una con fogli di legno da 5 millimetri e, con una tecnica innovativa, li unisce con sottilissi-mi strati di alluminio. L’incontro decisivo poi è stato quello con il designer Matteo Ragni che ha dato uno stile accattivante al lavo-ro del sediaro udinese diventato artista degli occhiali. Risultato: da più di un decennio questo imprenditore friulano, grazie ai suoi occhiali, guarda lontano e vede crescere gli ordinativi e le richieste, che vengono ormai an-che dall’altra parte del mondo. Un successo Made in Italy che conferma la vitalità delle imprese manifatturiere italiane quando vi-sione, innovazione e “saper fare” si mescolano in maniera sapiente.

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W-EYE10

Oggi, la piccola impresa artigiana non è più in conflitto con le grandi aziende e col settore industriale, anzi ne è l’ispirazione e un prezioso complemento

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Come Steve Jobs, anche Nerio Alessan-dri ha iniziato la sua avventura impren-ditoriale in un garage. Aveva solo 22 anni, un diploma da perito meccanico, un grande entusiasmo per lo sport, una passione per il design e le competenze da progettista quando, nel 1983, cominciò a inventare le prime attrezzature per le palestre nel garage di casa, a Cesena. Na-sceva così Technogym, oggi leader mon-diale con 2200 dipendenti che lavorano in 14 filiali in Europa, Stati Uniti, Asia, Medio Oriente, Australia e Sud Ameri-ca. Ogni giorno, 35 milioni di persone in tutto il mondo utilizzano i prodotti Technogym, esportati al 91% in oltre 100 Paesi. L’azienda ha attrezzato 65.000 centri sportivi e oltre 100.000 abitazioni.Scelta come “fornitore ufficiale” di cin-que edizioni dei Giochi olimpici, utiliz-zata dai più prestigiosi club sportivi per la preparazione dei propri atleti (Juven-tus, Milan, Inter, Real Madrid e Chel-sea, nel calcio, Ferrari nella Formula 1, Alinghi nella vela e tanti altri ancora), Technogym ha anche inaugurato una filosofia originale: il wellness che supe-ra il concetto americano di fitness, tutto muscoli e apparenza fisica. «È uno stile di vita orientato al miglioramento della qualità dell’esistenza attraverso una re-golare attività fisica, una sana alimen-tazione e un atteggiamento mentale po-sitivo. Ci permette di stare bene con noi stessi e con gli altri, di avere più energia sul lavoro e soprattutto di vivere meglio

e più a lungo» spiega Alessandri che, nel 2001, è diventato il più giovane Cavalie-re del lavoro della storia repubblicana e successivamente ha ricevuto due lauree honoris causa in scienze motorie e inge-gneria biomedica. «È un progetto pro-fondamente italiano che affonda le pro-prie radici nel mens sana in corpore sano coniato 2 mila anni fa nell’antica Roma».Di recente, in piena crisi economica, l’a-zienda ha inaugurato il Technogym Vil-lage alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dell’ex presidente americano Bill Clinton, che ha fatto della lotta all’obesità infanti-le la bandiera della sua Fondazione.

È il nuovo quartier generale di Technogym che comprende il centro di ricerca e innovazione, gli stabilimenti produttivi e un grande wellness center dedicato all’attività fisica, all’interior design e alla cultura del wellness. Il com-plesso, che occupa un’area di 150 mila metri quadrati, di cui 60 mila coperti, è il primo esempio di wellness campus al mondo per far vivere a collaborato-

ri, clienti, fornitori e ospiti internazio-nali una vera esperienza di benessere.L’ambizioso progetto si integra nell’i-niziativa “Romagna-Wellness Valley”, promossa dalla Wellness Foundation di Alessandri, fondata nel 2003, che mira a fare della Romagna il primo di-stretto del benessere in Europa, un la-boratorio di esperienze per aumentare le opportunità di sviluppo economico.«L’uomo è nato per muoversi», afferma Alessandri, genitori contadini diventati poi operai, sposato, due figli, un’Audi di proprietà e nessun aereo privato. «I no-stri progenitori camminavano e corre-vano 30 chilometri al giorno, una mezza maratona quotidiana a caccia per racco-gliere il cibo della comunità. Oggi il no-stro movimento quotidiano è molto al di sotto, in media un chilometro. La se-dentarietà innesca un’emergenza socia-le: viviamo un’epidemia di sedentarietà che fa vittime e ci fa ammalare. Non per niente le malattie croniche, causa-te da cattivi stili di vita come sedenta-rietà, scorretta alimentazione, alcol e fumo, rappresentano la prima causa di morte al mondo e generano oltre 35 milioni di decessi prematuri all’anno. Nel 2006, per la prima volta nella storia dell’umanità, il numero delle persone in sovrappeso ha superato il numero dei malnutriti. L’epidemia dell’obesità non colpisce più solo i Paesi cosiddetti avan-zati, ma anche quelli più poveri. La crisi economica sta peggiorando la situa-

Impresa sanain corpore sano

intervista

Sapere unire capacità imprenditoriali, design e uno stile vita e un’alimentazione sana e riuscire a creare un’azienda di successo. È la storia di Technogym, impresa leader nel settore del wellness: non uno sport, ma una filosofia di vita. E di impresa.

intervista a Nerio Alessandri, di Pino Buongiorno

In

L’Italia può giocare un ruolo da protagonista in

questo campo e diventare il primo produttore di benessere al mondo

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zione aumentando il consumo di cibo-spazzatura, soprattutto fra i più giovani». Alessandri è terrorizzato da questi dati, che –  aggiunge  – uniti al costante in-vecchiamento della popolazione e alle crescenti difficoltà dei governi nel fi-nanziare la salute pubblica, indicano in maniera chiara una sola via d’usci-ta. «L’antidoto per combattere questa epidemia del XXI secolo è l’educazione al movimento, che può ridurre fino al 40% i rischi di contrarre numerose pa-tologie. Un’autorevole ricerca medica internazionale ha messo in evidenza che, al diminuire del 10% delle malat-tie vascolari in un Paese, corrisponde l’aumento di un punto percentuale del PIL. Ecco perché abbiamo lancia-to, già nel 2003, il messaggio “Health is Wealth”, “la salute è ricchezza”. Il wellness, quell’idea avveniristica lan-ciata 20 anni fa da una piccola azienda della provincia italiana, oggi rappre-senta un grande trend internazionale».Il garage porta fortuna, soprattutto se, come il co-fondatore di Apple, si ha la gran voglia di mettersi in gioco, anche contro il parere della mamma: «Volevo diventare a tutti i costi, fin da quando studiavo, un imprenditore. Non mi in-teressavano il posto fisso né il lavoro si-curo. Ogni giorno mi guardavo attorno e cercavo l’idea giusta per cominciare. Pian piano sono arrivato alla start-up (all’epoca non si chiamava così), che poteva coniugare la mia passione per la meccanica (techno) e per lo sport (gym). In Italia il settore non esisteva. C’era già in America, ma l’ho scoperto solo un anno e mezzo dopo da un amico che viveva lì e che oggi è al mio fianco. A 24 anni sono partito per un lungo viag-gio negli Stati Uniti per andare a vede-re cosa producevano da quelle parti».Alessandri tornò a casa con tante novità e soprattutto con l’idea di andare oltre l’edonismo e di puntare invece sul be-nessere individuale e collettivo. Da due anni la parola “wellness” è entrata nel dizionario inglese. Ecco la prima lezione fatta propria dall’industriale romagno-lo. «Capii allora, e ne ho la conferma tut-ti i giorni, che la frontiera vincente del futuro è la creatività. Sono sempre più convinto, come ci hanno insegnato i ma-estri del nostro Rinascimento, che l’uo-mo ritornerà al centro e farà la vera dif-ferenza. Ecco perché non ci può essere in futuro uno sviluppo economico soste-nibile senza la salute della gente. Se lei è in wellness, la creatività è molto più ele-vata. Le imprese produrranno di più per-ché i propri collaboratori saranno più fe-lici, sorrideranno, la notte dormiranno

e il giorno dopo avranno più inventiva». Al World Economic Forum di Davos Alessandri è stato fra i promotori della Wellness Alliance, che riunisce le im-prese mondiali che credono in questa filosofia. Da qui si è sviluppato un Ma-nifesto con le linee guida sugli stili di vita, la salute e la prevenzione che Da-vos ha consegnato all’Onu attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità. Cesena è diventata la culla della cosid-detta Wellness Economy, che, secon-do Alessandri, andrà a rimpiazzare la Green Economy. «L’Italia può giocare un ruolo da protagonista in questo campo e diventare il primo produttore di benessere al mondo mettendo a si-stema il suo DNA, ormai riconosciuto in tutto il mondo: design, alimenta-zione, patrimonio artistico e turismo».Alessandri, un imprenditore sociale, come si considera lui, con il mito di Adriano Olivetti, ha sempre creduto nel prodotto che fa come se fosse un’o-pera d’arte. «Il mio concetto di impren-ditore ha un approccio artistico. E mi spiego. L’artigiano ci mette la testa e

35 MILIONISono le personeche utilizzanoi prodotti TechnogymTECHNOGYM VILLAGEIl primo wellness campus al mondo(a Cesena) hauna superficiedi 150.000 m2

2200 DIPENDENTIPer lavorare i prodotti distribuiti in 65.000 centri sportivie 100.000 abitazioni

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le mani quando realizza un prodotto. L’imprenditore va oltre e aggiunge il cuore alla testa e alle mani. È così che si affermano le aziende con una forte identità e uno stretto legame con la co-munità. Quando ebbi l’idea di fare della Romagna la Wellness Valley mi prese-ro tutti per matto. Oggi è l’orgoglio dei romagnoli. Amministratori, imprese, scuole, università: tutti si identificano in questo progetto. All’uscita del ca-sello autostradale per Cesena c’è scrit-to bene in evidenza Wellness Valley». Gran viaggiatore in giro per il mon-do, il fondatore di Technogym riflette sulla complicata e grave situazione italiana, e quasi si arrabbia. «Perché ci stiamo abituando alla mediocrità? Perché non reagiamo più contro le av-versità? La risposta che mi sono dato è che è venuto meno lo spirito dell’ec-cellenza, dell’arte, della visione. Per fortuna ci sono ancora imprenditori che ci credono, ma sembriamo tutti dei romantici. La finanza ha preso il sopravvento. La speculazione sembra dominare il business. Invece noi dob-

biamo ritornare alle nostre origini, ai nostri valori. Dobbiamo ritornare ad avere fame, come nel dopoguerra». La Technogym sta cercando di non ar-rendersi e ha investito negli ultimi due anni più di quanto non abbia mai fatto nella sua pur breve storia. Ma con un vincolo preciso: «Penso che un’azienda possa essere forte e avere successo nel mondo solo se ha radici ben radicate nel territorio». Alessandri si attribuisce un grande merito e anche un grande difetto: «Il primo è quello di essere un super curioso. Il secondo è che non mi accontento mai. Siamo un brand mon-diale, investiamo in Ricerca&Sviluppo e apriamo nuove fabbriche, per esempio, in Brasile, ma anche in Asia. Fra due, tre o quattro anni pensiamo di andare finalmente in Borsa. Oggi io sono pro-prietario del 60% della società. Il socio più importante è un fondo inglese». Un’ultima domanda: visto che lei è alla perenne ricerca del Sacro Graal cosa ha in mente ancora? «La mia ultima idea è quella di trasformare Technogym in un’azienda patrimonio dell’umanità».

Il mio concetto di imprenditore ha un approccio artistico:

l’artigiano ci mette la testa e le mani quando

realizza un prodotto, l’imprenditore va oltre

e aggiunge il cuore alla testa e alle mani

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L’Italia è il terzo fornitore al mondo di Ikea. E in Italia Ikea acquista soprattutto camere da letto, scaffali, librerie, cucine.Ebbene sì, se compriamo una cucina “svedese”, pen-sata da designer svedesi, costruita con pini svedesi (e magari, prima di uscire, passiamo a comprare qual-che aringa all’aneto) può finire che, tornati a casa monteremo la nostra nuova cucina… italiana; anche se viviamo in Cina. Ed è pro-prio il settore delle cucine quello più “italianizzato”: il 34% di quelle vendute da Ikea in tutto mondo è stato prodotto in Italia. Con 338 negozi in 40 Paesi (ma i progetti in cantiere sono molti), è evidente che

Ikea si debba rifornire di prodotti anche al di fuori dei confini svedesi; e per rispettare gli alti standard di qualità è indispensabile racchiudere all’interno del marchio Ikea quello di altre case di produzione come ad esempio Whirpool ed Electrolux, i cui elettro-domestici completano le cucine Ikea. Ma che l’Italia fosse, dopo Cina e Polonia (che riforniscono Ikea rispettivamente per il 22% e per il 18%), il terzo forni-tore di Ikea al mondo non era facile da immaginare. E invece, solo tra Veneto, Friuli e Lombardia Ikea compra più che in Svezia o Germania e, in totale, in tutta Italia acquista l’8% delle sue forniture.

Ikea: spazio all’italia

contesti

Oggi in 40 Paesi del mondo si può trovare almeno un negozio Ikea, e in ognuno di essi si può trovare almeno una cucina italiana. Perché oggi l’Italia, dopo Cina e Polonia, è il terzo Paese fornitore del colosso svedese.

articolo di Cecilia Toso

Co

Fornitori—

Per diventare fornitori Ikea bisogna tenere standard molto elevati, superare

test sull’efficienza e sulla tecnologia mantenendo

prezzi bassi.

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Ma chi sono questi 24 fornitori e che cosa produ-cono? Per certo si sa che l’80% degli acquisti sono mobili (cucine, camere da letto, scaffali, librerie, ba-gni) e il 20% complementi di arredo. Su chi siano i fornitori, invece, ci sono alcune incognite; non tutti amano vedere il proprio nome associato a quello della multinazionale. Però la vita di queste aziende italiane Ikea l’ha cambiata parecchio. La rubinetteria piemontese Paini, con 300 addetti, ha avuto nel 2011 un fatturato di 70 milioni di euro, cresciuto del 7% rispetto all’anno precedente proprio grazie alla collaborazione con gli svedesi. E poi ci sono Natuzzi, Elica cappe e Friul Intagli; quest’ultima azien-da, di Pordenone, deve più di metà del suo fatturato (180 milioni su 300) a Ikea, a cui fornisce mobili in kit e componenti per le cucine, partecipando attivamente anche alla progettazione.Per diventare fornitori Ikea, però, bisogna tenere standard molto elevati; su-perare test sull’efficienza e sulla tecnologia, mantenere i prezzi bassi (sui propri prodotti e su quelli dei fornitori) che, da contratto, con gli anni devono essere abbassati ulteriormente. Proprio per questa ragio-ne i margini di profitto non sono altissimi e molte aziende non riescono a entrare nella competizio-ne. Chi riesce a tenere il passo, invece, guadagna in volume produttivo, in lunghi contratti e in valo-re del brand. E l’Italia ne sta guadagnando in posti di lavoro: sono 11.000i lavoratori coinvoltise si sommano ai 2500 delle aziende fornitrici anche gli addettialla rete commerciale.Ciò che a questo punto viene spontaneo doman-darsi è: perché l’Italia. Lars Petersson, amministratore

delegato di Ikea in Italia, racconta che il nostro, per loro, è un ottimo Paese in cui investire. Hanno trovato qualità nella produ-zione, grandi competenze e know-how, nonché un numero inferiore di recla-mi. Ma anche flessibilità, perché le aziende non si fermano davanti a un cam-biamento di programmi: se il progetto subisce delle variazioni, i produttori ita-liani soddisfano la nuova richiesta. Senza contare che essere in continua competizione mondiale per confermarsi fornitori di Ikea stimola a tenere alti qualità e servizio. E infine le questioni ambientali: rifornirsi dall’Italia invece che dalla Cina è più conveniente in termini di carbon footprint. Così Ikea sta spostando, per esempio, alcuni suoi forni-tori dall’Asia al Piemonte, dove compra soprattutto rubinetterie, cassettiere, giocattoli.Diverso è, nel rapporto tra Ikea e l’Italia, il mondo del-le vendite, dove il nostro Paese è al quarto posto dopo Germania, Stati Uniti e Francia, e le frizioni si fanno sentire. Ikea compra dall’Italia 8 ma vende 7 e quest’anno, per la prima volta dal 1989, ha avuto un calo di fatturato del -2,6%, (per tamponarlo ha deciso di aprire all’e-commerce). E la crisi eco-nomica, secondo Petersson non è di certo aiutata dalle lunghe battaglie che si consumano in Italia per l’apertura di nuovi punti vendita: i tempi della politica e della burocrazia hanno portato Ikea in alcuni casi, come a Vec-chiano (Pisa), a cancellare il progetto dopo aver atteso per anni una risposta dalle autorità locali.L’Italia quindi come risorsa e Paese di sfida in cui Ikea pensa, nei prossimi tre anni, di investire 400 milioni di euro.

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In

intervista

«Una maledetta Cassandra di no-vantotto chili», così si autodefinisce Edoardo Nesi in Storia della mia gen-te, il libro che nel 2011 gli è valso il Premio Strega. Interprete e narratore del tracollo economico che avrebbe messo sotto scacco il distretto tessile di Prato e l’intera nazione, Nesi tor-na a scrivere della realtà italiana in Le nostre vite senza ieri e fissa ancora lo sguardo avanti, sulla generazione dei ragazzi che dovranno risolleva-re le nostre sorti aggredendo il do-mani con le armi del coraggio, della passione e della creatività. Perché il timore del futuro, dice, «davvero non possiamo più permettercelo».

Le nostre vite senza ieri è “incornicia-to” dalla presenza dei suoi figli. All’ini-zio sua figlia, che le è accanto mentre si immerge nel passato inseguendo un odore. Alla fine suo figlio, che le ri-corda come si gusta il presente e le fa dire con sollievo: «parleremo del fu-turo». Come si insegna ai giovani a non avere paura di ciò che li aspetta?Ho scritto questo libro soprattutto con la speranza di poter parlare ai giovani, facendo cioè quello che troppo spesso non si fa. Ogni volta che la politica, l’eco-nomia e i poteri in genere si pronuncia-no, non riescono a tradurre i contorni delle situazione attuale in qualcosa che possa realmente servire ai nostri figli.

Trovo questa tendenza piuttosto inspie-gabile e credo quindi necessario prova-re anch’io a descrivere ciò che abbiamo intorno. Mi addolora molto pensare che i nostri ragazzi siano condannati a vive-re un presente peggiore di quello che ho vissuto io. E non credo si tratti solo di una questione di denaro. Piuttosto, è una questione di speranza, perché io – e come me tanti altri – nutrivo grandi speranze nei confronti del mio domani, e le nutrivo legittimamente. Oggi inve-ce, a parlare di speranza, si passa per inguaribili illusi. Allora, per restituire valore a questa parola, bisogna forse co-minciare dalla fiducia, dandone ai no-stri figli prima ancora che la meritino.

IL TIMOREDEL FUTURO?

NON POSSIAMOPIÙ PERMETTERCELO

intervista a Edoardo Nesi, di Armando Buonaiuto

Uno scrittore che ha portato avanti per anni un’azienda tessile, e che non vive la fabbrica come una realtà alienante, parla

di futuro e fiducia. E descrive con ottimismo un Paese ricco di giovani e potenzialità.

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C’è davvero una lacuna di volontà e di energia nelle giovani generazioni, come spesso si sente affermare? Non sono assolutamente d’accordo con il luogo comune che vuole i giovani di-staccati, disimpegnarti, anestetizzati dai consumi, meno disposti a sacrificarsi e a prendere in mano le proprie vite di quanto non fossero i loro padri e le loro madri. Credo che sia una falsità molto crudele, che non fa i conti con la realtà dei fatti. E qui torniamo al senso della speranza: negli anni Settanta si viveva in un’epoca in cui essere giovani era una condizione vantaggiosa, poiché ciascuno di noi avrebbe potuto fare della propria vita un’imprevedibile avventura in dive-nire. Preservare l’idea che il figlio di un operaio possa sognare e realizzare per se stesso una vita diversa mi sembra es-sere tra le cose più importanti che uno Stato dovrebbe fare per i propri cittadini.

A questo proposito, quanto può contare l’intuizione del nuovo per gli aspiranti imprenditori di domani? È fondamentale. Occorre riattivare il meccanismo del ricambio e dell’inno-

vazione, che non vuol dire solo innovare ciò che già c’è, ma letteralmente creare il nuovo, che si tratti di idee o di prodot-ti. E bisogna anche cominciare a vedere nella rete non solo un mezzo per scam-biare conoscenza o per divertirsi, ma una straordinaria arma commerciale, in grado di offrire strumenti di lavoro migliorativi. La tradizionale idea di busi-ness dei nostri padri è ormai antiquata, ora abbiamo a disposizione la possibili-tà di vendere in modo nuovo, attraverso canali una volta impensabili. Restare idealmente legati al passato significa tra-scinare con sé una zavorra che non aiuta. Non sono le infrastrutture fisiche a man-carci, ma quelle immateriali, digitali.

L’Italia come patria del “bel vivere”: è un’idea che, imprenditorialmente par-lando, ha ancora un senso?È forse l’unica cosa che ha tuttora una grande validità. Ciò che l’Italia può vanta-re ancora oggi è la gloria di una nazione fatta di bellezza, un luogo dove l’artigia-nato si ispira all’arte ed entra nelle no-stre vite. È un’idea che affonda le radici nel Rinascimento di Lorenzo de’ Medici

e che alcuni dei nostri marchi migliori continuano a portare avanti. Siamo an-cora famosi nel mondo come il luogo nel quale si vive meglio e non dobbia-mo sperperare quest’arma straordina-ria. Molti dei prodotti che l’Italia vende all’estero nascono dal loro legame con la cultura vera e propria. Quando, anche in un momento come questo, si riesce ad avere mercato vendendo abiti che co-stano 2000 euro, ciò vuol dire che dentro a quegli abiti si incarna un’ideale che li rende speciali. Vuol dire che chi sceglie di comprarlo, avendo a disposizione mil-le alternative di ogni fascia di prezzo, fa un investimento in qualcosa che segna la differenza rispetto alla semplice necessi-tà di comprare un vestito. Per compren-dere questo meccanismo basta pensare agli ambulanti di Piazza dei Miracoli a Pisa, che vendono paccottiglia, souvenir e magliette che mai riuscirebbero a ven-dere se, guarda caso, i loro banchetti non fossero proprio accanto alla torre di Pisa. Dunque, è o non è quello un fatturato che deriva dalla cultura? Si dice spesso che con la cultura non si mangia. Forse sareb-be ora di provare a invertire il principio.

«Non abbiamo bisogno di aziende più grandi, ma più nuove. E di nuovi imprenditori. Bisognerà cercarli tra quelle ragazze e quei ragazzi meritevoli che nemmeno i tagli alle nostre povere, cazzottate, scuole e università sono riusciti a fiaccare»

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il timore del futuro? non possiamo più permettercelo | oxygen

sfruttato. Invece, proprio in quegli anni raccontati da Parise si realizzò il vero mi-racolo italiano, quello che creò le condi-zioni affinché molte persone si trovassero a diventare imprenditori grazie alla loro voglia di fare e all’intraprendenza. Sono storie accadute non solo nella mia città, ma in molte provincie italiane, emblemi dello straordinario equalizzatore socia-le rappresentato dal boom economico.

Per finire, torno a Le nostre vite senza ieri, dove a fronte della situazione poco rosea che fa da sfondo alle sue pagine lei afferma esplicitamente: «sono un otti-mista». Cosa anima questo ottimismo? Ho voluto definirmi tale perché intendo richiamarmi all’ottimismo della volontà, sforzandomi di non essere assorbito dal pessimismo che vedo intorno a me e che, seppure a malincuore, riconosco come giustificato. Anzi, talvolta ho l’impressio-ne che se le cose vanno così male è perché qualcuno ci si sta deliberatamente met-tendo di impegno. Eppure, confido nella possibilità di un cambiamento capace di sorprenderci. Credo davvero che qual-cosa cambierà, e perché questo avvenga

bisognerà pensare prima di tutto a creare lavoro per i ragazzi, perché una nazione incapace di dare spazio alle idee dei pro-pri giovani non può andare da nessuna parte. E poi, è impensabile che questo mondo sia governato da ultrasettanten-ni. Al di là della volontà di “rottamare”, verbo oggi assai in voga, credo si tratti dell’assoluta necessità di prendere atto di quello che sta accadendo e trovare il coraggio di rinnovarsi. Nutro una fiducia spesso immotivata nell’idea che insieme si possa uscire da questa palude, che con i nostri figli si possa “parlare del futuro”. Lo scrivo nel capitolo sulla partita di cal-cio del Milan che conclude il libro. Quel capitolo l’avevo scritto tra i primi e l’ave-vo poi inserito a metà, dove però non mi convinceva. Ciò nonostante, volevo met-terlo assolutamente perché mi sembrava che raccontasse un momento importan-te di condivisione con il proprio figlio, e di insegnamento. È stata mia moglie, una sera, a dirmi che sarebbe dovuto essere il finale. In tutto il libro si parla dei giovani, ma poi bisogna anche raccontare come si sta con loro, cercando di accettare quel-lo che possono insegnarci. Che è tanto.

Se cultura e lavoro sono in Italia così strettamente legati, come mai intellet-tuali e scrittori hanno mostrato in gene-re così poco interesse nei confronti del mondo dell’impresa?Penso che la responsabilità sia imputabile anche a una certa ideologia che per molto tempo ha impedito di fare una distinzio-ne, a mio avviso abbastanza immediata, tra la condizione di chi è impiegato in una grande o grandissima industria e quella di chi invece lavora in una realtà impren-ditoriale piccola o media, nella quale di norma la conflittualità tra padrone e ope-raio è di gran lunga minore. La letteratura ha spesso presentato il lavoro in fabbrica come una sorta di dannazione, e la fabbri-ca stessa come il luogo dello sfruttamen-to di una persona sull’altra. Il padrone di Goffredo Parise, per fare un esempio, è un libro in cui questa realtà viene raccon-tata ricorrendo alla chiave del grottesco: il padrone è un pazzo reazionario mentre l’impiegato è un pover’uomo succube, travolto dalla follia del potere. Queste prospettive hanno fatto sì che per lungo tempo non si potesse parlare di azienda senza dover narrare la storia dell’operaio

«Abbiamo bisogno di nuove idee, di nuove aziende che usino la globalizzazione invece

di subirla. Ci vorrà un patto tra le generazioni e ci vorranno anni, ma funzionerà. Perché se

non funzionasse l’affidarci alla gioventù, allora vorrebbe dire che saremmo finiti davvero, e

che ce lo saremmo meritato»

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In Italia, con un attuale tasso di disoccupazione attorno al 10%, sorprende che le imprese fatichino a trovare il 16,3% delle figure professionali che stanno cercando. È il risultato di una parziale incongruenza tra la preparazione di chi cerca lavoro e quella di cui invece le aziende hanno bisogno. Sono soprattutto le professioni specializzate a mancare: servono fonditori, saldatori, lattonieri, manutentori di macchinari; i settori tessile e metallurgico segnalano difficoltà oltre le media. Servono i tecnici e il mondo se n’è accorto: negli ultimi due anni il numero di iscritti agli istituti professionali è aumentato a discapito dei licei.Nello stesso momento in cui i settori che più assumono sono il turismo e i servizi, l’industria cerca i suoi tecnici specializzati e la società cerca di stare al passo, formandoli.

data visualizationDv

a cura di Oxygen

Lavoratoridi tutto ilmondo,specializzatevi!

FONTE DATIUnioncamere, dati Excelsior; MIUR

+2% IL SORPASSO

Nel 2012 per la prima volta il numero di iscritti a istituti tecnici o professionali ha superato quello dei liceali.

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21,2% ARTIGIANIMANCANTI

Gli artigiani sono la quarta categoria professionale più difficile da reperire del 2012 dopo tecnici, specialisti scientifici e dirigenti. 16,3%

GLI INTROVABILI

Tra ottobre e dicembre 2012 si prevede che le imprese non troveranno il 16,3% delle figure professionali ricercate.

1920 SALDATORIE LATTONIERI

Sono fra le specializzazioni più richieste agli artigiani, ma nel quarto trimestre del 2012 si prevede che le industrie ne troveranno solo 1920.

12,46% LAUREATI ASSUNTI

Nel 2011, di tutti gli assunti solo il 12,46% era in possesso di una laurea, e in ambito artigiano solo il 3,5%.

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Una società che funziona meglio, in cui i bisogni dei cittadini, dell’ambiente e delle comunità sono adeguatamente considerati, è una società che va a beneficio anche dell’attività aziendale

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Valori nuovi per una nuova rivoluzioneindustriale

scenari

Per uscire dalla crisi bisogna invertire il declino del ruolo dell’industria. E per farlo bisogna operare non solo a livello strutturale, ma anche culturale. In Italia in particolare è necessario ricostruire l’orgoglio industriale mettendo al centro valori come l’individuo e l’ambiente.

articolo di Gianluca Comin

Sc

La validità di questa diagnosi è stata riconosciuta anche dalla Commissio-ne Europea che, nella sua recente co-municazione al Parlamento Europeo dal titolo A Stronger European Industry for Growth and Economic Recovery1, ri-conosce che per uscire dalla crisi in maniera duratura e sostenibile l’Eu-ropa deve «invertire il declino del ruo-lo della sua industria nel XXI secolo».La prospettiva non è, però, quella di far rivivere la vecchia industrializzazione che abbiamo conosciuto – e che ha ga-rantito al continente diversi decenni di crescita – ma l’ingresso in un orizzon-te industriale nuovo, basato su nuove imprese e nuovi settori: quello delle nuove macchine per la produzione di beni (come ad esempio le stampanti 3D); quelli della microelettronica e del-la nanotecnologia; quelli del biotech e dei nuovi materiali; quelli, infine, della mobilità sostenibile e delle smart grids.Settori sulla cui crescita l’Europa po-trà edificare la propria prosperità fu-tura, a costo di uno sforzo deciso e coordinato. Che passa certamente per riforme strutturali, come la riduzione della burocrazia, gli investimenti in ricerca, un framework fiscale che fa-vorisca la produttività e l’innovazione.Ma la reindustrializzazione del nostro continente passa anche per un aspet-to culturale, senz’altro più “soft” ma

La crisi che ha gettato le nostre econo-mie nella recessione più profonda che le nostre generazioni ricordino ha avuto almeno un merito: quello di correggere la lezione che, semplicisticamente, si tendeva a trarre dalla globalizzazione, e cioè quella per cui, a causa dei divari nel costo del lavoro e delle materie pri-me, l’industria, la produzione di cose, si sarebbe spostata interamente nei Paesi emergenti –  Cina, Brasile, India…  – e l’Europa avrebbe potuto prosperare esclusivamente sui servizi e sulla fi-nanza, sulla produzione immateriale.Una previsione semplicistica, che ri-corda in qualche modo quella di John Maynard Keynes che, nel 1930, teo-rizzava che entro il 2030 saremmo vissuti «in uno stato di abbondanza, appagati e finalmente liberi di dedi-carsi alle arti, alle attività ludiche e alla poesia, essendosi affrancati da attività economiche come il risparmio, l’ac-cumulazione di capitale e il lavoro».Anche i grandi economisti sbagliano le loro previsioni. Ed ecco che, dopo anni di ubriacatura finanziaria, ci ri-troviamo di fronte a un’economia europea fortemente indebolita e alla necessità di rafforzare, rilanciare, rin-novare le nostre filiere industriali il cui know-how rimane il fattore com-petitivo determinante da difendere per far fronte alla competizione globale.

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Dopo anni di ubriacatura finanziaria ci ritroviamo

di fronte a un’economia europea fortemente

indebolita e alla necessità di rafforzare, rilanciare,

rinnovare le nostre filiere industriali

non per questo meno importante: il recupero dell’orgoglio di fare indu-stria. Si tratta di un tema di grande rilevanza a livello europeo, ma che ri-sulta particolarmente attuale se guar-diamo all’Italia, che sul suo tessuto industriale ha edificato la propria cre-scita dal boom economico in avanti.Gli eccessi finanziari degli ultimi quin-dici anni, seguiti dalla durezza della cri-si, sembrano aver fatto affievolire non solo la nostra produttività, ma anche l’orgogliosa coscienza degli impren-ditori italiani del proprio ruolo nella società. Pare che il Paese abbia dimen-ticato che il suo benessere è stato co-struito proprio sul coraggio e sull’am-bizione di un’autentica cultura del fare.Da un lato dunque gli imprenditori perdono fiducia nel futuro del Paese (l’Istat Economic Sentiment Indicator tra ottobre 2009 e ottobre 2012 è passa-to da 90,4 a 76,6), dall’altro gli Italiani perdono consapevolezza del ruolo che l’impresa può giocare nel costruire questo futuro, e non guardano più a essa con l’orgoglio che contraddistin-gue, ad esempio, i tedeschi o i francesi.Ce lo confermano alcune ricerche de-moscopiche, come quelle effettuate sul tema da Demos PI2: alla domanda «Quale aspetto la rende orgoglioso di essere italiano?» solo l’8,7% degli

italiani risponde oggi «la nostra eco-nomia e i nostri imprenditori». Una percentuale in netto calo rispetto al 2008 in cui era il 14,8% degli intervi-stati a rispondere in questo modo.Ma non è tutto: alla domanda «Qua-li sono i caratteri che distinguono gli italiani dagli altri popoli?» solo il 7,4% risponde «la capacità imprenditoria-le». Molti meno di quanti rispondono «l’attaccamento alla famiglia» (25,3%), «l’arte di arrangiarsi» (20,4%) e «la cre-atività» (14%). Infine, solo l’11% degli italiani vede le imprese come «gruppo sociale che cambierà il Paese», mentre il 46% vede i giovani e il 12% le scuole. Si tratta di numeri che svelano un biso-gno evidente: se il nostro Paese dovrà ripartire dall’industria, lasciandosi alle spalle gli anni in cui si è parlato più di fi-nanza e di incentivi che di innovazione e investimenti, un grande lavoro andrà fatto anche a livello culturale e di repu-tazione, recuperando i valori che stan-no dietro all’orgoglio industriale e mi-gliorandone la percezione nell’opinio-ne pubblica. Un recupero che ha pila-stri valoriali forti su cui basarsi e da cui partire: la centralità della persona, l’en-fasi sulla qualità, il rispetto delle regole, la responsabilità sociale e ambientale.La centralità della persona è un valore che l’industria deve saper fare ancora proprio, se vuole indirizzare lo svilup-po del Paese. Un valore che implica la capacità di porre la persona al centro dello sviluppo del Paese e che passa per la valorizzazione del capitale umano, del talento, della sicurezza sul lavoro.Vi è poi la qualità, caposaldo irrinun-ciabile, italiano ed europeo, del fare industria; qualità che va di pari passo con la passione, la creatività e l’ec-cellenza tecnologica. Non si tratta di parole vuote: l’enfasi sulla qualità come strategia produttiva ma anche come “ideologia industriale” è un’op-zione radicale che implica il ruolo chiave della ricerca, dell’innovazione ma anche di un’etica imprenditoria-le rivolta al perfezionamento conti-nuo e al rifiuto del second best. Una scelta già intrapresa con coraggio in numerosi settori della nostra indu-stria, ma che deve diventare un attri-buto immediatamente riconducibi-le a ogni prodotto del Made in Italy.Altro valore fondamentale su cui rico-struire l’orgoglio industriale è quello del rispetto delle regole. Troppo spesso, nella percezione comune, alla figura dell’imprenditore si abbina la defini-zione di “evasore”, e l’industria è per-cepita come “al di sopra delle regole”.

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valori nuovi per una nuova rivoluzione industriale | oxygen

NOTE1. Communication from the European Commission to the European Parliament, A Stronger European Industry for Growth and Economic Recovery, Brussels, 10.10.2012 COM(2012) 582 final.2. Fonti: Indagine Demos & Pi per Intesa Sanpaolo, 2011 (base: 1044 casi); Indagine CambItalia di Demos & Pi per la Repubblica delle Idee 2012 (base: 1300 casi).

EnelLabIn occasione del suo 50° anniversario, Enelha promosso il laboratorio d’impresa attraverso una competizione per start-up italiane e spagnole con progetti innovativi in campo energetico che si è conclusa con 215 candidature. Nei prossimi mesi saranno selezionati i finalisti e i vincitori. Per la prima volta un’azienda privata apre le sue porteper accogliere una nuova generazionedi imprese e imprenditori, stanziando 15 milioni di euro per i prossimi 3 anni, da metterea disposizione delle start-up più innovativee che aspirano a cambiare le regole del giocodel mondo dell’energia. Le 15 aziende finaliste avranno l’opportunità di presentare la propria impresa e tecnologia direttamente al top management di Enel.Le sei start-up vincitrici accederanno a un programma di incubazione che durerà fino al 2014 e prevede una capital injection e una serie di servizi per accelerarne la crescita. In questo modo i vincitori potranno sviluppare la loro impresa godendo dei servizi e del pieno supporto di Enel, con l’opportunitàdi trasformare un’innovazione in un successo concreto nell’ambito delle clean technologiesin campo energetico: dall’efficienza energetica, alle rinnovabili, dalle smart grids all’energy storage, dall’automation solution alle tecnologie low-carbon.

lab.enel.com

Eppure sono numerose le esperienze che dimostrano quanto proprio l’indu-stria possa fungere da centro di ema-nazione del valore della legalità come strumento che garantisce una compe-tizione efficace sul mercato: le inizia-tive di Confindustria contro la mafia in Sicilia, gli accordi per la legalità tra grandi imprese e pubbliche ammini-strazioni, come quello siglato lo scor-so maggio tra Enel e il Ministero degli Interni. Tutte iniziative volte a sottoli-neare come le buone regole possano essere uno strumento di crescita con-divisa, e non un ostacolo allo sviluppo.Infine, una nuova industria non può non essere fondata, fin da principio, su un fortissimo senso di responsabi-lità sociale e ambientale. Soprattutto in un’epoca di crisi, il ruolo dell’impresa deve andare oltre la massimizzazione del profitto, ed essere capace di creare valore per tutta la società in cui opera. In questo senso, la dimensione della responsabilità deve essere integrata fin nel cuore del fare industria, supe-rando il concetto di giving back (ovvero di restituzione di parte dei profitti at-traverso la filantropia) e muovendosi verso la capacità di creare, attraverso il business, valore condiviso con la comunità in cui si opera. Perché una società che funziona meglio, in cui i bisogni dei cittadini, dell’ambiente e delle comunità sono adeguatamente considerati, è una società che va a be-neficio anche dell’attività aziendale.È attorno a questi valori che l’orgo-glio dell’industria può essere rifon-dato nella percezione del Paese. Ma è essenziale che questa rifondazione non si riduca a un mero revival delle storie di successo del nostro passato. Al contrario, una nuova epica indu-striale deve celebrare i “costruttori di futuro” della nostra industria, e la ca-pacità di adattamento che essi hanno già dimostrato affrontando con co-raggio il grande cambio di paradigma dell’economia globale, fatto di nuovi competitor, nuovi metodi di lavoro, tempi rapidi e decisioni complesse.Questa nuova epica industriale deve conquistare le generazioni più giova-ni, che spesso nel sistema educativo non trovano l’ispirazione necessaria per comprendere l’importanza del mondo dell’industria nella realtà in cui vivono; in questo senso, l’industria dovrà entrare nelle scuole, e le fabbri-che dovranno aprire le porte alle giova-ni generazioni. Insomma: la nuova ri-voluzione industriale dovrà essere an-che una rivoluzione dell’educazione.

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approfondimentoAp

Manifattura 2.0

Le professioni operaie e manifatturiere sono definitivamente entrate nell’era 2.0. I nuovi “lavori hard” sono quelli della manifattura digitale, legati all’ICT e alle tecnologie che sostengono l’innovazione, ma anche alla robotica e alle rinnovabili. Oxygen ha condotto un’inchiesta in questi settori, facendoli raccontare a chi ci lavora.

articolo di Alessandra Viola

«La parola “crisi”, scritta in cinese, è composta da due caratteri: uno rappresenta il pericolo, l’al-tro l’opportunità», amava ripetere John Fitzge-rald Kennedy, che di crisi certo se ne intendeva per averne fronteggiate parecchie. Economisti e uomini politici, romanzieri e polemisti sono tut-ti d’accordo: i momenti di crisi sono fasi cruciali nella storia di un Paese e possono ipotecarne il futuro ma anche rilanciarlo grazie a improvvi-si cambiamenti di scenario. E in Italia? Da noi com’è noto non sono tempi facili: il mercato del lavoro è in contrazione o nella migliore delle ipotesi ristagna. Le manifatture tradizionali, che per almeno un secolo hanno sostenuto l’econo-mia nazionale, stanno crollando sotto il peso della concorrenza mondiale. Eppure qualcosa si muove sotto la cenere. Il lavoro sta cambiando e non solo le avanguardie scientifiche e tecnologi-che, ma anche le professioni operaie e manifat-turiere sono definitivamente entrate nell’era 2.0.

I componenti hard per l’ICT – Minteos (Torino)Mettere in comunicazione l’ambiente esterno con Internet: è questo il compito dei sensori e delle reti che ne registrano e trasmettono i dati. Un compito sempre più importante, man mano che le potenzialità della Rete si dispiega-no anche per la protezione dell’ambiente. Un sensore wireless può tenere sotto controllo la temperatura o il gas, le piogge, lo stato dell’a-ria o del suolo, gli spostamenti e le vibrazioni. E avvisarci in tempo reale quando qualcosa va storto. Installare queste sentinelle ambientali è un lavoro all’avanguardia ma da reinventa-re ogni volta, e che può rivelare delle soprese. «Il mio compito è valutare la richiesta del clien-te e preparare un’offerta tecnica che spieghi quale tipo di sensori sarebbero necessari per

soddisfare le sue esigenze, con quali costi e in base a quale progetto», spiega Vincenzo Nas-so, ventinovenne ingegnere meccatronico che da tre anni lavora per la torinese Minteos. «Mi occupo anche della costruzione di prototipi e della loro integrazione nella nostra rete, che raccoglie i dati e li rende disponibili on-line». Un lavoro apparentemente tranquillo, che però può presentare delle sorprese. Soprattutto per-ché Minteos, ex start-up incubata dal Politec-nico di Torino, spazia dal monitoraggio della temperatura di ambienti interni alle reti di sensori posizionate in boschi (tra gli altri quel-lo del Parco di Castel Fusano), fiumi, pendii montani, dighe e persino fognature (ad Atene). «Seguo il cliente dall’inizio alla fine», continua Nasso. «Questo mi porta spesso fuori dall’uf-ficio e a volte anche a trovarmi in situazioni in cui occorre… Un po’ di fantasia. Come a Ca-stel Fusano, quando abbiamo installato 1000 sensori nella pineta per il progetto Fireless. Si trattava di mettere i sensori sugli alberi, ma la pineta è piena di rovi: avvicinarsi a volte è sta-to difficilissimo. O come quando abbiamo in-stallato i sensori nelle fognature di Atene, per monitorare i livelli degli scarichi ed evitare in-tasamenti e riversaggi a mare. Credo che io e i colleghi greci non dimenticheremo facilmente i 30 gateway [i “nodi” che trasmettono all’esterno i segnali GPRS dei sensori, N.d.R.] posiziona-ti nelle camerette fognarie. Altre installazioni sono più semplici, ma non vuol dire che siano facili: come quella dei sensori per il monito-raggio delle colate detritiche in provincia di Bolzano, o quelle degli idrometri che control-lano i letti dei torrenti standoci sospesi sopra». Dalla progettazione al lavoro hard, il salto per un neolaureato ingegnere del Politecnico

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di Torino può essere forte. «Quando mi han-no assunto sapevo di entrare in un’azienda che aveva un profilo ambientale molto forte. Uscire dall’ufficio era un’idea che mi allettava molto, anche se non sapevo bene cosa aspet-tarmi. Oggi so che malgrado la crisi esistono grandi margini di crescita in questo settore, e spero che il mio futuro sia quello di aprire una spin-off di Minteos. È un’azienda molto dinamica e credo che sarebbe il posto adatto».

La robotica – Scienzia Machinale (Pisa)In questo settore, in continua crescita, l’Italia vanta alcune eccellenze mondiali e sono molti gli spin-off universitari e le start-up fondate da giovani neolaureati. La maggior parte si concen-tra su un’unica gamma di prodotti (per esem-pio: i robot per uso biomedicale), ma c’è anche chi ha scelto una diversa filosofia. È il caso della Scienzia Machinale di Navacchio (Pisa), che si occupa di ricerca applicata e progetta soluzioni robotiche “su misura” per i suoi clienti. Accade così che questo gruppo di 56 ingegneri toscani abbia costruito cose diversissime tra loro, che vanno da una ultratecnologica macchinetta per il caffè espresso alla cupola di una moschea in Oman, dalla grande scenografia per un set a Ci-necittà a una protesi bionica (oggi applicata da grandi ospedali italiani e americani) al “robot scultore” in grado di sagomare in poliuretano la poppa di una nave o l’ala di un aereo, ma anche

di duplicare alla perfezione qualsiasi statua. E poi un radar. E un apparecchio portatile rivolu-zionario (il diaptometro) che in pochi minuti è in grado di fare l’analisi e misurare la resistenza di qualsiasi metallo senza romperlo, ma solo praticando un minuscolo forellino sulla sua superficie. Il nome dell’azienda è una citazione di Leonardo, che usava questa espressione per indicare l’ingegneria meccanica («arte nobi-lissima over utilissima») e non si può dire che

l’azienda non gli stia rendendo onore. La lista dei robot costruiti sarebbe infatti ancora mol-to lunga, ma qui – e sembra questa la vera in-novazione – i prodotti finali contano meno del metodo di lavoro e del rapporto tra le persone. «Quando ti trovi in un gruppo affiatato, dove i colleghi si vogliono bene e si lavora con affiata-mento, si riesce sempre a tirar fuori qualcosa di buono», spiega Renzo Valleggi, ingegnere clas-se 1962 che è stato tra i fondatori dell’azienda e oggi ne è il presidente, ma si riconosce ancora

Ormai solo chi vuolee sa innovare, nel prodotto finale ma anche nel modo di fare impresa, riescea rimanere in piedi

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manifattura 2.0 | oxygen

nella “classe operaia” (specializzatissima) che la compone. «Ogni volta che arriva un cliente, cioè un’azienda che ci fa una richiesta specifica, ci riuniamo. Abbiamo 45 laureati che coprono tutte le possibili branche di ingegneria. S’ini-zia a ragionare e a selezionare le competenze più adatte per il progetto, ma si sceglie anche in base agli entusiasmi personali, alla passione. Per esempio alcuni in azienda sono dei ferven-ti ambientalisti e allora vengono più facilmen-te messi a lavorare su quei temi. È importante lavorare su qualcosa che ti piace e che ti crea entusiasmo: questo apporta un grande valore aggiunto alla loro riuscita. Alla fine si crea un gruppo di 6-8 persone che inizia a immaginare come risolvere il problema che ci è stato posto e da lì in circa cinque mesi arriviamo a realiz-zare il prototipo. Sempre dialogando: non la-voriamo a compartimenti stagni ma in modo integrato. È lo stile imposto, per come lo inter-pretiamo noi, dalla meccatronica, la disciplina che integra elettronica, software e meccanica». Oggi il gruppo Scienzia Machinale fattura sei milioni di euro, ma è lungi dal sentirsi “al si-curo” in tempi di crisi. «I vecchi mestieri e il vecchio modo di fare impresa stanno suben-do una crisi gigantesca – continua Valleggi – e in Toscana la situazione è ancora più pe-sante che in altre regioni, perché questa era una terra in cui la manifattura, in particolare nelle zone dei distretti industriali come Pon-

tedera o Santa Croce, era molto forte. Io ven-go da Castelfiorentino, che era la culla delle camicette. Centinaia di donne lavoravano alla loro produzione e oggi è desolante passare lì e vedere che non c’è più neanche una di quelle manifatture. Per quelle aziende, che avevano una bassissima componente tecnologica, resi-stere alla concorrenza mondiale è stato quasi impossibile. Ormai solo chi vuole e sa inno-vare, nel prodotto finale ma anche nel modo di fare impresa, riesce a rimanere in piedi». Alla Scienzia Machinale sembra davvero che il profilo etico dell’impresa abbia un valore tan-gibile. «Noi siamo quello che erano gli operai degli anni Sessanta: siamo tutti sulla stessa bar-ca e se la barca affonda andiamo giù con lei», incalza Valleggi. «Come soci siamo in cinque e ci diamo uno stipendio, che è praticamente uguale a quello dei dipendenti. Quando la cri-si è stata più forte ci siamo tutti diminuiti gli stipendi del 30%. E appena il momento buio è passato ognuno ha riavuto gli arretrati con gli interessi. Da noi crescere insieme è la cosa più importante. Ci sono ingegneri, periti tecnici e un operaio che lavora con noi da vent’anni. Ognuno è indispensabile: non ci limitiamo ad avere delle idee, ma fabbrichiamo i robot. Così chi ha fatto il disegno poi va in officina mec-canica a costruirlo. Fare l’ingegnere è come fare l’artista: un artista non può dipingere un quadro se non conosce le tecniche pittoriche».

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L’illuminazione - iGuzziniInnovare come una regia luminosa. Pensare a ogni nuovo prodotto come alla creazione di una quarta dimensione architettonica, al completa-mento di uno spazio e alla realizzazione di un oggetto che va ben oltre l’efficienza energetica e la potenza luminosa. È la missione aziendale di iGuzzini, con la quale deve fare ogni giorno i conti Roberto Pesaola, quarantaduenne inge-gnere meccanico e oggi design manager. «Il mio lavoro parte dalle informazioni che mi arrivano dal marketing», racconta Pesaola, che coordina tre team di progettazione e anche i settori che definiscono gli imballaggi, i fogli istruzioni e il cablaggio elettrico. «Le specifiche del nuovo progetto in questa fase riguardano tra l’altro il design, le dimensioni di massima, la gamma, le prestazioni in termini illuminotecnici. Sulla base di queste indicazioni io metto in piedi un team che inizia a sviluppare soluzioni tecniche, servendosi di un software di modellazione 3D, di programmi di calcolo per la progettazione delle ottiche e di simulatori per le analisi ter-miche e meccaniche. Le soluzioni sviluppate cercano di tener conto di tutte le caratteristi-che estetiche, meccaniche e delle prestazioni previste, cercando contemporaneamente di soddisfare tutti i requisiti di mercato e di logi-stica produttiva. La validazione delle soluzioni tecniche passa poi attraverso una serie di pro-totipi, necessari sia per l’approvazione estetica

sia per eseguire una serie di test di laboratorio tra cui quelli meccanici, termici e fotometrici». Un lavoro in continua evoluzione, che necessi-ta anche di frequente aggiornamento da parte dell’ingegnere entrato in azienda 14 anni fa come progettista e protagonista di una “lumi-nosa carriera”: «Non abbiamo più a che fare con una sorgente di luce definita, come è stato per decenni. I led hanno rivoluzionato il settore creando nuove opportunità in termini di pre-stazioni, risparmio energetico e di mercato ma con un maggiore grado di difficoltà progettuale dovuto alla necessità di un aggiornamento con-tinuo: ogni sei mesi c’è un upgrade, una nuova miniaturizzazione e nuove tecnologie. È piutto-sto complesso ma anche stimolante: ogni volta è una nuova sfida sotto ogni punto di vista».

Fare l’ingegnere è come fare l’artista: un artista non può dipingere un quadro se non conosce le tecniche pittoriche

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INNOGESTIl lavoro in Italia è in piena trasformazione. Nuove impresee nuove professioni richiedononuovi investimenti. Ma chi supporta le start-up tecnologichenel nostro Paese?Gli investitori si contano sullapunta delle dita e la scarsitàdei finanziamenti e degli strumenti di credito tradizionali ostacolaa volte irrimediabilmentei giovani imprenditori. «Supportare una giovane azienda in crescita oggi non vuol dire solo fornire liquidità delegando tutto il lavoro di sviluppo all’imprenditore», spiega Claudio Giuliano, fondatore e amministratore delegato di Innogest Sgr, il più grande fondo nazionale di venture capital interamente dedicato alle start-up, dal valore di oltre 90 milioni di euro. «Al contrario, quando troviamo una buona idea imprenditoriale non solo ci investiamo del denaro ma l’aiutiamo a prendere forma e corpo con lo scopo di portarla al successo il più rapidamente ed efficacemente possibile». Innogest investe in molti settori diversi e in particolare in quelli dell’ICT, del biomedicale e delle nuove tecnologie per l’ecologia e l’energia. Con un sistema molto speciale. «La nostra mission è puntare su giovani start-up italiane di elevato livello tecnologico – spiega Giuliano – contribuendo al loro sviluppo tramite un aumento di capitali. In pratica non rileviamo un altro socio o immettiamo semplicemente liquidità, ma supportiamo la crescita dell’azienda acquisendo delle quote e quindi entrando al suo interno. Il guadagno per i nostri investitori si materializza quando l’azienda viene venduta o quotata in borsa e cediamo le nostre partecipazioni. Per arrivare a quel momento occorrono in media 4-5 anni, durante i quali il prodotto iniziale viene ingegnerizzato e l’azienda “matura”. Con la crisi i tempi si stanno un po’ allungando e attualmente occorrono quasi sei anni prima di arrivare all’exit [la rivendita delle quote, N.d.R.]. Oggi vendere un’azienda sul mercato è più difficile, perché ci sono meno compratori industriali e anche l’appetito delle borse nel mondo è più limitato. Con la ripresa però i tempi si accorceranno nuovamente». Già, la ripresa. Intanto però cosa

succede nel mondo della più giovane e promettente imprenditoria nazionale? «La voglia di fare impresa non è affatto sopita e la crisi ha anzi stimolato nuove iniziative imprenditoriali», assicura Giuliano. «La diminuzione dei posti di lavoro che potremmo definire “tradizionali” sta spingendo ancora più giovani a mettersi in proprio e avviare attività imprenditoriali». Fondata nel 2005, Innogest non dimentica di essere stata a sua volta una start-up in tempi recenti, malgrado oggi abbia 20 società partecipate e un investimento totale pari a circa 50 milioni di euro. «Operiamo con una materia che è fatta di due componenti: l’idea, cioè il prodotto, e dall’altra parte l’imprenditore, con la sua energia ma anche le sue paure», spiega Giuliano. «Essere noi stessi degli imprenditori ci aiuta a decifrare le varie dinamiche e a creare il giusto rapporto».

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Op

opinioni

Partiamo da un romanzo. Si chiama Makers e lo ha scritto Cory Doctorow qualche anno fa. Una delle frasi chiave è questa: «Il futuro non sarà delle Ge-neral Motors, delle General Electric, delle General Mills, ma di nuove aziende chiamate Local Motors, Local Electric, Local Mills». Quella frase coglieva agli albori un fenomeno che poi avrebbe avuto l’onore di un paio di copertine di “The Economist” e svariati saggi sul-la cosiddetta “terza rivoluzione industriale”. Quella dei makers, ovvero della personal fabrication e della fabbrica che si fa rete e si smaterializza fino a diventare il pc di casa. Ma se quello è “il fu-turo”, qual è il futuro delle gran-di aziende, delle multinazionali ma anche solo delle fabbriche? La risposta a questa domanda richiede un rapido passo indietro. Nel 2010 la fondazione Kauffman, uno degli attori più rilevanti dell’ecosistema globale dell’innovazione, ha pubblicato un’accuratissima ricerca intitolata: The Importance of Start-ups in Jobs Creation and Jobs Destruction. Lo studio, circoscritto alla realtà americana e interamente basato su dati

dell’US Census Bureau, rivelava una serie di verità sorprendenti. La prima: dal 1977 al 2005, le aziende esistenti sono state «net job destroyers», perdendo un milione di posti di lavoro complessivi all’an-no; nello stesso periodo le nuove aziende hanno aggiunto tre milioni di posti di lavoro. La seconda verità è ancora più interessante: durante i periodi

recessivi la capacità di creazione di posti di lavoro delle start-up ri-mane costante, mentre le azien-de esistenti sono molto sensibili ai cicli economici e quindi risen-tono maggiormente delle crisi. La terza verità è il colpo del KO: il postulato secondo il quale con il passare del tempo le aziende si ingrandiscono inevitabilmen-te non funziona più, visto che

le aziende americane con meno di un anno di vita creano un milione di posti di lavoro, mentre quelle con più di 10 anni si fermano a 300.000. Le conclu-sioni della fondazione Kauffman erano natural-mente un invito al governo americano a ripensare le politiche per la crescita economica, dando meno attenzione alla difesa dell’occupazione nelle grandi

START-UPMENTALITY

articolo di Riccardo Luna

«I grandi colossi, messi davanti al cambiamento, inciampano e cadono». Per riuscire a tenere il ritmo dei cambiamenti, invece, il modello da seguire potrebbe essere quello delle

start-up: crescono perché sono l’unità elementare della cloud economy, molto adattabili ai cambiamenti e incredibilmente

efficaci nel fare una singola cosa.

Il postulato secondo il quale con il passare del tempo le aziende

s’ingrandiscono inevitabilmente non

funziona più

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aziende e favorendo piuttosto la nascita di start-up (nuove aziende con un forte tasso di innovazione).Il fenomeno in corso non è naturalmente circoscrit-to agli Stati Uniti, anche se lì è più evidente. Sull’e-dizione inglese del mensile “Wired”, nel settembre 2012 compariva un invito, da parte di un autorevole venture capitalist, ad adottare una «start-up mentali-ty»: «Il caos in cui ci troviamo è la ragione fondamen-tale per cui uno dovrebbe lavorare per una start-up o per una corporation che si comporta come una start-up. Perché le start-up sono la naturale rispo-sta evolutiva a questa nuova situazione. Gran parte delle corporation sono caratterizzate dalla qualità dei rispettivi processi di pianificazione, ma questi diventano obiettivi contro i quali si scontra la realtà e i risultati vengono misurati. I grandi colossi, messi davanti al cambiamento, inciampano e cadono. In mercati fluidi, dove ogni bene può essere prezzato e scambiato facilmente, le start-up crescono perché sono l’unità elementare della cloud economy, molto adattabili ai cambiamenti e incredibilmente efficaci nel fare una singola cosa. Le grandi corporation non riescono a stare al passo, adattandosi alla velocità ne-cessaria per restare le migliori su tutti gli aspetti del loro business. E lo stesso vale per le persone che ci la-vorano, mentre nelle start-up l’esperienza deve evol-vere rapidamente, e la adattabilità è il primo talento».Tutto ciò può sembrare una pietra tombale sulle grandi aziende ma sarebbe una lettura superficiale dei dati e del fenomeno in corso. Perché se il futu-ro è delle start-up innovative, è esattamente quello che devono fare le grandi aziende: tornare a essere delle start-up. O come diceva l’edizione inglese di “Wired” nel passaggio precedente, «comportarsi come una start-up». Non si tratta di un gioco di pa-role o di uno slogan. È esattamente quello che Steve Jobs diceva della sua Apple: «È la più grande start-up del mondo». Ed è il tratto distintivo di Facebook, rispetto agli altri, secondo il suo fondatore Mark Zuckerberg: «Siamo pochi, siamo agili e siamo sem-pre in beta». Ovvero, in continua sperimentazione.Questa mentalità nessuno l’ha spiegata meglio di Reid Hoffman, una star di Silicon Valley, co fon-datore di LinkedIn e coautore del best seller The Start-up of You. «Noi siamo tutti work in progress... Le grandi persone come le grandi aziende sono in continua evoluzione. Non sono mai finite e mai interamente sviluppate. Ogni giorno offre un’op-portunità di imparare altro, di fare di più, di cre-scere ancora. Essere nello stato di permanent beta deve essere un impegno di crescita che dura tutta la vita». Hoffman parla di singoli individui e di grandi aziende. Ma mentre nel primo caso le cose da fare sono chiare, il discorso cambia per una corporation.Per “diventare una start-up” quando hai migliaia di dipendenti in tutto il mondo e una organizza-zione necessariamente rigida, ci sono due stra-de: la prima –  che in realtà è una scorciatoia  – è comprare delle start-up, e quindi comprare in-novazioni con le persone che le hanno realizzate sperando non solo di portarsi in casa dei brevetti ma di essere contaminati da un modo di essere. La seconda strada è molto più complessa ma dà risultati migliori: è creare delle zone franche nella

In mercati fluidi le start-up crescono perché sonol’unità elementare della cloud economy, molto adattabili ai cambiamenti e incredibilmente efficaci nel fare una singola cosa

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start-up mentality | oxygen

alle 3 del mattino. Tutti ci sentivamo coinvolti nel processo di creazione e sviluppo dei prodotti. Do-potutto, Apple era l’azienda con il minor numero di persone che se ne andavano alla ricerca di un posto migliore e questo la dice lunga su cosa ne pensasse-ro i dipendenti. Oltretutto, c’era anche un sistema di condivisione degli utili basato sulla partecipazione al capitale azionario dell’azienda. Infine una azien-da il cui capo si dava cosi tanto da fare per avere il migliore prodotto al mondo, non poteva non reagi-re positivamente quando venivano chiesti sacrifici».La prima Apple la dice lunga sulla start-up menta-lity necessaria a crescere, ma è anche un modello difficile da perseguire per organizzazioni già ma-ture. In quel caso si può sempre imitare quello che ha fatto recentemente la catena di caffetterie ame-ricane Starbucks che, per trovare un modo nuovo di rapportarsi con la propria clientela, invece di procedere con piccoli aggiustamenti, ha deciso di scoprire quale approccio avrebbe avuto un’azienda completamente nuova. E l’ha creata apposta. Una start-up. L’ha chiamata 15th Coffee and Tea e l’ha fatta diventare un live learning lab per sperimentare design, sostenibilità dei materiali e nuovi prodotti.

propria organizzazione in cui vigono altre regole. Meno burocrazia. Propensione al rischio. Parteci-pazione agli utili. Come fece per esempio sempre Steve Jobs quando un “team di pirati” creò il primo Mac mentre “l’azienda Apple” puntava su Lisa. In quel tempo il vice presidente esecutivo era un ex di-rigente IBM che Steve Jobs aveva assunto dopo aver-lo incontrato in un bar: Jay Elliot. Ecco cosa ricorda dell’ambiente di lavoro della prima Apple: «La cosa più evidente era l’entusiasmo, la voglia di fare e di creare. Ci rendevamo tutti conto che stavamo col-laborando per cambiare il mondo e la cosa ci mo-tivava e inorgogliva tantissimo. L’ultima cosa a cui pensavamo era prenderci delle ferie. Steve Jobs era capace di chiamare alla tre del mattino per dirci che aveva avuto un’idea straordinaria. E nessuno si sec-cava, anzi. Lo stress non era per niente visto come una componente negativa, era qualcosa che ti tirava dentro, che provocava ulteriore entusiasmo perché ci rendevamo conto che stavamo per valicare una nuova frontiera. Apple non era la classica azienda dove dovevi arrivare alle 9 del mattino e te ne andavi alle 17. Si lavorava fino a tardi. Magari poi si arriva-va in ufficio a mezzogiorno, ma poi si lavorava fino

Noi siamo tutti work in progress... Le grandi persone

come le grandi aziende sono in continua evoluzione. Non sono

mai finite e mai interamente sviluppate

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La rivoluzionedei makers

contesti

Creativi digitali e tecnologici, garage innovators che, con le loro innovazioni e i loro nuovi modelli di business, stanno dando vita a quella che in molti non esitano a definire la “terza rivoluzione industriale”.

articolo di Simone Arcagni

Se chiedete a Chris Anderson, il diret-tore di “Wired”, uno che di tecnologia e di futuro se ne intende, vi dirà quello che già nel 2010 aveva scritto nel suo famoso articolo In the Next Industrial Revolution, Atoms Are the New Bits e che va ripetendo in molti incontri e confe-renze: cioè che quella dei makers è una vera e propria rivoluzione per tutto il mondo dell’industria e del commercio. Ma chi sono i makers? I makers sono creativi digitali e tecnologici, garage in-novators che, con le loro innovazioni e i loro nuovi modelli di business, stanno dando vita a quella che in molti non esi-tano a definire una nuova “rivoluzione industriale”, “la terza rivoluzione indu-striale”. Alla base del fenomeno makers abbiamo a che fare con idee, disegni e progetti che dal mondo digitale si tra-sformano in oggetti in maniera pres-soché immediata, senza bisogno della normale trafila industriale che passa attraverso disegno, progetto, prototipo e realizzazione. Ma per capire la rivolu-zione dei makers bisogna entrare in un nuovo mondo della produzione, che vive di alcune parole d’ordine. Le prime sono “open source” e “creative commons”, e quindi condivisione: mettere idee insie-me e farle circolare. Un modello in cui il normale concetto di copyright viene superato per rendere le idee e i progetti aperti a possibili modifiche, evoluzioni, personalizzazioni. Un universo della

Co

conoscenza che si basa sul principio dello scambio, proprio come il circuito Arduino di Massimo Banzi, ingegnere considerato in tutto il mondo come uno dei padri e dei guru del pensiero maker. Inventato nel 2005, come riporta Wiki-pedia, «Arduino è un framework open source che permette la prototipazione rapida e l’apprendimento veloce dei principi fondamentali dell’elettronica e della programmazione». Con Arduino anche chi non conosce i linguaggi di programmazione può disporre di stru-menti per creare e progettare e quindi re-alizzare cose, oggetti, prototipi. Ulteriori parole d’ordine sono “crowdfounding” (processo collaborativo per cercare fon-di per la realizzazione di un progetto) e “crowdsourcing” (processo di sviluppo collettivo di un prodotto), un sistema, cioè, di finanziamento “dal basso” che prevede la partecipazione di una rete e di una community alla realizzazione del progetto. Stiamo parlando di un modello economico nuovo che parte dagli utenti stessi e che prevede la raccolta di capitali (normalmente piccole somme anche se ultimamente si sono registrate raccolte di budget piuttosto cospicui), ma non se-condo il modello dell’azionariato, bensì sotto forma di una vera e propria parte-cipazione alla realizzazione di un’idea e alla ricerca del budget per realizzarla. I numeri di Kickstarter, il famoso sito americano di crowdfunding, sono im-

pressionanti: milioni di dollari raccolti e centinaia di migliaia di finanziatori.Cambia la ricerca di capitali, cambia la progettazione, la realizzazione e il mo-dello commerciale. E non bisogna per forza affidarsi a eBay per vendere ogget-ti, si può fare anche da sé, dal proprio sito, dal proprio blog o anche attraverso la propria pagina di Facebook. Ci pen-sa Blomming, un sistema per vendere online senza intermediari: è l’e-com-merce della nuova generazione che si avvale dei social network e per questo viene definito social commerce. Non è che i makers vogliano cambiare il siste-ma imprenditoriale, semplicemente si sentono estranei e, di conseguenza, ne realizzano un altro, sulla Rete, basato su una comunicazione sociale di net-work. Basti pensare al caso di Zooppa, un social network e una community che unisce creativi che si mettono alla prova nella creazione di pubblicità per marche e aziende che commissionano progetti.Parliamo di un’imprenditoria piccola, addirittura individuale, che si basa sulla filosofia del DIY (Do It Yourself). “Fai da te” e questo significa avere bisogno di tanta fantasia e tecnologie facili da utiliz-zare e, ovviamente, economiche. Come la stampante laser 3D che permette di realizzare oggetti solidi in maniera faci-le. Vectorealism, per esempio, è un sito che offre agli utenti la possibilità di di-segnare con facilità i propri progetti e di

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stampare oggetti. La stampante laser 3D è una piccola officina da tenere in casa. Alla faccia di Ford e degli orari di fabbri-ca! Ma attenzione: la vera dimensione economica dei makers è quella dell’arti-gianato. Un artigianato delle idee, e che trova il proprio ambiente ideale in Rete e sui social network. Nuove fabbriche, ma soprattutto veri e propri laboratori, come i Fab Lab: un’altra parola chiave nel mondo dei makers. I Fab Lab (Fa-brication Laboratory) sono piccoli labo-ratori e workshop dedicati ai makers e alla digital fabrication che si stanno di-vulgando un po’ in tutto il mondo e che permettono a chiunque di sottoporre la propria idea sotto forma di file e vederla realizzata in poco tempo e in maniera decisamente economica. E tra giochi, oggetti trash e improponibili “orribilia”, non è raro imbattersi in qualche idea originale. E non deve stupire quindi che i futuri designer di successo ormai si cercano tra questi fan di makers. Per qualcuno la filosofia dell’artigianato “fai da te” è talmente innovativa da aver co-niato addirittura un termine che tenta di descriverla: thinkering. Il termine (co-niato nel 2007 da John Seely Brown, di-rettore della ricerca alla Xerox e respon-sabile del centro di ricerca di Palo Alto,

lo Xerox Parc) è il risultato dell’unione di thinking (pensare) e tinkering (pasticcia-re, sperimentare): una filosofia nuova del “pensare/toccare/fare”, un sorta di modello ideativo che ha a che fare con l’agire e il toccare, un pensiero che si realizza in un agire creativo e condiviso.L’universo dei maker è quindi un mon-do composito e comprende anche il mondo delle start-up, idee originali da essere sviluppate, come nel caso di CicerOOs, che mappa i luoghi del mondo per mettere i dati a disposi-zione dei turisti che usano la Rete per programmare le proprie vacanze. La storia di CicerOOs è quella di due gio-vani, Daniele Cassini e Daniele Viva, e della loro idea che diviene business. Dal turismo al meteo: Metwit è inve-ce un social network in cui gli utenti si scambiano notizie metereologiche costituendo così la prima piattaforma condivisa per le previsioni del tempo.Abbiamo già parlato del ruolo che stanno svolgendo Chris Anderson e la rivista “Wired” nel propagare l’i-dea di maker. Ma un ruolo altrettanto fondamentale lo svolge anche il MIT, il famoso Massachusetts Institute of Technology, dove sono nati i Fab Lab. Inoltre il movimento ha anche un

WORK IN PROGRESSIl simbolo dell’infinito che contiene un piùe un meno:è il logo di Arduino, la piattaforma aperta a tutti per creare qualsiasi cosa.Uno spirito creativo infinito perchéle idee sono messein circolo e scambiate continuamente;un mondo in workin progress.(arduino.cc/en)

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la rivoluzione dei makers | oxygen

proprio organo, una rivista, “Make”, fondata dal guru di questo nuovo “pensiero”, Tim O’Reilly, affiancato da Dale Dougherty. Ai due è da attribuire, tra l’altro, la definizione di “web 2.0”.“Make” è una rivista mensile divenuta ben presto l’organo ufficiale dei ma-kers di tutto il mondo e pubblicata dalla O’Reilly Media, nota per i suoi manuali di software e per essere un punto di rife-rimento per la propagazione della filoso-fia dell’open source, per l’innovazione tecnologica e per il mondo delle start-up. Una rivista interamente dedicata a un fenomeno che, fino a poco tempo fa, veniva definito come una sottocultura composta da hobbisti e designer ama-toriali, anche se ormai il movimento ha acquisito dimensioni ragguardevoli, te-stimoniate anche dall’entrata in questo ambito di un colosso come Autodesk.E per permettere al maker di riunir-si e scambiarsi idee, la rivista “Make” organizza dal 2006 anche una mani-festazione periodica, la Maker Faire, dove convergono makers da tutto il mondo portando idee, prototipi, mo-delli di business o, banalmente, folli oggetti partoriti da una fantasia in gra-do di realizzare pressoché tutto con un computer, un software, una connes-

sione e una stampante. Semplice, no?Ma il fantasmagorico mondo dei ma-kers, che accomuna designer e pro-grammatori, hobbisti e geek, artigiani e giovani (se non giovanissimi) futuri imprenditori, ha anche il sostegno di un blog di culto come Boing Boing, fon-dato da Mark Frauenfelder, giornalista che si è costruito una reputazione nel-la redazione di “Wired”. Boing Boing è uno dei blog più seguiti e influenti al mondo. Uno dei suoi redattori, e allo stesso tempo una delle sue firme più prestigiose, lo scrittore di fantascienza Cory Doctorow, al fenomeno dei ma-kers ha anche dedicato un suo roman-zo, Makers, che lui steso definisce «un li-bro su gente che modifica meccanismi e hardware, modelli di business, e so-luzioni abitative, per scoprire modi per tirare avanti e vivere felici anche quan-do l’economia va a finire nel cesso».Qualcosa sta cambiando. Qualcosa è già cambiato! Nuovi modelli produttivi sono alle porte: i makers non saranno forse la risposta a un capitalismo in crisi e, in qualche modo, invecchiato più velocemente di quanto si sarebbe pensato, ma certo una ventata di novità e di modelli sociali, culturali e finan-ziari hanno già incominciato a offrirla.

Per qualcuno la filosofia dell’artigianato “fai da te”

è talmente innovativa da aver coniato addirittura un termine che tenta di descriverla: thinkering,

unione di thinking (pensare) e tinkering

(pasticciare, sperimentare)

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Produzione fai da te:le stampanti 3D

approfondimento

Una ventata di aria fresca per l’industria potrebbe arrivare dalle stampanti 3D. Tecnologia e design al servizio dell’immaginazione dei makers per creare oggetti in plastica. L’era della personal fabrication non è ancora realmente cominciata, ma potrebbe non essere mai stata così vicina.

articolo di Nicola Nosengo

Va dato atto a “The Economist” di averci visto lungo. Già nel 2007, quando, fuo-ri dai circoli specialistici, di stampa 3D non parlava praticamente nessuno, il settimanale inglese dedicava articoli e copertine alla “nuova rivoluzione indu-striale” che si prospettava all’orizzonte, grazie a questa nuova tecnologia, che ve-niva indicata come una delle chiavi del futuro rilancio industriale. La stampa 3D, scriveva “The Economist” in tempi non sospetti, una volta che le economie di scala avessero abbassato a sufficien-za i prezzi avrebbe fatto per il settore manifatturiero ciò che il personal com-puter aveva fatto per l’informazione.Oggi la stampa 3D è una realtà ben nota, e non solo ai lungimiranti editor del set-timanale inglese. E quell’obiettivo di ac-cessibilità è stato quasi raggiunto. Siamo quasi al tipping point oltre il quale diven-terà una tecnologia “domestica”. Oggi le stampanti 3D, nei loro modelli di base, sono virtualmente alla portata di (quasi) tutti gli utenti. Strumenti come la Repli-cator di Makerbot costano poco più di 2000 dollari. Non ancora come una stam-pante 2D, ma non più di un motorino o di un portatile di alta gamma. E qualcu-no va anche sotto quei prezzi, come la stampante italiana Sharebot, modello ultra basic presentato fuori salone all’ul-timo Salone del Mobile a Milano. È in vendita a 900 euro, la prima ad abbat-tere la soglia psicologica dei 1000 euro. La stampa 3D nasce come una soluzione per creare prototipi industriali, da met-

Ap

tere a punto e testare prima di passare alla tradizionale produzione in catena di montaggio. Le macchine usate per la pro-duzione industriale, infatti, sono efficien-ti e convenienti quando devono produrre migliaia di pezzi uguali, ma programmar-le per creare un solo pezzo è difficile e, in proporzione, enormemente costoso. Già da tempo, però, la stampa 3D vie-ne usata anche per produrre pezzi finiti da mettere sul mercato in pic-cole quantità, con in più la possibi-lità di personalizzarli uno per uno.

Oggi il 28% degli investimenti in stampa 3D viene impiegato proprio per prodotti finali, e secondo gli analisti la percentua-le arriverà almeno al 50% entro due o tre anni (anche se la prototipazione resterà sempre una applicazione importante). Ma come funziona questa tecnologia? Per l’utente, non è molto diverso da una qualunque stampa. Si prepara un dise-gno al computer, e si preme “stampa”, e dalla stampante (un po’ più ingombran-te di una normale) esce un pezzo di una

lampada, di un tavolo, di una canoa... La stampante, fondamentalmente, ag-giunge sottilissimi strati successivi di materiale seguendo il disegno, fino a fare emergere l’oggetto completo. Per questo si parla anche di manifattura “additiva”, mentre quella industriale tra-dizionale è “sottrattiva” (si parte da un blocco di materiale, metallico o plastico che sia, e si tagliano via le parti che non servono fino a ottenere la forma voluta. Com’è facile intuire, la stampa 3D por-ta a un grande risparmio di materiale). Le tecniche per stendere i diversi strati di plastica possono essere diverse, proprio come nella stampa 3D si può scegliere tra il laser o il getto d’inchiostro. Alcune stampanti usano proprio un sistema simile al getto per spruzzare plastica li-quida su un supporto mobile. La plastica viene immediatamente asciugata e solidi-ficata usando radiazioni ultraviolette, do-podiché il supporto si sposta leggermente per passare allo strato successivo. Un’al-tra tecnica prevede invece di sciogliere la plastica per mezzo di una testina mobile che crea un sottile filamento, e in questo modo va a creare gli strati successivi. Una terza via ancora usa polveri come mate-riali di partenza, distribuite su un vassoio mobile, solidificate con una spruzzata di colla o fuse con un laser per assumere la forma voluta. Per creare strutture com-plesse con spazi vuoti o parti sporgenti si usano gel aggiunti successivamente per aumentare il sostegno in punti par-ticolari, o si lasciano polveri non fuse nei

Si prepara un disegno al computer, si preme

“stampa” e dalla stampante esce un pezzo

di una lampada, di un tavolo, di una canoa...

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punti prescelti, che vengono poi lavate via per creare il buco. Le stampanti più sofisticate possono usare contempora-neamente materiali diversi, per creare og-getti rigidi in alcuni punti e soffici in altre. Con questi sistemi, o una loro combi-nazione, è possibile produrre pratica-mente tutto. Certo, serve la competen-za per maneggiare i software di CAD (Computer Assisted Design), che non è proprio come usare Word. E serve una certa competenza sui materiali, oltre alla possibilità e la capacità di acquistarli. Per questo, al di là dei prezzi dei mac-chinari, farsi in casa oggetti in plastica non è ancora davvero alla portata di tutti. Proprio per questo nascono i Fab Lab, officine artigianali hi-tech che con l’a-iuto di stampanti 3D e altre tecnologie producono (o riparano) oggetti in ma-teriali plastici su richiesta dei clienti. Vuoi un apparecchio elettronico, un pezzo di arredamento, una barca, e nes-suna azienda la produce come la vuoi tu? Vai al più vicino Fab Lab e te ne fa-

ranno anche solo uno o due pezzi, cosa che nessuna grande azienda farebbe mai. Il modello di riferimento è il Fab Lab nato al Massachusetts Institute of Technology (MIT), messo in piedi dal Center for Bits and Atoms dello stesso MIT, diretto da Neil Gershenfeld. Par-tito dal pensiero che la rivoluzione di-gitale sia solo una parte, e nemmeno la più interessante, del nostro futuro, la loro idea era portare la computazione nel mondo fisico: creare programmi che manipolano atomi, e non solo bit. Ma i Fab Lab stanno sorgendo come funghi anche in Italia. Il primo è nato a Torino in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Nel-la definizione dei suoi fondatori, è un «figlio dell’industria da cui ha preso la precisione e la riproducibilità dei pro-dotti, il nipote dell’artigianato da cui ha preso la progettazione su misura, fratel-lo dell’open source con cui condivide la filosofia di scambiarsi progetti libera-mente». Dietro c’era prima di tutto Mas-

simo Banzi, papà di Arduino, una piatta-forma elettronica hardware e software, open source, che in sostanza consente a chiunque di creare dispositivi intelli-genti (da sensori per l’ambiente a unità di controllo per macchine a processori per ogni esigenza). Proprio Banzi aveva individuato nella digital fabrication l’ar-gomento su cui puntare per presentare le possibilità di rilancio industriale che l’innovazione offre all’Italia. Da quel Fab Lab sono usciti oggetti di uso quotidiano come un set di ganci a parete per appen-dere gli attrezzi, piccole invenzioni utili come il portacellulare da montare sulla bicicletta, attrezzature professionali che, nelle versioni prodotte in serie, costano un occhio della testa, come un supporto per macchina da presa steadycam. Finite le celebrazioni dell’Unità d’Italia, il Fab Lab torinese è rimasto in piedi ed è anco-ra oggi il principale punto di riferimen-to della comunità italiana dei makers. Nel frattempo si è aggiunto, a Milano, il Frankenstein Garage, che oltre a mettere

I Fab Lab stanno sorgendo come funghi anche in Italia. Il primo è nato a Torino in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia

VENDITE IN CRESCITANel 2007 sono state

vendute 66 stampanti 3D sotto i

5000 dollari – quelle professionali si aggirano

intorno ai 73.000 –,ma nel 2011 il numero

è salito a 23.265 (rapporto 2012

Wohlers Associates). Per raggiungere un pubblico più vasto

da poco sono in commercio stampanti

3D “base” sotto i 500$.

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a disposizione di tutti le sue attrezzature (stampa 3D ma anche progettazione CAD, taglio laser e altre tecnologie “sot-trattive” più tradizionali) organizza corsi e workshop per avvicinare tutti gli inte-ressati alla personal fabrication. Proprio con l’aiuto del Frankenstein Garage, Andrea Radelli, maker ventisettenne, ha realizzato Sharebot, una stampante 3D davvero alla portata di tutte le tasche, cre-ata semplificando una stampante 3D già sul mercato. Radaelli vende via internet il kit per assemblarla, a 900 euro. L’inte-ro progetto è ovviamente open source, e quindi chiunque abbia voglia e capacità di farlo può non solo acquistarla, ma mi-gliorarla e modificarla per le proprie esi-genze. Se poi non volete nemmeno spo-starvi da casa c’è Vectorealism che offre tutto online: dalla consulenza di un de-signer per realizzare il progetto fino alla scelta dei materiali e alla possibilità di ordinare il proprio progetto o prototipo. Quanto sia vivace la scena dei makers, e quanto sia simile a quello che era

solo una trentina di anni fa il mondo dei programmatori, lo ha dimostrato il contest Design Smash 3D organizzato lo scorso 20 ottobre a Milano. Otto team attivi supportati da altrettanti team di operatori di stampanti 3D si sono sfidati sul tema “illustra ai tuoi nonni le mera-viglie della stampa 3d”, la cui consegna era «crea un oggetto che sia esempli-ficativo e che racchiuda in sé tutta la figosità della stampa 3D». E i concor-renti lo hanno fatto, dal team vincitore, Jambro di Filippo Mambretti e Jennifer Carew con il loro Mino, una famiglia di piedini per bastoni da passeggio capa-ci di trasformare questo oggetto di uso quotidiano in una sorta di “coltellino svizzero” che si adatta a camminare sull’erba, sul nevischio o sulla sabbia semplicemente cambiando il piedino. O il secondo classificato, il progetto Swingthing, una piccola aggiunta che tra-sforma quello stesso bastone da passeg-gio in una mazza da golf. Al terzo posto è arrivato Zooilab, con un set di formine

per dolci e polpette ispirate ai perso-naggi dei videogiochi. Oggetti minimal, semplici, all’apparenza “innocui” ma che fino a cinque anni fa potevano essere prodotti solo industrialmente, ammes-so che vi fosse una domanda sufficiente. Preparatevi a vederne sempre di più, di Fab Lab. E preparatevi a un’esplosione della personal fabrication, dalle conse-guenze (anche economiche) impreve-dibili. Secondo Gerhsenfeld del MIT, la fase in cui siamo ora con la digital fabrication è la stessa in cui si trovava l’informatica all’epoca dei PDP (Pro-grammed Data Processor): una “fase evolutiva” dei computer (tra la fine de-gli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta) intermedia tra i colossali mainframe e i personal computer, in cui la compu-tazione arrivava alla portata di piccoli gruppi di lavoro, e in cui fu sviluppato il sistema operativo Unix che è tuttora alla base di molta dell’informatica che ci circonda. La fase, insomma che pre-parò il terreno all’esplosione di massa.

produzione fai da te: le stampanti 3d | oxygen

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Che finisca nella stufa in forma di ciocchi, pellet o cippato, la legna è ancora una risorsa importantissima per il riscaldamento do-mestico e urbano. Popola i nostri boschi. È una risorsa sul territorio (una risorsa spesso dimenticata, di cui nessuno si prende cura). E può definirsi a tutti gli effetti una fonte rinnova-bile: ogni albero che cresce riassorbe la CO2 emessa durante la combustione di un pezzo di legno. Non c’è niente da fare: la fiamma piace. È affascinante: design e hi-tech la fanno evolvere tecnologicamente in camini privati e caldaie per teleriscaldamento.Siamo abituati a parlare di stufa a legna o caminetto,

ma il mercato contempla apparecchi di combustione sempre più complessi e dotati di dispositivi sofisti-cati, che richiedono sempre maggiore professionalità e responsabilità da chi si occupa di installare e manutenere gli impian-ti. Produttori, fumisti e spazzacamini, condividono una rete professionale che non si può improvvisare: richiede aggiornamento continuo, rispetto delle normative di installazione, monitoraggio del territorio. Lo stato italiano preve-de, dal 2008, che tutti gli installatori di camini, canne fumarie, impianti di riscaldamento a biomassa legnosa (e quindi stufe e caminetti alimentati a pel-

C’era duevolte, lospazzacamino

rubriche | oxygen versus co2

«Tu penserai che lo spazzacamin / si trovi nel mondo al più basso gradin / io sto fra la cenere eppure non c’è / nessuno quaggiù più felice di me / Cam caminì, cam caminì spazzacamin / allegro e felice pensieri non ho /cam caminì, cam caminì spazzacamin / la sorte è con voi se la mano vi do». Lo spazzacamino di Mary Poppins indossa ancora la stessa divisa, ma di fatto si è trasformato in un moderno tecnico della biomassa.

articolo di Stefano Milano

Rb

Spazzacamino—

Si tratta di un mestiere in continuo aggiornamento. Le regole del gioco cambiano ed è fondamentale capire cosa è

necessario sapereper operare, su che

cosa e come.

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let e legna) debbano essere abilitati alla professione e possano/debbano produrre dichiarazioni di confor-mità per ogni impianto realizzato.Avere tecnici specializzati che si muovono su canali istituzionalizzati dà il via a una gigantesca mappatura capillare del territorio. E nello tsunami del Big Data questo che significa? Avere il polso della situazione, individuare soluzioni de-dicate e prevedere i rischi possibili del sistema fuoco: un camino che non tira bene, un vecchio impianto mal funzionante.Che fine fa lo spazzaca-mino di Mary Poppins in questo scenario di grande rivoluzione? Diventa un tecnico manutentore quali-ficato di canali d’areazione, trasporto vapori e impianti fumari. Deve conoscere un po’ di tutto: le normative e le tecniche di pulitura, gli arnesi della tradizione e le più moderne strumentazio-ni. Lavora gomito a gomito con il fumista per controlla-re i dotti d’areazione prima della posa di caminetti e stufe. Ma non è affatto raro che si trovi a lavorare anche con responsabili di grandi centrali termiche. I maestri spazzacamini sono un conclave rodato che si riunisce periodica-mente per confrontarsi su tematiche tecniche, normative e operative della

professione. Si tratta di un mestiere in continuo aggiornamento. Le regole del gioco cambiano ed è fondamentale capire cosa è necessario sapere per ope-rare, su che cosa e come. Scegliere le biomasse come combustibili diventa sempre più fondamentale nel raggiungimento degli obiettivi rinnovabili fissati dall’Europa e attualmente oggetto di incentivo. Alcuni produttori chiedono a gran voce percorsi formativi dedicati e obbligatori per operatori del settore, commercianti, installatori e manutentori. La Lombardia si è inventata un catasto regionale degli impianti termici (Curit) stabilendo che ogni impianto sopra i 4 kilowatt venga considerato impianto termico e quindi debba essere registrato e sottoposto a manutenzione regolare.Un esempio di eccellen-za: Anfus, l’associazione nazionale di spazzacamini e fumisti, da anni cerca di far rete fra spazzacamini, fumisti e produttori – un’azione dal basso che, come capita in altri settori del comparto energetico, si sostituisce alla tradizionale azione politica e prova a mettere seduti allo stesso tavolo i portatori di interes-se di un certo territorio per individuare nuove soluzioni alla questione energetica. Democrazia spazzacamina.

Che fine fa lo spazzacamino di Mary Poppins in questo scenario

di grande rivoluzione? Diventa un tecnico manutentore qualificato di canali d’areazione, trasporto

vapori e impianti fumari

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Il martello. Il cacciavite a taglio. Il cacciavite a stella. Il trapano. La chiave inglese. La sega. Il calibro. Le pinze. Le pinze pappagallo. La morsa. Le brugole. La fu-stella. La lima. La pialla. Il punzone. Il raschietto. La roncola. Il trincetto. Il mazzuolo. La colla. Il punteruolo. La spatola. La squadra. La bolla. I chiodi. Il metro. Il nastro adesivo. Il rastrello. Il tagliaerba. Le cesoie. I guanti da lavoro. L’alesa-

tore. Il bulino. La fresa. Il pennato. Lo scalpello. Il giramaschi. Il mordi-glione. Il graffietto. Il truschino. Tutto un mondo di parole, delle quali la stragrande maggioranza mai sentite prima, vive chiuso in una strana e robusta scatola metalli-ca: la cassetta degli at-trezzi di papà. Gli arnesi e gli attrezzi da lavoro di cui ogni maschio è geloso, più ancora che della propria moglie o

Il lavoro hardche nonspaventai più piccoli

rubriche | la scienza dal giocattolaio

Più della moglie e della poltrona preferita, il babbo è geloso della sua cassetta degli attrezzi. Il trapano. Le chiavi inglesi. Martelli e utensili da giardinaggio. Gli arnesi da officina sono giocattoli antichissimi. Breve excursus nella cassetta degli attrezzi giocattolo fra Ottocento, Novecento e Duemila. Dagli arnesi in legno alle sofisticate riproduzioni a marchio Bosch.

articolo di Davide Coero Borga

Rb

Utensili giocattolo

—L’abitudine a imparare

giocando, peraltro,è un tratto che l’uomo

condivide con molte altrespecie animali

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della poltrona preferita, sono giocattoli da secoli. Strumenti che si perdono nella storia dell’uomo e che ciononostante ritroviamo anche oggi nei musei di storia e preistoria, quasi sempre riprodotti in scale e materiali differenti per i più piccoli. Gli arnesi piacciono. I bambini si sentono evidentemente più adulti nel manovrarli, sperimentarli, conoscerli. La modalità del gioco favorisce il processo di emulazione degli adulti e stimola la creatività di ciascun bambino. E se il gioco e la curiosità sono elementi chiave di un approccio scientifico al mondo, utensili da lavoro e strumenti delle arti tecniche restano gli ingredienti principali di un buon giocattolo! Anche per i bambini di oggi. D’altra parte gli oggetti della scienza e della tecnica non sono nuovi a promozioni sul campo, e già in passato hanno avuto successo come veri e propri gio-cattoli: dalle stoviglie in cucina agli strumenti da laboratorio provenienti dal mondo scientifico, dagli attrezzi da lavoro di meccanici agli arnesi dell’idraulica. Gli utensili giocattolo dicono molto di una tendenza a trasformare alcuni strumenti inventa-ti dall’uomo in edutoys. L’abitudine a imparare giocando, peraltro, è un tratto che l’uomo condivide con molte altre specie animali, per le quali il giocattolo ha un ruolo importante nell’apprendimento dei saperi essenziali alla sopravvivenza. Pensate all’ostinazione con cui il cane dilania pantofole e bastoni da riporto. Osservate gli agguati che il gatto prepara a

gomitoli e palline di gomma, lanciandosi in evoluzioni tra tappeti e divani. Sono abitudini da predatori.Se teniamo in conside-razione questa sorta di istinto a giocare con gli oggetti, non deve stupire che l’uomo ancora oggi progetti e produca a livello industriale articoli pensati a questo scopo. Alcune categorie ludiche probabilmente fanno parte di un bagaglio culturale comune a diversi popoli. Altri sono diventati indispensabili nella formazione di un uomo moderno. La cassetta degli attrezzi da lavoro rientra a pieno titolo in questa categoria di giocattoli. Tanto da giustificare la sua distri-buzione e “clonazione” globale. Ne esistono di diversa dimensione, costo e fattura. Martello, cacciaviti e pinze non mancano mai, ma sono centinaia le versioni del giocattolo del piccolo manovale. E gli acquiren-ti sono sempre più etero-genei. Anche le bambine vogliono divertirsi con gli utensili del bricoleur.In tempi di tecnologie sempre nuove colpisce l’esperimento voluto dal gruppo Robert Bosch GmbH, recentemente approdato nei negozi di giocattoli con una versione completamente rivisitata della vecchia cassetta degli attrezzi giocattolo. A bulloni e martelli sono stati ag-giunti trapani e avvitatori elettrici! E a giocare non sono solo i bambini: gli stessi adulti acquistano il kit per piccole faccende domestiche. Insom-ma: ufficialmente dal giocattolaio entrano per accompagnare il proprio figlio e se ne escono con una borsa piena di giocattoli rigorosamente da 0 a 99 anni.

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Davide Coero BorgaLa scienza dal giocattolaio

Codice Edizionieuro 24,90 | pagine 224

Tu sei solo un giocattolo!Tu non sei il vero Buzz Lightyear,sei un pupazzo meccanico.Tu sei solo un balocco per bambini!Woody a Buzz Lightyear, Toy Story. Il mondo dei giocattoli, 1995

Quanta matematica c’è in un cubo di Rubik? Quanta fisica in un lancio di frisbee o in una Hot Wheels lanciata a tutta velocità?

Un libro sul gioco. Un libro che è anche un gioco.

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INDUSTRIAL PRIDE

by Fulvio Conti

editorialEd

In recent years, simply scanning the forums and news on the Inter-net or glancing at the headlines is enough for a general picture painted in dark colors to appear. The economic crisis, troubled global governance, overpopula-tion, lack of energy and raw mate-rials – water and food – are some of the topics that have been end-lessly bounced around in public opinion debates in these years. Yet behind all this, a different sto-ry can be read between the lines.Limiting ourselves to looking at the actual data, we find that, de-spite everything, the world con-tinues to produce wealth: much more than we ever did. With the exception of 2009, the World GDP has continued to grow, more or less slowly; a locomotive driven by emerging countries – China, India, and Latin America – which

and India, has led to an increase in average pay which is 10 times higher than that of the United Kingdom during the first indus-trial revolution. This growth will enable more than three billion people to join the middle class by 2030 (McKinsey Global Institute).It will be precisely these three bil-lion emerging citizens who will give a boost to the global demand for primary consumer goods, du-rable goods, and, consequently, raw materials. A revolution that has led to a dramatic increase in connections between people and objects: since 2008, there are more technological devices con-nected to the networks around the world than there are people, who by 2020 will number 50 bil-lion (Cisco, The internet of things).Ten years later, in 2030, the cars in circulation worldwide will have

doubled compared to the current number, just as the level of nutri-tion per capita and the size of cit-ies, especially for countries in the developing world, will grow ex-ponentially. It is precisely the big cities that will be the stage to host this change, a phenomenon that is already taking place. Since 2008, the population living in cities has exceeded the number of people living in the countryside: an un-precedented event, which has resulted in a profound and radi-cal social change and that leads to a continuous urbanization.This extraordinary growth will render the cities more and more sophisticated, in need of answers to complex challenges, from traffic management and air pol-lution to energy efficiency and access to electricity. The cities themselves become laboratories

have replaced the United States at the helm of the world econo-my (World Economic Outlook, International Monetary Fund).This trend was confirmed by the forecasts of the consumption of primary energy, with an increase of about 40% between 2009 and 2035 (World Economic Outlook). Contributing to this growth will mainly be non-OECD countries, where the use of energy, due to economic development and the improvement of living conditions of the population, will lead to a 90% increase in consumption in 2035. Above all, in China, where in the same year they will use 70% more energy than the United States, thus climbing to second place in the world rankings. The unprecedented and rapid economic development of emerg-ing countries, particularly China

“The world is on the brinkof a new era. This shift in fortunes of the developed and developing world in manufacturing will begin to go into reverse and manufactu-ring in the rich countrieswill stage a come-back.”

INDUSTRIAL PRIDETHE NEW FACEOF GLOBAL PRODUCTION

coverCo

12.2012Science for everyone

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of innovation. And technological innovation is the key to support-ing this delicate and complex architecture, allowing us to com-bine sustainability, efficiency, and quality of life through the interaction of three types of net-works: those concerning energy, information, and the citizens. A real “convergence between bits and atoms,” as defined by the scientist from MIT, Carlo Ratti (If the City doesn’t act stu-pid, “La Stampa,” May 25, 2012). Hence, innovation is the proper means to build a near future and the means to address the cur-rent situation, acting as a driver for a “new industrial revolution.” This revolution is amplified in the energy sector, especially the electricity system. In fact, a con-stant over the years is the driving role electricity has played for the social, economic, and industrial development of communities. Electricity is actually the most practical, effective, and efficient way to meet the needs of a world that is increasingly hungry for energy and that, thanks to new technologies, can be produced and distributed in a more com-prehensive and economical way to consumers, according to new and innovative business models.In the electrical industry, Europe and Italy have a global leadership over the entire production chain. Enel has developed power plants over the last ten years with re-cord efficiency, renewable energy plants that are more competitive, and innovative projects such as the first hydrogen power plant, the most advanced clean coal plant in the world, projects for the capture and sequestration of CO2, the first concentrating solar power (CSP) plant in Italy, electric mobility, electronic meters, and smart grids. This commitment will continue in the years to come, because innovation is an integral part of our vision of the future. Innovation is not just about big projects, but also the levers and tools to support the economic recovery of our country. Any tech-nological innovation always starts from a hardware support, wheth-er it be a micro-chip, a robot, or a 3D printer. Therefore, the manu-facturing industry has a great

opportunity for rebirth if it will be able to reinvent itself starting from its own experience and the solid foundation that can already be counted on, especially in Italy. Perhaps our country has been classified too hastily as “low growth,” but there are vibrant areas, with firms that are grow-ing and exporting. In particular, the manufacturing sector, where the numbers are encouraging: in Italy, in the first half of 2012, one exporter out of two increased sales of their products abroad, compared to the same period in 2011. This is a tangible sign that the most dynamic companies can be the most competitive ones. A dynamism that can be extended with the creation of a network to spread and circulate brilliant “business ideas,” both Italian and foreign, reactivating the en-trepreneurial spirit that has al-ways characterized our country by pooling youth, enterprise, and innovation. A connective tissue that will lay the foundations for the creation and development of new businesses and promote in-

Innovation is the proper means to build a near future and the means to address the current situation

vestments in industrial research and development. For instance, Enel is doing this through its EnelLab Project, which provides promising start-ups with fund-ing, tools, and environments suit-able for dealing with the global competition. Or providing them with practical assistance through initiatives that are activated by the universities with the Enel Foun-dation Study Center. We must not let our wealth of expertise and technical knowledge wither, but rather, we need to enhance it. History teaches us that every industrial revolution was driven by new technology, introduced by experienced entrepreneurs in their field who were not afraid to launch into new adventures. That Italy and Europe have a great his-tory, the maturity, and the abil-ity to boost the future and once again become the driving force of the economy is a universally recognized fact. So let us look forward to the future, beyond the crisis, well aware of our ca-pabilities and our size, and espe-cially, of being able to innovate.

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You hear talk about industry all around the world. It is like Ross-ini’s “slander is a breeze,” but this time it is not about slander, but a return to the truth. The truth of industry and industrial work. The reason for this is both simple and dramatic: the finan-cial crisis that is happening all over the world is much more frightening than the crisis oc-curring in the industrial world. The old world and the new one have gone through major and repeated low-intensity indus-trial crises that shook the seas of the economy between the two great tidal waves of 1907 and 1929, until the third crisis which started in the late Nine-ties and in which we are still immersed. But industrial crises destroy to recreate. Financial ones, however, do not ever rec-reate anything at all. It is like the difference between DDT and napalm. And this finan-cial crisis from excessive risk and the unlimited greed of the top financial managers is truly scary, because it may never end

THE NEW INDUSTRY

by Giulio Sapelli

editorialEd

unless the machine of finan-cial intermediaries is split in two, dividing the commercial banks from those that do not invest. When you are afraid, you search for safety. And industry is safety because it is manufac-turing, creation, unity of spirit and matter, and the body and soul of society. Especially now that the new industry no longer develops only for commodity supply chains and technology, but also and especially for the scientific, technological, and production clusters where there is a steady decline in the size of the plants and companies while the systemic interrela-tionship between them is in-creasing, creating new constel-lations in the sky of industries. The most overwhelming thing about this new industry is the reclassification of the models of authority and power relations. These are increasingly less important because they alone cannot guarantee an efficient management of the execution of design and production. Let

me explain. Property is no long-er sufficient by itself, as it once was, to ensure industrial im-plementation. We cannot pur-chase the essential elements of production. This is because the essential elements of produc-tion have become idiosyncratic personal skills that guarantee the flow without redundancy of technology that must have a distinctive competitiveness now. If before, I could gain factors and organize them in a hierarchy through economic transactions, today this is no longer sufficient. You must be able to attract the talents that are the keystone of the new in-dustry that is advancing, thanks to an authority or technological, experiential, and even moral authoritativeness. What char-acterizes talent is the passion united with skills and abilities. But the real news is that today we want to find and discover this passion in work manage-ment as well as in what was once called "executive work" and which no longer exists to-day, because all the workers of the new industry are skilled op-erators who direct and decide at their work place, just like the manager decides and directs in the broader sphere of strategic planning. As the world turns, you feel the gentle breeze of the rebirth of industrial pride that unites employers and workers, professionals and managers, without any of these ancient but ever new social figures losing their creative force. Of course, despite the many cultural bar-riers against industrialism that exist in Italy, this new industrial renaissance is deeply rooted in our country. We must not forget that, despite the destruction of our heritage, represented by the large corporation and which occurred mainly in the 1990s, we are still the second industrial power in Europe af-ter Germany and we cover a much more important role in the world than one would think. Furthermore, we must not for-get that this new configura-tion of industrial pride passes through the myriad threads of a rather composite weave: the

large companies (ENI, Enel, Fin-meccanica, Postal Service, Rail-ways, Aviation), the so-called medium-sized enterprises of the “fourth capitalism,” and the countless small businesses and artisans who are lagging far less behind than is commonly as-sumed. In fact, small business-es and artisans are the deposi-tories of a prodigious wealth of craft skills that are developed in the most diverse organiza-tional populations: horizon-tal commodity chains, where big and little intersect; verti-cal functional chains, where multiple technologies coexist; archipelagos of skills that are wonderful islands of working capability and entrepreneurial ability coming together. Every-where, once again, people are breathing the pride of craft, of knowing how to do things with hands and brain together. We need to make one more effort, though. As families, as parents, and as teachers, we should be proud even if our children pre-fer to go to a professional or technical institute rather than get a college degree. This is because I am sure that a good workman-operator, just like a good professional manager, can love reading Plato, Pascoli, Zan-zotto, and Goethe even if they do not have a degree; or if they do, it is a degree in engineering, seismology, geology, or biology. This is because the new indus-try will not be able to be built without overthrowing old hier-archies and unifying cultures.

Industry is safety because it is manufacturing, creation, unity of spirit and matter, and the body and soul of society

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MANUFACTURING:THE ENGINE OF GROWTH

“The more advanced nations have once again put the processing industry at the center of their de-velopment strategies. If Italy wants to continue to be an authoritative subject of economic life on a global scale, it can only be through the strength of its industrial system, which is the only area to consider investing in today in order to re-start a process of development of the entire national system.”

by Giorgio Squinzi

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Technological innovation is the engine of growth and produc-tivity, and the underlying basis of the economic development of nations. And an innovative system is the heart of the manu-facturing industry. The manu-facturing sector contributes to the production of new scientific and technological knowledge more than other sectors, be-cause the companies that are active in the industrial sectors closest to science are the ones that fund and manage the most important research laboratories. They also carry out most of the private research and develop-ment, which is the main input of innovative activity, and are more successful than others at using outside knowledge in the company and establishing col-laborative relationships with universities. In Europe, the geo-graphical distribution of the in-novative capacity, measured by the number of patents per capi-ta, follows that of the industrial vocation. The manufacturing sector, therefore, continues to be the “engine room” of growth because the productivity gains of the entire economic system, directly or indirectly, originate from it; that is, through the in-novations that are incorporated into the goods used in the rest of the economy. But the centrality of the processing industry in the development of a country is not only measured on the grounds of its capacity to produce inno-vation. In fact, the processing in-

scenariosSc dustry is also the means through which a country substantially devoid of natural resources can manage to loosen the “external constraint” to growth – namely, its ability to finance the pur-chase of its imports. In the case of Italy, seeing as almost 80% of exports consists of manufac-tured products, without them it would not be possible to ob-tain raw materials, starting with energy, the purchase of which is funded by the surplus in its trade in manufactured goods with foreign countries. For all these reasons, the importance of manufacturing activity goes far beyond what the statistics reveal about its direct contribution to added value and employment of the entire economy. The aware-ness of this fact is fueling a real rediscovery of the centrality of manufacturing in many indus-trialized countries. The more ad-vanced nations have once again put the processing industry at the center of their development strategies. The United States, the United Kingdom, and France have initiated discussions and taken steps to focus firmly on the revitalization of the manu-facturing industry. Germany has been doing so for some time. But also the emerging economies are running programs explic-itly aimed at strengthening their manufacturing activities. These countries, whether advanced or emerging, are acting on a clear vision of the problem and have shown to be capable of pursuing long-term strategies consistent with the pinpointed objectives.Italy seems to be late. Any politi-cal decision made should always be grounded in a vision of the fu-ture of the country-system it re-lates to. Unfortunately, our past history and the very months we are living through now are a case of how this principle is all too often ignored. From one emer-gency to the next, decisions and measures add up that are unable to go beyond a short-term time horizon, and once the obstacle at hand has been overcome, it is followed by other decisions and other measures guided by the desire to hurry up. A more long-term view is necessary, making

it possible to go back to thinking about policy as a tool to guide the future of the country, to rescue it from drifting toward having to choose between either doing one’s duty or following an agen-da dictated by urgency, if not by other things. And it is necessary that this change of perspective not tarry in taking shape. The major industrial countries that we are dealing with, whether old or new, all have much to teach us from the point of view of the construction of a na-tional system oriented to clear and explicit objectives. Italy's delay could become dangerous, because already, in an interna-tional comparison, our country suffers from a lack of growth – in manufacturing, too – and lower productivity growth. If knowl-edge has always been the crucial element of competitiveness, it has become even more so today. In this key, increasing activ-ity aimed at creating new knowl-

edge and applying its use has become essential to strength-ening the competitive factors of the country, because once high levels of per capita income have been reached, the growth of an economy depends on its autonomous ability to innovate. To do this, it is necessary to start from the many strengths that the Italian manufacturing in-dustry still has, and at the same time deal with the weaknesses accumulated in areas where there seems to be a delay, which are the areas in which innova-tion is more closely linked to the progress of scientific knowl-edge. And because innovation is the result of a dense network of relationships between many actors (companies, universi-ties, governmental and non-governmental research centers), the institutional conditions that facilitate the identification and adoption of technologies and new organizational models

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need to be strengthened. If Italy wants to continue to be an au-thoritative subject of economic life on a global scale, it can only be through the strength of its industrial system, which is the only area to consider investing in today in order to restart a pro-cess of development of the en-tire national system. The strong manufacturing vocation of our territories and the enormous human capital available to our industry – too often misunder-stood by careless and superficial observers – form the basis of a possible re-industrialization of our economy, which is the only way that the country can escape from the current situation. The industry of our country has cer-tainly suffered significant blows over the years, but despite the duration and intensity of a dev-astating recession, it has man-aged to show a resilience that is unimaginable to all those who do not really know our nature.

At the same time, with regard to anyone who does business, it is good to first of all enforce the principle that – in a world in which “knowing how to do things right” is not enough be-cause we need to know how to do even better than the others – it is necessary to abandon the logic of passive adaptation to the con-ditions of the economic context and to actively act as a person who plans his own future. The line of demarcation between the entrepreneurs who will be able to manage the increasingly ver-tiginous changes and those who, unable to do so, will be forced to exit the market, is defined by the ability to build, around the “fast response” to the ques-tion, a kind of know-how that others do not have. The corner-stone of competitiveness will be the skills that the company will be able to develop and its ability to adopt organizational solutions consistent with them.

In Europe,the geographical distribution of the innovative capacity, measured by the number of patents per capita, follows that of the industrial vocation

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reflection on human capital and its strategic importance. A high-ly interesting work on restruc-turing by Cipolletta-De Nardis came out a few months ago, but there is a lack of recognition concerning outsourcing pro-cesses and their evolution. The relationship between industry and professions also needs to be evaluated. The affirmation of a Made in Italy tertiary sector that is qualified and able to serve the international market (and not only their own region) passes through that very relationship.

Supply ChainThe reorganization of compa-nies, especially what could be called “non-defensive” reor-ganization, has certainly not stopped at the perimeter of the parent company, but rather, has invested the whole supply chain. There are many cases where this has been a positive process both in terms of efficiency and of so-cial cohesion. The work carried out by at least three majors is highly interesting, two of which concern luxury goods (Gucci and Louis Vuitton) and one that deals with large distribution (Ikea); all three have entered into the world of providing a form of partnership in different territo-ries. In some cases, such as the Swedish multi-national, greater attention is paid to the costs, and in others, to the quality. This has allowed suppliers to have more reliable horizons of com-mitment and to be able to count on interventions by the large company aimed at rationalizing or innovating a particular point in their production cycle. If we take a look at the Italian experi-ence, it is interesting to observe those cases in which an imma-terial item newly motivated the supply chain and innovated it. I am referring to the Salone del Mobile (Furniture Fair) in Mi-lan and Slow Food in Piedmont.

ExportsSomeone in the trade union superficially sustained that we would have (guiltily) adopted an export led model. Not quite! Ac-tually, one cannot say for certain that the system has moved ac-

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We have had four years of crisis and the future of our manufac-turing industry is still uncertain, to say the least. But rather than persisting with Cassandra-like forecasts, it would be worth-while to try to grasp the point of some changes that have already occurred. I have chosen a few key words for the reader’s conveni-ence, a short glossary of the cri-sis and its consequences in what is still one of the major industrial countries of the Old Continent.

RestructuringOnce, companies would un-dertake restructuring if there were an emergency, whether financial or due to the market. Now, even small business own-ers have understood that there is no solution of continuity and a company that wants to stay on the ball has to undergo constant check-ups. There are various (and welcome) techniques, but what almost always emerges is that manufacturers pay great attention to skills. Even know-ing that the crisis demands ruthlessly cutting costs, no one has deprived themselves of per-sonnel by “taking advantage” of the recession; in fact, today’s difficulties have increased the

TOMORROW’SPRODUCTION IN 7 WORDS

In order to outline a presentand future scenario of industry,we must first understand the ele-ments that affect it. To understand the industry, let us start with a few words: restructuring, exports, supply chain, business networks, districts, retail, and trade unions.

by Dario Di Vico

cording to a canonical principle but, in the face of the stagnant domestic demand, the way of foreign markets appeared to be the only card to play up to the very end. Strictly speaking, we could say that we should have re-alized it sooner, because if Ger-many exports more than we do in the food industry, with no insult intended to beer and sausages, it means that we have been rest-ing on easy honors and have not squeezed out all our potential in exporting our industrial culture in the field of food. What is im-portant is what has happened with regard to our attitude to-ward the exchange markets; the relative weakness of Western economies and the thrust of the BRICS could have left us without a leg to stand on, and instead, adaptability has been stronger than the trauma and some important results in the new markets have been achieved.

Business networksThe controversy over the dwarf-ism of Italian companies as an insurmountable obstacle to growth is a waste of time and does not allow us to take a sin-gle step forward. Instead, the business networks can be an important tool, a painless way to aggregations. In this model, the small business continues to feel involved in a process of development and is not being brutally told to get out of the way, as a study presented by Confindustria did a few years ago which was then cataloged under the name of “T holding.” Today, there are about two thou-sand companies that are already on the Internet in one form or another, but that is very few, far too few. Not all the representa-tive associations have been as committed as they should have been, and this has created de-lays. Some banks had promised to help the aggregation process by recognizing a sort of rating reward for those who collabo-rated to increase the size of their company, but on the periphery of all that, very little has result-ed and the impression is that banks have a tendency to invest in the pro-SME campaigns more

in-depthId

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than to really heed the territory. Even the bank-firm relation-ship today fails to express its potential value and it is discon-certing that this question is not the subject of careful and self-critical assessment by the ABI, the Italian Banking Association.

Districts The Italian district system seems to have withstood the impact of the recession, even if not uniformly. Some areas have paid dearly for their delays in innovation and market reposi-tioning (i.e., chairs from Friuli); others have been able to deal with it blow by blow. Of course, I am referring to Sassuolo, which is trying to combine tiles and a green economy, and to the tan-ning sector in Arzignano, that has cut down production time and begun developing a fashion-able product. According to the North-East Foundation, howev-er, the districts should broaden their outlook so as to enlarge their territory, break down lo-cal closures, and extend their networks abroad. Will they be able to do so? The answer lies in their ability to re-specialize, or to cultivate the more tra-ditional or niche market seg-ments, but at the same time to introduce new products or concepts. In this case, perhaps there is a lack of accurate rec-ognition of what is happening.

RetailThis is a matter in which we Ital-ians are not doing as well as we should. Besides, if we had been better at understanding the bargaining strength of distribu-tion (downstream) with respect to production (upstream), we would not have stood by while the Swedes created their multi-national furniture empire, mak-ing a mockery of the Italian mas-ters. In our industrial culture, the cult of the product has too often led to its laying forgotten on the shelf: just churning out some lovely things is not enough, you also have to get them to the right place at the right time. Our French cousins could teach us a lot in this area. The Italian groups of large retailers today

do not seem to be able to expand abroad as Auchan and Carrefour did, and thus, modern trading companies that can act as carri-ers of the Made in Italy products are lacking. Some interesting experiences have arisen, such as Eataly in the “food” sector, but we are still far below the needs and the present situation is not playing out in our favor.

Trade Unions If we put aside the case of Fiat, which is absolutely eccentric, it is increasingly evident that there are two systems of indus-trial relations in Italy. One is Roman and the other is territo-rial. The first thrives on more or less bombastic interviews, on mediation within the individual confederations, on a debate dominated by the need to always churn out new laws. Without the consultation table, Roman trade unionism has lost its core busi-ness; it is struggling to change its mindset and anxiously try-ing to at least indicate its pres-ence. It is an association of the apparatuses. But there is also a territorial reality of structured bargaining that is silent, uni-fied, and collaborative. Often, territorial trade unions do not even send agreements accorded within a company to Rome for fear that some central official will pronounce their power-ful “Nyet!” There are many new features within this multiplic-ity of agreements, starting with the weight that corporate wel-fare is taking on, in the wake of Luxottica. But very interest-ing solutions are also found from time to time in the fight against absenteeism or con-cerning salary merit, rewards, and productivity. The territories may give rise to a more modern system of industrial relations, proving useful to our recovery.

PS: If we were to substitute the more or less ideological analyses of the future of our industry with a recognition of the phenomena, the land im-mediately becomes fertile. And to those who have come to the end of this article, please consider it just an appetizer.

The business networks can be an

important tool.In this model,

the small business continues tofeel involvedin a process

of development

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A MORE MODERN, MORE EUROPEAN, AND MORE COMPETITIVE ITALY

“The change in our countryhas just begun. We have charted a clear path with measures that were able to be taken with the limited resources and the limited time available, and today we already have an Italy thatis more modern, more European, and more competitive.Now we need to move forward.”

by Corrado Passera

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contextsCo

In the last year, Italy has proven in many ways to be an interesting and effective laboratory among the European Union countries and in the world. At the end of 2011, we were a country that was dangerously slipping into a crisis potentially dramatic enough to risk losing national sovereignty. Today, after a year of hard work, we have regained international credibility and are once again playing a leading role in the EU and at all the major global tables. The Monti government has man-aged to achieve the profound change in our country by acting decisively through structural re-forms – such as the moderniza-tion of the pension system and tax reform – and by, first and fore-most, making our public financ-es secure. This fundamental re-sult was possible thanks to the commitment of everyone – gov-ernment, parliament, social part-ners – and the sense of responsi-bility shown by Italian citizens. Starting from the first act of our government, “Save Italy,” we have tried to jointly carry out strict policies and growth-oriented re-forms. During these months, we have gradually implemented a real agenda for sustainable growth that has touched upon and renewed the main elements of the structural weaknesses of our economic system and the main levers that can make our country more competitive and therefore better able to grow and create jobs. All the chickens had come home to roost because of

many years of inaction. Italy can return to growth by solving – as is being done – the accumulated problems and taking advantage of many of our strengths. Our economy is very diversified and we have not made the mistake of neglecting everything else in fa-vor of services alone. It is not by chance that we continue to be the second European manufacturing country after Germany and one of the leading exporters in the world. Italy is the world leader in areas that can only benefit from globalization, such as mechani-cal engineering and automation, food, the fashion system, and the house system. But there are posi-tive prospects coming from vari-ous other sectors of our tradition-al strengths, such as tourism and the world of health. We do not lack entrepreneurial energies; private debt – of both households and businesses – is contained, while the total wealth of Italian households and their saving ca-pacity, albeit smaller, are ele-ments of strength. Our banking system is more solid than else-where and has not led to either rescue operations or costs for tax-payers, through both financial cri-ses. Unlike many other countries, we do not have to recover from any financial or real estate bubbles. On this basis, we have begun to create a more modern and com-petitive country, providing it with an ecosystem of rules oriented to-ward facing the new challenges of international markets. Some of the competitive disadvantages that we have tackled in a signifi-cant manner include energy costs, the infrastructure gap, the lack of liquidity and credit, especially for small and medium-sized enter-prises, and the bureaucracy. En-ergy: the liberalization of the gas market and the separation of own-ership of SNAM from ENI, and the reform of the system of incentives for renewable sources are already a reality and are key points of the new National Energy Strategy. Through the NES – now in con-sultation – we charted the path that our country will have to fol-low concerning energy policies from now until 2020, significant-ly reducing our energy bills and dependence on foreign sources.

rective on payments that we im-plemented last November, the first of the major European coun-tries to do so. It is certainly an important step forward in mak-ing our country more “normal.” Bureaucracy: we have launched an important series of simplifica-tions for citizens and businesses, mainly working with trade asso-ciations. This is the route we need to take more and more, to increasingly lighten the weight of the government where it is not needed, eliminating unnecessary intermediaries and veto rights that are so commonplace today, and clarifying exactly who does what within a much lighter insti-tutional framework than our cur-rent one. We have also worked hard during the year to consoli-date the two main levers of busi-ness development: internation-alization and the ability to innovate. For this reason we have strongly reformed and developed a system of instruments for sup-porting companies in foreign markets. This system now oper-ates under the coordination of a control room presided over by the Minister of Foreign Affairs

Infrastructures: we have com-pletely reformed the regulations sector, introducing radical sim-plification and speeding up the time required for the approval and execution of works. Through the CIPE (Inter-ministerial Com-mittee for Economic Planning) we have released resources for almost euro 40 billion, opening or keeping open many construc-tion sites and ensuring thou-sands of jobs. With the introduc-tion of project bonds, we have provided the country with an in-novative financial instrument that, among other measures, will allow us to attract private capital in the realization of strategic pro-jects. Credit and liquidity: this is one of the fronts we have been working on right from the start, providing companies with euro 20 billion of credit guarantees from the Central Guarantee Fund of the State, making it possible for companies to offset receiva-bles and payables with the public administration, and introducing the VAT regime for Cash. As of January 1, 2013, every new supply payment must take place within 60 days, as a result of the EU di-

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and the Minister of Economic Development and is shared, fi-nally, with all the players who have acted for many years with-out being sufficiently coordinat-ed: the Ministry of Agriculture, the Ministry of Tourism with ENIT (National Tourism Agency), the main trade associations, the Regions, and the Chambers of Commerce. The ICE (Italian In-stitute for Foreign Trade) was re-constituted on a new basis and with a well-defined mission. We have also initiated the rationali-zation of our foreign networks through greater integration be-tween the embassies, consulates, ENIT offices, Chambers of Com-merce, and the ICE itself. In or-der to attract foreign investment, the establishment of a so-called “Italy Desk” has been envisaged: that is to say, the creation of a sin-gle point of access for interna-tional investors. The same opera-tion of system coordination is now happening with the finan-cial support for internationaliza-tion, and the transition to the Deposits and Loans Fund of both SACE and SIMEST can be seen in this light. Two instruments of

great importance concerning in-novation are currently being eval-uated by Parliament: the Italian digital agenda and the develop-ment of start-ups to open up a new frontier of “doing business.” The digital agenda is a reference to industrial policy through inno-vation. Resetting the digital di-vide, starting ultra-wideband ser-vices, and digital services of the public administration to citizens and businesses are the corner-stones of this important reform of European breadth. As for start-ups, we have created a regulatory environment that is one of the most advanced and beneficial for the creation of innovative busi-nesses: reduced bureaucracy and very low initial costs, benefits for the first four years of operation, with tax incentives attached, a more streamlined and flexible contract of employment, the pos-sibility of involving employees in the capital of the company, rais-ing funds online, and a bank-ruptcy law that allows the entre-preneur to start over more easily. Artisans can be at the center of this new model. Combining Made in Italy know-how with tech-

nology is one of the routes for the development of the manufactur-ing industry. Italy holds many cards that it can play to this re-gard. We intend to move forward along this road, and as soon as our resources will permit it, we believe it is important to provide our en-trepreneurial system with a tax credit to encourage investments in research and innovation. Final-ly, another positive result to note is the agreement reached a few weeks ago by the social partners on productivity. This is an impor-tant agreement which will help recover a spread that has greatly expanded in recent years. The gov-ernment has made nearly euro 2.2 billion available for reducing tax-es on wages linked to productivity, illustrating the importance we at-tach to company contracts that increase productivity. The change in our country has just begun. We have charted a clear path with measures that could be taken with the limited resources and the limited time available, and today we already have an Italy that is more modern, more Euro-pean, and more competitive. Now we need to move forward.

We have begun to create a more modern and competitive country, providing it with an ecosystem of rules oriented toward facing the new challenges of international markets

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interviewIn

INTERVIEW WITH ALBERTO QUADRIO CURZIOTHE VITALITY OF ITALIAN PRODUCTION

There is still plenty of vitality in Italian industry. Despite the recession and increased competition from the East. Italy is still ranked fifth among the G20 economies for surplus tradeof non-food industrial products, after China, Germany, Japan,and South Korea.

by Paolo Piacenza

In this interview with Oxygen, Al-berto Quadrio Curzio – President of the Class of Moral Sciences, History, and Philosophy of the Na-tional Academy of Lincei and of the Center for Research in Economic Analysis (CRANEC) of the Catholic University – confutes a few of the cli-chés about the health of the domes-tic industry, but insists that the only direction Italy can take is the one indicated by the European Union: more research, infrastructures, and energy. Basically, a more favorable context for those who produce. Quadrio Curzio recently co-wrote a book with Marco Fortis enti-tled Industry in the 150 years of the Unification of Italy. Paradigms and protagonists, published by Il Mulino in the Edison Foundation series. This long-term analysis is very useful to reconstruct a pic-ture with the correct proportions.

What design emerges, Professor? And what is industry in Italy today? First of all, this analysis indicates that Italian industry has contrib-uted not only to economic and so-cial progress, but also to political-institutional progress according to the directives of important figures,

from Quintino Sella to Giuseppe Colombo. From the Renaissance up to the present, the situation has obviously changed greatly. In particular, in the second half of the twentieth century, Italian indus-trial capitalism was modified by a scarcity of large private and public groups, and the subsequent emer-gence of small businesses and their districts. More recently, the medi-um and medium-large businesses, also known as the “fourth capital-ism,” have established themselves. The manufacturing industry, however, is still the most competi-tive part of the Italian economy.

Are some sectors suffering more and others less, and if so, which are they? And how do we avoid losing pieces of productive assets and the pace compared to other countries?Italy’s strong points are mechanics, food, furnishing, textiles and cloth-ing, and design, according to the trade surplus. The term-concept “Made in Italy” that was coined for these manufactured products could be accompanied today by that of “Italian Made,” because many Italian companies are also strong in their production abroad, but have not lost any of their Ital-ian characterization. If Italy wants to be among the largest in the manufacturing world, its growth will have to rely even more on qual-ity, so that it may find strength in the medium-sized businesses be-cause the small businesses cannot make a go of it alone. Today, Italy is ranked fifth among the G20 econo-mies for surplus trade of non-food industrial products, after China, Germany, Japan, and South Ko-rea. It must not lose this position.

Some districts continue to show a bit of life. Can we consider them fundamental for Italy also at the beginning of the 21st century?The district as a socio-economic territorial system may still hold, but it must also be accompanied by business networks, which are non-territorial districts built on sectorial or cross-sectorial comple-mentarity. This is to increase their functional size without sacrific-ing the business subjectivity that weighs heavily on entrepreneurs. The 2009 regulations, recently finalized by the government, are

The completion and upgrading of infrastructure networks, not only for the transport of goods and people, but also for energy and telematics,is essential to start the growth

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outline the margins for improve-ment. As shown in the recent re-port of the European Commission (Member States Competitiveness Performance and Policies 2012 and attachments), among the weight-ing factors are inefficiency in the public administration of civil jus-tice, corruption, and fraud. These are all factors that place us below the EU average. In addition to the heavy tax burden, we are paying for another burden: Italy ranks among the worst in the EU for the quality of its infrastructures. This problem has obvious impacts on industrial competitiveness.

A weak point is research, both public and private: there are exceptions, but the overall pic-ture is not encouraging. Is it only a problem of resources, or also of strategy and courage? According to the available Istat data, our spending on research and development in recent years (2006-2011) was around 17 to 19 billion euros. More than half of the expenditure was incurred by the business sector. That said, it is important to place Italy in the European context. On the whole, Italy spends 1.26% of its GDP on research and development (2010 data). The EU-27 average is 2%, with some Scandinavian coun-tries reaching peaks of over 3.5%. Other major European countries such as Germany and France re-cord much higher levels than Italy, 2.82% and 2.26%, respectively. The problem of scarce resources invested in R&D is a constant for Italy. Between 2005 and 2010, the percentage of expenditure to GDP increased from 1.09% to 1.26%. At the same time, the EU average increased from 1.83% to 2%. This progress is too small to meet the objectives of the “Europe 2020” strategy, which sets the target at 3% (1.53% being Italy’s). There needs to be a change because without investments in research and de-velopment it will not be possible to follow the path of growth nor to maintain our competitiveness compared to Japan, China, and other emerging countries. But hav-ing few resources, the change must be in the use of the investments, and then come about through strong selectivity of spending.

Let us move on to the role of the public and the weight of macro-economic factors. The action of fiscal consolidation of the Ital-ian government and the choices of the ECB seem to have initiated a positive way to reduce finan-cial risk: how much is it and how much does the containment of the spread weigh on Italian industry? As we know, the crisis was born and raised in the USA. And be-tween 2008 and 2009, Euroland (EMU) believed that the crisis would have stayed there. Instead, in 2010-11 it became full-fledged. It was only in this year that many innovations that had been pains-takingly built since 2008 gained strength in the EMU. There were many weaknesses in the institu-tional framework of both Europe and Italy. All this also reflected on the macro-economic variables. Now a faint light at the end of the tunnel can be glimpsed, but there is still much to do to bring the crisis to an end. It is not enough that the interest rates and spreads of Italy (and others) have fallen. Certainly, having a spread of around 350 basis points from a peak of about 550 is also a result of the Monti government, which has once again given credibility to Italy in Europe. It is also thanks to Mario Draghi that important signals were given to the markets. The injection of liquidity by the ECB of 1,000 tril-lion euros with LTRO (Long Term Refinancing Operations) inter-ventions and then the prefigured OMTs (Outright Monetary Trans-actions) have restored stability to the banking and financial sys-tem of the EMU. There is still the problem of credit to businesses.

Austerity is not enough: the com-panies are saying it and even the European Commission has long expressed the need to focus on the revival of long-term invest-ments in transport infrastruc-tures, logistics, intermodality, energy, broadband, and next-gen-eration mobile networks. Would all this help Italian industry? I think it is essential to immedi-ately have an active strategy that needs to be based on two pillars: infrastructures and industry. First of all, the completion and upgrad-ing of infrastructure networks,

not only for the transport of goods and people but also for energy and telematics, is essential to start the growth. The priority therefore – for the whole economy and for reviving the industry – is invest-ment in strategic infrastructures. The European Commission has estimated financing needs for the years and decades to come. And they are huge: for energy, 1 trillion euros by 2020; for transport, 1.5 trillion euros between 2010 and 2030, of which 500 by 2020; for tel-ecommunications and broadband, 270 billion by 2020. Therefore, the Commission’s initiatives are ap-preciable, such as the “Connecting Europe Facility” and the “Europe 2020 Project Bond Initiative,” in which the European Investment Bank has a key role. Infrastruc-ture investments should also be accompanied by those involving European industry. According to the European Commission’s com-munication A stronger European industry for growth and economic recovery, industry should be at the heart of the European growth plan. The goal is to bring the weight of European industry from the cur-rent 15.6% to 20% of the GDP by 2020 through these directives: investment and innovation, mar-ket expansion (domestic and in-ternational), access to credit and finance, human capital and skills.

Another important element is the announced national energy plan. What should Italian in-dustry ask of the government? Italy needs a national energy strat-egy placed within the European and international context in which its major energy companies operate. In compliance with the rules on lib-eralization, there is a problem of en-ergy security that can never be over-looked. This is why the fact that Enel and Eni have remained outside the control of the government is impor-tant, as is the fact that the directors of these companies have been con-firmed by governments of differing majorities. It is a sign that their inter-national credibility is significant. In any case, the Italian energy problem to keep in mind is the geo-economic profiles for the development of trans-European networks and supply, through the wider Mediterranean and extending to the Middle East.

very useful for such purposes. I think the Italian difficulties in making the size of business grow can be at least attenuated – if not overcome. In particular, when there is a medium to large com-pany at “the center” of the “busi-ness networks” required by law.

Which factors would you high-light, in comparison to Germany?Italy’s North-East-Center (NEC, as Fua called it) has an industrial vocation that is very similar to Ger-many’s, while it differs from the latter in that it does not have many large groups. However, our coun-try is dualistic. More precisely, the North-West (with 1.7 million employees in 2007) and the North-East (with 1.3 million employees) are the first two macro-manufac-turing regions of the European Union. They have more employed people than North Rhine-West-phalia, Baden-Württemberg, or Bavaria. Impressive numbers that confute many clichés. The eco-nomic and legal context in which businesses are operated in both countries are quite different. Rather than focus on a compara-tive analysis, I would like to try to

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Even Brazil, an ever-increasing

power in energy and agricultural

production, is marking time: after

dizzying growth, its economy is

now traveling at a modest +1.5%

GLOBAL COMPETITION OF INDUSTRY

The major industrialized countries are moving in search of solutionsto the crisis; some are slowing down, others are exploringnew territories. An overviewof the sectors in which they are concentrated and the globalinterconnections that affect them.

by Carlo Marroni

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There was some news in recent months that practically went un-noticed. The largest bookstore chain in the world, the American Barnes & Noble, which tallies 689 stores, avoided recording a de-cline in sales in its financial statements thanks to the boom of the Fifty Shades trilogy. Nearly 30 million copies, the most books sold in recent history, even more than Harry Potter, then considered incomparable. A coincidence? Maybe. But it cer-tainly also signals an economic phenomenon that is being stud-ied not just by those who deal in books (and who rejoice, seeing as there are still readers who go to buy at bookstores). Globaliza-tion has flattened the world, as Tom Friedman described it so well years ago, and has allowed us to level the gaps and acceler-ate the spreading of trends. For better or for worse: first growth, then the crisis. Which since 2007 – the year of maximum overall ex-pansion in the post-war period for the entire planet – has been spreading progressively into the

scenariosSc

prospects of the world’s second economic power are central to the fate of almost all areas of the world, from the United States to Europe, from the Far East to South America, some of which belong to the exclusive club of the BRICS, the group of new economies (Brazil, Russia, India, and China, to which South Africa has been added) – and to which Turkey can be associated in dif-ferent capacities – which have driven growth in the past decade. Now, everyone is inexorably slowing down, and everyone is trying to find an original and ef-fective way to prevent the tumul-tuous growth from turning into a bubble. Since the beginning of the year, China has been growing at a rate of less than 8%, a dizzy-ing percentage for the West but which in those parts means be-ing almost stagnant if you think that in the fateful year of 2007 (IMF data), it recorded +14%. All this has resulted in a vertiginous rise in labor costs, to the point that, for new investments, Chi-nese companies now outsource

deepest folds of the real econo-my. But globalization now makes the value of excellence even clearer, as something which will trigger the recovery of the gener-al economy and its transverse segments (districts, nations, macro-areas, continents). Simi-lar to what happened to Ameri-ca’s largest bookstore, it will have learnt a lesson from The Shades experience for its busi-ness in the future. And it is pre-cisely from the United States (where the main aspect of the crisis developed with the mort-gage crisis, which was initially underestimated on Wall Street and in Washington, but also in Europe because of the specificity of “easy” American mortgages) that signs of a recovery seem to be coming, both concerning the GDP and the real estate market. But everyone is warning that this is a fragile and mild recovery, seeing as it has to dispose of the indigestion from debt that weighed upon American families in the decade of 1995-2006, the real motor of a system based over

70% on domestic consumption. For now, the push is coming from government spending, while the profits of Corporate America have disappointed shareholders. Analysts agree: the U.S. locomotive will resume run-ning only if there is a gradual de-cline in unemployment, which in some sectors – such as construc-tion – will have to come to pass through redevelopment, seeing as re-absorption does not seem likely. The most concrete per-spective for the U.S. economy is to bring production units which were outsourced years ago, espe-cially to China, back to the home-land as soon as possible. Now, production in the former Middle Kingdom is no longer so conven-ient. On the contrary. And along-side the activity of manufactur-ing and services, in America there is a very strong increase in revenue from the industry of ex-tracting hydrocarbons, particu-larly shale-gas, which is making the United States almost self-sufficient in the supply of natural gas. And then there is China. The

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to Vietnam and Burma. The new five-year plan, which will accom-pany the party congress at the end of the year when the new leadership – led by Xi Jinping – for the next decade will be re-vealed, will focus increasingly on products with high added value (and fewer cheap ones) and, at the same time, on a strategy that is oriented less toward exporting and more toward satisfying the domestic demand. In particular, also given the chronic shortage of raw materials for energy to meet the demand, it will be strongly focused on the produc-tion of electric vehicles and all technologies related to the green economy. Alongside China, there is India, which also has ex-perienced double-digit growth rates, highlighting particular ex-cellence in terms of information technology. But the great pro-ductivity boost has not been able to bridge the infrastructure defi-cit that afflicts the subcontinent, which slows the transit of goods and the flow of foreign invest-ment. And in fact, the creation of

high-speed railway lines will be one of the guidelines of New Del-hi’s economic policies. Which are also discouraged by the ex-ceeding difficulty in doing busi-ness (the power of interdiction by local authorities is still very high), an excess of statism, and the backwardness of the retail trading system that prevents the emergence of large retail chains essential for channeling the pro-duction of other areas of the im-mense country. Overcoming the crisis thus passes by way of struc-tural reforms, but these must overcome the political hostility. Even Brazil, an ever-increasing power in energy and agricultural production, is marking time: af-ter dizzying growth – in 2010 reaching 7.5% – its economy is now traveling at a modest +1.5%. The main cause is the slowdown in China, its main export market especially for raw materials. In addition, like the other BRICS, Brazil, too, must take into ac-count an increase in the cost of living and of work that clashes with an inflexible production

structure, given the govern-ment’s strong presence in the economy. Furthermore, the real is over-rated. The combination of these factors is fueling the temptation of the federal govern-ment to increase tariffs to outsid-ers, a matter that is considered unlikely, however, given the two key events that await the country: the organization of the World Cup soccer championships in 2014 and the Olympics in 2016, for which an expected boost to the GDP is taken for granted. In any case, the automotive indus-try is one of the leading sectors that Brazil is counting on in or-der to trigger a new virtuous cycle of growth. As far as Russia is con-cerned, even Moscow is working to diversify its economy, which is too dependent on exports of oil and gas. The post-crisis chal-lenge is to create a solid indus-trial structure of high added val-ue, especially in high technology, as evidenced by the project for the creation of Skolkovo, the Russian Silicon Valley. Japan, the former second world economy, is undergoing a profound transfor-mation in its traditional struc-ture. The large conglomerates (brought there in the Eighties and early Nineties) that operated in almost all areas have long been in crisis: large-scale diversi-fication no longer pays off, and the ongoing challenge is the re-focusing on specific areas of core business. In addition, the acci-dent at the Fukushima power plant and the subsequent deci-sion to abandon nuclear power (at least partially) is already pushing Japanese companies to shift production into the same areas where the Chinese are headed. At the same time, the government's intention to focus on technologies and renewable energy applications is clear. In Europe, where the exit from the crisis has aspects and dynamics that are quite specific due to the euro currency, Germany also dic-tates the agenda in maintaining the supremacy of the manufac-turing industry, which neverthe-less is marking time, especially in exports to China, where it had reigned supreme in luxury goods for years. In Germany, the excess

savings have not been reinvested in the country, and thus the in-dustrial system (which therefore cannot rely on substantial capi-tal loans on a domestic basis) must defend its competitiveness by raising the level of domestic production in terms of quality, research, and innovation. And in parallel, it is considered essen-tial that the process of upgrading the workforce through invest-ment in education be successful (the federal budget shows an 11% increase in 2012 in this regard), to increase the supremacy of high-end manufacturing. France has a head start in domestic re-search and innovation, also with a model of targeted outsourcing on the markets that will best pro-tect it. But beyond the Alps, the situation is difficult: confidence is falling, orders are taking a downturn, and there is a high de-gree of uncertainty, exacerbated by the super-tax on the “super-rich.” Furthermore, the model of large retail chains, the tradition-al marketing channel (also abroad) to a large segment of Made in France, is in crisis, espe-cially in the agriculture-food sec-tor. Finally, there is the case Afri-ca: the IMF estimates that, over the next 30 years, six of the ten countries with the highest rate of growth will be in Africa, where by 2060 – an estimate by the World Bank – a middle class of one bil-lion people will have been formed. So, as well as Nigeria and Angola – “oil” countries – and South Africa, which by now has become the continental loco-motive, we have to keep in mind Ethiopia, Mozambique, and the entire Maghreb area. Areas that will integrate more and more with each other, with privileged relationships, as well as with China and with the MIST coun-tries (a newly-minted neolo-gism): Mexico, Indonesia, South Korea, and Turkey, the latter as the new frontier, especially in telecommunications and finan-cial services. All countries that – along with others like Pakistan, Bangladesh, Vietnam, and the Philippines – have a young (and in some cases, very poor) popula-tion that is ready to enter the game of the new globalization.

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scenariosSc

The past decade has been a gloomy time when it comes to discussion of prospects for rich countries in manufacturing. The story has been one of a con-tinual loss of competitiveness and capabilities by the world’s most developed nations in fac-tory production. The result has been a steady shift of output to the low-wage nations, with China most firmly in the ascendancy.Now, however, the world is on the brink of a new era. This shift in fortunes of the developed and developing world in manu-facturing will begin to go into reverse. Manufacturing in the rich countries will stage a come-back. Behind this trend is a mix of factors, linked to technology, economics, consumer behav-ior and the operation of global supply chains and the internet.I have called this change “the new industrial revolution”1. The label is an effective way to sepa-rate the new era from the other big shifts in manufacturing that have taken place in the past. The “new” revolution is the fifth such change in history, as I explain later. At the heart of this switch is a simple proposition. Over the next 10 years, the proportion of global manufacturing done in the rich countries will decline at nothing like the rate experi-enced in the past decade, and may even see a modest increase. There will be crucial conse-quences for the world’s tradi-tional industrial leaders – the countries of western Europe together with the U.S., Canada and Japan. The new period will

THE FIFTHINDUSTRIALREVOLUTION

An analysis of the impending revolution in the manufacturing sector, an overview of the lessons drawn from past industrial revolu-tions and those of the present of economic crisis. And some social and economic benefits that a new revolution could achieve.

By Peter Marsh

coincide with a time of growing confidence for engineering and production businesses based in these regions. Job opportunities in these companies’ high-cost locations will be more abundant than elsewhere for a decade, par-ticularly for those people with a high level of technical skills.The new industrial revolution comes at a difficult time. For sev-eral years, the economies of the world’s rich nations have been in a highly fragile state. This has re-sulted from the 2007/08 financial crisis, coupled to its aftermath in the shape of high government and consumer indebtedness and a steep fall in business confidence, most notably in the eurozone. So politicians, business leaders and others will have every reason to welcome the period of change as marking out a time when eco-nomic optimism starts to rise, af-ter a prolonged period when it has been in extremely short supply.The advances in emerging econo-mies in the 2000-2011 period in manufacturing were led by China. They have also involved – albeit to a lower degree – oth-ers among the poorer nations, including India, Brazil and east-ern Europe and Russia. Key fac-tors have included the lower costs of production in these re-gions, mainly linked to wages. That has encouraged more companies to shift manufactur-ing there, even if the final con-sumer is in the western world. At the same time, the growing demand for increasingly so-phisticated factory-made prod-ucts in the developing nations has prompted more industrial investment in such locations.Resulting from this change has been a big move upwards in the amount of world manufactur-ing done in the world’s poorest, least developed countries. The figure rose from just 24% of total global production in 1990 – and 27% in 2000 – to 46% in 2011. It follows from this that the amount of the world’s manufac-turing done by the rich, “western world” has seen a big decline that has been particularly fast over the past decade. The figure has come down from 76% in 1990, and 73% in 2000, to just 54 % last year2.

China has been responsible for a large part of the shift. In 2000, China accounted for 7% of world manufacturing output. By 2005, this had risen to 9.8%. Over the six years to 2011, China’s share doubled to 19.8%. That put China above the US in terms of share of factory production. It was a historic change: 2011 was the first year for more than a century in which the US was anything other than the world’s top coun-try in terms of factory output. China’s rise has been much more impressive than that of any other country in the emerging mar-kets bloc. Over the 2000-2011 period, Brazil’s share of world manufacturing production went up from 1.7% to 2.9%; India’s increased from 1.2% to 2.3%; while the equivalent change for Russia was from 0.8% to 2.3%.The mirror images of these changes have concerned the de-veloped world. The US’s share of world manufacturing out-put went from 27.1% in 2000 to 18% in 2011 ; over the same period the equivalent number for Japan slipped from 18.3% to 10.2%; for Germany, the drop was from 6.9% to 6.4%; and for Italy it went from 3.6% to 3%. These figures require some his-

torical context. China being the biggest manufacturing nation in the world would have been – just 20 years ago – very hard to im-agine. But in 1800 – for anyone who was fully aware of global economic trends – China as the largest manufacturing power was an incontrovertible fact. Indeed, for several hundred years until around 1840, China was top of the world league ta-ble in industrial production. (Of course, no one counted up “in-dustrial production” back then. Also the modern word “factory” had barely been invented. When I use “industrial production” in reference to past eras, I refer to output of material-based goods using human labour and ideas.)In 1800, China’s share of world factory output was 33%, just ahead of India. In that year, what we now call emerging econo-mies were responsible for 71% of world production, with the nations now categorized as the western world accounting for the remaining 29%.  It is simple to work out why this was the case. China, India and the other na-tions in what we now label as the poor world were much more pop-ulated than other regions such as western Europe and North

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America. Manufacturing then ex-isted only in a rudimentary form. The productivity improvements clustered around modern manu-facturing – leading to the pos-sibility of higher output per worker due to technological en-hancements – had yet to be invent-ed. So when it came to manufac-turing capability, output roughly went alongside worker numbers. The more people a country had, the greater would be its output. But changes were on their way. The first industrial revolution – what most people call THE In-dustrial Revolution – made big productivity advances possible in factories making a range of goods from textiles to machine tools. As a result, countries with small populations, and with a cor-respondingly small number of people in factories, for the first time could punch above their weight in industrial output. The first industrial revolution took place starting around 1780. It had a powerful and growing impact on the world for about 50 years. Its biggest and most im-mediate effects were in Britain. The shifts resulting from the first revolution were linked to changes in the mechanization of textiles production, the emerging disci-

plines of metallurgy and the ad-vent of steam power. The changes fed through to other areas of in-dustry. They meshed in with other key movements – for instance, in the advent of new forms of com-pany organization; higher rates of literacy resulting from better education; and improvements in agriculture and food supply. The first industrial revolution – with its impact accelerating dur-ing the 19th century – was why Britain took over as the biggest country in terms of factory pro-duction just before 1850. Brit-ain’s position as number 1 in manufacturing only lasted for about 50 years. By around 1895, the US had usurped Britain as the leading country by this measure. It held this position until 2011.Britain’s tenure as the biggest country in manufacturing out-put – at its peak in the late 19th century the country was respon-sible for 15-20% of world indus-trial production – was also due to the second and third revolu-tions in the sequence. Both of these were also centered on Brit-ain (although other countries, notably Germany, France and the US also played strong roles).The second revolution was the transport and communications

revolution. It began around 1850. It took shape around improve-ments in ship construction; the emergence of railways (driven originally by steam power); and the invention of the telegraphy. The third revolution was a broad set of changes based around new scientific thinking. Key disciplines were maths, chem-istry and physics. The shift had its impact from 1890 onwards. Resulting from this was the availability (for the first time) of electricity on a “made to order” basis. This new form of power was capable of driving a range of disparate industrial processes. Linked to this were chang-es in production technolo-gies leading to (among oth-ers) cheap and plentiful steel and a broad spectrum of new chemicals, among them drugs, dyestuffs and industrial com-modity such as sulphuric acid. The fourth industrial revolution had its impact well into the 20th century. Taking shape around 1950, and with its effects gather-ing momentum for 30-40 years after this, the fourth revolution was about computers and elec-tronics. It made the personal computer, high-speed data rout-ers and the Internet all possible.The impact of the first four revo-lutions was largely confined to the rich countries, as they are currently defined. It was why these countries – which were the first to gain from the fruits of modern industrial development starting from around 1800 – had not only leapt ahead in the early years of this era but had stayed ahead. The period in which these countries remained in the lead lasted until around 1990.It was only after this that the changes ushered in by all the four periods of industrial shift built up sufficient momentum for their impact to be felt by countries outside the main de-veloped bloc. This is how the leading emerging nations led by China started to become im-portant industrial players for the first time in about 150 years.What lies behind the new – the fifth – industrial revolution? And how will this affect the world? There are seven factors be-

hind the new period of change. The first of these concerns chang-es in technology. A wide range of new technologies – concerning electronics control, materials science, nano-technology, and new forms of mechanized pro-duction (involving ideas such as “additive” manufacturing, built around new generations of 3D printing machines) – will have an impact. In most of these ar-eas, the rich countries of the US, Japan and western Europe have made the biggest advances. They will also turn out to be the big-gest beneficiaries of the changes.A second factor concerns greater requirements for product cus-tomization. This refers to the increasing “tailoring” of prod-ucts, from consumer gadgets to industrial machines, to suit the requirement of the user. The shift is likely to necessitate manufacturing closer to where the goods will be used, so that the necessary design changes can be incorporated most effectively. In cases where the products’ cus-tomers are in the developed na-tions, it will therefore often be more sensible to base production in these places, rather than in an emerging country some dis-tance away, even if production costs are lower there. Changes in technology are in step with the increased requirement for customized goods – including more sophisticated methods of automation. These make it eas-ier and cheaper to make a small series of goods honed to meet the requirements of customers.A third aspect concerns the growth of global supply chains and information networks (the latter building on the internet). These changes will give a new competitive advantage to manu-facturing companies based in high cost nations. Even when they choose to base the physi-cal production of goods in low-wage nations such as China, the high-cost country will often be in a better position to act as the home for research and develop-ment activities. Here, businesses will be able to employ relatively large (and well paid) labour forc-es, not in the physical aspects of production but in the “soft” side

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tion is likely to become the first big shift in manufacturing in which the threats to the global environment stabilize – or recede somewhat – rather than increase. By making use of some if not all of these seven factors, a range of industrial companies and based in high-cost nations will find they may emerge over the next 10-20 years in a stronger condition. Businesses in a good position to exploit these ideas include big and small groups – taking in well-known names as well as companies barely known outside their own industrial sectors. They include: Luxottica, a Milan-based group that is the world’s biggest maker of spectacle frames and which produces its items in a highly diverse and high-tech set of processes centered on produc-tion bases in Italy, China and the US; Trumpf, a German busi-ness that is the world’s biggest maker of laser-cutting machines for metals, and whose competi-tive advantages lie in combining technological advances with abil-ity to connect up with thousands of customers globally; ABB, a Swiss-Swedish engineering giant that makes new forms of auto-mation plus electricity distribu-tion hardware; Whitford, a US maker of fluoropolymer coatings for an immense array of applica-tions from oil platforms to the food industry; Strix, a UK-based company which is the world’s biggest maker of kettle thermo-stats and has extensive manu-facturing operations in China; and Oiles, a Japanese maker of lubrication-free bearings.The original Industrial Revolu-tion boosted the prospects of manufacturers – which hap-pened to be mainly concentrated in the rich nations. Now that factory production is more wide-spread, the results of the new industrial revolution will have an impact virtually everywhere. However, the initial effects will be felt most keenly in the rich world. During the 1800s, the first Industrial Revolution was a key factor driving manufactur-ing growth in the Western world. As the 21st century progresses, the new industrial revolution is likely to do something similar.

sometimes flexible steel pipes for industries from energy explora-tion to medical equipment; and high-precision pumps for use in the food industry, aircraft pro-duction and fluid sampling, for instance, for the health industry or environmental management.The sixth key factor concerns the growing importance of small clusters of companies and re-search organizations – often versed in complementary or identical technical disciplines – that are concentrated in the same small geographical region. Such clusters are mainly to be found in advanced industrial economies. They are by no means new. But their impact will become greater in the new industrial revolution. That is, as the the forces of glo-balization make it possible to am-plify the impact of technological and marketing verve in a specific location to many more parts of the world than would have been possible in earlier eras. In the new era, small concentrations of industrial expertise – perhaps in a corner of Italy, Germany or the US – will use global supply chains and support networks to have an effect in a scattered way in many far-flung parts of the world.The final point is linked to the way environmental factors are playing a part in influencing how companies operate. In the past, manufacturing companies were almost always associated with despoiling the environment. This happened either through pollu-tion during production process-es, or in the way the goods were used after they left the factory. Now, environmental factors are being used by companies much more positively, as a potential competitive advantage. Com-panies in sectors from electric motors to car production are investing in new manufacturing methods or novel types of prod-ucts to make their businesses much more “environmentally friendly”. New industries – such as production of photovoltaic cells and wind turbines – have emerged. Their purpose is not only to make money for their investors but to reduce the envi-ronmental dangers affecting the world. The new industrial revolu-

of manufacturing concerned with the intellectual effort of making new goods possible.The fourth factor concerns the rise of China. The relatively sud-den re-appearance of this coun-try as a manufacturing power has given a huge impetus to the glob-al activity of goods production. It is possible to regard China’s rise as a threat. Indeed, this is how the country has been viewed in many quarters, not least by manufacturers based in high-cost nations that have seen new factories based in China emerge as powerful competitors. Howev-er, the way China fits into global supply chains can also be viewed as providing a potential help to a company based in the developed bloc. The production capabili-ties of a China-based industrial site can be leveraged to good ef-fect by being used as a supplier. China is also an important new market for companies that make new sorts of industrial and con-sumer goods and are based in the West. Moreover, the direct com-petitive threat of China-based production operations will be reduced (but not go away alto-gether) as a result of the higher wages and other costs starting to make their presence felt in ChinaFifth is the emergence of new in-dustries based on extremely nar-row areas of production (and re-lated service activities). These are the so-called “niche” or “sliver” sectors that barely existed in the past. But today – due to changes in technology and industrial organization, plus the new pos-sibilities that exist for selling globally using the Internet and better transport links – such nar-row sectors are becoming more viable as an area in which small industrial businesses can often compete on a global basis. In most cases, niche companies are found in Western nations, rather than in the emerging economies. Examples of these new niche businesses include: the manufacture of high-speed air-bearing spindles for drilling machines; production of new forms of specialized lighting us-ing semiconductor-based light-emitting diodes; the production and servicing of ultra-thin and

(1) “The New Industrial Revolution: Consumers, Globalization and the End of Mass Production”, published in June 2012 by Yale University Press.(2) In this article poor nations – which can also be called by other terms such as “developing”, “newly industrialized”, “emerging” and so on – are defined as all the countries outside the “rich” or “developed” parts of the world, otherwise labelled as “the West”. The definitions are based on world conditions of the late 20th century. In earlier periods, when the differential in terms of wealth between Europe and the US and other parts of the world was far less than today, different definitions would have applied. In the present day, “the West” is categorized as the 15 EU nations prior to enlargement of the EU bloc in 2004 (Germany, Italy, France, the UK, Sweden, Denmark, Finland, Luxembourg, Belgium, Netherlands, Spain, Greece, Portugal, Austria, Ireland); Switzerland and Norway; the US and Japan; and Australia, New Zealand, Canada. My data for manufacturing output is based on calculations by IHS Global Insight, a US economic consultancy. Further details on the derivation of the figures are given in my book.

Further readinghttp://blogs.ft.com/beyond-brics/2012/08/27/levelling-out-emerging-markets-and-the-new-industrial-revolution/#axzz2A12AiEQV;

http://www.ft.com/cms/s/0/dd9634d0-affd-11e1-ad0b-00144feabdc0.html;

http://www.ft.com/cms/s/0/b59678b4-313b-11e1-a62a-00144feabdc0.html

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BUSINESSES THAT THINK IN NETWORKS

A resource for creating relationsof exchange and support among the companies that have to deal with this current time of economic crisis and changes: the network contract as a guiding toolfor aggregation and inter-firmcollaboration.

by Aldo Bonomi

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contextsCo

During the Marcegaglia Presidency of Confindustria, I was entrusted with the creation of an ad hoc pro-ject: to boost the aggregation of businesses to improve competitive-ness and innovation of the Italian entrepreneurial panorama. So on October 28, 2009, this gave rise to the Confindustria agency, RetIm-presa, aimed at creating favorable conditions for dissemination and aggregation through the then-new tool of the network contract. Only three years after this form of con-tract was introduced into the na-tional legal system, at least 458 net-works have come into being, with the participation of 2,469 compa-

nies from all over the country. Companies have long been en-gaged in forms of collaboration and integration, and the aggrega-tions that formed spontaneously have become the heritage of Italian companies. However, entrepre-neurs today underscore their will-ingness and interest to work for the creation of specific, shared, and well defined programs, but they aim to do so while maintaining in-dependence and autonomy in the management of their business. Therefore, the network contract is one more chance for businesses with respect to the traditional ag-gregation mechanisms such as mergers, consortia, ATI, and joint ventures. This is a cultural leap to-ward aggregation that is not only numerical and quantitative but a reasoning that concerns a com-mon program to help businesses grow together, enlarging the radius of action in order to achieve their very demanding objectives individ-ually. The development of ICT has made it possible to overcome those mechanisms of purely territorial cooperation that have proven to be inadequate to meet the increasing relational, informational, and eco-nomic exchanges of businesses. Although starting from the speci-

ficity and local traditions, it is nec-essary to expand the size of the dis-trict by building more extensive and extraterritorial collaborations that can improve the competitive-ness of the domestic and foreign markets. While by definition the district refers to a local and limit-ed phenomenon in which compa-nies specialize in a particular sec-tor, the network concept covers the ideal of broader collaboration, not only based on geographical proximity but also on real and ef-fective opportunities to increase competitiveness through the ex-change of technologies, informa-tion, and knowledge. This is why the network, bringing together companies from different sectors that may find advantages in the mutual exchange of knowledge and skills, responds to the request to overcome localism and appears to be the natural evolution of the collaborative model of the modern production system. The network contract is the tool that has suc-cessfully responded to the request of businesses for a reference guide that makes their collaboration even more effective, a scheme to follow, albeit in a flexible way, that ensures their entrepreneurial au-tonomy. The network contract

provides streamlined governance, free of bureaucratic superstruc-tures that complicate operations, but without relinquishing the es-sential pragmatic elements. The highly innovative scope of this tool enables networks to acquire a well-defined and easily recognizable structure, bound only to the object of the contract and as stipulated in the joint program. The network contract, modeled on and “tailor-made” to the characteristics of its contractors, is effective and adapt-able to the needs of companies of all types and sizes in every econom-ic sector. These peculiarities make the collaboration tractable on the inside but extremely solid outward-ly. The new model encourages both organizational and productive in-novation processes: it is a philoso-phy that embraces a broader view of economic relations, attempts to overcome the “small is beautiful” belief, and holds that networking is useful and convenient for meeting the challenges of the market and improving a business’ economic performance. In fact, very often businesses that are too small or under-resourced cannot manage to enter or successfully remain in the international markets. It is precise-ly in this difficult period of stagna-tion in domestic consumption that internationalization has emerged as one of the goals most often in-voked by an overview of the net-work programs: 78 of those who signed have declared their objec-tive to be the development of inter-nationalization projects to inter-cept new business opportunities across borders. Among the most interesting initiatives reported in this issue are the cases of Five for foundry, the first network of inter-national scope including French, Polish, and Czech companies, and the case of the Italian Technology Center network contract, whose objective is to penetrate the Indian market. In a context of growing scarcity of resources, the network acquires a strength and dimension capable of showing its interlocutors growth and reliability. In this sense, public banks and institutions can evaluate the advisability of allocat-ing financing also through the as-sessment of the validity of the entre-preneurial projects presented in the network. The so-called network

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The networkcannot bethe only solutionto the crisis, but should be an instrument of industrial policy made availableto the system for best dealing withan unfavorableperiod and timeof changes

rating can be decisive and even ex-ceed that of the individual compa-ny. The network cannot be the only solution to the crisis, the panacea for our businesses, but it should definitely be an instrument of in-dustrial policy made available to the system for best dealing with an unfavorable period and time of changes in the relations between the territory and the economy. It is a tool that Confindustria and our company has believed in and sup-ported right from the start. Like-wise, the government has enacted a significant measure to support net-working companies: the suspen-sion of taxes for the portion of in-come for the year that the individual companies allocate to the realiza-tion of the investments planned by the network program. The amount of the tax benefit provided by the State was euro 48 million for the three-year period of 2010-2012; we consider this benefit indispensable and are working to ensure that the amount is increased to euro 100 million for the next three-year peri-od. The contributions of the insti-tutions is important: there are more and more tenders promoted by the Regions, Provinces, Cities, or local Chambers of Commerce to grant financial aid in favor of busi-ness networks and the MIUR has also set up a competition for the development and expansion of the National Technology Clusters. Im-portant measures were included in the Decrease Decree for the net-works of the tourism sector. One of the conditions to qualify for the tax relief is the precautionary assevera-tion of the network program car-ried out by authorized and recog-nized bodies. For this reason, in June 2011, RetImpresa created the company RetInsieme srl, the assev-eration body that, in two rounds, has certified 68 network contracts. In addition, the networks have fa-vorably come to the attention of the EU institutions: just recently there has been an important acknowl-edgement by the European Com-mission, which included an entire chapter on clusters and networks in its European Competitiveness Re-port 2012, recognizing their posi-tive role in reaching critical mass, exchanging information, and ex-panding the industrial capacity of businesses. In recent months, the

European Investment Bank (EIB) has also activated support for the networks, establishing a euro 100 million ceiling. Consequently, we have had frequent contacts with the Office of the Commissioner Antonio Tajani to allow the net-works to access the structural funds and various funding of the next EU plan for 2014-2020. In re-cent years, we have embraced all the aspects of Business Network-ing: promoting studies and re-search in the academic world, collaborating with business as-sociations, and creating impor-tant synergies with the banking system to have better access to credit for networking business-es. All this in order to try to reach the goal, established at the begin-ning of this Presidency with Gior-gio Squinzi, of 2,000 network con-tracts by 2016. Together with Un-ioncamere, the Italian union of chambers of commerce, and the Bruno Visentini Foundation, we have been promoting “The net-work laboratory” for the develop-ment of studies and analyses on network contracts, and in March, together with the Tri-Veneto Inter-Regional Committee of the Notar-ial Councils, we presented the “Guidelines for the network con-tract,” a tool for professionals and entrepreneurs to find useful, prac-tical instructions for the prepara-tion of the network contract. For

companies, credit is still the real obstacle to the activity of growth-oriented business: that is why we are working to instill the concept of “rewarding” the networking busi-nesses and therefore ensuring bet-ter conditions and specific finan-cial products. For now, we have stipulated agreements with Uni-credit Bank and the BNL and just a few days ago, initiated a collabora-tion with the Carige Bank. There have been many achievements to date and they represent a major step forward, but our action must continue in order to make the net-work contract even more structural and authoritative. We have dedi-cated attention and commitment in order for business networks to be included in the forms of aggre-gation admitted to the participa-tion in competitive bids. We be-lieve it is possible and our meeting with the Authority for the Supervi-sion of Public Contracts was an occasion that provided new infor-mation that will hopefully find ap-plications in the simplification measures currently under discus-sion. The latest initiatives under-way regard job training and work: the “School-Business Network” project, that aims to monitor the synergies existing at the national level and those that are under con-struction, was presented on No-vember 23rd in Verona as part of the fair “Job&Orienta.” The initia-

tive WIN (Work In Network), a tool of active policy for work, is a pro-ject that has been established for the management of human re-sources within the network, for facilitating the use of labor and with positive effects on employ-ment and, hence, on growth. There is no doubt that the networks are now a reality and a viable alter-native involving the economic pan-orama, nationally and beyond; by joining forces and starting to work with larger and more stable compa-nies, small businesses, too, maybe able to grow and deal with the crisis as a constructive change and, thus, emerge strengthened.

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A NEW ECONOMIC RE-NAISSANCE THAT COMES FROM SMES

About 18% of Italian exportscomes from the artisan world.50% of the SMEs.A rebalancing is happeningin favor of the smaller companies that have been able to protect very vertical slicesof the market, a reorganization of the geographic marketsfor the benefit of the emerging economies, especially Asian ones, that have always livedin admiration of Italy and the quality of our craftsmanship.

by Andrea Di Benedettoand Luca Iaia

“The effective use of knowledge required not only the ability and incentives to create or have ac-cess to a new technology, but also the expertise to use them and to perform the instructions contained in the ‘blueprint.’ Much of the knowledge applied by craftsmen and engineers was ‘silent,’ in that it was not for-mally described in the ‘recipe’ used for the production, but was the result of shrewdness and know-how based on experi-ence or imitation.” (Joel Mokyr)

“The error that the economic system is paying is that of be-ing based on a short-term vision and the model of organizational flexibility, instability, and speed in adapting to change. This was so also in the management of human capital. Not much was invested on knowledge and in recent years workers have been able to acquire only an incom-plete experience. The crafts-man model of the past teaches us one important thing: the sense of time. It took years to become a master in the olden days. The workshop today is a small business, which is why it should be supported as a model and should be placed in a position to invest in people. Today growth helps more than flexibility.” (Richard Sennett)

scenariosSc Writings from two very differ-ent eras. Both of them, however, point out the existence of an invisible capital that is miss-ing from the company balance sheet, which is composed of the know-how and experience of the people who work there. This capital is even more significant in percentage terms when the company is industrialized and has deeply formalized processes.Joel Mokyr identified the wide-spread availability of highly spe-cialized skills as a key factor that could sustain the innovation of the English industrial revolu-tion; in our day, Richard Sennett identifies the model of the small business as the only one able to invest in knowledge in the long term, ensuring a cultivation of skills and a rapid infusion of new forms of communication. Our country's levels of spending on research and development in the private sector are undoubted-ly lower than the European aver-age and less than half of the aver-age of France and Germany. The blame for these numbers normal-ly goes to the fragmented system of the small company with little diffusion that is unable to invest in research and development. However, we are convinced that this is a problem of measurement: it is clear that if the rate of R&D is evaluated by the number of pat-ents or the “tax” capitalization of investments in research, most in-novation produced by small busi-nesses is transparent, because it is fragmented and incorporated into the production function.Small companies are constantly forming their employees (some-times only one) in the art of work and attention to detail, convey-ing history, traditions, and cul-tural know-how. The production processes are optimized for the successive steps, efficiency is im-proved regularly, the products are modified to always follow the needs of the market. Knowledge and innovation, sure enough. So what does this sector need to boost growth? A document of the Ministry of Economic Develop-ment (DG SMEs and cooperative bodies – Div VIII) describes the artisan world as “a sector of the Italian economy of unfinished

modernity, in the sense that it has not shown a clear evolutionary path toward an entrepreneurial dimension, which today is a win-ner in the market. As a matter of fact, the modern enterprise has the ability to control the domestic and foreign competition, to oper-ate on a global scale, to exploit the potential of ICT, and to have high-ly innovative production tech-niques.” Thus: entrepreneurship, digitization, technology transfer. A culture of entrepreneurship is lacking; there is a strong need to connect schools to the business world. There are many experi-ences, also successful ones, for transforming research into start-ups, and to initiate young talents into the work world. But in our training, there is still no transver-sal education in business: this is missing in the DNA of a nation with a manufacturing vocation which based its foundation on manual skills and quality of pro-duction, and on the awareness of the scientific nature of doing business. It is therefore neces-sary to be able to innovate edu-cational processes and interact with educational institutions at all levels: the change we need will be possible only through a greater involvement of the younger gen-eration and a massive injection of “digital” and managerial skills. About 18% of Italian exports comes from the artisan world. 50% of the SMEs. And the trends that show a democratization of the internationalization are reas-suring from both the commer-cial and production standpoint, thanks to the lowering of costs and the reduction in the num-ber of intermediaries needed, mainly because of the Internet. A rebalancing is happening in favor of the smaller companies that have been able to protect very vertical slices of the market, a re-organization of the geographic markets for the benefit of the emerging economies, especially Asian ones, that have always lived in admiration of Italy and the quality of our craftsmanship. Finally, there is a phenomenon of increasing interest from the international demand for Made in Italy products/servic-es – even lesser known brands

but which are rich in crafts-manship, history, and culture. And last but not least, the small business has a big gap in the awareness of its potential and appeal for new talent: it has al-ways played a central role in our economy, but not in our collec-tive imagination. In fact, it is not enough to produce a huge percentage of the GDP and repre-sent the majority of the business scene: cinema, literature, and the media have always stressed an industrial Italy of the Sixties, the time of the economic boom driven by state-owned industries. There was a lack of communica-tion skills and attention on the part of all the media, which disre-garded a vital part of the country. The attention to beauty, history, and culture has always been there: however, the ways and means to recount them have changed. The combination of so many winning stories can create an epic for a production world that is coming into being: this could be the key to an economic revival that is based on culture, territory, and busi-nesses considered as “knowledge processors,” i.e., capable of trans-lating knowledge into economy. The global challenge from the point of view of productivity will be played on the ability to manage complexity: efficient models of interaction among the distribut-ed production systems, a rethink-ing of the supply chains to make them shorter and more effective, to redraw districts not in terms of geography, and to combine profit with the development of the area, the traditions, and Italian history.Cultural industry, Made in Italy, and companies will have to inter-act on increasingly international platforms that are attentive to the quality of the products and services offered. All accompa-nied by modern technologies and services resulting from a mas-sive digitization of businesses and the public administration. The challenge we are faced with is to bring the small business and craftsmanship to a finished mo-dernity, and it is a challenge for the nation. The growth potential of the sector is likely to be perhaps the only chance we have to restart our economy. A new Renaissance.

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scenariosSc

The crisis that has thrown our economy into a recession that is more severe than any others our generations can remember has had at least one merit: it has corrected the simplistic deduc-tion that tended to be drawn from globalization, namely that, due to the differences in the cost of labor and raw materials, our industry or the production of things would move entirely to the emerging countries – China, Brazil, India, and the like – and Europe would have to prosper exclusively on services and fi-nance, on immaterial production. This simplistic prediction is somewhat reminiscent of the one by John Maynard Keynes who, in 1930, theorized that by 2030 we would be living “in a state of abundance, satisfied and finally free to embrace the arts, recrea-tional activities and poetry, hav-ing been freed from economic activities such as savings, the ac-cumulation of capital and labor.”Even great economists can make erroneous predictions. And now, after years of financial intoxica-tion, we find ourselves dealing with a European economy that has been greatly weakened, and with the need to strengthen, revitalize, and renew our indus-trial sectors whose know-how is crucial for defending our competitive factor in order to cope with global competition. The validity of this diagnosis has also been recognized by the Eu-ropean Commission in its recent communication to the European

NEW VALUES FOR A NEW INDUSTRIAL REVOLUTION

In order to overcome the crisis, the decline in the role of industry be must reversed.And to do that, work needsto done on the cultural levelas well as on the structurallevel. In Italy in particular,it is necessary to rebuild industrial pride by focusingon values such as the individual and the environment.

by Gianluca Comin

Parliament entitled A Stronger European Industry for Growth and Economic Recovery,1 which recog-nizes that to overcome the crisis in a lasting and sustainable man-ner, Europe must “reverse the decline of the role of its indus-try in the twenty-first century.”However, the view is not to re-vive the old industrialization as we knew it – which guaranteed growth to the continent for sev-eral decades – but to enter into a new industrial horizon based on new companies and new in-dustries; those of the new ma-chines for the production of goods (such as 3D printers); of micro-electronics and nano-technology; of biotech and new materials; and finally, of sustain-able mobility and smart grids. These are growth sectors on which Europe will be able to build its future prosperity through a de-termined and coordinated effort. And which will surely be carried out through structural reforms, such as reducing bureaucracy, investments in research, and a fiscal framework that encour-ages productivity and innovation. But the re-industrialization of our continent also involves a cul-tural aspect that is undoubtedly “softer” but no less important: the restoration of pride to indus-try itself. This is a very significant issue at the European level, but one which is particularly rel-evant if we look to Italy, which has always founded its growth upon its industrial fabric, from the economic boom onward. The financial excesses of the last fifteen years, followed by the harshness of the crisis, seem not only to have weakened our productivity, but also the proud consciousness of Ital-ian entrepreneurs of their role in society. It seems that the country has forgotten that its well-being has been built pre-cisely on the courage and ambi-tion of a true culture of “doing.”Therefore, on the one hand, entrepreneurs are losing confi-dence in the future of the coun-try (Istat's Economic Sentiment Indicator went from 90.4 to 76.6 between October 2009 and Octo-ber 2012), and on the other hand, Italians are losing their aware-

ness of the role that business can play in building this future and no longer look upon it with the pride that is characteristic of the Germans or the French.This is confirmed by research opinion polls such as those car-ried out by Demos PI:2 in answer to the question “What aspect makes you proud to be Italian?” today only 8.7% of Italians an-swer “our economy and our entrepreneurs.” This is a sharp drop in percentage compared to 2008, when 14.8% of those inter-viewed responded in this way. But that is not all: in answer to the question “What are the characteristics that distinguish Italians from other people?” only 7.4% responded “our entre-preneurial capacity:” much less than the percentage of those who responded “our attach-ment to the family” (25.3%), “the art of getting by” (20.4%), and “creativity” (14%). Finally, only 11% of Italians consider busi-nesses as a “social group that will change the country,” while 46% consider it to be the young people and 12% the schools.These numbers reveal a clear need: if our country has to begin again, starting from industry – and thus leaving behind the years in which we talked more about finance and incentives than in-novation and investment –, a lot of work will have to be done on the level of our culture and reputation by retrieving the val-ues that underlie industrial pride and improving its perception on the part of public opinion. A re-covery that has strong pillars of values on which to build and from which to commence: putting peo-ple first, the emphasis on quality, respect for the rules, and social and environmental responsibility. Putting people first is a core value that industry must still be able to make its own if it wants to drive the development of the country. A value that implies the ability to put people at the center of the development of the country and which comes to pass through the optimization of human capi-tal, talent, and safety at work. Then there is quality, that indis-pensable cornerstone of Italian and European industry; quality

After years of financial intoxication, we find ourselves dealing with a European economy that has been greatly weakened, and the need to strengthen, revitalize, and renew our industrial sectors

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that goes hand in hand with pas-sion, creativity, and technological excellence. These are not empty words: the emphasis on quality as a production strategy, but also as an “industrial ideology,” is a radical option that involves the key roles of research, innovation, and even business ethics aimed at the continuous improvement, and the rejection of second best. This is a choice that has al-ready been courageously made in many sectors of our industry, but which must be an immedi-ately recognizable attribute of any product that is made in Italy. Another fundamental value on which to rebuild our industrial pride is respect for the rules. All too often, in the common per-ception, the figure of the entre-preneur is linked with the defi-nition of “evader,” and industry is perceived as being “above the rules.” Yet there are many expe-riences that demonstrate how industry itself can act as a center for inculcating the value of legal-ity as a means to ensure effective competition on the market: the initiatives of the Confindustria against the Mafia in Sicily, agree-ments on legality for large com-panies and government agencies, such as the one signed last May between Enel and the Ministry of the Interior. All of these are efforts to stress that good rules can be an instrument of shared growth, and not an obstacle to development. Finally, a new industry cannot be established unless it has a strong sense of social and environmen-tal responsibility, right from the very start. Especially at a time of crisis, the role of business must go beyond the maximization of profit and be able to create value for the society in which it oper-ates. In this sense, the dimen-sion of the responsibility must be integrated into the heart of the business, going beyond the con-cept of giving back (or returning part of the profits through phi-lanthropy) and moving toward the ability of the businesses to create value that is shared with the communities in which they operate. Because the society that works best, where the needs of the citizens, the environment, and the communities are proper-

ly considered, is the society that also benefits from its business. It is around these values that industrial pride can be re-estab-lished in the perception of the country. But it is essential that this new foundation not be re-duced to a mere revival of the success stories of our past. On the contrary, a new industrial epic should celebrate the “build-ers of the future” of our industry, and their already courageously demonstrated adaptability to the great paradigm shift in the global economy, made up of new com-petitors, new ways of working, and fast and complex decisions. This new industrial epic has to win over the younger gen-eration, which often cannot find within the education system the inspiration that is needed to understand the importance of industry in the reality in which they live: in this sense, industry will have to go into the schools, and the factories will have to open their doors to younger generations. In short, the new industrial revolution must also be a revolution in education.

Note1. Communication from the European Commission to the European Parliament, A Stronger European Industry for Growth and Economic Recovery, Brussels, 10.10.2012 COM(2012) 582 final.2. Sources: Demos & Pi Survey for Intesa Sanpaolo, 2011 (based on 1,044 cases); CambItalia of Demos & Pi Survey for the Republic of Ideas, 2012 (based on 1,300 cases).

A society that works best, where

the needs of the citizens, the

environment, and the communities are properly considered, is a society that also

benefits fromits business

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START-UP MENTALITY

“When faced with change, the multi-national giants stumble and fall.” So in order to keep up with the pace of change, the model to follow is that of the start-ups: because they are the basic unit of the cloud economy, are very adaptable to change, and incredibly effective in doing a single thing.

by Riccardo Luna

Let’s start with a novel. It is called Makers and was written by Cory Doctorow a few years ago. One of the key phrases is: “In the future there will not be names like Gen-eral Motors, General Electric, or General Mills, but new businesses called Local Motors, Local Elec-tric, Local Mill.” That sentence captured the dawning of a phe-nomenon, which would then have the honor of being on the cover of two issues of “The Economist” and the subject of various essays on the so-called “third industrial revolution.” That of the makers, or that is, of personal fabrication and of the factory which is the networking and which demateri-alizes to become, at a minimum,

the home PC. But if that is “the fu-ture,” what is the future of the big companies, the multi-nationals, and even the factories themselves? The answer to this question re-quires taking a quick step back. In 2010, the Kauffman Founda-tion, one of the most important players in the global ecosystem of innovation, published a very thorough research entitled: The Importance of Start-ups in Jobs Creation and Jobs Destruction. The study, limited to the Ameri-can reality and based entirely on data from the U.S. Census Bureau, revealed a number of surprising truths. The first: from 1977 to 2005, the existing businesses were “net job destroyers,” losing a total

opinionsOp

In fluid markets, start-ups grow because theyare the basic unitof the cloud economy, are very adaptable to change,and incredibly effective in doinga single thing

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of a million jobs per year; during the same period, the new com-panies added three million jobs. The second truth is even more in-teresting: during periods of reces-sion, the ability of start-ups to cre-ate jobs remains constant, while existing firms are highly sensitive to economic cycles and, there-fore, more affected by the crisis. The third truth is the knock-out blow: the postulate according to which companies get bigger with the passage of time inevitably does not work anymore, seeing as U.S. companies with less than one year of existence create a mil-lion jobs, while those with more than 10 years stop at 300,000.The findings of the Kauffman Foundation were naturally an in-vitation to the U.S. government to rethink its policies for economic growth, to pay less attention to the defense of employment in large companies and to favor the crea-tion of start-ups (new companies with a high rate of innovation). Of course, the phenomenon in progress is not limited to the Unit-ed States, although it is more evi-dent there. The September 2012 issue of the English edition of the monthly magazine “Wired” pub-lished an invitation from a leading venture capitalist for everyone to adopt a “start-up mentality:” “The chaos in which we find ourselves is the fundamental reason why one should work for a start-up or a corporation that acts as a start-up. Because start-ups are the natural evolutionary response to this new situation. Most large companies are characterized by the qual-ity of their planning processes, but these become objectives that clash with the reality and the re-sults are measurable. When faced with change, the multi-national giants stumble and fall. In fluid markets, where each asset can be priced and traded easily, start-ups can grow because they are the basic unit of the cloud economy and are very adaptable to change and incredibly effective in doing a single thing. The big corporations are unable to keep up the pace by adapting to the speed needed to remain the best in all aspects of their business. And the same goes for the people who work there, whereas in a start-up business, ex-

perience must evolve quickly, and adaptability is the main talent.”All this may seem to be a tomb-stone for the large companies but it would be a superficial reading of the data and the phenomenon in progress. Because if the future is innovative start-ups, that is exactly what the large companies need to do: go back to being start-ups. Or in the words of the previously-men-tioned English edition of “Wired,” “to act like a start-up.” This is not a play on words or a slogan. That is exactly what Steve Jobs said of his Apple: “It is the largest start-up in the world.” And it is the distinc-tive feature of Facebook, in com-parison to the others, according to its founder Mark Zuckerberg: “There are very few of us, we are ag-ile and we are always in beta.” That is, in constant experimentation.No one has explained this mental-ity better than Reid Hoffman, a star of Silicon Valley, co-founder of LinkedIn, and co-author of the bestseller The Start-up of You. “We are all a work in progress ... Great people, like great compa-nies, are constantly evolving. They are never finished and never fully developed. Every day offers an op-portunity to learn more, do more, and grow even more. Being in a state of permanent beta must be a commitment to growth that lasts a lifetime.” Hoffman is speaking of individuals and corporations. But whereas in the first case the things to do are clear, the situa-tion is different for a corporation. There are two ways to “become a start-up” when you have thou-sands of employees around the world and a necessarily rigid organization: the first – which is actually a shortcut – is to buy start-ups, and then to buy innova-tions with the people who made them, hoping not only to bring patents into the fold but to also be contaminated by a way of being.The second way is much more complex but gives better results: creating free zones in your organi-zation where there are different rules. Less bureaucracy. Propen-sity to risk. Profit sharing. For ex-ample, as Steve Jobs did when a “team of pirates” created the first Mac while the “Apple company” was focused on Lisa. The execu-tive vice president at that time

was a former IBM executive Steve Jobs had hired after meeting him in a bar: Jay Elliot. Here is what he recalls of the work environ-ment of the early days at Apple: “The most obvious thing was the enthusiasm, the desire to do and create. We realized that we were all working together to change the world and that motivated us and made us very proud. The last thing we’d think of would be to take a vacation. Steve Jobs was capable of phoning at three in the morning to tell us that he’d had a great idea. And it didn’t bother anyone at all. Stress was not seen as a negative component, it was something that pulled you in, which caused another sensation, because we realized that we were about to cross a new frontier. Ap-ple was not the typical company where you had to arrive at 9 a.m. and you left at 5 p.m. We worked until late. Maybe you’d come to the office at noon, but then we’d work until 3 in the morning. We were all involved in the creation and development of the products. After all, Apple was the company with the lowest number of people who went off in search of a better place, and that says a lot about what the employees thought. Moreover, there was also a sys-tem of sharing profits based on participation in the share capital of the company. Finally, work-ing in a company whose boss put so much effort into having the best product in the world, they couldn’t help but react positively when asked to make sacrifices.”The first Apple says a lot about the start-up mentality needed in order to grow, but it is also a difficult model to follow for organizations that are already mature. In that case, one can always imitate what the U.S. cof-fee shop chain Starbucks has done recently to find a new way to interact with their customers: instead of proceeding with minor adjustments, it decided to find out what approach a brand new company would have. And then it was expressly created. A start-up. It is called 15th Coffee and Tea and it has been made into a live learning lab for experiment-ing in design, sustainability of materials, and new products.

The postulate according to which

companies get bigger with the passage of time

inevitably does not work anymore

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Oxygen2007/2012Andrio AberoGiuseppe AccorintiZhores AlferovEnrico AllevaColin AndersonMartin AngioniIgnacio A. AntoñanzasPaola AntonelliAntonio BadiniRoberto BagnoliAndrea BajaniPablo BalbontinPhilip BallUgo BardiPaolo BarelliVincenzo BalzaniRoberto BattistonEnrico BelloneMikhail BelyaevCarlo BernardiniTobias BernhardMichael BevanPiero BevilacquaNick BiltonAndrew BlumBorja Prado EulateAlbino Claudio BosioStewart BrandLuigino BruniGiuseppe BruzzanitiMassimiano BucchiPino BuongiornoTania CagnottoMichele CalcaterraPaola CapatanoMaurizio CapraraCarlo CarraroFederico CasalegnoStefano CaseriniValerio CastronovoIlaria CatastiniMarco CattaneoSilvia CerianiCorrado CliniCo+Life/Stine NordenSøren RudElena ComelliAshley CooperPaolo CostaManlio F. CovielloGeorge CoynePaul CrutzenBrunello CucinelliPartha DasguptaMarta DassùMario De CaroGiulio De Leo

Michele De LucchiRon DemboGennaro De MicheleGianluca DiegoliFabrizio DragoseiPeter DroegeFreeman DysonMagdalena EcheverríaDaniel EgnéusJohn ElkingtonRichard ErnstDaniel EstyMonica FabrisCarlo FalciolaAlessandro FarruggiaFrancesco FerrariPaolo FerriTim FlachStephen FrinkAntonio GaldoAttilio GeroniEnrico GiovanniniMarcos GonzàlezJulia GoumenDavid GrossSergei GurievJulia GutherSøren HermansenThomas P. HughesJeffrey InabaChristian KaiserSergei A. KaraganovGeorge KellParag KhannaSir David KingMervyn E. KingHans Jurgen KöchCharles LandryDavid LaneManuela LehnusJohan LehrerGiovanni LelliFrançois LenoirJean Marc Lévy-LeblondIgnazio LicataArmin LinkeGiuseppe LongoArturo LorenzoniL. Hunter LovinsMindy LubberRemo LucchiTommaso MaccararoGiovanni MalagòRenato MannheimerVittorio MarchisJeremy M. MartinPaolo Martinello

Massimiliano MascoloMark MaslinIan McEwanJohn McNeillDaniela MecenateLorena MedelJoel MeyerowitzStefano MicelliPaddy MillsGiovanni MinoliMarcella MirielloAntonio MoccaldiRenata MolhoCarmen MonfortePatrick MooreLuca MorenaLuis Alberto MorenoRichard A. MullerTeresina Muñoz-NájarUgo NespoloNicola NosengoHelga NowotnyAlexander OchsRobert OerterAlberto OliverioSheila OlmsteadVanessa OrcoJames OsborneRajendra K. PachauriMario PagliaroFrancesco ParesceClaudio PasqualettoAlberto PastoreFederica PellegriniMatteo PericoliEmanuele PeruginiCarlo PetriniTelmo PievaniTommaso PincioMichelangelo PistolettoViviana PolettiStefania PrestigiacomoGiovanni PrevidiFilippo PreziosiVladimir PutinMarco RainòFederico RampiniJorgen RandersCarlo RattiHenri RevolMarco RicottiSergio RisalitiKevin RobertsLew RobertsonKim Stanley RobinsonAlexis RosenfeldJohn Ross

Marina RossiBunker RoyJeffrey D. SachsGerge SalibaJuan Manuel SantosTomàs SaracenoSaskia SassenAntonella ScottLucia SguegliaSteven ShapinClay ShirkyKonstantin SimonovUberto SiolaFrancesco SisciCraig N. SmithAntonio SofiLeena SrivastavaFrancesco StaraceRobert StavinsBruce SterlingStephen TindaleViktor TerentievChicco TestaChiara TonelliMario TozziDmitri TreninIlaria TurbaLuis Alberto UrreaAndrea VaccariNick VeaseyViktor VekselbergJules VerneUmberto VeronesiMarta VincenziAlessandra ViolaMathis WackernagelGabrielle WalkerElin WilliamsChanghua WuKandeh K. YumkellaAnna ZafesovaAntonio Zanardi LandiEdoardo ZanchiniCarl Zimmer

Testata registrata pressoil tribunale di TorinoAutorizzazione n. 76del 16 luglio 2007

Iscrizione al Roc n. 16116

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ORGOGLIOINDUSTRIALEL’industria è sicurezza perché è fabbricazione,creazione, unità di spirito e di materia, di corpoe anima della società; una sicurezza minata oggi dalla crisi economica mondiale. E così in Italia –  il secondo Paese manifatturiero in Europa – fare le cose bene non bastapiù: bisogna saperle fare meglio degli altri. Per riuscirciè innanzitutto necessario ricostruire l’orgoglio industriale, valorizzare il lavoro in ogni ruolo, dare spazio alla creatività e all’iniziativa, mettere le piccole aziende in rete e quelle più grandi nelle condizioni di andare incontro ai nuovi bisogni globali e alle nuove tendenze tecnologiche.La chiave del successo è l’innovazione continua. Questo numero di Oxygen racconta molte storie vincenti, all’alba di quella che in molti già definiscono comela “nuova rivoluzione industriale”, che sta attraversandoil mondo intero e rilanciando la qualità manifatturieradei Paesi storicamente più industrializzati.

«Il mondo è a un passo da una nuova era. Il cambiamento vissuto dall’industria del mondo sviluppato e dei Paesiin via di sviluppo s’invertirà nuovamente e la produzionedei Paesi ricchi conoscerà una riscossa»

Oxygen nasce da un’idea di Enel,per promuovere la diffusionedel pensiero e del dialogo scientifico