Ovvero ORINO (o AURINO) e la sua Rocca · 2011-04-06 · il lamento della strige urge il passo al...

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VERSI & VERSACCI A CURA DI GIANNI POZZI 30 Menta e Rosmarino Ovvero ORINO (o AURINO) e la sua Rocca Diciassettesima puntata P er questa puntata, vi propino qualche verso o “versaccio” – il solito dilemma lo scioglierà il pa- ziente lettore – legato alla Rocca di Orino. La prima poesia è opera di quel Massimo Sangalli (1887-1959), notaio gemoniese dalla vita “chiacchie- rata” che molti, in Valcuvia, ben ricordano. Dal 1913 alla fine degli anni quaranta è stato anche proprietario di quella rocca, facendovi anche eseguire scavi ar- cheologici e lavori vari – e a quella rocca dedica una serie di versi, in forma di poema storico, dove riassume la storia e le leggende di quelle mura. Quanti secoli passaro che la lunga valle aprica vigili, o fosco maniero, traverso la selva antica? Dominati i fieri Isarci l’imperatore romano te pose a vietar la via che adduce da l’alpe al piano. Tra castagni secolari gli ozi di liete brigate con le ombre ora ricopri nei meriggi dell’estate. Su nel cielo volan falchi roteando gaudiosi, le vetuste torri sfiorano vigilando i nidi ascosi. Quando ne la tarda sera dal monte scende il pastore, il lamento della strige urge il passo al viatore. Ma passare niuno ardisce quando giunge il San Martino e rintocca mezzanotte alla chiesa d’Aurino. Rintrona lugubre un grido tra le mura del castello, entro l’anno vita perde chi ascoltò il ferale appello. Poi che Simon da Locarno presso Desio ei fé prigione il buon Napo de la Torre e con core da predone al castello Baradello ne la gabbia infin l’appese, la contea d’Aurino ebbe in dono per l’imprese. Ne la barbara etade il feroce valvassore da le mura inviolate dominava col terrore. Ne le acque del Verbano navigando per diporto poi che bella giovinetta su la spiaggia avea scorto, L’avvampò senil desio, ma nimico del languire da la cruda sua masnada la gentile fé rapire. A traverso a la foresta tutt’avvolto in saio nero con a fianco la donzella va il crudele cavaliero. Va e batte con la spada a la gran porta ferrata, che s’apre tosto ed ingoia la fanciulla sventurata. Quando vien la prima neve sul piazzale del castello strane orme ognuno vede su quel candido mantello. Femminil calzare a punta una lieve traccia pone a canto a due larghe orme segnate da lungo sprone. Ne la rocca solitaria visse un anno di dolore la soave Beatrice, poi si spense con orrore. Agli armigeri sfuggita giù da l’alto del torrione i gettò nel precipizio sito accanto a la prigione. San Martino a mezzanotte una bianca ombra velata si protende da l’ogiva e il lontano lago guata. Su la Punta di Pallanza ecco appar lingua di foco, che tre volte si ravviva poi si spegne a poco a poco. Da quant’anni invoca invano la diserta genitrice perchè il cielo alfin conceda il redir dell’infelice. Ogni sera di Natale l’avo assiso al focolare non dimentica ridire la leggenda secolare. Nell’udire i tristi casi degli spiriti dannati trema il core dei nepoti e l’ascoltano turbati. La lirica compare in un vo- lumetto, praticamente intro- vabile, dal titolo di Ritratto e liriche pubblicato attorno agli anni trenta e con evidenti ri- chiami, soprattutto nelle altre liriche, agli ideali politici che allora andavano per la mag- giore. Ed in quegli anni San- galli era uno dei maggiori esponenti visto che di Orino, anzi di Orino-Azzio (così il nome del paese in quegli anni), come di Gemonio, era anche il Podestà. Al termine del componimento l’autore riassume quella che secondo lui – ma solo secondo lui – è la storia della rocca di Orino che, ovviamente non riprendo. Vi pro- pongo invece, perché curiosa, la sua teoria sul nome del paese e la conseguente proposta di sostituzione. Scrive dunque: “La voce «Orino» deriva dal latino «Haurire», perchè quel territorio è cosparso di nume- rose sorgive di acqua perenne. Sarebbe opportuno sostituire alla détta voce la voce «Aurino», per gli stessi motivi per cui fu modificato il nome precedente del Comune di Cantello. E’ un ri- chiamo all’antica designazione latina, non una arbi- traria sostituzione di vocabolo estraneo. Iniziativa locale non è probabile, perchè la sensibilità dell’inde- cente locuzione è distrutta dalla consuetudine.” Ed in- fatti incomincia proprio lui a dar l’esempio intitolando la sua poesia “LA ROCCA DI AURINO”. Al lettore curioso, per spiegare il cambio del nome del paese di Cantello, ricorro a Piero Chiara che, su questo, e su altri nomi “pruriginosi” andava a nozze e che così ha avuto modo di scrivere in GUIDA ALLA LOM- BARDIA MISTERIOSA (Sugar editore, 1979). Scrive nel capitolo dedicato alla toponomastica lombarda: CANTELLO, 3.588 abitanti, in provincia di Varese a tre chilometri dal confine svizzero, fino a una cinquan- tina di anni or sono si chiamava CAZZONE. Il cambia- mento di denominazione fu richiesto non dai nativi, abituati a quel nome, ma dal Comando Generale della Guardia di Finanza, a seguito delle lamentele dei mili- tari accasermati in quel luogo di confine. In gran parte meridionali, le guardie ricevevano lettere dai parenti dove si leggeva: Salvatore Scognamillo – CAZZONE

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VERSI & VERSACCI A CURA DI GIANNI POZZI

30 Menta e Rosmarino

Ovvero

ORINO (o AURINO)e la sua RoccaDiciassettesima puntata

Per questa puntata, vi propino qualche verso o“versaccio” – il solito dilemma lo scioglierà il pa-ziente lettore – legato alla Rocca di Orino.

La prima poesia è opera di quel Massimo Sangalli(1887-1959), notaio gemoniese dalla vita “chiacchie-rata” che molti, in Valcuvia, ben ricordano. Dal 1913alla fine degli anni quaranta è stato anche proprietariodi quella rocca, facendovi anche eseguire scavi ar-cheologici e lavori vari – e a quella rocca dedica unaserie di versi, in forma di poema storico, dove riassumela storia e le leggende di quelle mura.

Quanti secoli passaroche la lunga valle aprica vigili, o fosco maniero, traverso la selva antica? Dominati i fieri Isarci l’imperatore romano te pose a vietar la viache adduce da l’alpe al piano. Tra castagni secolari gli ozi di liete brigate con le ombre ora ricopri nei meriggi dell’estate. Su nel cielo volan falchi roteando gaudiosi, le vetuste torri sfiorano vigilando i nidi ascosi. Quando ne la tarda sera dal monte scende il pastore,il lamento della strige urge il passo al viatore. Ma passare niuno ardisce quando giunge il San Martino e rintocca mezzanotte alla chiesa d’Aurino. Rintrona lugubre un grido tra le mura del castello, entro l’anno vita perde chi ascoltò il ferale appello.Poi che Simon da Locarno presso Desio ei fé prigione il buon Napo de la Torre e con core da predoneal castello Baradellone la gabbia infin l’appese,la contea d’Aurinoebbe in dono per l’imprese. Ne la barbara etadeil feroce valvassoreda le mura inviolatedominava col terrore.

Ne le acque del Verbano navigando per diportopoi che bella giovinetta su la spiaggia avea scorto, L’avvampò senil desio, ma nimico del languire da la cruda sua masnada la gentile fé rapire.A traverso a la foresta tutt’avvolto in saio nero con a fianco la donzella va il crudele cavaliero. Va e batte con la spada a la gran porta ferrata, che s’apre tosto ed ingoia la fanciulla sventurata. Quando vien la prima neve sul piazzale del castello strane orme ognuno vede su quel candido mantello.Femminil calzare a punta una lieve traccia ponea canto a due larghe orme segnate da lungo sprone. Ne la rocca solitaria visse un anno di dolore la soave Beatrice,poi si spense con orrore. Agli armigeri sfuggita giù da l’alto del torrione i gettò nel precipiziosito accanto a la prigione. San Martino a mezzanotte una bianca ombra velata si protende da l’ogiva e il lontano lago guata. Su la Punta di Pallanza ecco appar lingua di foco, che tre volte si ravvivapoi si spegne a poco a poco.

Da quant’anni invoca invanola diserta genitriceperchè il cielo alfin conceda il redir dell’infelice. Ogni sera di Natale l’avo assiso al focolare non dimentica ridire la leggenda secolare. Nell’udire i tristi casi degli spiriti dannati trema il core dei nepoti e l’ascoltano turbati.

La lirica compare in un vo-lumetto, praticamente intro-vabile, dal titolo di Ritratto eli riche pubblicato attorno aglianni trenta e con evidenti ri-chia mi, soprattutto nelle altreliriche, agli ideali politici cheal lora andavano per la mag-giore. Ed in quegli anni San-galli era uno dei maggioriesponenti visto che di Orino,anzi di Orino-Azzio (così ilnome del paese in queglianni), come di Gemonio, eraanche il Podestà.

Al termine del componimento l’autore riassume quellache secondo lui – ma solo secondo lui – è la storia dellarocca di Orino che, ovviamente non riprendo. Vi pro-pongo invece, perché curiosa, la sua teoria sul nome delpaese e la conseguente proposta di sostituzione.

Scrive dunque: “La voce «Orino» deriva dal latino«Haurire», perchè quel territorio è cospar so di nume-rose sorgive di acqua perenne.

Sarebbe opportuno sostituire alla détta voce la voce«Aurino», per gli stessi motivi per cui fu modificato ilnome prece dente del Comune di Cantello. E’ un ri-chiamo all’antica designazione latina, non una arbi-traria sostituzione di vocabolo estraneo. Iniziativalocale non è probabile, perchè la sensibilità dell’inde-cente locu zione è distrutta dalla consuetudine.” Ed in-fatti incomincia proprio lui a dar l’esempio intitolandola sua poesia “LA ROCCA DI AURINO”.

Al lettore curioso, per spiegare il cambio del nome delpaese di Cantello, ricorro a Piero Chiara che, su questo,e su altri nomi “pruriginosi” andava a nozze e che cosìha avuto modo di scrivere in GUIDA ALLA LOM-BARDIA MISTERIOSA (Sugar editore, 1979). Scrivenel capitolo dedicato alla toponomastica lombarda:“CANTELLO, 3.588 abitanti, in provincia di Varese atre chilometri dal confine svizzero, fino a una cinquan-tina di anni or sono si chiamava CAZZONE. Il cambia-mento di denominazione fu richiesto non dai nativi,abituati a quel nome, ma dal Comando Generale dellaGuardia di Finanza, a seguito delle lamentele dei mili-tari accasermati in quel luogo di confine. In gran partemeridionali, le guardie rice vevano lettere dai parentidove si leggeva: Salvatore Scognamillo – CAZZONE

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oppure Gennaro Cacace – CAZZONE…” Continua poiricordando come “LIETO COLLE, in provincia diComo, a qualche chilome tro da Cantello e prossimo an-ch’esso alla linea di confine, cambiò nome in epoca piùrecente, rinunciando alla prece dente denominazione diFIGAZZO, per interessamento del medesimo alto co-mando, in quanto molte guardie che ri chiedevano il tra-sferimento da Cazzone finivano a Figazzo o viceversa,senza veder risolto il problema del loro indi rizzo. Nonsi sa a chi far risalire il merito della poetica similitu-dine per cui Figazzo poté tradursi in Lieto Colle…” Ilvaresino Cazzago invece è rimasto tale perché, sottolineamalignamente Chiara “Lontano dalla linea di confine eprivo di alcuna guarnigione di finanzieri…”. Orinosembra sfuggito al nostro Chiara che però cita BACIA-CULO (BS), CACAVÉRO “sempre in provincia di Bre-scia, comune che al pari dei confratelli Cazzone eFigazzo, mutò nome nel secolo scorso, per decoro, ve-nendo a chiamarsi Campoverde”, poi CAGAMÈI (AlpiOrobie), CAGAROEULA, CAZZANO (Como), FIGA-DELLI (frazione di Lovere, provincia di Bergamo), FI-GINO, MERDAROLA (località presso Morbegno inprovincia di Sondrio) ed altri che vi risparmio.

Tornando a più serie considerazioni non posso esi-mermi dal segnalare che la ricostruzione storica fattadal Sangalli in quei versi lascia alquanto a desiderare;quindi per una storia decisamente attendibile e storica-mente seria consiglio la lettura del libro del compiantoamico Virgilio Arrigoni, La Rocca di Orino – Raccoltadi dati, notizie, leggende e ricordi, Nicolini Editore Ga-virate 2001 (libro propiziato da Piera Vedani, attualeproprietaria della rocca) dove possiamo anche leggerealtra poesia. Sempre del Sangalli, ritrovata da una ni-pote, è stata lì pubblicata; qui la vena poetica del nostrosi cimenta in versi che non si addentrano nelle vicendestoriche. Eccovi quindi quelle rime:

Sul nudo fianco del monte ferrignoIn vetta di erta rupe al ciel protesa Spicca sua mole quale macignoIl castello, che alla borgata stesaIn lento declivo tuttora impera. Più volte la turba all’ostile offesa Fido scampo ne la rocca severa Trovò, superate in convulsa ascesa Rocciose balze ed insidiose forre. Non più le scolte vigilano il piano, Spia il falco sol da la fosca torre. Il vetusto di guerra fiero arnese Da l’alta rupe domina sovrano Su l’ubertoso piano valcuviese.

Piacemi l’impassibil fiero aspettoDi quanto resister sa al tempo edace; Piacemi errare dove la gran pace Di solitario maniero uno schietto Richiamo ancor fa al lontan passato. Da la greve realtà, da l’azione Si fugge lo spirito e nel fatato Cielo di sogno vola e di visione. Edera verde riveste a festoni I ruderi, che parlano di morte D’arte di storia; tra gli erti bastioni Cadenti mi pare pianga la nota Di un lontano gemito, che pur forte Vibra ne l’anima per tema immota.

Lasciamo il Sangalli ed i suoi versi (o versacci !) percitare qualche altra poesia dedicata alla rocca.

L’autore è un abitante di Orino, lì nato nel 1903,scomparso da qualche anno. Le leggiamo nel libro PIC-COLISSIME DIVAGAZIONI, poesie inedite di Ber-nardo Clivio a cura di Carlo Martegani, dicembre 2003.

La Rocca

Ancor, dall’erta, la merlata torre guata, grifagna, la sommessa valle; a sera, allor che placide e solenni, avvolgon l’ombre la sudata terra

e l’ansia si placa, ancor lo sguardo lassù rivolge, dalla fragrante aia, il mite contadino ricordantel’orror degli avi al prepoter tiranno.

Or l’edera ricopre le vestigia erose dell’arroganza antica;dal crollante maniero or più non s’ode

strepito d’arme! Scende dal dirupo, dolcissima e devota, la preghiera lenta e pia delle campane a sera!

Voce della Rocca

Arcigna ancor la valle tu sovrasti o Rocca, ma l’arroganza è spenta nel viluppo dell’edera ch ‘avvinghia il tuo giacer silente;l’orrore antico tace nel torpore delle serpi celate tra le crepeletali delle murae nell’ occhiaie degli squarci, tetre.

Pur la tua voce aspra or tace, morta nell’ infinito tempo,quella voce che ti diede l’odioinsano delle genti.

Or parli una favella che m’è cara, o Rocca che tergi, ancor grifagna, sul dosso dominante;ora tu parli col silenzio squallido delle crollanti mura morsicate dalle radici avide dell’edera, ora tu dici, con l’occhiaie cupe: «O lacrimoso viandante stanco, il mio squallor ti dicache tutto, ch’ è della terra, muore”.

Raccontano quei versi l’amore di un abitante delluogo, trasferitosi a Milano per lavoro, poi tornato nelpaese natio a godersi gli anni della pensione. In quellibro, le sue poesie – inedite perché fino ad allora soloscritte in un quadernetto – dove in versi racconta tutto ilsuo affetto per il suo paese… ma non si scorda di quei“milanesi” che “nella ridente Valcuvia ubertosa…” ven-gono a villeggiare; ne scrive in una poesia, semplice-mente intitolata “Orino”, dove descrive bellezze ebenemerenze, e che chiude con una quartina che ci ri-porta alla singolarità del nome (“l’indecente locuzionedistrutta dalla consuetudine…” invocata dal Sangalli):

“A questo punto, lettore cortese,tu penserai che questo paese abbia un bel nome o almeno carino:invece, pensa, si chiama ORINO!”.

(Alla prossima puntata)

…in versi racconta tuttoil suo affetto per il suopaese… ma non si scordadi quei “milanesi” che“nella ridente Valcuviaubertosa…” vengono

a villeggiare...

Scherzi della canna fumariadi ALBERTO PALAZZI

Se quella che viviamo può essere definita la civiltàdei consumi, quella di una volta potremmo chia-marla civiltà delle riparazioni. L’imperativo ca-

tegorico era: non buttare! Si riparava di tutto: dalmanico dell’ombrello spezzato, alla seggiola cui eranai giò ur cuu. Ovunque vi era gente pronta a rico-struire, a rappezzare, a rimettere in sesto.

Molti di questi artigiani “riparatori” erano ambulantie fra essi ricordiamo lo stagnino che arrivava in paesepresentandosi con una sorta di spot pubblicitario in di-retta:

Oh donn, oh donnGhè scià ‘r magnan chel sctagna i padellel giuscta i pariööed i pignat de ram.Lo stagnino si aggirava nelle corti ove raccoglieva

pentole, secchi, mestoli etc...etc.. Dopo averli osser-vati con un’occhiata competente faceva un veloce pre-ventivo e li infilava in un cerchio di ferro che portavasulla spalla.

E poi via, “...oh donn ghè scià ‘r magnàn…”. Se lapentola aveva un buco ci metteva una pezza, una sortadi sottile striscia fissata al vaso da quattro chiodi ri-battuti e poi sigillata tutt’intorno con lo stagno. Cosìanche le pentole andavano in giro con le pezze sul se-dere, proprio come i loro padroni!

E quando alla lobia si affacciava una giovane spo-sina … “Oh sposina! A ghe stagni la pignatina?”

Le sposine, arrossendo, si ritiravano precipitosa-mente.

Fra gli ambulanti c’era poi il muleta che arrivava dalTrentino.

“Moleta, moleta, done, done, è riva el moleta chelmola la forbiseta”.

Raccoglieva di casa in casa falcit, sugherot, sughe-rit e rencit e li raccoglieva in un sacco. Arrivava insella ad un trabiccolo simile ad una bicicletta e quel-

l’infernale velocipede,quasi magicamente, si tra-sformava da mezzo di tra-sporto a strumento dilavoro. Vi si sedeva soprae azionando i pedali mo-lava... e canatava:

L’è un pèz che foo giraala ròda innanz e indrèma mai poderò vanzaacingh ghei da sto mestè.Non poteva mancare ‘r

umbrelàt. Arrivava dallaprovincia di Novara e viag-giava con una valigia dilegno dove riponeva tutti isuoi arnesi. Grazie all’um-brelàt gli ombrelli si tene-

vano in vita per molti anni tanto che alcuni, da neri cheerano, diventavano rossicci perché perdevano il colore.L’ombrello era un elemento irrinunciabile, un bene su-premo. Mei inscì che perd l’umbrèla! – ci si consolavanelle sventure.

Agli inizi dell’800 i vecchi sgabelli di legno, le pan-che e le panchette, spesso costruite in modo artigianaledal capofamiglia, furono sostituite dalle sedie impa-gliate. Queste erano più leggere, più comode e più ele-ganti, ma necessitavano di manutenzione. Per questoarrivava il cadregatt che … el cambia i biröö el giu-sta e l’impaia i cadregh de paia.

Ecco un altro ambulante. Si era a scuola e, nel silen-zio della lezione, si udiva “strascee, strascee!”

“Sente, signora maestra, è arrivato lo strascee!”“Zitto tu, e poi non si dice strascee, si dice stracci-

vendolo!”“E’ arrivato lo straccivendolo e io ciò a casa tanti

pel de cunili. Mi lascia andare a subirglieli?” Arrivava con cavallo e carretto e raccoglieva strasc,

oss, pell de cunili, ram e rutam. Come paga dava incambio sapone e cunegrina.

(Noi comunque avevamo in casa, a S. Andrea, unamultinazionale degli stracci capitanata dai famosi Mu-retitt).

Poi c’era il sciueratt che non faceva solo i sciueer,ma anche cavagn, scurbit de pulenta e tauur de secaai castegn. Fare i sciueer era proprio un’arte: guar-dando il gerlo si riconosceva subito lo stile di chil’aveva realizzato. “Chela lì l’è la mann dul Celeste deCoogh” oppure “Chela lì te l’ha faia ur sciueratt deCabiei”. Insomma: poveri in canna, ma con la sciuerafirmata! C’era una sciuera per ogni occasione: per an-dare a fare erba, per portare a destinazione il letame,per andare a far legna e perfino una per andare al mer-cato. Era quella più nuova, quella che aveva i lantri-schee bei spelecà.

Sul mercato trovavamo poi il marusee (mediatore)che gestiva la trattativa nel commercio di mucche,buoi, capre e pecore.

Queste storie vengono dalla Tradizione orale, la quale essendo della Storia una sorellaccia senza arte né parte, spesso sivendica dell’altezzosa compagna aggiungendo pettegolezzi e fantasie che essa (la Storia) mai e poi mai potrebbe permettersi di raccontare.

STORIELLE D’ALTRI TEMPI

Bottai in Piazza del Noce aCaldana.(Archivio fotografico DiegoAnessi).

Il Casurà, venditore di stoffe.

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Doveva essere bun de lengua in quanto doveva riu-scire a fare andar d’accordo chi comperava con chivendeva. Ma anche bun de occ perché con un’occhiatadoveva comprendere tutto: se la vacca era sempre statain stalla oppure no (lo capiva dalle unghie), se era in-cinta (pregna) oppure no, e guardando in bocca agliasini doveva capire, dal fasoo, quanti anni avevano.

Mestiere da non confondere con quello del misee.Anche questi conduceva trattative, ma molto più no-bili: lui univa i… cuori!

Il misee doveva avere un bel faa (bei modi) perchéil suo compito era delicato: doveva cioé rimuovere ledifficoltà che si frapponevano al matrimonio.

Per far questo veniva informato per filo e per segnocirca “le doti” dei candidati sposi; di loro doveva sa-pere tutto: se ghe n’even in dul burzin e anche in de …pata!

Se poi però le cose andavano male la colpa era tuttadel misee… e allora lui cercava in qualche modo di di-fendersi.

Se vurii… ur mund l’è un garbui…se sa mai me fala bui…Un mestiere scomparso, ma ancora vivo nel ricordo

è quello del caredoo. Questi viveva in totale sintonia con i suoi buoi: se

pioveva o nevicava, prima di tutto “ ‘ne cuerta paiboo” e poi, se la si trovava ... “‘n umbrelascia pal ca-redoo!”.

In paese c’era poi un viavai di ambulanti del com-mercio.

Venivano pasticceri, venivano ortolani. Veniva daDuno un uomo a vendere ludriun, flambos e magio-ster. Il venerdì arrivava il pessat. Veniva a piedi daBardello portando il pesce in una gerla. Le donneuscivano dalle case con il piatto in quanto non avevaneppure la carta per avvolgerlo. Girava porta a portaanche il mercant de brasc (venditore di stoffe) di cuiricordiamo il Casurà che arrivava, probabilmente apiedi, da Casorate Sempione. Vendeva stoffe che, ap-punto, si misuravano non con il metro, ma a braccia.

Veniva chel di piatt che vendeva: brocch, piatt,cadin, tazz, baslott, chicher.

“Oh donn, la vurii cul manigh o senza manigh?”Arrivavano poi tanti altri artigiani e venditori am-

bulanti che i nostri nonnetti chiamavano rispettosa-mente chell di sumenz, chell di fioor,chell di bott, chell di scigoll, chell ditacuitt (venditore di almanacchi e lu-nari), chela dul zafran (venditrice dizafferano), chela di mudand (vendi-

trice di mutande, maglie, calze e altro)etc..etc..

Ma l’ambulante più pittoresco eratuttavia lo spazzacamino. Da noi veniva poco perchéquasi tutte le famiglie provvedevano alla pulizia delcamino per loro conto. A lui, però, piccolo di statura,con la faccia perennemente sporca e le mani nere, lafantasia popolare attribuiva singolari prestazioni eroti-che. Puliva camini di ogni tipo:

Non dubiti oh signorase il suo camino è strettoson bravo giovinettoso fare il mio mestierFu così che un giorno si ritrovò a pulire anche “quel

camino” e poi, … dopo nove mesi, scherzi della canna fumaria,“…ènato un bel bambino...” che, inequivocabilmente…“rassomigliava tutto allo spazzacamino!”

La sciuera per andare almercato era quella più

nuova, quella che aveva ilantrischee bei spelecà.

Chela di mudant.

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Gioconda cercasi ...disperatamentedi GIAMBATTISTA ARICOCCHI

Se un figlio scrive ai genitori: ... penso d’aver invista una fortuna così grande che quando torneròa casa vi farò ricchi e certi di trascorrere una vita

serena e felicissima... c’è, per i «vecchi», di che pre-occuparsi! E le ragioni per preoccuparsi papà Giacomole aveva tutte: di quel figlio Vincenzo (Vincenzo Pe-ruggia, Paris, Rue de l’Hôpital Saint-Louis 5, come ri-portava il retro della busta) aveva poche e rare notizie;e, quando le riceveva come in questo caso, non sapevase gioirne o no.

Che Vincenzo fosse oltre che figliosuo anche di quel periodo decadented’inizio secolo, lo aveva da tempo no-tato: nel suo aspetto, nei suoi atteggia-menti, in quel bisogno di unicità,originalità e anticonformismo; con unagran voglia di distinguersi (nel bene,ove fosse stato possibile, o nel male...

minore come avvenne) dalla troppo stretta mediocritàquotidiana per entrare a pieno titolo... nella leggenda!

Parigi, ma soprattutto il Louvre dove venne assuntocome stuccatore-decoratore, gli diede tale opportunità

e lui, senza farselo dire due volte, ai francesi rubò eportò in Italia il «pezzo forte del museo». In verità,come dichiarò poi, durante il dibattimento processuale:– «presi il primo quadro che mi capitò sotto mano...».Pardieu! o se vi sembra render meglio... ‘azzo! la Gio-conda s’è fottuto!

Cose da non credere diranno i più, ed invece è tuttovero; lui, il Peruggia, quella mattina del 21 agosto1911, invece di prendersi, come tutti, un buon caffè inqualche bistrò, si «prese» così, en passant, la MonnaLisa di Leonardo; il quale sicuramente si sarà divertitoun sacco (lui che di meraviglie e misteri ha riempitovita e opere) a vedere il nostro Vincenzo entrare alLouvre, dirigersi al Salon Carrè, staccare il quadrodalla parete, toglierlo dalla cornice, scendere le scale e,da una porta di servizio, uscire, passando per un giar-dino, in strada con sotto braccio, come una baguette,uno dei capolavori dell’umanità!

Parigi, la France, l’Europa, il mondo intero dell’artee dell’intellighenzia vennero scossi restando allibiti esenza parole... nei paesini invece, tra i semplici, comea Dumenza (da dove veniva appunto il nostro Vin-cenzo) «la ladrata» destò molte meno preoccupazioni:meno, decisamente, del tempural che riva quan ghegiò ul fen!

Anche mamma Celeste, una volta saputo del figlio,esclamò: – «Ma cun tanti donn che ci sono al mondodoveva propio perdersi a dietro a sta Gioconda!» e tuttiin paese le diedero ragione.

A Parigi intanto, in quell’afosa estate, si parlava esparlava solo di due persone: il direttore del Louvre edil Prefetto di Polizia, entrambi brancolanti nel buio piùpesto... ironia della sorte... nella sfavillante ville lu-mière!

Il primo, il direttore del Louvre, un certo monsieurHomolle aveva detto perentorio ai suoi collaboratori:– «Disturbatemi solo se va a fuoco il museo o se hannorubato la Gioconda»; fu «disturbato» quella volta... chenon c’era nessun incendio... gli prese uno s’ciupun daimmaginare.

L’altro, il Prefetto Luis Lépine, convinto dell’effi-cienza e dell’organizzazione della «sua» gendarmerie,pensava di riportare il quadro a posto in quater e qua-tr’ott. La faccenda invece, col passare dei giorni e dellesettimane, si fece sempre più spésa e torba senza laben che minima consolazione di un plausibile risultato.

Le indagini partirono col piede sbagliato e tutta lamacchina investigativa finì, da subito, fuori pista; die-dero per scontato che il ladro fosse, senz’ombra di dub-bio, un dipendente del museo o comunque un suoassiduo frequentatore. Venne fermato per l’appunto ungiovane piccoletto, tipo strano, straniero o meglio spa-gnolo... sempre lì a girare per quelle stanze, a guar-dare, rimirare e prender appunti, far schizzi... un certoPablo Picasso (perché il Lépin ci vedeva lontano, al-meno come scopritore d’artisti!).

Alla fine, dopo inutile vagare, si cominciò a pren-dere in considerazione anche le maestranze esterne,quelle che occasionalmente svolgevano mansioni e la-vori a richiesta arrivando... gira che ti rigira, al nostroPeruggia.

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STORIELLE D’ALTRI TEMPI

“Ma cun tanti donn checi sono al mondo dovevapropio perdersi a dietro

a sta Gioconda!”

Menta e Rosmarino 35

Lépin aveva dunque come Maigret risolto finalmenteil caso? Consegnato alla giustizia il marrano e reso alLouvre il maltolto?

Niente affatto, anzi... dopo la perquisizione allastanza del Peruggia, il Prefetto redasse personalmenteil verbale dell’infruttuoso sopralluogo proprio sul ta-volino, che quel makkeronì (com’era solito chiamareles Italiens) «diabolicamente» aveva provvisto di dop-piofondo, da cui la bella e celata Gioconda guardavasorridente la faccia seriosa del tenace ma sfortunatofunzionario!

Il Sottotenente Barisone dei Carabinieri di Luino ar-rivò a Cadero in Val Veddasca trafelato, impolveratoma soprattutto senza neanche tanta voglia d’esserci ar-rivato. L’odore di lago se lo portava addosso come lastanchezza, ma quell’aria fresca e pulita sul volto lofecero riprendere; almeno fin quando, scorgendo inlontananza l’osteria dei fratelli Lancellotti (Vincenzo eMichele per l’esattezza), dov’era peraltro diretto, sisentì un’arsura tale nel gargarozzo da potersi bere inuna gorata tutto il Giona partorito dal Tamaro!

Invece, entrato nel locale, si limitò a mezzo bicchieredi nero: “va ben che sun in servìzi e se po mia bev... mamez bicer el sarà mia bev!” pensò una volta vuotato ilbicchiere.

– «E... i so düu fiöo ghin mie?» disse rivolgendosialla Teresin, madre dei due proprietari.

– «No... in turnà in France, propi ier».– «Ma vàrde che cumbinaziun... anca ur Vincenz, ur

Peruggia... par capìss, l’è partì anca lüu ier... ma pardove... se sa mie!».

– «Vialt sii nagòt vere?» la buttò lì formalmente.– «Se so me, che vo mai föo de sti quater müur!» ri-

spose la donna alzando gli occhi al cielo e allargandole braccia.

– «El ghe gire mie tant in gir sciur Cumandant, l’èrivà par ur quader ch’han rubà in France... mo l’è tardil’è già partì... o magari l’è scundù in un alter post... ol’è turnà in France... mo l’è tardi... so madimà che l’ètardi... me’l senti!» disse ridendo ur Saltafoss sedutonell’angolo.

– «El ghe daghe mie a traa, l’è pien de vin e de cati-verie... l’è un parleparnott».

Uscì, convinto che non avesse parlato per niente queltale e che il Peruggia nascondesse veramente qualcosa;non solo... che i Lancellotti fossero suoi complici e chela Gioconda avesse lasciato laFrancia dove il «povero» Lépinla stava disperatamente cercandoda quasi due anni. Forse era pro-prio nascosta lì, tra quelle valli,celata da quella magica foschialombarda tanto cara a Leonardoo chissà... al Tenente Barisonescappò la voglia di pensarci ancor prima di esser ritor-nato a Luino!

Infatti il quadro ricomparve in quella Firenze chel’aveva visto nascere dove il Peruggia, chi dice per farcassa o chi soltanto perché stanco di quella lunga sto-ria senza risultato e peggio ancora senza pecunia, con-tattò un importante antiquario fiorentino, certo AlfredoGeri. Il quale, da mercante balosso qual era, fiutatol’affare... vide bene di denunciarlo, prendendosi cosìtutti i meriti: di aver ritrovato Monna Lisa, di aver con-segnato alla giustizia il mariuolo... ma soprattutto diintascare il premio di 25.000 franchi con onorificenzaufficiale messo a disposizione dalle autorità francesi!

Il Peruggia, invece, finì come doveva finire «al fre-

sco»; ma a questo punto, vuoi per sua iniziativa o perseguire una strategia difensiva suggerita dai suoi av-vocati, il nostro Vincenzo venne preso da un «italico»fervore patriottico.

Confessò che la Giocondal’aveva rubata ai «Galli» perchéloro ce l’avevano rubata prima(mal per lui che tra tutto quello ef-fettivamente sgraffignato, il qua-dro in questione venne regolar-mente acquistato e pagato 4000Scudi d’oro da Francesco I a Leo-nardo) e che il suo era stato ungesto esemplare di condanna e dirivalsa –“Viva l’Italia!”.

Con tali dichiarazioni il Perug-gia divenne per molti un eroe na-zionale da difendere o comunquesu cui non infierire. Gli Italiani si«strinsero a coorte» condannan-dolo prima a un anno e 15 giorni,poi, in Corte d’Appello a Firenzea mesi sette e giorni otto ed infinescarcerandolo per «aver com-messo il fatto» che molti, sen-z’ammetterlo, avrebbero volutocommettere!

Anche i cugini d’Oltralpe nonse la legarono tanto stretta al dito,in fondo tutto era finito bene; cosìanni dopo il Peruggia potè tornar-sene a vivere in Francia dove, nelgiorno del suo quarantaquattre-simo compleanno, in modo singo-lare com’era stata la sua vita, morì, fulminato da uninfarto, sul cancello di casa, stringendo in una manouna bottiglia di champagne e nell’altra un cabaret didolcetti pronti per la festa.

Dumenza, la Francia, Firenze... ma Caravate cosac’entra con il Peruggia e la sua storia?

C’entra, c’entra... Si dà il caso che un giorno, par-lando del Louvre a Caravate, in casa d’amici (di cui,per discrezione e per evitare che qualche magistratopuntiglioso voglia riaprire il caso, non farò il nome!)venni a conoscenza della loro parentela con il suddettoVincenzo Peruggia. Sul momento non ci diedi peso,

poi, ripensandoci, soprattutto ri-pensando al mistero che avvolgea tutt’oggi il furto, le sue vicissi-tudini, gli spostamenti del qua-dro, anche nella nostra zona, mifecero sorgere un amletico dub-bio: “Vuoi vedere che magari laGioconda è finita a Caravate e

anch’io come il Lépin mi ci sono seduto sopra senzaaccorgermene?!”.

Storielle a parte, il Peruggia non è stato solo unladro, ma la reazione incontrollata e libera della nostracoscienza di fronte alla bellezza sublime, all’arte. Per-ché qualunque sia stato il suo intento, penso che a serarimirando quel volto, da solo, nella sua stanza, ghe sesarà slargà ur cöor!

Sognare di rubare la Gioconda è pazzesco, volerloorganizzare è folle, farlo va oltre ogni azzardo;per questo anche la grandeur française, sebbene pro-fondamente ferita nell’orgoglio da un semplice im-bianchino di Dumenza, dovette riconoscerglielo: – Monsieur Peruggià... chapeau!

Vincenzo Peruggia.

“Vuoi vedere che magarila Gioconda è finita a

Caravate e anch’io come ilLépin mi ci sono seduto

sopra senz’accorgermene?!”

36 Menta e Rosmarino

Che senso ha il vostrocostruire?

Che senso ha il vostro costruire?Dov’è il piano che seguite?Te lo mostriamo appena termina la giornata, ora non possiamo interrompere.

da Le città invisibili, ITALO CALVINO

Si costruisce, come dice Italo Calvino, senza inter-ruzione, senza neppure chiedersi dove si vuole arri-vare.

Nei nostri paesi dal 1956 al 2001 la superficie edi-ficata è aumentata del 500%; negli ultimi 15 anni 3,5milioni di ettari sono stati divorati dal cemento: sitratta di dati che lasciano sconcertati.

Si è costruito e si continua a costruire non tantoper una necessità abitativa (il 20% delle abitazioninon è abitata), quanto perché l’edilizia fornisce unsostegno indispensabile per l’economia del nostropaese. Ne è prova il fatto che, di fronte ad una crisi,il governo incrementa le possibilità edificatorie.

D’altro canto, i Comuni, che ormai sono economi-camente alla canna del gas, non possono permettersidi rinunciare agli oneri che derivano loro dalle nuovecostruzioni e legittimano piani regolatori sempre più“generosi”.

Ne derivano pesanti conseguenze: il nostro territo-rio, sempre più cementificato, sta assumendo sem-bianze nuove e spesso indesiderate.

Vogliamo, a tal proposito, raccogliere alcune auto-revoli opinioni.

PATRIZIO BEDON(architetto e artista di Cerro di Caldana)

Credo che la domanda, che implica un interrogarcisull’utile, ci rimandi ad una crisi planetaria pro-

fonda, prima ancora che italiana, di un mondo che pareavviato all’auto distruzione nell’arroganza predatoria.Fermandoci al nostro microcosmo, si constata che ro-vinare il paesaggio è diventata l’ultima spiaggia della

creatività italiana, individuale e pubblica, impegnatanella produzione di denaro. Cioè, come si dice, questoè il sistema per “far girare l’economia”. Allora, peruscire dal solito angolino paralizzante della “necessità”contingente, basterà dire subito che in un paese ormaischiacciato dal conflitto di interessi, dalla disonestà,dall’opportunismo e dall’ignoranza, non si vedrà maiabbastanza bene quanto marciume, quanta falsità e pi-grizia intellettuale si nascondano dietro l’invocazionedella “necessità”. Ci sono zone in Italia dove il pae-saggio si distrugge prevalentemente con l’abusivismo,altre (e la nostra è tra queste) dove la distruzione si-stematica è ben regolamentata per legge, con profu-sione di piani regolatori e relative varianti, o digoverno territoriale (è di moda), che naturalmente co-stano soldi pubblici. Come dire: paghiamo per rovi-narci, e ci roviniamo per pagare ulteriore rovina. Sì,perché il paesaggio, naturale e antropico, fatto di bo-schi, prati e vecchi paesi conclusi nella loro preziosa einsostituibile dignità di rassicurante e fondante nostal-gia, rappresenta la radice simbolica, ma anche reale econcreta, che ci lega ad una immagine di mondo nonancora suicida. Radice reale e concreta che noi di-struggiamo allegramente, riempiendoci poi la bocca distupidi e astratti ideologismi di identità e appartenenza.Perché progettare non vuol dire necessariamente pre-pararsi a costruire (nella corrente visione cementizia,quantista e predatoria della vita); progettare potrebbeanche significare predisporre un argine al brutto e al-l’inutile per ricominciare dal bello e dall’utile. Comedicevano i greci, salvare il bello e il buono, che poisono la stessa cosa: la qualità della nostra vita.

ENRICO BRUNELLA(architetto, pittore e poeta di Gavirate)

Gli Strumenti di pianificazione che hanno regolatosino ad oggi “il costruire” nel nostro territorio

hanno sempre considerato marginalmente la “dimen-sione paesaggistica”, e anche là dove il paesaggio èstato oggetto di “misura” non sempre ci si è espressi intermini di qualità urbana.

Dobbiamo ripartire dal paesaggio-ambiente, operareaffinchè la conservazione del paesaggio così come lariqualificazione e la rilettura dell’identità del costruitosiano sempre più condivisi anche a livello locale. Sidevono perciò rafforzare i legami tra gli strumenti po-litici strategici e tecnici al fine di realizzare questi dueobiettivi proprio per riappropriarci, quale società, diquei peculiari significati che ci fanno sentire di appar-tenere ad un territorio.

Inoltre in questi ultimi anni la rapida ed inarrestabileevoluzione delle questioni dell’energia, della mobilità,dei flussi migratori e dell’inurbamento (anche selvag-gio) hanno prodotto un notevole impatto sull’urbani-stica e sulle politiche legate al paesaggio edall’ambiente, tanto da essere affrontate, finalmente,nella nuova Legge Urbanistica che oltre ad istituire alivello locale dei veri e propri Piani di Governo delTerritorio, ribadisce l’importanza del territorio comecontenuto e non più come contenitore.

LA PAGINA POLITICA A CURA DI ROBERTO VEGEZZI

Gavirate, il Sasso.

Menta e Rosmarino 37

S. Andrea, primi del ‘900.(Archivio fotograficofam. Gavagna)

Non bastano però solo i segni di un cambiamentonormativo per affrontare la delicata questione, la com-plessità del concetto di ambiente rende indispensabilila compresenza di diverse competenze e modalità dilettura, l’ambiente è campo di indagine e di azione nonsolo per le consacrate discipline scientifiche ma ancheper quelle umanistiche, è necessario superare una vi-sione limitatamente antropocentrica, per promuovereuna cultura di appartenenza al “paesaggio ambiente”,qualunque esso sia, e stimolare un nuovo pensiero ope-rativo della politica urbana sul paesaggio, una visionedi ambiente dato dalla profonda e continua interazionetra componenti naturali ed antropiche impostata su unagestione integrata del territorio in cui esigenze econo-miche, benessere, progresso e tutela ambientale costi-tuiscano realtà compatibili, per realizzare un sistemain cui natura e cultura possano interagire positivamenteper futuri equilibri.

FABIO FELLI(sindaco di Gemonio e operatore nel settore immo-biliare)

La cementificazione del territorio, intesa come atti-vità sistematica e pianificata di edificazione, ha

avuto inizio nel secondo dopoguerra quando, in pre-senza del boom economico, si era avvertita la necessitàe soprattutto la possibilità per un sempre crescente nu-mero di famiglie italiane di dotarsi di tutta una serie dibeni, tra i quali la casa, che fino ad allora erano statiappannaggio delle classi sociali più elevate.

Allo stesso tempo lo sviluppo economico nazionaletraeva profondi benefici dall’incremento dell’attivitàedificatoria che, allora come oggi, ne costituiva untraino indispensabile.

Ho fatto questa breve premessa perché credo che glistrumenti urbanistici dell’epoca così come quelli re-datti nei decenni successivi, alcuni dei quali ancora invigore, abbiano risentito di questa filosofia di pensierodeterminata da un’esigenza effettivamente reale.

Con il passare del tempo questa impostazione si sa-rebbe dovuta modificare di fronte all’evidente ed irre-versibile erosione del territorio.

Ma i Comuni, attingendo dagli oneri di urbanizza-zione, diretta conseguenza dell’edificazione, impor-tanti risorse economiche necessarie alla realizzazionedei loro investimenti nel campo delle opere pubblichesi ritrovano nella difficile situazione di non potervi ri-nunciare. Allo stesso tempo inizia a farsi strada una co-scienza sempre più critica nei confronti dellasalvaguardia del territorio.

Come tutelare entrambe le posizioni? Un equilibrioveramente difficile non solo da ottenere ma anche daconcepire. Infatti è difficile pensare che i Comuni pos-sano interrompere o ridurre drasticamente la possibilitàdi investimento.

Ma non è tutto. Se consideriamo che, come previstodalla Legge Finanziaria, ai Comuni è data anche lapossibilità di attingere una quota cospicua dagli oneridi urbanizzazione (dal 25 al 50 per cento a secondadella destinazione) per pareggiare il bilancio – e i Co-muni che si avvalgono di questa facoltà sono molti piùdi quanto si pensi – ecco che il quadro della dipen-denza dei Comuni dall’attività edificatoria diventa divitale e di difficile soluzione. Basti pensare alle diffi-coltà contingenti che questi Comuni stanno affron-tando con i loro bilanci in questi periodi dirallentamento dell’attività edilizia dovuta alla crisi eco-nomica che sta attanagliando l’intera nazione. QuestiEnti non potrebbero in alcun modo ostacolare di pro-posito l’attività edilizia e quindi questi flussi di denaroin entrata. Un autentico circolo vizioso!

Ho la fortuna di amministrare un Comune che nonutilizza, per scelta, gli oneri di urbanizzazione per pa-reggiare il bilancio. Almeno sotto questo aspetto, i mieiconcittadini possono stare tranquilli.

Qualche domanda su quale possa essere il futuro esoprattutto come gestire un così delicato equilibrio tranecessità e salvaguardia del territorio è d’obbligo ini-ziare a porsela. Non potendo oggi concepire una qual-sivoglia soluzione di carattere legislativo o interventimolto poco probabili – per non dire impossibili – daparte dello Stato centrale, quello che noi amministra-tori possiamo fare è mettere in campo ingenti dosi dibuon senso nell’effettuare le scelte di competenza.

GIOVANNA MELONI(insegnante e consigliere comunale)

Se andiamo a leggere i principi del Piano TerritorialeProvinciale o anche solo dei PRG/PGT dei nostri

comuni sembra non ci siamo dubbi, tutti sono straor-dinariamente d’accordo nel sostenere la necessità di“tutelare e valorizzare la risorsa suolo, tutelare ed ac-crescere le biodiversità, ridurre le pressioni antropi-che e accrescere la qualità ambientale, garantire lamobilità preservando le risorse ambientali, delinearemodelli di sviluppo sostenibile, sostenere la coesionesociale e l’identità culturale”. I partiti (dite voi quali!),si stracciano le vesti in campagna elettorale parlando diidentità, di valori legati al territorio, di crocifissi, poisul campo dimostrano il contrario, perché cementifi-cano dappertutto e stravolgono così l’eredità delle co-munità. “Di buoni principi è lastricata la viadell’inferno”. E’ necessario invertire la tendenza, nonè più possibile sostenere la logica speculativa e delguadagno facile: nel processo di globalizzazione chestiamo attraversando dobbiamo agire in modo intelli-gente rinunciando all’interesse immediato per favorirel’investimento futuro. Dobbiamo essere capaci di in-vestire in ciò che ci rende unici e ciò che rende unicoil nostro paese è il paesaggio e il suo ambiente.

38 Menta e Rosmarino

Dal 2011 non sarà più possibile utilizzare gli oneri diurbanizzazione per pareggiare i bilanci comunali (… esperiamo non ci siano le solite deroghe!). Certo ancoranon si sa come faranno i Comuni a far quadrare i conti,forse con un federalismo fiscale per ora immaturo efortemente ambiguo. Almeno però non sarà più possi-bile dire che si brucia e si svende il territorio con il“buon proposito” di risanare le casse comunali!

E intanto… il mio Comune, amministrato dallaLega, nonostante tutto, ha deciso di edificare un nuovoMunicipio anziché ristrutturare l’esistente magari re-cuperando l’edificio della scuola che lei stessa avevafatto chiudere.

ALBERTO PALAZZI (insegnante e direttore di “Menta e Rosmarino”)

C’è una famosa canzone per bambini il cui testodice:

Come fa il cane? Bau Bau!E il gatto? Miao!L’asinello? Hi! Ho!La mucca? Muu!La rana? Cra cra!La pecora? Beee!E il coccodrillo? E il coccodrillo? Il coccodrillo come fa,non c’è nessuno che lo sa.

Il coccodrillo come fa? Piange. Di solito, prima si in-gozza e dopo piange. Poi però è subito pronto a rimettersia mangiare, perché le sue sono lacrime di coccodrillo.

Noi, come i coccodrilli: prima abbiamo costruito inlungo e in largo (facendo non pochi scempi) e poi tuttia piangere.

Prima, nel nome del mattone, tutti d’accordo. GliAmministratori a spalancare le porte (anzi i portoni!)e noi tutti, ricchi e poveri, onesti ed imbroglioni, buonie cattivi, rossi e verdi, tutti a costruire! (Batta un colpochi, potendolo, non ne ha approfittato!).

In questo senso il mattone ha avuto una funzione ad-dirittura filantropica. Il mattone come Amnesty Inter-national, per la pace fra le genti. Ora, siamo qui a

piangere. Tuttavia la mia paura va ben oltre. Temo cheanche quelle di oggi siano lacrime di coccodrillo e che,appena finito di piangere, se solo il mercato dovesseriprendersi, come i coccodrilli ricominceremo a co-struire. Esattamente come prima.

CARLO STELLA (Ingegnere di Gavirate)

Oggi un qualsiasi argomento di carattere ambientalearriva all’attenzione del cittadino e solo per un pe-

riodo di tempo normalmente breve se appartiene alla ca-tegoria delle “emergenze”, di cui abbiamo purtroppoun campionario vastissimo, o delle cosiddette “grandisfide”, altrimenti è destinato agli addetti ai lavori ed apochi altri.

Il territorio del nostro Paese, suo malgrado, appar-tiene di diritto a tutte e due le categorie, ma arriva al-l’opinione pubblica solo in occasione di catastrofi o dieventi comunque negativi.

Le domande che ci pone Italo Calvino e che riguar-dano il costruire, quindi il territorio, sono di quelle cheinvitano alla riflessione ed all’agire non sotto la pres-sione dell’emergenza o dell’urgenza ma come esito delconfronto tra tutti i soggetti interessati, pubblici e pri-vati, e dell’applicazione di approcci metodologici coe-renti e trasparenti.

Gavirate sta delineando in questo periodo il suo Pianodi Governo del Territorio, nel quale entrano tutte le te-matiche sensibili riguardanti la residenza, l’ambiente, leinfrastrutture, gli spazi pubblici e le interazioni con ilcontesto sociale, l’economia e la mobilità, ampliandopossibilmente l’orizzonte ad ambiti sovracomunali.

Uno dei criteri guida dovrebbe comunque esserequello di evitare ogni ulteriore consumo di suolo, al dilà del già costruito e di quanto le attuali previsioni dipiano consentono di realizzare.

Utopia? Non credo, è solo realismo calato in un ter-ritorio che per le sue caratteristiche morfologiche, peril suo pregio paesaggistico e naturalistico chiede a tuttinoi di essere salvaguardato per la qualità della nostravita e di essere preservato per le future generazioni.

A quanto scritto dalle persone intervistate, vorreiaggiungere una mia osservazione. Le aree non edi-ficate attorno e dentro i paesi, quei ritagli di verdecome prati e boschetti, che incorniciano e danno re-spiro all’abitato, vengono sistematicamente occupateda nuove costruzioni: a volte sono case magari belle,con praticelli ben curati dove fanno bella mostraBiancaneve e i sette nani, dove troviamo pavimenta-zioni esterne su cui troneggia l’immancabile barbe-cue, ma che hanno poco o nulla a che vedere con ilcontesto dove vengono edificate, che stonano, cheprevalgono e snaturano il paesaggio; o peggio fab-bricati industriali o commerciali sproporzionati,brutti e senz’anima. Purtroppo di queste ferite ce nesi accorge dopo (a volte!)... e non sono come le scrittesui muri, che si possono cancellare.

S. Andrea - Entrata in paese.

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Menta e Rosmarino 39

Don Piero Follidi ROBERTO RAVANELLI

Carolina! Disse la “Signorina”. Era una bella gior-nata di sole dell’aprile del trentasei, la Emma,per tutti però Carolina, o meglio “Carolina Tu-

desca”, sentì un dolore sordo al cuore; quando i signorichiamavano e con quel tono, le cose potevano solomettersi male. Già era un periodo sfortunato, qualchemese prima era morta la vacca,i il Pietro aveva avutoproblemi di salute, aveva una strana sensazione, eadesso che novità ci sarebbe stata? “La casa ha da es-sere libera per novembre!” disse la “Signorina”, e se neandò.

Non c’era stato neanche il tempo di balbettare qual-cosa, e poi così grossa proprio non se l’aspettava; nonne capiva il motivo era libera anche la casa vicina,dopo che il guardiacaccia si era trasferito; con tre figlitrovare casa era difficile.ii

Dopo essersi ripresa sulla panca di pietra ed essersiasciugata le copiose lacrime con il grembiule, condi-vise il consiglio della sorella Maria e stabilirono di re-carsi dal don Folli.

Da Caldana a Voldomino era un viaggio che richie-deva un minimo di programmazione, occorreva tuttala giornata.

Sulla porta della canonica furono fermate dallamadre “cosa volete?”, la Maria, che era più pronta, ri-spose “siamo di Caldana” e furono fatte entrare; rac-contarono brevemente la storia, don Piero assicurò chesarebbe venuto a parlarne, avrebbe annunciato la datae l’ora con un telegramma; dopo essersi rifocillate edopo un buon sorso d’acqua fresca, ripartirono perchéil viaggio di ritorno era altrettanto lungo.

Nel giorno fissato, l’incontro fra il don Piero, “unuomo grande” ricorda la Carla che allora aveva dodicianni, e la Signorina fu subito burrascoso, i toni accesinon cambiarono la decisione, quando venne ricordatoche il Signore è generoso con chi mostra misericordiala risposta fu imperiosa: “non c’è uomo nè Dio che micomanda”.

Don Piero rispose: “guarda Maria che la superbiaparte a cavallo e spesso torna a piedi”, ma fu ribadito“libera per novembre”.

Nonostante le buone parole di speranza e di confortorivolte alle due donne, per il prete, che per i poveri e lagiustizia, si buttava sempre anima e corpo, fu unasconfitta (non era la prima, non sarà neanche l’ultima).

Chi era don Piero Folli, perché due donne in diffi-coltà, andassero da Caldana a Voldomino, tredici annidopo che aveva lasciato la parrocchia?

Don Piero Folli nacque a Premenoiii il 17 settembre1881, fu battezzato il giorno seguente, come allorad’abitudine.

Già in seminario afferma la Sua fattiva solidarietàcon le prime lotte operaie del 1898.iv La Sua ordina-zione da parte del Card. Ferrari avvenne il 28/05/1904;

padrini della Sua prima messa, il conte Jacini e l’avvMiglioli, futuri esponenti del Partito Popolare.

La fraterna amicizia con don Davide Albertario, il sa-cerdote che tanto si è battuto per l’affermazione dei prin-cipi della dottrina sociale cristiana, è un tasselloimportante della Sua formazione ed esalta la Sua natu-rale sensibilità ai temi sociali, la Sua attenzione per i piùdeboli ed il suo anelito alla giustizia.

Inviato inizialmente quale coadiutore a Vendrogno,viene, dopo qualche mese trasferito a Cislago, qui il Suoimpegno sociale ha modo di esprimersi in tutte le dire-zioni è corrispondente dei giornali “Il Lavoro” e “Tri-buna Sociale”, organizza scuole di taglio e cucito, scuoleserali con centinaia di allievi, conferenze agrarie, svolgeattività di assistente della Lega del Lavoro ed altre ini-ziative volte alla presa di coscienza dei lavoratori.

Partecipa attivamente agli scioperi operai delle fi-lande.

Nel 1909 viene trasferito, sempre come coadiutore,a Tradate; il compito principale è quello di svilupparel’Azione Cattolica anche per contrastare il dilagare,impetuoso, della dottrina socialista; don Piero, comesua abitudine, non perde tempo, appena giunto costi-tuisce la “Lega del Lavoro” per organizzare gli operaicattolici e dare loro una adeguata formazionev fre-quenta don Carlo Grugni suo nuovo maestro nella Pa-storale del Lavoro. Instancabile fonda “GiovaneTradate” per attirare i giovani e, nel 1911 “L’Unionedel Bene” che raduna oltre 80 donne, l’inaugurazionedella nuova attività vede la presenza del sindaco, deirappresentanti della diocesi ma non del prevosto; i con-trasti in atto fra la autorità religiosa e civile faranno didon Folli il parafulmine e l’”Unione” dovrà esseresciolta.vi

Dal gennaio 1915 don Folli viene nominato parrocoa Carnisio; la parrocchia ha appena lasciato alle spalleuno dei periodi più travagliati della sua storia ed oc-corre un paziente e lungo lavoro di riconciliazione;l’entrata in guerra dell’Italia, con gli uomini al fronte,le risorse assorbite dalle spese di guerra, determineràun lungo periodo di indigenza.

Don Piero si rivolta le maniche edimpianta uno stabilimento per riparareed accomodare le divise militari.

La sede dello stabilimento è il sa-lone della Società Operaia, la forza la-vorativa è costituita di sole donne, peril paese un aiuto concreto in momentidi particolare difficoltà.

Terminata la guerra con le pesanti conseguenze,venti giovani caldanesi restarono sui campi di batta-glia, negli ospedali o nei campi di prigionia e l’econo-mia in rovina, don Piero riconvertì la produzione e sicomincia a produrre biancheria femminile.

Solo un attimo di serenità, in questo periodo il par-roco più frequentemente si lascia andare ad un passa-tempo che gli ha valso il soprannome “zifulin”,fischietta canzoni ed arie allegre.

Ma è solo un breve intervallo altre bufere oscuranoil cielo, il fascismo si affaccia all’orizzonte, lo scontroè con i socialisti ed i bolscevichi, ma fra una spedi-

Don Piero Folli.

TRA MEMORIA E STORIA

“non c’è uomo né Dioche mi comanda”

40 Menta e Rosmarino

zione e l’altra avanza un poco di tempo anche perquelli della lega bianca e don Folli è nell’elenco.

Dal Cronicus e dai racconti dell’interessato, la puni-zione dell’olio di ricino, benché organizzata, non fuposta in essere per la veemente reazione del parroco, perla presenza di un cane feroce, per la difesa con la sacraScrittura; da altre fonti si hanno versioni contrastanti e

viene indicato un sog-giorno a Cittiglio per di-gerire l’olio e soprattuttoper curarsi dalle basto-nate che accompagna-rono l’avvenimento.

La difficoltà del mo-mento, la sensibilitàverso i problemi sociali,sicuramente gravi, inquesto periodo fannotralasciare gli interventidi mantenimento, abbel-limento ed ampliamentodei fabbricati parroc-chiali e di questo nelCronicus, in una sintesi,sicuramente non bene-vola, si fa menzione.

Durante la missione aTradate e nei primi pe-riodi Carnisio subisce

anche l’accusa di “modernismo”; trovando poi difesadal Suo Cardinale.

Lo scontro col fascismo in un periodo in cui la gerar-chia cerca di stabilire buoni rapporti con il potere im-pone la scelta di sacrificare il parroco dalla schienadiritta; don Folli, contro la Sua volontà e dopo un pe-riodo di contrasti, viene trasferito a Voldomino.

Don Folli lascia la parrocchia di Carnisio nel maggiodel 1923, i parrocchiani sono ferocemente divisi, unafazione si batte perché o torni don Folli o non venga no-minato altro parroco, lo scontro in tutta Italia è all’apice,la violenza è parte della dieta quotidiana.

Voldomino, per un poco, pare ridonare la serenità, perquesto rinuncerà a promozioni; ha il dono della parolascritta e parlata, collabora a giornali ed è apprezzato pre-dicatore.

Organizza società sportive, la sua squadra di ginna-stica si esibisce con successo a Lugano, Bergamo, Sa-vona, Venezia; migliora la struttura della sua chiesa eper far questo dissangua le, pur consistenti, risorse dellasua famiglia; poi per i giovani costituisce, ancora, la fi-lodrammatica, il cinema (muto), la biblioteca, la scuoladel lavoro, la Schola Cantorum; la sua filosofia era “ri-cercare i lontani custodire i vicini”.

La difesa della libertà di coscienza e della sacralitàdella persona, seminata per 20 anni da un parroco co-raggioso, consente un copioso raccolto nella notte dellaragione e della umanità che colpì tanta gente fra il ‘43ed il ‘45.

Don Folli, medaglia d’oro della Resistenza, dopo l’ar-mistizio,vii prende contatto con il Comitato di Libera-zione Nazionale, presta il suo aiuto ai partigiani del SanMartino,viii anche segnalando con le lenzuola stese ilpassaggio dei convogli nazisti.

Ma è soprattutto nell’organizzare l’espatrio, in Sviz-zera, di prigionieri alleati evasi, perseguitati politici, re-nitenti alla leva ed ebrei che don Folli dimostra lagenerosità, la lealtà, il coraggio, senza risparmio di sè

stesso e con l’aiuto generoso e disinteressato di tutta lasua gente.

“La Sua casa, la sacrestia, l’oratorio di Santa Liberata,sono letteralmente invase da centinaia di persone fug-giasche che vengono accolte, ospitate, rifocillate, aiu-tate ad espatriare” si legge nei resoconti storici.

L’espatrio degli ebreiix non era compreso negli obiet-tivi militari del CLN, don Piero sosteneva che “era unobbligo cristiano salvare quelle famiglie” e sicuramentenon si tirò indietro; i suoi collegamenti arrivavano allaCosta azzurra ed alla Toscana, suo tramite il CardinaleBoetto di Genova.

La sera del 3 dicembre del ‘43, gli ebrei respinti allafrontiera tornarono alla canonica, dove vengono sor-presi; don Folli legato alla cancellata, dopo essere statopercosso ed umiliato, trova il coraggio di reagire quandovede donne e bambini ebrei percossi e caricati su un ca-mion.

Per farlo tacere lo prendono per i capelli, che sarannostrappati e gli sbattono la testa contro l’inferriata.

Trasferito a San Vittore, riesce a meritarsi un pestag-gio con il calcio dei fucili perchè benedice un gruppo diprigionieri che sta’ per essere deportato in Germania.

Il cardinale Schuster,x dopo tre mesi di carcere duro,xi

riesce a farlo uscire; venne confinato a Cesano Boscone.Terminata la tempesta torna a Voldomino, scende alla

stazione prima, per evitare l’accoglienza festosa dei par-rocchiani, e passa al cimitero a pregare sulla tomba dellamadre.

Evita le vendette e le giustizie sommarie, salva moltisospettati di collaborazionismo.

Tre anni dopo morente dice ai suoi parrocchiani “chevolete di più, avete anche la benedizione di un vecchioavanzo di galera”.

L’otto marzo del 1948, questo prete scomodo e co-raggioso si presenta alla casa del Padre.

Cronisti di quel Regno, di solito ben informati, assi-curarano che quelle che, agli occhi degli stolti sembra-rono sconfitte, erano tutte scritte nella colonna destradel Registro (quella dell’avere) e che erano così tanteche assicurarono un premio proprio speciale.

i La mucca garantiva latte, burro, formaggio qualche spicciolo giornaliero ed un buon introito con il vitello.

La morte della mucca poteva portare alla miseria. ii Poi sarebbe stata anche più dura per i meridionali ed a seguire per

gli extracomunitari.iii In alcuni documenti viene indicato Milano dove nacquero 4 dei 6

fratelli e dove era residente il padre di professione cuoco, probabilmenteal servizio di ricca famiglia che passava le vacanze a Premeno.

iv Gli scontri, per la cui ferocia, passò alla storia il generale BavaBeccaris.

v Alla prima riunione presenti oltre 50 persone, in prevalenza donne.vi Il prevosto riconosce i meriti ed elogia l’afflato volto a recuperare

alla chiesa quanti se ne stavano allontanando, evidenzia anche una caducità delle sue iniziative.

vii 8 settembre 1943.viii Al comando del colonnello Croce quasi 200 uomini, fra cui in

glesi, serbi, greci si rifugiarono sul monte San Martino, le attività sisvolsero nei mesi di settembre ed ottobre; parte di loro circondati dapreponderanti forze nemiche, affrontate a viso aperto, furono sconfitti,dopo 4 giorni di battaglia feroce, il 18/11/1943. I 36 prigionieri furonofucilati.

ix Emigrarono in Svizzera, nel periodo 43/45 circa 5000ebrei, l’80 %di questi passò attraverso il varesotto e la maggior parte di essi fu salvato grazie all’aiuto del basso clero.

x Il cardinale Schuster (vescovo di Milano dal 1929 al 1954) dapprima lo trattò rudemente, forse influenzato dalle interessate mormorazioni politiche, in seguito si ricredette e mostrò crescente stima nei suoiconfronti.

xi Benchè picchiato e sottoposto a torture non rileverà mai i nomi diquanti collaboravano con lui all’espatrio dei ricercati.

Menta e Rosmarino 41

Castello Cabiaglio. Nella corte d’accesso della Lo-canda del Glicine Antico, troneggia maestoso unglicine che, nato con la costruzione della villa

nel 1597, è considerato tra i più vecchi d’Europa: inprimavera i suoi rami, che si intrecciano sulla facciatafino a coprire un‘antica meridiana, si rivestono di grap-poli fioriti dalle infinite sfumature di color viola.. L’an-tichissimo borgo di Castello Cabiaglio è situato alcentro della Valcuvia, che vide le sue origini nell’epocaromana.

�Da tempo la società «ProCabiaglio» sta studiando un

servizio di vetture automobilistiche che metta incomunicazione i paesi della Valcuvia con la città di Va-rese, ma purtroppo alla realizzazione del progetto sifrappongono numerosi ostacoli, primo fra tutti quellofinanziario. In questi giorni il Consiglio della “ProCa-biaglio» ha ricevuto un’interessante proposta da unnoto industriale di Orino, proprietario di un’officinaelettromeccanica, intenzionato ad attivare un serviziodi trasporto passeggeri sulla linea Orino, Cabiaglio,Brinzio, Rasa, Varese e viceversa, mediante specialiautomobili elettriche (!!!). Ogni vettura, da costruirenell’officina di Orino, almeno per quanto riguarda leparti meccaniche, potrà trasportare dalle 18 alle 20 per-sone, oltre ai bagagli personali. Il Consiglio della «ProCabiaglio» prenderà contatti con le autorità locali ondefacilitare le pratiche per le concessioni, convinto che losviluppo della Valcuvia dipenda in larga parte dal mi-glioramento delle comunicazioni.

(La Prealpina, 8 gennaio 1910)

�La cosiddetta Valcuvia è una regione boschiva del cir-

condario di Varese, in provincia di Como, prossimaal Lago Maggiore e da questo separata da una fila dialte colline, che tolgono la vista delle acque e delleAlpi e che sono tutte ornate di alberi secolari. La partepiù alta e più notevole è Montenudo, con pochi e radiboschi, il quale sta solitario a guardia delle alte colline.La popolazione è sparsa in ventuno centri di piccoleabitazioni, comuni piccoli, quasi insignificanti, con po-polazione scarsa ed emigrante. La città capitale è ap-punto Cuvio, che dà nome alla Valle, con sede dipretura, e con una stazione di reali carabinieri. Ma que-sta città capitale non ha che 1202 abitanti, secondol’ultimo censimento del 1901. Le case principali, conpoche botteghe, sono chiuse dalla strada, che gira in-torno ad esse e riesce allo stesso punto, sullo stradoneche da Gemonio passa per Azzio e mette al capoluogo.Credo che una o due case, alte e ben costruite, riman-gano fuori dal grande mucchio: tutte le altre sono den-tro, a destra di chi cammina. Vi sono altri grossi

comuni, grossi in proporzione: Caravate, con 1622 abi-tanti; Cittiglio, presso al lago, con 1330 abitanti; e Ge-monio, con 1182; queste due abitazioni hanno lastazione ferroviaria sulla linea Nord-Milano. Il restode’ vari comuni e delle frazioni dei detti comuni èsparso e diffuso nella valle. Duno, tra’ più piccoli, ha274 abitanti; Vararo, anche piccolo, non ha che 259abitanti, e Masciago, il più piccolo di tutti, ha appena258 abitanti.

(Nuova Antologia Mario Mandalari, 1907)

�Ci fu un tempo in cui quel pianoro che sovrasta l’abi-

tato di Orino era, di nome e di fatto, il “Pian delleNoci”.

Ci fu un tempo in cui gli abitanti di questo paesetraevano dalla terra e dalle piante di noci una parte delloro sostentamento.

Era il tempo degli uomini che, all’approssimarsidella primavera, facevano i bagagli e partivano: emi-gravano per poter assicurare alla famiglia, che restava,un inverno meno “duro” di quello appena passato.Erano anni lontani, ma non troppo, se qualcuno di co-loro che li hanno vissuti, in barba alla miseria e altempo che passa sempre troppo in fretta, è ancora quia raccontarceli.

Anni lontani che si conservano nei loro cuori as-sieme alla memoria della giovinezza e che sono tor-nati a noi come un vecchio film in bianco e neroconservato in fondo ad un cassetto per raccontarci diuna Orino persa nella nebbia del passato, di una Orinocom’era e di come si stava.

Era il tempo dell’olio ottenuto spremendo le noci chesi raccoglievano in abbondanza, all’inizio di ogni au-tunno, un po’ ovunque, ma in particolare al Pian di Nu-sitt, che, in una vecchia cartolina degli anni Venti, ciappare come un pascolo di montagna costellato di rari

E’ una rubrica che propone notizie desunte dai giornali dell’epoca, scelte fra quelle più strane e curiose.

FUORI DAL COMUNE A CURA DI GIUSEPPE CASSARÀ

Orino - Pian delle Noci,foto d’epoca.

42 Menta e Rosmarino

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alberi, gli ultimi superstiti di quella che fu una ben piùricca piantagione.

Gli ultimi ricordi del bosco di noci risalgono aglianni che precedono la Prima Guerra Mondiale. In se-guito, si sa solo che le piante vennero abbattute e pro-gressivamente sostituite con dei giovani abeti piantati

dai bambini delle scuole elementari inoccasione della “Festa degli Alberi”.

Il ricavato della vendita “all’incanto”delle noci del pianoro, condotta sulposto dal Parroco, andava a beneficiodella chiesa e del suo ministro, il qualenon doveva «passarsela» tanto megliodel resto del paese. Le noci raccolte neiprati e al margine dei campi nella re-

stante parte del territorio comunale erano ad uso pri-vato ed ognuno, come poteva, provvedeva alla lororaccolta ed essiccazione.

Nelle sere di autunno inoltrato le famiglie si riuni-vano a casa ora dell’uno ora dell’altro e, tra una chiac-chiera e un pettegolezzo, una favola e un ricordo, ledonne, i bambini e i pochi uomini rimasti in paese sgu-sciavano le noci separando quelle “andate a male” daquelle “sane”: Non si sprecava niente, perchè al tor-chio di Cuvio venivano portate sia le noci guaste chele buone, producendo dalle prime l’olio che sarebbestato consumato per primo e dalle altre quello da uti-lizzare durante il resto dell’anno.

Ora resta solo la memoria del sapore dell’olio dinoci, difficile da spiegare a chi non lo ha mai assag-giato.

(La Prealpina)

�La “Fabbrica d’organi Mascioni”. Tutto ebbe inizio

allorché presso il Convento di San Antonio dei FratiRiformati di Azzio, si stabilì attorno al 1800 un famosoorganaro di origine lodigiana, Gaspare Chiesa. In que-sto convento vivevano Padre Pietro di Azzio, il com-positore e organista Padre Gaetano d’Azzio e i PadriGianmaria e Bernardino di Cuvio (al secolo rispetti-vamente Giuseppe Antonio e Pasquale Antonio Ma-scioni). Questi ultimi consigliarono ad un loro nipote,Giacomo Mascioni, di intraprendere l’attività organa-ria. E così nel 1829, Giacomo Mascioni apre a Co-macchio di Cuvio la ‘Fabbrica d’organi Mascioni’. Daallora, sei generazioni di Mascioni si sono succedutealla guida della bottega, costruendo più di mille organie dedicandosi al restauro di preziosi strumenti antichi.

Dal 1829 l’azienda ha realizzato oltre 1100 organi. E’tuttora attiva ed è probabilmente la più antica d’Eu-ropa.

�Garibaldi da noi. Garibaldi era in ritirata o in fuga, se

si preferisce, tallonato dall’esercito austriaco. I l13 agosto da Castelletto Ticino, dove si era rifugiatodopo l’armistizio di Salasco, aveva lanciato un pro-clama ai lombardi dicendosi in disaccordo con la de-cisione del re piemontese e, impadronitosi di duebattelli ad Arona, fa rotta su Luino, attraverso il lagoMaggiore.

Sopraffatti gli austriaci a Luino, si porta a Varese at-traverso la Valganna e Cunardo. Qui resta un paio digiorni, era arrivato il 17, accolto da trionfatore dallafolla.

Si sposta poi ad Induno ed Arcisate, in posizione piùsicura. Da qui invia informatori e messi per verificarela situazione. È avvertito così dell’approssimarsi di uncontingente austriaco forte di 15.000 uomini.

Da Arcisate, per la Valceresio, si porta a Gemonioseguendo la via di S. Ambrogio, Avigno, Casciago eGavirate.

A Gavirate i garibaldini arrestano tal Marco Terziche, ritenuto una spia austriaca, sarà poi fucilato pro-prio a Gemonio in una località che viene indicata, dallatradizione, come la località Ronchi Nuovi. Addiritturala tradizione vuole che fino agli anni quaranta, o forsecinquanta, i gemoniesi più anziani sapessero indicarel’albero al quale fu legato quel prigioniero per la fuci-lazione.

[…] Mentre le truppe garibaldine sostano e pernot-tano sulla collina alle spalle del paese, il generale Ga-ribaldi invece è ospitato in casa del dottor MassimoSangalli, il cosiddetto “dottorone”, direttore sanitariodell’ospedale di Cittiglio e titolare di alcune condottemediche dei paesi dintorno.

La casa Sangalli è posta in via Rocco Cellina, pro-prio nel cuore del paese. Qui sono tutt’ora conservatialcuni oggetti che costituiscono i cimeli di quel pas-saggio: un mazzo di fiori donato alla signora ErnestaJemoli moglie del dott. Sangalli – un gesto di galante-ria tipico di Garibaldi molto sensibile al fascino fem-minile – ed una calza di cotone a righe dimenticata,pare, dal fido servitore che Garibaldi si era portato dal-l’America e che lo accompagnava nei suoi sposta-menti.

(Da Gemonio, ritratto di un paese pagg. 121-122).

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