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METAMORFOSI Storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone Le narrazioni del 10 settembre 2015

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METAMORFOSIStorie sull’origine del mondo

secondo Publio Ovidio Nasone

Le narrazioni del 10 settembre 2015

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Nota introduttiva

Nel Quaderno per i docenti avevamo già proposto molte informazio-ni utili per preparare gli allievi alla giornata del 10 settembre. In par-ticolare, per restare alle caratteristiche principali di «Piazzaparola»,rammentiamo i capitoli dedicati all’importanza e all’attualità del-l’opera di Ovidio (Perché leggere Ovidio?), alla sua biografia (Storia diun uomo e di un poeta) e alle peculiarità delle Metamorfosi (LeMetamorfosi: un canto dall’origine del mondo).Per l’occasione avevamo preparato e adattato otto racconti ovidiani,dei quali solo sei sono stati portati in scena; qui, però, li riportiamotutti, in modo che possano essere ricordo e, insieme, stimolo perquei docenti e quei ragazzi che volessero proseguire il viaggio nelmito e nelle metamorfosi. I sei che chi c’era ha conosciuto sono statinarrati in maniere assai diverse.Abbiamo cominciato con La via Lattea, l’origine del mondo dal caos,la nascita dell’uomo, affidati alla musica di Giovanni Galfetti, compo-sta espressamente per «Piazzaparola», e alle voci radiofoniche di

Marco Fasola e Beppe Vedani,per gentile concessione dellaRSI, la radiotelevisione svizzera.Abbiamo continuato con Eco eNarciso, una metamorfosi affi-data a Sara Giulivi e a CristinaZamboni, che l’anno raccontatadal palco del Teatro, con la deli-catezza e il rispetto tipico delleattrici che sanno onorare ipoeti.Cristina Zamboni e SimonaMeisser hanno narrato e dise-gnato due bei racconti: la storiadi Europa, rapita da Giove tra-sformato in toro, e quella diProserpina, che, con un sotter-fugio escogitato da Venere, ladea dell’amore, e Cupido, il suogiovane figlio alato, fu data in

sposa nientemeno che al dio degli inferi.E ancora abbiamo incontrato Icaro, morto per aver voluto volaretroppo in alto, troppo vicino al sole, e re Mida, vittima ridicola dellasua sete di potere e della sua superbia: ce li hanno raccontati la vocedi Sara Giulivi e le tante note della fisarmonica e delle percussioni diDaniele Dell’Agnola.

Sono rimaste fuori due storie, perché non c’era più tempo. Una è lavicenda di Dafne, la bellissima ninfa che rifiutò l’amore del dioApollo e finì per essere trasformata in una pianta di alloro. L’altra èla metamorfosi di Aracne, una fanciulla che, per aver sfidato la deaMinerva, fu trasformata in un ragno.

Nel Quaderno per i docenti ci siamo pure occu-pati di alcuni aspetti linguistici, legati al fatto cheOvidio aveva scritto in latino, lingua che ha poidato origine a tante altre lingue romanze, come -appunto - l’italiano (Dal latino alle lingue roman-ze: un parlare al modo dei romani).

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Dal LIBER PRIMVSLa via Lattea, l’origine del mondo dal caos, la nascita dell’uomoADATTAMENTO DI SILVIA DEMARTINI E ADOLFO TOMASINI

Ascoltate, o Dei, il mio canto. E anche voi, con me, alzate gli occhial cielo, alla galassia in cui tutti siamo immersi, e ascoltatene isuoni…

Est via sublimis, caelo manifesta sereno;lactea nomen habet, candore notabilis ipso.Hac iter est superis ad magni tecta Tonantisregalemque domum: dextra laevaque deorumatria nobilium valvis celebrantur apertis.Plebs habitat diversa locis: hac parte potentescaelicolae clarique suos posuere penates;hic locus est, quem, si verbis audacia detur,haud timeam magni dixisse Palatia caeli.

Su in alto, nel cielo, c’è un’im-mensa via di stelle, candida esplendente, che si vede dallaterra nelle notti serene: si chia-ma Lattea ed è famosa per lasua lucentezza. Si racconta chesia nata dal latte di una Dea: laDea Era, sposa di Giove. Un bambino, un mortale dinome Eracle destinato a diven-tare un eroe, fu posto da Giovesulle ginocchia della moglie ad-dormentata, perché succhiasseil latte che lo avrebbe reso im-mortale. Ma Era si svegliò disoprassalto e, spaventata, spo-stò il bambino, si alzò, si agitò ealcune gocce del suo latteschizzarono per il firmamento… Latte divino si sparse nel cielo, doveil buio lo accolse e lo trasformò in una galassia di stelle. La nostragalassia, parola che in greco significa proprio lattea.Questa Via di stelle è diventata la strada di luce che percorrono gliDei per raggiungere la reggia di Giove, il re, il Dio supremo, che simanifesta col fulmine e il tuono.La sua dimora è davvero incredibile: immaginate bellissimi e ricchis-simi saloni, con porte e finestre enormi, in cui abitano tutte le divi-nità.In realtà non proprio tutte: gli Dei più importanti e più potentihanno la loro casa qui, in questo luogo magico, mentre gli Dei infe-riori abitano sparsi altrove.Se potessi essere tanto audace con le parole, oserei dire che ladimora di Giove sembra essere il punto più alto del cielo infinito,dal quale tutto discende e in cui tutto è stato creato. Ma prima,prima del tempo, prima della creazione di ciò che conosciamo…

Prima del mare, della terra e del cielo, che tutto copre, il volto dellanatura in tutto l’universo era uno solo, ed era detto Caos: una quan-tità enorme di materia immobile, senza forma e confusa; un’accoz-zaglia di germi differenti di cose mal combinate fra loro.

Con le voci di Marco Fasola eBeppe Vedani (per gentileconcessione della RSI) e conla musica originale di Gio-vanni Galfetti.

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Non c’era Titano - il Sole - che donava al mondo la luce; né Febe -la Luna - che, crescendo nel cielo, unisce le sue corna fino a diven-tare luna piena; la Terra non si manteneva sospesa nell’aria graziealla forza di gravità; e Anfitrìte - Dea dei mari e degli oceani - nonabbracciava ancora con l’acqua i margini dei continenti.Certo c’era già qualcosa di simile ai nostri terra, mare e aria, ma laterra era traballante (una massa scossa da terremoti e vulcani);il mare non era navigabile (le onde erano di una violenza impressio-nante) e l’aria era priva di luce (un buio spaventoso avvolgeva tuttele cose e i loro movimenti).

Niente aveva forma stabile. Provate a immaginare. Ogni cosa siopponeva alle altre in uno scontro continuo: il freddo lottava con ilcaldo, l’umido con il secco, il molle con il duro, il peso con l’assen-za di peso.

Un giorno, un Dio potente e misterioso, con l’approvazione dellanatura, provò a correggere questi contrasti: separò la terra dal cielo,il mare dalla terra e distinse il cielo limpido dall’aria densa. E dopoaver liberato i diversi elementi da quell’ammasso informe, riunìquelli dispersi nello spazio e li combinò in armonia. Provate a imma-ginarli.

• Primo fra tutti il fuoco, energia misteriosa, guizzò velocemente esi sistemò, con la sua fiamma, negli strati più alti;

• poco più sotto, per la sua leggerezza, si mise l’aria;• la terra, resa pesante dai massicci elementi che aveva assorbito,

rimase in basso oppressa dal peso;• e le correnti del mare andarono, pian piano, a riempire gli ultimi

spazi lasciati liberi dalla terra.

Quando ebbe sistemato ordinatamente il Caos, quel Dio, chiunquefosse, prima diede alla terra la forma sferica di un enorme globo;poi ordinò alle grandi onde del mare, gonfiate dai venti, di abbrac-ciare con precisione le coste della terraferma.E aggiunse fonti, stagni immensi e laghi; poi incanalò le correnti deifiumi, che, a volte, arrivavano fino al mare e, lì, si infrangevano conle onde sulle scogliere.Al suo comando si stesero campi e valli; i boschi diventarono coper-ti di foglie e si innalzarono alte montagne rocciose.

Fatto questo si occupò del caldo e del freddo, e li sistemò sulla terrain modo non uniforme. C’erano zone che gli uomini non potevanoabitare a causa del caldo soffocante e, all’opposto, zone gelide,imbiancate da enormi strati di neve e ghiaccio; e poi c’erano zonedal clima mite, temperato, in cui fuoco e gelo si mescolano.

Imminet his aër, qui, quanto est pondere terraepondus aquae levius, tanto est onerosior igni.Illic et nebulas, illic consistere nubesiussit et humanas motura tonitrua mentes et cum fulminibus facientes fulgura ventos.

Come ho detto, su tutte le zone incombeva l’aria. Nell’aria il Dioordinò che si raccogliessero nebbie e nuvole, e i tuoni che ci spa-ventano, e i fulmini e i venti che soffiano forte. Soffiano ancoraoggi, con raffiche che si dirigono in senso opposto (nord, sud,

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oriente, occidente): assomigliano a fratelli che litigano, e ciascunovuole la ragione dalla sua parte. Ascoltate i nomi di questi quattroventi litigiosi:

• Euro, il vento dell’aurora, accarezzava le cime delle montagneesposte ai raggi del mattino, cioè a oriente, dove nasce il sole;

• Zefiro, il vento della sera, soffiava a occidente, sulle coste scal-date dal sole al tramonto;

• l’agghiacciante Borea, vento freddo e tempestoso, infuriava alnord;

• all’opposto, al sud, il caldo Austro portava piogge abbondanti ele terre ne erano sempre bagnate.

Il Dio aveva appena sistemato così ogni cosa del mondo. Le stelle,dalle tenebre profonde, cominciarono a scintillare in tutto il cielo,gli astri invasero le distese celesti e poi ogni altro luogo, in terra ein aria, si riempì di forme vive: le onde furono la casa dei pesci guiz-zanti, l’aria ospitò gli uccelli e la terraferma accolse tutti gli altri ani-mali.

Sanctius his animal mentisque capacius altaedeerat adhuc et quod dominari in cetera posset:natus homo est, sive hunc divino semine fecitille opifex rerum, mundi melioris origo […]

Ma mancava ancora qualcosa: l’essere più nobile e più intelligente,che sapesse gestire gli altri. Nacque allora l’uomo, fatto con mate-ria divina e inizio di un mondo migliore. Impastato con acqua pio-vana e terra, l’uomo conservò in sé qualcosa di celeste che lo ren-deva simile agli Dei; e mentre gli altri animali erano soliti stare curvie guardare verso terra, il Dio fece l’uomo in modo che il suo visofosse rivolto al vento, e ordinò che guardasse il cielo e che ammi-rasse, dritto sulle gambe, il firmamento. Così la terra cominciò a trasformarsi grazie alla presenza dell’uomo,che da sempre prova a sfidare gli Dei e il destino. Le metamorfosi,cioè le trasformazioni, furono continue, e ancora oggi accadono ognigiorno, lente o veloci: sono parte della vita e fonte della vita stessa diciascuno, perché permettono che la vita, cambiando, continui.

In nova fert animus mutatas dicere formascorpora; di, coeptis (nam vos mutastis et illas)adspirate meis primaque ab origine mundiad mea perpetuum deducite tempora carmen!

La fantasia mi spinge a raccontare l’incredibile trasformarsi ditutte le cose.

O Dei, tutto questo dipende da voi, ispirate le mie parole, affinché iopossa narrare la storia dalle origini del mondo fino ai giorni nostri.

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Dal LIBER PRIMVSApollo e DafneADATTAMENTO DI SILVIA DEMARTINI

La storia che sto per raccontare comincia con un litigio fra due divi-nità: il bellissimo, nobile e regale Apollo e il piccolo, astuto e velo-ce Cupìdo. Il primo era figlio di Zeus ed era il dio che si occupavadelle arti, della musica, della poesia e di molto altro ancora; il suosimbolo era il sole. Il secondo era un ragazzino alato, figlio diVenere, ed era la divinità che guidava l’amore, principio vitale del-l’intero universo. Le sue frecce avevano un potere infallibile: pote-vano far innamorare chiunque veniva colpito. O non farlo innamo-rare mai più.Un giorno Apollo passeggiava per strada, vantandosi ad alta voce diavere ucciso a colpi di freccia un serpente gigantesco, chiamatoPitone. Mentre camminava vide Cupìdo, intento a costruire unnuovo arco, e cominciò a prenderlo in giro con queste parole:

«Ecco a voi, il dio dell’amore! Dimmi, grandiosa divinità, quali azio-ni degne di gloria hai compiuto? Hai per caso vinto prendendo apugni un gigante? Hai infilzato una bestia feroce a una vallata didistanza? O forse hai strappato a morsi la coda di un enorme ser-pente velenoso? Perché sai, se anche l’hai fatto io non ne so nulla...Gioca, gioca con le tue freccette!»

Cupìdo riuscì a non reagire alle parole offensive di Apollo, anche sedentro di sé aveva una gran voglia di saltare ben dritto sulle gambecon un colpo d’ali e di infilzare quello sbruffone con una freccia pro-prio nel sedere. Si sarebbe visto, poi, chi era il dio più potente!Eppure, le parole di sua mamma gli risuonavano in testa: «Cupìdo,

non essere impulsivo. Devi sapere che il tuoarco e le tue frecce, anche se non possonouccidere un leone, possono rendere schiavoun uomo! Questo è il potere dell’amore».Allora, la giovane divinità si sedette in unangolo a pensare al modo migliore di vendi-carsi del dio che lo aveva deriso. «Sarò anchegiovane e non avrò mai ucciso un serpente,ma questo non significa che non sappia ilfatto mio...». Pensa e ripensa, a un certopunto Cupìdo fece una capriola in aria, atter-rò con un gran sorriso e urlò a gran voce:

«Ho trovato! Ma certo, come ho fatto a nonpensarci prima! Sono il dio dell’amore el’amore è una delle armi più potenti, lo dico-

no tutti. Allora, io mi apposterò dove Dafne, la bellissima ninfa, sene sta sola soletta a fare il bagno nella fonte nascosta fra gli alberi,vicino alla quale passa Apollo ogni mattina, e la colpirò con unadelle mie frecce speciali numero uno: quelle che non fanno mai piùinnamorare chi ne è colpito; dopo di che, aspetterò che Apollo passidi lì e lo colpirò con la freccia numero due, quella che fa innamora-re chi è colpito della prima persona che si trova davanti. Così il diosbruffone si innamorerà della bella ninfa, che però non vorrà saper-ne di lui. Quel gradasso maleducato si sentirà una nullità! Ditemivoi, sono o non sono un genio?»

Giovanni Battista Tiepolo, Apollo e Dafne(1755-1760 ca.)

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E, tutto fiero di sé, corse via, pronto ad attuare il piano. Volò in cimaall’altissimo monte Parnaso e lì preparò la sua vendetta: scelse concura le due frecce, una spuntata e di piombo, che serviva a respin-gere l’amore, e un’altra, ben appuntita e dorata, che avrebbe fattonascere un amore irrefrenabile nel cuore di Apollo.

Il mattino dopo, Cupìdo era appostato dietro a una roccia. Intanto,la ninfa Dafne, figlia del fiume Penéo e di Gea, la madre terra, certadi essere sola e non vista da nessuno, si riposava dalle fatiche dellacaccia facendo un bagno nell’acqua della fonte. Il piccolo dio presela mira e scagliò con cura la freccia di piombo, che andò a colpireDafne senza che lei se ne accorgesse.Pochi istanti dopo, il bel dio Apollo passò di lì, ignaro di quantostava accadendo. Anche questa volta, Cupìdo prese la freccia e lascagliò senza sbagliare mira: la freccia, però, era dorata e avrebbefatto innamorare Apollo della ninfa al primo sguardo. Lei, invece,avrebbe respinto il dio con tutta sé stessa.Tutto andò come previsto e a Cupìdo non restava che godersi lospettacolo del suo potere. «Stavolta anche Apollo capirà chi è dav-vero potente», ridacchiava fra sé.«Dafne, mia amata!», gridò il dio Apollo alla ninfa Dafne, gettando-si tutto vestito nella fonte. «Perché mi guardi così? Dove scappi?».Terrorizzata, Dafne uscì dall’acqua coprendosi in fretta col vestitosottile e, senza nemmeno infilare le scarpe, iniziò a correre nellaforesta dicendo:

«Mai, mai! Non mi innamorerò mai! Chi sei tu che mi insegui? Via,via, vattene via! Non mi fermerò: meglio morta che innamorata!».

Cupìdo, dall’alto, si godeva la scena: «Ecco il grande dio: corre comeun bambino pregando qualcuno che non lo vorrà mai. Vedi, Apollo,la mia potenza?».Da quel giorno Apollo continuò a correre come un matto per iboschi alla ricerca di Dafne, spinto dalla passione che ardeva nel suocuore. Alla fine, dopo due giorni di corse, riuscì a trovarla, seduta aipiedi di un albero, ma Dafne, appena lo vide, ricominciò a correrepiena di paura. La poverina era stanchissima, le gambe quasi non lareggevano più.

«Fermati, mia amata fanciulla! Non voglio farti del male! Sono inna-morato di te, lascia almeno che ti parli!», gridava il dio.

Ma queste suppliche non valsero a nulla, così come non servì aniente il lungo elenco di imprese eroiche che Apollo urlava per cer-care di impressionare la ragazza.

«Sono così stanca e ho i piedi talmente pieni di tagli che sento dipoter svenire da un momento all’altro, ma non voglio fermarmi!»,

pensava Dafne fra sé, senza smettere di correre fra tronchi d’albero,spine, sassi e radici che la facevano inciampare. Cadde e si rialzò,una, due, tre, quattro volte. E ogni volta, Apollo era più vicino.Dopo un altro giorno e un’altra notte di fuga, la ninfa sentì di nonpoter più continuare. «Perché, perché mi è toccato questo destino?Che cos’ho fatto di male?»

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne

(1622-1625)

Domenico Zampieri, dettoDomenichino, Apolloe Dafne (1616-1618)

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E invocò la madre Gea, pregan-dola di liberarla da tanta soffe-renza:

«Madre mia, se mi vuoi bene,fa’ di me ciò che vuoi, ma cam-bia il mio aspetto, che mi pro-cura tanto dolore. Se restoquella che sono non avrò maipace, perché il dio Apollo mirincorrerà per sempre, o alme-no finché non morirò!».

La madre Gea, sconvolta daqueste parole, non potendo fa-re altro ascoltò la preghiera del-la figlia e iniziò a farla correresempre più lentamente, fino afermarla. E insieme iniziò a trasformare il suo corpo:

• i suoi lunghi capelli d’oro diventarono piccole foglie lucide dicolore verde scuro;

• le sue braccia si alzarono verso il cielo, diventando rami flessibi-li;

• il suo corpo aggraziato fu ricoperto di dura corteccia;• e i suoi piedi, un tempo bianchi e delicati, si tramutarono in radi-

ci robuste.• Infine, il suo viso, rigato di lacrime, scomparve lentamente nella

cima dell’albero.

Dafne si era trasformata in una pianta forte e, allo stesso tempo,elegante: il lauro, o alloro.La straordinaria trasformazione era avvenuta sotto gli occhi deldio Apollo che, disperato, si ritrovava a stringere il tronco dellapianta che si era creata tra le sue braccia, sperando di riuscire atrovare Dafne.«Dafne, Dafne!», gridava. «Il mio amore ti ha fatto questo?Perché?». E il dio piangeva, senza sapere cos’altro fare.Dall’alto, Cupìdo osservava e piangeva anche lui, in preda alsenso di colpa: ecco cosa poteva fare l’amore! Ma non riusciva piùa vantarsene.Alla fine, vedendo che a nulla valevano i suoi sforzi, Apollo si stac-cò dal tronco dell’alloro e proclamò a gran voce che quella piantasarebbe stata il suo albero sacro e il segno di gloria per cingere ilcapo, in tutti i tempi, dei poeti più grandi e dei vincitori.

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Dal LIBER SECVNDVSEuropaADATTAMENTO DI SILVIA DEMARTINI

C’era una volta, in un’epoca lontanissima, così lontana che proprionon riusciamo a fissarla in una data precisa, una bellissima princi-pessa di nome Europa; Europa era figlia di re Agénore e della suasposa Telefassa, e aveva tre fratelli: Cadmo, Cilice e Fenice.La principessa e la sua famiglia abitavano in Fenicia, un territorio delvicino oriente di cui il padre era re, che si trovava dove oggi c’è ilLibano e che confina con quella che è la Siria. La Fenicia aveva unalunga costa affacciata sul Mar Mediterraneo; in questo mare, Euro-pa amava fare il bagno e si divertiva a cogliere fiori su una spiaggianon lontana dal suo palazzo, assieme alle sue serve.Un giorno Zeus, chiamato anche Giove, che era il Dio più potente ditutti, osservando la terra dall’alto dei cieli, vide la giovane e bellaEuropa correre in riva al mare, e se ne innamorò immediatamente eperdutamente. Voleva tanto andare da lei e dichiararle il suo amore,ma aveva paura di spaventarla e non sapeva proprio come fare; per-sino un Dio può essere timido in amore…Dopo averci pensato a lungo, Zeus decise di compiere una grandio-

sa trasformazione (era davverobravissimo in questo genere dicose!): posò lo scettro, ritirò ilfulmine che era solito lanciaresulla terra e si tramutò, pensa-te!, in un enorme e maestosotoro tutto bianco, grande quasiil doppio di tutti i tori che ave-vano mai pascolato quaggiù.Così trasformato, se ne scesesulla terra e cominciò a pasco-lare insieme a una mandria ditori e mucche nel prato checonfinava con la spiaggia, nonlontano da Europa. Vanitosocom’era, si sentiva il più bello ditutti (era pur sempre un Dio) epasseggiava impettito, soffian-do dalle narici; in pochi minuti

tutte le mucche ne erano innamorate, mentre gli altri tori guarda-vano con odio quello sbruffone che faceva girare la testa alle loropossibili fidanzate.Il suo manto era profumato e bianco come la neve, e le corna, bril-lanti come madreperla, formavano due mezze lune. Era così bello,mansueto e tranquillo che le servitrici di Europa gli si avvicinaronoe iniziarono ad accarezzarlo, senza pensare a quanto la cosa fossestrana. Europa, che era la più coraggiosa fra tutte, gli diede da man-giare l’erba raccolta con le sue mani e gli pose sulla testa una ghir-landa di fiori; poi cominciò a giocare con lui, che, dimenticatosi diessere il Dio supremo dell’Olimpo, iniziò tutto felice a farle le festee a rotolarsi sulla sabbia: «Questo toro è mansueto come un gatti-no! E che sguardo intelligente e profondo!», disse Europa.I due si fissarono come mai prima d’ora si erano fissati un essereumano e una bestia.Dopo di che, senza sapere quello che stava facendo, Europa osòsalirgli in groppa gridando: «Guardate, guardate come sono abile!

Narrata ai giardini Rusca, conla voce di Cristina Zamboni ele illustrazioni di SimonaMeisser.

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Sono capace addirittura di ca-valcare questo grande toromansueto! Chi di voi ha il miostesso coraggio…?».Non aveva ancora finito di par-lare e di ridere che il toro, conun agile scatto, corse via a granvelocità, mentre la principessa,col cestino dei fiori ancora albraccio, non poté fare altro cherestargli aggrappata, tenendosiper le corna e per il collo gran-de e possente. Il toro, raggiun-ta la riva, si tuffò in mezzo alleonde, alte e spumeggianti,mentre la fanciulla, terrorizzata,guardava la terra allontanarsialle sue spalle.Il magnifico animale corse ecorse e corse da oriente versooccidente, a grandi salti, pergiorni interi e per lunghe notti;con un balzo saltava il mare,con un altro le montagne: cor-reva così veloce e saltava così inalto che Europa non riuscivapiù a capire dov’era e nemme-no se stesse sognando o sefosse sveglia.Alla fine l’animale arrivò, conEuropa sempre in groppa, sul-l’isola di Creta, che è ancor oggi

l’isola più a sud della Grecia. Lìl’animale interruppe finalmentela sua fuga. Europa, pallidissimae spaventata, si lasciò scivolarea terra e, gridando, disse all’a-nimale: «Toro maledetto! Be-stiaccia! Tu non sai chi sono io!Appena mio padre e i miei fra-telli sapranno cosa mi hai fattofaranno di te una cena preliba-ta: toro allo spiedo! E con le tuecorna mi faranno una collanaluccican…».Ma non riuscì a concludere lafrase. Infatti, mentre parlava, iltoro si era nuovamente trasfor-mato nel grande Dio Zeus: drit-to su due gambe, alto, nobile eregale, con lo scettro e il fulmi-ne in mano, Zeus, capo di tuttigli dei, dichiarò il suo amorealla bella principessa.Non potete immaginare l’e-spressione di lei, che, creden-dosi rapita da un toro selvag-gio, si trovò di fronte alla divi-nità suprema che le diceva pa-role d’amore. E che la guardavacon gli stessi occhi dolci e inna-morati del grande toro bianco.La situazione, naturalmente,era più complicata del previsto

ed Europa non sapeva più direse era meglio essere stata rapi-ta da un toro o... da un Dio.Anzi: «dal» Dio. Dopo lo spa-vento e lo stupore iniziali, Euro-pa ritornò in sé e fu pronta adaccettare il suo destino el’amore di Zeus, come parte diun disegno più grande nellastoria dell’umanità.Dall’amore fra Zeus ed Europanacquero tre figli. I suoi fratellie suoi genitori, però, - che nonavevano più avuto sue notizie -non smisero di cercarla. Nonl’avrebbero mai più rivista, ma,nei loro tentativi di seguire labianca scia lasciata dal toro infuga, si mossero da oriente aoccidente, verso la Grecia, doveportarono la loro civiltà e laloro antica cultura, fondandocittà e regni.Non a caso, proprio da qui,dalla magica e mirabolante vi-cenda di Europa, persa nel pas-sato più lontano, derivano leradici che ancora oggi ci acco-munano, da cui ha origine lastoria della nostra Europa.

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Dal LIBER TERTIVSEco e NarcisoADATTAMENTO DI SILVIA DEMARTINI, ADOLFO TOMASINI, SARA GIULIIVI

E CRISTINA ZAMBONI

Voce fuori scena.

ECO. Mi riconoscete? Sapete dire chi sono? No? Mi sentite spesso,tra le montagne o nelle stanze vuote. Malgrado ciò, nessuno rico-nosce più neppure la mia voce: l’unica cosa che, nel tempo, è rima-sta di me.Io sono quella ninfa che non sa tacere se parli, ma non sa parlare per

prima: Eco, che ripete i suoni.In questa giornata magica, incui tutto ciò che si è trasforma-to torna alle origini per un’ulti-ma volta, se gli dei vorranno, mimostrerò a voi, leggendovi lamia storia.

Entra Eco con un fiore in mano(un narciso, anche se, ahimè,siamo fuori stagione).

Il saggio Tiresia lo aveva pre-detto parlando con Lirìope, lamadre di Narciso. Quando leigli aveva chiesto se il piccolosarebbe vissuto fino alla vec-chiaia, l’indovino aveva rispo-sto con queste parole miste-riose: «Se non conoscerà séstesso».Sembrava una profezia priva disenso, ma poi la storia che stoper raccontarvi ha confermatoil contrario.Al tempo, un tempo lontano,Narciso era un ragazzo di circaquindici anni, che a volte sem-brava un bambino e a volte un

uomo; più di una fanciulla si è innamorata di lui, eppure nella suabellezza c’era qualcosa di così superbo ed egoista che teneva tuttilontani: Narciso non aveva amici e nessuna ragazza osava avvicinar-si a lui.Io lo vidi, un giorno, mentre passeggiavo nel bosco, e lui si diverti-va a spaventare i cervi e cercava di spingerli dentro le reti. Alloraavevo questo corpo (come lo vedete qui, adesso), proprio come voitutti, ma non potevo parlare come volevo: riuscivo solo a rimanda-re le ultime parole che qualcun altro diceva vicino a me.Come mai? Semplice: una punizione. Ero la ninfa più brava di tuttecon le parole; intrattenevo e distraevo la dea Giunone mentre le altreninfe andavano dove volevano, rubando qua e là frutti e ortaggi.La Dea mi ha punita perché… perché tutte le volte che avrebbepotuto sorprendere le ninfe io, astutamente, la trattenevo con lun-ghi discorsi, per dar modo alle ninfe di fuggire.

Recitata al Teatro di Locarnodalle attrici Sara Giulivi eCristina Zamboni.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Narciso allafonte (1600 ca.)

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Quando la Dea se ne accorse gridò: «Di questa lingua che mi haingannato tu, ragazza, potrai disporre solo in parte!».E coi fatti confermò le minacce: potevo duplicare i suoni solo allafine dei discorsi degli altri, ripetendo le loro ultime parole.Come vi dicevo, Narciso era bellissimo e ne rimasi così affascinatada seguirne le orme di nascosto; e quanto più lo seguivo, tanto piùmi sentivo bruciare di passione, come lo zolfo spalmato in cima auna fiaccola, che in un attimo divampa se si avvicina alla fiamma.Quante volte avrei voluto parlargli, ma la mia punizione non mi per-metteva nemmeno di tentare; stavo pronta ad afferrare le sue stes-se parole per rimandarle a lui perfettamente uguali.Una volta, per caso, il ragazzo, separatosi dagli amici con i quali cac-ciava, aveva urlato:NARCISO. C’è qualcuno?ECO. Qualcunooooooooo...Stupito, cercò con gli occhi dappertutto e gridò a gran voce:NARCISO. Vieni fuori!ECO. Fuori!Si guardò, ma non vedendo nessuno strillò:NARCISO. Perché fuggi?ECO. Fuggi?Le parole che diceva io gliele davo in risposta.Ingannato dal rimbalzare della voce:NARCISO. Insomma, vediamoci!ECO (felice). Vediamoci!Allora uscii dal sottobosco, gli andai incontro per gettargli le brac-cia al collo, ma… Narciso fuggì e fuggendo gridò:NARCISO. Togli queste mani, non abbracciarmi! Meglio morire cheabbracciarti!ECO, con un filo di voce: Abbracciartiiiiiiiii!ECO. Ero stata respinta così dal mio primo amore. Che dolore! Minascosi nei boschi, coprendomi il volto di foglie, per la vergogna, e

John William Waterhouse, Eco e Narciso (1903)

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da allora vivo in luoghi sperduti.NARCISO. Ma spesso l’amore cresce, se chi amiamo non ci vuole: undolore incessante mi faceva soffrire nel corpo e nella mente. Da gio-vane e bella che ero, diventai magra magra, con la pelle orribilmen-te raggrinzita. Di me non restarono che voce e ossa.La mia voce esiste ancora oggi; le ossa, dicono, si mutarono in pie-tre. E da allora nessuno mi vede più, ma dovunque potete sentirmi:la voce della ninfa Eco. L’eco.Narciso si era preso gioco di me e di altre ragazze. Un giorno, però,una vittima del suo disprezzo chiese agli Dei: «Che possa innamo-rarsi anche lui senza poter mai avvicinare la persona di cui è inna-morato! Egoista!»Così disse, e la Dea che distribuisce la Giustizia assecondò quellapreghiera.C’era una fonte limpida, dalle acque argentee e trasparenti, che maipastori, capre o pecore al pascolo sui monti, o altro bestiame ave-vano toccato, che nessun uccello, belva o ramo staccatosi da unalbero aveva sporcato.Intorno c’erano un prato e un bosco, che rendevano fresco e pia-cevole il luogo. Qui il ragazzo, stremato dalle fatiche della caccia edal caldo, si sdraiò a riposare, attratto dalla bellezza del posto edalla fonte.Si alzò, andò a bere, ma, mentre cercava di calmare la sete beven-do, vide riflessa nell’acqua, come in uno specchio, la sua immaginee... se ne innamorò; non sapeva di essere lui e si innamorò di un’im-magine che altri non era che lui stesso; credeva fosse un corpoquella che era solo illusione.Si guardava senza capire, senza vedere difetti, si trovava perfetto enon riusciva a staccare gli occhi da sé; era impietrito come una sta-tua scolpita in marmo. Disteso a terra a pancia in giù, contemplavai suoi occhi, brillanti come stelle, i capelli degni di un dio, le guan-ce lisce, il collo d’avorio, la bocca, il rosa della pelle; si guardava erimaneva meravigliato.«Chi mai potrebbe essere meglio di ciò che vedo?», pensava fra sé.Lanciava persino inutili baci alla sua immagine nella fonte!Immergeva in acqua le braccia per gettarle intorno al collo delriflesso, ma le braccia non si afferravano e alzavano solo schizzi alti.L’illusione lo ingannava. Il suo vedersi perfetto lo rendeva ingenuo.Quello che desideri non esiste!Ciò che vedi è la tua figura riflessa, che sparisce se tu te ne vai:come puoi non capirlo?Gli Dei punirono così la sua pienezza di sé: né il bisogno di cibo o ilbisogno di riposo riuscivano a staccarlo di lì; disteso sul prato fissa-va quella forma che lo ingannava, e soffriva come mai aveva soffer-to prima.Una volta, con gli occhi al cielo, disse: «Esiste innamorato che abbiasofferto più di me? Ciò che vedo e che mi piace non riesco a rag-giungerlo. Un velo d’acqua ci divide! Chiunque tu sia, perché mi illu-di, essere perfetto? Eppure sono giovane e bello, mi hanno amatomolte fanciulle.Quando ti tendo le braccia, subito le tendi anche tu; quando sor-rido, ricambi il mio sorriso; e ti ho visto persino piangere quandoio piango».

ECO. Povero, povero Narciso.Sentivo da lontano il suolamento, finché un giorno…NARCISO. «Io, sono io! Ho capi-to, l’immagine non mi ingannapiù! Sono innamorato come unpazzo di… me stesso. Che fare?Che orribile punizione ... Ormaiil dolore mi toglie le forze, e nonmi resta più di tanto da vivere,anche se sono così giovane. Miuccide il pensiero di me».ECO. Delirando tornava a con-templare la figura e a sconvol-gere con le lacrime l’acqua dellafonte: così, l’immagine, nell’ac-qua increspata, si confondeva.Vedendola svanire Narciso urla-va: «Dove fuggi?’. Rosso in volto,urlando si strappava i vestiti.Narciso, stavi diventando comeme: pallido, senza forze, senzapiù bellezza. Guardandoti, mal-grado fossi ancora arrabbiata,soffrivo con te e ogni volta chedicevi «Povero me!», ripetevo«Me», ma pensavo «Te»; pove-ro te, Narciso.E quando disse «Addio», io dissi«Addiooooooo», senza esserevista. Si sdraiò sull’erba verde echiuse gli occhi: sembrava final-mente sereno.Eppure, anche nell’aldilà nonsmise di cercare per sempre ilsuo riflesso nelle acque delloStige, il grande fiume sacro chescorre nel regno dei morti.NARCISO. La madre di Narciso,corsa lì sul prato per piangerlo,non lo trovò: il corpo era scom-parso; al suo posto era nato unfiore bellissimo, giallo intensonel mezzo e circondato di peta-li d’un giallo più chiaro, come icapelli del ragazzo. Un Narciso.Io sono quella ninfa che non satacere se parli, ma non sa parla-re per prima: Eco, che ripete isuoni.

ECO. Vi ho raccontato la mia sto-ria e la sua; quando lo vedrete, aprimavera, e quando mi sentirete,nelle valli, ricordatevi di noi, tra-sformati in fiore e in voce.

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Dal LIBER QVINTVSProserpinaADATTAMENTO DI SILVIA DEMARTINI

All’inizio dei tempi, sulla terra splendeva sempre il sole e facevasempre caldo. I prati erano costantemente coperti d’erba verde;frutta e verdura di tutti i tipi crescevano tutto l’anno e, nei campi,c’era il grano dorato ogni mese. Provate a immaginare una bellastagione senza fine, un bosco senza foglie che cadono, un invernosenza neve, ghiaccio e vestiti pesanti, un piacevole caldo non esa-gerato… Ecco, così era la terra in un tempo lontano, che non c’è neilibri di storia, ma che molti uomini antichi hanno raccontato.In quel tempo lontano, gli uomini non dovevano lavorare e innaf-fiare la terra sudando nel caldo estivo, né combattere il gelo cherinsecchisce ogni cosa. In particolare una dea si prendeva cura dellaterra e dei raccolti: la Dea Cèrere, che seminava, annaffiava le pian-te e si preoccupava che gli alberi fossero rigogliosi, fiorissero e des-

sero frutti. Era la dea dei campie, soprattutto, del grano, tant’èche, oggi, i cereali - il granotur-co, il frumento, il riso… - devo-no il loro nome proprio a lei:Ceres, Cèrere.Cèrere aveva una figlia, Proser-pina, una bella ragazzina dallosguardo vivace, bionda come ilfrumento. Vivevano insiemenell’isola di Sicilia e, mentre lamadre lavorava, Proserpinagiocava nei boschi; le dueerano molto, molto unite.La Sicilia era spesso scossa daterremoti terribili, e un grandevulcano, dal nome Etna, sputa-va di continuo lava e sassi. Sidice che un enorme gigantefosse imprigionato sotto que-sta terra e che cercasse di libe-

rarsi dal peso che lo schiacciava, agitandosi: così facendo, il gigan-te ribelle avrebbe voluto gettare lontano le montagne, le valli, lecittà e i loro abitanti, come insetti da scacciare.Un dio, in particolare, era preoccupato dal comportamento delgigante: Dite, il dio del buio, il dio del regno sotterraneo dei morti.Dite era preoccupato perché i terremoti avrebbero potuto aprirecrepe profonde nella terra e, da queste, sarebbe potuta filtrare laluce nel mondo degli inferi: cosa assolutamente proibita, che avreb-be confuso le ombre che abitavano quel luogo. Allora attaccò quat-tro enormi cavalli neri al suo carro e iniziò a perlustrare l’isola inlungo e in largo.Da lontano Venere, la dea dell’amore, e Cupido, il suo giovane figlioalato, osservavano le corse veloci del dio dei morti. «Perché nonfarlo innamorare?» - disse la dea - «In fondo, perché l’amore, cheregna sui viventi, non dovrebbe regnare anche negli inferi? ForzaCupido, figlio mio! Prendi arco e frecce, e vola a scagliarne duedelle più potenti: una nel cuore del dio Dite e una in quello dellagiovane Proserpina. Così regnerai anche nel regno dell’ombra».Quando Dite passò vicino alla bella Proserpina, la fanciulla stava

Nicolas Mignard, Il ratto di Proserpina (1651)

Narrata ai giardini Rusca, conla voce di Cristina Zamboni ele illustrazioni di SimonaMeisser.

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giocando sulle rive di un lago limpido, pieno di cigni e circondatoda un bosco verdissimo. Cupido, nascosto fra i cespugli, scagliò nelcuore del dio una freccia, che subito, per magia, sparì. Dite s’inna-morò della ragazza in un istante: scese dal carro, andò a grandipassi verso di lei e la rapì.Proserpina, spaventata, si agitò e urlò, chiamando la madre Cèrere.«Madre, madre mia! Che succede? Mi stanno portando via, aiuto!».Nella fuga il vestito le si strappò e le caddero i fiori che aveva rac-colto. Intanto il dio Dite incitava i cavalli neri a gran voce e, giuntonei pressi di una fonte e di uno stagno, ne fece spalancare le acquescure e, in un vortice, si precipitò insieme a Proserpina nelle profon-dità della terra.

Dite e Proserpina giunsero, così, nel regno dei morti, dove tutto èeterna oscurità. La ragazza era inconsolabile e piangeva senza sosta:il dio cercava di confortarla dicendole che lì sarebbe diventata suasposta e quindi regina del regno degli Inferi: ma non c’era nulla chepotesse dire per farla stare meglio.Intanto, sulla terra era sceso il tramonto e Cèrere aveva iniziato a cer-care la figlia, prima con calma, poi disperatamente, con la disperazio-ne delle madri che temono diavere perso un figlio. «Pro-serpina! Figlia mia, dove sei?Non farmi preoccupare…!». Ladea avrebbe cercato sua figliaper tutto il mondo, se ne-cessario: nessuna distanza, in-fatti, è troppa, per una divinità. Ecosì partì in cerca della ragazzascomparsa, con due enormi piniincendiati a farle da torce.Intanto, però, per l’angoscia e lapreoccupazione, lasciò appassirei fiori, fece seccare il grano e nonseminò più nulla: la terra iniziò adiventare un deserto.Dopo nove giorni e nove nottidi ricerca incessante, dopo aver chiesto notizie a tutti gli altri deidell’Olimpo, il decimo giorno passò accanto alla fonte d’acqua in cuisi era inabissato il carro di Dite e lì vide galleggiare la cintura diProserpina. Cèrere, allora, intuì che la figlia era stata rapita da qual-cuno, ma non riusciva a immaginare chi. Allora iniziò a insultare laterra: «Indegna, ingrata! Appassici tu e muoiano i tuoi abitanti!»;intanto spezzava gli aratri, incendiava campi e boschi, e uccideva ibuoi schiacciandoli come formiche.Al vedere tutto ciò, la ninfa Aretusa, magica creatura delle sorgen-ti, uscì dall’acqua e disse alla dea: «Madre della terra, ferma la tuarabbia. La terra ti è fedele e i suoi abitanti non c’entrano: non sonostati loro a rapire tua figlia. Colei che cerchi è nel regno sotterra-neo… È triste e impaurita, ma ora è regina degli Inferi».Sentite queste parole, Cèrere si chiuse per un momento nel suodolore, poi, con furia mai vista, si precipitò da Giove, sommo Dio epadre di Proserpina, e si rivolse a lui gridando: «Ti supplico per il miosangue e per il tuo! Proserpina, nostra figlia, è stata rapita e poi spo-sata a forza da Dite, nel suo reame di morte. Se me la ridarà, dimen-ticherò l’offesa, ma, ti prego, fa’ qualcosa perché torni con me!»«Cèrere… il rapimento è stato un atto d’amore voluto da Venere! Io

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non vorrei oppormi, ma, vistoche tu vuoi tanto dividerli, scen-di nel regno di Dite e vedi seProserpina può tornare con te.Ricorda, però, quali sono le con-dizioni: per tornare dagl’Inferi,non bisogna aver toccato cibo».La madre si tuffò piena di spe-ranza nel cuore della terra e lìtrovò finalmente sua figlia, pal-lida e triste accanto al dio del-l’ombra.«Figlia, figlia mia! Potrai torna-re con me, alla luce…!»«Solo se la mancanza di appe-tito ti ha impedito di mangiarequalsiasi cosa, mia amata spo-sa», puntualizzò Dite.Cèrere guardò Proserpina,Proserpina guardò la madre inun silenzio disperato. La giova-ne stava per cominciare a par-lare, quando prese la parola uncerto Ascàlafo, figlio di unaninfa infernale e famoso peressere uno spione e un impic-cione: «Glorioso Dite, primache la regina parli ho io qualco-sa da riferire: mi aggiravo, ungiorno, nell’unico posto di que-sto regno che abbia qualcheforma di vegetazione, e lì pas-seggiava anche la reginaProserpina. Per caso, ecco… Io

vidi che… Be’, che allungò lamano a un ramo di melograno,staccò un frutto maturo, e diquello prese sette - propriosette - grani, se li portò allabocca e li mangiò, mescolatialle lacrime».«Dunque ha mangiato: la fan-ciulla dovrà rimanere con me»,disse il dio del buio.«Occhiuto Ascalafo! Sei la mia

rovina!» gridò Proserpina all’im-piccione che le aveva impeditodi riunirsi alla madre «Che tu siatrasformato in un gufo, uccellonotturno annunciatore di scia-gure!». E l’essere, trasformato inun rapace, se ne volò via nel-l’oscurità.Cèrere, allora, se ne tornò sullaterra, delusa e inferocita, e lìiniziò a travolgere più di primacoltivazioni, alberi e animali,distruggendo tutto ciò che tro-vava. Iniziarono, così, a levarsiterribili lamenti di contadini epastori, che imploravano Giovedi calmare la rabbia della dea;Giove ci provò, ma fu tutto inu-tile. Allora, per evitare che laterra venisse distrutta poco apoco, cercò un compromessocol fratello, dio degli Inferi.Chiamò di fronte a lui Cèrere e

Dite e disse:«Cèrere, Dite, il vostro litigio staseminando morte e distruzio-ne: io non posso più tollerareuna cosa del genere! Con lamia autorità, stabilisco che iltempo di Proserpina sia divisoin due parti, e cioè che lei tra-scorra sei mesi sulla terra, insie-me a sua madre, e sei mesinegli Inferi, col suo sposo».Da quel giorno, ogni volta cheProserpina torna nel mondodei vivi, accanto alla madre, iprati fioriscono, i frutti comin-ciano a maturare e il grano pianpiano diventa color dell’oro. Èla primavera, cui fa seguitol’estate. Poi, quando Proserpi-na, torna nel buio regno delsuo sposo, arrivano sulla terral’autunno e il gelido inverno,nell’alternarsi di quelle che noi,oggi, chiamiamo stagioni.

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Dal LIBER SEXTVSAracneADATTAMENTO DI ROSANNA IAQUINTA

Colofóne era una tranquilla cittadina affacciata sul mar Mediter-raneo, esistita tanti e tanti anni fa nella Ionia, una regione che oggisi trova sulla costa turca. Lì, in un tiepido giorno di primavera, nac-que una fanciulla, chiamata Aracne. Era figlia di un umile tintore,che impiegava la porpora, una tinta dallo sgargiante colore rosso-violaceo, per dipingere gli abiti di lana di tutti i cittadini.Questa giovinetta non era di certo famosa per la sua bellezza. Anzi,molti dicevano che avesse gambette lunghe e scheletriche, dentistorti e appuntiti, e degli occhietti nerissimi, incavati. Insomma, eraconsiderata piuttosto bruttina. Aracne non sapeva neppure leggere oscrivere, poiché in quel tempo, alle bambine, era vietata l’istruzione.Ma se c’era una cosa che la fanciulla sapeva fare meravigliosamen-te, quella era tessere.All’età di soli otto anni, Aracne si era seduta davanti al telaio di suamadre e aveva iniziato a toccare la lana grezza, lì accatastata. Avevasorriso un po’ tra sé e sé, pensando che quei ciuffi di pelo bianco,solo la mattina prima, erano attaccati al corpo delle sue amichepecorelle. Poi, riproducendo i gesti visti fare molte volte dallamamma, aveva incominciato a raccogliere quelle nuvolette candidein piccole matasse, impiegando le sue dita lunghe e scheletriche perfarne dei morbidissimi fili, che poi intrecciava con leggiadria neltelaio.Da quel momento, la fanciulla non aveva trascorso neppure ungiorno della sua vita senza praticare l’arte della tessitura. Nei mesiestivi, la giovinetta spostava i suoi attrezzi sotto un largo alberorigoglioso e verdeggiante, e lì tesseva delle tele colorate con il suotelaio, come un pittore fa con la tempera e i suoi pennelli.I viandanti silenziosi, passando da quel luogo, non potevano fare ameno di osservare i suoi capolavori, riempiendo Aracne di compli-menti. Alcuni commercianti commissionavano alla giovane delletele, che avrebbero ritirato mesi più tardi, al ritorno dal loro viaggiodi lavoro. Altri, umili pastori che si spostavano con le loro greggi allaricerca di nuovi pascoli, sgranavano gli occhi davanti a tale bellezza,non potendo far altro che desiderare quei quadri, troppo costosiper le loro tasche bucate e logore.Man mano che passavano i giorni e i viaggiatori, la fama di Aracneaveva raggiunto i limiti della Ionia, saltellando di bocca in bocca.Ognuno voleva guardare con i propri occhi la ragazza che tessevacon tanta bravura, all’ombra dell’albero frondoso. I più ricchi saliva-no sulle loro bighe e, sotto il sole cocente della Lidia, una regionepoco lontana, cavalcavano la loro curiosità. Alcuni di loro, estasiatidalle tele, riempivano la fanciulla di lodi, affermando che nessunofosse più bravo di lei nella tessitura.Qualcuno racconta perfino di aver visto le bellissime ninfe dellevigne e delle acque, nascoste dietro a cespugli e rocce, spingersi egracidare alla vista delle opere d’arte della famosissima tessitriceAracne di Colofone. Non sarebbe accaduto nulla di serio, se Aracnenon avesse avuto un carattere molto superbo e altezzoso. Infatti lagiovane, inorgoglita da tante attenzioni e complimenti, iniziò a van-tarsi pubblicamente, affermando che neppure Atena, la dea dellatessitura e della sapienza, poteva competere con la sua arte e conla sua abilità. Queste parole, così pronunciate, furono riportate alladea dalle ninfe, nel corso di un banchetto sul monte Olimpo.

Maestro François (attribuito), Aracne (1470 ca.)

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«Per tutti i fulmini di Giove! Che offesa!» urlò indispettita Atena.«Quella sciocca fanciulla si pentirà di aver affondato le sue magris-sime dita tra la lana delle sue pecore, dieci anni or sono!».Così dicendo, con il cuore colmo di collera, andò a fare visita allasua rivale travestita da vecchierella. Appoggiandosi a un bastonesbilenco, la schiena curva, coi suoi capelli bianchi, la Dea parlò cosìad Aracne: «Ciao fanciulla, lascia che questa vec-chietta ti dica una cosa. Nonostante io sia un po’sorda, alle mie vecchie orecchie è giunta voce chetu racconti in giro che la tua bravura al telaiosupererebbe quella di Atena. Ascolta il mio consi-glio: cerca pure di essere la migliore fra i mortalinel tessere la lana, ma inchinati alla dea, chieden-dole perdono per la tua arroganza».Aracne, che aveva proprio un bel caratterino,testardo e fiero, diventò più rossa della porporaper l’ira, e, senza riconoscere la dea nei panni dellavecchietta, urlò fuori di sé dall’indignazione: «Seisolo una vecchia, raggrinzita e gobba! Questi con-sigli dalli a qualcun altro, io ho la mia tela da fini-re. E ti dirò di più, stupida donnetta: con questeparole intendo rinnovare la sfida ad Atena, perdimostrarle che io sono la migliore».A queste parole, la dea buttò a terra il bastone ela parrucca gridando: «Or dunque, accetto la sfida.Qui, tra una settimana, alla medesima ora!»Una grande folla, di dei e umani, accorse per par-tecipare all’evento.Atena, stretta nella sua lunga tunica candida, guardava la smilza esuperba Aracne in cagnesco, da dietro il suo telaio. Una ninfa diedeil via alla sfida.Le due iniziarono a tessere, muovendo con maestria i fili di lana,intrisi di colori dalle mille sfumature sgargianti. Sulle due tele inco-minciarono a prendere forma storie antiche.La bionda Atena raffigurò Giove e il re del mare, e sé stessa, prov-vista di uno scudo e un’asta. Agli angoli della sua tela, riprodussequattro uomini che, come punizione per aver osato sfidare gli dèi,erano stati mutati in animali o oggetti.Aracne, invece, riprodusse innumerevoli dèi che, senza nessunoscrupolo, deridevano gli esseri umani, con loschi inganni.Al termine della prova, erano molti quelli che elogiavano Aracne,con lodi sublimi. Tanto che a quel punto la dea, fuori di sé per l’in-vidia, strappò a brandelli la tela della giovane.«Tu, altezzosa mortale, hai fatto di una tua dote un vanto, osandosfidarmi. Per punizione, ti trasformerò in un ragno, e per sempresarai costretta a tessere ragnatele!».In un lampo alla fanciulla caddero i capelli, il naso e le orecchie. Latesta si fece piccola, come tutto il corpo. Le zampe si assottigliaro-no, e altre sei ne spuntarono!Qualcuno giura di averla riconosciuta tessere ragnatele, appollaiatasull’albero frondoso di Colofone.

Luca Giordano, Aracne e Minerva (1695)

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In un tempo misterioso, sul-l’isola di Creta abitava unmostro orrendo, ma così orren-do che Minosse, il re di quel-l’isola, decise di farlo rinchiude-re in un posto dal quale nonpotesse più uscire. Il mostro,infatti, non era solo di aspettoorribile, ma era anche ferocissi-mo. Il suo nome era Minotauro,che significa «mezzo uomo emezzo toro».A guardarlo bene, era fattopressappoco così: camminavaben dritto su due gambe, comeun uomo, ma le sue gambe e-rano zampe di toro, con zocco-li di toro. Il busto ricordavaquello di un essere umano, mail muso aveva l’aspetto di untoro feroce, con gli occhi iniet-tati di sangue, pronto a incor-nare tutti da un momentoall’altro.Inoltre, amava un cibo un po’…particolare: gli piaceva moltissi-mo nutrirsi di giovani ragazzi eragazze; non tutti i giorni, però:ogni nove anni gli dovevanoessergli consegnati sette ragaz-zi e sette ragazze, in modo chepotesse soddisfare il suo desi-derio di carne umana.Stanco della ferocia e dellamostruosità del terribile Mino-tauro, il re dell’isola chiamò alsuo servizio Dedalo, che era unarchitetto greco, famosissimoper il suo talento, e gli ordinò direalizzare una costruzione perimprigionare il mostro in modoche non potesse mai più fuggi-re.Dedalo arrivò all’isola di Cretainsieme a Icaro, suo figlio, unragazzino sveglio, di 10-12anni, che amava accompagnareil padre durante i viaggi di lavo-ro e si divertiva ad aiutarlo nelcostruire case e oggetti.Dopo anni di lavoro, Dedalorealizzò una costruzione sotter-ranea complicatissima, che

chiamò Labirinto. Era un grovi-glio di stradine e cunicoli con-torti, e stanze e stanzette pienedi così tanti inganni, che luistesso faticava a trovare l’uscita.Il mostro terribile, attratto conl’inganno nel cuore del labirin-to, cominciò a lanciare gridatremende, che pare si sentanoancora oggi sull’isola di Creta.Ogni volta che tentava di trova-re l’uscita e pensava di esserciriuscito, un nuovo cunicolo lorimandava al punto di partenza.Intanto, il tempo passava. Il

lavoro era terminato, e con suc-cesso, ma il re Minosse non sidecideva a rimandare a casaDedalo e Icaro. I giorni e lenotti passavano lunghissimi esempre uguali, e Dedalo erastanco e stufo di essere trattatocome un prigioniero, lontanodalla sua terra della qualeaveva una grande nostalgia.Guardava l’immenso mare bluche lo bloccava e pensava frasé: «Sono stato chiamato quiper imprigionare un mostro el’ho fatto. Perché il prigionieroora sono io? Il re Minosse potràanche sbarrarmi l’uscita attra-verso la terra e l’acqua, ma… ilcielo è una via libera: Icaro e io

fuggiremo passando di lì!».Spinto da questa idea, l’abileDedalo dedicò il suo tempo, dinascosto, a un campo di studioancora inesplorato, che ribalta-va le leggi della natura: il volo.«Icaro! Icaro! Quando giochisulla spiaggia cerca per medelle piume grandi e belle; maanche piccole vanno bene.Insomma, portami delle piume:più piume che puoi!»Sorpreso e divertito da questonuovo gioco, Icaro correva inlungo e in largo alla ricerca di

piume bianche, grigie, azzur-re… Piume bellissime, di uccelliche, beati loro, potevano volarealti nel cielo.La sera, poi, osservava il padrefare una cosa stranissima, chemai gli aveva visto mettereinsieme fino a quel momento:disponeva tutte quelle penne infila, partendo dalle più piccole,via via seguite dalle più grandi,in modo che si formasse comeun pendio, e le incollava insie-me con della cera. Una grande

Dal LIBER OCTAVVSDedalo e IcaroADATTAMENTO DI SILVIA DEMARTINI

Narrata al mercato di PiazzaGrande, con la voce di SaraGiulivi e la musica di DanieleDell’Agnola.

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schiera di piume… poi un’altra… E poi un’altra e un’altra ancora.«Papà, che cosa stai costruendo?», domandava Icaro, «Sono tetti dipiume?».«No, Icaro, no. Non è ancora il momento che tu sappia di che sitratta, ma lo saprai».Deluso, il ragazzo correva via, in cerca di altre piume gentilmentelasciate cadere dagli uccelli.Una sera, però, accadde qualcosa di diverso. Icaro vide suo padrefissare insieme, con fili di lino, a due a due, le costruzioni di piume;poi gliele vide curvare leggermente alle estremità.«Ali! Sono ali vere, come quelle dei gabbiani! Che bello, papà! A checosa servono?»«Zitto Icaro, zitto! Domani mattina, all’alba, indosseremo queste alie, finalmente, voleremo verso casa, trasformati in due uccelli. Nondobbiamo farci scoprire».Il giorno seguente, appena il sole cominciava a sorgere sul mare,padre e figlio indossarono un paio di grandi ali ciascuno e, per priminella storia dell’umanità, provarono a prendere il volo, lanciandosidal punto più alto dell’isola. Prima di partire Dedalo raccomandò:«Vola a mezza altezza, mi raccomando! Perché se ti abbassi troppol’umiditàpotrebbe appesantire le penne; invece, se voli troppo, il solepotrebbe bruciarle o sciogliere la cera! E non ti distrarre! È perico-loso».Icaro annuiva. Ma il padre aveva paura, come un uccello che portaper la prima volta fuori dal nido i sui piccoli.«Sei pronto? Sbatti le ali come gli uccelli, Icaro, e vola vicino a me!»,urlò Dedalo, prendendo il volo.Icaro, entusiasta, cominciò a volare accanto al padre, facendo gran-di giravolte e osservando il mondo farsi sempre più piccolo: caseanimali, uomini… Tutto spariva, laggiù.Il padre, spaventato dall’eccessivo entusiasmo del figlio, gridava apieni polmoni: «Attento!»Chi li vid da terra - pescatori sul mare, pastori insonnoliti e contadi-ni stanchi ? restò sbalordito, scambiandoli per divinità.Avevano appena lasciato alla loro sinistra alcune isolette, che ilragazzo cominciò a gustare davvero la grande bellezza del volo. Sistaccò dalla guida di suo padre e, affascinato dal cielo infinito, sidiresse verso l’alto, su, su e ancora più su, fino ad avvicinarsi al sole.«Volo, volo! Guardatemi tutti! Sono più in alto dell’aquila maesto-sa!»Non servirono a nulla le grida disperate e i pianti del padre: ormaiIcaro era troppo lontano. Il caldo cocente del sole ammorbidì lacera, che teneva assieme le penne, e sciolse le ali di Icaro. Il ragaz-zo agitò le braccia prive di ali, sempre più velocemente, ma non riu-sciva più a fare presa sull’aria.«Padreee!», gridò; ma Dedalo riuscì a trovare il figlio solo guardan-do verso il mare, dove vide le piume sparse in mezzo ai flutti.Allora cominciò a maledire sé stesso e a piangere, mentre cercavadi ripescare dalle onde il corpo del figlio.

Jacob Peter Gowy, (1636/38)

Kylix (coppa da vino in ceramica in uso nell’anti-ca Grecia), Minotauro (ca. 515 a.C.)

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Da LIBER VNDECIMVSRe MidaADATTAMENTO DI ROSANNA IAQUINTA

Nella Tracia, un paese lontano, tanto tempo fa viveva un re. Era unuomo grassoccio, con i baffi lunghi e attorcigliati e delle enormi efolte sopracciglia nere. Il suo nome era Mida, re Mida.Re Mida viveva in un lussuosissimo palazzo, composto da ben diecilocali, ognuno dei quali conteneva altrettante cisterne per racco-gliere la preziosa acqua piovana. C’erano poi quattro comodi tricli-ni, ovvero sale da pranzo, ciascuno dei quali aveva un tavolo lungoe basso, attorniato da quindici lettini su cui sdraiarsi per mangiare.Non mancavano infine tre cucine e ben venti cubicoli, delle enormistanze da letto.Re Mida aveva ordinato ai suoi servi di costruire ogni cosa con pre-ziosissimo argento lucente. Erano d’argento i letti, le grandi anfore,i numerosi lettini per pranzare, le innumerevoli colonne che regge-vano il pesante tetto. Quaranta ancelle erano state chiamate daogni parte del mondo, per tessere coperte e tovaglie con fili d’ar-

gento.Re Mida era uno degli uominipiù ricchi di tutta la Tracia.Eppure non poteva dirsi felice,perché uno spiacevole eventoaveva turbato la sua vita tran-quilla e lussuosa.Una triste sera, Re Mida erastato invitato a una festa, in unpalazzo non troppo lontano dalsuo. Vestito con il suo ricco aampio mantello, si era recato inquesto palazzo sulla sua biga,cesellata in argento, trascinatadai suoi cavalli dagli zoccoliargentei. Arrivato sulla sogliadel palazzo, aveva ordinato alsuo servo di aiutarlo a scenderedalla biga. Il suo petto era già

tutto all’infuori e la testa alta. Non vedeva l’ora di mostrare a tutti gliinvitati quanto fosse ricco e potente. Ma quando il suo calzareargentato si appoggiò per terra, un rumore inspiegabile lo fece sob-balzare: con le sue calzature d’argento massiccio stava camminandosu una lunga lastra d’oro, che collegava il cancello al palazzo.Re Mida divenne bianco dallo stupore, e poi rosso dalla rabbia. Isuoi baffi si rizzarono e le sue sopracciglia si inarcarono. Il palazzodel suo vicino era costruito interamente d’oro!Re Mida non poteva sopportare che esistesse un altro uomo, sullafaccia della terra, che fosse più ricco e più potente di lui. Per tuttola durata della festa non parlò con nessuno. Si rifiutò di mangiaregli acini d’uva serviti dentro piattini d’oro zecchino, e di sdraiarsi suuno dei quindici lettini della sala da pranzo, che naturalmente eranod’oro. Mentre il padrone di casa riceveva i suoi regali, re Mida avevafinto di sentirsi poco bene, ed era scappato nell’atrio per piangerelacrime di rabbia. Ma neppure lì il sovrano aveva trovato pace!Terribili cisterne d’oro lo fissavano, al centro del cortile.Così, mentre tutti gli ospiti erano distratti dal taglio dell’arrosto, erascappato a bordo della sua biga.

Narrata al mercato di PiazzaGrande, con la voce di SaraGiulivi e la musica di DanieleDell’Agnola.

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Per due settimane non fecealtro che piangere nei suoi faz-zoletti di tessuto d’argento:«Come sono povero! Comeposso vivere in un palazzo cosìbrutto, sapendo che qua vicinoce n’è uno così bello, dove purele cisterne sono d’oro!?». I suoiservi, che non ne potevano piùdei suoi capricci, camminavanoper il palazzo con dei tappid’argento nelle orecchie, pernon sentirlo urlare.La sua voce era così acuta eforte che arrivò sino al cielo,fino alle orecchie degli deidell’Olimpo.«Ma non se ne può più! Stocercando di ascoltare gli ultimipettegolezzi d’amore, racconta-ti dal mio cantore personale!»esclamò Cupìdo, dio dell’amo-re.«Ieri un calice si è spezzato acausa di tutto questo fracasso,e il mio vino si è rovesciatosulla mia toga nuova!», disseBacco, dio del vino e della ven-demmia.«Io sono caduto da una nuvolamentre facevo un pisolino, percolpa di tutto questo rumore!»si lamentò Eolo, dio dei venti.«Cosa avrà mai da strillare que-sto umano?» domandòMinerva, dea dai mille incarichi.«Io lo so, io lo so!» annunciòMercurio, il messaggero deglidei, sopraggiungendo da unanuvola rossastra.«Oh, figuriamoci se tu non eriinformato anche su questoevento! Sei proprio un curioso-ne!».Tutti gli dei risero divertiti.«Ah, ah! La voce che sentite èquella di Re Mida, un uomograssoccio, con i baffi lunghiattorcigliati, che…».«Oh chiacchierone, vieni alsodo. Tra due minuti d’orologioumano ho una tempesta dascatenare con i miei fulmini « silamentò Zeus, il capo degli dei,dio del cielo e del tuono.«Oh, che Dei impazienti eimpegnati. Va bene. Re Mida

piange perché vuole essere piùricco, per eguagliare il sovranodel palazzo d’oro».«Io conosco quell’uomo!» disseDioniso. «Ora vi racconteròbrevemente come lo conobbi.Alcuni anni fa, il mio vecchiopatrigno Sileno aveva bevutotroppo vino rosso, e vagavaubriaco per i boschi dellaTracia. Alcuni contadini lo tro-varono e lo portarono al palaz-zo di re Mida. Il re fu gentilecon lui e lo ospitò per dieci lun-ghi giorni nel suopalazzo. Grazie alui, il mio patri-gno si salvò dallebelve feroci chepopolano le fore-ste della Tracia.Per questa ragio-ne, miei esimicolleghi, miassenterò alcuneore, per aiutarequest’uomo!».E prima che qual-cuno potesse direqualcosa, Dionisoera già entratonel palazzo di reMida, passandoda una delle setteporte d’argento.«Re Mida, tualcuni anni fa sal-vasti il mio patri-gno dalle ferocibelve che popo-lano i boschi dellaTracia. Inoltretutti gli dei sonoconcordi nel con-ferirti il premio voce-più-squil-lante-e-potente-dell’-universo.Hai a disposizione un deside-rio».Re Mida, scostando il fazzolet-to dai suoi occhi rossi di pianto,disse con voce tremolante dilacrime: «Desidero che ognicosa che tocco con le mie manidiventi d’oro».Il Dio sorrise tra sé e sé e disse:«E così sarà». E come era arriva-to, sparì.

Re Mida, un po’ scettico, avvici-nò la sua mano all’anfora d’ar-gento in cui piangeva da giorni.Essa si tramutò immediatamen-te in una scintillante anforad’oro.«Per tutti gli dei dell’Olimpo!»urlò il re. Corse in ognuna delledieci stanze, per trasformare lecisterne d’argento in oro. Poi fula volta dei quindici lettini cheerano nei quattro triclini, delletre cucine e dei venti cubicoli,delle colonne e delle tovaglie.

Re Mida era al settimo cielo perla gioia. Non vedeva l’ora dimostrare a tutti quanto fossediventato potente e ricco.Giunta l’ora di cena, si ricordòche era a digiuno dalla mattina,talmente era stato grande il suoentusiasmo. Ma quando tentòdi prendere un acino d’uva dalvassoio, esso si tramutò in undurissimo pezzo d’oro. E quan-do tentò di afferrare una coscia

Walter Crane, Mida trasforma sua figlia in oro (1893). Si tratta natural-mente di un’interpretazione «moderna» di mito di Mida.

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di montone, anch’essa si trasformò in oro. I servi ridevano dietro aogni porta, osservando la scena.«Disgraziati!» urlò re Mida, «Che qualcuno venga a imboccare ilproprio re!».E quando re Mida cercò di farsi un bel bagno caldo, tutta l’acqua incui esso era immerso diventò d’oro. Un muratore fu chiamato arompere con scalpello e martello il blocco che intrappolava il sovra-no nel catino. Si dice che il servo incaricato di aiutare il re nella suaigiene quotidiana , fu spedito in punizione per un anno in esilio suun’isola, per essere scoppiato a ridere a crepapelle.Re Mida non faceva altro che strillare e lamentarsi, e ordinò che fos-sero chiamati la sua mamma e il suo papà, per consolarlo. Ma quan-do la madre e il padre arrivarono, il sovrano, cercando di abbrac-ciarli, li trasformò in due statue d’oro.Il sovrano cominciò a chiamare Dioniso. Urlò così forte che un altrocalice, contenente del prezioso vino rosso, si spaccò in mille pezzi,andando a sporcare nuovamente il mantello di Bacco. Dionisoaccorse di gran fretta al palazzo di Re Mida, passando da una dellesette porte.«Che c’è? Orsù, parla» disse il Dio.«Ti scongiuro, annulla questo potere che mi hai donato, e fai inmodo che la mia mamma e il mio papà tornino ad essere fatti dicarne e che tutto torni d’argento nel mio palazzo».«Perché desideri ciò?».«Perché ho capito che essere ricchi non rende felici, e nulla vale dipiù dell’abbraccio della propria mamma e del proprio papà».Dioniso sorrise compiaciuto.«E così sia». E come era arrivato, sparì.Da quel giorno re Mida visse sempre felice, nel suo palazzo d’argen-to, insieme alle persone a cui voleva bene.

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Filastrocca dei mutamentiDI BRUNO TOGNOLINI

«Aiuto, sto cambiando! disse il ghiaccioSto diventando acqua, come faccio?

Acqua che fugge nel suo gocciolìo!Ci sono gocce, non ci sono io!»

Ma il sole disse: «Calma i tuoi pensieriIl mondo cambia, sotto i raggi miei

Tu tieniti ben stretto a ciò che eriE poi lasciati andare a ciò che sei»

Quel ghiaccio diventò un fiume d’argentoNon ebbi più paura di cambiare

E un giorno disse: «Il sale chze io sentoMi dice che sto diventando mare

E mare sia. Perché ho capito, adessoNon cambio in qualcos’altro, ma in me stesso»

Tratto da Le Filastrocche della Melivisione, 2011, Gallucci editore

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A cura di Silvia Demartini e Adolfo Tomasini

Alle 9 al Teatro di LocarnoAccoglienza e saluto ai partecipantida parte di Raffaella Castagnola, ideatrice e coordinatrice diPiazzaparola, e di Michele Mainardi, direttore del DFA/SUPSI

«Ascoltate, o Dei, il mio canto...»Il racconto della creazione del mondo in un libero adattamento diSilvia Demartini e Adolfo Tomasini, da Le Metamorfosi di Ovidio,con le voci di Marco Fasola e Beppe Vedani (per gentile conces-sione della RSI), la musica di Giovanni Galfetti e le lucidi Luca Bertolotti e Werner Walther.

La storia di Eco e di Narcisocon le voci di Sara Giulivi e Cristina Zamboni.

E poi altre metamoorfoosi:

ai giardini Rusca«Europa» e «Proserpina»con la voce di Cristina Zambonie le illustrazioni di Simona Meisser

in piazza Grande, al mercato del giovedì«Dedalo e Icaro» e «Re Mida»con la voce di Sara Giulivie la fisarmonica di Daniele Dell’Agnola

Piazzaparola è una manifestazione che nasce dalla Dante Alighieri di Lugano.www.dantealighieri.ch - [email protected] - Facebook: piazzaparola

Enti e sponsor

Teatrodi Locarno

SUPSI

Banque SYZ & CO

Città di Locarno Cittàdi Locarno

Piazzaparola a Locarno / Giovedì 10 settembre 2015

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