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ORGANIZZAZIONE DEGLI UFFICI E RISERVA DI AMMINISTRAZIONE NELLO STATO DELLE AUTONOMIE di Massimo Calcagnile Dottore di ricerca in Diritto Pubblico Collaboratore alla cattedra di Diritto Amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna Sommario: 1. Premesse introduttive . – 2. L’uniformità organizzativa degli enti locali autarchici nel periodo precostituzionale (1865-1948). - 3. L’autonomia di Comuni e Province nell’ambito di principi fissati da leggi generali dello Stato: l’uniformità dei tratti fondamentali dell’ordinamento degli enti locali nell’art. 128 Cost. (ora abrogato) - 4. Riconoscimento e valorizzazione di potestà normative locali (statuto e regolamento) di autodifferenziazione in materia di ordinamento degli uffici . – 5. L’ordinamento degli uffici degli enti locali quale materia residuale delle Regioni nel nuovo art. 117 Cost . - 6. Limiti alla potestà legislativa residuale delle Regioni in materia di ordinamento degli uffici degli Enti locali . - 6.1. (segue) : la funzione (fondamentale) di organizzazione come limite alla competenza legislativa regionale. - 7. La riserva di legge e la riserva di amministrazione nell’art. 97 Cost. - 8. L’autonomia normativa di Comuni e Province nel nuovo quadro costituzionale. - 9. Revisione delle disposizioni in materia di organizzazione e personale degli Enti locali per l’adeguamento alla legge cost. n. 3 del 2001 . – 10. Sintesi . 1. Premesse introduttive. L’entrata in vigore del nuovo Titolo V, parte II, della Costituzione ha, senza alcun dubbio, ridisegnato l’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale. Come è noto, l’inversione del precedente criterio di riparto delle competenze ha prodotto una competenza statale esclusiva in materie tassativamente enumerate (art. 117, comma 2°, Cost.), una competenza concorrente tra Stato e Regioni (art. 117, comma 3°, Cost.), ed infine, una competenza regionale innominata, residuale e generale (art. 117, comma 4° Cost.). La nuova distribuzione del potere legislativo pone, non poche difficoltà interpretative in ordine all’individuazione degli esatti confini della materia, del soggetto istituzionale competente a legiferare ed, infine, delle diverse tipologie di potestà legislativa. Questo studio, dopo aver ricostruito brevemente l’evoluzione della disciplina costituzionale e legislativa in tema di ordinamento degli enti locali, si incentra sul nuovo assetto delle fonti in materia di organizzazione amministrativa di Comuni e Province conseguente alla riforma costituzionale operata

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ORGANIZZAZIONE DEGLI UFFICI E RISERVA DI AMMINISTRAZIONE NELLO STATO DELLE

AUTONOMIE

di

Massimo Calcagnile Dottore di ricerca in Diritto Pubblico

Collaboratore alla cattedra di Diritto Amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza

dell’Università di Bologna

Sommario: 1. Premesse introduttive. – 2. L’uniformità organizzativa degli enti locali autarchici nel periodo precostituzionale (1865-1948). - 3. L’autonomia di Comuni e Province nell’ambito di principi fissati da leggi generali dello Stato: l’uniformità dei tratti fondamentali dell’ordinamento degli enti locali nell’art. 128 Cost. (ora abrogato) - 4. Riconoscimento e valorizzazione di potestà normative locali (statuto e regolamento) di autodifferenziazione in materia di ordinamento degli uffici. – 5. L’ordinamento degli uffici degli enti locali quale materia residuale delle Regioni nel nuovo art. 117 Cost. - 6. Limiti alla potestà legislativa residuale delle Regioni in materia di ordinamento degli uffici degli Enti locali. - 6.1. (segue) : la funzione (fondamentale) di organizzazione come limite alla competenza legislativa regionale. - 7. La riserva di legge e la riserva di amministrazione nell’art. 97 Cost. - 8. L’autonomia normativa di Comuni e Province nel nuovo quadro costituzionale. - 9. Revisione delle disposizioni in materia di organizzazione e personale degli Enti locali per l’adeguamento alla legge cost. n. 3 del 2001. – 10. Sintesi.

1. Premesse introduttive.

L’entrata in vigore del nuovo Titolo V, parte II, della Costituzione ha, senza alcun dubbio,

ridisegnato l’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale. Come è noto,

l’inversione del precedente criterio di riparto delle competenze ha prodotto una competenza statale

esclusiva in materie tassativamente enumerate (art. 117, comma 2°, Cost.), una competenza concorrente

tra Stato e Regioni (art. 117, comma 3°, Cost.), ed infine, una competenza regionale innominata,

residuale e generale (art. 117, comma 4° Cost.).

La nuova distribuzione del potere legislativo pone, non poche difficoltà interpretative in ordine

all’individuazione degli esatti confini della materia, del soggetto istituzionale competente a legiferare

ed, infine, delle diverse tipologie di potestà legislativa.

Questo studio, dopo aver ricostruito brevemente l’evoluzione della disciplina costituzionale e

legislativa in tema di ordinamento degli enti locali, si incentra sul nuovo assetto delle fonti in materia di

organizzazione amministrativa di Comuni e Province conseguente alla riforma costituzionale operata

dalla legge 18 ottobre 2001, n. 3 e alla luce della legge 5 giugno 2003, n. 131 <<Diposizioni per

l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3>>.

2. L’uniformità organizzativa degli enti locali autarchici nel periodo precostituzionale (1865-

1948).

La legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. A, costituiva il testo base di riferimento dell’ordinamento

locale per tutto il periodo che va dall’unificazione dello Stato italiano sino all’entrata in vigore della

Costituzione del 1948.

Come è noto, i Comuni e le Province, in base a tale legge (1[1]), erano sottoposti ad un regime

spiccatamente uniforme, in particolare per quanto concerne i profili organizzativi, a prescindere dalle

dimensioni e dalle peculiarità delle varie situazioni (2[2]).

In altri termini, il legislatore statale determinava - dettando una disciplina estremamente

dettagliata – quasi completamente l’ordinamento degli enti locali e, corrispondentemente, gli spazi di

autodeterminazione di Comuni e Province erano pressochè nulli: alla potestà normativa locale era

consentito di disciplinare soltanto aspetti secondari e marginali dell’organizzazione comunale e

provinciale (3[3]).

Del resto, la dottrina, riferendosi agli enti locali di quest’epoca storica, suole tradizionalmente

parlare di soggetti che si trovano rispetto all’ordinamento statale in una posizione di autarchia (4[4]).

(1[1]) La legge del 1865 si ispirava sostanzialmente agli ordinamenti del Regno sardo-piemontese (in particolare alla legge del 1859 c.d. legge Rattazzi), i quali avevano subito, a loro volta, l’influenza dell’ordinamento francese. Pertanto, da tale normativa, emergeva un quadro organizzativo dell’amministrazione pubblica, statale e locale, caratterizzato da accentramento, uniformità e gerarchia. Sull’ uniformità come principio caratterizzante la legislazione del 1865 v. M.S. GIANNINI, I Comuni in L’ordinamento comunale e provinciale, a cura di M.S. GIANNINI, Vicenza, 1967, p. 9. (2[2]) Secondo quanto emerge dagli studi compiuti dalla storiografia e dalla dottrina giuridica, la ragione di tale scelta legislativa risiedeva principalmente nella preoccupazione di consolidare l’unità da poco conseguita. Sulle principali ragioni che stanno alla base di tale modello organizzativo v. G. VESPERINI, I poteri locali, I, Roma, 1999, pp. 5 e ss. ove si possono trovare numerosi riferimenti bibliografici. (3[3]) Sul punto v. G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, III, Milano, 1946, pp. 210 e ss. (4[4]) Sul punto v. G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, cit.,, pp. 119 e ss.; M.S. GIANNINI, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1965, v. I, pp. 219 e ss.; P. VIRGA, Diritto Amministrativo, v. III, Amministrazione locale, Milano, 1988, p. 8. Ad ogni modo sulla varietà di significati che ha assunto il termine di autarchia nelle diverse epoche storiche cfr.: S. CASSESE, v. Autarchia, in Enc. Dir. , IV, Varese,

Quest’ultima indica la capacità riconosciuta all’ente locale di autoamministrarsi, ossia di agire

per il perseguimento e la cura di propri interessi che, però, coincidono con quelli dello Stato (5[5]).

Ne deriva, quindi, che gli enti locali del periodo precostituzionale, non godendo di una posizione

di autonomia, erano privi della capacità di auto-organizzarsi. L’autonomia, infatti, comporta in primo

luogo la capacità di autonormarsi, ma tale concetto era ancora sconosciuto al legislatore dell’epoca che

limitava la capacità di autodeterminazione dell’ente locale ad una potestà regolamentare di mera

esecuzione.

Peraltro, autorevole dottrina osserva come la nozione di autarchia sia il risultato della

fondamentale tensione tra un principio di differenziazione e un principio di unificazione (6[6]). In altri

termini, secondo tale ricostruzione, la formula dell’autarchia, in un sistema di enti locali caratterizzato

1959, pp. 325 e ss.; V. LESSONA, Autarchia, autoamministrazione, amministrazione indiretta in Scritti minori, Milano, 1958, II, p. 1093; S. TRENTIN, Autarchia, autonomia, decentramento, in Riv.dir. pubbl., 1925, p. 65. (5[5]) Nel periodo intercorrente tra la legge del 1865 e l’avvento della Carta costituzionale del 1948 si delinea un modello di organizzazione amministrativa interamente rapportato allo Stato. Del resto, tale modello organizzativo era coerente con la concezione dello Stato come personificazione dell’ordinamento generale. In altri termini, lo Stato è la persona giuridica di riferimento dell’intero apparato dei poteri pubblici. Pertanto, se lo Stato è come persona, tutto l’ordinamento, l’organizzazione pubblica, che è l’organizzazione dell’ordinamento, non può che essere necessariamente organizzazione dello Stato. Questa concezione, che si ispira alle correnti del liberalismo francese, risentì dell’influsso dei pensatori tedeschi (significativo è il pensiero di G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, trad.it, Roma-Bari, 1991, spec. pp. 795 e ss. ove si configura lo Stato come un’entità superiore rispetto alle altre) che fornirono un’interpretazione fortemente autoritaria dello Stato. Per un’ampia e approfondita disamina dei modelli organizzativi v. F. G. SCOCA, La Pubblica amministrazione come organizzazione in Diritto Amministrativo, a cura di AA.VV., Bologna, 2001, spec. pp. 467 e ss. La dottrina dell’epoca riteneva che l’organizzazione amministrativa (interamente) statale si suddividesse in: amministrazione statale diretta e amministrazione statale indiretta. Sul punto v. G. ZANOBINI, L’amministrazione locale, Padova, 1932, spec. pp. 5 e ss. ove si afferma che gli organi dell’amministrazione locale <<non sono che parti dell’unica amministrazione dello Stato ed agiscono tutti per il conseguimento dei medesimi fini>>. L’Autore riteneva che l’amministrazione locale fosse costituita da un’amministrazione locale governativa (amministrazione diretta dello Stato) e di un’amministrazione locale autarchica (amministrazione indiretta dello Stato). (6[6]) G. BERTI, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Padova, 1969, p. 38 il quale afferma che <<l’apparente contraddizione fra una diversità dallo stato e un’appartenenza più o meno diretta all’amministrazione statale viene dunque risolta dalla dottrina con la formula dell’autarchia che viene pertanto a rappresentare la condizione degli enti locali nell’ambito dello stato amministrativo accentrato>>.

da un forte uniformismo organizzativo, si configurava come momento di conciliazione tra le esigenze di

unificazione dello Stato e le esigenze di differenziazione degli enti territoriali (7[7]).

3. L’autonomia di Comuni e Province nell’ambito di principi fissati da leggi generali dello Stato:

l’uniformità dei tratti fondamentali dell’ordinamento degli enti locali nell’art. 128 Cost. (ora abrogato).

Come è noto, l’art. 5 Cost., norma inclusa tra i principi fondamentali dell’ordinamento della

Repubblica, da un lato <<riconosce e promuove le autonomie locali>> ed invita il legislatore ordinario ad

adeguare <<i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento>>,

dall’altro riafferma chiaramente il carattere unitario della Repubblica (<<una e indivisibile>>). Dalla

formulazione dell’articolo emerge che lo Stato italiano si trasforma da Stato unitario, qual era nel

precedente regime costituzionale, a Stato ad autonomie regionali e locali. La Repubblica (Stato-

comunità), che corrisponde all’ordinamento generale sovrano (8[8]), riconosce al proprio interno minori

ordinamenti territoriali a carattere derivato e autonomo.

Si può così constatare come il principio di autonomia si affermi sul piano dei rapporti fra

ordinamenti, facendo l’ordinamento della Repubblica <<un ordinamento composto di una pluralità di

ordinamenti territoriali minori>> (9[9]).

(7[7]) Sul principio di uniformità e le esigenze di differenziazione nel regime degli enti locali cfr. G. BERTI, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, cit., p. 13; U. BORSI, Regime uniforme e regime differenziale nell’autarchia locale in Riv. Dir. Pubbl., 1927, pp. 65 e ss. il quale ritiene persino che <<il principio di differenziazione domina dunque ormai nella disciplina giuridica degli enti locali>> (p. 78). (8[8]) F. BENVENUTI, L’Ordinamento Repubblicano, Padova, 1996, p. 49 afferma che la Repubblica corrisponde allo Stato-comunità il quale consiste in <<un insieme dato da tutti i soggetti, dotati di personalità giuridica, e da tutte le società o associazioni o organismi non dotati di personalità giuridica che agiscono nell’ambito dello stesso ordinamento>>. In particolare, l’Autore spiega come la Repubblica, pur non essendo dotata di personalità giuridica, possa tuttavia considerarsi come titolare di potere sovrano e come i compiti della Repubblica sono realizzati dall’azione dello Stato-persona e degli altri soggetti che vivono nell’ordinamento comunitario. Inoltre, poiché <<lo Stato-persona non è più titolare della sovranità, essendo solamente l’ente esponenziale della sovranità comunitaria, appare anche che non si può più dire che gli altri enti pubblici minori derivino da esso i propri poteri, derivandoli esclusivamente dall’ordinamento repubblicano>>. (9[9]) E. BALBONI e G. PASTORI, Il governo regionale e locale, in Manuale di diritto pubblico, a cura di G. AMATO e A. BARBERA, Bologna, 1994, p. 577.

I nostri costituenti si convinsero della piena compatibilità tra il principio unitario dello Stato e

il principio del pluralismo autonomistico dell’ordinamento giuridico generale. In altre parole, si affermò

l’idea che l’unità politica dello Stato non era in contraddizione con l’esigenza di promuovere forme di

autonomia (10[10]);

diversamente, durante il periodo dello Stato liberale si riteneva che il riconoscimento di

autonomie locali avrebbe rappresentato un pericolo per l’unità del Paese in quanto avrebbe favorito

tendenze separatistiche e forze centrifughe.

La conciliabilità tra i principi di unità e di autonomia determina delle significative conseguenze

sul sistema delle fonti, e più in generale, sui rapporti tra lo Stato e gli altri livelli istituzionali.

Sotto il profilo delle fonti, il rapporto tra legge e fonti normative degli enti locali, non deve

essere guardato soltanto in termini di gerarchia ma anche e soprattutto in termini di competenza.

Infine, le relazioni tra i vari livelli istituzionali (Stato, Regioni, Province e Comuni) non sono di

tipo gerarchico, ma devono essere improntati ad un principio di collaborazione e di cooperazione (11[11]).

Così non era nel previgente ordinamento, dato che la condizione di autarchia degli enti locali

territoriali presupponeva un’amministrazione locale gerarchicamente subordinata a quella

dell’amministrazione centrale dello Stato. Diversamente, oggi, la relazione tra Stato-persona ed enti

territoriali locali è una <<relazione di autonomia nel senso che non occorre più la coincidenza di fini e di

interessi ma qualunque fine e qualunque interesse dell’ente minore si pone con parità di valore nei

confronti dei fini e degli interessi dello Stato-persona, tutti assommandosi nell’ordinamento

complessivo>>. In altre parole, Stato-persona e enti locali territoriali concorrono assieme, su di un

piano di sostanziale parità, per il perseguimento dei fini dell’ordinamento giuridico generale (Repubblica

o Stato-comunità) (12[12]).

(10[10]) La natura unitaria dello Stato e la valorizzazione delle autonomie si presentano come valori, sebbene apparentemente confliggenti, compatibili tra loro a condizione che si realizzi un equilibrato bilanciamento. (11[11]) G. ROLLA, Diritto degli enti locali, Milano, 2000, pp. 4 e ss. La giurisprudenza della Corte costituzionale, l’evoluzione legislativa riguardante i rapporti tra Stato e autonomie territoriali, nuovi orientamenti dottrinali hanno contribuito ad affermare un modello di relazioni interistituzionali fondato sul principio di leale collaborazione. Come è ampiamente noto, la Corte costituzionale ha affermato che le relazioni tra lo Stato, la Regione e le autonomie locali devono essere improntati a criteri di parità e lealtà reciproca, sulla base di procedimenti che assicurino una sorta di intesa tra gli organi dei vari livelli istituzionali. (12[12]) F. BENVENUTI, L’Ordinamento Repubblicano , cit., p. 66; inoltre Id., Per una nuova legge comunale e provinciale in Rivista amministrativa, 1959, p. 538 il quale afferma che Comuni e Province <<non potranno più essere considerati come enti autarchici ma come enti che concorrono in posizione di parità con lo Stato a raggiungere dei fini che non sono fini dello Stato ma fini dell’ordinamento comunitario complessivo>>.

Premesso quanto sopra e posto che <<l’autarchia è meno di autonomia>> (13[13]), occorre definire

meglio quale sia il significato del principio di autonomia

introdotto dalla Carta costituzionale del 1948.

Al termine autonomia possono essere attribuiti due significati principali.

Il primo significato è quello di autonomia è quello di autonomia normativa intesa come capacità di enti

autonomi ma non sovrani di emanare norme giuridiche che la Repubblica riconosce come parte del

proprio ordinamento. In altre parole, le norme emanate dalle fonti di autonomia sono costitutive

dell’ordinamento giuridico generale della Repubblica; di conseguenza, le fonti di autonomia sono inserite

nel sistema generale delle fonti di diritto, i cui rapporti sono, come è noto, per lo più ordinati dai due

criteri della gerarchia e della competenza. A tal proposito, si è autorevolmente affermato che la

equiparazione gerarchica tra fonti normative statali e fonti normative d’autonomia è una scelta di

diritto positivo, potendosi avere equiparazioni di ogni sorta, esclusa quella con le norme costituzionali

che, essendo emanazione del potere sovrano della Repubblica, sono gerarchicamente sovraordinate a

qualsiasi altra fonte normativa (14[14]).

L’altro significato principale di autonomia è quello di autonomia organizzatoria che deve essere

intesa come capacità di autodeterminarsi e di autoorganizzarsi secondo proprie norme. Quando

(13[13]) Le parole sono state pronunciate dall’on. Ruini in sede di assemblea costituente in risposta alla proposta di Rescigno di definire le province e i comuni come enti autarchici territoriali. Ruini respinse tale proposta in questi termini <<Lei, così, diminuisce la forza di questi enti, poiché autarchia è meno di autonomia>> (sul punto v. G. VESPERINI, I poteri locali, I, cit., p. 120). L’autonomia garantita agli enti locali territoriali dalla Costituzione repubblicana del 1948 ha un significato differente dall’autarchia riconosciuta nell’ordinamento previgente. Questa si risolveva nella possibilità per comuni e province di agire per il perseguimento dei propri interessi mediante un’attività avente gli stessi caratteri e la stessa efficacia giuridica dell’attività amministrativa dello Stato. In altri termini, l’autarchia consisteva più semplicemente in una sorta di “autonomia” amministrativa intesa come capacità dell’ente locale di autoamministrarsi. Nell’ordinamento costituzionale repubblicano, invece, l’autonomia è di indirizzo politico-amministrativo: questo significa che l’indirizzo politico-amministrativo degli enti locali non deriva dallo Stato ma dalla propria comunità locale, con la conseguenza che tale indirizzo può persino contrastare con quello espresso dallo Stato (M. S. GIANNINI, Autonomia locale e autogoverno in Il corriere amministrativo, 1948, pp. 1057 e ss.). (14[14]) M.S. GIANNINI, v. Autonomia pubblica, in Enc. Dir., IV, Varese, 1953, p. 357.

l’autonomia organizzatoria viene riferita agli enti locali, essa deve essere intesa soprattutto come

autonomia di indirizzo politico-amministrativo. Infatti, poiché Comuni e Province, sono enti esponenziali

di una collettività locale, devono darsi carico anche delle esigenze della propria comunità (15[15]).

La Carta costituzionale, nel suo testo originario (ossia prima delle modifiche del 2001),

conteneva una norma che disciplinava in maniera specifica l’autonomia comunale e provinciale. Si

trattava dell’articolo 128 (ora abrogato) che recitava così: <<Le Province e i Comuni sono enti autonomi

nell’ambito di principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni>>.

Spettava, pertanto, al legislatore statale determinare la dimensione giuridica dell’autonomia di Comuni e

Province attraverso un normativa che doveva essere generale e di principio. Inoltre, l’art. 128 Cost.

precludeva implicitamente al legislatore regionale ogni ingerenza per quanto concerne l’ordinamento e le

funzioni degli enti locali (16[16]).

Del resto, nell’elenco di materie di competenza concorrente del vecchio art. 117 Cost. non si

menzionava la materia dell’ <<ordinamento degli enti locali>> e, inoltre, per consolidata giurisprudenza

della Corte costituzionale, <<la disposizione contenuta nell’art. 128 Cost. indubbiamente sottrae[va] al

potere legislativo delle Regioni a statuto ordinario la disciplina dell’organizzazione degli enti

territoriali, che rimane[va] affidata esclusivamente al potere legislativo statale>> (17[17]).

Con il termine legge generale, e sul punto concorda la dottrina prevalente, non si faceva

semplicemente riferimento al carattere generale e astratto delle norme (se così fosse, si sarebbe

trattato di una precisazione pleonastica in quanto la norma è per definizione generale e astratta), ma si (15[15]) M.S. GIANNINI, v. Autonomia pubblica, cit., p. 364; T.MARTINES, Studio sull’autonomia politica delle Regioni, in Riv.trim.dir.pubbl., 1956, p. 101; T.MARTINES E A. RUGGERI, Lineamenti di diritto regionale, Milano, 1992, p. 23; M. NIGRO, Il governo locale, I, Storia e problemi. Lezioni di diritto amministrativo 1978-79, Roma, 1980, p. 38 che individua l’essenza dell’autonomia proprio nella capacità di darsi un indirizzo politico-amministrativo e cioè, di individuare e di soddisfare gli interessi comunitari ritenuti meritevoli di tutela; A. PUBUSA, Sovranità popolare e autonomie locali nell’ordinamento italiano, Milano, 1983, pp. 152 e ss. il quale sottolinea che la cura degli interessi locali deve avvenire secondo finalità predeterminate dalle stesse comunità locali, sulla base del fatto che esse sono dotate di autonomia di indirizzo politico. (16[16]) Si consideri, peraltro, che ci si riferisce soltanto alle Regioni a statuto ordinario, e non alle Regioni ad autonomia speciale, le quali, nel sistema costituzionale preesistente, in particolare dopo la legge costituzionale n. 2 del 1993, godevano già di una competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali del proprio territorio. (17[17]) Corte Cost. 20 ottobre 1983, n. 319 in Giur. cost. , 1983, pp. 2077 e ss.; cfr. anche Corte Cost. 23 maggio 1973, n. 62 in Giur. cost., 1973, pp. 778 e ss. e Corte Cost. 26 maggio 1976, n. 130 in Giur. cost., 1976, pp. 923 e ss.

voleva dire che la legge doveva disciplinare in maniera uniforme per tutto il territorio nazionale l’intera

materia che ne è oggetto. In altre parole, sulla base di tale disposizione, il legislatore statale doveva

disciplinare in modo uniforme l’ordinamento di tutti Comuni e le Province e le loro funzioni, e, per

contro, gli era precluso intervenire, con leggi singolari o speciali, a delineare l’ambito di autonomia

(18[18]).

L’art. 128 Cost. prevedeva, inoltre, a garanzia dell’autonomia costituzionalmente riconosciuta

agli enti locali, che la legge statale dovesse essere di soli <<principi>>. Ciò significava, come è stato

autorevolmente osservato, che la legge <<generale>> doveva disegnare <<solo le linee principali del

modello o dei modelli di organizzazione, i quali vanno [andavano] poi integrati e concretati dagli stessi

enti locali>> (19[19]).

In definitiva, l’art. 128 Cost. si configurava come una norma di garanzia dell’autonomia locale non

solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse Regioni, la cui competenza nelle

diverse materie elencate nell’art. 117 non poteva mai essere esercitata in modo tale da pregiudicare

l’autonomia di Comuni e Province (20[20]). Inoltre, tale norma costituzionale consentiva di mantenere un

(18[18]) Sul punto v. CRISAFULLI, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, p. 791; L. PALADIN, Il principio costituzionale di eguaglianza, Milano, 1965, p. 195 e ss.; E. CASETTA, Le funzioni della provincia e del Comune in relazione all’ordinamento regionale in Studi in onore di G. ZANOBINI, Milano, 1965, p. 682; C. ESPOSITO, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5 della Costituzione in La Costituzione italiana. Saggi, Padova 1954, p. 79. Tale interpretazione emerge anche dai lavori preparatori dell’art. 128; infatti, il comitato di redazione ha adottato l’espressione legge generale al fine di <<impegnare il legislatore ad una disciplina uniforme per tutti i Comuni e Province, in modo che, rispettivamente, tutte le Province e tutti i Comuni siano posti su di un piede di perfetta uguaglianza di fronte alle leggi dello Stato>> (v. V. FALZONE, E. PALERMO, F. COSENTINO, La Costituzione italiana illustrata con i lavori preparatori, Roma, 1954, p. 341). Inoltre, per una ricostruzione del dibattito svoltosi in sede di assemblea costituente v. G. CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, XI, La fondazione della Repubblica e la ricostruzione. Considerazioni finali, Milano 1986, pp. 146 e ss. Su questa linea interpretativa si è attestata la Corte costituzionale (in particolare, Corte cost. 11 marzo 1961, n. 9 in Giur. cost., 1961, p. 51 con nota adesiva di V. CRISAFULLI; tale orientamento è confermato successivamente, anche se in maniera incidentale, da altre sentenze della Corte, tra le quali, Corte cost. 11 luglio 1961, n. 42 in Giur. Cost., 1961, p. 951; Corte cost. 28 novembre 1972, n. 164 in Giur. cost.,p. 2053; Corte cost. 23 maggio 1973, n. 62, cit., p. 778) che, in più occasioni, ha ribadito come l’ordinamento degli enti locali territoriali debba essere disciplinato <<in modo organico e uniforme>>, escludendo la possibilità di leggi singolari o speciali. (19[19]) M. NIGRO, Il governo locale, cit., p. 81. Nello stesso anche F. STADERINI, Diritto degli enti locali, Padova, 1999, p. 57 il quale osserva che l’uniformismo, derivante dalla <<legge generale>> di cui all’art. 128 Cost., riguarda soltanto la struttura fondamentale, <<i contorni di un disegno che ciascun ente, poi, in piena autonomia, potrà completare>>, tenendo conto delle proprie peculiarità. (20[20]) Sull’art. 128 Cost. come norma di garanzia v. Corte Cost. 8 aprile 1997, n. 83 in Giur. cost., 1997, pp. 804 e ss.

regime uniforme nei tratti fondamentali degli ordinamenti locali senza, allo stesso tempo, vanificare

l’autonomia costituzionalmente riconosciuta (21[21]).

4. Riconoscimento e valorizzazione di potestà normative locali (statuto e regolamento) di

autodifferenziazione in materia di ordinamento degli uffici.

Le disposizioni costituzionali sugli enti locali sono rimaste sostanzialmente inattuate per circa

quaranta anni, durante i quali, i Comuni e le Province hanno continuato a funzionare secondo le norme

del Testo Unico della legge comunale e provinciale (r.d. 3 marzo 1934, n. 383) (22[22]).

Come è noto, soltanto con l’emanazione della legge 8 giugno 1990, n. 142 <<Ordinamento delle

autonomie locali>> (23[23]) si è data concreta attuazione ai

principi contenuti negli articoli 5, 118 e 128 della Costituzione.

Una delle principali novità presenti nella legge n. 142 del 1990 [confluita, poi, nel d.lgs. 18 agosto

2000, n. 267 <<Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali>>] è senza dubbio rappresentata

dal riconoscimento dell’ autonomia statutaria di Comuni e Province (24[24]).

(21[21]) Peraltro si è criticamente osservato che il principio di autonomia, così inteso, rischiava di rimanere privo di una sostanziale garanzia costituzionale, <<riducendosi ad essere una “pagina bianca”, sulla quale il legislatore può modulare, con ampi margini di discrezionalità, le attribuzioni delle autonomie territoriali>> (G. ROLLA, Diritto degli enti locali, cit., p. 8). (22[22]) Peraltro si è osservato (G. VESPERINI, I poteri locali, cit., pp. 113) come, nei primi quaranta anni dell’età repubblicana, non sono mancati mutamenti nel sistema delle autonomie locali: tali trasformazioni, però, avvengono per aggiustamenti successivi, <<senza scosse>>, come dimostra il fatto che la disciplina generale rimane, per tutto il periodo, quella del testo unico del 1934; inoltre le modificazioni sono il frutto di interventi settoriali, <<scoordinati tra loro e non sostenuti da alcun disegno generale>>. (23[23]) Sul nuovo ordinamento delle autonomie locali esiste un’amplissima bibliografia, si veda, tra gli altri, L.VANDELLI, Ordinamento delle autonomie locali, Rimini, 1991. (24[24]) La potestà statutaria affonda le proprie radici durante l’età comunale (periodo della storia dell’Italia settentrionale e centrale che si estende dal secolo XI fino alla fine del Medioevo). In tale fase della storia, la città, <<praticamente padrona assoluta della sua sorte, crea con piena libertà i propri ordinamenti, si dà proprie leggi (statuta), esercita la giurisdizione, impone tributi, batte moneta, stringe patti politici ed economici con altre città>> (F. CALASSO, v. Comune (storia), in Enc. Dir., VIII, p.169). La crisi dell’ordinamento comunale, e conseguentemente dell’attività statutaria, inizia con l’assorbimento della città nelle signorie e nei principati. Il tramonto vero e proprio della potestà statutaria si verifica con l’avvento dello Stato moderno che, radicato nei principi dello Stato napoleonico, si caratterizza per un elevato grado di accentramento amministrativo, una penetrante gerarchizzazione e un rigido uniformismo organizzativo. Ed è così che le leggi emanate nel periodo 1865-1947 non prevedevano l’autonomia statutaria per gli enti territoriali perché si temeva che gli statuti potessero contenere disposizioni ispirate a concezioni politicamente diverse da quelle espresse dallo Stato unitario di allora (sul punto cfr. S. BACCARINI,

Ne discende che l’ente locale, nell’esercizio della propria potestà statutaria, è in grado di auto-

organizzarsi negli spazi consentiti dalla legge generale sull’ordinamento degli enti locali.

L’art. 88 del d.lgs. n. 267 del 2000 stabilisce che all’ordinamento degli uffici e del personale

degli enti locali si applicano, oltre alle norme del decreto stesso, anche le disposizioni del d.lgs. 30

marzo 2001, n. 165 <<Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni

pubbliche>>, tenendo conto delle relative peculiarità.

Da una lettura complessiva del d.lgs. n. 165 del 2001, si ricava che agli enti locali è consentito,

nell’esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, di adeguare ai principi fissati dal

decreto stesso il proprio assetto organizzativo. In altre parole, le disposizioni in materia di

ordinamento degli uffici contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001 influiscono soltanto indirettamente

sull’ordinamento degli uffici degli enti locali, nel senso che impongono a Comuni e Province di

conformare i rispettivi ordinamenti ai principi organizzativi ivi sanciti.

Gli enti locali, mediante l’esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, possono

modellare, e quindi differenziare, la propria organizzazione amministrativa, non soltanto sulla base

della loro dimensione ma anche in ragione degli indirizzi formulati e degli interessi perseguiti.

Lo statuto, nell’ambito dei principi fissati dal testo unico, stabilisce le norme fondamentali di

organizzazione dell’ente, specifica le attribuzioni degli organi e, altresì, detta i criteri generali in

materia di organizzazione dell’ente (art. 6, c. 2°, d.lgs. n. 267 del 2000). Lo statuto è tradizionalmente

considerato come una fonte di grado secondario che si inserisce nella scala gerarchica in posizione

subordinata rispetto alla legge. Tuttavia, esso è stato anche inquadrato come fonte atipica di rango

subprimario anziché secondario tout court (25[25]).

L’autonomia statutaria degli enti locali e la legge n. 142 del 1990, in Il Consiglio di Stato, 1992, VI, p. 129; G. AREZZO DI TRIFILETTI, Autonomia statutaria e regolamentare in L’Amministrazione italiana, 1992, p. 728). La dottrina tradizionale riteneva che la Carta costituzionale del 1948 non riconoscesse la potestà statutaria agli enti locali (G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 128 si esprimeva così: <<l’ordinamento giuridico del Comune risulta determinato quasi completamente dalla legge:ciò esclude che a tale ente sia oggi riconosciuto quel potere statutario, che fu proprio degli antichi Comuni italiani>>). Diversamente, la dottrina più moderna riteneva che il sistema costituzionale imponesse al legislatore ordinario di procedere al riconoscimento dell’autonomia statutaria di Comuni e Province (cfr. L.BENVENUTI, l’Unificazione amministrativa ed i suoi protagonisti, in Atti convegno, Firenze, 1965, I, p. 165; B. DENTE, La riforma dell’ordinamento locale: alcuni aspetti problematici in Esperienze amministrative, 1972, dicembre, p. 40; F. STADERINI, La potestà statutaria dei minori enti locali territoriali e la riforma della legge comunale e provinciale in Foro amm., 1977, II, p. 274; G. ROLLA, Brevi note sull’ordinamento statutario dei comuni e delle province in Foro amm., 1990, p. 2956; Id., Diritto degli enti locali, cit., p. 36 ove si afferma che <<anche se la Costituzione non parla di autonomia statutaria si deve considerare tale potestà come implicita nel riconoscimento dell’autonomia organizzativa>>. (25[25]) A. ROMANO TASSONE, La normazione secondaria in Diritto Amministrativo, cit., p. 256; P. VIRGA, L’amministrazione locale, Milano, 2003, pp. 17 e ss.; G. ROLLA, Diritto degli enti locali, cit., pp. 37 e ss.

Infatti, per un verso lo statuto, pur essendo inserito tra le fonti secondarie, si pone in

posizione sopraordinata rispetto ai regolamenti degli enti locali; per un altro verso, una disposizione di

legge costituisce un limite per la potestà statutaria degli enti locali soltanto in quanto si configuri come

norma di principio (26[26]).

Ad ogni modo, a prescindere da quale sia l’esatta classificazione formale della fonte statutaria,

occorre evidenziare che il rapporto tra legge e statuto non può essere letto soltanto in termini di

gerarchia, ma anche e soprattutto in termini di concorrenza (27[27]).

Comuni e Province, nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dello statuto adottano

regolamenti in particolare <<per il funzionamento degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle

funzioni>> (art. 7, d.lgs. n. 267 del 200).

Il regolamento sull’<<ordinamento generale degli uffici e dei servizi>>, novità introdotta dalla

legge n. 142 del 1990 (28[28]), costituisce una fonte importante

nella disciplina dell’organizzazione amministrativa locale in quanto svolge la funzione di definire

e specificare i principi posti dalla legislazione statale e dallo statuto in una lunga serie di materie, tra le

quali, in particolare: organi, uffici, modi di conferimento della titolarità dei medesimi; principi

fondamentali di organizzazione degli uffici; dotazioni organiche; procedure per le assunzioni; e più, in

generale, organizzazione e gestione del personale (art. 89, d.lgs., n. 267 del 2000).

(26[26]) La subordinazione della fonte statutaria soltanto alle norme di principio della legge statale emerge in particolare dall’art. 1, comma 3°, d.lgs. n. 267 del 2000 (<<La legislazione in materia di ordinamento degli enti locali e di disciplina dell’esercizio delle funzioni ad essi conferite enuncia espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per la loro autonomia normativa>>) e dall’art. 6, comma 1°, d.lgs. n. 267 del 2000 (<<Lo statuto, nell’ambito dei principi fissati dal presente testo unico. stabilisce. . .>>). (27[27]) Cons. Stato, sez. I, parere 26 luglio 2000, n. 741 in http: //www.giustizia-amministrativa.it ha affermato che dall’art. 1, comma 3°, del d.lgs. n. 267 del 2000 discende <<innanzi tutto che – almeno in via tendenziale – il rapporto gerarchico tra la fonte legislativa e quella statutaria si configura oggi intermini di concorrenza, nel senso che la legge statale si limita a fissare la normativa di principio rimettendo, nell’ambito di questi, allo statuto la disciplina specifica delle diverse fattispecie>>. Inoltre, il giudice amministrativo ha aggiunto che dalla norma in esame discende altresì che <<le limitazioni legislative all’autonomia statutaria devono essere espressamente sancite>>. (28[28]) Prima di allora, il regolamento non disciplinava l’organizzazione degli uffici, ma gli aspetti giuridici e retributivi del personale, i requisiti per la nomina, la carriera, i congedi, etc. ed era denominato <<regolamento organico del personale>> (art. 220 del r.d.. n. 383 del 1934).

In definitiva, dal quadro legislativo sopra descritto, si ricava che agli enti locali, in attuazione

del principio costituzionale di autonomia, sono stati attribuiti poteri normativi di autodifferenziazione,

nell’ambito dei principi fissati dal legislatore statale, sull’organizzazione di propri uffici (29[29]).

5. L’ordinamento degli uffici degli enti locali quale materia residuale delle Regioni nel nuovo art.

117 Cost.

Si è visto nel par. 3 che l’art. 128 Cost. attribuiva al legislatore statale la competenza legislativa

in materia di ordinamento degli enti locali (e, quindi, anche per quanto concerne l’organizzazione degli

uffici di Comuni e Province). Infatti, tale norma costituzionale imponeva al legislatore statale di

disciplinare in maniera uniforme i tratti fondamentali degli ordinamenti locali e, allo stesso tempo,

precludeva implicitamente al legislatore regionale ogni ingerenza per quanto concerne l’ordinamento e le

funzioni degli enti locali.

Come è ormai noto, l’art. 128 Cost. è stato abrogato dalla legge cost. n. 3 del 2001 (art. 9,

comma 2° di tale legge).

A tal proposito, è stato detto che il nuovo Titolo V della Costituzione ha <<travolto la stessa

nozione unitaria (e uniforme) di “ordinamento degli enti locali”>>, come <<complesso di principi fissati da

leggi generali della Repubblica>> (30[30]).

Occorre, pertanto, descrivere il nuovo scenario della riforma del Titolo V sulla ripartizione

delle competenze legislative in materia di ordinamento degli uffici degli enti locali.

Come si è già detto, il nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione interviene

primariamente sul riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni .

Il nuovo art. 117 Cost., determinando un’inversione del precedente criterio di riparto delle

competenze (31[31]), individua, enumerandole, una serie di materie

(29[29]) Numerosi autori hanno criticamente osservato che se astrattamente, Comuni e Province sembrano godere di ampia discrezionalità di scelta nella determinazione del proprio ordinamento, viceversa, di fatto, gli spazi di autonomia risultano piuttosto limitati per effetto di una legislazione statale di principio che ha quasi interamente predeterminato la forma di governo, la competenza degli organi di governo e i loro rapporti reciproci. Invece, alla luce di quanto descritto in testo, sembra che gli enti locali godono di maggiore autonomia normativa nel disciplinare l’organizzazione dei propri uffici. (30[30]) F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione in Le Regioni, 2002, p. 409.

riservate alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2°), un elenco di materie

affidate alla legislazione concorrente (art. 117, comma 3°), e infine, attribuisce alle Regioni una

competenza legislativa generale e residuale (art. 117, comma 4°).

Si assiste, in altri termini, a una sorta di capovolgimento del precedente modello di ripartizione

delle competenze: mentre, prima della riforma, la competenza generale spettava al legislatore statale,

diversamente, ora, la competenza legislativa generale e residuale spetta al legislatore regionale.

Pertanto, nel quadro del nuovo sistema di riparto della potestà legislativa risultante dalla

riforma del Titolo V della Costituzione, l’individuazione della potestà legislativa regionale non discende

da uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento regionale, quanto, al contrario,

dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza legislativa statale (32[32]).

Come è stato osservato (33[33]), nel nuovo Titolo V, la materia dell’ “ordinamento degli enti locali”

non si configura più coma materia unitaria di competenza

statale ma è stata scomposta in diverse sub-materie. Del resto, se il legislatore costituzionale

del 2001 avesse voluto mantenere la competenza legislativa statale su tutta la materia in questione,

avrebbe menzionato espressamente nell’elenco delle competenze esclusive dello Stato anche la materia

dell’ <<ordinamento degli enti locali>>. Diversamente, la circostanza che soltanto le sub-materie della

<<legislazione elettorale>>, degli <<organi di governo>> e delle <<funzioni fondamentali>> di Comuni e

Province (art. 117, comma 2°, lett. p) Cost.) siano esplicitamente attribuite alla potestà esclusiva dello

Stato, è inequivocabilmente un’indice della volontà del costituente di affidare, in virtù del criterio di

ripartizione della residualità, la disciplina delle restanti sub-materie, tra le quali vi è in particolare

l’organizzazione degli uffici, alla potestà legislativa delle Regioni.

(31[31]) Prima della riforma costituzionale del 2001, le Regioni potevano legiferare (e si trattava semplicemente di potestà concorrente) soltanto nelle materie elencate dal previgente art. 117 e, di conseguenza, lo Stato conservava competenza legislativa piena nelle restanti materie. Ora, invece, in seguito all’entrata in vigore del nuovo Titolo V, il meccanismo è in un certo senso opposto in quanto spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata allo Stato. (32[32]) Corte Cost. 26 giugno 2002, n. 282 in Giur.cost., 2002, pp. 2012 e ss. con osservazioni di A. D’ATENA, La Consulta parla . . .e la riforma del Titolo V entra in vigore, pp. 2027 e ss. (33[33]) F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., p. 409.

Premesso ciò, occorre stabilire in quale degli elenchi di cui all’art. 117 Cost. deve essere

ricondotta la materia dell’organizzazione amministrativa degli enti locali.

Quest’ultima materia non compare nell’elenco di quelle riservate alla competenza esclusiva dello

Stato. Del resto, in quel catalogo si annovera l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa soltanto

con limitato riferimento allo Stato e agli enti pubblici nazionali (art. 117, comma 2°, lett. g) Cost.). Né la

materia dell’organizzazione amministrativa locale compare nell’elencazione delle materie di potestà

legislativa concorrente (art. 117, comma 3° Cost.). Ne discende dunque che la disciplina

sull’organizzazione amministrativa degli uffici locali è, in virtù del nuovo assetto di ripartizione delle

competenze, attribuita alla competenza legislativa residuale delle Regioni (art. 117, comma 4° Cost.).

In conclusione, dopo la riforma costituzionale del 2001, l’ordinamento degli enti locali non

costituisce più una materia unitaria di competenza legislativa statale. Emerge, infatti, la volontà del

legislatore costituzionale di conservare tratti unitari (e uniformi) dell’ordinamento degli enti locali

soltanto per le sub-materie di cui all’art. 117, comma 2°, lett. p) Cost.; viceversa, per le restanti sub-

materie, tra le quali in particolare l’organizzazione degli uffici locali, gli ordinamenti di Comuni e

Province potranno subire <<diverse gradazioni di differenziazione>>: su base regionale, se si tratta di

profili soggetti a riserva di legge, e persino a livello di singolo ente locale, se si tratta di aspetti lasciati

alla piena autonomia normativa degli enti locali (34[34]).

6. Limiti alla potestà legislativa residuale delle Regioni in materia di ordinamento degli uffici

degli Enti locali.

La potestà legislativa residuale delle Regioni rappresenta senza dubbio una delle maggiori

innovazioni introdotte dalla riforma del Titolo V. Infatti, il legislatore costituzionale ha attribuito alle

Regioni a Statuto ordinario una nuova competenza legislativa che si differenzia per la sua maggiore

ampiezza ed intensità da quella concorrente.

Come è ormai noto, il nuovo art. 117, comma 1°, Cost. sancisce che <<la potestà legislativa è

esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti

dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali>>. Tale norma introduce una parificazione

(34[34]) F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., 2002, p. 415.

tra legislatore statale e quelli regionali che <<si traduce anche nella parità dei limiti e dei vincoli che

entrambi incontrano>> (35[35]).

Di conseguenza, la prospettiva di ulteriori limiti a carico della potestà regionale (residuale)

rispetto a quella statale risulta incompatibile con il nuovo assetto di distribuzione del potere legislativo.

La competenza legislativa residuale delle Regioni non solo non incontra il limite dei principi

fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (36[36]) ma neppure

quelli delle norme fondamentali di riforma economico-sociale e quello dei principi generali

dell’ordinamento giuridico, i quali nel previgente sistema erano posti a presidio delle esigenze unitarie

(37[37]).

Infatti, il legislatore costituzionale del 2001 ha già affidato alla competenza legislativa dello

Stato tutto ciò che è meritevole di trattamento unitario. Sicchè, nessun altro strumento, al di fuori di

quelli espressamente contemplati dal testo costituzionale, potrà essere utilizzato per imporre al

legislatore regionale il rispetto delle esigenze unitarie (38[38]).

(35[35]) F. PIZZETTI, Le nuove esigenze di governance in un sistema policentrico <<esploso>> in Le Regioni, 2001, p. 1171; nello stesso senso anche M. CAMMELLI, Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V della Costituzione in Le Regioni, 2001, p. 1275 che parla di <<equiparazione ontologica tra legge statale e legge regionale>>. (36[36]) Nelle materie di competenza legislativa residuale delle Regioni, il limite dei principi fondamentali non è più valido. Del resto, qualora si considerasse tale limite valido anche per la potestà residuale, ciò comporterebbe un incomprensibile ed ingiustificato appiattimento della potestà residuale sullo stesso piano di quella concorrente. E’ evidente che una simile interpretazione risulta incompatibile con il nuovo sistema costituzionale che si fonda sulla separatezza e sulla parità dei legislatori statale e regionali. (37[37]) L’orientamento dottrinale maggioritario ritiene che, dopo la riforma del Titolo V, sia venuto meno il limite delle norme di riforma economico-sociali e dei principi generali dell’ordinamento. Si veda in particolare B. CARAVITA, La Costituzione dopo la riforma del Titolo V, Torino, 2002, p. 88; L. TORCHIA, <<Concorrenza>> fra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo V: dalla collaborazione unilaterale alla collaborazione paritaria in Le Regioni, 2002, pp. 647 e ss.; P. CAVALERI, La nuova autonomia legislativa delle regioni in Le modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione in Foro it., 2001, V, c. 202. Tuttavia, non mancano opinioni dissenzienti v. G.ROLLA, Relazioni tra ordinamenti e sistema delle fonti. Considerazioni alla luce della legge costituzionale n. 3 del 2001 in Le Regioni, 2002, pp. 337 e ss.; C.E. GALLO, Le fonti del diritto nel nuovo ordinamento regionale, Torino, 2001, pp. 85 e ss. il quale ritiene che l’esigenza di <<coerenza interna dell’ordinamento non può essere contestata, così come non può essere contestato che deputato a preoccuparsi di questa coerenza interna, sia, in estrema analisi, comunque lo Stato>>. Tuttavia, quest’ultimo Autore, pur ritenendo che il limite dei principi generali dell’ordinamento giuridico e quello delle norme fondamentali di riforma economica-sociale siano ugualmente sussistenti nel nuovo sistema costituzionale, puntualizza che i predetti limiti dovranno intervenire soltanto in via residuale laddove sia effettivamente necessario per garantire l’identità dell’ordinamento repubblicano (p. 87). (38[38]) G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione in Le Regioni, 2001, p. 1251 il quale afferma che le potestà legislative statali non possono essere dedotte <<da

Del resto, La Corte costituzionale (39[39]), ha chiaramente affermato che nelle materie di cui al

quarto comma del nuovo art. 117 Cost. <<valgono soltanto i

limiti di cui al primo comma dello stesso articolo (e, se del caso, quelli indirettamente derivanti

dall’esercizio da parte dello Stato della potestà legislativa esclusiva in “materie” suscettibili, per la loro

configurazione, di interferire su quelle in esame)>>.

Alla luce delle considerazioni sopra compiute, si ricava che le esigenze di uniformità nella

disciplina dell’ ordinamento degli uffici locali, materia di competenza residuale regionale, saranno

assicurate esclusivamente dai limiti esplicitamente previsti dall’art. 117, comma 1° Cost.

(<<Costituzione>> e <<vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali>>) e

dalle materie “trasversali” di competenza legislativa dello Stato (40[40]).

principi di ordine generalissimo quali il carattere unitario dello Stato, o il concetto di sovranità, o l’interesse nazionale. Il riparto di attribuzioni previsto dall’art. 117 deve invece essere inteso come la specifica attuazione che la Costituzione ha voluto dare a tali principi generali, i quali dunque non possono essere contrapposti ad esso. Non si può dunque affermare che lo Stato ha potestà legislativa ordinaria nelle materie dell’art. 117, 2° comma, e in più su tutto ciò che è di interesse nazionale, ma si deve affermare che ciò che il Costituente ha ritenuto di interesse nazionale si manifesta attraverso le materie e i compiti statali previsti dall’art. 117>> Nello stesso senso anche G. CAIA, Il problema del limite dell’interesse nazionale nel nuovo ordinamento in http://www.federalismi.it, 21 marzo 2003, il quale afferma che, nel nuovo sistema, lo Stato può esercitare i propri poteri legislativi soltanto sulla base di specifiche e puntuali previsioni costituzionali. Infatti, il legislatore della riforma costituzionale <<ha valutato ciò che appariva meritevole di tutela e ne ha stabilito la modalità, senza che vi sia spazio per l’affermazione di un limite ulteriore (aggiuntivo), il quale –a questo punto non potrebbe che essere indefinito e generico, e dunque incompatibile con un sistema nel quale l’autonomia si è voluta assicurare con maggiore ampiezza>>. (39[39]) Corte Cost. 24 luglio 2003, n. 274 in Giur. cost., 2003, pp. 2238 e ss. (40[40]) La dottrina e la giurisprudenza della Corte Costituzionale ritengono che alcune delle “materie” riservate allo Stato di cui all’art. 117, comma 2° Cost. non si configurano come “materie” in senso stretto ma si tratta di “materie” caratterizzate da “trasversalità”. Più precisamente la Consulta afferma che: <<non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come “materie” in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie>> (Corte Cost. 26 luglio 2002, n. 407 in Giur.cost., 2002, pp. 2940 e ss.; in questo senso anche Corte Cost. 26 giugno 2002, n. 282, cit. Per la dottrina v. in particolare G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Parte Seconda della Costituzione, cit.,, p. 1253 il quale definisce le materie di cui si tratta come <<titoli di legittimazione trasversale>>, B. CARAVITA, La Costituzione dopo la riforma del titolo V, cit., p. 88, il quale ritiene che <<lo Stato potrà interferire sulle materie di competenza legislativa regionale (e indirettamente limitarle) (solo) attraverso alcune competenze trasversali ad esso riservate>>, L. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni in Le Regioni, 2002, p. 348 la quale osserva che alcune delle materie di competenza esclusiva dello Stato sono <<vere e proprie clausole di competenza, come l’ordinamento civile, la tutela della concorrenza, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, le funzioni fondamentali degli enti locali>>.

Il limite della <<Costituzione>> rappresenta il primo e più importante fattore di unificazione

dell’ordinamento nel suo complesso.

Pertanto, i principi costituzionali, così come interpretati ed elaborati dalla giurisprudenza

costituzionale, diventano i principali strumenti di uniformazione della disciplina sull’organizzazione

amministrativa degli enti locali.

Il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) inteso come principio di ragionevolezza sulla base del

quale la legge deve trattare in modo eguale situazioni eguali ed in modo ragionevolmente diverso

situazioni diverse (41[41]).

Il principio del pubblico concorso (art. 97, comma 3° Cost.), quale forma generale ed ordinaria di

reclutamento per il pubblico impiego, in quanto strumento che offre le migliori garanzie di selezione dei

più capaci in funzione dell’efficienza della pubblica amministrazione (42[42]).

I principi di imparzialità e buon andamento (art. 97, comma 1°, Cost.), quali <<principi essenziali

cui deve informarsi, in tutte le sue diverse articolazioni, l’organizzazione dei pubblici uffici>>. A tal

proposito, si pensi alla regola della composizione prevalentemente tecnica delle commissioni di concorso

introdotta dalla Corte costituzionale come articolazione e specificazione del principio di imparzialità

(43[43]).

Il principio di tutela dell’unità giuridica (art. 120, comma 2° Cost.), quale presupposto per

l’esercizio del potere di intervento sostitutivo del Governo, non solo nei confronti di funzioni

amministrative ma anche, forse, nei confronti dei poteri legislativi delle Regioni. (41[41]) Corte Cost. 21 marzo 1989 n. 143 in Giur.cost., 1989, pp. 680 e ss.; Corte Cost. 14 aprile 1988, n. 447 in Giur.cost., 1988, pp. 2057 e ss.; Corte Cost. 11 dicembre 1997, n. 387 in Giur.cost., 1997, pp. 3704 e ss.; Corte Cost. 4 novembre 1999, n. 419 in Giur.cost., 1999, pp. 3679 e ss.; Corte Cost. 16 giugno 2000, n. 197 in Giur. cost., 2000, pp. 1661 e ss. Dalle citate pronunce emerge che l’art. 3, comma 1° Cost. è interpretato come un generale principio di ragionevolezza sulla base del quale la legge deve trattare in modo eguale situazioni eguali, ed in modo ragionevolmente diverso situazioni diverse. In tal senso cfr. A. S. AGRO’, Commento all’art. 3 I comma della Costituzione in Commentario della Costituzione, cura di G.BRANCA, Bologna-Roma, 1975, pp. 151 e ss. (42[42]) Tra le molte, si citano le più recenti: Corte Cost. 26 gennaio 2004, n. 34 in http://www.federalismi.it; Corte Cost. 24 luglio 2003, n. 274, cit.; Corte Cost. 16 maggio 2002, n. 194, in Giur.cost., 2002, pp. 1520 e ss.; Corte Cost. 4 gennaio 1999, n. 1, in Giur.cost., 1999, pp. 1 e ss. (43[43]) Corte Cost. 15 ottobre 1990, n. 453 in Giur. Cost., 1990, p. 2710 commentata da G. AZZARITI, Brevi note su tecnici, amministrazione e politica, pp. 2713 e ss. e da C. PINELLI, Politica e amministrazione: una distinzione per l’ordine convenzionale,ibidem, pp. 2720 e ss.;v. anche S. SPAGNA MUSSO, Composizione delle commissioni giudicatrici di concorso e ragionevolezza delle scelte legislative in Dir.Giur., 1991, pp. 644 e ss.

Come si è anticipato, ad ogni modo, il legislatore statale, nell’esercizio di proprie competenze

legislative, che in qualche modo intersecano la materia dell’organizzazione amministrativa locale,

continuerà a condizionare la disciplina regionale nella materia di cui si tratta in questo studio.

Mi riferisco, ad esempio, a tutte quelle norme di legge statale, finalizzate in particolare al

contenimento della spesa pubblica, adottate dal legislatore nazionale, soprattutto nelle più recenti leggi

finanziarie, nell’esercizio della competenza concorrente sull’<<armonizzazione dei bilanci pubblici e

coordinamento della finanza pubblica>> (art. 117, comma 3° Cost.), le quali incidono, seppure

legittimamente, sull’organizzazione amministrativa degli enti locali.

Inoltre, si pensi alla competenza esclusiva statale sulla <<determinazione dei livelli essenziali

delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali>> (art. 117, comma 2°, lett. m), la quale implica non

soltanto la determinazione dei livelli qualitativi delle prestazioni, ma richiede anche la definizione degli

apparati amministrativi necessari a garantirli.

6.1. (segue): la funzione (fondamentale) di organizzazione come limite alla competenza

legislativa regionale.

Come si osserverà nel par. 7, autorevole dottrina (44[44]) ha individuato nell’art. 97 Cost. una

riserva di amministrazione, in base alla quale ogni pubblica

amministrazione, e a maggior ragione quelle territoriali, ha il potere naturale di auto-organizzarsi in

vista del perseguimento dei propri fini. Secondo tale dottrina, la funzione di organizzazione si configura

come funzione di indirizzo in quanto le scelte organizzative predeterminano le successive scelte sul

piano dell’attività.

Ciò posto, mi pare che non si possa ragionevolmente contestare il fatto che la funzione di

organizzazione costituisca una funzione essenziale per il funzionamento di Comuni e Province (45[45]).

A tal proposito, mi pare ragionevole la tesi sul carattere <<istituzionale>> delle <<funzioni

fondamentali>>, la cui funzione sarebbe quella di dettare norme di principio in materia di ordinamento,

relative all’organizzazione e ai poteri amministrativi (46[46]).

(44[44])M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966. (45[45]) L’ art. 2 della legge n. 131 del 2003 indica una serie di elementi connotanti la natura fondamentale delle funzioni: “essenzialità” ed “imprescindibilità” per il <<funzionamento dell’ente>> e <<per il soddisfacimento dei bisogni primari>>; “storicità” della funzione svolta.

Ne deriva che la funzione di organizzazione deve essere, senza dubbio, inquadrata nell’ambito

delle <<funzioni fondamentali>>, la cui determinazione è affidata al legislatore statale (art. 117, comma

2°, lett. p) Cost.). A tal proposito si è scritto che <<determinare le funzioni significa anche dettare

almeno un inizio della disciplina della materia>> (47[47]).

Ciò significa che la competenza legislativa in tema di individuazione delle funzioni fondamentali

permette allo Stato di intervenire anche nelle materie assegnate alla competenza legislativa delle

Regioni (art. 117, comma 3° e 4°, Cost.). Pertanto, il legislatore statale, sulla base della competenza

trasversale di cui all’art. 117, comma 2°, lett. p), Cost., può condizionare la disciplina legislativa

regionale sull’organizzazione amministrativa degli uffici locali.

La competenza del legislatore statale nella determinazione delle funzioni fondamentali

sottolinea la necessità di specificare un nucleo di funzioni imprescindibili ed essenziali necessariamente

eguali per gli enti dello stesso livello a garanzia dell’autonomia locale rispetto alle Regioni. In altre

parole, tale competenza è esplicitamente finalizzata anche alla <<tenuta e alla coesione dell’ordinamento

della Repubblica>> correlabile alla capacità degli enti di assicurare un livello minimo di <<soddisfacimento

di bisogni primari della comunità di riferimento>> (48[48]).

Peraltro, lo Stato, nell’individuazione delle funzioni fondamentali, deve limitarsi a dettare una

disciplina di soli principi in modo da evitare una individuazione delle funzioni fondamentali così

dettagliata e specifica da tradursi in una compressione degli spazi che spettano, in applicazione

soprattutto dei principi di differenziazione e adeguatezza, sia al legislatore regionale sia

all’autoregolazione locale (49[49]).

(46[46]) S. MANGIAMELI, Riassetto dell’amministrazione locale, regionale e statale tra nuove competenze legislative, autonomie normative ed esigenze di concertazione in Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, a cura di G. BERTI e G. DE MARTIN, Roma, 2002, p. 201. (47[47]) G. FALCON, Modello e transizione nel nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, cit., p. 1253. (48[48]) Art. 2, comma 4°, lett. b) della l.n. 131 del 2003. (49[49]) G. DE MARTIN, Processi di rideterminazione delle funzioni amministrative in Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, cit., p. 109.

7. La riserva di legge e la riserva di amministrazione nell’art. 97 Cost.

Dopo aver descritto le novità apportate dalla riforma costituzionale del 2001 in ordine alla

ripartizione delle competenze legislative sull’ ordinamento degli uffici degli enti locali, occorre, a

questo punto, soffermarsi sulla riserva di legge di cui all’ art. 97, comma 1° Cost. (<<i pubblici uffici sono

organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità

dell’amministrazione>>).

Come è noto, il principio di riserva di legge impone che la disciplina di una certa materia sia

demandata alla fonte legislativa. Ciò significa che, da un lato, la legge deve disciplinare, compiutamente

o soltanto per i tratti fondamentali, la materia riservata (aspetto positivo della riserva) e, dall’altro,

che fonti diverse non possono intervenire sugli oggetti riservati alla legge (aspetto negativo della

riserva) (50[50]).

Si è discusso, nel passato, sul valore della riserva dell’art. 97 Cost., se fosse da intendersi come

assoluta o relativa (51[51]), ma, alla fine, tale dibattito ha avuto concordi conclusioni nel senso

dell’affermazione della sua natura relativa (52[52]).

Quanto appena scritto, introduce peraltro un tema ulteriore, di particolare complessità,

concernente la possibilità di affermare l’esistenza, nel nostro attuale ordinamento costituzionale, di

una riserva di amministrazione, intesa come esistenza di settori materiali attribuiti alla competenza in

senso proprio dell’amministrazione e corrispondentemente sottratta, in tutto o in parte, alla

competenza della legge.

La risposta deve essere positiva. Secondo opinioni ormai consolidate espresse da un autorevole

studioso, che ha dedicato alla questione in esame un approfondimento di notevole importanza (53[53]), la

(50[50]) Per uno studio approfondito sulla riserva di legge v. R.BALDUZZI e F. SORRENTINO, v. Riserva di legge, in Enc. Dir., XLI, Varese 1989, pp. 1207 e ss. (51[51]) Si suole distinguere fra riserva assoluta e riserva relativa, secondo che si ritenga che la legge debba regolare compiutamente la materia riservata ovvero sia sufficiente che ne detti la disciplina fondamentale, rimettendone il dettaglio ad altre fonti, generalmente subordinate. (52[52]) La stessa Corte Costituzionale ha ormai generalmente ammesso (sin dalla sentenza n. 221 del 1976 in Giur. cost., 1976, pp. 1389 e ss.) il carattere relativo della riserva di legge di cui all’art. 97 Cost.

riserva di legge di cui all’art. 97 Cost. opera in una duplice direzione: infatti, in materia di

organizzazione non vi è

soltanto una riserva (relativa) a favore del legislatore (statale o regionale), ma vi anche una

riserva di potere normativo in capo agli organi di vertice dell’amministrazione. La ratio della

disposizione in esame è la ripartizione della funzione di organizzazione tra il legislatore (statale o

regionale) e gli organi di vertice dell’amministrazione interessata. Inoltre, considerando che

l’organizzazione assolve ad una funzione di indirizzo e di guida dell’attività di amministrazione di cura

degli interessi pubblici (54[54]), la disposizione in esame è, essenzialmente una norma di distribuzione

della funzione di indirizzo sull’amministrazione (55[55]).

Queste notazioni, appena accennate, inducono ad accogliere con favore la possibilità di una

riserva di amministrazione, intesa come riserva di organizzazione e di indirizzo in capo agli organi di

vertice delle pubbliche amministrazioni. Pertanto, la funzione organizzatrice spetta all’amministrazione

in sé, in quanto l’organizzazione deve essere <<modellata sugli interessi che deve curare>>, mentre la

disciplina legislativa deve limitarsi a individuare i tratti fondamentali dell’organizzazione in modo tale

da assicurare l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa (56[56]).

La norma in esame si riferisce, come emerge dall’utilizzazione del termine <<uffici>> nella sua

generalità, a qualunque pubblica amministrazione (e non solo a quella statale) e, dunque, a maggior

ragione, anche alle amministrazioni territoriali. Ciò significa che il valore e la portata della norma

costituzionale sulla funzione di organizzazione (art. 97) non devono essere valutati isolatamente ma

(53[53]) M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, cit. (54[54]) Per un’esaustiva ricostruzione delle teorie che hanno condotto all’emersione dell’organizzazione come momento fondamentale della vita pubblica v. A. PIOGGIA, La competenza amministrativa. L’organizzazione fra specialità pubblicistica e diritto privato, Torino, 2001, pp. 85 e ss. (55[55]) M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione cit.,, pp. 99 e ss. il quale afferma che<<la strumentalità dell’organizzazione non rappresenta un passivo ed esteriore asservimento di essa all’attività sostanziale di soddisfazione dei fini e degli interessi, ma è partecipazione attiva, cooperazione al movimento, avvio del movimento nella direzione scelta: la decisione organizzativa si rileva, quindi, necessariamente come decisione di indirizzo dell’attività>> (p. 118). (56[56]) M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione cit.,p. 119 il quale afferma che <<appunto perché modellata sugli interessi che deve curare, l’organizzazione reagisce su tali interessi e ne influenza la realizzazione, assumendo una funzione attiva e direttiva nell’intero processo di soddisfazione di essi>>.

devono essere giudicati alla stregua e nel quadro costituzionale dei rapporti esistenti tra i vari soggetti

(Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato) che costituiscono l’ordinamento della

Repubblica. E’ chiaro, che in questa più comprensiva visuale, la riserva della funzione di organizzazione

in favore delle amministrazioni territoriali rappresenta la più importante tra le riserve di indirizzo

attribuite alle autonomie locali.

Dalle considerazioni sopra compiute, si ricava che la riserva di legge sull’organizzazione degli

uffici degli enti locali (art. 97 Cost.) si configura come bidirezionale: da un lato, opera a favore del

legislatore statale e regionale, stabilendo che gli aspetti fondamentali di organizzazione degli uffici

debbono essere necessariamente disciplinati dalla legge, dall’altro, opera a favore di Comuni e Province,

limitando la disciplina legislativa ai soli tratti fondamentali dell’ordinamento degli uffici, e, in modo

corrispondente, riconoscendo e garantendo all’ente locale una riserva di autodeterminazione sulla

propria organizzazione amministrativa.

In altri termini, si vuol dire che la competenza residuale di cui all’art. 117, comma 4° Cost., non

legittima il legislatore regionale a disciplinare integralmente la materia di cui si tratta poiché, come si è

già detto l’art. 97 individua una riserva di amministrazione. Pertanto, il legislatore regionale può

dettare soltanto norme di principio, lasciando alle fonti normative locali il compito di dettare una

disciplina organica e di più ampio respiro.

8. L’autonomia normativa di Comuni e Province nel nuovo quadro costituzionale.

Come si è osservato nel par. 4, il legislatore, sin dal 1990, ha riconosciuto agli enti locali la

capacità di determinare e, quindi anche di differenziare, la propria organizzazione amministrativa.

L’espresso riconoscimento della potestà statutaria (art. 114, comma 2°, Cost.) e regolamentare

(art. 117, comma 6°, Cost.) di Comuni e Province costituisce sicuramente una delle maggiori novità

introdotte dalla riforma costituzionale del 2001. La Costituzione non indica, però, a differenza di

quanto accade per gli statuti regionali (art. 123 Cost.), quali siano i contenuti e i limiti dello statuto

locale.

Pertanto, merita particolare attenzione l’ art. 4, comma 2°, della legge 5 giugno 2003, n. 131

<<Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre

2001, n. 3>>. Tale norma, dando attuazione all’ art. 114, comma 2° Cost. e all’art. 117, comma 6°, Cost. in

materia di potestà normativa degli enti locali, svolge una funzione ricognitiva e specificativa di principi

già contenuti nella Costituzione, come se fosse una norma di interpretazione autentica (seppure

impropriamente dato che il legislatore statale non può fornire l’interpretazione autentica di una norma

di rango costituzionale).

Quanto al contenuto, la norma in esame definisce il contenuto necessario dello statuto (<<i

principi di organizzazione e funzionamento dell’ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le

garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare>>) con una formula riassuntiva che

sostanzialmente riprende, semplificando, l’omologa disposizione del testo unico degli enti locali (art. 6

del d.lgs. n. 267 del 2000).

Più problematica è la questione relativa ai vincoli alla potestà statutaria indicati dalla norma in

esame, la quale prevede che lo statuto debba essere <<in armonia con la Costituzione e con i principi

generali in materia di organizzazione pubblica, nel rispetto di quanto stabilito dalle legge statale in

attuazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera p) della Costituzione>>. Infatti, mentre l’armonia

con la Costituzione e il rispetto di quanto stabilito dalla legge statale nella materie di cui all’art. 117,

comma 2°, lett. p) costituiscono vincoli facilmente deducibili dal quadro costituzionale, viceversa,

l’ambiguità dell’espressione <<principi generali dell’organizzazione pubblica>> suscita perplessità ed

incertezze circa l’esatto significato e la legittimità costituzionale di tale limite.

Per quanto concerne il vincolo dell’<<armonia con la Costituzione>>, si osserva come l’esplicita

sottoordinazione dello statuto alla Carta costituzionale in termini di <<armonia>> sia indice della volontà

del legislatore di creare un parallelismo tra questa formula e quella adottata dall’art. 123 Cost. per gli

statuti regionali (57[57]). Tale parallelismo testimonia semplicemente il principio di pari ordinazione dei

soggetti indicati all’art. 114 Cost.

Tuttavia, ciò non significa che lo statuto degli enti locali possa essere qualificato, come invece

avviene per lo statuto delle Regioni, come fonte primaria immediatamente subordinata alla Costituzione.

Infatti, lo statuto di Comuni e Province, come è espressamente affermato dall’art. 4 in esame, è

comunque subordinato al rispetto delle norme legislative dettate dallo Stato nelle materie (legislazione

elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali) di cui all’art. 117, comma 2°, lett. p) Cost. (58[58]).

Il limite dei <<principi generali dell’organizzazione pubblica>> potrebbe apparire come un limite

“nuovo”, ossia non presente nel testo costituzionale, in quanto introdotto dal legislatore statale. Se così

fosse, la norma in esame dovrebbe indubbiamente considerarsi costituzionalmente illegittima perché il

(57[57]) G. BALSAMO, La potestà normativa degli enti locali secondo l’articolo 4 della legge 5 giugno 2003, n. 131, attuativa del nuovo Titolo V della Costituzione in http://www.federalismi.it (58[58]) Q. CAMERLENGO, Commento all’articolo 4 in L’attuazione del nuovo Titolo V, parte seconda della Costituzione – Commento alla legge “La Loggia”, a cura di P. CAVALERI e E. LAMARQUE, Torino, 2004, p. 83.

legislatore costituzionale del 2001, come si è visto nel par. 6, ha affidato alla potestà legislativa dello

Stato tutto ciò che è meritevole di trattamento unitario; di conseguenza, nessun altro strumento, al di

fuori di quelli espressamente contemplati dal testo costituzionale, potrà essere utilizzato per imporre

agli organi locali il rispetto delle esigenze unitarie. Pertanto, l’unica interpretazione conforme al testo

costituzionale è quella per la quale i <<principi generali dell’organizzazione pubblica>> sono quelli fissati

dal legislatore statale o regionale sulla base di titoli di intervento, espressamente riconosciuti dalla

Costituzione, che in qualche modo incrociano la materia dell’organizzazione pubblica.

L’art. 117, comma 6°, Cost. prevede che la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di

legislazione esclusiva, salvo delega alle Regioni. In tutti gli altri ambiti materiali, di competenza

legislativa concorrente o residuale, la potestà regolamentare spetta alle Regioni. Tuttavia, Comuni,

Province e Città metropolitane hanno potestà regolamentare <<in ordine alla disciplina

dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite>> .

La dottrina prevalente ritiene che, nel nuovo assetto costituzionale, la potestà regolamentare

spetti di regola all’ente titolare della corrispondente funzione amministrativa. In altre parole, fermo

restando il principio di legalità - in base al quale la legge (statale o regionale) che conferisce un

determinato potere amministrativo può anche fissarne i criteri generali di esercizio - l’ente che è

titolare della funzione amministrativa è titolare anche del potere normativo relativo alla disciplina

dell’organizzazione e dello svolgimento della stessa (59[59]).

Una tale lettura si basa sull’esplicito riconoscimento costituzionale del principio di sussidiarietà

verticale in tema di funzioni amministrative (art. 118 Cost.) e, di conseguenza, sul venir meno del

principio del parallelismo tra titolarità della funzione legislativa e titolarità della funzione

amministrativa. Pertanto, il livello di governo preposto alla cura concreta degli interessi pubblici, sulla

base dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, è in questo modo posto nella

condizione di regolamentare le funzione amministrative attribuite.

Conformemente a quanto si è appena esposto, l’art. 4, comma 4° della legge n. 131 del 2003

stabilisce che <<la disciplina dell’organizzazione, dello svolgimento delle funzioni dei Comuni, delle

Province e delle Città metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell’ente locale, nell’ambito

della legislazione dello Stato o della Regione, che ne assicura i requisiti minimi di uniformità, secondo le

rispettive competenze…>>. Tale norma demanda ai regolamenti locali la disciplina dell’organizzazione e

(59[59]) R. BIN, La funzione amministrativa nel nuovo Titolo V della Costituzione in Le Regioni, 2002, p. 370; A. D’ATENA, Prime impressioni sul progetto di riforma del Titolo V in Le autonomie territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale, Milano, 2001, p. 231; D. SORACE, La disciplina generale dell’azione amministrativa dopo la riforma del Titolo V della Costituzione. Prime considerazioni in Le Regioni, 2002, p. 671; F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo Testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., p. 417.

dello svolgimento delle funzioni amministrative attribuite all’ente locale stesso. Alla legislazione statale

e regionale è affidato il compito di assicurare <<i requisiti minimi di uniformità>> nelle diverse discipline

regolamentari. Sebbene, l’espressione utilizzata non sia priva di ambiguità interpretative (60[60]), il

riferimento normativo ai <<requisiti minimi>> non rappresenta un limite “nuovo” (61[61])

(nel senso di limite non desumibile dal dettato costituzionale) alla potestà regolamentare ma è

espressione del principio di legalità in base al quale, come già detto, la legge (statale o regionale) che

conferisce un determinato potere amministrativo può anche fissarne i criteri generali di esercizio. In

altri termini, i <<requisiti minimi>> costituiscono dei criteri atti a garantire una uniformità minima in

ordine all’esercizio delle funzioni amministrative attribuite agli enti locali (62[62]).

L’art. 4, comma 3° della legge n. 131 del 2003 stabilisce che l’organizzazione in generale degli

enti locali <<è disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle norme statutarie>>. La norma in questione

riconosce che il potere regolamentare degli enti locali non ha per oggetto soltanto la <<disciplina

dell’organizzazione e delle funzioni loro attribuite>> ma riguarda anche l’organizzazione in senso proprio

dell’ente locale. Dalla norma di cui si discute, emerge che, diversamente dai regolamenti

sull’organizzazione e sull’espletamento delle funzioni, per l’organizzazione in generale dell’ente locale

non si fa menzione della fonte legislativa (63[63]).

(60[60]) F. PIZZETTI, Art. 4 - Attuazione dell’articolo 114, secondo comma, e dell’articolo 117, sesto comma, della Costituzione in materia di potestà normativa degli enti in Legge “La Loggia” – Commento alla l. 5 giugno 2003 n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione, a cura di AA.VV., Rimini, 2003, p. 94 il quale afferma che la norma in esame appare non solo di particolare complessità ma anche di <<incerta legittimità costituzionale>>; G. CORPACI, La potestà normativa degli enti locali (Commento all’articolo 4) in Stato, Regioni ed Enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131 a cura di G. FALCON, Bologna, 2003, p. 108 il quale scrive che la formulazione della norma non appare comunque particolarmente felice. (61[61]) Se diversamente i <<requisiti minimi>> costituissero un limite ulteriore rispetto a quelli previsti dal testo costituzionale allora la norma dovrebbe essere considerata costituzionalmente illegittima. (62[62]) F. PIZZETTI, Art. 4 - Attuazione dell’articolo 114, secondo comma, e dell’articolo 117, sesto comma, della Costituzione in materia di potestà normativa degli enti, cit., p. 94 precisa che i requisiti minimi possono esserci o non esserci, a seconda delle valutazioni compiute dal legislatore. Ciò significa che, in assenza dei requisiti in questione, il potere regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni può essere in qualunque momento esercitato. (63[63]) L’art. 7 del d.lgs. n. 267 del 2000 prevede che <<Nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto, il comune e la provincia adottano regolamenti nelle materie di propria competenza ed in particolare per l’organizzazione e il funzionamento degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle funzione>>. Tale norma, pur non distinguendo tra regolamenti generali sull’organizzazione in senso proprio e regolamenti concernenti la specifica organizzazione e svolgimento delle funzioni attribuite, stabilisce inequivocabilmente che ogni regolamento locale è comunque tenuto a rispettare i principi fissati dalla legge e le norme statutarie.

Tuttavia, in ragione delle considerazioni compiute nel par. 7 in ordine alla riserva di legge di cui

all’art. 97 Cost., l’assenza di qualsiasi accenno alla legge ordinaria non può indurre a ritenere che vi sia

una riserva esclusiva di normazione locale nella materia di cui si discute.

Alla luce di quanto sopra esposto, mi pare di poter affermare che il legislatore costituzionale

del 2001, sancendo esplicitamente la potestà statutaria e regolamentare degli enti locali, abbia voluto

recepire e consolidare, a livello di fonte costituzionale, il diritto all’autodeterminazione di Comuni e

Province già riconosciuto nella legislazione ordinaria sull’ordinamento degli enti locali.

9. Revisione delle disposizioni in materia di organizzazione e personale degli Enti locali per

l’adeguamento alla legge cost. n. 3 del 2001.

Si è visto come, in seguito all’abrogazione dell’art. 128 Cost. e per effetto del nuovo assetto di

distribuzione della potestà legislativa, la sub-materia dell’organizzazione amministrativa locale sia stata

affidata alla competenza residuale del legislatore regionale. Peraltro, si è anche osservato, come il

legislatore statale conservi - mediante l’esercizio di alcune competenze c.d. trasversali (tra le quali in

particolare quella delle <<funzioni fondamentali>>) – la possibilità di interferire e condizionare la

disciplina legislativa regionale sulla materia di cui si discute.

Il Parlamento ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per la revisione

delle disposizioni in materia di enti locali in modo da adeguarle alla revisione costituzionale del Titolo V,

parte II (legge n. 131 del 2003).

E’ evidente, che la delega comporterà necessariamente una riscrittura del Testo Unico delle

leggi sull’ordinamento degli enti locali (d.lgs. n. 267 del 200), trattandosi di un testo che è stato

formulato ed emanato dal legislatore statale sulla base dell’allora vigente art. 128 Cost.

La materia dell’organizzazione amministrativa locale, oggetto del Titolo IV del Testo Unico, è

articolata nelle seguenti sub - materie: uffici e personale (Capo I); segretari comunali e provinciali

(Capo II); dirigenza e incarichi (Capo III). Inoltre, come si è già detto, per effetto del rinvio operato

dall’art. 88 del d.lgs. n. 267 del 2000, si devono prendere in considerazione anche le disposizioni di

legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in particolare il d.lgs. n. 165

del 2001.

Il legislatore delegato nel procedere alla revisione delle disposizioni legislative sugli enti locali,

si deve attenere ai seguenti criteri direttivi: a) la revisione riguarda soltanto le norme che contrastano

con il sistema costituzionale degli enti locali definito dalla legge costituzionale n. 3 del 2001; b) la

revisione avviene mediante la modificazione, l’integrazione, la soppressione e il coordinamento formale

delle disposizioni vigenti, anche al fine di assicurare la coerenza sistematica della normativa,

l’aggiornamento e la semplificazione del linguaggio normativo; c) l’abrogazione di quelle norme che si

appalesino in contrasto con il nuovo quadro costituzionale, salva l’applicazione del criterio di

cedevolezza di cui alla lett. d); d) l’applicazione del criterio di cedevolezza, qualora ragioni di continuità

dell’ordinamento giuridico rendano necessario mantenere in vigore le disposizioni normative statali che

disciplinano materie ora di competenza legislativa regionale.

Tenendo conto dei criteri sopra indicati e alla luce delle considerazioni compiute nei par. 6 e 8,

mi pare di poter dire che possono permanere le disposizioni del testo unico riconducibili ai principi

costituzionali e ai <<principi generali di organizzazione pubblica>>, i quali, oltre a vincolare il legislatore

regionale, sono espressamente menzionati dall’art. 4, comma 2°, della legge n. 131 del 2003 come limiti

della potestà statutaria locale. Del resto, come si è visto nel par. 6.1., il legislatore statale, nella

determinazione delle funzioni fondamentali di cui all’art. 117, comma 2°, lett. p), può (ma deve limitarsi a

ciò) anche dettare principi di carattere ordinamentale, in particolare per i profili organizzativi. Il

problema è, semmai, quello di stabilire quando una disposizione di legge statale si possa configurare

come espressione di un principio generale di organizzazione pubblica. E’ evidente che il legislatore

delegato incontrerà non poche difficoltà interpretative nel compiere tale operazione di individuazione.

Probabilmente, come è emerso dalla relazione del Comitato di indirizzo e coordinamento scientifico per

l’attuazione della delega di cui all’articolo 2 della l.n. 131 del 2003 (64[64]), potrebbero permanere le

disposizioni del testo unico riconducibili in grandissima parte ai principi del

d.lgs. n. 165 del 2001. Ci si riferisce, in particolare, alle disposizioni che disciplinano gli uffici di

supporto agli organi di direzione politica (art. 90), i rapporti di lavoro a tempo determinato e a tempo

parziale (art. 91), la responsabilità patrimoniale (art. 93), la responsabilità disciplinare (art. 94), la

dirigenza e gli incarichi dirigenziali (art. 107 e ss.).

Si consideri, inoltre, che in tema di ordinamento degli uffici e del personale vengono anche in

considerazione profili di competenza legislativa statale. In primo luogo, viene in rilievo la competenza

esclusiva statale in materia di <<ordinamento civile>> (art. 117, comma 2°, lett, l), nella quale può farsi

rientrare la disciplina sul rapporto di lavoro in senso stretto (rapporto di servizio) del personale alle

dipendenze degli enti locali, dato che il legislatore statale, a partire dal d.lgs. n. 29 del 1993, ha

progressivamente contrattualizzato e privatizzato il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche

amministrazioni.

(64[64]) Pubblicata il 24 marzo 2003 in http://www.federalismi.it

Vanno considerate, inoltre, come si è già visto nel par. 6., le competenze statali in materia di

<<determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono

essere garantiti su tutto il territorio>> (art. 117, comma 2°, lett. m) Cost.) e in materia di

<<armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica>> (art. 117, comma 3° Cost.).

Molti dubbi sono stati avanzati sulla copertura costituzionale della disciplina sulla dirigenza,

dalle norme sui poteri a quelle sulle procedure e criteri di nomina, a quelle sulla responsabilità

dirigenziale. E’ stato detto che la legislazione statale non potrebbe più condizionare modello e regole di

organizzazione degli apparati comunali e provinciali, in particolare quando si tratta di alta burocrazia

(65[65]).

Pertanto, l’unica soluzione possibile, per salvaguardare tali disposizioni e considerarle vincolanti

anche per i legislatori regionali, è quella secondo la quale il legislatore statale potrebbe continuare a

dettare principi generali di organizzazione pubblica nell’esercizio di competenze trasversali che in

qualche modo incrociano la materia dell’organizzazione amministrativa.

Il principio di separazione tra poteri di indirizzo e controllo e poteri di gestione amministrativa

contenuto nell’art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000, ma più in generale sancito nell’art. 4 del d.lgs. n. 165

del 2001, si configura, senza dubbio, come un principio generale di organizzazione pubblica. Peraltro,

secondo un certo orientamento dottrinale, si può arrivare a dire che il principio di distinzione tra

politica e amministrazione, essendo direttamente riconducibile ai principi di imparzialità e di buon

andamento, si eleva al rango di principio costituzionale (66[66]).

Mi pare che tale interpretazione sia da accogliere, anche alla luce della giurisprudenza

costituzionale che si è espressa in argomento (67[67]).

(65[65]) A. CORPACI, Revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione e sistema amministrativo in Le Regioni, 2001, p. 1318; F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., 2002, p. 432. (66[66]) Sulla ricostruzione di un principio costituzionale di distinzione tra politica e amministrazione, strettamente connesso all’imparzialità amministrativa e al buon andamento v. A. PATRONI GRIFFI, Dimensione costituzionale e modelli legislativi della dirigenza pubblica, Napoli, 2002, spec. pp. 109 e ss.; nello stesso senso anche G. GARDINI, L’imparzialità amministrativa tra indirizzo e gestione, Milano, 2003. (67[67]) La giurisprudenza della Corte Costituzionale, in numerose decisioni, ha evidenziato come l’imparzialità e il buon andamento costituiscono un sicuro fondamento costituzionale del principio di distinzione funzionale tra organi di governo e organi amministrativi. Tale ricostruzione del giudice delle leggi emerge con vigore in una importante decisione (Corte Cost. 15 ottobre 1990, n. 453, cit.) riguardante, nello specifico, la composizione delle commissioni di concorso. In tale decisione, la Consulta asserisce che l’imparzialità costituisce <<uno dei principi essenziali cui deve informarsi, in tutte le sue diverse articolazioni, l’organizzazione dei pubblici uffici>> e che nell’imparzialità <<viene ad esprimersi la distinzione più profonda tra politica e amministrazione>>. La Corte, inoltre, afferma che l’azione di governo, <<nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza>> mentre l’azione dell’amministrazione, <<nell’attuazione dell’indirizzo politico della

Pertanto, il principio in questione, configurandosi come principio di rango costituzionale, non può

essere espunto dagli ordinamenti degli uffici degli enti locali.

La disciplina sui segretari comunali e provinciali, per i quali il Testo unico prevede, al Capo II,

una normativa, anche di dettaglio, ha dato luogo ad un ampio dibattito dottrinale sulla possibilità del

legislatore statale di continuare ad intervenire su tale materia.

Secondo un primo orientamento (68[68]), la materia dovrebbe permanere in capo allo Stato,

valorizzando, in particolare, il carattere “fondamentale” delle

funzioni del segretario che, ai sensi dell’art. 97, comma 2°, d.lgs. n. 267 del 2000, svolge compiti

di collaborazione e di assistenza giuridica amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine

alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti. Del resto, la legge n.

131 del 2003, tra i criteri direttivi per l’attuazione delle deleghe relative all’ individuazione delle

funzioni fondamentali e alla revisione delle disposizioni in materia di enti locali, indica anche quello in

base al quale devono essere mantenute ferme <<le disposizioni volte ad assicurare la conformità

dell’attività amministrativa alla legge, allo statuto e ai regolamenti>> (art. 2, comma 4°, lett. m).

Secondo un’altra tesi (69[69]), la materia dovrebbe considerarsi attratta nell’orbita della potestà

legislativa residuale regionale e della potestà normativa locale.

Lo Stato, secondo tale linea di pensiero, perde ogni competenza sulla disciplina dei segretari

(salvo, forse, il potere di regolare l’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e

provinciali, riconducibile alla categoria degli <<enti pubblici nazionali>> di competenza esclusiva dello

Stato ex art. 117, comma 2°, lett. g) Cost.).

Mi pare che, alla luce della legge n. 131 del 2003, si debba propendere per una soluzione di

mediazione tra i due orientamenti di pensiero sopra espressi. In altre parole, fermo restando che, in

base al nuovo assetto costituzionale, la materia dell’organizzazione amministrativa locale, e quindi anche

la sub-materia dei segretari comunali e provinciali, è attribuita alla competenza legislativa residuale

maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall’ordinamento>> (68[68]) Cfr. S.FOA’, Il segretario comunale e provinciale nell’assetto costituzionale dopo la legge n. 131 del 2003, 10 luglio 2003, in http://www.federalismi.it (69[69]) F. MERLONI, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, cit., 2002, p. 433.

delle Regioni e alla potestà normativa locale, si può ragionevolmente affermare che il legislatore

statale, in virtù della competenza sulle <<funzioni fondamentali>> di cui all’art. 117, comma 2°, lett. p)

Cost., è ancora in grado di intervenire, limitandosi a dettare disposizioni di principio, sulla disciplina dei

segretari comunali e provinciali al fine di assicurare <<la conformità dell’attività amministrativa alla

legge, allo statuto e ai regolamenti>> (art. 2, comma 4°, lett. m) della legge n. 131 del 2003).

10. Sintesi.

Nel titolo di questo studio si è tentato di riassumere la valutazione finale sulla portata della

riforma costituzionale con riferimento al nuovo assetto di ripartizione delle competenze in tema di

organizzazione degli uffici degli enti locali. Dal disegno complessivo della riforma del Titolo V della

Costituzione emerge la chiara scelta di valorizzare le autonomie locali, consolidando, a livello di fonte

costituzionale, il diritto all’autodeterminazione di Comuni e Province già riconosciuto nell’ambito

dell’ordinamento legislativo.

Si è visto che, per effetto dell’abrogazione dell’art. 128 Cost. ed in seguito al nuovo riparto di

competenze introdotto dalla riforma costituzionale del 2001, l’organizzazione degli uffici locali si

configura come materia residuale delle Regioni. Si è anche affermato che il legislatore statale,

nell’esercizio di alcune competenze trasversali (tra le quali in particolare quella delle <<funzioni

fondamentali>>), è ancora in grado di incidere sull’organizzazione amministrativa di Comuni e Province.

Tuttavia, entrambi i legislatori (statale e regionale) possono dettare soltanto norme di principio

nella materia di cui si tratta, dovendo riconoscere agli enti locali il compito di emanare la disciplina

puntuale sull’organizzazione dei propri uffici.

Il diritto all’autodifferenziazione organizzativa delle amministrazioni locali è un corollario

dell’esplicito riconoscimento costituzionale della potestà statutaria di Comuni e Province (art. 114,

comma 2°, Cost.).

Il diritto di autodeterminazione delle amministrazioni locali si fonda non solo sulle nuove

disposizioni del titolo V dedicate specificamente all’autonomia locale (art. 114, comma 2°, Cost.; art. 117,

comma 6° Cost.; art. 118 Cost.) ma affonda le proprie radici nell’art. 97 Cost. che, come si è osservato,

contiene una riserva di amministrazione intesa come riserva di funzione di organizzazione in favore

delle amministrazioni pubbliche e dunque, a maggior ragione, in favore delle autonomie territoriali.

Tuttavia, si è sottolineato come il principio di riserva di legge di cui all’art. 97 Cost. impedisca di

configurare la riserva di amministrazione come una competenza piena ed esclusiva di normazione locale

sull’organizzazione degli uffici.

(3 giugno 2004)