Opera Prima - Matilde Tobia

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Opera Prima - Matilde Tobia poesia

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Titolo: Lemmi per uno sguardo Autore: Matilde Tobia Fonti: “Opera Prima”, n. 19, Cierre Grafica, 2009 A cura di: Luigi Bosco e Poesia 2.0 Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

OPERA PRIMA

19

MATILDE TOBIA

LEMMI PER UNO SGUARDO

Anterem, 2009

LEMMI PER UNO SGUARDO

Matilde Tobia

I Lemmi per uno sguardo

Dar corpo al senso della vista è storia di una vita. Alimentato desiderio di mutarlo in sguardo. Come le mani il tatto adoprano per trasformar materia in forma, così io abuso di parole per un riconoscente gioco della mente, lemmario d'una urgenza.

II Percezione / appunti

Parole in sonno Mio figlio dormiva. Nel sogno volevo Passare, avventata Non madre. Potevo

Una volta senza luna Mia madre preferiva La stelle alla luna, diceva: disegnano il cielo

Cospetto La differenza è vera. Aspra come l’umore Cruda come mucosa, è il sesso che separa e serba pregiata unicità.

Ascolto Inaudibile figlia Di madre inaudita Ininterrotto consiglio.

III Immagine / cominciamenti

Un principio C’è il tuo sigillo, in basso. E’ cosa ferma: Il passo col quale prendi posto, L’istante col quale prendi tempo, lo sguardo col quale prendi luce. E’ come il primo verso, col quale prendi fiato. Per poi sapere il mare e non sapere, se è un sole, se è una luna. Fermo sigillo, in alto, per troppa luce nero. Lemmi per: La mer di Felix Vallotton, Musée d’art e d’histoire – Cabinet des estampes, Genève.

Punto di fuga Sotto la gran conchiglia dei lenti pellegrini le fughe della mente che viaggiano continue colgo. E’ vera la fatica di mantener memoria degli infiniti passi della luce, padrona dei miei occhi: un lungo tentativo di scegliere qual è un punto dello spazio per cominciare a dire del silenzioso andare perduto nei miei passi.

Monocromia Capisco in tempo il gesto quotidiano: si butta a capofitto addosso alla sua ombra e si fa spazio tra le lenzuola tese un attimo prima che il suo giorno nasconda il vento e si tramuti in pietra. Lemmi per: Lavandaia di Arturo Martini, Pinacoteca comunale, Faenza

Memorie della retina Non devi più, ancora, raccontare, perché hai guardato tanto da sfinire ogni disegno. (già sapevi lo splendore del palazzo) Eppure, ancora dici dell’oro della nicchia che vibra caldo sotto il blu del lapis, coronato da ruote di pavone; ancora dici dei marmi verdi di colonne, ancora della minuzia degli intarsi, e appena d’un po’ di vermiglio. (già conoscevi l’oro, i lapislazzuli, i marmi, le gemme, le sete. La musica, la storia) Così non ti è rimasto che il suo passo di danza - un piede, solo una gamba avanti l’altra - da disegnare, a matita. (e poi) Al posto di lei c’è il bianco che occupa il suo spazio e prende la sua forma, esatta, esatta. Memoria nella retina abbagliata. Esatta. Lemmi per: Salomé che danza di Gustave .Moreau, Musée G. Moreau, Paris

IV Figura / osservazioni

Parole di pieno, parole di vuoto Quando qualcuno predispone il luogo, sono le cose che possono disporsi, e stare insieme, e prendersi lo spazio; sono le cose che possono sapere che fare di se stesse con la luce; sono le cose che possono segnare il vuoto che rimane, lasciato da un volume. Quando quel luogo le aspetta nel silenzio di un discreto e unico colore. Lemmi per: una natura morta di Giorgio Morandi

Una riflessione in atto L’urgenza tua di dar figura all’infinita immagine che intima procede per multiformi fluidi insieme ha generato un luogo nel quale incamminarsi. Dove lo sguardo assorbe passi d’inchistro fluido E accoglie goccia a goccia il succo delle forme Che muovono il linguaggio dei pensieri. Piccole pause rosse. Lemmi per: Untitled di Jackson Pollock. Salomon R. Guggenheim Museum, New York

Per una volta sola E’ vicina, talmente vicina, la volta notturna ch’è bianca, non nera. E invade la mente di chi la subisce guardandola cieco, lasciandola spoglia. E impastata di spessa materia e di vaghi colori. (così bianca di stelle, è pesante una volta; scivola giù e non trova accoglienza per farsi comprendere) Decidi così di tentare il tuo corpo e componi te stesso supino. Con mano paziente ne hai fatto il solo, incerto, confine tra il cielo e la terra. Materia impastata e inondata di bianco. (eppure può esser leggera una volta; poggiare sicura, distinta su certo orizzonte, e farsi guardare e vedere) Lemmi per: Untitled di Anselm Kiefer

Nascita di una figura Conciso è il tempo che trascorre tra fantasmagorie annodate. Pettina memorie ciocca a ciocca, e in pochi, percettibili, momenti scioglie all’universo delle forme visioni nuove anticamente amate.

V Riflesso / note

Canzone per un drago Chi uccide il drago, ardente bestia, la coda dimenata, le fauci spalancate le unghiate zampe? Sarà san Giorgio col suo cavallo bianco che passa la narice con la lancia? Sarà la Principessa che lo rende schiavo tenendolo legato per un filo? O sarà invece l’amore del talento che ingoia insieme alberi, tempesta, nuda roccia la coda capricciosa, ali istoriate, spropositate zampe? Lemmi per: San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. National Gallery, London

Mutamenti Che lusso il lento alimentato da corrente andare che quasi si ha timore d’ arrotolarlo in onda perché s’infranga insieme a roccia nera di vulcano!

Adesso Ecco. Resta in equilibrio la questione (il tempo) del momento. E’ lavoro delicato, d’avvertenza di frammenti, da captare col magnete del silenzio. Ecco. Resta enigma la forma colorata (lo spazio) dei frammenti. E’ questione d’equilibrio Da sventare, con un tocco, nell’ascolto di un unico momento. Lemmi per: Untitled di Kasimir Malevich, Peggi Guggenheim Collection, Venezia

(1956 -1992) C’erano con noi il tempo, il luogo, il verbo ad aspettare con avida pazienza di essere abitati. C’erano con noi tutti e cinque i sensi intenti al tuo mistero ardente di quieto incantamento. Ma come dafne negata eternamente al tocco del suo dio trasmuto in carta il tempo, il luogo, il verbo d’una negata stanza di passione ora disabitata assenza. Lemmi per mio padre: Nella villa di Bagnaia – Dafne di Enrico Tobia. In “Nuovi Argomenti”, ott. – dic.. 1970

VI Il presente

T’inoltrerai nel bosco, in mezzo a due guardiani, possenti su pilastri accovacciati. Ti accorgerai se il tratto di strada che hai percorso ti ha seccato le labbra, oscurato la vista, tolto il fiato oppure se hai cantato a gola aperta grida e parole con l’unico tuo passo, solo quando, passando quel confine, ti sembrerà di stare su una barca che scivola guidata dai fanali, sicuri sulle massime sporgenze, a guardia dell’imbocco di ogni porto. Lemmi per mio padre: Il bosco sommerso di Enrico Tobia. In Dal ponte dell’Ariccia, Feltrinelli, Milano 1962

RIFLESSIONE CRITICA

Prepararsi al vedere di Paolo Donini

Tra il vedere e il nominare si dà un nesso simile a quello che lega i due segmenti dell’abduzione. Il vedere è percettivamente certo, il nominare ne consegue come impresa del riconoscimento. Nel frattempo, la cosa vista laggiù è ancora sola, nella troppa luce. Se supponiamo di soffermare la frazione in cui l’occhio si apre al bagliore e ne è allagato, in quella il vedere è il puro, disperato offrirsi della retina all’impressione. Un disperato vedere che non è ancora visione. La visione, come la “veduta”, vuole che il vedere sia ricondotto entro la specula di un’autolimitazione, nel beneficio inestimabile di un ripensamento. Entro una “cornice”. La visione è ripensamento o recinto al vedere. E il recinto al vedere non può essere altro vedere. Recinto al vedere può essere soltanto una prospezione di senso, soccorso semantico a quanto è stato disperatamente avvistato laggiù. Pratica del riconoscimento. Toglie disperazione al vedere il recinto di senso che lo delimita: lo steccato ermeneutico, amata cinta che accoglie quanto è stato visto. Ma è tale la velocità del vedere che la china opera nominante deve accelerarsi a raggiungere la misura dello scatto percettivo.

Il recinto si installa in velocità quasi-pari al vedere. E lo fa nella grazia inattesa e repentina del lemma. Il lemma cinge il vedere, nel ripensamento repentino di quanto è stato avvistato disperatamente. Ed ecco che tra il disperato vedere e quanto disperatamente avvistato si conchiude a riparo la grazia repentina del lemma. E la cosa, inebetita nella luce, si riprende: si dichiara. A riparo della furia luminosa la cosa vista trova per sé un nome. Un nome di cui cintarsi. Lemma. Il lemma (Λεμμα), radica il suo etimo nel tema del dono, di quanto è ricevuto, ma precisa il suo impiego nella microlingua matematica e nella filosofia in ciò che è premessa al dimostrato. A quel che è certo. Nella teorica dello sguardo di Matilde Tobia il lemma è premessa a ciò che è puramente, desolatamente visto. E lemmario sarà la provvigione di cui il poeta si incarica: repertorio, arsenale, allevamento e vivaio del nome da dispensare a ogni cosa. Soltanto che nello sguardo, per via del primato percettivo della vista, la premessa accade in un infinitesimo ritardo, dove si dà il ripensamento. E non è, pertanto, già-certa, scontata. La premessa è vigilanza sulla veduta, veglia nella luce immediata, avventura poetica oltre l’occhio, scommessa del dire. La premessa è frutto della pedagogia del vedere e si fa latu sensu “promessa” dei battesimi culturali che escono a dar nome al mondo. Il lemma, recinto al vedere, è premessa posticipata, quando conclude il giusto completarsi della visione nella dizione. Dal nudo vedere il lemma accampa la grazia del recinto che fa la visione, la veduta: il quadro. Fra il rapido consonare di questi termini: vedere nominare/ cornice recinto/lemma visione infine quadro la poetica di Matilde Tobia accerta la necessità di pronuncia dello sguardo, metodo e responsabilità, deontologia dello sguardo:

Dar corpo al senso della vista è storia d’una vita … lemmario d’una urgenza In queste pagine, nella rigorosa scansione delle prime cinque sezioni si inscrive l’accertamento poetico dello sguardo, sino alla foce luminosa della presentificazione: VI. Il Presente. Una ricognizione che non è sconfinamento da un’arte all’altra, né cabotaggio didascalico, perché il recinto ermeneutico richiede l’imbandigione d’una poiésis a cui il dato visivo si porga, attinga, acclarandosi nella dichiarazione. E perché dal tempo inebetito della cosa, sola nella luce, si giunga all’incominciamento luminoso del tempo nominato, dell’essere-nel-nome presente a se stesso. Matilde Tobia procede sistematicamente dalla cosa vista in sé a quel correlativo esponenziale che è la cosa trattata nella materia dell’Arte: la Forma. L’indagine qui è a tutto campo, a tutto campo visivo. Dall’empiria della Cosa all’ermeneutica della Forma: nell’urgenza di una poiésis che si descrive come risposta e soccorso al nudo vedere e nella stessa urgenza che richiama il lemma a farsi parola di una critica poetante, l’unica che sappia dire l’Arte senza deformarsi in autobiografia (del critico, ovviamente). La poesia di Matilde Tobia incorpora gli atti di una critica poetante, nella mimesi che la scommette vis-a-vis sull’opera, sulla tela, nel quadro, di cui il testo non fa l’anedottica né la suggestione ma la pronuncia, la dizione, la materia resa in lemma, apparizione finalmente “nominata”. Esemplari di questo procedere sono i Lemmi per Anselm Kiefer, dove l’impasto materico proprio dell’artista tedesco si “vede letteralmente”, nel suo correlativo sillabico:

E’ vicina, talmente vicina, la volta notturna ch’è bianca, non nera. E invade la mente di chi la subisce guardandola cieco, lasciandola spoglia. E impastata di spessa materia e di vaghi colori. (così bianca di stelle, è pesante una volta; scivola giù e non trova accoglienza per farsi comprendere) Battesimo delle Forme, questa poesia postula che lo sguardo dell’Artista includa una pre-disposizione al vedere, dall’effetto semantico analogo al nominare, ma che in un Artista visivo questa resti visiva, e occorra dunque l’intervento del poeta a traslarla in poiesis, rivelando che l’ordinamento del “quadro” è premessa e recinto all’ordinamento del mondo: Quando qualcuno predispone il luogo, sono le cose che possono disporsi, … Il recinto si è fatto luogo della realtà. Questo scambio è essenziale perché in Matilde Tobia il discorso dell’Arte (e non sull’Arte) è discorso del mondo e la parola scambiata vis-a-vis con il “quadro” è dialogo nell’essere, nella vita, dove il nascere al senso, formarsi, esperire si fanno nell’Arte, esperienze nell’Arte in quanto “realtà liberata dal realismo”. Il dialogo nell’Arte qui è niente meno che “vivere”. Vivere è la promessa a questo inoltrarsi. Vivere ha in questa poesia il sapore dell’incominciamento offerto a mente e sensi dalla tavola o canvas su cui un altro ha fatto Forma alla vita. Umana Forma. Unico luogo e rudimento dove siamo venuti a incontrarci. Forma che ci ha formati. Con trapassi di secoli o d’anni – mormora un coro di sodali nell’Arte - in sale di musei, per mostre, negli studi, su lievi e faticate carte, su illustrazioni indimenticabili, nella racchiusa

prossimità dell’ermeneuta in piedi di fronte alla muta elargizione del segno. Eravamo lì, siamo nati al senso lì davanti. La “vita reale” in Matilde Tobia è questo incontro incessante tra lo sguardo, la cosa laggiù disperatamente sola, la Forma che mantiene sul quadro il “maestoso silenzio” di Platone e il chino colloquio che ne guadagna fiducia, ne ottiene la pronuncia: la Poesia, più reale del reale perché tolta alla disperazione del reale, quando il reale oscilla laggiù oltre il nome, oltre il senso possibile, dove anche un cipresso, che non sia nominato o dipinto, è assurdo. Reale è la Forma data nell’Arte. Reale-per-noi il lemma che la dice. L’Arte in questo libro non ha perimetro semmai perimetra il mondo, e il segno – il filo – esce incessante dal quadro a delineare la Cosa nella sua Forma intitolata, a recintare nel vero il vero-per-noi: Quanto pesa lo strumento che hai per costruire ciò che vuoi creare. La tua mano, nel rifare i percorsi stabiliti per le cose che vorrai, poi, intitolare. . . . . Quanto dura la lunghezza di quel nero, di quel filo che si svolge all’infinito? Intitolare è dare il nome e l’Arte nell’intitolare conferisce niente meno che realtà. Morandi, Melotti, Burri, Pollock, Rothko, Malevich, Mondrian, Kiefer … la critica poetante inclusa in questo poetare non è solipsismo di fronte al “maestoso silenzio” che la pittura “mantiene” ma, nel raccolto colloquio con l’opera dei Maestri, essa è maieutica che dà parola al quadro invitandolo a pronunciarsi sin nei minimi dettagli:

Eppure, ancora dici dell’oro della nicchia che vibra caldo sotto il blu del lapis, coronato da ruote di pavone; ancora dici dei marmi verdi di colonne, ancora della minuzia degli intarsi, … Il quadro è lì a ribadire che lo sguardo non si conclude nel vedere ma si apre all’allestire il recinto della visione: Quando qualcuno predispone il luogo, sono le cose che possono disporsi, … Esemplari sono i Lemmi per Giorgio Morandi che nel dire il quadro del Maestro ne rifanno in lemmi la preparazione: del tutto franca dunque la confluenza di vista in veduta, e della “realtà” nella sua pre-disposizione avverante. Qui l’atto del “preparare” le cose a mostrarsi nella luce è fare il recinto, il “quadro”, posizionare l’oggetto esponendolo al senso, è sospingere il mondo verso un ordine, disporlo all’avvento del segno: sono le cose che possono sapere che fare di se stesse con la luce; sono le cose che possono segnare il vuoto che rimane, lasciato da un volume E comprendere la preparazione è “prepararsi”. La poesia di Matilde Tobia traghetta la valenza pedagogica e auto-educante di questo infinibile “prepararsi” a vedere. Restare in questo atteggiamento dell’occhio che si autosospende e delega dal capére al capire, con-prendere le cose, cintarle, accoglierle.

La realtà è attingibile solo in quanto già-progetto, preparazione che l’ha già-tolta alla disperazione infinita oltre il nome. Dove oscilla, alla luce grezza, il cipresso noumenico. Portava a un ingresso flagrante l’intero cammino della preparazione (lemma-percezione-immagine…) e l’operazione nominante nella muta boscaglia ottica ammette l’inoltrarsi come incominciamento continuo alla vita, al Presente essere-presente-nel-nome, là dove la raccolta sfocia alla sua fine-inizio:

Matilde Tobia vive e lavora a Roma. Scrive i suoi testi in stretto dialogo con l’arte figurativa, oggetto dei suoi studi. Ha ricevuto riconoscimenti per il lavoro Come in un libro aperto, e come in una stanza (Quaderni di Capodimonte, n.23, Electa Napoli, 2005), poesie per una performance di attori e danzatori, prodotta per il museo napoletano. Alcune sue poesie sono state musicate per voce, pianoforte e flauto dal maestro Enrico Marocchini, per il Festival “Nuovi spazi musicali”, in collaborazione con il Goethe Institut di Roma, e per il Festival di Nuova Consonanza. I testi di Matilde Tobia e le immagini ad essi correlate danno sostanza al suo sito Lemma e label.