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144 G I D M Forum 20, 143-170, 2000 DIABETE E IPERTENSIONE COORDINATO DA P. CAVALLO PERIN, CON LA PARTECIPAZIONE DI: C. CALVI, G. DEFERRARI, D. GIUGLIANO, G. GRASSI, G. MANCIA, C. NOACCO, A. TIENGO, R. TREVISAN, B. TRIMARCO PRESENTAZIONE P. CAVALLO PERIN Dipartimento di Medicina Interna, Università di Torino Introduzione Il controllo della pressione arteriosa nel paziente dia- betico costituisce un problema clinicamente rilevante e di grande attualità sia per le conoscenze raggiunte nell’ultimo decennio sia per i mezzi di intervento oggi disponibili. Ciò pone il medico di fronte alla respon- sabilità professionale di operare in modo appropriato per salvaguardare la qualità di vita del paziente dia- betico limitando le conseguenze dell’ipertensione. L’obiettivo del Forum è di fornire un’analisi dei punti salienti dell’argomento, corredata di bibliografia essenziale, nel tentativo di tradurre le conoscenze in un comportamento clinico motivato. Per favorire la leggibilità del tema, il Forum è stato strutturato rac- cogliendo il parere di un gruppo di esperti in risposta ai seguenti quesiti: A quali altri fattori di rischio cardiovascolare si asso- cia l’ipertensione nel paziente diabetico? • Quali sono i criteri diagnostici e quali i valori soglia di pressione per l’intervento terapeutico? • Quali valori di pressione devono essere raggiunti e mantenuti con la terapia antipertensiva? • Quali sono i farmaci antipertensivi preferibili nel paziente diabetico? • L’associazione tra farmaci antipertensivi è necessa- ria in molti casi? Vi sono alcune associazioni più indicate? • La presenza di nefropatia pone problemi particola- ri per la terapia antipertensiva? Alla presentazione del parere dell’esperto sul singolo quesito, si è ritenuto opportuno far precedere alcune nozioni preliminari utili all’inquadramento del pro- blema. L’importanza della misura della pressio- ne arteriosa nel paziente diabetico In passato l’obiettivo della terapia del diabete consiste- va nel salvare la vita del paziente, correggere i sintomi della malattia (poliuria, polidipsia, calo ponderale) e prevenire le complicanze acute (chetoacidosi, coma iperglicemico-iperosmolare, ipoglicemia). Oggi l’o- biettivo della terapia si è esteso alla prevenzione delle complicanze croniche. Perciò, il compenso del diabete non è più soltanto riferito alla glicemia (profilo glicemi- co e HbA 1c ), ma è inteso in senso più allargato, coin- volgendo anche i parametri di rischio vascolare macro- e micro-angiopatico. Il concetto di “compenso globa- le” scaturisce da evidenze secondo le quali il compen- so glicemico di per sé non è in grado di ridurre il rischio cardio-vascolare senza la simultanea correzione del sovrappeso corporeo, del quadro lipidico, della pres- sione arteriosa e dell’abitudine al fumo. Ne deriva che il controllo della pressione arteriosa costituisce uno degli indici di qualità della cura del diabete. Ciò stabilisce l’importanza della misurazione sistematica della pres- sione arteriosa e di una continua correzione terapeuti- ca dei livelli pressori ritenuti pericolosi per il paziente in rapporto all’età, alle complicanze del diabete e al danno degli organi bersaglio dell’ipertensione. La misura della pressione Le modalità di misurazione della pressione arteriosa nel paziente diabetico non differiscono ovviamente da quelle di tutti gli altri soggetti (almeno 5 minuti di

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GIDM Forum20, 143-170, 2000

DIABETE E IPERTENSIONECOORDINATO DA P. CAVALLO PERIN, CON LA PARTECIPAZIONE DI: C. CALVI, G. DEFERRARI, D. GIUGLIANO, G. GRASSI,

G. MANCIA, C. NOACCO, A. TIENGO, R. TREVISAN, B. TRIMARCO

PRESENTAZIONEP. CAVALLO PERIN

Dipartimento di Medicina Interna, Università di Torino

Introduzione

Il controllo della pressione arteriosa nel paziente dia-betico costituisce un problema clinicamente rilevantee di grande attualità sia per le conoscenze raggiuntenell’ultimo decennio sia per i mezzi di intervento oggidisponibili. Ciò pone il medico di fronte alla respon-sabilità professionale di operare in modo appropriatoper salvaguardare la qualità di vita del paziente dia-betico limitando le conseguenze dell’ipertensione.L’obiettivo del Forum è di fornire un’analisi dei puntisalienti dell’argomento, corredata di bibliografiaessenziale, nel tentativo di tradurre le conoscenze inun comportamento clinico motivato. Per favorire laleggibilità del tema, il Forum è stato strutturato rac-cogliendo il parere di un gruppo di esperti in rispostaai seguenti quesiti:• A quali altri fattori di rischio cardiovascolare si asso-

cia l’ipertensione nel paziente diabetico?• Quali sono i criteri diagnostici e quali i valori soglia

di pressione per l’intervento terapeutico?• Quali valori di pressione devono essere raggiunti e

mantenuti con la terapia antipertensiva?• Quali sono i farmaci antipertensivi preferibili nel

paziente diabetico?• L’associazione tra farmaci antipertensivi è necessa-

ria in molti casi? Vi sono alcune associazioni piùindicate?

• La presenza di nefropatia pone problemi particola-ri per la terapia antipertensiva?

Alla presentazione del parere dell’esperto sul singoloquesito, si è ritenuto opportuno far precedere alcune

nozioni preliminari utili all’inquadramento del pro-blema.

L’importanza della misura della pressio-ne arteriosa nel paziente diabetico

In passato l’obiettivo della terapia del diabete consiste-va nel salvare la vita del paziente, correggere i sintomidella malattia (poliuria, polidipsia, calo ponderale) eprevenire le complicanze acute (chetoacidosi, comaiperglicemico-iperosmolare, ipoglicemia). Oggi l’o-biettivo della terapia si è esteso alla prevenzione dellecomplicanze croniche. Perciò, il compenso del diabetenon è più soltanto riferito alla glicemia (profilo glicemi-co e HbA1c), ma è inteso in senso più allargato, coin-volgendo anche i parametri di rischio vascolare macro-e micro-angiopatico. Il concetto di “compenso globa-le” scaturisce da evidenze secondo le quali il compen-so glicemico di per sé non è in grado di ridurre il rischiocardio-vascolare senza la simultanea correzione delsovrappeso corporeo, del quadro lipidico, della pres-sione arteriosa e dell’abitudine al fumo. Ne deriva che ilcontrollo della pressione arteriosa costituisce uno degliindici di qualità della cura del diabete. Ciò stabiliscel’importanza della misurazione sistematica della pres-sione arteriosa e di una continua correzione terapeuti-ca dei livelli pressori ritenuti pericolosi per il paziente inrapporto all’età, alle complicanze del diabete e aldanno degli organi bersaglio dell’ipertensione.

La misura della pressione

Le modalità di misurazione della pressione arteriosanel paziente diabetico non differiscono ovviamente daquelle di tutti gli altri soggetti (almeno 5 minuti di

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riposo, arto superiore appoggiato, parte centrale del-l’avambraccio all’altezza del cuore, misurazioni ripetu-te in più di 2 occasioni diverse per la diagnosi ecc.). Ètuttavia importante tenere presenti tre considerazioni:a) la maggior parte dei pazienti con diabete di tipo 2(60-70%) presenta sovrappeso o obesità con risultan-te aumento della circonferenza del braccio; b) lamacroangiopatia diabetica può determinare stenosiarteriose a livello dei tronchi sopra-aortici su base ate-rosclerotica con risultanti valori di pressione arteriosadiversi tra le due braccia; c) la neuropatia diabeticaautonomica può causare ipotensione ortostatica. Nederiva l’importanza: 1) di utilizzare bracciali di misuraappropriata per evitare errori di sovrastima; 2) di misu-rare la pressione arteriosa inizialmente su entrambe lebraccia per poter prendere in considerazione il valorepiù elevato e controllarlo successivamente sullo stessobraccio; 3) di procedere alla misurazione sia in clino-che in ortostatismo per svelare una eventuale ipoten-sione posturale da neuropatia autonomica. La presen-za di ipotensione ortostatica assume rilevanza ancheai fini della terapia: inizio del trattamento farma-cologico, scelta appropriata dei farmaci antipertensivi,livelli ai quali mantenere la pressione arteriosa.

L’ipertensione nelle varie forme di diabete

A parte le forme di diabete associato a particolari con-dizioni o sindromi, in cui talora è presente una formadi ipertensione secondaria, le caratteristiche clinichedell’ipertensione essenziale variano notevolmente trail diabete tipo 1 e il diabete tipo 2.• Nel diabete tipo 11. L’ipertensione è assente alla diagnosi di diabete2. Lo sviluppo di ipertensione è correlato all’insor-

genza della nefropatia3. La pressione sistolica e quella diastolica aumenta-

no proporzionalmente4. L’ipertensione accelera notevolmente la progres-

sione della nefropatia• Nel diabete tipo 21. L’ipertensione è di comune riscontro alla diagnosi

di diabete2. L’ipertensione è correlata con il grado di obesità e

con l’età 3. La pressione sistolica aumenta in misura maggiore

rispetto alla pressione diastolica4. L’ipertensione è scarsamente correlata con la pre-

senza di nefropatia

La patogenesi dell’ipertensionenel diabete

La patogenesi dell’associazione tra ipertensione e dia-bete non è ancora completamente chiarita. Si ritieneche diversi meccanismi di alterato controllo possanoessere in misura diversa responsabili dell’elevazionedei valori pressori e anche della difficoltà della lorocorrezione terapeutica. I principali sono elencati diseguito:

Fattori di regolazione della pressione arteriosa nelpaziente diabetico

Fattori genetici multifattorialiDisfunzione endoteliale spesso presentePool del sodio scambiabile di solito aumentatoCatecolamine plasmatiche normaliIpertono simpatico spesso presenteAttività reninica plasmatica normale o bassaAldosterone plasmatico normale o bassoSensibilità barorecettoriale ridottaCompliance arteriosa ridottaResistenze arteriolari aumentateRisposta agli stimoli pressori aumentataAumentata escrezione urinaria di albumina spesso presenteAdiposità addominale/ aumentata nel diabeteviscerale tipo 2Insulino-resistenza presente nel diabete

tipo 2 e nel tipo 1 con microalbuminuria

Trasporto cationico aumentatotransmembrana controtrasporto

sodio-idrogeno

Come risulta dalla frammentarietà delle alterazionisopra elencate, non è possibile proporre un modellounificato per illustrare la patogenesi dell’ipertensionenel diabete. Ciò è facilmente comprensibile data l’e-terogeneità fisiopatologica presente sia nel diabetesia nell’ipertensione essenziale. Provvisoriamente, sipuò ipotizzare che, in presenza di una predisposizio-ne genetica all’ipertensione, le alterazioni metaboli-che e/o emodinamiche presenti nel diabete possanodeterminare l’aumentata penetranza del fenotipoipertensione negli individui diabetici.

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Epidemiologia dell’ipertensione nel diabete

La prevalenza dell’ipertensione è del 25% nella popo-lazione adulta, in cui rappresenta il fattore di rischiocardiovascolare più comune. L’ipertensione aumentail rischio cardiovascolare di 2-3 volte ed è responsabi-le del 35% di tutti gli eventi cardiovascolari. La prevalenza del diabete è del 4-7% per il diabetetipo 2 e dello 0,1% per il diabete tipo 1, ma la preva-lenza di entrambe le forme è in aumento. Nel diabe-te tipo 2 l’aterosclerosi rappresenta la prima causa dimorte e circa il 50% dei pazienti con infarto miocar-dico è diabetico. Il diabete tipo 2 presenta un rischiocardiovascolare circa doppio rispetto alla popolazio-ne non diabetica. L’associazione tra diabete e ipertensione è molto fre-quente. La prevalenza dell’ipertensione è circa dop-pia nei diabetici rispetto alla popolazione generale:circa il 40% dei pazienti con diabete tipo 1 e circa il60% di quelli con diabete tipo 2 sviluppano iperten-sione nel corso della malattia. Nei pazienti con iper-tensione arteriosa la prevalenza del diabete risultaaumentata rispetto ai soggetti normotesi: 6,3% vs4,3% negli uomini e 6,4% vs 2,1% nelle donne. Laprevalenza dei soggetti affetti da diabete e iperten-sione nella popolazione generale è stata stimata del3-4% e la compresenza delle due patologie si associaa un rischio cardiovascolare 4 volte superiore a quel-lo dei soggetti esenti dalle due affezioni. I pazientidiabetici con ipertensione arteriosa presentano un’in-cidenza (numero di nuovi eventi in un dato interval-lo) di episodi cardiovascolari superiore al 4% peranno, vale a dire un’incidenza cumulativa del 40% in10 anni. La presenza di altri fattori di rischio cardiova-scolare (obesità, dislipidemia, fumo) produce uneffetto moltiplicativo sul rischio cardiovascolare. Nederiva l’importanza di valutare nel singolo paziente il“rischio cardiovascolare assoluto” non solo ai fini pro-gnostici ma soprattutto per stabilire l’intervento tera-peutico più adeguato per prevenire l’insorgenza orallentare l’evoluzione delle complicanze.

Rischio cardiovascolare nel diabeticoiperteso

Gli studi epidemiologici dimostrano una correlazionepositiva indipendente e continua tra valori pressori edeventi cardiovascolari, senza evidenziare un valoresoglia al di sotto del quale venga meno il rapporto travalori pressori ed eventi. Inoltre, la relazione tra pres-

sione arteriosa e rischio cardiovascolare è proporzio-nalmente simile nella popolazione diabetica e non-diabetica: nei pazienti diabetici ogni grado di incre-mento pressorio si associa allo stesso incremento pro-porzionale del rischio dei soggetti non diabetici, maparte da un livello basale più elevato.• Cardiopatia ischemica. La prevalenza della cardio-

patia ischemica nel diabete tipo 2 risulta molto ele-vata (40-50%) e nel 50-70% dei casi ne costituiscela causa di morte. Il rischio di infarto miocardico nelpaziente diabetico è pari al 20% nell’arco di 7 annie risulta del tutto sovrapponibile a quello di recidi-va dell’evento nella popolazione non diabetica giàcolpita da un infarto in precedenza. I dati disponi-bili per il diabete tipo 1 indicano un rischio relativodi cardiopatia ischemica paragonabile a quello deldiabete tipo 2: la mortalità per eventi coronariciraggiunge il 35% prima dei 55 anni di età in con-fronto al 4-8% nella popolazione non diabetica.Anche il decorso della fase acuta e post-acuta suc-cessiva all’infarto miocardico risulta più sfavorevo-le, configurando una prognosi peggiore nel pazien-te diabetico: si registra un eccesso di mortalità del38% negli uomini e dell’86% nelle donne, con unamortalità totale entro il primo anno del 44% negliuomini e del 37% nelle donne. La prevalenza dell’i-schemia miocardica silente nel paziente diabeticorisulta 3 volte più elevata rispetto a quella dellapopolazione generale, attestandosi su valori del 6-12%.

• Ictus. Il rischio di ictus nel paziente diabetico risul-ta doppio rispetto alla popolazione non diabeticaed è responsabile del 15% della mortalità totale. Inpresenza di diabete e ipertensione il rischio relativodi ictus e TIA raggiunge il valore di 3-6 volte rispet-to alla popolazione esente da diabete e ipertensio-ne. Come nel soggetto non diabetico anche nelpaziente diabetico l’ictus ischemico rappresenta laforma largamente più frequente rispetto all’ictusemorragico. La prognosi risulta più sfavorevole nelpaziente diabetico: la sopravvivenza a 5 anni è del20% nel paziente diabetico rispetto al 40% nel sog-getto non diabetico; la frequenza delle recidive èdel 24% nei pazienti diabetici e del 7% nei sogget-ti non diabetici.

• Scompenso cardiaco. Nel soggetto iperteso nondiabetico il rischio relativo di sviluppare scompensocardiaco è pari a 4,0 nei maschi e 2,1 nelle femmi-ne. Nel paziente diabetico il rischio è fino a 2,5volte più elevato rispetto alla popolazione non dia-betica e l’ipertensione è considerata responsabiledello scompenso cardiaco nel 30-40% dei casi.Nello studio UKPDS il rischio assoluto di scompen-

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so cardiaco è risultato di 3 eventi/1000 pazien-ti/anno. A parità di livelli di pressione arteriosa, laprevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra risultadoppia nei pazienti diabetici ipertesi rispetto aipazienti non diabetici ipertesi (72% vs 32%).Questo dato è rilevante in quanto l’incidenza discompenso cardiaco aumenta di circa 8 volte inpresenza di ipertrofia ventricolare sinistra. Nellastoria naturale della cardiopatia ipertensiva delpaziente diabetico iperteso, la disfunzione diastoli-ca compare in modo anticipato rispetto alla disfun-zione sistolica; in particolare, è stato osservato chela disfunzione diastolica è documentabile nelpaziente iperteso con alterata tolleranza al glucosioanche in assenza di ipertrofia ventricolare sinistra.

• Arteriopatia periferica. Nell’iperteso non diabeticoil rischio relativo di arteriopatia periferica è di 2,0negli uomini e 3,7 nelle donne. I pazienti diabeticipresentano un rischio di amputazione degli arti infe-riori 10-15 volte superiore a quello dei non diabetici,con un’incidenza annuale variabile tra 3 e 18/1000.È stata documentata una correlazione positiva trapressione sistolica e arteriopatia agli arti inferiori,particolarmente evidente nel diabetico anziano.

Ipertensione arteriosa e complicanze microangiopatiche

Oltre all’associazione con il rischio cardiovascolare,l’ipertensione costituisce insieme all’iperglicemia undeterminante maggiore della microangiopatia. Èstato infatti documentato che livelli pressori elevati,anche nell’ambito della normotensione, sono ingrado di favorire l’insorgenza e/o di accelerare l’evo-luzione sia della retinopatia che della nefropatia,mentre non sembrano influenzare la neuropatia dia-betica. In particolare, l’evoluzione della retinopatia edella nefropatia è sfavorevolmente influenzata davalori crescenti della pressione arteriosa, senza che siapossibile individuare un valore soglia di rischio.Accanto agli studi osservazionali, gli studi di interven-to hanno documentato che la riduzione dei livelli dipressione arteriosa risulta protettiva sull’evoluzionedel danno retinico e renale.

Terapie non farmacologiche nell’ipertensione del diabetico

Il trattamento antipertensivo si avvale non solo di far-maci, ma anche di modificazioni dello stile di vita, le

quali devono essere realizzate in fase iniziale e man-tenute successivamente durante la terapia farmacolo-gica. • Dieta. La correzione del sovrappeso risulta efficace

a migliorare il compenso globale del paziente dia-betico. Infatti, la correzione anche parziale delsovrappeso è in grado di ridurre l’insulino-resisten-za, la pressione arteriosa, i valori glicemici e lipide-mici. La riduzione dell’apporto di sodio, combinatacon la restrizione calorica, produce un effetto anti-pertensivo additivo. Ciò dipenderebbe dal fatto chela riduzione del sodio riduce la reattività vascolare,mentre il calo ponderale riduce la volemia, il ritornovenoso, la portata cardiaca e l’ipertono simpatico. Èperciò indispensabile un’informazione continua delpaziente, richiamando nel tempo la sua attenzionesull’importanza della riduzione dell’apporto calori-co. Nel paziente con escrezione urinaria di albumi-na aumentata è opportuno ridurre l’apporto pro-teico entro 0,8-1 g/kg/die (microalbuminuria) o < 0,8 g/kg/die (macroalbuminuria), dando la prefe-renza all’uso di proteine di origine vegetale. Ciònell’intento di ritardare la progressione verso l’in-sufficienza renale, sebbene non vi siano ancoraprove definitive di efficacia in proposito. La rispostapressoria all’introito di sodio è variabile e solo il50% dei pazienti ipertesi è “sodio-sensibile”.Tuttavia, poiché i pazienti sodio-sensibili non sonofacilmente identificabili e una moderata restrizionesodica (6 g/die di cloruro di sodio o 2,3 g/die disodio) non produce alcun danno, questa dovrebbeessere prescritta a tutti i pazienti diabetici in cui sianecessario ridurre la pressione arteriosa. Un eccessi-vo consumo di alcool si associa a un’aumentataprevalenza di ipertensione, ma un moderatoapporto comporta un più ridotto rischio coronaricorispetto all’astinenza totale. Sembra perciò appro-priato consigliare un apporto di etanolo non supe-riore a 30 g/die (ad es. 200-300 mL di vino oppure500-600 mL di birra) e invitare all’astensione totalesolo nei rari casi in cui l’effetto pressorio si manten-ga anche per tali dosi. Sebbene acutamente l’as-sunzione di caffeina induca un aumento della pres-sione arteriosa, il consumo cronico di caffè non siaccompagna a un significativo aumento della pres-sione arteriosa. La proscrizione assoluta del consu-mo di caffè rappresenta pertanto un provvedimen-to ingiustificato, mentre l’assunzione di 2-3 tazzinedi caffè al giorno non costituisce alcun rischio nelpaziente con questa abitudine.

• Attività fisica. L’esercizio fisico moderato, regolare,aerobico, isotonico (non anaerobico-isometrico!),non è pericoloso e può migliorare i valori pressori,

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glicemici e lipidemici. Se sono sedentari, talipazienti devono perciò essere incoraggiati a com-piere ad esempio 3-4 km al giorno a passo di mar-cia oppure 40 minuti di bicicletta in pianura (o dicyclette in casa) almeno 3 volte alla settimana. Taleprogramma migliora l’efficacia della restrizionecalorica, riducendo l’insulino-resistenza e la pressio-ne arteriosa.

• Abolizione del fumo. Sebbene il fumo di sigarettaaumenti acutamente la pressione arteriosa, neltempo si sviluppa tolleranza agli effetti emodina-mici della nicotina, cosicché cronicamente l’abitu-dine al fumo non si associa a livelli di pressione piùelevati o a una più elevata prevalenza di iperten-sione. Tuttavia, il fumo è un importante fattore dirischio cardiovascolare indipendentemente daglieffetti sulla pressione arteriosa. Perciò tutti ipazienti diabetici ipertesi dovrebbero essere fer-mamente e ripetutamente convinti a smettere difumare, poiché questa misura rappresenta unostrumento efficace per ridurre il rischio cardiova-scolare.

Bibliografia

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A QUALI ALTRI FATTORIDI RISCHIO CARDIOVASCOLARESI ASSOCIA L’IPERTENSIONENEL PAZIENTE DIABETICO?C. NOACCO

Unità di Diabetologia, Ospedale di Udine

La ricerca epidemiologica nel campo dell’ipertensio-ne ha riconosciuto che l’elevazione della pressionearteriosa (PA), sia sistolica (PAS) che diastolica (PAD),è un fattore di rischio comune e significativo di tuttele maggiori malattie cardiovascolari: malattia corona-rica ischemica, ictus, arteriopatia periferica e scom-penso cardiaco.L’ipertensione si presenta tuttavia in forma isolata innon più del 20% dei casi, mentre è spesso associataad altri fattori di rischio cardiovascolare. Il diabete e laridotta tolleranza al glucosio, l’obesità, l’ipertrofiaventricolare, le dislipidemie sono i principali fattori dirischio cardiovascolare ai quali l’ipertensione è asso-ciata.L’associazione dell’ipertensione con due o più di que-sti fattori di rischio si verifica con una frequenza 4volte superiore a quanto ci si potrebbe aspettare sel’associazione fosse casuale. Tale aumentata associa-zione è riconducibile, almeno nella maggior parte deicasi, alla condizione di insulino-resistenza, geneticae/o acquisita, e al conseguente iperinsulinismo, delquale l’obesità, e l’obesità addominale in particolare,è uno dei fattori causali.Lo studio di Framhingam ha calcolato che la preva-lenza della sindrome da insulino-resistenza nellapopolazione generale potrebbe essere di 22% nelsesso maschile e di 27% in quello femminile. Inoltre,nei soggetti ipertesi, solo il 14% degli eventi corona-rici nell’uomo e il 5% nelle donne si verificano inassenza di fattori di rischio addizionali, mentre il 40%degli eventi nei maschi e il 68% nelle donne possonoessere attribuiti alla presenza di due o più fattori dirischio addizionali (1).È quindi evidente che diventa importante, in partico-lare nei soggetti diabetici, procedere a una stratifica-zione del rischio cardiovascolare e individuare qualipossano essere i fattori di rischio aggiuntivi; in altreparole di quanto aumenti il rischio cardiovascolarenel soggetto iperteso per il fatto che egli sia o diventidiabetico e quali altri fattori di rischio si associno neldiabetico all’iperglicemia, che comunque definisce ecaratterizza il diabete mellito.

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GIDMDiabete e ipertensione

L’iperglicemia è nota essere di per sé un fattore dirischio cardiovascolare. L’incidenza della malattiacoronarica è 50% più elevata nei maschi diabetici e200% nelle donne diabetiche rispetto ai soggetti nondiabetici; nelle donne diabetiche viene inoltre a man-care la protezione da eventi cardiovascolari rappre-sentata dal sesso. L’impatto dell’iperglicemia sullesequele cardiovascolari è maggiore in termini dirischio relativo (RR) sull’arteriopatia periferica e sulloscompenso cardiaco, ma la malattia coronarica è intermini assoluti la più importante e l’unica in cui vienequasi annullata la differenza tra i sessi.Quando al diabete si associano l’ipertensione, l’iper-colesterolemia e il fumo di sigaretta, la mortalità car-diovascolare rispetto a soggetti non diabetici, ma congli stessi fattori di rischio, aumenta in maniera quasiesponenziale: il MRFIT ha calcolato che il RR di unsoggetto diabetico per morte da cardiopatia ischemi-ca è 2,3-3,2 rispetto alla popolazione non diabetica,aggiustato per PA, colesterolo totale e numero disigarette fumato. Quando poi la mortalità cardiova-scolare (CV), corretta per l’età, veniva calcolata in ter-mini assoluti in base alla presenza di 1, 2 o 3 fattori dirischio aggiuntivi, la mortalità per 10.000 in un fol-low-up di 12 anni raddoppiava per ogni fattore dirischio nei diabetici (30, 58, 90 e 128 decessi per10.000 diabetici rispettivamente) (2).

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Il rischio di malattia cardiovascolare in 10 anni raddop-pia, in assenza di altri fattori di rischio, sia in un maschiosia in una donna sessantenni (da 5-10% a 10-20%) perla sola presenza del diabete. L’associazione di iperten-sione sistolica raddoppia ulteriormente sia nei maschiche nelle femmine il rischio da 10-20% a 20-40%. Seinoltre al diabete e all’ipertensione si associa microalbu-minuria, il rischio raggiunge il 40-60% (3).

Yudkin recentemente ha proposto coefficienti dirischio coronarico per decadi di età per maschi e fem-mine in base alla presenza o meno di diabete, iper-tensione sistolica, rapporto colesterolo totale/HDL,presenza o meno di microalbuminuria.

Fig. 1. Mortalità CV, corretta per l’età, per presenza di fattori dirischio (fumo di sigaretta, colesterolo totale, PA sistolica) nei sog-getti maschi sottoposti a screening per il MRFIT, con e senza dia-gnosi di diabete mellito alla base-line.

Fig. 2. Stratificazione del rischio CV a 10 anni in rapporto alla pre-senza di diabete mellito, alla PA sistolica, al rapporto colesterolototale/HDL e alla presenza di microalbuminuria in soggetti di 60anni (modificato da Yudkin, ref. 3).

La stratificazione del rischio assume particolareimportanza per valutare il peso relativo dei vari fatto-ri di rischio conosciuti e il NNT (Number Needed toTreat) per evitare un evento cardiovascolare in asso-

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GIDMluto. Infatti, supponendo in base ai maggiori trial diintervento che la riduzione dei fattori di rischio portia una diminuzione di 25% degli eventi, si può pru-denzialmente calcolare che, se il rischio a 10 anni è60%, la riduzione del 25% lo porterà a 45%, conrisparmio di 15 eventi ogni 10 anni per 100 soggettia rischio della stessa categoria. Ne deriva che è suffi-ciente trattare 6,7 (100:15) soggetti con questi livellidi rischio (NNT) per evitare in 10 anni 1 evento car-diovascolare.Per valutare l’impatto del diabete quale fattore dirischio cardiovascolare aggiuntivo nel soggetto iper-teso è importante considerare gli studi di intervento. L’UKPDS (4) è stato il primo studio controllato alungo termine a dimostrare l’effetto di una riduzionedei valori glicemici e dell’HbA1c sugli eventi cardiova-scolari (infarto del miocardio, ictus, vasculopatia peri-ferica, morti correlate al diabete). La riduzionedell’HbA1c dell’11% (esposizione media nel corso di11 anni) riduce del 16% il rischio di infarto del mio-cardio (p=0,052), mentre non si sono rilevate diffe-renze significative per il rischio di ictus ischemicocerebrale. Nel sottogruppo di pazienti diabetici obesiil trattamento con metformina, a parità di effetto sullaglicemia e sulla HbA1c, riduceva significativamente (-39%) il rischio di infarto del miocardio.Il diabete quindi rappresenta un fattore di rischio car-diovascolare indipendente e significativo, e la riduzio-ne dei valori di HbA1c è probabilmente efficace nelridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari nel diabeti-co, anche se sembrerebbe che altri fattori incidanosulle complicanze macrovascolari del diabetico inmisura ancora maggiore dell’iperglicemia: infatti a unariduzione delle complicanze microvascolari di 25% deisoggetti in trattamento intensivo corrispondevano unariduzione di 16% di infarto e nessuna riduzione signifi-cativa di ictus e arteriopatia periferica. L’analisi epide-miologica dei risultati dell’UKPDS dimostra infatti cheipertensione e iperglicemia concorrono ad amplificareil rischio CV: i pazienti con valori pressori sistolici >150mmHg e HbA1c > 8% presentano un rischio di eventimacrovascolari 6 volte superiore rispetto ai soggetticon PAS < 130 mmHg e HbA1c < 6%, a dimostrazioneche più che il singolo fattore di rischio è importantel’aggregazione dei fattori.Nel braccio di intervento HDS (Hypertension inDiabetes Study) dell’UKPDS i diabetici posti in tratta-mento ipotensivo “ottimale” (media PA 144/82mmHg), sia con ACE-inibitori sia con beta-bloccanti,presentavano una riduzione del rischio di malattiamacrovascolare del 34% (21% infarto, 44% ictus)rispetto al gruppo in trattamento “non ottimale”(media PA 154/87 mmHg) e significativamente supe-

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riore a quello ottenuto con il solo migliore controllometabolico (5).Anche lo studio di intervento Sys-Eur Trial confermal’impatto del diabete sulla mortalità CV e sugli eventiCV: Il trattamento intensivo dell’ipertensione sistolica(obiettivo < 150 mmHg) riduce in una popolazione diipertesi gli end point CV del 26%, ma nel sottogrup-po di 492 soggetti ipertesi e diabetici la riduzionedella mortalità CV è stata del 55% (da 45 a 26 even-ti/1000 pazienti/anno) e quella di ogni evento CV del69%, significativamente superiore a quella dei nondiabetici (6).Analoghi risultati sono riportati dallo studio SHEP(Systolic Hypertension in the Eldery Programme): iltrattamento attivo (diuretico+beta-bloccante o reser-pina) riduceva in 5 anni il rischio di eventi CV mag-giori nei diabetici di 34%, valore doppio rispetto ainon diabetici.

Fig. 3. Incidenza di eventi CV maggiori in 5 anni (%) nello studioSHEP. Gli eventi includono infarto del miocardio, morte cardiacaimprovvisa, angioplastica, by-pass aorto-coronarici, aneurismi,endoarteriectomia carotidea.

Lo studio HOT ha inoltre valutato i benefici della ridu-zione della PAD a vari livelli in soggetti ipertesi. Mentrenei soggetti non diabetici nei quali la PAS veniva ridot-ta a circa 140 mmHg la riduzione della PAD da 90 a 85a 80 mmHg non modificava significativamente ilrischio di eventi coronarici maggiori (10/1000paz/anno) e di mortalità CV, nei 1501 pazienti diabe-tici il numero di eventi CV maggiori si riduceva signifi-cativamente da 24/1000 paz/anno (PAD < 90 mmHg)a 18/1000 paz/anno (PAD <85 mmHg), a 12/1000paz/anno (PAD < 80 mmHg) e la mortalità CV dimi-nuiva da 11 eventi/1000 paz/anno a 4 eventi/1000paz/anno se la PAD veniva mantenuta < 80 mmHg.I dati dello studio HOT dimostrano come il diabete siaun rischio CV aggiuntivo e la mortalità CV e gli even-

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GIDMti CV siano più che raddoppiati nei pazienti diabeticirispetto ai non diabetici con valori di PAD in un rangeconsiderato “normale” (8).

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positiva tra glicemia a digiuno, 1 ora e 2 ore dopocarico orale di glucosio ed eventi CV senza che si siadimostrata una soglia di rischio: il rischio relativo diuna glicemia a digiuno di 110 mg/dL è pari a 1,33rispetto a una glicemia a digiuno di 76 mg/dL e unaglicemia dopo carico di 140 mg/dL rappresenta unrischio relativo di 1,56 (10). Sembra quindi che i valo-ri di glucosio rappresentino un fattore di rischio car-diovascolare continuo, anche in un range inferiore aivalori patologici, analogamente a quanto dimostratoper il colesterolo totale e la PA. Ciò non sorprendequando si pensi che l’iperglicemia si sviluppa quandole cellule beta pancreatiche non riescono più a com-pensare il difetto di azione insulinica periferica, o resi-stenza insulinica, responsabile di molti casi di diabetetipo 2 e che il diabete mellito viene dignosticato dopoanni di livelli glicemici post-prandiali più o meno ele-vati e di iperinsulinemia “compensatoria”.Almeno 3 studi prospettici hanno infatti posto inrelazione l’iperinsulinemia con la malattia CV.Lo studio di Helsinki (11) ha dimostrato una correla-zione positiva tra insulinemia 1 e 2 ore dopo caricoorale di glucosio e malattia coronarica anche dopocorrezione per BMI, glicemia, trigliceridemia, coleste-rolo totale, attività fisica, fumo e PA sistolica.Lo studio PARIS ha dimostrato una maggiore inciden-za di coronaropatia in soggetti con elevata insuline-mia a digiuno, indipendente dalla tolleranza al gluco-sio e dalla PA (12).Lo studio di Busselton ha dimostrato una correlazionetra insulinemia e incidenza di coronaropatia e mortalitàcardiovascolare in soggetti di sesso maschile nella 6ªdecade di vita. La mortalità per ogni causa era correlatapositivamente all’insulinemia negli uomini nella 4ª e 5ªdecade di vita (13).Infine, il San Antonio Heart Study ha dimostrato chenella popolazione ispano-americana, che presentauna prevalenza di diabete tipo 2 da 3 a 5 volte mag-giore della popolazione bianca, l’insulinemia a digiu-no e la risposta insulinemica al carico orale di glucosiosono più elevate e si associano a un aumentato rischioCV. In questi soggetti prevalgono inoltre l’obesità e ladistribuzione di tipo centrale dell’adipe, che si accom-pagna a maggiore insulino-resistenza.Nello stesso studio sono stati esaminati a 7 anni dal-l’arruolamento i soggetti che nel corso dello studio ave-vano manifestato un diabete tipo 2: quelli che all’iniziodello studio presentavano una predominante insulino-resistenza (metodo HOMA) presentavano al controllouna PA più elevata, un colesterolo HDL più basso e unatrigliceridemia più elevata, a dimostrazione che l’insuli-no-resistenza di per sé è un clustering di fattori dirischio CV e rischio CV essa stessa (14).

Fig. 4. Eventi cardiovascolari maggiori (infarto del miocardio, ictus,morte cardiovascolare) per 1000 pazienti/anno nello studio HOT inrapporto all’obiettivo di PA diastolica. Il gruppo dei diabetici miglio-ra significativamente gli esiti con livelli di PA diastolica inferiori.

Recentemente Haffner ha riportato i dati dell’inciden-za di infarto del miocardio in una popolazione dimaschi finlandesi non diabetici e diabetici con esenza precedente infarto del miocardio. Nei non dia-betici l’incidenza di infarto del miocardio in 7 anni èstata di 3,5% nei soggetti senza pregresso infarto e18,8% nei soggetti con pregresso infarto. Nei diabe-tici l’incidenza è stata rispettivamente di 20,2% e45% nei gruppi senza e con pregresso infarto. Quindila sola presenza di diabete mellito tipo 2 rende ilrischio di infarto uguale a quello di un soggetto nondiabetico già infartuato, e la mortalità nel diabeticoinfartuato risulta quasi 3 volte superiore a quella del-l’infartuato non diabetico. Dato che nei soggetti conpregresso infarto la mortalità CV è di 3-7 volte supe-riore alla mortalità della popolazione non infartuata,si può calcolare che il diabete tipo 2 aumenta per unfattore di 3-7 la mortalità CV rispetto alla popolazio-ne non diabetica (9).

Iperinsulinemia, obesità,insulino-resistenzaIl rischio cardiovascolare nei soggetti con ipertriglice-ridemia o intolleranza ai carboidrati, quindi per defi-nizione con glicemia a digiuno “normale”, è circadoppio rispetto alla popolazione generale. Unarecente metanalisi che ha preso in considerazione95.000 soggetti ha dimostrato una correlazione

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In conclusione, si può affermare che esiste evidenzache, anche in assenza di iperglicemia o a livelli di gli-cemia ancora in un range considerato “normale”,l’iperinsulinemia conseguente a insulino-resistenzarappresenta un fattore di rischio indipendente dimalattia CV e che con il passare del tempo il mani-festarsi dell’iperglicemia aumenta il rischio CV siadirettamente sia per l’associazione di altri fattori dirischio (obesità, ipertrigliceridemia, ipertensione) aessa correlati.

Microalbuminuria

La microalbuminuria (MA) è un forte predittore dinefropatia diabetica ma anche di malattia CV sia neidiabetici tipo 1 che tipo 2. Però solo circa il 3% deidiabetici tipo 2 va incontro a uremia mentre l’80%muore per malattia CV.La microalbuminuria ha una prevalenza almeno triplanei soggetti diabetici rispetto ai non diabetici (30% vs5-10%) e in questi ultimi è soprattutto in relazioneall’ipertensione. Nei diabetici è correlata all’iperten-sione arteriosa ma anche ad altri fattori quali l’obesi-tà addominale, l’iperuricemia, la glicemia a digiuno ela HbA1c. Sia il DCCT sia l’UKPDS hanno dimostratoche il buon controllo metabolico rallenta la comparsadella microalbuminuria (MA) e la progressione versola macroalbuminuria nei soggetti diabetici, confer-mando la relazione tra MA e controllo metabolico.Diversi studi hanno confermato che anche nei diabe-tici la macroalbuminuria è un fattore fortemente pre-dittivo di mortalità CV, con un rischio doppio rispettoai diabetici senza microalbuminuria (15).Il Risk Factor Intervention Study ha dimostrato che inun gruppo di diabetici ipertesi la mortalità è maggio-re nei soggetti microalbuminurici rispetto ai nonmicroalbuminurici (p=0,035) e che la MA rappresen-ta un fattore di rischio indipendente (16).Anche se la multifattorialità della patogenesi della MApone qualche problema di interpretazione dei datisull’effetto protettivo della riduzione della MA neiconfronti della malattia CV nei diabetici tipo 2, l’opi-nione prevalente è che sia il controllo metabolico siail controllo della PA debbano essere iniziati precoce-mente, che l’obiettivo pragmatico debba essere unaPA di 130/80 mmHg e che sia più importante la ridu-zione dei valori pressori che il mezzo utilizzato. Lo stu-dio micro-HOPE ha recentemente dimostrato tutta-via una significativa riduzione del rischio CV (infartodel miocardio, ictus, mortalità CV e mortalità totale)in diabetici trattati con ACE-inibitori oltre alla terapiaipotensiva usuale (17).

È da notare tuttavia che il gruppo in trattamento conACE-inibitori presentava sia a 1 mese sia a 2 anni unariduzione maggiore dei valori di PA sia sistolica chediastolica rispetto al gruppo di controllo e che è notocome anche piccole riduzioni della PA siano in gradodi produrre significative riduzioni del rischio CV.Vi sono alcune dimostrazioni che il trattamento ipo-tensivo debba essere iniziato anche in soggetti diabe-tici microalbuminurici non ipertesi o in diabetici tipo1, ancor prima della comparsa di MA. Studi di inter-vento sono in corso per valutare i vantaggi di taleapproccio.

Lipidi

L’alterazione dei lipidi plasmatici tipica del diabeticotipo 2 è caratterizzata da un aumento dei trigliceridiplasmatici e da bassi livelli di colesterolo HDL, mentrela prevalenza di ipercolesterolemia totale non è neidiabetici sostanzialmente diversa da quella dellapopolazione generale. Come nella popolazione ge-nerale fattori genetici possono essere causa nei dia-betici di ipertrigliceridemia o di iperlipemia combina-ta, così anche fattori acquisiti (alcool, estrogeni, far-maci ecc.) possono amplificare il disordine lipidicotipico del diabetico.La fisiopatologia della iperlipemia del diabetico ècaratterizzata da un’aumentata produzione di VLDL,prevalente nelle fasi iniziali della malattia, e da un ral-lentato catabolismo delle stesse. Nelle forme piùsevere l’attività lipoproteinlipasica è diminuita e ilcontrollo dell’iperglicemia con insulina o ipoglicemiz-zanti orali può riportarla a valori normali nell’arco disettimane o mesi. Sia la resistenza all’insulina che undeficit di insulina possono essere causa di diminuzio-ne dell’attività lipoproteinlipasica.Nei diabetici, inoltre, sono presenti alterazioni dellacomposizione delle VLDL, più ricche di trigliceridi, eun aumento delle IDL, con maggiore effetto ateroge-netico per aumentata captazione delle particelle daparte delle cellule della parete arteriosa.I bassi livelli di colesterolo HDL possono essere dovu-ti sia a ridotta produzione sia ad aumentato cataboli-smo. La diminuita produzione sarebbe dovuta a undiminuito catabolismo delle VLDL e alla diminuitaattività della lipasi lipoproteica. L’aumentato catabo-lismo è conseguente a un’aumentata attività dellalipasi epatica. Inoltre nei diabetici tipo 2 le particelleHDL sono più ricche di trigliceridi e più povere dicolesterolo, con aumento del rapporto apo-A1/ apo-A2. La glicazione delle HDL, a differenza di quantoavviene per le LDL, ne aumenta il catabolismo.

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La concentrazione assoluta di LDL nei diabetici è simi-le a quella dei non diabetici, ma sono state descrittemodificazioni metaboliche e di composizione delleparticelle che le rendono più piccole, più dense, gli-cate e ossidate, tutte modificazioni in senso ateroge-netico. La glicazione delle LDL, ma anche l’associataipertrigliceridemia e l’insulinopenia, possono ridurreil catabolismo delle stesse e causare un aumentoanche dei loro valori assoluti.È evidente che tutte queste modificazioni metaboli-che e strutturali espongono il diabetico a un rischioCV aggiuntivo rispetto sia all’iperglicemia sia all’iper-tensione; tuttavia non sempre è possibile valutarequale sia il peso reale di fattori di rischio “indipen-denti” e quello di fattori fortemente associati alrischio di base. Questi fattori associati, come l’ipertri-gliceridemia del diabetico, potrebbero rappresentarepiù marker di rischio maggiore che fattori di rischioaggiuntivi.Per queste ragioni è importante considerare i risultatidegli studi di intervento disponibili, oltre agli studiprospettici; infatti un fattore di rischio potrebbe esse-re un marker di malattia CV più forte in quantoespressione di un clustering di fattori di rischio asso-ciati (ad esempio ipertrigliceridemia associata a resi-stenza all’insulina, obesità, ipertensione). Gli studi diintervento ci permettono spesso di determinare il“peso” del fattore di rischio indipendente e quello deifattori di rischio associati. Va tenuto presente tuttaviache molti dei dati di intervento su soggetti diabeticiderivano da analisi post-hoc, cioè da dati raccolti inuna popolazione generale, dai quali solo successiva-mente sono stati isolati quelli riguardanti i soggettidiabetici, e questo potrebbe creare problemi nellaomogeneità della selezione iniziale dei soggetti instudio e quindi nella confrontabilità dei gruppi.

Studi di prevenzione primaria nel diabetico

Non vi sono ancora sufficienti dati da studi di in-tervento di prevenzione primaria della malattia CV in soggetti diabetici con terapia ipolipemizzante.L’Helsinki Heart Study ha dimostrato una riduzione dieventi coronarici in soggetti senza pregressa malattiacoronarica con gemfibrozil, in particolare in soggetticon ipertrigliceridemia e basso colesterolo HDL. Nellostudio fu arruolato un piccolo numero di diabetici(n=135) e l’analisi post hoc ha dimostrato una ridu-zione del 60% del rischio relativo di eventi coronarici,ma il valore non risultò significativo per la scarsanumerosità del campione (18).

Lo studio WOSCOP ha dimostrato che la riduzionedelle LDL con pravastatina riduce gli eventi coronari-ci nella popolazione generale, ma il sottogruppo deidiabetici era troppo esiguo (1% del campione) perpermettere un’analisi dei dati (19).In attesa della conclusione degli studi in corso di pre-venzione primaria nei diabetici rimangono valide leindicazioni del National Cholesterol Education Pro-gram (NCEP), che consiglia una riduzione dei livelli dicolesterolo LDL < 100 mg/dL nei soggetti con pre-gressa coronaropatia, < 130 mg/dL per i soggetti arischio, < 160 mg/dL per i soggetti a basso rischio.L’alto rischio è definito come presenza di due o piùfattori di rischio CV: il diabete conta per un fattore dirischio e il sesso maschile rappresenta un altro fattoredi rischio. Il panel tuttavia considera le donne diabe-tiche a uguale rischio degli uomini, per cui tutti i dia-betici, maschi e femmine, dovrebbero avere un tar-get di LDL < 130 mg/dL. Non solo, ma in base ai datidi Haffner già citati, cioè della uguale incidenza dieventi cardiovascolari nei diabetici senza pregressoinfarto e nei non diabetici con pregresso infarto, alcu-ni autori ritengono giustificato spostare il target diprevenzione primaria per il soggetto diabetico a valo-ri di LDL ≤ a 100 mg/dL.

Studi di prevenzione secondaria nel diabetico

Lo studio 4S (Scandinavian Survival SimvastatinStudy) ha dimostrato che in soggetti con pregressoinfarto del miocardio e con trigliceridi “relativamen-te” normali (<220 mg/dL) la riduzione del colestero-lo totale con simvastatina a livelli inferiori a 200mg/dL porta a una riduzione di un terzo degli eventiCV. In un sottogruppo di diabetici (n=202) la riduzio-ne risultò ancora maggiore (-55%) e anche la mortali-tà fu minore nei diabetici trattati, anche se non a livel-li di significatività statistica. Nel gruppo in trattamen-to con placebo l’incidenza di eventi cardiovascolari fudi 2,5 volte maggiore nei diabetici, a dimostrazioneche il diabete aumenta ulteriormente il rischio CV, giàelevato nei soggetti infartuati (20).Lo studio CARE ha rilevato che la riduzione del cole-sterolo LDL in soggetti con precedente coronaropatiariduce gli eventi cardiovascolari anche in soggetti convalori di colesterolo LDL “normali” (139 mg/dL allabase-line) e che la riduzione è simile nei diabetici e neinon diabetici (25% vs 23%) (21).Recentemente sono stati pubblicati i risultati dell’ef-fetto del trattamento con gemfibrozil in prevenzionesecondaria in soggetti con bassi livelli di colesterolo

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HDL e colesterolo LDL “normale” (HDL < 40 mg/dL,LDL < 140 mg/dL). L’aumento del colesterolo HDL del6% e la diminuzione dei trigliceridi del 31% riduceva in5 anni il RR del 22% nei non diabetici e del 24% nei dia-betici (22).Dai dati disponibili si può concludere che la dislipide-mia, sia primitiva (ipercolesterolemia isolata) siasecondaria (ipertrigliceridemia e basso HDL), rappre-senta un ulteriore fattore di rischio CV nel soggettodiabetico, non riducibile con il solo buon controllometabolico. La dimostrazione che la correzione delleanomalie lipidiche nel diabetico ha un effetto ancorasuperiore a quello che si ottiene nei soggetti non dia-betici conferma la particolare aterogenicità delle par-ticelle lipoproteiche alterate qualitativamente, oltreche quantitativamente, nel diabetico.

Ipertrigliceridemia

Per quanto riguarda l’ipertrigliceridemia isolata neldiabetico non vi sono prove certe che rappresenti unfattore di rischio indipendente, come invece è dimo-strato per il colesterolo LDL.Il Paris Prospective Study ha dimostrato una correla-zione tra ipertrigliceridemia e mortalità CV in un sot-togruppo di soggetti con diabete mellito tipo 2 ointolleranza ai carboidrati; inoltre è stata dimostratauna correlazione positiva tra malattia coronarica eVLDL e una correlazione negativa con i livelli di cole-sterolo HDL. Tuttavia all’analisi multivariata solo unbasso valore di colesterolo HDL era correlato allamalattia coronarica.Se vi sono sufficienti evidenze per considerare l’i-pertrigliceridemia come un fattore di rischio CVindipendente nel soggetto non diabetico (23), èpiù difficile stabilire quanto nel diabetico essa siapiù l’espressione di un difetto metabolico di base(insulino-resistenza) che un fattore aggiunto. Sem-brerebbe che l’ipertrigliceridemia, e il basso valoredi HDL, siano dei potenti marker di rischio cardio-vascolare nel diabetico, ma facciano parte di unclustering di elementi metabolici (insulina, gluco-sio, lipidi, indice ponderale, obesità addominale)che rappresentano un unico fattore di rischio prin-cipale.Questa ipotesi ha la sua importanza concettuale epratica nel fatto che, se essa dovesse essere confer-mata, darebbe una giustificazione al fatto che non èsufficiente la correzione di un unico fattore di rischio(o di un marker di malattia cardiovascolare) per unaefficace prevenzione primaria e secondaria dellamalattia cardiovascolare nel diabetico.

Conclusioni

Negli ultimi anni si sono accumulate evidenze chealtri fattori di rischio CV presenti nel soggetto diabe-tico contribuiscono in varia misura all’aumentata inci-denza di malattia, eventi e mortalità CV in questipazienti. L’iperfibrinogenemia, lo stato trombofilicoda aumentata adesività piastrinica, gli alti livelli di PAI1, lo stress ossidativo e la disfunzione endotelialesono alcuni degli elementi specifici della malattia dia-betica.La riduzione dei livelli di glucosio plasmatico è sicura-mente efficace nel ridurre le complicanze microva-scolari del diabete, ma la relazione non è così lineareper le complicanze macroangiopatiche, anche se irisultati degli studi prospettici di intervento possonosottovalutare la responsabilità dell’iperglicemia inquanto la riduzione dei livelli di glucosio ottenutisono ben lungi da rappresentare una normalizzazio-ne della glicemia.Nei diabetici sono presenti quindi fattori di rischioaggiuntivi non solo rispetto al rischio rappresentatodall’ipertensione nella popolazione generale, maanche al rischio rappresentato dall’iperglicemia di per sé.Allo stato attuale dell’arte vi sono evidenze che solol’azione su tutti i fattori di rischio, e non solo sui mar-ker di malattia, può ridurre l’incidenza di malattia emortalità CV nei diabetici, sfida questa che si apre conil nuovo millennio.

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QUALI SONO I CRITERIDIAGNOSTICI E QUALI I VALORISOGLIA DI PRESSIONE PERL’INTERVENTO TERAPEUTICO?A. TIENGO, R. TREVISAN

Divisione Malattie del Metabolismo, Dipartimento di Me-dicina Clinica e Sperimentale, Università di Padova

La definizione di ipertensione arteriosa nel diabetemellito non differisce da quanto stabilito nella popo-lazione generale.D’altra parte i più recenti risultati di numerosi studiprospettici sulla relazione tra livelli di pressione arte-riosa e rischio di eventi vascolari hanno indotto lacomunità scientifica a fare il punto su tale problema ea formulare nuovi e più attuali criteri di classificazione.Le nuove linee guida hanno impostato le nuove clas-sificazioni, partendo dal presupposto che l’ipertensio-ne arteriosa non deve essere considerata isolatamen-te ma nell’ambito del rischio globale aterogeno a cuiè sottoposto il singolo paziente. Altro presuppostodella nuova classificazione dell’ipertensione è il rilievoche i livelli di pressione arteriosa sono correlati alrischio di patologia cardiovascolare in modo conti-nuo senza una evidente soglia patologica e ogni defi-nizione di ipertensione sarebbe perciò arbitraria.In pazienti con ipertensione lieve il rischio di malattiacardiovascolare è infatti determinato non solo dailivelli di pressione arteriosa ma anche dalla presenza edall’entità di altri fattori di rischio. Le differenze dirischio cardiovascolare assoluto tra pazienti con iper-tensione sono determinate più dalla coesistenza di

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GIDMaltri fattori di rischio che dal livello di pressionearteriosa.L’ipertensione è comunque definita secondo le piùrecenti classificazioni in differenti stadi o categorie.Il “Joint National Committee” (JNC) negli Stati Uniti(1) e il “WHO-ISH Guidelines Committee” (2) sonostati concordi nel definire ipertensione arteriosa valo-ri superiori a 140 mmHg per la pressione sistolica e 90mmHg per la pressione diastolica nei soggetti nonsottoposti a terapia antipertensiva.La classificazione dei livelli pressori nei soggetti adultisopra i 18 anni è descritta nella tabella 1.Tale classificazione si basa su quanto proposto dallaJNC (1), anche se si è preferito parlare di gradi di iper-tensione piuttosto che di stadi che presupponevanouna necessaria progressione dei valori pressori.Gli estensori della classificazione sottolineano che igradi di ipertensione si riferiscono semplicemente aivalori attuali di PA e non alla prognosi che può esserenon sempre correlata ai valori iniziali pressori.L’attuale classificazione non tiene conto dell’età delpaziente e quindi non definisce alcuna ipertensionedell’anziano, ma si limita a considerare l’ipertensionesistolica isolata. Dall’epidemiologia si è infatti chiaritoche l’ipertensione nell’anziano deve essere considera-ta alla stregua dell’ipertensione ritrovata nella media-

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età, dal momento che il trattamento riduce comun-que il rischio cardiovascolare a prescindere dall’etàdel paziente.Non si fa inoltre cenno alla ”ipertensione clinica isola-ta”, definita anche “da camice bianco”, situazione chepresuppone un aumento ripetuto dei valori pressori inambulatorio con valori pressori normali in registrazio-ni eseguite al di fuori di ambienti medico-sanitari.Non è ancora noto d’altra parte se l’ipertensione cli-nica isolatasia un fenomeno “benigno-innocente”oppure se si associ a un aumento del rischio cardio-vascolare. Essa andrà eventualmente considerata evalorizzata alla luce della presenza di altri fattori dirischio vascolare come il diabete.La diagnosi di ipertensione arteriosa deve essere fattadopo molteplici misurazioni ottenute in differentivisite. Come ben definito dalle linee guida internazio-nali, la pressione deve essere misurata con il pazienteseduto usando uno sfigmomanometro a mercurio. Sevengono usati altri strumenti non a mercurio, i valoripressori ottenuti dovranno essere confrontati conquelli ottenuti mediante sfigmomanometro.Nei pazienti diabetici è importante misurare la pres-sione arteriosa anche in posizione ortostatica per evi-denziare eventuali cadute pressorie (ipotensioneortostatica) dovute alla frequente coesistenza di neu-ropatia autonomica.La misurazione della pressione a domicilio con appa-recchi non invasivi semiautomatici e automatici offrevantaggi ma anche alcuni svantaggi. Pur offrendo lapossibilità di valutare i valori pressori nell’ambiente dilavoro in diversi momenti della giornata, tali misura-zioni vanno considerate con prudenza e non devonosostituire le misurazioni ambulatoriali. I valori regi-strati sono peraltro di alcuni mmHg inferiori a quelliottenuti in ambulatorio. Non esistono ancora in lette-ratura risultati probanti sul valore prognostico di que-ste misurazioni domiciliari.Il monitoraggio continuo della pressione arteriosanon può essere considerato una modalità routinariaper la diagnosi di ipertensione. Tale modalità di misu-razione, che ottiene valori pressori inferiori rispettoalle misurazioni estemporanee, va presa in considera-zione soprattutto in presenza di casi con estremainstabilità dei valori pressori, con sintomatologia diepisodi ipotensivi specie notturni e per una valutazio-ne più approfondita dell’effetto dei singoli farmaciutilizzati. È stato dimostrato che il danno d’organoassociato all’ipertensione correla più strettamentecon la pressione arteriosa media delle 24 ore che conla pressione misurata in ambiente clinico.Le definizioni di lieve, moderata e grave, usate nelleversioni precedenti delle linee guida OMS-ISH, corri-

TAB. I. Classificazione dei valoridi ipertensione arteriosa

Categoria Sistolica Diastolica (mmHg) (mmHg)

Ottimale < 120 < 80

Normale < 130 < 85

Normale - alta 130-139 85-89

Ipertensione di grado 1 (“lieve”) 140-159 90-99

Sottogruppo “borderline” 140-149 90-94

Ipertensione di grado 2(“moderata”) 160-179 100-109

Ipertensione di grado 3 (“grave”) ≥ 180 ≥ 110

Ipertensione sistolica isolata ≥ 140 < 90

Sottogruppo “borderline” 140-149 < 90

Nel caso la pressione sistolica e quella diastolica di un paziente rientrino in catego-rie differenti, la classificazione va fatta in base alla categoria maggiore.

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GIDMspondono rispettivamente al grado 1, 2 e 3 e la pre-cedente definizione di ipertensione “borderline”diviene un sottogruppo dell’ipertensione di grado 1.

Valori soglia di pressione arteriosa per il trattamento

La decisione di trattare i pazienti con ipertensione arte-riosa non dovrebbe basarsi solo sul livello della pressio-ne arteriosa ma anche sulla presenza di altri fattori dirischio o di malattie concomitanti come in particolareil diabete, di danno d’organo, di malattie cardiovasco-lari o renali nonché di valutazioni specifiche riguardan-ti la personalità e le caratteristiche del paziente.Ecco allora che la valutazione della soglia di valoripressori per l’intervento terapeutico potrà variare aseconda della stratificazione del rischio assoluto futu-ro di patologia cardiovascolare attribuibile al pazien-te. La stima del rischio è basata su età, sesso, fumo,presenza di diabete o di ipercolesterolemia, storia dimalattia cardiovascolare precoce, presenza di dannod’organo e storia di malattia cardiovascolare o renale

(tab. II). Il calcolo è stato fatto in base ai dati delrischio medio di morte cardiovascolare, di ictus nonmortale o di infarto miocardico non mortale chepotrebbero comparire nell’arco di 10 anni, basando-si sui dati dello studio di Framingham.Sono state definite quattro categorie di rischio asso-luto cardiovascolare: basso, medio, alto e molto alto.Ogni categoria è rappresentata da un intervallo dirischio. All’interno di ciascun intervallo il rischio diciascun individuo sarà calcolato in funzione della gra-vità e del numero dei fattori di rischio presenti.La stratificazione dei pazienti in base al loro rischiocardiovascolare globale è utile non solo per determi-nare la soglia a cui iniziare il trattamento farmacolo-gico antipertensivo ma anche per stabilire il valore dipressione arteriosa che dovrebbe essere raggiunto(tab. III).Come si può osservare nella tabella II, tra i fattori checondizionano la prognosi del paziente iperteso giocaun ruolo estremamente negativo la presenza di dia-bete e di ipercolesterolemia, mentre altri fattori meta-bolici come la ridotta tolleranza al glucosio, l’aumen-to di colesterolo LDL, la riduzione di colesterolo HDL,la presenza di microalbuminuria in corso di diabete,

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TAB. II. Fattori che influenzano la prognosi del paziente iperteso(Guidelines WHO for Management of Hypertension 1999)

Fattori di rischio cardiovascolare Danno d’organo Patologie associate

1. Fattori utilizzati per la quantificazione - Ipertrofia ventricolare sinistra - Malattie cerebrovascolaridel rischio - Proteinuria e/o modesto aumento • ictus ischemico- Valori di pressione arteriosa sistolica della creatinina (1,2-2,0 mg/dL) • emorragia cerebrale

o diastolica (gradi 1-3) - Presenza di placche aterosclerotiche • attacchi ischemici transitori- Età >55 anni: sesso maschile alle arterie carotidi, iliache, femorali- Età >65 anni: sesso femminile e aorta - Cardiopatie - Fumo di sigaretta - Restringimenti generalizzati o focali • infarto del miocardio- Colesterolo totale >250 mg/dL (6,5 mmol/L) delle arterie retiniche • angina- Diabete • rivascolarizzazione coronarica- Storia familiare di precoce cardiovasculopatia • scompenso cardiaco congestizio

2. Altri fattori che influenzano negativamente la prognosi - Nefropatia - Colesterolo HDL ridotto• nefropatia diabetica- Colesterolo LDL aumentato • insufficienza renale- Microalbuminuria in corso di diabete (creatinina >2,0 mg/dL)- Ridotta tolleranza al glucosio- Obesità - Vasculopatie- Stile di vita sedentario • aneurisma dissecante- Fibrinogeno aumentato • arteriopatia sintomatica- Gruppo ad alto rischio socioeconomico- Gruppo ad alto rischio etnico - Retinopatia ipertensiva avanzata- Abitanti di regioni geografiche ad alto rischio • emorragia o essudati

• papilledema

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GIDMl’obesità, sono comunque sfavorevoli sulla storianaturale dell’ipertensione arteriosa. Il diabete è consi-derato alla stregua della coesistenza di 3 o più fattoridi rischio nel condizionare il rischio cardiovascolareindotto dai diversi gradi di ipertensione arteriosa. Inaltri termini, come risulta dalla tabella III, la presenzadi diabete determina sempre e comunque un rischioelevato o molto elevato secondario ai diversi gradi diipertensione arteriosa.In presenza di ipertensione arteriosa lieve, che inassenza di altri fattori di rischio, si accompagna a unbasso rischio aterogeno, il diabete è in grado di mol-tiplicare tale rischio rendendolo di grado elevato omolto elevato. D’altra parte è stato dimostrato che, in presenza divalori pressori anche solo modestamente elevati, lacoesistenza di diabete moltiplica di 3-4 volte il rischiocardiovascolare (3). È possibile che valori pressori rite-nuti normali per la popolazione non diabetica sianogià in grado nella popolazione diabetica di svolgereun ruolo favorente, a lungo termine, la compromis-sione cardiovascolare.Il rischio cardiovascolare lieve secondo lo studio diFramingham corrisponde a un’incidenza di eventicardiovascolari in 10 anni inferiore al 15%, il rischiomedio a un’incidenza tra il 15 e il 20%, il rischio ele-vato a un’incidenza del 20-30% e, infine, quellomolto elevato a più del 30% di eventi cardiovascolarinel corso del successivo decennio.L’entità del rischio attribuito alla popolazione diabeti-ca-ipertesa ha modificato i valori pressori soglia perl’intervento terapeutico. Nella popolazione generale inumerosi studi epidemiologici randomizzati hannoindicato la soglia di valori tensivi sistolici di 160mmHg per l’assoluta indicazione all’intervento tera-peutico. Tra 140 e 160 mmHg, che corrisponde allacosiddetta ipertensione lieve o “borderline”, non esi-ste una chiara evidenza per rendere d’obbligo il trat-tamento farmacologico. Solo nella popolazione dia-betica si giustifica una soglia sistolica di intervento di140 mmHg sulla base della maggiore suscettibilitàdimostrata nel diabetico al “rischio ipertensivo”.Ciò risulta nelle raccomandazioni del “US JointNational Committee VI Guidelines” e più recente-mente nel “World Health Organization/InternationalSociety of Hypertension Guidelines”.Questa soglia di intervento più bassa, applicabile allapopolazione diabetica, è dovuta alla più elevata vul-nerabilità al fattore ipertensivo quando coesiste il dia-bete (4). Ciò è valido non solo in relazione all’inci-denza di infarto del miocardio o di ictus cerebrale, maanche alla storia naturale della microangiopatia dia-betica. Per la prevenzione primaria e secondaria della

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TAB. III. Stratificazione del rischioper quantificare la prognosi

(Guidelines WHO for Managementof Hypertension 1999)

Pressione arteriosa (mmHg)

Altri fattori di rischio Grado 1 Grado 2 Grado 3e storia clinica (ipertensione (ipertensione (ipertensione

lieve) moderata) grave)PAS 140-159 o PAS 160-179 o PAS ≥ 180 oPAD 90-99 PAD 100-109 PAD ≥ 110

I Nessun altro Rischio Rischio Rischiofattore di rischio basso medio elevato

II 1-2 fattori Rischio Rischio Rischiodi rischio medio medio molto elevato

III 3 o più fattori di Rischio Rischio Rischiorischio o danno elevato elevato molto elevatod’organo o diabete

IV Patologie Rischio Rischio Rischioassociate molto elevao molto elevato molto elevato

PAS = pressione arteriosa sistolica; PAD = pressione arteriosa diastolica

retinopatia e della nefropatia diabetica sono stateproposte soglie di intervento inferiori a 140 mmHgche si possono identificare in 130 mmHg specie neipazienti con diabete di tipo 1.La soglia diastolica per l’intervento è meno dibattuta,anche se vi è un generale consenso favorevole a valo-ri di 90 mmHg. Adottando questo criterio di soglia di140/90 mmHg, ben pochi diabetici potranno essereconsiderati normotesi e il 70% dei diabetici di tipo 2dovrebbero essere sottoposti a terapia antipertensiva.La scelta di questa soglia più bassa per l’intervento far-macologico nel diabetico è supportata dai recenti risul-tati di studi fondamentali di trattamento farmacologi-co: l’HOT Study, il CAPP Study, il Systeur Study, l’UKPDSStudy e il Micro-Hope Study, che hanno dimostratoche, se nella popolazione diabetica si raggiungonovalori di pressione sistolica inferiori a 140 mmHg e valo-ri di pressione diastolica inferiori a 90-85 mmHg, è pos-sibile ridurre ulteriormente il rischio cardiovascolare,risultato che non era possibile ottenere nella popolazio-ne non diabetica. Un’analoga osservazione era statafatta per i valori di colesterolo totale e LDL, la cui sogliadi intervento terapeutico nei diabetici è stata ipotizzatapiù bassa rispetto alla popolazione non diabetica.Tale atteggiamento più aggressivo nei confronti del

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GIDMdiabetico-iperteso è oggi ampiamente convalidato edeve divenire una regola per il diabetologo e per ilmedico generale; proprio l’intervento terapeuticoantipertensivo più precoce e più rigido ha permessouna significativa riduzione delle complicanze micro emacrovascolari (5).

Bibliografia

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QUALI VALORI DI PRESSIONEDEVONO ESSERE RAGGIUNTIE MANTENUTI CON LA TERAPIAANTIPERTENSIVA?D. GIUGLIANO

Dipartimento di Geriatria e Malattie del Metabolismo, II Univer-sità di Napoli

È opinione comune e ben consolidata che il rischiocardiovascolare nel soggetto diabetico sia molto piùelevato di quello presente nella popolazione genera-le. Il fatto che tre diabetici di tipo 2 su quattro soc-combano per morte cardiovascolare contribuiscealla diffusione sempre più larga di quest’evidenza. Ildeclino della mortalità cardiovascolare ottenuto inanni recenti nelle civiltà occidentali sembra non averinteressato il soggetto diabetico, o averlo coinvoltosolo in minima parte (1). La donna diabetica rimaneancora l’attore di questo dramma, poiché nel sessofemminile si è avuto addirittura un aumento dellamorte cardiovascolare. Le ragioni di questa discre-panza non sono state ancora chiarite, ma c’è il

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sospetto che possa essere dipeso da un diversoapproccio nella gestione del rischio globale delpaziente diabetico.La trama che sottende queste considerazioni, perquanto razionale e condivisibile, non appartiene allanostra area geografica, essendo i dati importati daaltri Paesi di cultura occidentale, principalmente dagliStati Uniti d’America. Ci sono fondati motivi di rite-nere che l’impatto dei vari fattori di rischio, ipertensio-ne compresa, possa risentire delle coordinate geogra-fiche di appartenenza della popolazione in esame. Idati recenti dello studio dei sette Paesi dimostrano chei popoli che gravitano nel bacino del Mediterraneomeridionale risentono meno dei danni cardiovascolariimputabili all’ipertensione, rispetto alle popolazionidell’Europa continentale o degli Stati Uniti (2).Un altro convincimento che si sta facendo strada pre-potentemente nel bagaglio culturale del medicoattento ai problemi di prevenzione cardiovascolare èquello che il rischio di morte cardiovascolare neipazienti con diabete tipo 2 è molto simile a quelloespresso da pazienti non diabetici che abbiano giàmanifestato un infarto del miocardio (20% di inci-denza in 7 anni) (3). Per quanto condivisibile sulpiano concettuale, perché permetterebbe di conside-rare il soggetto diabetico sempre in stato di preven-zione secondaria, un simile convincimento eluderebbea priori la stratificazione del rischio globale nel pazien-te diabetico. Nello studio HOPE (4), per esempio, l’in-cidenza di eventi cardiovascolari nei 3577 diabeticistudiati era del 4,4% per anno, superiore al rischio del3,7% per anno dimostrato dai 5720 soggetti non dia-betici che già avevano sperimentato un evento.L’analisi dei dati ha fatto però emergere che il rischiopiù elevato nei diabetici era appannaggio di quelli conmalattia cardiovascolare già nota (rischio del 5,3%)oppure di quelli con microalbuminuria (rischio del6,4%), riducendosi il rischio al 2,2% per anno nei dia-betici senza eventi noti. Questi dati, ottenuti in un’am-pia popolazione di soggetti diabetici, dimostrano chepuò essere fuorviante operare delle estrapolazionibasandosi sui dati di un singolo studio. La validità dellastratificazione del rischio sembra opportuna anche nelpaziente diabetico. In tale ottica, la presenza dimicroalbuminuria in un paziente diabetico di tipo 2consentirà di considerarlo come un soggetto partico-larmente degno di attenzione terapeutica.

Scopo della terapia

Lo scopo di abbassare la pressione arteriosa in ognipaziente con ipertensione è di ridurre la mortalità e la

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GIDMmorbilità cardiovascolare. Nei pazienti con diabete viè anche il potenziale beneficio aggiuntivo di ridurrel’incidenza di complicanze microvascolari (retinopa-tia e nefropatia). Non esiste uno studio clinico rando-mizzato, controllato con placebo, sull’effetto del trat-tamento dell’ipertensione nel paziente diabetico. Leinformazioni in nostro possesso sui benefici del trat-tamento antipertensivo nel paziente diabetico deri-vano dall’analisi di sottogruppi di pazienti inseriti instudi più ampi di popolazione, oppure da studi diconfronto tra farmaci.La tabella I elenca una serie di studi recentementeconclusi. Alcuni hanno comportato il confronto conplacebo (SHEP, Syst-EUR), altri hanno confrontatofarmaci o categorie di farmaci (UKPDS, CAPPP, STOP-2, ALLHAT), altri infine hanno confrontato differentilivelli di pressione diastolica (HOT). La maggior partedi questi studi ha comportato un’analisi cosiddetta“post-hoc” (di sottogruppi); solo l’UKPDS prevedevaun’analisi che concordava con lo scopo dello studio.Lo studio HOPE non è stato uno studio d’intervento,bensì di prevenzione farmacologica in soggetti nonipertesi. Sia pur con le limitazioni sopraindicate, l’in-sieme dell’evidenza scaturita da questi studi sembraaver convinto molti medici e società scientifiche cheil controllo più attento e, per usare un aggettivo dimoda, aggressivo della pressione arteriosa nell’iper-teso diabetico dia molti più frutti in termini di pre-venzione delle complicanze cardiovascolari. In con-creto, ciò significa che dobbiamo trattare la pressionearteriosa con più vigore e forza nel paziente diabeti-

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TAB. I. Sommario di alcuni importantistudi di intervento sulla pressione arteriosa

in soggetti diabetici

Studio Follow-up Numerosità Analisi(anni)

• SHEP (1996) 4,5 4732 (583) post-hoc

• HOT (1998) 4,0 18.790 (1501) post-hoc

• UKPDS (1998) 8,4 1148 primaria

• Syst-EUR (1999) 2,0 4695 (492) post-hoc

• CAPPP (1999) 6,1 10.985 (572) post-hoc

• STOP-2 (1999) 5 6614 (719) post-hoc

• HOPE (2000) 4,5 3577 primaria

• ALLHAT (2000) 3,3 24.335 (8662) post-hoc

co, in modo da ottenere livelli più bassi di quelli chesono attualmente indicati come desiderabili per lapopolazione non diabetica.

Obiettivo pressorio

Sulla base delle evidenze emerse dagli studi clinici, gliobiettivi che devono essere raggiunti con la terapiaantipertensiva nel paziente diabetico e iperteso sonostati già indicati da alcune importanti società scienti-fiche nel corso dello scorso anno (1999). In particola-re, l’American Diabetes Association, l’American HeartAssociation e l’OMS concordano su un obiettivo pres-sorio di 130/85 mmHg. È molto verosimile che questiobiettivi saranno sponsorizzati da altre società scien-tifiche, in un’ottica di messaggi coerenti e semplici dasuggerire al medico per migliorare il destino cardio-vascolare del paziente diabetico.È interessante la concordanza sull’obiettivo 130mmHg per la pressione sistolica: nello studio UKPDS,la riduzione di 10 mmHg della pressione sistolica siassocia con la riduzione del 12% di tutti gli eventi con-siderati, del 13% del rischio d’infarto e di ictus. Poichéil rischio di eventi cardiovascolari si correla in modolineare con la pressione arteriosa, senza una soglia,rimane ancora senza risposta la domanda: quanto inbasso possiamo spingerci? Realisticamente dovrebbeesserci un livello di pressione oltre il quale non sarebbeopportuno spingersi, soprattutto nelle persone anzia-ne, ma l’evidenza dice che questo livello non è statoancora trovato. I dati dello studio HOT hanno avutouna pesante influenza sull’obiettivo espresso per lapressione diastolica: con una pressione di 144/81mm Hg ottenuta, l’incidenza di complicanze cardio-vascolari nei pazienti diabetici è risultata minorerispetto al gruppo in cui il livello pressorio raggiuntoera un poco più alto (148/85 mmHg), con una chia-ra e sostanziale differenza per valori di diastolica infe-riori o uguali a 80 mmHg. Esiste una stretta concor-danza con i valori pressori ottenuti nel braccio inten-sivo dell’UKPDS, dove questo gruppo aveva un livel-lo di pressione di 144/82 mmHg, rispetto ai 154/87mmHg del gruppo trattato meno intensivamente.Poiché in nessuno studio è stato possibile ottenere unlivello stabile di pressione sistolica uguale o inferiore a130 mmHg, è lecito supporre che l’obiettivo indicatoper la sistolica rappresenti più un’estrapolazione aposteriori, oltre che un augurio di successo dell’inter-vento terapeutico, piuttosto che un valore adeguata-mente sperimentato. Probabilmente ha giocatoanche un ruolo l’evidenza che l’abbassamento dellapressione di polso (sistolica meno diastolica) deve

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GIDMessere un obiettivo da non sottovalutare nella riduzio-ne del rischio cardiovascolare nel paziente iperteso, inparticolare l’anziano, sia esso diabetico o meno (5).

Controllo dell’ipertensionevs controllo dell’iperglicemia

In tema di messaggi che circolano, è stato fatto nota-re peraltro che la riduzione intensiva della pressionearteriosa nel paziente diabetico iperteso è più effica-ce, in termini di salute guadagnata, rispetto al tratta-mento intensivo della glicemia. Questa affermazioneè apparentemente razionale, trovando conferma neidati dello studio UKPDS; tuttavia è probabilmenteerroneo incentrare il problema in questi termini,come a voler cercare un’eguaglianza, in termini dibeneficio per la salute cardiovascolare, tra la riduzio-ne di una data quantità di millimetri di mercurio dellapressione e di emoglobina glicata. Rimane la consta-tazione che la terapia ipoglicemizzante è gravata damolti fallimenti, superiori a quelli che si riscontranonell’ipertensione arteriosa, e che la soglia glicemica,superata la quale comincia a emergere il rischio, èprobabilmente più bassa per la malattia cardiovasco-lare (110 mg/dL). Appare giustificata la preoccupa-zione che questa dicotomia di priorità d’interventopossa far passare in secondo piano l’approccio globa-le al paziente diabetico che prevede un intervento sulrischio cardiovascolare totale. Sempre nello studioUKPDS è stato dimostrato che il rischio di ogni even-to aumenta di 5-6 volte per valori di emoglobina gli-cata >8% e per valori di pressione sistolica >150mmHg presenti contemporaneamente. Questo vero-similmente significa la necessità di due o tre farmaciantipertensivi, una terapia ipolipidemizzante, e l’usodi aspirina, aggiunti alla migliore terapia possibile peril controllo della glicemia. Sono caldamente attesi icommenti degli economisti sanitari circa l’efficacia, intermini di investimenti di risorse, di questi interventi.Allo stato attuale, abbiamo già la consapevolezza delnumero dei pazienti da trattare per evitare una com-plicanza in un periodo di cinque anni (tabella II).

Ridurre la pressione è efficace

La riduzione della pressione arteriosa nel pazientediabetico è efficace nel diminuire la morbilità e lamortalità cardiovascolare. Per quanto concerne ladomanda che ha costituito l’oggetto di questo inter-vento, l’autore conclude con quanto segue. “I livelli di pressione arteriosa cui bisogna tendere

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TAB. II. Numero di pazienti da trattarenegli studi presi in esame per evitare

una complicanza in 5 anni

UKPDS Eventi correlati al diabete 12,2

HOT Eventi cardiovascolari maggiori 16,0

HOPE Eventi cardiovascolari maggiori 13,5

Syst-EUR Eventi cardiovascolari maggiori 5,6

nel paziente diabetico sono più bassi di quelli deside-rabili nel soggetto non diabetico: un obiettivo di 130-140 mmHg per la sistolica e di 80 mmHg per la dia-stolica sembra realistico e deve essere perseguito”.

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QUALI SONO I FARMACIANTIPERTENSIVI PREFERIBILINEL PAZIENTE DIABETICO?G. MANCIA, G. GRASSI

Clinica Medica, Dipartimento di Medicina Clinica - Preven-zione e Biotecnologie Sanitarie, Università di Milano Bicoc-ca, Ospedale San Gerardo di Monza, Milano

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Per affrontare adeguatamente il quesito di quali far-maci devono essere usati nel paziente iperteso ènecessario trattare i seguenti aspetti del problema. Èutile ridurre la pressione arteriosa del diabetico conpressione elevata, qualunque sia la terapia farmacolo-gica adottata? Quali sono i valori di pressione che sideve cercare di raggiungere? Vi sono in tal senso far-maci e strategie terapeutiche preferibili rispetto adaltre? E infine, possono eventuali differenze o somi-glianze di efficacia antipertensiva e protezione car-diovascolare tra i diversi farmaci essere stabilite concertezza sulla base degli studi correnti, che per ovvieragioni tecniche sono limitati a pochi anni della vitadel paziente?

Utilità della riduzione della pressionearteriosa nel diabetico iperteso

Non vi è alcun dubbio che nel paziente diabetico eiperteso una riduzione della pressione arteriosa abbiaun effetto protettivo, qualunque sia il farmaco o i far-maci impiegati per ottenerla. Ciò si può evincere dairisultati dello studio SHEP (1), nel quale pazienti dia-betici e non con ipertensione sistolica isolata mostra-vano una chiara riduzione di mortalità cardiovascola-re quando la pressione veniva ridotta con l’impiego diun diuretico tiazidico, eventualmente associato a unβ-bloccante. Si può inoltre evincere dai risultati di altristudi che hanno dimostrato come una altrettantochiara riduzione di patologia cardiovascolare si otte-nesse in pazienti ipertesi sistolici o sisto-diastolici conterapie basate sull’impiego di calcio-antagonisti (2) odi ACE-inibitori (3). Ottenere una riduzione di pres-sione arteriosa nel paziente nel quale l’ipertensione siaccompagna a diabete è pertanto necessario, perchéil beneficio è in prima istanza verosimilmente legatoalla riduzione della pressione in sé. Ciò viene perse-guito con misure antipertensive di carattere non far-macologico, che nel diabetico possono avere impor-tanza particolare anche ai fini di contribuire all’atte-nuazione dell’elevato profilo di rischio cardiovascola-re. Va però di solito anche perseguito con l’impiegodi farmaci antipertensivi, inclusi, se necessario, diure-tici e β-bloccanti. Il raggiungimento di tale obiettivoriveste una grande importanza anche perché l’entitàdel beneficio nei pochi anni successivi all’inizio dellaterapia è in genere correlata al rischio iniziale delpaziente ed è quindi maggiore nel paziente diabeticoche nel non diabetico. Ciò è stato messo in luce inmodo assai evidente dallo studio Syst-EUR su pazien-ti anziani con ipertensione sistolica che mostravano,

quando diabetici, una riduzione del rischio a seguitodella riduzione della pressione più che doppia rispet-to ai non diabetici (2).

Pressione arteriosa da raggiungerecon la terapia

Poiché la pressione da raggiungere con la terapia nonpuò essere determinata all’inizio, i valori di sistolica ediastolica che definiscono la massima protezione delpaziente ottenibile con i farmaci antipertensivi non èstata stabilita con precisione. È invece ormai acquisitoche nel diabetico iperteso una drastica riduzionedella pressione arteriosa sotto i 90 mmHg di diastoli-ca si accompagna non solo a una maggiore prote-zione renale (nel caso di concomitante nefropatia),ma anche a un netto ulteriore beneficio in termini dipatologia macro e micro-vascolare (4, 5). In questosenso è preferibile raccomandare come obiettivovalori diastolici il più vicino possibile a 80 mmHg evalori sistolici inferiori a 140 o anche 130 mmHg (6).Anche una ulteriore riduzione di 3-4 mmHg di pres-sione diastolica andrà perseguita con tenacia, perchénei pazienti diabetici ipertesi, e forse negli ipertesi adalto rischio, tale piccola differenza di valori pressoripuò accompagnarsi a una cospicua differenza dimorbilità e mortalità. Ciò è particolarmente desumi-bile dai risultati dello studio HOT, nel quale il rag-giungimento di pressione diastolica di 81 mmHg siaccompagnava, nel diabetico iperteso, a una ridu-zione di eventi patologici cardiovascolari del 50%rispetto al raggiungimento di pressioni diastoliche di85 mmHg. È anche desumibile dallo studio HOPE(7), nel quale i pazienti diabetici mostravano unanetta riduzione di patologia cardiovascolare per pic-colissime riduzioni, di pressione diastolica o sistolica,e ciò anche quando i valori pressori di partenzaerano nettamente inferiori a 140/90 mmHg.

Diversità tra farmaci antipertensivi

Come ricordato din precedenza, tutti i farmaci condimostrata efficacia antipertensiva possono essereimpiegati nel paziente diabetico, considerato che l’o-biettivo primario è una cospicua riduzione della pres-sione arteriosa. I “trial” con disegno sperimentalecontrollato fino ad ora disponibili non hanno chiaritose, rispetto ai farmaci più tradizionali come diuretici eβ-bloccanti, classi di farmaci più nuovi, se pur da annidi largo impiego, sono più protettivi. Da un lato infat-ti lo studio CAPPP (3) ha mostrato una riduzione di

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mortalità cardiovascolare nei pazienti diabetici tratta-ti con ACE-inibitore rispetto a quelli trattati con tera-pia tradizionale. Ciò non è risultato essere vero nellostudio UKPDS (8) e nel recente studio INSIGHT (9)nel quale il numero di eventi patologici cardiovasco-lari risultò non significativamente diverso in terapiacon un ace-inibitore o con un calcio-antagonista,rispetto alla terapia β-bloccante o diuretica, rispetti-vamente. Dati conclusivi non sono neppure disponi-bili a riguardo di una eventuale differenza tra le capa-cità protettive di calcio-antagonisti e ACE-inibitori.Lo studio FACET, che ha concluso a favore dei secon-di, può essere infatti criticato sotto vari aspetti (10).Inoltre l’analoga conclusione raggiunta per i diabeti-ci ipertesi reclutati nello studio ABCD si è rivelataessere influenzata in modo decisivo da una frequen-za di complicanze notevolmente ridotta nel gruppoin terapia con ACE-inibitori (11) e non è stata direcente confermata dai dati calcolati per i pazientidiabetici normotesi (12). Si deve pertanto conclude-re che la protezione cardiovascolare ottenibile neldiabetico iperteso nei primi anni successivi all’iniziodella terapia antipertensiva non è sostanzialmentediversa per i diversi farmaci.

Protezione a lungo termine

Il fatto che i trial sino ad ora eseguiti non abbianomostrato differenze di incidenza di eventi patologicicardiovascolari con l’impiego di diverse classi di far-maci non consente di affermare in modo conclusivoche tali differenze non esistano. Bisogna in primoluogo considerare che in alcuni casi gli studi non ave-vano la potenza necessaria per dimostrare statistica-mente eventuali differenze (8), problema verosimil-mente destinato a soluzione con l’uso meta-analiticodei dati ottenuti dai trial in corso, per un totale di oltre30.000 pazienti diabetici (13). Vi è inoltre anche daconsiderare che i trial disponibili attualmente o nelprossimo futuro non saranno in grado di rispondere alquesito delle eventuali differenze di protezione car-diovascolare sul lungo termine, protezione che riflettepiù completamente di quella misurabile nell’arco dipochi anni l’efficacia preventiva dei diversi interventiterapeutici. Tale efficacia si manifesta soprattuttoattraverso la prevenzione dell’insorgenza o dell’aggra-vamento di altri fattori di rischio cardiovascolare asso-ciati a ipertensione e diabete nonché, e in misura forseancora più importante, alla prevenzione del dannod’organo che progredisce silenziosamente per anniprima di emergere con complicanze cliniche. Saràimportante per la ricerca futura in questo campo otte-

nere informazioni sempre più complete sulla analogao diversa capacità dei diversi farmaci antipertensivi diprevenire lesioni strutturali cardiache e rimodella-mento e aterosclerosi vascolari, nonché di otteneredati conclusivi sul loro effetto favorevole sul profiloglicemico, onde estendere i dati sulla prevenzionenel diabetico iperteso a una finestra temporale piùadeguata. In questo contesto i risultati di alcuni trial(4, 9) che dimostrano come la terapia con calcio-antagonisti e ACE-inibitori si accompagni a unaminor incidenza di nuovi casi di diabete rispetto allaterapia convenzionale, possono essere clinicamenteimportanti.

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L’ASSOCIAZIONE DEI FARMACIÈ NECESSARIA IN MOLTI CASI? VI SONO ALCUNE ASSOCIAZIONIPIÙ INDICATE?B. TRIMARCO

Dipartimento di Medicina Clinica e Scienze Cardiovascolarie Immunologiche, Università “Federico II”, Napoli

Le linee guida per il trattamento dell’ipertensionearteriosa emanate nel 1993 dalla Società Interna-zionale dell’Ipertensione e dall’Organizzazione Mon-diale della Sanità a proposito del trattamento farma-cologico dell’ipertensione arteriosa indicano due pos-sibili strategie: la somministrazione di un’unica sostan-za a dosaggio pieno o, in alternativa, l’impiego di duesostanze a dosaggio ridotto. Questo secondo approc-cio trova verosimilmente la sua principale giustifica-zione nel tentativo di ridurre la probabilità d’insorgen-za di effetti collaterali; tuttavia esistono alcune consi-derazioni che possono costituire ulteriori elementi disupporto alla terapia di associazione, anche nel casofossero necessari dosaggi completi dei due farmaci. Èstato infatti descritto in studi comprendenti popola-zioni diverse che non più del 20% dei pazienti iperte-si sottoposti a terapia antipertensiva mostra un con-trollo soddisfacente della pressione arteriosa, vale adire esibisce valori di pressione arteriosa inferiori aquelli ritenuti patologici (1). Un’analisi più approfon-dita di questi dati consente di rilevare che in una per-centuale non secondaria di questi pazienti il cattivocontrollo dei valori pressori sembra ascrivibile a unascarsa compliance del paziente alla terapia, mentre in

molti altri casi esso è dovuto alla solo parziale efficaciadel trattamento instaurato. D’altra parte, per quel cheriguarda la compliance, è ben noto che l’aderenza delpaziente alla terapia si riduce progressivamenteaumentando in numero giornaliero delle compresseda assumere (2). È evidente che, se la questione vieneposta in questi termini, essa sembra irrisolvibile inquanto la soluzione di uno dei problemi posti porte-rebbe inevitabilmente a peggiorare l’altro. Tuttavia lapossibilità di avere più principi attivi in un’unica com-pressa può rappresentare in questo contesto il carat-teristico uovo di Colombo. Peraltro questa sceltaterapeutica non è completamente scevra di rischi, senon vengono utilizzate determinate cautele. Infatti,è evidente che la somministrazione contemporaneadi due farmaci, con meccanismo d’azione similecomporterà un minor vantaggio per l’effetto anti-pertensivo e maggiori rischi per gli effetti collaterali.Al contrario, l’impiego simultaneo di farmaci il cuieffetto antipertensivo si realizza mediante differentimeccanismi di azione, risulta particolarmente utileperché consente un completo sinergismo dei duecomposti. Anche in questo caso però non va consi-derato soltanto l’effetto di riduzione della pressionearteriosa, ma anche quelli di prevenzione o regres-sione del danno d’organo.

Efficacia antipertensiva

I risultati degli studi epidemiologici e dei trial clinicihanno evidenziato una stretta correlazione tra iper-tensione arteriosa ed eventi cardio- e cerebrovascola-ri. A tal proposito una metanalisi (3) condotta suirisultati di nove dei maggiori studi prospettici osser-vazionali comprendenti 420.000 soggetti con anam-nesi negativa per patologie cardiovascolari maggiorial momento dell’arruolamento e seguiti per un perio-do medio di 10 anni mostra un’associazione continuae indipendente tra i valori di pressione arteriosa e ilrischio di accidenti cerebrali o di cardiopatia ischemi-ca. In particolare un aumento della pressione arterio-sa diastolica di 5 o 10 mmHg è associata a un incre-mento del rischio cardiovascolare del 21 o del 37%rispettivamente. Dal momento che l’obiettivo deltrattamento antipertensivo è quello di ridurre l’ecce-denza di eventi cardio- e cerebrovascolari associatialla presenza di valori pressori al di sopra della norma,è evidente che, per raggiungere un tale obiettivo, ènecessaria una completa normalizzazione della pres-sione arteriosa.A questo proposito è opportuno ricordare l’osserva-zione pubblicata da Menard (4) su 11.613 pazienti in

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trattamento antipertensivo reclutati in Italia,Spagna, Inghilterra e Germania. Soltanto il 37% deipazienti mostrava valori di pressione diastolica con-tenuti entro il limite fissato dal medico curante.D’altra parte questo risultato sorprende solo parzial-mente quando si considera che in studi clinici con-trollati il trattamento antipertensivo con un solo far-maco è risultato efficace in una percentuale dipazienti compreso tra il 60% dei calcio-antagonistie il 45% dei diuretici, bloccanti del recettore α-adre-nergico e inibitori dell’enzima di conversione. Néquesto risultato sembra migliorabile con la disponi-bilità attuale dei farmaci antagonisti recettoriali del-l’angiotensina II. È evidente tuttavia la necessità dipotenziare la terapia antipertensiva così da ottenereuna reale normalizzazione dei livelli pressori. Questoobiettivo sembra raggiungibile con l’impiego diassociazioni farmacologiche. Infatti, da una parte,gli studi che hanno raffrontato l’effetto antipertensi-vo dei singoli componenti con quello della terapia dicombinazione hanno concordemente dimostratoche quest’ultima è in grado di indurre una cadutadella pressione superiore a quella ottenibile con lamonoterapia (5); dall’altra, è noto che la percentua-le dei pazienti che non mostra una riduzione dellapressione diastolica al di sotto dei 90 mmHg duran-te terapia antipertensiva di combinazione oscillaintorno all’80%.

Prevenzione e regressionedel danno d’organo

La riduzione della mortalità e della morbilità collega-ta all’ipertensione arteriosa richiede anche un pro-gramma terapeutico volto prevalentemente a con-trastare i meccanismi biologici, non dipendenti dallapressione arteriosa, coinvolti nella insorgenza e nellaprogressione delle alterazioni strutturali cardiovasco-lari nei pazienti ipertesi. Ad esempio, va consideratoche gli effetti metabolici e neuro-ormonali indeside-rati (iperglicemia, ipercolesterolemia, ipopotassie-mia, iperuricemia, attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone) indotti dai β-bloccanti edai diuretici possono spiegare la solo parziale effica-cia di questi farmaci di prevenire lo sviluppo dellacardiopatia ischemica negli ipertesi, nonostante laloro provata efficacia antipertensiva. Attualmentel’associazione dei diuretici con i β-bloccanti puòessere accettata dal momento che i β-bloccanti ridu-cono l’attivazione del sistema renina-angiotensinaindotta dalla deplezione di sale causata dai diuretici.L’associazione dei diuretici con gli ACE-inibitori è

comunque preferibile, poiché gli ACE-inibitori nonsolo annullano l’effetto negativo dei diuretici sulsistema renina-angiotensina, ma esercitano ancheun’azione favorevole sul metabolismo glicidico esoprattutto sul bilancio elettrolitico, contrastandocosì gli effetti metabolici negativi dei diuretici.Un’altra associazione da considerare è quella tra cal-cio-antagonisti e ACE-inibitori. Questa associazionefarmacologica ha il vantaggio di possedere un effet-to antipertensivo sinergico mediato da una vasodila-tazione periferica indotta attraverso differenti vie, edi non interferire negativamente con il metabolismoglicidico e lipidico.In particolare la terapia antipertensiva di combina-zione mediante l’effetto sinergico di farmaci appar-tenenti a queste due diverse classi sembra offriregrandi vantaggi, rispetto alla monoterapia, neipazienti ipertesi con cardiopatia ischemica, in cui lasomministrazione contemporanea di ACE-inibitori edi calcio-antagonisti appare particolarmente effica-ce. L’effetto antiproliferativo degli ACE-inibitori sullaparete miocardica e vascolare, i loro effetti emodina-mici, l’azione antiaterogena, la modulazione neuro-ormonale possono spiegare la capacità di questaclasse di farmaci di ridurre il rischio di eventi correla-ti alla cardiopatia ischemica. Tuttavia, sebbene ci sipossa attendere dagli ACE-inibitori, oltre a una ridu-zione della pressione arteriosa, un incremento delflusso coronarico, una riduzione della pressione diriempimento ventricolare e dell’attività simpatica,non è stato ancora ben dimostrato un effetto anti-schemico di tali farmaci. Al contrario i calcio-antago-nisti si sono dimostrati in grado di esercitare un’atti-vità vasodilatatrice a livello sistemico e soprattuttocoronarico. Questo effetto, insieme a quello negati-vo sul consumo di ossigeno miocardico, li pone inprimo piano come farmaci per il trattamento sinto-matico della cardiopatia ischemica. ACE-inibitori e calcio-antagonisti esplicano effetticomplementari anche a livello della parete vascolare(6): i primi, inibendo l’attività dell’ACE, bloccano laformazione di angiotensina II e prevengono ladegradazione della bradichinina, la cui azione vaso-dilatante si esprime stimolando la formazione di ossi-do nitrico e di prostaciclina. In particolare essi sem-brano in grado di correggere la disfunzione endote-liale tipica del paziente iperteso, ristabilendo unacorrelazione fisiologica tra variazioni del consumod’ossigeno e del flusso coronarico durante attivazio-ne simpatica (7). I calcio-antagonisti neutralizzanol’azione vasocostrittrice di ormoni quali l’endotelinaa livello della muscolatura liscia vascolare, bloccandol’ingresso del calcio e facilitando l’azione vasodila-

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GIDMtante dell’ossido nitrico (8). Riducendo la prolifera-zione delle cellule muscolari lisce parietali, i calcio-antagonisti esercitano inoltre un’azione vascolareprotettiva prevenendo la formazione e lo sviluppo diplacche aterosclerotiche (6). La complementarietà diazione di ACE-inibitori e calcio-antagonisti si esplicaanche in termini di effetti nefroprotettivi. A livellorenale ACE-inibitori e calcio-antagonisti contribui-scono alla riduzione della escrezione urinaria di albu-mina e alla diminuzione della pressione intraglome-rulare, il cui incremento è responsabile del dannorenale secondario a ipertensione arteriosa, diabete eaterosclerosi. Ancora una volta l’effetto dei due far-maci si esplica in maniera complementare: gli ACE-inibitori riducono le resistenze a livello dell’arteriolaefferente, mentre i calcio-antagonisti esercitano laloro azione vasodilatante sia a livello dell’arteriolaafferente che di quella efferente (6). Una considerazione a parte merita l’associazione diACE-inibitori e antagonisti AT1 dell'angiotensina II.L'uso combinato di queste due classi di farmacipotrebbe essere infatti particolarmente utile per laprevenzione della nefropatia, ma non ha un raziona-le tanto forte da poter essere considerato in primaistanza. Infatti, innanzitutto i lavori che hanno dimo-strato che l’aggiunta di una di queste classi di farma-ci alla terapia di pazienti già in trattamento con l’al-tra determina un’ulteriore riduzione della pressionearteriosa, non consentendo di escludere che uneffetto analogo si sarebbe potuto ottenere anchecon un aumento del farmaco già in corso. In secon-do luogo esiste oggi una documentata possibilitàche l’angiotensina II, che non può più legarsi airecettori AT1 occupati dall’antagonista, possa indur-re un aumento dell’espressione dei recettori AT2,ordinariamente poco espressi. Questi ultimi hannoeffetti emodinamici e biochimici opposti a quelli deirecettori AT1,per cui è verosimile che l’aumento dellaloro presenza possa contribuire a potenziare gli effet-ti del blocco del recettore AT1, spiegando così laragione della latenza necessaria per ottenere unarisposta completa con gli AT1 antagonisti. La sommi-nistrazione contemporanea degli ACE-inibitori, ridu-cendo la sintesi di angiotensina II, potrebbe determi-nare gli effetti mediati dalla stimolazione del recetto-re AT2. Infine, anche l’assunto che l’aggiunta degliACE-inibitori alla terapia con AT1 bloccanti potrebbeassicurare il coinvolgimento della bradichinina nellarisposta antipertensiva, non sembra del tutto corret-to. È stato infatti dimostrato che la stimolazione delrecettore AT2 dell’angiotensina è in grado di stimola-re l’attività dell’enzima che controlla la sintesi di chi-nine e quindi anche durante il trattamento con anta-

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gonisti recettoriali dell’angiotensina si ha un aumen-to della concentrazione di bradichinina, per unaumento della sintesi invece che per un rallentamen-to del catabolismo, come accade con gli ACE-inibi-tori. Al contrario, la somministrazione combinata diqueste due classi di farmaci potrebbe risultare utilenel trattamento dei pazienti con insufficienza cardia-ca che, a differenza dei pazienti ipertesi, sono carat-terizzati da un elevato tono del sistema renina-angiotensina-aldosterone e presentano il tipico“escape” del blocco dell’aldosterone da parte degliACE-inibitori.

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GIDMLA PRESENZA DI NEFROPATIADIABETICA PONE PROBLEMIPARTICOLARI PER LA TERAPIAANTIPERTENSIVA?G. DEFERRARI, C. CALVI

Nefrologia e Dialisi, Di.M.I, Università di Genova, Genova

La nefropatia diabetica rappresenta una delle princi-pali cause di insufficienza renale terminale (ESRD) neiPaesi occidentali e la sua incidenza è destinata adaumentare cospicuamente. Durante gli ultimi annipiù di un terzo di tutti i nuovi casi di ESRD in terapiasostitutiva negli Stati Uniti e il 17% in Europa sonorappresentati da pazienti diabetici (1); in Italia il 12-19% dei nuovi pazienti in terapia sostitutiva è rappre-sentato da pazienti diabetici (2, 3). Circa la metà deinuovi pazienti sono affetti da diabete di tipo 2 (4). Lanefropatia diabetica non è solo causa di ESRD, ma èfrequentemente associata ad aumentata incidenza dimorbilità e mortalità cardiovascolare (5).È stato Mogensen a definire dettagliatamente la sto-ria naturale della nefropatia diabetica nei pazienti condiabete tipo 1, evidenziando che circa il 30-35% deipazienti progrediscono verso l’ESRD (6). Inizialmentesi sviluppano ipertrofia renale e iperfiltrazione; dopocirca 7-13 anni nel cosiddetto stadio della “nefropatiaincipiente” compare microalbuminuria e quindidopo circa 10-20 anni insorge la nefropatia clinica,caratterizzata da proteinuria clinica persistente. Aquesto stadio il declino del filtrato è pari a 8-10mlL/min per anno. Nel diabete tipo 2 l’incidenzacumulativa e il decorso nella nefropatia clinica sonosimili, con un declino del filtrato lievemente più lentoe un’incidenza cumulativa di ESRD di circa il 10% (7). L’ipertensione è un importante fattore di rischio nellaprogressione del danno renale nel diabete. I datiemersi da numerosi studi dimostrano che l’iperten-sione arteriosa si associa frequentemente al dannorenale sia nel diabete di tipo 1 che nel tipo 2 (5, 7, 8).Una volta comparsa la microalbuminuria, la correzio-ne dello stato ipertensivo è, in associazione al con-trollo glicemico, lo strumento più efficace per rallen-tare la progressione verso la nefropatia conclamatasia nei pazienti con diabete tipo 1 che tipo 2 (7).Nei pazienti con nefropatia clinica il controllo glice-mico sembra non influenzare significativamente l’an-damento della nefropatia, benché esso comunqueinfluenzi le altre sequele micro- e macroangiopatichedella malattia diabetica; l’ipertensione diventa il fat-tore determinante nell’accelerare il declino del filtra-to e nella progressione verso l’ESRD. Dati emersi da

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studi longitudinali su pazienti con diabete tipo 1 etipo 2 dimostrano una stretta correlazione tra cadutadel filtrato e valori pressori (9, 10). Studi condotti supazienti con diabete tipo 1 mostrano come livellipressori di circa 135/85 mmHg riescano a rallentare ildeclino del filtrato. Tutti i farmaci antipertensivi utiliz-zati, a parità di livelli pressori ottenuti, si dimostranoefficaci. Una metanalisi di 9 studi longitudinali ese-guiti su pazienti con diabete tipo 1, in trattamentocon farmaci antipertensivi appartenenti a diverseclassi, mostra il ruolo determinante della riduzionedella pressione arteriosa nel ridurre il declino del fil-trato glomerulare (7) (fig. 1). Sfortunatamente esisto-no pochi dati in letteratura riguardanti pazienti condiabete tipo 2 con nefropatia clinica; studi della dura-ta di almeno 18 mesi suggeriscono che la riduzionedei valori pressori sia, indipendentemente dal farma-co utilizzato, determinante nel ridurre il declino delfiltrato. Una metanalisi di 5 studi longitudinali dispo-nibili conferma questa affermazione (fig. 2). I datirecentemente pubblicati dall’UK Perspective StudyGroup non dimostrano differenze significative traACE-nibitore e beta-bloccante (11). Si delinea, quindi, nei pazienti microalbuminurici eproteinurici, la necessità di raggiungere un controllopressorio ottimale. Indipendentemente dalla defini-zione di pressione arteriosa nella popolazione gene-rale (PA ≥ 140/90 mmHg), il paziente diabetico deveessere trattato con terapia antipertensiva in presenzadi valori di diastolica ≥ 85 mmHg e di sistolica ≥ 130mmHg (12, 13). Valori pressori al di sotto di questiappena citati sono purtroppo molto difficili da otte-nere e spesso in presenza di nefropatia clinica ènecessaria l’associazione di più farmaci. A questo pro-

Fig. 1. Relazione tra la pressione arteriosa media e la riduzione delfiltrato glomerulare in pazienti con diabete di tipo 1 e nefropatiaclinica [da Deferrari et al., Diabetes/Metab. Rev., 1997 (7)]n nessuna terapia antipertensiva; lterapia convenzionale; sACE-I ±diuretici; tACE-I + terapia convenzionale; u β-bloccanti ± diuretici.FG: filtrato glomerulare; PAM: pressione arteriosa media

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posito è da sottolineare l’importanza di utilizzare tuttii farmaci a disposizione, in varie combinazioni, ma dinon accontentarsi di un controllo pressorio subotti-male. I valori ottimali di pressione arteriosa sono neipazienti di età inferiore ai 50 anni di circa 120/70-75mmHg e di 125-130/80-85 mmHg nei pazienti di etàsuperiore ai 50 anni (13, 14). Al di là della riduzione pressoria, esiste evidenza,ancorché dibattuta, che la terapia con alcuni farmaciantipertensivi sia particolarmente efficace dal puntodi vista renoprotettivo; sono comunemente conside-rati da questo punto di vista ACE-inibitori, antagoni-sti dei recettori dell’angiotensina e anche calcio-anta-gonisti.Sempre più numerose evidenze indicano che il siste-ma renina-angiotensina-aldosterone (SRAA) giochiun ruolo importante nello sviluppo della nefropatiadiabetica, non solo a livello sistemico ma anche alivello tissutale. Mentre il SRAA plasmatico è impor-tante per i meccanismi acuti di regolazione, il sistematissutale potrebbe essere coinvolto soprattutto neimeccanismi cronici di regolazione vascolare renale.L’angiotensina II, i cui livelli sono circa mille volte piùalti nel rene che nel plasma, potrebbe legarsi ai recet-tori glomerulari e causare contrazione delle cellulemesangiali e costrizione delle arteriole, afferente esoprattutto efferente, determinando un’alterazionedel coefficiente di ultrafiltrazione glomerulare e dellapressione capillare glomerulare (15). Questi meccani-smi potrebbero provocare proteinuria, iperplasiadelle cellule mesangiali e tubulari, aumentata produ-zione di matrice mesangiale e, in ultimo, glomerulo-sclerosi e fibrosi interstiziale (15). L’angiotensina II,infine, influenza la crescita cellulare sia direttamente

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Fig. 2. Relazione tra la pressione arteriosa media e la riduzione delfiltrato glomerulare in pazienti con diabete di tipo 2 e nefropatiaclinica. lTerapia convenzionale; s ACE-I ± diuretici; u b-bloccanti ± diure-tici; 6 Ca-antagonistiFG: filtrato glomerulare; PAM: pressione arteriosa media

sia attraverso l’azione di numerosi fattori di crescita ecitochine, contribuendo alla proliferazione/ipertrofiadelle cellule mesangiali, aumentata produzione dimatrice extracellulare e riduzione dell’apoptosi e inquesto modo ulteriormente allo sviluppo di glomeru-losclerosi e fibrosi interstiziale (15).Tutti questi effetti sono stati dimostrati sull’animale,ed è interessante notare come la maggior parte diquesti siano attenuati dagli ACE-inibitori o dagli anta-gonisti del recettore dell’angiotensina II. I dati emersirendono verosimile quindi che l’inibizione farmacolo-gica del SRAA possa giocare un ruolo importante nelprevenire lo sviluppo e rallentare la progressione dellanefropatia diabetica (prevenzione primaria, seconda-ria e terziaria) (16).Il ruolo degli ACE-inibitori nella prevenzione primariaè ancora peraltro incerto; un recente studio (17)dimostra su un buon numero di pazienti seguiti per unlungo periodo che la terapia con ACE-nibitori è ingrado di ridurre cospicuamente l’incidenza di microal-buminuria in pazienti normoalbuminurici normotesicon diabete tipo 2. Uno studio simile (EUCLID) supazienti con diabete tipo 1 normoalbuminurici hadato risultati inconclusivi (18). Lo studio POND è infase ormai avanzata (comunicazione personale).Nei pazienti microalbuminurici normotesi, gli ACE-inibitori riducono significativamente l’incidenza dinefropatia clinica. È interessante notare come questovenga ottenuto indipendentemente dai valori presso-ri, anche se bisogna sottolineare che in quattro studisu sei i valori pressori erano lievemente, ma significa-tivamente, più bassi nel gruppo trattato con ACE-ini-bitore (7, 19). Una recente metanalisi mostra che gliACE-inibitori riducono circa dell’80% la progressioneda micro- a macroalbuminuria in pazienti con diabe-te tipo 1 (13). Tutti questi dati sembrano quindidimostrare uno specifico effetto degli ACE-inibitorinel prevenire lo sviluppo di nefropatia clinica sia neipazienti con diabete tipo 1 che tipo 2. Pertanto que-sti farmaci sono da considerare la prima scelta in que-sto stadio del danno renale.Nei pazienti con nefropatia clinica, come riportato inprecedenza, la riduzione della pressione arteriosa avalori di circa 135/85 sembra avere un ruolo predo-minante nel rallentare il declino del filtrato glomeru-lare (figg. 1 e 2), anche se gli studi disponibili sonoancora pochi, specie nel diabete di tipo 2. Nono-stante le controversie sul ruolo specifico degli ACE ini-bitori a questo stadio, lo studio di Lewis et al. ha por-tato un contributo rilevante, dimostrando che neipazienti con diabete di tipo 1 gli ACE-inibitori riduco-no significativamente la necessità di terapia sostituti-va e anche la mortalità (20). Anche se nei diabetici

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con nefropatia clinica gli ACE-inibitori non sembranoessere chiaramente più efficaci di altri farmaci, sonoda considerare tuttavia farmaci di prima scelta, alme-no nei pazienti con creatinina inferiore a 3 mg/dL,non solo per la loro azione renoprotettiva, ma ancheper la loro buona tollerabilità e l’assenza di effettinegativi sul metabolismo glico-lipidico (7, 13).Negli ultimi anni l’introduzione degli antagonisti delrecettore dell’angiotensina II, capaci di contrastarel’effetto periferico dell’angiotensina II sfruttando l’ini-bizione del SRAA a un livello diverso della cascata, hariscosso grande interesse. I risultati del lavoro diGansevoort (21), che pone a confronto ACE-inibitorie antagonisti del recettore, sembrano suggerire unsovrapponibile effetto antiproteinurico a parità divalori pressori. Sono necessari quindi ulteriori lavoriclinici che valutino un possibile effetto renoprotettivodi una più completa inibizione del SRAA; due studi,IDNT e RENAAL, sono in fase conclusiva.Recentemente si è sviluppato notevole interesse per ilpossibile effetto renoprotettivo dei calcio-antagoni-sti. Questi farmaci, dilatando preferibilmente l’arte-riola afferente, dovrebbero causare un aumento dellapressione intraglomerulare, a lungo termine nocivaalla funzione renale. Tuttavia la riduzione dell’ipertro-fia renale, una possibile modulazione degli effettivasocostrittivi e proliferativi dell’angiotensina, non-ché la riduzione degli effetti mitogeni dei fattori dicrescita, potrebbero giocare un ruolo importante nelritardare il declino del filtrato (22).Un recente trial dell’Italian Microalbuminuric StudyGroup (19) dimostra che la nifedipina ha un’efficaciasovrapponibile a un ACE-inibitore, Lisinopril, nelridurre l’incidenza di nefropatia clinica in 137 pazien-ti con diabete tipo 1 microalbuminurici. Anche neipazienti con diabete tipo 2 e microalbuminuria que-sti farmaci esercitano un effetto renoprotettivo simileagli ACE-inibitori (23-24). Analogo risultato è statoottenuto in uno studio nei diabetici tipo 2 protenuri-ci (25).Deve peraltro essere sottolineato che alcuni studisuggeriscono una più elevata incidenza di eventi car-diovascolari nei pazienti con diabete tipo 2 ipertesitrattati con calcio-antagonisti; tali dati non sono statituttavia confermati da vasti trial quali lo studio HOT elo studio ALLHAT (13).È infine da ricordare che un trattamento antipertensi-vo efficace nei pazienti con diabete tipo 1 e tipo 2non solo sembra ridurre la progressione della nefro-patia, ma anche il rischio di mortalità; tale effetto èstato in particolare dimostrato per gli ACE-inibitori(20, 26, 27).La Società italiana di Nefrologia e La Società Italiana

di Diabetologia hanno recentemente formulato, inun documento congiunto, le raccomandazioni per laprevenzione e il trattamento della nefropatia diabeti-ca, che sono in sintonia con quanto sopra riportato(13). L’approccio terapeutico comunque deve essereintensivo e multifattoriale: devono essere raggiunti ilivelli ottimali di pressione arteriosa utilizzando piùfarmaci antipertensivi (tra questi gli ACE-inibitori senon controindicati) deve essere anche ottenuto unbuon controllo glicemico e la correzione della dislipi-demia; non va trascurata infine l’assunzione diantiaggreganti piastrinici (28).Infine è interessante notare come un buon controllodei valori pressori e forse l’uso di ACE-inibitori riesca-no a prevenire e/o a rallentare l’evoluzione della reti-nopatia diabetica. Dallo studio EUCLID (18) nel dia-bete tipo 1 e dai risultati di Ravid et al. nel diabetetipo 2 (17) emergono risultati confortanti.

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COMMENTO FINALEP. CAVALLO PERIN

La pressione arteriosa è uno degli indici della qualitàdella cura del diabete e la correzione dell’ipertensio-ne deve essere inquadrata in un programma genera-le finalizzato alla riduzione del rischio macro- emicrovascolare. Il paziente diabetico con ipertensio-ne possiede, per definizione, almeno due fattori dirischio, appunto il diabete e l’ipertensione. Nellamaggior parte dei casi presenta però altri fattori dirischio associati: dislipidemia, obesità, fumo ecc. Lavalutazione del rischio globale nel singolo soggettoinfluenza la decisione di iniziare il trattamento anti-pertensivo e la scelta degli strumenti più appropriati,consentendo di collocare la correzione della pressio-ne arteriosa in un intervento integrato sugli altri fat-tori di rischio modificabili. I criteri per la diagnosi diipertensione nel diabetico (pressione sistolica o dia-stolica > 140/90 mmHg) non differiscono da quellidel soggetto non diabetico e, nell’ambito dellapopolazione adulta, non differiscono nel giovanedall’anziano. I valori di pressione utilizzati come cri-terio diagnostico per ipertensione non si identificanocon i valori di pressione desiderabili e il paziente dia-betico costituisce un tipico esempio in cui l’interven-to sulla pressione risulta talora necessario anche inassenza di ipertensione, come nel caso della microal-buminuria. In generale, valori ≥130/85 mmHgrichiedono un intervento terapeutico non farmaco-logico e/o farmacologico. I valori entro i quali lapressione arteriosa deve essere corretta con la tera-pia devono essere stabiliti in funzione dell’età, dellecomplicanze del diabete, delle lesioni cardiovascola-

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GIDMri e del danno agli organi bersaglio dell’ipertensione.Lo sforzo del medico deve essere rivolto a modifica-re lo stile di vita del paziente diabetico iperteso e allascelta oculata dei farmaci meno svantaggiosi. Lacontinua informazione del paziente e il monitorag-gio a lungo termine delle complicanze del diabete edelle condizioni degli organi bersaglio dell’iperten-sione costituiscono l’elemento indispensabile pergarantire l’efficacia e ridurre i rischi dell’intervento

terapeutico. La prevenzione o la ritardata evoluzionedelle lesioni vascolari macro- e microangiopatiche sitraduce in un aumento della sopravvivenza e, fattoancora più rilevante, in un miglioramento della qua-lità di vita del paziente diabetico. Ringrazio vivamente gli amici che hanno partecipatoal Forum per il tempo e l’impegno che hanno volutodedicare per mettere a disposizione di tutti la loropreparazione ed esperienza.

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