Onora te stesso

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di Benito Gagliardi, mainstream A Napoli, l’organizzazione di un matrimonio è anche il momento in cui si esibisce il prestigio di una famiglia. Gennaro, alla ricerca disperata dei soldi necessari per far sposare sua figlia, si rivolge alla malavita locale accettando un lavoro disonesto. Parte per un viaggio in Marocco per svolgere il compito affidatogli, ma al ritorno a Napoli, sulla tangenziale vicina all’aeroporto, investe Michele, un bambino appartenente a una baby gang, che proprio in quella zona stava portando a termine una prova di coraggio. Il rimorso per il gesto commesso lo perseguita nei giorni a venire fino a quando, all’uscita dal proprio negozio, Gennaro vede per strada suo nipote, neolaureato, e gli va incontro per congratularsi con lui. È in quel momento che accade l'evento che gli dà la possibilità di mettersi in pace con il mondo.

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BENITO GAGLIARDI 

 

 

 

 

ONORA TE STESSO 

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Serie BIG‐C  Grandi Caratteri, lettura facilitata 

ONORA TE STESSO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-658-5 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Gennaio 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

 

 

 

 

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Il  dialetto  utilizzato  all’interno  del  romanzo  non  è  quello 

corretto. L’intento è di rendere le frasi in napoletano quan‐

to più comprensibili, sperando che nessuno si offenda. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il mondo è iniquità:  

se lo accetti sei complice, se lo cambi sei carnefice. 

Jean‐Paul Sartre 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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A chi ha letto il mio primo libro e  

a Maria Francesca  

che rende belle le giornate anche quando non lo sono 

 

 

 

 

 

 

 

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I MORTI 

 

 

 

 

Oroscopo del 2 novembre: 

“Cancro:  la  settimana che  sta per  iniziare non  sarà delle 

migliori.  Venere  e  Saturno  non  sono  dalla  vostra  parte. 

Soffrirete di mal di testa e avrete dolori diffusi per tutto il 

corpo. Se dovete concludere affari o investimenti rinviate 

tutto,  altrimenti  rischiereste  di  fare  un  grosso  buco 

nell’acqua.  In  amore  potrebbero  esserci  incomprensioni 

con il vostro partner. Il nostro consiglio è: giocate in dife‐

sa.” 

 

È probabile  che  se  avessi  sentito prima  il mio oroscopo 

non sarei partito. Avrei senz’altro rinviato. Oltretutto non 

riesco a spiegarmi perché mi sia messo contro sia Saturno 

sia Venere. Eppure non gli ho fatto nulla. Del resto è così 

che va per tutti: 

Abbiamo bisogno dei quiz per sapere chi siamo. 

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Abbiamo bisogno dei  tarocchi per  sapere se  siamo  inna‐

morati. Abbiamo bisogno degli  sceneggiati  televisivi per 

piangere.  Abbiamo  bisogno  dell’ordine  del  nostro  capo 

per lavorare. Siamo schiavi degli eventi e ci arrendiamo al‐

la  loro  forza. Obbediamo senza alcun segno di  ribellione 

ai capricci del fato. Siamo convinti di avere dei nemici e di 

essere in guerra chissà con chi o cosa. Siamo sicuri che le 

nostre disfatte derivino da qualche forza superiore che si 

diverte a prendersi gioco di noi, ma il vero demone è den‐

tro di noi. È lì che si gioca la partita. 

 

Subito dopo aver  sentito  l’oroscopo,  cambio  la  stazione 

radio  e pesco dal  cilindro un pezzo di Cocciante  che  fa‐

rebbe venire i brividi perfino ascoltarlo in una sauna: 

“Sincerità, questo è il nome che io vorrei dare a te”. 

Hai presente quando guidi e viene fuori una canzone che 

vorresti  tanto  cantare, ma  non  riesci  a  pronunciare  una 

sola parola altrimenti piangi? Ecco, non è proprio quello 

che mi sta succedendo, ma ci siamo vicini. 

 

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«Allora ditelo che vi siete messi d’accordo per rompermi il 

cazzo stamattina!» 

 

Se ci fosse stata mia figlia Rosaria avrebbe risposto: “Ma 

serio.” 

 

Sul sedile di  fianco a me c’è Nicola “Dom Pérignon” e  la 

sua affermazione è decisamente migliore di quella che a‐

vrebbe  avuto mia  figlia:  «Gennà, ma  non  stai  buono  o’ 

frat?». 

 

Il mio dito magico continua a pigiare lo stereo e pesca un 

altro capolavoro degli anni sessanta, che  fa: “Stasera mi 

butto, stasera mi butto, mi butto con te”. La canto a mo‐

do mio  e  la  trasformo  in:  «Stasera mi  butto,  stasera mi 

butto, ca capa into cess». 

«Vabbè, ma allora è confermato che non stai buono, Gen‐

nà» mi dice Nicola. 

Conobbi  Nicola  in  occasione  della morte  di mio  padre. 

Serviva un loculo e  il cimitero di Secondigliano era pieno. 

Il problema del posto a Napoli è molto sentito. Anche nel 

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cimitero è difficile trovarne uno. Non c’erano  loculi nem‐

meno  a pagarli oro. Mi  resi  conto  che  a Napoli bisogna 

avere  le conoscenze pure dopo  la morte. È difficile addi‐

rittura riposare in pace se muori in una città come questa. 

Non mi feci scrupoli sulle attività losche poste in essere da 

Dom Pérignon. Del  resto mia madre mi aveva sempre  ri‐

petuto: «Bisogna farsela con tutti, Gennaro mio. Coi buoni 

e coi cattivi!». 

Dom Pérignon si presentò all’appuntamento presso il bar 

La Ghirlanda, di fronte al cimitero. La prima cosa che notai 

furono i suoi numerosi tattoo sulle sue braccia muscolose 

e il suo ciuffo alla Little Tony. Dom Pérignon mi spiegò che 

in quel periodo non era affatto semplice trovare un  locu‐

lo. 

 

«Gennà,» disse «se vuoi seppellire tuo padre ci devi dare il 

formaggio, bisogna organizzare lo sfratto.» 

«Che c’entra lo sfratto col funerale di mio padre?» 

«Gennà, non  fare  l’indiano. Per avere un  loculo, occorre 

che qualcun altro sia sfrattato. Dobbiamo fare l’indagine.» 

«L’indagine?» 

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«Gennà,  facci  lavorare.  Dobbiamo  capire  quale  loculo 

possiamo sfrattare. Si sfrattano  i morti che non ricevono 

più visite. Capiscimi…» 

 

Dovetti sborsare ottomila euro per seppellire mio padre. 

Inoltre,  da  allora,  per  difendere  l’investimento,  compro 

due mazzi di  fiori tutte  le domeniche per evitare che an‐

che mio padre possa essere sfrattato. 

Giunti all’aeroporto, Dom Pérignon mi  fornisce  le ultime 

istruzioni. Dovrò  essere discreto  e non  appena giunto  a 

Marrakesh dovrò chiamare Nino D’Angelo. «È così che si 

fa chiamare il nostro contatto» mi spiega Dom Pérignon. 

Subito dopo, Dom Pérignon mi saluta alla svelta, metten‐

domi un bigliettino nel taschino della giacca. 

Ho preso molte volte  l’aereo, eppure  tremo come  la pri‐

ma volta. Hai presente quando  la paura ti afferra  le gam‐

be e le braccia e non ti permette di muovere gli arti? Ecco, 

sto provando qualcosa di simile in questo momento. 

Fosse per me, limiterei al massimo l’uso di questo mezzo, 

ma c’è  il matrimonio di mia figlia da organizzare e ho do‐

vuto  richiedere  nuovamente  l’aiuto  di Dom  Pérignon. A 

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Napoli  i matrimoni sono una questione di onore. Bisogna 

mostrare al quartiere la ricchezza di famiglia, anche quella 

che non c’è. Soprattutto quella. Organizzare un matrimo‐

nio a Napoli costa  in media sui quarantamila euro. Risto‐

rante, bomboniere, viaggio di nozze, chiesa, fiori. Non ci si 

può accontentare. Non si può fare a meno di nulla. I ma‐

trimoni  sono  un  vero  business  a  Napoli.  Il  prezzo  delle 

chiese può arrivare fino a mille euro. Tuttavia, la tassa del 

vicariato non dovrebbe superare i duecentocinquanta eu‐

ro  circa. Per non parlare dei  ristoranti. Un pranzo  costa 

dai settanta ai centocinquanta euro per persona. Se anda‐

te a mangiare nello stesso ristorante in un’altra occasione 

non spenderete più di quaranta euro per un pranzo, ma è 

una questione di prestigio. Si rischia di perdere credibilità 

all’interno del quartiere se non ci si sposa in questo modo. 

Anche  volendo,  non  potremmo  fare  diversamente.  Sa‐

rebbe una vergogna. 

 

Appena varco  la porta dell’aeroporto, mi viene un dolore 

allo stomaco e alla vescica e sono costretto ad andare  in 

bagno. 

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Le porte delle turche sono tutte chiuse, porca miseria. Di 

fronte alle porte c’è un orinatoio libero, ma non ci riesco. 

Ho  la  sensazione  che  chi  pisci  lì,  lo  faccia  perché  vuole 

guardarti  il pisello. Uno potrebbe pensare che non mi va‐

da che me lo guardino perché ce l’ho piccolo, ma la verità 

è  che provo  fastidio al  solo pensiero  che un altro uomo 

me  lo  guardi  e magari  si  ecciti.  E  poi  fateci  caso,  sono 

sempre  i vecchietti e  i tipi strani a pisciare all’aperto. Co‐

me cazzo si fa a pisciare avendo due tizi, uno alla tua sini‐

stra e un altro alla  tua destra  che buttano  l’occhio  sulle 

tue parti basse, me lo dite? 

Questo  specchio  è  poco  benevolo  con me. Mica  ho  la 

fronte  così  larga;  anche  la  stempiatura  è  accentuata. 

Nemmeno la pancia è così come appare. Farò un reclamo. 

 

“Gennà, fai proprio schifo. Ti devi dare una regolata.” 

“Che cazzo vuoi?” mi rispondo. 

“Mangi come un turco in calore. Hai fatto la stessa panza 

di Maurizio Costanzo.” 

“Guarda a te” mi rispondo. 

“Ma te sono io” mi ridico a mia volta. 

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“Ucciditi” mi dico. 

 

Manca  ancora  una mezz’oretta  prima  dell’imbarco,  così 

compro Cronache di Napoli e mi metto a sedere. Di fronte 

a me c’è un uomo ben vestito che legge Il Sole 24 Ore. Mi 

hanno  sempre  affascinato  le  persone  che  leggono  quei 

giornali. Ho sempre pensato che avessero un’intelligenza 

fuori del comune. Io non ci capisco un tubo. Una volta ho 

provato ad acquistarne uno prima di un viaggio  in treno. 

Volevo  darmi  un  tono. Naturalmente,  dopo  dieci minuti 

ero già con gli occhi concentrati sul mio Cronache di Na‐

poli. 

«Come va la borsa oggi?» gli chiedo. 

«Il guaio  in Italia è che nessuno fa ciò che sa. A vendere  i 

titoli ci mettono persone che conoscono poco o nulla di 

ciò che vende. E peggio ancora chi acquista lo fa solo per 

la mania del “gioco”» risponde lui. 

«Dottò, è  la storia di  tutti  i giorni. Nessuno  fa ciò che sa 

fare. È  la malattia dei giorni nostri questa. Che  ci volete 

fare?» 

«Lei forse ha ragione.» 

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«Dottò, dove siete diretto?» 

«Milano.» 

«Andate dove stanno i soldi veri, dottò.» 

«I soldi non esistono più. Ormai siamo nell’era della carto‐

larizzazione.» 

«E che significa? Parlate potabile, dottò.» 

«Lasciamo  stare.  Io  la  saluto  che  finalmente  inizia  il mio 

imbarco.» 

«Buon viaggio, dottò.» 

«Anche a lei.» 

 

Purtroppo sta per iniziare anche il mio d’imbarco e non ho 

più  la compagnia del genio della finanza. Mi sarei sentito 

più al sicuro se avessi viaggiato con lui. 

Alla fine le persone che leggono Il Sole 24 Ore in un modo 

o  nell’altro  riescono  sempre  a  cavarsela. Mio  padre  sa‐

rebbe fiero di me se mi sentisse pronunciare queste mas‐

sime. 

Sull’aereo faccio giusto in tempo a sedermi e ingoio subi‐

to  il mio  calmante.  Il mio posto è  il migliore. Sono nella 

prima  fila  e  posso  tranquillamente  stendere  le  gambe 

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senza che qualcuno  si giri e mi  faccia capire  senza dirmi 

niente che gli do fastidio. Roba che ti viene da dirgli: 

«Parla,  deficiente,  cosa  vuoi  dirmi  con  questa  occhiata? 

Caccia le palle.» 

Al  che  lui mi  risponderebbe probabilmente  che  sono un 

maleducato e a questo punto si aspetterebbe di tirare a‐

vanti con la discussione fino a quando le hostess non ci ri‐

chiamassero. Invece io, sì che saprei come sorprenderlo. 

Per fortuna sono  in prima fila e non dovrò discutere con 

nessuno. Dopo un po’ le hostess preparano il loro teatrino 

e iniziano a pigliarci per il culo con la menata del salvagen‐

te e della mascherina per  l’ossigeno. Una di  loro parla al 

microfono e l’altra mima. Mentre loro continuano questo 

spettacolo penoso la maggior parte delle persone legge il 

giornale,  qualcun  altro  spegne  il  cellulare,  altri  ancora 

chiudono gli occhi cercando di pensare ad altro. 

Io invece butto giù un altro calmante. Tanto se succedes‐

se  qualcosa, moriremmo  tutti,  con  o  senza  salvagente. 

Con o senza mascherina. Oggi è il giorno dei morti. “Quale 

giorno migliore per  aggregarsi  al  club?” penso  tra me e 

me. Mi viene in mente che non sono andato a trovare mio 

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padre e mi prende un pizzico di  senso di  colpa. Ricordo 

ancora il giorno in cui è morto. Mi ripetevano tutti le stes‐

se cose: «Gennà, però si è fatto una bella vecchiaia». 

«Gennà, ha campato assai.» 

«Gennà, aveva un’età.» 

Nessuno  ebbe  compassione  per  il mio  dolore.  Quando 

una  persona  anziana muore,  sembra  che  non  si  debba 

soffrire. Sembra che non si abbia il diritto di piangere. Mio 

padre era un uomo semplice e silenzioso, ma soprattutto 

era un gran lavoratore. Una vita intera passata a lavorare 

senza mai farsi passare un vero sfizio. 

Mio padre era felice solo  la domenica mattina: sfoggiava 

sempre  l’abito  e metteva  anche  la  cravatta.  Sarà  che  la 

cravatta mette in pace con il mondo, ma lui era contento 

quando  la  indossava. Aveva  le mani nere e  logorate dalla 

fatica, ma se non ti soffermavi su quei dettagli sembrava 

davvero un gran signore, mio padre, la domenica mattina. 

Il pranzo domenicale gli metteva gioia, e dopo essersi sco‐

lato una bottiglia di vino iniziava anche a parlare. 

Di solito stava zitto. Quando tornava da  lavoro mangiava 

e andava a  letto subito dopo senza dire una sola parola. 

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La domenica, invece, dopo aver bevuto iniziava a ridere, a 

parlare e a raccontare qualche aneddoto della sua vita. Il 

più delle volte ci raccontava qualche episodio capitatogli 

durante la guerra e noi tutti pendevamo dalle sue labbra. 

Perché la guerra è affascinante e chi dice il contrario è un 

depresso  imbottito di psicofarmaci. Poi, però, perdeva  il 

controllo della situazione e finiva per alzare le mani su no‐

stra madre. 

Il pomeriggio  lo passava russando e scoreggiando sul di‐

vano, ma quando la sbronza gli passava ci portava a Mer‐

gellina a mangiare  il gelato.  Lui e mamma,  invece, man‐

giavano i taralli o la trippa. A dire il vero anch’io ero felice 

la domenica. Mi piaceva vedere la famiglia unita e mio pa‐

dre che tentava goffamente di fare il padre. Quando si fa‐

ceva sera, da Mergellina si vedevano tutte le luci di Posil‐

lipo e soprattutto si vedeva la chiesa di Sant’Antonio tutta 

illuminata.  Era  un  vero  spettacolo. Mia mamma mi  rac‐

contava che era il paradiso e che in quella chiesa abitava‐

no Gesù,  la Madonna e tutti  i santi. «E Dio dove vive?»  le 

chiedevo. Lei mi rispondeva che Dio è ovunque  a vegliare 

su di noi. Sono queste piccole bugie che ti fanno sembra‐

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re il mondo meraviglioso, anche quando sei piccolo. Oggi 

non  sono andato a  trovarlo e mi  sento una merda. L’ho 

trattato come una cosa vecchia anch’io. Si sarà offeso. Hai 

voglia a comprargli i fiori tutte le settimane. Sta sempre lì 

a metterti il muso. Sempre a rimproverarti qualcosa. Quel 

loculo mi è costato una fortuna, ma mica lo apprezza. Do‐

vrei pensare solo a me, ma con il cazzo che ci riesco. Ci sta 

poco da fare, l’unico comandamento da rispettare è: ono‐

ra te stesso. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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MARRAKESH 

 

 

 

 

Oggi mi sento da Dio. Ci sono giorni in cui ci si sente in pa‐

ce con il mondo. In giorni come questi, nonostante la mia 

artrosi, sarei capace di dribblare e  fare un sombrero con 

tunnel  in omaggio ad Aronica. Mi chiederete dove sta  la 

difficoltà, ma  il  concetto  lo  avrete  afferrato.  Il più  delle 

volte  finisce  che  in  questi  giorni  qui  non  ti  capita  nulla. 

Quelli,  i guai e gli  imprevisti, sono organizzati, che vi cre‐

dete? Escono fuori proprio quando vi sentite una merda. 

Mica sono fessi. 

Appena dopo l’atterraggio sono vittima di un attentato. È 

l’afa che mi mette due mani alla gola e mi soffoca. Avevo 

letto che a novembre il clima è ideale. Non oso immagina‐

re ad agosto. 

Vedendo  l’aeroporto,  capisco  che  a  Napoli  non  siamo 

messi poi tanto male. Il nostro guaio è che siamo sempre 

a  lamentarci.  Ci  accorgiamo  di  quanto  è  bella  la  nostra 

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terra  solo quando  siamo  lontani da  lei. Perfino gli artisti 

provano  la  stessa  sensazione.  Bovio  non  avrebbe  mai 

scritto Lacrime napulitane  se non  si  fosse allontanato da 

Napoli per un periodo. Sergio Bruni e Mario Merola non 

l’avrebbero mai cantata. Sono sicuro che Bovio, prima del‐

la  partenza,  andava  al  bar  a  lamentarsi  con  gli  amici.  Si 

lamentava del fatto che Napoli non offriva nulla. «Non c’è 

un lavoro, i servizi non funzionano. Bisogna abbandonare 

Napoli  per  costruirsi  un  futuro  diverso»  ripeteva  ai  suoi 

amici. 

Qualche giorno dopo la partenza, la nostalgia l’avrà preso 

per  il  cravattino  e  costretto  a  scrivere questa bellissima 

canzone per farsi perdonare. Chissà se è andata veramen‐

te così. E poi che l’ha scritta Bovio l’ho letto su una rivista 

che qualcuno ha dimenticato  in aereo. Ero convinto che 

l’avesse  scritta  Sergio Bruni quella  canzone. Del  resto  è 

così che funziona. Il gol è di chi lo segna, mica di chi lo co‐

struisce. 

Prima  di  prendere  il  taxi mi  ricordo  del  bigliettino  che 

Dom Pérignon mi ha messo nella camicia e chiamo Nino 

Page 25: Onora te stesso

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D’Angelo. Mi dice di  raggiungerlo  fuori dall’Hotel Marra‐

kesh. 

Devo  trattare  con  diversi  tassisti  appostati  fuori 

dall’aeroporto prima di  trovare qualcuno disposto ad ac‐

compagnarmi all’hotel per quindici euro. 

Durante  il  tragitto,  il  tassista  cerca  di  vendermi 

l’impossibile,  senza  riuscirci  naturalmente.  Quando  arri‐

viamo nei pressi del centro, ci imbattiamo in vicoletti a dir 

poco  angusti.  Alla  nostra  destra  e  alla  nostra  sinistra 

sfrecciano motorini e asini. Gli asini non hanno la targa. E 

nemmeno  i motorini. Ci caricano di  tutto su questi asini. 

Altro che Suv. Mi sembrano dei gran lavoratori questi ma‐

rocchini. Non  capisco perché quando  vengono da noi  si 

mettono  a  pulire  i  vetri  ai  semafori.  I  più  volonterosi  si 

mettono a vendere i fazzolettini, ma in generale sono dei 

fannulloni, diciamocela tutta. 

Arrivato  fuori dall’Hotel,  vedo diversi uomini  sostare nei 

dintorni, ma d’italiani non c’è  traccia. Poi mi sento pren‐

dere sottobraccio.  &ÉÎÅ ÁÎÔÅÐÒÉÍÁȢ &ÉÎÅ ÁÎÔÅÐÒÉÍÁȢ #ÏÎÔÉÎÕÁȢȢȢ