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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO

PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA

CONTANDO E RACCONTANDO I GENI 9 di Anna Tramontano IL PRIMO GENE CLONATO 11 di Lucio Luzzatto LA CACCIA È ANCORA APERTA 13 di Antonio Baldini GENOMI DI SPECIE, INDIVIDUI, AMBIENTI 15 di Giovanni Paolella DECIFRANDO IL LINGUAGGIO DEL GENOMA UMANO 17 di Alessandro Weisz PROTEOMICA: LA GRANDE SFIDA DELLA BIOLOGIA DEL SECOLO XXI 20 di Gennaro Marino

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"La vita è simile ad una scatola di sardine:

noi tutti stiamo cercando la chiave".

(Alan Bennet)

...ma ora che abbiamo aperto la scatola, occorre trovare le sardine.

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Gli articoli degli incontri si trovano all’indirizzo

www.comeallacorte.unina.it

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Anna Tramontano

Anna Tramontano si è laureata in Fisica nel 1980 ma è

subito rimasta affascinata dalla complessità della

biologia e dalle promesse della biologia

computazionale e della bioinformatica. Dopo un

periodo come post-doc alla University of California di

San Francisco, è entrata a far parte del Programma di

Biocomputing del Laboratorio Europeo di Biologia

Molecolare ad Heidelberg. Nel 1990 è rientrata in Italia

come direttore del Dipartimento di Chimica e Biologia

Computazionale dei laboratori di ricerca Merck a

Pomezia. Nel 2001 è ritornata al mondo accademico come docente di biochimica presso

Università degli Studi di Roma La Sapienza.

È membro eletto della European Molecular Biology Organization e del comitato organizzatore

dell’esperimento mondiale CASP. Fa parte di numerosi consigli scientifici, quali quello del

Laboratorio Europeo di Biologia Molecolare, dell’Istituto Europeo di Bioinformatica, del Swiss

Institute for Bioinformatics e del Max Planck per la Genetica Molecolare di Berlino. È editor di

riviste scientifiche internazionali come Bioinformatcs, Proteins e The FEBS Journal. Ha ricevuto

vari premi tra cui il premio Marotta dell’Accademia Nazionale delle Scienze, il premio speciale

della Presidenza del Consiglio per le Scienze Naturali e il premio della King Abdullah University

for Science and Technology in Arabia Saudita.

Ha pubblicato quattro libri (Bioinformatica, Zanichelli; The ten most wanted solutions in Protein

Bioinformatics - CRC Press; Protein Structure Prediction - Wiley; Introduction to Bioinformatics

- CRC Press) e piu’ di centocinquanta articoli scientifici su riviste internazionali.

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Contando e raccontando i geni

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

CONTANDO E RACCONTANDO I GENI Anna Tramontano Professoressa di Biochimica Università degli Studi di Roma La Sapienza

Ci sono date che rimangono nella storia

e segnano l’inizio di una nuova era.

A volte passano inosservate e se ne

realizza l’importanza solo in retrospettiva, a

volte invece è subito chiaro che ci si trova

davanti ad un evento epocale, come quello

annunciato il 26 giugno del 2000: “Siamo qui

per celebrare il completamento della prima

bozza del genoma umano”. Ma altre date hanno

preparato quell’evento. Alcune le ricordiamo

bene come il 1953, anno della scoperta della

struttura del DNA, altre meno, ma non per

questo sono meno importanti, per esempio il

1944, in piena seconda guerra mondiale, quando

tre scienziati, Avery, MacLeod, and McCarty,

scoprirono quale tra le tante specie chimiche che

esistono all’interno della cellula è in grado di

trasmettere l’informazione genetica, cioè di

permettere ad un individuo, sia esso un batterio

o un essere umano, di trasmettere le sue

caratteristiche alla discendenza.

Tutt’altro che ovvio: dal punto di vista

chimico il DNA è una molecola un po’ noiosa

formata da uno scheletro a cui sono attaccate

delle molecole chiamate “basi” di soli quattro tipi

diversi. La comprensione di come sia possibile

che una tale semplicità dia origine a tanta

sofisticazione è una faccenda che certamente

terrà occupati gli scienziati per tutto questo

secolo e, probabilmente, per buona parte del

prossimo.

Il problema può essere formulato molto

semplicemente: dati tre miliardi di caratteri,

all’interno dei quali ci sono delle regioni (i geni)

che contengono istruzioni per sintetizzare

molecole, dobbiamo individuare dove sono, di

quali molecole dirigono la sintesi e come queste

ultime funzionano e interagiscono l’una con

l’altra e con l’ambiente esterno. Ci piacerebbe

anche capire se e quando le differenze tra

individui (che sono circa una ogni mille basi)

danno origine a patologie o predispongono a

contrarle o ancora influenzano la risposta

individuale ai farmaci.

Nell’uomo i geni occupano solo il 3% del

genoma e i segnali che li identificano sono

deboli, quindi trovarli non è facile. Perdipiù non

sono continui lungo la sequenza di basi, ma

interrotti da regioni che non vengono

“interpretate” e che possono essere in numero

qualsiasi e di lunghezza qualsiasi. Il risultato è

che, a distanza di dieci anni dall’annuncio del

completamento del genoma, non solo non

abbiamo capito cosa fa una buona parte dei

nostri geni, ma non sappiamo neanche con

certezza quanti geni abbiamo. Le ultime stime

parlano di poco più di ventimila, il che è

abbastanza sconcertante visto che è

pressappoco lo stesso numero di geni di un

topolino, meno del doppio di quelli del moscerino

della frutta e solo quattro volte di più del lievito,

un organismo unicellulare.

Un bel rompicapo! D’altra parte... nil

sine magno vita labore dedit mortalibus.

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Contando e raccontando i geni

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

IL PRIMO GENE CLONATO Lucio Luzzatto Direttore Scientifico Istituto Toscano Tumori (ITT)

Oggi clonare un gene umano, cioè

ottenerne molte copie per poterlo studiare, non

fa notizia: anzi, non è neppure necessario. I geni

sono quasi tutti presenti nel database del

genoma umano, per fortuna di dominio pubblico

on line. Di solito la sequenza (la struttura del

gene), è già nel database, ed è corredata di utili

annotazioni: perciò al giorno d’oggi nel corso di

un progetto scientifico, avendo identificato con

quale dei circa 24000 geni noti abbiamo a che

fare, possiamo subito usare le informazioni che il

database del genoma ci mette a disposizione.

Mi sembra impossibile che siano passati

già 30 anni da quando la situazione era ben

diversa. Nel 1978 di tutti i geni del genoma

umano i soli che si conoscevano erano quelli

dell’emoglobina. Proprio allora si scopriva che i

geni erano più complicati di come avevamo

creduto, perché comprendevano porzioni

‘espresse’ e porzioni meno espresse. Questa

terminologia è un po’ antropomorfica: forse

anche i geni, come ognuno di noi, hanno

qualcosa da dire e qualcosa da nascondere. Le

porzioni espresse vennero chiamate esoni e le

altre introni.

Quando nel 1974 presi servizio

all’Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica

(IIGB) del CNR a Napoli, già da anni, come

ematologo, studiavo un enzima chiamato

glucoso 6-fosfato deidrogenasi (G6PD). La G6PD

era stata scoperta nel 1932 a Berlino da Otto

Warburg (uno dei primi premi Nobel della

biochimica), nei lieviti e nei globuli rossi. La

G6PD era divenuta importante in medicina da

quando Paul Carson nel 1956 a Chicago aveva

dimostrato che la sua carenza era ereditaria e

responsabile di varie forma di anemia emolitica,

compreso il favismo. In Nigeria avevamo

identificato molte caratteristiche dell’enzima

normale e della G6PD di soggetti carenti, ed

avevamo capito come la carenza di G6PD

conferisse resistenza contro la malaria.

A Napoli continuavo questi studi insieme

con Michele D’Urso, ma ben presto giungemmo a

un impasse: senza conoscere appieno la

struttura dell’enzima non si potevano capire a

fondo i meccanismi della malattie causate dalla

sua carenza. Nel 1978 ne parlai con Graziella

Persico, che decise di entrare nel gruppo e mi

disse semplicemente: “È chiaro che dobbiamo

clonare il gene della G6PD”. Era quello che

pensavo; ma siccome la G6PD ha nei globuli

rossi una concentrazione circa diecimila volte più

bassa dell’emoglobina, sapevo quanto fosse

difficile l’esperimento, e quasi non osavo

proporlo ai miei collaboratori. Ma Graziella stava

galvanizzando il gruppo, a cui si aggiunsero

anche Giuseppe Martini e Daniela Toniolo: si

costruì una ‘cDNA library’ da RNA di cellule

HeLa, e nel 1981 pubblicavamo su Nature il

primo clone direttamente collegato ad un enzima

umano; anche se per la struttura completa del

cDNA e del gene genomico, con tutti i suoi 13

esoni e 12 introni, ci vollero altri 5 anni. Da

allora il nostro lavoro è servito come riferimento

per identificare più di 150 diverse varianti della

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G6PD responsabili di malattie in varie parti del

mondo. Sul piano personale, il ricordo di quei

tempi mi è reso struggente dalla recente perdita

di Graziella Persico, diventata in biologia

molecolare e in genetica umana scienziata di

spicco di notorietà internazionale. Al tempo stes-

so, quel lavoro è stato testimonianza di quello

che all’IGB di Napoli, e in qualunque laboratorio

di qualunque parte del mondo, si può realizzare

quando con l’entusiasmo si combina la

determinazione a perseguire in comune un

obiettivo preciso.

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LA CACCIA È ANCORA APERTA Antonio Baldini Professore di Biologia molecolare Università degli Studi di Napoli Federico II Direttore Istituto di Genetica e Biofisica "Adriano Buzzati Traverso" - CNR

Gene hunters (cacciatori di geni) erano

quei colleghi che data una malattia di chiara

natura genetica, cercavano il gene la cui

mutazione la causasse (gene malattia). Era tra

la fine del 1980 e i primi anni del 2000.

Mancava ancora il GPS della genomica, cioè la

sequenza completa del DNA umano consultabile

su internet, e quindi si navigava a vista. Da

allora, le tecnologie si sono evolute

esponenzialmente, i geni malattia "facili" sono

stati identificati, e sono cambiate anche le

aspettative del mondo della ricerca nei confronti

dei gene hunters: non è più sufficiente

identificare il gene malattia, bisogna anche

identificarne la funzione e magari correggerne il

difetto, il ché è di gran lunga più difficile. Il

tramonto della figura del gene hunter è stato

inevitabile.

La ragione che spingeva i ricercatori a

questa "caccia" era però non solo quella di

studiare la malattia, ma anche quella di chiarire

meccanismi cruciali della genetica e della

biologia, cioè i meccanismi attraverso i quali il

patrimonio genetico si traduce in stato di

malattia o di salute oppure, più in generale,

nello sviluppo e funzionamento corretto

("normale") o anomalo dell'organismo. La

domanda dunque è come si passa dal "progetto"

(informazione sul DNA o genotipo) al prodotto

finito (fenotipo). Domanda infinitamente com-

plessa che ha ancora ben poche risposte.

I concetti di "stato di malattia" e "stato

di salute" hanno confini sfumati, e la definizione

di "gene malattia" è discutibile. Sappiamo che ci

sono genotipi “predisponenti” a malattie, cioè

che di per sé non sono causa di malattia ma

possono rendere l’organismo più suscettibile a

certe patologie, come per esempio quelle

cardiovascolari. E poi ci sono i geni

"modificatori", cioè che possono modificare il

decorso di una malattia in senso positivo o

negativo, o magari proteggerci dall'infarto.

Sappiamo che esistono ma non ne conosciamo

molti. Infine, è possibile che tutto sia scritto nei

nostri geni? No. E qui entriamo nel mondo delle

interazioni tra patrimonio genetico e “ambiente”

ovvero la risposta dei nostri geni al mondo

esterno, per esempio alimentazione, stress,

inquinamento, fumo, eccetera.

E allora la caccia continua per quei geni

che in maniera più sottile ma non meno insidiosa

influenzano il nostro stato di salute. Inoltre, i

geni non funzionano da soli ma insieme ad altri

geni: è così nasce il concetto di rete genica

come unità che regola una determinata funzione

dell’organismo, o sviluppo di un particolare

organo.

La caccia di oggi è alle reti geniche che

funzionano in concerto per creare una certa

struttura corporea (per esempio il cuore) o per

regolare una certa funzione (per esempio il

mantenimento della pressione arteriosa o il peso

corporeo). La nuova frontiera è imparare a

leggere e capire il nostro patrimonio genetico

individuale. Quindi, non più il DNA della "specie

Uomo” ma quello di Mario Rossi, Paolo Bianchi,

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ecc. che sono tutti leggermente diversi. Lo scopo

è di interpretarne il significato per lo stato di

salute o magari predire la risposta individuale a

un particolare farmaco. È la frontiera della

medicina personalizzata.

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GENOMI DI SPECIE, INDIVIDUI, AMBIENTI Giovanni Paolella Professore di Biochimica e bioinformatica Università degli Studi di Napoli Federico II

Il cambio di millennio ci ha portato il

completamento della sequenza del genoma

umano, un importante giro di boa in biologia e

medicina. È una tappa essenziale, che segna un

cambio nel modo di pensare il funzionamento di

cellule e organismi: per la prima volta abbiamo il

progetto dettagliato, i piani completi alla base

della costruzione di un essere umano. Fino a

quel momento erano state lette alcune parti, ma

la maggior parte del progetto era

essenzialmente ignota. La sequenza genomica

cambia tutto questo.

In principio il genoma umano non è

complesso: si tratta di 46 cromosomi,

megamolecole costituite ciascuna da una

lunghissima catena lineare di 4 unità elementari,

le basi ATCG: un lungo testo scritto usando un

alfabeto di soli quattro caratteri. La complessità

deriva dai numeri; ogni cromosoma è un volume

da 50 a 250 milioni di caratteri, per un totale di

oltre tre miliardi, 20 volte la Britannica. In

questo testo, codificati in modo opportuno, ci

sono i piani per la costruzione di ogni nostra

proteina, ma anche le regole per decidere

quando produrla, e le informazioni relative ad

altre molecole come gli RNA. Ma questi piani non

sono statici. Cambiano nel tempo e nello spazio

e determinano l'evoluzione. La sequenza attuale

del genoma umano è ciò che differenzia un

uomo da un gorilla o da un pesce, ma è anche la

sede delle differenze tra un individuo e un altro.

La conoscenza di altri genomi è quindi

necessaria per studiare questi problemi.

Con il miglioramento delle tecniche di

sequenziamento, oggi, a soli 10 anni di distanza,

è possibile comparare il genoma umano con

quelli di decine di animali e piante e di migliaia

di microorganismi come batteri e funghi. Per

quanto riguarda l'uomo, alla sequenza del 2001,

derivata da più soggetti di sesso e provenienza

geografica diversi, oggi si affiancano sequenze

individuali. Il genoma di due scienziati, James

Watson e Craig Venter, ha colpito la fantasia di

molti, ma ad oggi è nota la sequenza completa

di soggetti africani, cinesi, coreani; il genoma

dell'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu è

probabilmente la più recente aggiunta al club dei

genomi famosi. Al di là del fenomeno di

costume, però, il sequenziamento di molti

individui riveste un importante significato

scientifico e permette di studiare l'evoluzione, la

variabilità delle popolazioni e le malattie

genetiche: un progetto internazionale

attualmente in corso si propone l'obiettivo di

sequenziare 1000 genomi individuali.

L'alternativa ai genomi individuali è la

sequenza ad alta profondità (deep sequencing)

di campioni misti. Con queste tecniche è

possibile ad esempio studiare in parallelo

migliaia di individui e identificare tutte le

variazioni genetiche più comuni presenti in una

data popolazione. Un'altra applicazione di queste

tecniche è lo studio di popolazioni miste. Non

essendo necessario separare i diversi genomi, è

possibile studiare contemporaneamente soggetti

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di specie diverse: esperimenti di questo tipo

hanno permesso di identificare ad esempio tutti i

batteri contenuti in ambienti definiti, come

l'acqua del mare o altri ecosistemi, ma anche le

popolazioni di batteri che sono fisiologicamente

(o in condizioni patologiche) presenti nel cavo

orale o nell'intestino. Si tratta di tecniche molto

potenti, che aprono nuove prospettive nello

studio della patogenesi di malattie. Cosa faremo

di tutte queste sequenze? Come in altri campi

l’enorme quantità di dati sperimentali prodotti

richiederà lo sviluppo di metodiche di analisi oggi

impensabili, e la bioinformatica dovrà dare un

importante contributo. Già oggi esistono

sofisticati strumenti di analisi, ma la domanda

che rimane è come fare a tenere dietro a questi

cambiamenti. In fondo si tratta di un problema

già visto che periodicamente ritorna: Gutenberg

ha introdotto la stampa, molti più libri sono

improvvisamente disponibili, adesso dobbiamo

imparare a leggere.

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DECIFRANDO IL LINGUAGGIO DEL GENOMA UMANO Alessandro Weisz Professore di Patologia generale Seconda Università degli Studi di Napoli

L’armonia di forme e funzioni delle

cellule che compongono il corpo umano può

essere paragonata a quella raggiunta da una

grande orchestra nell’esecuzione di una sinfonia.

In ambedue i casi, le istruzioni necessarie sono

riportate in una partitura, rappresentata per le

cellule del nostro corpo dal genoma, della quale

ciascuna cellula esegue la parte assegnatagli

secondo tempi e modi definiti. Il genoma,

rappresentato dal DNA presente in ogni cellula,

contiene le istruzioni per tutte le funzioni che

permettono lo sviluppo e la vita dell’organismo.

Come uno spartito riporta note, pause e chiavi

che dettano con precisione le modalità di

esecuzione, così il genoma è scritto in un

linguaggio fatto di geni ed elementi regolatori

che ne controllano il funzionamento in un tipo

cellulare piuttosto che in un’altro e nelle diverse

condizioni cui la cellula deve adattarsi. Cellule

diverse, quali ad esempio un neurone ed un

epatocita, esprimono ciascuna solo parte

dell’informazione contenuta nel genoma, e

questo è alla base della loro diversità di forma e

funzioni. La presenza di anomalie

nell’informazione contenuta nel genoma, definite

mutazioni, comporta l’esecuzione da parte della

cellula di istruzioni errate, che possono portare a

gravi conseguenze allo stesso modo in cui una

partitura incorretta può compromettere la

performance di un’orchestra. I geni, infatti,

funzionano per lo più in sintonia l’uno con l’altro

e lo studio delle malattie ereditarie e dei tumori

ha rivelato come mutazioni che interessano un

singolo gene influenzano l’attività di una parte

consistente del genoma, con effetti molto più

marcati rispetto all’estensione del danno subito

dal DNA. Nel caso dei tumori, esistono poi

tipologie di una stessa malattia ad evoluzione

clinica molto diversa tra loro a causa di

specifiche mutazioni che compromettono in

modo selettivo il funzionamento di una parte o

un’altra del genoma. Il legame esistente tra

attività del genoma e funzioni dei diversi tipi

cellulari che compongono un organismo e, di

converso, tra lo stato della cellula ed il

funzionamento del genoma, sono due aspetti

critici per la comprensione di fenomeni quali lo

sviluppo embrionale, il differenziamento cellulare

e l’invecchiamento, le malattie genetiche, le

predisposizione ereditarie alle malattie ed i

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tumori. Conoscenze frammentarie sulla struttura

del genoma umano e dei suoi componenti, e la

mancanza di tecniche di analisi per studiarne

l’attività complessiva, hanno rappresentato per

lungo tempo un ostacolo al progresso delle

conoscenze in questo ambito. Questo ostacolo è

stato in gran parte ridimensionato, se non

rimosso, dalle conoscenze e miglioramenti

tecnologici ottenuti con grandi progetti scientifici

internazionali, tra i quali il primo e più

significativo volto al sequenziamento del genoma

della nostra specie, portato ufficialmente a

compimento dieci anni fa. Il ‘progetto genoma

umano’ ha portato, infatti, alla definizione

dell’intera sequenza del DNA che costituisce il

nostro genoma, e della posizione e

caratteristiche di gran parte dei geni che lo

compongono, con un livello di precisione ed

affidabilità impensabili prima di allora. Ciò ha

rappresentato la scoperta della partitura

completa del nostro DNA, rivelando nel

contempo i nostri limiti nel comprenderne

appieno il linguaggio e rappresentando l’inizio di

una nuova era scientifica, quella ‘post-

genomica’, caratterizzata da approcci

multidisciplinari allo studio dei genomi. Per

comprendere la portata di quella che viene

descritta come la ‘rivoluzione genomica’, basti

considerare i risultati ottenuti con le nuove

tecnologie per analisi dell’attività dei geni

mediante misurazione dei livelli di RNA (prodotti

primari dei geni, sintetizzati attraverso un

processo conosciuto come trascrizione genica,

tramite il quale il segmento di DNA

corrispondente al gene viene ricopiato in un

filamento di RNA). Di tali tecnologie, quella che

ha avuto maggiore diffusione si basa sull’uso dei

‘microarray’. Questi sono costituiti da lastrine di

silicio, simili a quelle utilizzate per i

microprocessori dei computer, ove sono

depositate o direttamente sintetizzate molte

migliaia di sonde chimiche in grado di

riconoscere e catturare ciascuna un RNA diverso,

consentono di misurare in parallelo la

concentrazione di migliaia di RNA (sino a tutti

quelli codificati da un genoma) in un campione

biologico. Il risultato è definito profilo di

espressione genica, il corrispettivo di una

fotografia a risoluzione molecolare dell’attività

del genoma nella cellula oggetto di studio, e può

essere confrontato direttamente con lo stesso

ottenuto in quella stessa cellula in un momento

funzionale diverso, permettendo così di capire le

differenze di attività dell’intero genoma in varie

condizioni e stati fisiologici. Uno degli ambiti nei

quali questa tecnologia ha fornito risultati

particolarmente rilevanti è quello dell’oncologia,

dove il confronto tra i profili di espressione

genica di tumori, apparentemente uguali tra

loro, ha permesso di individuare insiemi di geni il

cui grado di attività è differente tra casi che

presentano diversa tendenza a metastatizzare o

sensibilità a specifiche terapie. Un’accelerazione

significativa del processo di comprensione del

funzionamento del genoma umano deriverà dai

metodi di sequenziamento del DNA di nuova

generazione, che promettono già oggi di

ottenere in pochi giorni la sequenza dell’intero

genoma di un individuo, o il numero e tipologia

di tutti gli RNA presenti in un tessuto o tipo

cellulare, ad un costo molto contenuto

(preventivato al momento a circa un milionesimo

del costo sostenuto per il primo sequenziamento

del genoma umano, ma destinato a scendere

rapidamente con il diffondersi della tecnologia).

Tutto lascia ben sperare che queste innovazioni

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tecnologiche, e le scoperte sui meccanismi di

regolazione dell’attività dei geni, i rapporti tra

struttura e funzione di questi e le conseguenze

di mutazioni sulla loro attività, possano rappre-

sentare la Stele di Rosetta che ci permetterà di

comprendere il linguaggio del nostro genoma.

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PROTEOMICA: LA GRANDE SFIDA DELLA BIOLOGIA DEL SECOLO XXI Gennaro Marino Preside della Facoltà di Scienze Biotecnologiche Università degli Studi di Napoli Federico II

Francis Collins, nel commentare la

grande impresa del sequenziamento del genoma

umano di cui era stato protagonista, ha

affermato: “Il lavoro che è stato finora portato

avanti con il sequenziamento del genoma umano

potrà risultare addirittura banale se paragonato

alla grande sfida che ora gli scienziati dovranno

affrontare nello studio "su larga scala" delle

proteine”.

Si riconosce al ricercatore australiano

Marc Wilkins il merito di aver coniato nel 1994 il

vocabolo “proteoma”, risultante dalla crasi di

proteine e genoma, volendo con tale vocabolo

intendere tutto l'insieme delle proteine

conseguenti alla traduzione ed all'espressione

dei messaggi genetici di un genoma.

Il proteoma, a differenza del genoma che

resta immodificato nel corso di tutto il ciclo

vitale di un organismo, è caratterizzato da una

continua evoluzione e dinamismo poiché in

corrispondenza di stimoli, interni od esterni alla

cellula, i prodotti dell’espressione del genoma

possono notevolmente variare nello spazio e nel

tempo; pertanto si può affermare che ad un

genoma corrisponde un numero non definibile,

qualcuno afferma infinito, di proteomi. È

importante sottolineare che la regolazione

dell’espressione genica, nella sua eccezionale

capacità di modulazione, rappresenta un

continuo che si estende per almeno nove ordini

di grandezza; ne discende che una singola

proteina in un proteoma può essere

differentemente rappresentata da una ad un

miliardo di copie. Infine, le proteine svolgono le

delicate funzioni cui sono deputate, sia a livello

funzionale che strutturale, anche in seguito ad

una serie innumerevole di modifiche chimiche,

modifiche post-traduzionali, che sono

catalizzate, a loro volta, da altre proteine, dotate

di attività catalitica. Queste ultime sono

codificate da altri geni la cui regolazione può

dipendere da altre proteine eventualmente

modificate. Si assiste cioè ad un incastro di

innumerevoli scatole cinesi per arrivare alla

specie molecolare che in un preciso momento

del ciclo vitale svolge la sua specifica funzione.

In altri termini si può sostenere che una

proteina, nella sua realtà funzionale, è il risultato

di una fitta e coordinata rete di messaggi che si

dipartono dai geni e che ai geni ritornano. Con

una metafora audace, si potrebbe definire una

proteina come un punto di un iperspazio di cui la

sequenza del gene codificante costituisce solo

una delle “n” dimensioni.

La proteomica, lo studio "su larga scala"

delle proteine può quindi essere definita come lo

studio, nella loro enorme complessità, dei

proteomi. Come tutti problemi complessi, anche

in questo caso lo studio si affronta, in

particolare, con l'innovazione strumentale e

metodologica: la spettrometria di massa e la

bioinformatica. Il ruolo svolto dalla spettrometria

di massa in proteomica è assolutamente

centrale, in quanto consente, in tempi

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Contando e raccontando i geni

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

estremamente rapidi, di identificare, anche se

presenti in miscele complesse, le singole

componenti proteiche e le eventuali modifiche

post-traduzionali.

In parallelo, altrettanto indispensabile ed

essenziale è lo sviluppo delle tecniche

bioinformatiche per la gestione, l’utilizzo e

l’integrazione dell’enorme quantità di dati

sperimentali resi oggi disponibili dal

sequenziamento dei genomi e dalle analisi

proteomiche. La sfida dello studio delle proteine

"su larga scala" ha da poco iniziato il suo percor-

so ma già ha cominciato a dare i suoi frutti nei

campi più svariati, dall’identificazione di

marcatori diagnostici soprattutto nel campo delle

patologie tumorali, allo sviluppo di nuovi

farmaci, e perfino nel campo del restauro e della

conservazione dei beni culturali.

In prospettiva, l'integrazione e le

sinergie di ricercatori di discipline finora

piuttosto estranee al campo della biologia come,

ad esempio, la matematica e l'ingegneria

potranno nel prossimo futuro dare senso e

completezza alla grande sfida del XXI secolo.

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