OME ALLA - Universita' degli Studi di Napoli Federico II · di Maurizio Gnerre QUANDO IL BRASILE...

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO

PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA

UN OMAGGIO ALLE POPOLAZIONI AMERINDIANE CHE, LORO MALGRADO, HANNO CAMBIATO IL CORSO DELLA STORIA DELL'EUROPA 9 di Flavia Cuturi RIFLESSIONI DI UN LINGUISTA SU QUEL CHE L’OCCIDENTE DEVE ALLE POPOLAZIONI AMERINDIANE 11 di Maurizio Gnerre QUANDO IL BRASILE VENNE A NAPOLI… 13 di Maria Luisa Cusati GLI AMERINDI NELLA CONQUISTA DI NUOVI TERRITORI IN AMERICA 15 di René Georges Maury L’INCONTRO CON I “FRATELLI MAGGIORI” DELLA SIERRA NEVADA DE SANTA MARTA 17 di Antonino Colajanni

Un omaggio alle popolazioni che hanno cambiato la storia dell'Europa

Gli articoli degli incontri si trovano all’indirizzo

www.comeallacorte.unina.it

Flavia Cuturi è una cittadina romana con la caratteristica, quasi rara nell’Urbe, di essere nata proprio a Roma. Fin da giovanissima ha sentito una certa insofferenza per l'euro-centrismo e italo-centrismo che in ogni dove incombe e si respira. Si chiese quindi come poter studiare archeologia ed etnologia dei popoli amerindiani, i più negletti dal nostro discorso comune e corrente e, che specie più di trent’anni fa, erano davvero ignorati e presenti, se mai, solo in tragicomiche immagini di film western! Studiò dunque etnologia all’Università di Roma “La Sapienza”. Fin dal secondo anno di università venne inclusa nella “Missione Etnologica Italiana in Messico” fra gli huave/ikoots dello stato di Oaxaca. E da allora ha continuato a frequentare quel paese e quella popolazione fino ad oggi. Nella stessa Università si laureò e poi ottenne anche il titolo

di “Dottore” in antropologia. Vinse un concorso di ricercatore nella lontana Torino dove, durante anni in un ambiente internazionale e stimolante, ebbe modo di ampliare le proprie conoscenze nei confronti delle popolazioni dell'Africa e dell'Oceania. Passó periodi di ricerca e di studio negli Stati Uniti viaggiando soprattutto nei territori delle riserve indiane dell'Arizona, Nuovo Messico, Colorado e Utah. Divenuta professoressa associata, raggiunse nel 2001 l’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale”. Ha viaggiato attraverso l’America Latina, in special modo percorrendo le regioni andine e quelle amazzoniche delle ex-missioni gesuitiche della Bolivia orientale. Ha lavorato come consulente dell’International Fund for Agricultural Developement (IFAD-ONU) presso le popolazioni indigene del Darién (Panama) e afrodiscendenti della Colombia e del Brasile. Amante della fotografia e curiosa esploratrice dei sapori delle cucine degli "Altri", ha unito queste due passioni realizzando un libro bilingue sui cibi preparati dalle donne huave (Nüeteran ikoots naw San Mateo del Mar. Ngineay majaraw arangüch nüeteran / Comida ikoots de San Mateo del Mar. Conocimientos y preparación, 2009), e fondando insieme ad Arturo Martone il Centro studi cibo e alimentazione, presso il proprio Ateneo. Fra i suoi numerosi scritti ricordiamo: I fratelli inseparabili (1988), Le parole e i fatti, per un’antropologia semantica della parentela huave (1990), Juan Olivares, un pescatore scrittore del Messico indigeno (2003) e, a sua cura, In nome di Dio. L’impresa missionaria di fronte all'alterità (2004).

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UN OMAGGIO ALLE POPOLAZIONI AMERINDIANE CHE, LORO MALGRADO, HANNO CAMBIATO IL CORSO DELLA STORIA DELL'EUROPA Flavia Cuturi Professore di Antropologia culturale Università degli Studi di Napoli L’Orientale

La scoperta e la conquista dell'America

sono eventi che hanno condizionato i destini del

continente europeo esponendo le popolazioni

amerindiane a drammatiche conseguenze. La

storia delle Americhe è stata sottoposta a un

tragico processo di discontinuità marcato da

atrocità inflitte a uomini e donne, da stermini

volontari, perpetrati dalle armi europee, e

inconsapevoli, effetto delle malattie portate dai

nuovi arrivati, dai sistematici tentativi di

distruzione dei molteplici universi sociali, politici

e simbolico-religiosi che reggevano le vite e le

coesioni dei popoli “conquistati”. L'introduzione

nelle Americhe di animali sconosciuti come

bovini, ovini, caprini, suini, ecc. ha innescato

cambiamenti irreversibili nella flora e nella fauna

di sconfinate regioni. Immense ricchezze sono

confluite in Europa e in parte dissipate in guerre

tra gli stati emergenti. Nuovi cibi hanno salvato

dalla fame i poveri, e hanno deliziato i palati dei

nobili europei. La colonizzazione ha dato il via

alla sperimentazione di nuove forme

urbanistiche e assetti politici e sociali, tanto nelle

colonie, quanto nella madre-patria, in particolare

in Spagna. Le espansioni coloniali hanno riscritto

fin dal ‘500 gli equilibri internazionali,

coinvolgendo molti stati europei in una corsa

contagiosa all'accaparramento di terre altrui da

sfruttare. Le colonie hanno rappresentato

un’"opportunità" di crescita e diversificazione

demografica forse impossibili nell’Europa di

allora. Il tracollo demografico degli amerindi, e

in molti casi l’estinzione (fino a un migliaio di

popolazioni), da un lato, e il crescente

sfruttamento delle risorse minerarie e agricole

delle loro terre, dall’altro, sono stati all’origine

della tratta degli schiavi africani. Il meticciato

nelle Americhe, frutto di unioni, consenzienti o

violente, con le donne amerindiane e africane,

ha innescato perniciose ideologie sull’ordine

gerarchico dell’umanità. Per giustificare l’azione

coloniale, l'evangelizzazione cristiana con la

forza dello zelo universalista, ha attraversato

l’Atlantico, facendo della Chiesa cattolica una

potenza ecumenica, garante e complice (talvolta

pentita), della politica d’espansione delle corone

iberiche. In tempi più recenti tale zelo è stato

incarnato dalle chiese protestanti.

Ma l'esistenza, viva e attuale, di tante

società indigene che, dopo secoli, resistono

all’annientamento, anche quando confinate in

riserve, negoziando soluzioni dettate dalla

propria coscienza identitaria, contraddice chi

sostiene che gli amerindiani di oggi siano stati

plasmati e piegati dalla colonizzazione europea.

Il nostro debito “positivo” nei confronti degli

amerindiani è variegato e misconosciuto. Tutti

sanno che molti dei cibi consumati giornalmente

(pomodori, peperoni e peperoncini, fagioli,

zucche, patate, mais, girasole, arachidi,

avogado, vaniglia e cioccolata ecc.) provengono

dal continente americano. Non tutti, invece,

sono consapevoli che le peculiarità culturali e

linguistiche delle popolazioni amerindiane hanno

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operato, sia pur indirettamente, sulle nostre

coscienze e conoscenze: si è "messa in moto",

infatti, l’osservazione e la riflessione sulla

diversità umana, non più vista come segno della

degradazione babelica, ma in se stessa,

rendendo sempre più marginale e improprio

l'uso della Bibbia come riferimento enciclopedico.

Storici come Pagden, Gliozzi, Dubois hanno

sottolineato come la nascente comparazione

empirica sia diventata strumento di indagine per

lo studio delle lingue e delle culture umane

proprio nel ‘500, aprendo in tal modo i primi

timidi spazi al relativismo culturale. Missionari,

filosofi, e viaggiatori hanno elaborato teorie

negative e positive sulla "natura" degli

amerindiani, usate per discettare sulla “natura”

umana. Era stato dunque avviato, sia pur con

passi incerti, un lungo cammino che, a partire

dal riconoscimento della diversità umana ha

portato alla nascita di studi sistematici su di

essa, come fanno da circa un secolo e mezzo.

Tale riconoscimento ha portato all’affermazione

dei principi dell'uguaglianza umana e al rispetto

nei confronti delle minoranze, spingendo la

riflessione giuridica a produrre trattati di diritto

internazionale. Nel recente passato sono state

elaborate convenzioni internazionali, come la

169 della OIL, ratificate oramai da innumerevoli

stati. Con tutto ciò le popolazioni native e

minoritarie, dovunque, e non solo delle

Americhe, continuano a essere esposte a ogni

genere di soprusi, anche se oggi, esse, possono

sempre avvalersi, per difendersi, proprio delle

convenzioni internazionali firmate dai loro stati

di appartenenza, che dovrebbero garantire loro

l’autodeterminazione.

Ma è per difetto che dobbiamo guardare

a questi "progressi" di ritorno, tenui atti

riparatori di un torto che spesso, anziché

scomparire, si sta invece rigenerando in nuove

subdole forme di colonialismo, legate alla gola

profonda dei "bisogni" del mondo industriale e

finanziario, dei suoi dogmi consumistici, ormai

ecumenici.

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RIFLESSIONI DI UN LINGUISTA SU QUEL CHE L’OCCIDENTE DEVE ALLE POPOLAZIONI AMERINDIANE Maurizio Gnerre Professore di Antropologia delle lingue Università degli Studi di Napoli L’Orientale

Cristoforo Colombo giunse all’isola di

Guanahani con l’incerta speranza di poter

avvalersi di due interpreti: Rodrigo de Jerez, che

aveva visitato l’Africa occidentale ed era pratico

della lingua franca in uso lungo quelle coste, e

Luis de Torres, un ebreo convertito che

affermava di conoscere l’ebraico e qualcosa di

arabo. L’Ammiraglio dovette subito ammainare

ogni speranza di un’eventuale utilità dei suoi

interpreti: il muro comunicativo con quelle genti

“novamente retrovate” poteva esser superato

non tramite parole ma, come scriveva anni dopo

l’illustre domenicano Bartolomé de Las Casas

tramite “las manos, que les servian de lengua”.

Così, l’Ammiraglio del Mar Oceano sospettò

subito che quella gente tanto mansueta e gentile

non parlasse affatto una delle settantasette

lingue che i “gufi dottissimi” di Salamanca gli

avevano assicurato esser scaturite dalla

“confusio linguarum” Babelica.

Lo stupore di Colombo di fronte ad una

lingua la cui sola esistenza contraddiceva tutto

quello che i dotti di Spagna affermavano,

trapelava, guarnito anche da un apprezzamento

estetico, dalle pagine del suo Diario di bordo.

Infatti, nel giorno di Natale dell’anno della

scoperta, l'Ammiraglio scriveva: “hanno una

favella la più dolce del mondo, e mansueta, e

[parlata] sempre con sorriso”.

Solo alcuni anni più tardi Amerigo

Vespucci, da vero cosmografo, giunse alla

conclusione che le lingue parlate dagli indigeni di

quel continente, che non portava ancora il suo

nome, non rientravano affatto nel gruppo di

quelle che i dotti del suo tempo sapevano

elencare. Ma allora, che lingue erano? Da dove

provenivano i loro parlanti? Sarebbe dovuto

passare quasi un secolo perché il gesuita José de

Acosta potesse formulare un’ipotesi sostenibile

sull’origine asiatica di quei popoli, ed ancora altri

due fino a quando un altro gesuita, Filippo

Salvatore Gilij arrivasse a capire che fra le

Antille ed la parte centro-settentrionale del

continente sudamericano era diffusa una grande

famiglia di lingue a cui era appartenuta anche

quella “più dolce del mondo, e mansueta" che

aveva stupito l’Ammiraglio del Mar Oceano. Ma i

parlanti di quella lingua, così come quelli di

centinaia di altre, non esistevano più: l’impatto

degli europei, accolti gioiosamente dagli

indigeni, si era rivelato per loro un abbraccio

letale.

Nel frattempo, però, nell’arco di più di

due secoli, molti missionari, operosi e

interessati, avevano “ridotto” a grammatica

molte di quelle lingue, per farne strumenti di

conversione. Fu così che per molte lingue

amerindiane furono elaborate grammatiche

prima di tante altre lingue nazionali o regionali

della vecchia Europa. All’inizio dell’800 un

grande tedesco, Wilhelm von Humboldt, allora

giovane incaricato d’affari di Prussia a Roma,

raccolse l’eredità intellettuale di Gilij e di un altro

gesuita, Lorenzo Hervas y Panduro, e poté

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mettere a frutto l’enorme raccolta di materiali

linguistici realizzata da quest’ultimo e da

missionari di altri ordini. Si rinvigorì allora la

riflessione intellettuale che sfidava frontalmente

tante categorie linguistiche elaborate nel corso

di due millenni, e sedimentate nella “ars

grammatica”.

Nel corso di quasi due secoli la quantità

e la qualità degli studi dedicati alle lingue

(“sopravvissute”) di quei popoli “novamente

retrovati” crebbe in misura irrefrenabile, visto

l’interesse teorico, ma anche pratico, che la loro

analisi e conoscenza offriva agli studiosi delle

lingue umane e del linguaggio. Dopo Gilij, in

Italia l’interesse per quelle lingue, quasi in

parallelelo al loro destino di estinzione, andò

scomparendo, a favore dello studio delle lingue

della nostra tradizione indoeuropea. Solo pochi

furono i linguisti, come il Cardinal Gasparo

Mezzofanti, FABIO Biondelli, Alfredo Trombetti o

Carlo Tagliavini che continuarono quella tradi-

zione. Intanto, oltreoceano, un altro tedesco,

Franz Boas, portava avanti un grande

programma esplorativo-conoscitivo, affiancato

dal suo allievo Edward Sapir. Ma da qualche

tempo anche in Italia quell'interesse sta

risorgendo, e oggi un piccolo nucleo di studiosi

italiani, per lo più giovani, si riunisce ogni anno

perché ciascuno possa presentare agli altri le

proprie ricerche.

Oggi poco meno di un sesto delle oltre

6000 lingue di cui abbiamo notizia sono lingue di

popoli amerindiani. Molte di queste, sempre di

più sulla via dell’abbandono e dell’estinzione,

devono ancora essere conosciute e “esplorate”,

già che ciascuna di esse racchiude tesori

conoscitivi spesso insospettati, che ci

permettono di esplorare i “confini mentali di

Babele”, se assumiamo che ogni lingua umana,

senza distinzioni di sorta, riveli parti di quel

patrimonio fondamentale della nostra specie che

è la “facoltà del linguaggio”.

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QUANDO IL BRASILE VENNE A NAPOLI… Maria Luisa Cusati Professoressa di Letteratura di lingua portoghese Università degli Studi di Napoli L’Orientale

Il 20 maggio 1843 erano in rada, nello

specchio d’acqua antistante il Castel dell’Ovo, tre

grandi imbarcazioni che issavano la bandiera

brasiliana, erano la fregata Constituição, e le

due corvette Dois deJulho ed Euterpe. A quel

tempo erano ben poche le opportunità di vedere

navi straniere, e poi, provenienti da terre così

lontane!

Immaginiamo la curiosità. Dignitari di

corte, ufficiali in uniformi poco note sbarcarono

ricevuti con grandi onori. Napoli li aspettava.

Dieci giorni dopo, il trenta di maggio, data

dell'onomastico di Sua Maestà il Re Ferdinando

II di Borbone, si sarebbe celebrato il matrimonio

della sorella del Re, Teresa Cristina, con

l’imperatore del Brasile. L’Imperatore non era

venuto, non gli era consentito lasciare la sua

terra ma aveva mandato i suoi rappresentanti a

rilevare la sposa.

Il 30 maggio fu festa grande a Napoli. I

cannoni, sia dai castelli che dalle navi

svegliarono tutti. Le strade illuminate a festa

erano gremite, da molte parti si udivano

musiche militari. A Palazzo la cappella era

splendidamente addobbata e Teresa Cristina vi

apparve bellissima, subito dopo la cerimonia

civile, anche se quella sua andatura ondeggiante

non le donava molto. Il 6 giugno la famiglia

reale accompagnava l’Imperatrice in visita alla

Constituição, la fregata che l’avrebbe ospitata

nel lungo viaggio verso la nuova patria.

Dall’arsenale cinque lance battenti bandiera

napoletana e brasiliana si diressero verso la

grande nave dove attendevano tutte le autorità

militari e diplomatiche brasiliane.

I preparativi per la partenza fervevano e

finalmente il primo luglio ebbe luogo la

cerimonia di passaggio e l’imbarco della

Imperatrice.

La cerimonia di passaggio fu veramente

suggestiva e commovente. Per realizzarla fu

scelta la Casina delle Delizie al Chiatamone. Una

scelta indovinata, dato il periodo. La Casina era

in riva al mare, dotata di un porticciolo che

avrebbe favorito l’imbarco, godeva anche del

fresco che offriva un ameno boschetto voluto da

Ferdinando I perché vi si riunisse piacevolmente

la famiglia. La sala fu addobbata riccamente e

divisa in due parti da una linea che segnava

idealmente il confine tra le due Patrie di Teresa

Cristina. Vi si sistemarono da una parte la

famiglia reale con tutti i dignitari e dall’altra i

diplomatici brasiliani. Teresa, accompagnata

dalle parole di saluto napoletane, fu accolta dalle

parole di benvenuto brasiliane.

Il Chiatamone brulicava di popolo, lo

specchio d’acqua brulicava di barche e

barchette: in tanti erano scesi in mare per

assistere a una partenza che non aveva

precedenti .

Il convoglio giunse in vista di Rio de

Janeiro il 3 settembre, il giorno successivo una

città pavesata a festa accoglieva in un tripudio di

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popolo e di musiche la giovane Imperatrice che il

23 settembre ritornò a bordo per salutare i legni

napoletani che rientravano riportando a Napoli

insieme a Luigi Conte d’Aquila, fratello di Teresa

Cristina, il ricordo di un’entusiastica accoglienza.

Teresa Cristina ritornerà a Napoli solo dopo

ventotto anni ma il rapporto affettuoso con la

sua Napoli e con la sua famiglia continuerà e se,

grazie a lei, il Brasile oggi vanta una ricca

collezione di reperti archeologici pompeiani ed

etruschi, anche i nostri musei conservano reperti

d’interesse antropologico Il Museo di

Antropologia di Napoli conserva almeno tre

reperti provenienti dalle regioni abitate dai

Botocudos.

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MARGINALI O CENTRALI? GLI AMERINDI NELLA CONQUISTA DI NUOVI SPAZI E RISORSE René Georges Maury Professore di Geografia umana Università degli Studi di Napoli L’Orientale

Chi viaggia nel continente americano, il

più esteso dal nord artico alla Terra di Fuoco

australe, incontra certamente i cosiddetti

“Indiani d’America”, lungo le strade, nelle

metropoli, in fila nei centri d’assistenza, nei

coloriti mercati, o semplicemente in visita a

riserve indiane, spesso confusi tra razze e

meticci americani. Insomma, la delicata

questione degli Amerindi nella loro vita parallela

con i dominanti coloni europei, la quasi

contemporanea importazione di schiavi africani e

l’arrivo poi di asiatici e immigranti da tutto il

mondo; ossia le sorti delle “Prime Nazioni”,

raramente presenti in centri di potere e cultura

ma sempre di più nelle discussioni politiche, più

accese oggi con le grandi manovre per il

controllo di nuovi territori e risorse.

La storia del continente è certo di

conquiste, tranquille o crudeli, fin dai primi

popoli asiatici giunti attraverso lo Stretto di

Bering (oggi largo 92 km), forse 40.000 anni fa,

fino ai Caraibi e, secondo un’ipotesi leggendaria,

riproposta dall’ardita navigazione di Thor

Heyerdahl sulla zattera Kon-Tiki nel 1947 dal

Perù fino alla Polinesia. Una moltitudine di

popoli, lingue e costumi, spesso oggi confinati in

riserve o, al meglio, in aree autonome, senza

dimenticare i popoli spariti, come nelle isole

caraibiche, o che ricordano epoche storiche

(Aztecas, Incas, Mayas ecc.), non tralasciando le

tribù ridotte a pochi individui, per caso ritrovate

nella foresta pluviale, gli “imprendibili” fuggitivi

della civiltà moderna. Nell’America Latina

troviamo una situazione forse migliore: tante

etnie che hanno conservato più o meno lingue,

riti e vita comunitaria, spesso vivendo ai margini

urbani o nelle montagne - ben 56 gruppi Indios

e 62 lingue indigene in Messico.

Considerati tra i “popoli minacciati” nel

mondo, gli autoctoni americani sono al centro

della discussione di attivisti e organismi sulle

prospettive di sviluppo, nell’agguerrita conquista

di nuovi spazi, a seguito di due fenomeni in

corso, con conseguente sconvolgimento di

territori, di comunità locali, indigene o meno, ed

equilibri ambientali. Gli effetti del riscaldamento

“globale”, evidente nel Grande Nord americano

(e in Siberia), ritenuti favorevoli per lo

sfruttamento di ulteriori risorse forestali e

minerarie, nonché per le nuove e discusse rotte

marittime circumpolari estive (passaggi a

nordovest e al nord della Russia). Verso

l’equatore e più a sud, l’altro fenomeno è la

deforestazione amazzonica per l’accaparramento

di nuove terre agricole per pascoli e soprattutto

per coltivazioni di soia e mais, anche

transgeniche, tra Amazzonia, Pampa e

Patagonia. Vi sono altri progetti contestati dagli

autoctoni come dighe nel bacino del Rio delle

Amazzoni, su fiumi del Centro America, e nel

Cile, la viva opposizione dei Mapuche a

idrocentrali (anche con partecipazione Enel).

Inoltre, l’urbanizzazione galoppante, i nuovi

complessi industriali e l’incremento del turismo,

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come nei Caraibi, creano situazioni lontane dai

riti ancestrali e modi di vita indigeni.

Tuttavia, non tutto sembra perduto.

Paradossalmente, con i grandi progetti in corso e

l’impatto ambientale (dighe, sfruttamento di

giacimenti) si è dovuto tenere conto degli

indigeni, su pressione di attivisti o per

opportunità, con accordi per realizzazioni sociali,

sanitarie e educative e d’infrastrutture (ad

esempio, il Plan Nord del Québec con le Nazioni

Cree e Inuit; il Mackensie Gas Project con

quattro etnie, addirittura associate al grande

progetto). Va rilevato il nuovo ruolo politico dei

Nativi (il presidente Evo Morales in Bolivia) e dei

riconoscimenti mondiali (Premio Nobel per la

Pace alla guatemalteca Rigoberta Menchú sui

diritti delle popolazioni indigene), non meno

l’aspetto religioso (ruolo delle chiese evangeliche

e perfino l’Islam per i Totzil del Messico). Solo

pochi giorni fa, sono stati riconosciuti dei diritti

ancestrali calpestati da stati o imprese coloniali

(a 41 tribù negli USA).

Comunque, l’attenzione mediatica a

proteste, pacifiche o vivacemente espresse da

gruppi etnici per rivendicare nella nuova società

civile, attiva in America Latina e anche al Nord,

permette di sperare in un consolidamento

dell’identità culturale e comunitaria degli

Amerindi, che, come altri Survival’s Peoples,

possano lottare per affermare le loro peculiarità

linguistiche e culturali, anche per una reale

partecipazione alla vita economica e sociale,

oltre le danze folcloriche o attività di casinò.

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L’INCONTRO CON I “FRATELLI MAGGIORI” DELLA SIERRA NEVADA DE SANTA MARTA Antonino Colajanni Professore di Antropologia sociale Università degli Studi di Roma La Sapienza

Nei miei numerosi viaggi di visita, di

esplorazione e di ricerca presso diverse

popolazioni indigene dell’America Latina, mi

sono spesso trovato contrariato e pieno di

disappunto di fronte ad alcune dichiarazioni di

esaltazione dei “poteri” e delle ricchezze della

civiltà dell’Occidente, alle quali corrispondevano

altrettante denigrazioni, sottostime, e

sottovalutazioni della propria tradizione, della

propria cultura, delle proprie capacità. Era

fastidioso sentirsi dire da giovani indigeni

appena scolarizzati: “I nostri antenati non

sapevano fare nulla; solo la guerra e la

stregoneria! Voi sì che avete tante cose

importanti!”. E così via. Una volta a Puerto

Ayacucho, una cittadina al confine dell’Amaz-

zonia Venezolana, un indigeno Piaroa (che avevo

riconosciuto per i tatuaggi sulle guance e per la

faccia inconfondibile, ma era vestito

inappuntabilmente da contadino della regione),

mi rispose con disappunto, quando io dichiarai di

averlo riconosciuto come indigeno Piaroa: “Ma io

non sono affatto indio! Sono racional come lei!

Ho fatto le scuole e abito in una casa di

cemento!”. Negava astiosamente la sua vera

identità.

È evidente che queste dichiarazioni,

questi nascondimenti identitari (che magari

potranno essere strumentali, di facciata, e

destinati a ingraziarsi l’interlocutore), sono

determinati dalla nefasta influenza della

modernizzazione disordinata che induce al

disprezzo del sé.

Sono rimasto, per questo, molto

piacevolmente meravigliato quando, una ventina

d’anni or sono, incontrai per la prima volta un

indigeno Kogi, della Sierra Nevada de Santa

Marta, il quale mi disse che proveniva dalla

società dei “Fratelli Maggiori” (Hermanitos

Mayores) che vivevano nella grande montagna

(la “Grande Madre”) del Nord della Colombia.

Finalmente una società indigena diversa, che

proclamava senza timori e con grande orgoglio

la sua “superiorità” rispetto ai Bianchi della

costa! Già nel mio primo viaggio sulla Sierra (la

prima di una quindicina di ascensioni che si sono

estese per lunghi anni), cominciai a passare ore

conversando con uno dei Mama (“sacerdoti”,

esperti del rituale) che avevano una formazione

che durava più di 15 anni, attraverso lo studio di

canti e danze, l’apprendimento di “come

funzionava la Grande Madre” (la Sierra), e la

concentrazione per giornate intere, in solitudine,

sulla cima di un monte. I miei interlocutori mi

dicevano: “Come fai a stare tanto tempo con i

“Fratelli Minori” (Hermanitos Menores), che

sanno poco e nulla, non capiscono l’aspetto

spirituale delle cose, e passano come bambini

insicuri da una cosa all’altra, senza sapersi

soffermare bene su una di esse? Loro non sanno

niente degli astri, non sanno leggere la vita degli

alberi e le orme degli animali, non sanno capire

cosa dice il vento e perché il tuono si sente da

una parte e da un’altra no! Fai bene a venire da

noi, che siamo i ‘Responsabili del Mantenimento

del Mondo’! Forse tu potrai imparare qualcosa”.

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Il senso di “superiorità” dei Kogi era sorpren-

dente. Una volta mi dissero: “Qui si è sentito

dire che il Fratello Minore dice che noi siamo

‘sottosviluppati’. Cosa vorrà dire, che siamo

‘sotto’ qualcosa? Ma noi stiamo ‘sopra’, in alto,

più in alto di tutti nella Montagna! Ed è ridicolo

pensare che un gruppo di uomini sia ‘privo’ di

qualcosa. Tutti hanno le case, le piantagioni, i

loro attrezzi, fanno i loro rituali nei modi giusti,

seppelliscono i morti e sanno divinare il futuro.

Proprio tutti: Noi, i Chimila, i Wayú, perfino i

Bari. Come si può pensare che un popolo non sia

‘completo’? Solo al Fratello Minore poteva venire

in mente un’idea così balorda!”. E aggiunge-

vano: “Se il Fratello Minore ci ascoltasse, forse

le acque dei fiumi non si sarebbero abbassate

come hanno fatto, la foresta non sarebbe

diminuita come ha fatto, e giù nella costa, il

mare non avrebbe assalito le spiagge creando

distruzione. Bisogna imparare a salvaguardare la

Grande Madre. Ma il Bianco non sa imparare,

non sa ascoltare!”.

I Mama osservavano con curiosità e

attenzione l’opera di alcuni agronomi e forestali

del Ministero dell’Ambiente, che predisponevano

un intervento di riforestazione nelle zone mal

utilizzate dai coloni. Vedevano i tecnici fare dei

buchi nel terreno (“nel Corpo della Madre”) e

piazzare le piantine a circa un metro l’una

dall’altra, fitte fitte, ordinate come un esercito

sull’attenti. E dicevano: “Quando mai s’è vista

una foresta così ordinata, con gli alberi così

vicini? Le foreste sono fatte di alberi che

discutono tra loro, e spesso litigano, e stanno

alcuni vicini altri lontani. Noi, quando un bosco si

sta deteriorando, recingiamo con uno steccato la

zona, per non far entrare gli animali, facciamo

drenare bene il terreno, togliamo certe piante

cattive….e lasciamo che il tempo curi la foresta

come sa fare, piano piano. Questa è la nostra

rigenerazione del bosco. Pensiamo che prima di

venire qui a insegnarci la loro inefficace

riforestazione (molti alberi piccoli muoiono pochi

mesi dopo), i vostri tecnici dovrebbero

riforestarsi dentro!”.

Questo popolo indigeno americano, i

Kogi della Sierra Nevada de Santa Marta, dotato

di grande saggezza e di rara presunzione, è un

caso in parte isolato e raro. Ma riscatta

pienamente quella artificiale e triste forma di

soggezione che cinque secoli di costrizioni da

parte degli Europei hanno imposto a buona parte

dei popoli dell’America.

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