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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO

PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA

CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA 9 di Tullio Jappelli COS’È IL CAPITALE UMANO, COME INVESTIRE IN QUESTA FORMA DI RICCHEZZA, QUANTO RENDE? 11 di Marcello D'Amato CAPITALE UMANO E EGUAGLIANZA DI OPPORTUNITÀ 13 di Massimo Marrelli SI DICE CAPITALE UMANO SI LEGGE SVILUPPO 15 di Giovanni Laino CAPITALE UMANO E SVILUPPO ECONOMICO: DA LISBONA ALLA CAMPANIA 17 di Dora Gambardella INCENTIVI E VALUTAZIONE: LE LEZIONI DEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO 19 di Ciro Avitabile

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Non tutti i lavoratori sono ugualmente produttivi, per lo più in ragione

del loro "capitale umano", che a sua volta riflette il loro grado di istruzione e stato di salute. Quanto rende l'investimento in istruzione? E in che misura differenze nelle dotazioni di capitale umano possono

spiegare le disuguaglianze fra paesi e al loro interno?

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Gli articoli degli incontri si trovano all’indirizzo

www.comeallacorte.unina.it

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Tullio Jappelli

Tullio Jappelli insegna macroeconomia presso

l'Università di Napoli Federico II, è direttore del

Centro Interuniversitario di Studi in Economia e

Finanza (CSEF) e Research Fellow del Centre for

Economic Policy Research (CEPR, Londra). Ha

conseguito il Ph.D. in Economia presso il Boston

College e svolto periodi di studio presso MIT,

Università di Pennsylvania e Università di Princeton.

L’attività di ricerca riguarda prevalentemente i temi

del risparmio, delle scelte di portafoglio, della

previdenza sociale e dei trasferimenti intergenerazionali. Ha pubblicato oltre 60 lavori su riviste

accademiche e quattro libri sui temi del risparmio e delle scelte di portafoglio delle famiglie. È

condirettore di Economic Policy (dal 2008) e del Giornale degli Economisti (dal 1998). Ha

collaborato a progetti di ricerca di numerose istituzioni internazionali. Coordina, insieme a

Riccardo Martina e Marco Pagano, il Master in Economics and Finance (MEF) dell'Università di

Napoli Federico II.

pagina web: http://www.csef.it/people/jappelli.htm

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Capitale umano e crescita economica

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

CAPITALE UMANO E CRESCITA ECONOMICA Tullio Jappelli Professore di Macroeconomia Università degli Studi di Napoli Federico II

La capacità di elaborare informazioni e

utilizzarle nella soluzione di problemi o per

apprendere, le competenze linguistiche, la

capacità di operare con particolari tecnologie, la

conoscenza scientifica sono tutti fattori cruciali

per la crescita della produttività, sia a livello

individuale sia collettivo. Per questo motivo nelle

economie sviluppate la capacità intellettuale è di

gran lunga più importante di quella fisica nella

determinazione del reddito di una persona.

L'investimento in capitale umano

protegge anche dal rischio di perdere il posto di

lavoro, perché ci rende più produttivi più a lungo

e adattabili a mansioni diverse; favorisce la

mobilità sociale, perché consente ai più

meritevoli di raggiungere posizioni più elevate

nella scala sociale; migliora anche la salute,

perché individui più istruiti sono più attenti a

prevenire le malattie e dispongono di maggiori

risorse per affrontarle. Poiché il reddito di un

individuo e di una collettività dipendono in parte

dal capitale umano, gli investimenti che

migliorano le competenze di una persona, cioè

l’istruzione e la formazione professionale, sono

le forme più importanti di investimento in

capitale umano. Proprio come il capitale fisico, il

capitale umano ha un suo rendimento, perché

fornisce al lavoratore che lo detiene una

retribuzione maggiore. Gli economisti calcolano

questo rendimento a partire dalle retribuzioni. Il

fatto che chi ha un alto livello di istruzione

percepisce retribuzioni maggiori è considerato

una prova di come il mercato valuta il suo

capitale umano. Si calcola che nei paesi

sviluppati acquisire un anno in più di istruzione

aumenta le retribuzioni di quasi il 10 percento. Il

rendimento è maggiore nei paesi in via di

sviluppo, e tende ad abbassarsi per i gradi di

istruzione più elevati. Naturalmente l’istruzione

non spiega tutto. Ad esempio, il reddito dei figli

dipende fortemente dal reddito dei genitori,

anche a parità di livello di istruzione, oltre che

da altri fattori.

Nel confronto internazionale sappiamo

che vi è una forte relazione tra reddito pro capite

e livello di istruzione. Paesi con un grado di

istruzione medio pari a 12 anni hanno un reddito

pro capite 8 volte superiore a quelli con grado di

istruzione pari a 6 anni. La straordinaria crescita

del Giappone nel dopoguerra e, più

recentemente, il miracolo economico di altri

paesi asiatici sono in gran parte una storia di

manodopera istruita e ben addestrata sui posti

di lavoro. Ma questa osservazione, di per sé, non

ci dice quanta parte della differenza nei livelli di

reddito sia effettivamente causata da differenze

nei livelli di istruzione. Infatti, è anche vero che i

paesi più ricchi possono permettersi di investire

di più in istruzione. Inoltre, la ricerca recente ha

messo in luce il fatto che conta non solo il livello

di istruzione formale (gli anni trascorsi a scuola),

ma anche le competenze acquisite, che solo in

parte dipendono dagli anni di studio. Molte

indagini internazionali mettono in evidenza che

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le competenze acquisite variano enormemente

tra paesi, anche a parità di età e istruzione, e

che le competenze dipendono anche dalla qualità

delle strutture scolastiche, dal background fami-

liare, dalla formazione e retribuzione degli inse-

gnanti, dal tempo trascorso a scuola e così via.

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COS’È IL CAPITALE UMANO, COME INVESTIRE IN QUESTA FORMA DI RICCHEZZA, QUANTO RENDE? Marcello D’Amato Professore di Politica economica Università degli Studi di Salerno

Cos’è il capitale umano? In che senso

umano? Esiste anche quello dis-umano?

D’accordo forse non è una felice definizione per

un concetto importante ma prendiamo i termini

della disciplina come dati e proviamo a capirci.

Per il discorso che segue serve solo che, di

fronte al termine “capitale umano”, per “umano”

s’intenda l’insieme di risorse fisiche, intellettuali

e di conoscenza di un individuo, insomma non

ciò che possiede ma ciò che sa fare. Per

“capitale” il discorso è più complesso. Non si

deve intendere solo che tali risorse hanno valore

sul “mercato”, dalle quali cioè è possibile, per

l’individuo, ottenere reddito. Il termine “capitale”

si riferisce al fatto che per ottenere l’insieme di

risorse considerato è necessario aver realizzato

un investimento. In altre parole il capitale

umano può essere accumulato solo attraverso

atti di rinuncia, in un certo senso come la terra,

come il capitale fisico, come il capitale

finanziario, di qui l’uso del termine. Le differenze

principali con altre forme di capitale è che il

capitale umano non può essere, se non in parte

e secondo modalità diverse, trasmesso ad aventi

causa. Una conseguenza importante

dell’imperfetta trasmissibilità è il fatto che nel

finanziare l’investimento il capitale umano non

può essere utilizzato (come collaterale) per

l’accesso al credito. Il secondo punto su cui

porre attenzione è che l’investimento individuale

in capitale umano è collegato, al resto dell’eco-

nomia nel suo complesso e in modo straordi-

nariamente complicato agli investimenti in altre

forme di capitale e all’investimento in capitale

umano realizzato da altri individui1. Com’è per

altre decisioni il coordinamento avviene di solito

attraverso il mercato. Come e, forse, più che in

altri casi, l’investimento in capitale umano

avviene in presenza di esternalità che i mercati

non riescono a governare in modo efficiente.

Questi fallimenti di mercato (imperfe-

zioni del mercato del credito ed esternalità)

rappresentano un problema importante per

interpretare e magari governare la crescita nelle

economie moderne.

È oramai opinione condivisa che la

crescita delle unità economiche, sia elementari

(famiglie e imprese) sia aggregate (territori,

paesi, stati/nazione), dipende in misura cruciale

dal capitale umano in questa accezione.

L’importanza del tema ha quindi giustamente

meritato grande attenzione nella comunità degli

economisti negli ultimi cinquant’anni: essi hanno

provato ad estendere l’analisi dell’accumulazione

del capitale umano a partire dai termini in cui si

analizza di norma l’accumulazione di altre forme

di capitale2. Si considerano i benefici e i costi

1 Incentivi ed esiti attesi nella scelta di diventare, per esempio, neurochirurgo cambiano se nessun altro investe per diventare anestesista, assistente post operatorio o nessuno investe in macchinari di sala operatoria. 2 In società non troppo lontane nel tempo e nello spazio la scelta era solo parzialmente consapevole (per l’individuo) e veniva influenzata - se non presa - dall’intero gruppo familiare o indotta in modo più o meno cogente dalla posizione sociale della famiglia di

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individuali fronteggiati dall’unità decisionale di

riferimento. Poniamo il caso di un ragazzo di

diciotto anni che considera se diventare

neurochirurgo o meno: valuterà- con l’aiuto e le

cognizioni di causa di amici e familiari- costi

immediati (sette anni destinabili ad altro) e

benefici attesi (salario, prestigio, passione

personale, il tutto pesato per le appropriate

probabilità) se i secondi superano i primi, il

ragazzo decide di incorrere nei costi oggi per

ottenere benefici domani. I problemi, come detto

riguardano due aspetti: fallimenti del mercato

del credito ed esternalità delle scelte individuali

non perfettamente controllate dai mercati3.

Dati questi problemi è più opportuno

utilizzare forme di intervento pubblico o delegare

al mercato l’allocazione della principale risorsa

delle moderne economie? Entrambe le soluzioni

hanno punti di forza e punti di debolezza. Il di-

battito su questi temi rappresenta uno dei temi

più spinosi della teoria della crescita, sia dal

punto di vista della teoria, sia dal punto di vista

delle analisi empiriche. Senza entrare nei

dettagli del dibattito ritengo che la principale

lezione della teoria del capitale umano in

presenza di imperfezioni di mercato è che la

parità di condizioni di opportunità per l’investi-

appartenenza. Sotto il profilo individuale, più che una decisione libera e responsabile, faceva parte del processo di crescita e maturazione dell’individuo in quella struttura sociale. Oggi questo è meno vero e il profilo individuale della decisione analizzato dagli economisti ha maggiore rilevanza che in passato. 3 Quale mercato al di fuori della famiglia è disposto a finanziare questo investimento? Come si coordina l’insieme delle decisioni di diventare neurochirurgo con quelle di diventare assistente di sala operatoria o imprenditore di cliniche specializzate?

mento delle famiglie non è una questione di

giustizia sociale, è una questione di efficienza4.

Dal punto di vista politico e su un orizzonte di

tempo di un paio di generazioni ritengo sia

questo il punto su cui si regge o crolla – nel

lungo periodo- la credibilità degli Stati

contemporanei (o qualunque altra organizzazio-

nerappresentativa) in termini di democrazia

politica. Molto più che sulla credibilità della

Banca Centrale Europea o di quella della Borsa

di Londra e delle agenzie di rating.

4 Per completezza: esiste ed è autorevole e influente una scuola di pensiero che ritiene i fallimenti di mercato in questo settore non superiori a quelli generati dall’intervento pubblico. Secondo questa scuola in un’economia di mercato un talento riesce sempre in qualche modo ad emergere (in misura maggiore o minore a seconda del settore o del background). Il processo di mobilità sociale innescato dall’alea della genetica dei talenti innati e dalla trasmissibilità culturale di una parte del capitale umano all’interno della famiglia, permette di rendere vantaggioso ex-ante per tutti il meccanismo di allocazione indotto dal mercato.

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CAPITALE UMANO E EGUAGLIANZA DI OPPORTUNITÀ Massimo Marrelli Professore di Economia pubblica Università degli Studi di Napoli Federico II

L'eguaglianza delle opportunità è un

principio di giustizia distributiva ampiamente

accettato nelle società democratiche occidentali.

È anche ampiamente riconosciuto il ruolo che il

sistema di istruzione può svolgere nel

determinare il livello di uguaglianza delle

opportunità e di mobilità intergenerazionale

all'interno di una società. È, quindi, di primaria

importanza valutare gli effetti delle politiche di

istruzione in termini di uguaglianza delle

opportunità. Tuttavia, una valutazione del

genere incontra difficoltà, non solo dal punto di

vista della scarsità di dati, ma anche sullo stesso

piano concettuale: cosa significa esattamente

eguaglianza delle opportunità? È sufficiente

eliminare qualsiasi forma di discriminazione per

assicurarla? Fornire pari risorse scolastiche a

tutti gli studenti assicura che esista eguaglianza

di opportunità?

Gli studi più recenti hanno provato a

risolvere il problema partendo dall’ipotesi che la

distribuzione di un particolare tipo di risultati

individuali (per es. voti di laurea, reddito post

laurea, etc.) possa essere determinato da due

classi di variabili: circostanze e impegno. Da

questo assunto è allora possibile dividere gli

individui in gruppi (o "tipi") caratterizzati dal

possesso delle medesime circostanze (per

esempio background familiare, percorsi di studio

pre universitari, regione geografica, ecc.); se si

ritiene che il risultato individuale sia determinato

unicamente dalle circostanze e dall'impegno, e

che la distribuzione dell'impegno sia

indipendente dalle circostanze allora tutta la

variabilità dei risultati degli individui all'interno

di un dato gruppo sarà prodotta dal diverso

livello di impegno personale. Ciò equivale a dire

che la distribuzione dei risultati condizionata alle

circostanze può essere interpretata come

l'insieme dei risultati disponibili agli individui che

sono dotati delle medesime circostanze:

l'insieme delle opportunità, espresse in termini

di risultati, a disposizione di ogni individuo

appartenente a quel gruppo. Quindi

confrontando gli insiemi di opportunità di due

individui dotati di una diversa dotazione di

circostanze si può verificare la presenza di

diseguaglianza di opportunità.

In un lavoro recente (2009) Peragine e

Serlenga hanno condotto un’indagine di questo

tipo per i laureati delle Università italiane.

I risultati sono interessanti. I risultati

empirici mostrano una forte influenza della

famiglia sulle performances universitarie degli

studenti e sulla transizione dei laureati nel

mercato del lavoro. Il grado di diseguaglianza

nelle opportunità è più forte se si osservano gli

effetti del background familiare sui voti di laurea

e sul tasso di abbandono rispetto a quelli sul

reddito dei laureati.

La diseguaglianza di opportunità risulta

essere più marcata al Sud che al Centro-Nord, in

modo particolare sulle distribuzioni del reddito

dei laureati. L'effetto delle origini sociali svolge

un ruolo importante nel determinare le

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distribuzioni del reddito anche tra laureati con lo

stesso voto di laurea e questo effetto è più forte

al Sud che al Centro-Nord. L'esistenza di voti

generalmente più alti nelle regioni del Sud e dei

forti effetti del background familiare su quei voti

sono indicativi di un sistema universitario che

difficilmente riesce a segnalare in modo

appropriato le abilità e le competenze degli

studenti. Ma se il sistema dell'istruzione fallisce

nell'essere pienamente meritocratico e nel

selezionare in base alle abilità allora diventa più

facile che altri meccanismi lo sostituiscano nel

mercato del lavoro. Inoltre, le aspettative di un

mercato del lavoro non in grado di riconoscere

pienamente le competenze acquisite, può

generare una scelta "razionale" di minor

investimento in Istruzione.

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SI DICE CAPITALE UMANO SI LEGGE SVILUPPO Giovanni Laino Professore Politiche urbane e territoriali Università degli Studi di Napoli Federico II

L’ultimo premio Nobel per l’economia è

andato – per la prima volta – ad una donna che,

forse non a caso, secondo la motivazione lo ha

meritato “per aver dimostrato come la proprietà

pubblica possa essere gestita dalle associazioni

di utenti e per la sua analisi della governance in

economia, in modo particolare del bene

collettivo”. Una donna che ha dato prove

economiche della cooperazione fra gli esseri

umani come fattore strategico per lo sviluppo.

È un segnale molto rilevante della

progressiva evidenza che le buone qualità del

capitale umano, e quindi gli investimenti per tali

finalità, sono essenziali per realizzare

seriamente traiettorie di sviluppo (termine da

preferire a quello, più neutro, di crescita).

Il capitale umano ha diverse dimensioni,

in parte ancora un po’ misteriose, almeno per la

sua riproduzione e crescita. L’istruzione in una

scuola che dovrebbe essere meglio curata dai

governi, resta una condizione incisiva che

interagisce con altri fattori, quelli delle reti corte:

madre istruita; capitale socio professionale degli

adulti della famiglia; sistema delle opportunità

presenti nei gruppi dei pari. Ma siamo in una

società che offre ai giovani limitate opportunità

di promozione e mobilità sociale. Una delle

piaghe delle conurbazioni del mezzogiorno è

proprio un basso livello di istruzione, che, ancor

più nei gruppi sociali molto deboli, determina

l’esistenza di centinaia di migliaia di ragazze/i

poco alfabetizzati e poco occupabili, perché

hanno carenze di competenze trasversali di

base.

Lo studio delle carriere sociali delle

famiglie che vivono sulla loro pelle la miseria

urbana rivela che, dopo decenni di povertà e di

reiterazione delle disopportunità, la povertà

economica, diventa multidimensionale e morde

dentro: investe le capacità di immaginare, di

sperare, di progettare, di investire. Tende a

seppellire la resilienza dei soggetti quando essi

non scelgono scorciatoie illecite. L’evidenza del

peso che l’esposizione ai rischi sociali ha nella

costruzione di forti condizionamenti di una sorta

di destino sociale dei “trop out” (come

affettuosamente chiamiamo quelli che, si

trovano ad essere calamite di guai), è

un’ulteriore verifica della rilevanza del capitale

umano.

È necessario superare le retoriche che

lavano un po’ le false coscienze ma non

cambiano i processi reali. Crediamo veramente

nella formazione di qualità e nella meritocrazia?

Siamo veramente capaci di pensare al benessere

dei nostri figli e quindi convinti che le politiche di

coesione sociale per migliorare il capitale sociale

dei più deboli, sono un fattore strategico per un

modello di sviluppo necessario oltre che

auspicabile? La disponibilità di badanti straniere

istruite ed educate come di maggiordomi indiani

affidabili fa sentire molti ben pensanti protetti.

Per ora non sembra affare nostro l’esistenza e la

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qualità delle pari opportunità per gli

svantaggiati. Con un velo di opacità e

incoscienza, in realtà, a molti di noi non importa

molto quanto si riesca a fare davvero per

qualificare il capitale umano. Perché non sappia-

mo bene quanto sia rilevante il capitale umano

per la cura dei beni comuni, ma anche perché

oggi è molto difficile vivere secondo un orizzonte

di senso veramente solidale, attento alla

sostenibilità.

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CAPITALE UMANO E SVILUPPO ECONOMICO: DA LISBONA ALLA CAMPANIA Dora Gambardella Professore di Metodologia della ricerca sociale Università degli Studi di Napoli Federico II

La prima Strategia di Lisbona ambiva a

rendere entro il 2010 l’Ue “l’economia della

conoscenza più competitiva e dinamica del

mondo, capace di una crescita economica

durevole accompagnata da un miglioramento

quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da

una maggiore coesione sociale”, un obiettivo

ambizioso in cui la piena occupazione e la

coesione sociale assumono pari peso rispetto

alla crescita economica e alla competitività, con

un ruolo cruciale riconosciuto all’investimento in

capitale umano. Oggi, a dieci anni di distanza da

quella dichiarazione di intenti, mentre ferve il

dibattito intorno alle opzioni aperte per il

coordinamento della politica Ue dopo il 2010,

appare chiaro che nessuno degli indicatori fissati

a Lisbona sarà raggiunto, come mostrano i dati

riportati da Pochet in un recente numero della

Rivista delle Politiche Sociali interamente

dedicato al tema (2009).

Per quanto riguarda in particolare

l’obiettivo della creazione della società della

conoscenza - misurato attraverso la spesa in

ricerca e sviluppo e l’accesso alla formazione

continua – solo pochi paesi europei raggiungono

gli standard fissati a Lisbona, con l’Italia al 17°

posto per entrambi gli indicatori nella

graduatoria dei paesi europei a 27. Stesso

discorso per gli indicatori relativi al mercato del

lavoro – che semmai segnalano solo la crescita

dei contratti atipici e del lavoro a tempo parziale

– e per la diseguaglianza nella distribuzione dei

redditi, semmai aumentata in 16 paesi su 23.

Al di là della riflessione intorno alle

ragioni del fallimento della Strategia di Lisbona,

occorrerebbe interrogarsi sui modi con cui questi

temi vengono ripresi e declinati nelle politiche

pubbliche nazionali e locali e soprattutto sullo

scarto esistente tra arene discorsive e arene

delle pratiche. Anche qui solo un esempio. La

Legge per la dignità e la cittadinanza sociale

campana (L.R. 11/2007), partendo da una

nuova concezione delle politiche sociali,

concepite non più come unicamente orientate

alla cura del disagio, ma anche allo sviluppo

socio economico del territorio, promuove

l’integrazione “degli interventi e servizi sociali,

sanitari, educativi, delle politiche attive del

lavoro, dell’immigrazione, delle politiche

abitative e di sicurezza dei cittadini”, salvo

dedicare attenzione alla sola integrazione

sociosanitaria. Allo stesso modo il Piano Sociale

Regionale 2009-2011 riconosce il carattere

assolutamente decisivo per lo sviluppo

complessivo del territorio della “convenzione tra

sistema sociale e altri settori che governano la

società, quali l’economia, l’urbanistica,

l’ambiente” (PSR 2009, 44).

Al di là delle enunciazioni di principio, i

temi connessi alla promozione di capacità, alla

partecipazione e integrazione stentano

concretamente a realizzarsi. Su tutto ciò pesa

indubbiamente la forte carenza di risorse

economiche, specie in rapporto alla domanda

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latente e espressa di prestazioni e servizi sociali,

così come pesa negativamente il ritardo nello

sviluppo economico. Nonostante le indubbie

difficoltà, non mancano anche nella nostra

regione interventi innovativi di indubbio interes-

se, che però raramente hanno superato la fase

della mera sperimentazione, mostrando tutte le

difficoltà dell’innovazione a diventare sistema.

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INCENTIVI E VALUTAZIONE: LE LEZIONI DEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO Ciro Avitabile Modigliani Fellowship Università degli Studi di Napoli Federico II

Negli ultimi decenni il fenomeno della

dispersione scolastica ha registrato una sensibile

riduzione ma ci sono regioni italiane in cui il

numero di abbandoni è ancora molto alto.

Secondo i dati forniti dal Ministero

dell’Istruzione, nell’anno 2006/07 in Campania

e Sicilia gli studenti che hanno abbandonato gli

studi hanno superato, rispettivamente, le 7.000

e 6.000 unità. Il fenomeno acquisisce dimensioni

ancora più preoccupanti se si considerano i

bambini che, pur continuando a frequentare la

scuola dell’obbligo, lavorano in nero: nella sola

provincia di Napoli ci sono 40.000 bambini tra i 9

e i 13 anni che lavorano. In questi anni non

sono mancate politiche e programmi volti a

ridurre il fenomeno della dispersione scolastica,

ma la valutazione di questi interventi è stata o

del tutto inesistente o basata su metodi

scientifici poco attendibili.

Il basso tasso di scolarizzazione viene

comunemente annoverato tra le cause principali

degli alti tassi di povertà e disuguaglianza nelle

aree più arretrate. Proprio per aumentare la

partecipazione scolastica e, più in generale,

incentivare l’accumulazione di capitale umano, in

numerosi paesi in via di sviluppo sono stati

introdotti nell’ultimo decennio programmi di

sussidi condizionali, noti in inglese con il nome di

Conditional Cash Transfers. Questi programmi

subordinano trasferimenti in denaro alle famiglie

più povere all’effettuazione di predeterminati

investimenti in capitale umano. Al fine di

ricevere gli aiuti, le famiglie devono iscrivere i

propri figli a scuola e garantire un’assidua

frequenza. Altre condizioni prevedono che i

bambini sostengano regolari visite mediche e

che i genitori frequentino corsi di informazione in

materie di salute e nutrizione. In Messico il

programma Oportunidades distribuisce aiuti ad

un totale di 5 milioni di famiglie, mentre in

Brasile il programma Bolsa Familia dà sostegno

a quasi 12 milioni di famiglie. La strategia di

riduzione della povertà perseguita da questi

programmi è stata quella di bilanciare obiettivi di

sostegno sociale con quelli di formazione del

capitale umano. I risultati di un recente studio

della Banca Mondiale evidenziano come questi

programmi siano riusciti ad aumentare, da un

lato, il livello dei consumi delle famiglie e,

dall’altro, il tasso di iscrizione e frequenza alla

scuola primaria e secondaria.

Alla base del successo di questi

programmi c’è, tra le altre cose, un attento

processo di monitoraggio e di valutazione. La

verifica del rispetto dei requisiti per ottenere il

sussidio si basa sul confronto dell’informazione

raccolta dai diversi attori coinvolti (enti statali,

organizzazioni non-governative e beneficiari).

Questo controllo incrociato ha determinato un

limitato numero di casi di corruzione.

L’applicazione su larga scala dei Conditional

Cash Transfers è stata preceduta

dall’introduzione di progetti pilota che sono stati

valutati utilizzando metodi statistici che

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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II Capitale umano e crescita economica

Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II

permettono di identificare l’effetto del program-

ma sul comportamento individuale. Sistemi di

monitoraggio e valutazione rigorosi sono requi-

siti indispensabili per il successo delle politiche di

sviluppo, in Messico come nel sud Italia.

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