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In questo suo nuovo saggio, Marco Vannini – tra i più eminenti studiosi della tradizione spiritualecristiana – torna a sondare i vasti territori della mistica, non solo occidentale ma anche orientale. DaMeister Eckhart al brahmanesimo e al buddhismo, per giungere a quello straordinario monacocristiano-hindu che fu Henri Le Saux- Abhishiktananda, si compone così il quadro concettuale di unardito viaggio nel profondo dell’anima. L’“uomo distaccato” del misticismo radicale di Eckhart, cheama veramente perché diviene l’amore stesso, si incontra con l’assenza di fine del Buddha, inverandoil messaggio cristiano della rinuncia all’ego e alle sue menzogne, al di là di ogni fideismo, di ognireligiosità o dottrina del Libro. La guarigione dall’ansia, dal dolore del vivere, suggerisce Vannini, èfrutto dell’apertura all’unico mistero dell’Essere, alla sola realtà: quella dello Spirito, che, nella suaeternità, governa la corretta visione del presente. La fedeltà al messaggio cristiano significa quindiandare oltre lo stesso cristianesimo nei suoi condizionamenti storico-ideologici, superando l’ego e lasua tirannia e riscoprendo in se stessi, come indicava San Paolo, lo spirito di Cristo e la suabeatitudine.

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Marco Vannini ha riportato alla luce in Italia, con un lavoro quarantennale, alcuni dei più grandimaestri spirituali medievali e moderni: da Eckhart a Taulero, da Margherita Porete a Jean Gerson, daFénelon a Madame Guyon, da Sebastian Frank a Valentin Weigel e ad Angelus Silesius, pressoBompiani, il capolavoro dell’Anonimo Francofortese, la cosidetta Teologia tedesca (2009) e iCommenti all’Antico testamento di Meister Eckhart (2012).

Convinto che su queste fonti debba riattingere anche il cristianesimo del nostro tempo, ha pubblicato,più di recente, Tesi per una riforma religiosa (Le lettere 2006), La religione della ragione (BrunoMondadori 2007), Mistica e filosofia (Le lettere 2007), Dialettica della fede (Le Lettere 2011),Lessico mistico (Le Lettere 2013) e, per Bompiani, Prego Dio che mi liberi da Dio (2010).

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GRANDI PASSAGGI

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MARCO VANNINI OLTRE IL CRISTIANESIMO

Da Eckhart a Le Saux

BOMPIANI

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© 2013 Bompiani / RCS Libri S.p.A.

Via Angelo Rizzoli, 8 – 20132 Milano

ISBN 978-88-58-75981-3

Prima edizione digitale 2013 da edizione Bompiani maggio 2013

Immagine di copertina: Michael Wutky, Studio di nuvole, Vienna,

Kupferstichkabinett, Akademie der Bildenden Künste.

Progetto grafico: Polystudio. Copertina: Carla Moroni.

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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È bene per voi che io me ne vada. Infatti, se non me ne vado,non giungerà a voi lo spirito di consolazione; mentre, se me nevado, lo manderò a voi. […]

Quando verrà quello spirito di verità, vi insegnerà tutta laverità.

Gv 16, 7 e 13

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Il perché di un libro

L’idea di questo libro risale ad anni lontani, ovvero alla lettura di Eckhart1 e del libro diCoomaraswamyInduismo e buddismo, 2 in cui si sostiene la sostanziale concordanza tra queste duereligioni e a entrambi i capitoli – l’uno sull’induismo, l’altro sul buddhismo, appunto – si premette unpensiero del mistico tedesco, a significarne la sintonia con esse. Agli studiosi, del resto, non erasfuggita la concordanza tra la tradizione spirituale dell’India ed Eckhart, 3 fin da quando le sue opereerano tornate alla luce.

Ai nostri giorni tale concordanza è stata rilevata anche da Henri Le Saux, il monacobenedettino francese cui proprio l’esperienza religioso-filosofica indiana ha fornito la chiave percomprendere il senso profondo della predicazione di Gesù. Egli ha riconosciuto in Eckhart il maestrocristiano più vicino al non-dualismo indiano e perciò anche il mistico d’Occidente a lui stesso piùsimile. Entrambi, infatti, muovendo dall’interno del cristianesimo, sono andati oltre la dottrina, oltrela dogmatica, oltre la morale, verso l’esperienza interiore dell’Uno, in cui è la beatitudine,jīvanmukti.

È molto significativo che un monaco medievale e uno contemporaneo concordino non solo tradi loro ma anche con la mistica dell’India. Eckhart non ne ebbe, ovviamente, alcuna consapevolezza,ma Le Saux ne fu, al contrario, perfettamente conscio. Uomo del Novecento, con la cultura storica,filologica e scientifica del nostro tempo, al benedettino francese non era più possibile il quadro diriferimento obbligatorio per il domenicano tedesco – ovvero non gli era più possibile la credenzanella mitologia biblica, nella Scrittura come “parola di Dio”: troppo bene si conosceva ormai la storiadi formazione della Bibbia, il suo fine socio-politico, la serie di invenzioni di cui è intessuta. Quelcongedo dalla credenza religiosa, ovvero dalla teologia come menzogna, 4 che Eckhart prendeva innome del tribunale supremo della verità interiore, testimonium spiritus sancti, Le Saux lo prendeperciò anche in nome della verità storica.

La storiografia dei nostri giorni, infatti, dimostra che non si può più parlare del cristianesimocome religione istituita da Cristo. Gesù fu un profeta itinerante, un taumaturgo, che annunciava ilprossimo avvento del regno di Dio, insegnando il distacco dai beni terreni, dalla famiglia e,soprattutto, da se stessi, con una beatitudine già qui e ora presente. Il regno di Dio promesso nonvenne e i seguaci di Gesù dettero vita a diverse comunità, fondate su credenze diverse. Insieme a

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molti testi, alcuni poi diventati “sacri”, nacquero così non il cristianesimo, bensì i cristianesimi, tra iquali quello fondato sulla teo-mitologia paolina ha avuto la preminenza.5

Quello che la storiografia non vede è che tutti sono frutto di un legame all’egoità, e perciòopposti all’insegnamento di quel Gesù cui pure fanno in qualche modo riferimento: questo è ciò chela mistica sa – come oggi mostra Le Saux. Lo sapeva anche nel passato (vedi appunto Eckhart), eperciò si è sempre trovata in contrasto con le istituzioni ecclesiastiche – dalle quali era, peraltro,considerata con sospetto –, ma non poteva sciogliersi dalla teo-mitologia perché essa sembravafondata sulla verità storica. Venuto meno questo fondamento, da un lato è finita la credenza religiosa,ormai vista in opposizione alla scienza, ma dall’altro la mistica – ovvero la ragione pienamentedispiegata – ha guadagnato uno spazio di libertà prima inesistente.

Nel momento in cui in Occidente sempre più si diffondono le dottrine filosofico-religiosed’Oriente, ove si va cercando quella pace, quella “salvezza”, che non si ritrova più nella religionetradizionale, mi sembra che il vero compito religioso del nostro tempo sia muovere dall’interno delcristianesimo, mettendone in luce l’intima verità, oltre i cristianesimi storici, procedendo versoquella religione dell’avvenire che appare in certo modo, nell’epoca in cui ci è dato vivere,all’orizzonte.

In questo sta la ragion d’essere del libro. Lo dedico ai miei figli, Ilaria e Andrea, nellasperanza che possa, un giorno, essere loro utile.

1 Meister Eckhart, La nascita eterna, antologia a cura di Giuseppe Faggin, Sansoni, Firenze 1953.Nuova edizione, a cura di F. Volpi, Neri Pozza, Vicenza 1996 (senza testo a fronte).

2 Il libro era apparso a New York (The Philosophical Library) nel 1943: A.K. Coomaraswamy,Hinduism and Buddhism. Chi scrive lesse l’edizione francese: Hindouisme et bouddhisme,Gallimard, Paris 1949. In italiano è apparso nel 1973, presso Rusconi, Milano, con lo stesso titolo:Induismo e buddismo.

3 Cfr. ad es. R. Otto, Mistica orientale, mistica occidentale. Interpretazione e confronto, a cura diM. Vannini, Marietti, Casale Monferrato 1983 (nuova ediz. SE, Milano 2011), ove lo studiosotedesco mette a confronto Sankara, insigne esponente dell’advaita (non-dualismo), con Eckhart (illibro risale al 1926).

4 Cfr. il mio Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna, Bompiani,Milano 2010.

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5 Cfr. M. Pesce, Da Gesù al cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2011. Si possono vedere anche C.Augias-M. Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo, Mondadori, Milano2006; C. Augias-R. Cacitti, Inchiesta sul cristianesimo. Come si costruisce una religione,Mondadori, Milano 2008. Come “libriccino divulgativo”, intriso peraltro di polemica, P. Floresd’Arcais, Gesù. L’invenzione del Dio cristiano, ADD, Torino 2011. Sulla questione della “ebraicità”di Gesù mi limito a segnalare le opposte posizioni dei due rabbini Jakob Neusner, Ebrei e cristiani. Ilmito di una tradizione comune, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, e Daniel Boyarin, Il Vangeloebraico. Le vere origini del cristianesimo, Castelvecchi, Roma 2012

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Meister Eckhart

Solo per i peccatori Dio è un ente.

Chi crede non è ancora figlio di Dio.

Meister Eckhart

La Sacra Scrittura insiste sempre sul fatto che l’uomo devedistaccarsi da se stesso. In quanto ti distacchi da te stesso, in tanto haidominio su te stesso, e in quanto hai dominio su te stesso, in tanto seiveramente tuo proprio, e in quanto sei veramente tuo proprio, in tanto ti èproprio Dio e tutto quello che Dio ha creato.1

“Cosa pensi che ti sia stato più utile per la verità eterna? – Il fattoche mi sono distaccato da me stesso, là dove mi sono trovato.” Ciò che pergli uomini non liberi è un orrore, è profonda gioia per l’uomo libero.Nessuno è ricco di Dio, se non è completamente morto a se stesso.2

Sono queste le due citazioni di Eckhart con cui Coomaraswamy aprei capitoli del suo libro, dedicati rispettivamente all’induismo e albuddhismo. 3 L’insigne studioso, esperto dell’Oriente come dell’Occidente,prende, giustamente, il domenicano tedesco come rappresentante piùsignificativo del cristianesimo – davvero “figura normativa di vitaspirituale”4 –, indicando insieme la sua profonda consonanza con le duegrandi tradizioni spirituali nate in India.

Partiamo dunque da questi due brani.

1. Il lieto annuncio: la beatitudine

1.1. In primo luogo, Eckhart sottolinea che il nucleo dell’Evangelo –il “lieto annuncio” – è il distacco da se stessi, lo abrenuntiare se ipsum

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predicato da Gesù: “Chi mi vuole seguire, rinunci a stesso”,5 “odii lapropria anima”,6 il che significa spogliarsi del proprio volere e di tutto ciòche superficialmente si considera il proprio essere. È in quanto ti distacchida te stesso che hai dominio su te stesso, perché non più legato a tutti ilegami che ti avvincevano e, soprattutto, libero dal legame per eccellenza,quello che tiene tutti gli altri, ovvero la volontà propria. In quanto haidominio su te stesso, ti appropri di te stesso, cioè diventi veramente testesso, e, in quanto ti appartieni davvero, in tanto ti appartiene Dio e ilmondo.

È infatti dalla conoscenza di sé che deriva la conoscenza di Dio:7anzi, un preteso “sapere” di Dio e dei suoi rapporti col mondo che non sifondi sul distacco, ovvero sul dominio di se stessi e sulla vera conoscenzadi sé, è actus mortalis peccati, 8 perché il peccato vero, “mortale”, da cuiderivano tutti gli altri, è proprio il legame a se stessi: l’amor sui, amorprivati boni, davvero “radice di ogni male e peccato”.9

Distaccarsi da se stessi, in ogni istante, ovunque si pensi di avertrovato se stessi: questo è ciò che massimamente è necessario per l’eternaverità – recita il secondo brano, che conferma con ogni evidenza ilprecedente. Appena si ha senso della propria individualità egoica, che poneimmediatamente la distinzione rispetto a Dio e al prossimo, ci si devedistaccare. Questo distacco è una “morte”: ciò che ogni tradizionespirituale, d’Occidente come d’Oriente, chiama mors mystica, o “mortedell’anima”,10 ovvero la morte dell’egoità, dopo la quale soltanto si haquella rinascita spirituale di cui Gesù parla a Nicodemo, che è sì magister inIsrael, ma ignora tutto ciò.11

Il distacco da se stessi, la morte dell’anima, è la scoperta che lapropria egoità non ha vera sussistenza: quel piccolo “io” psicologico cuisiamo tanto legati non è e non ha un essere, ma è solo un nome che diamoalla mutevole aggregazione di volizioni, contenuti, pensieri, che muta conessi e con essi scompare, cosicché non si potrebbe davvero neppure dire“io”, o “io sono”. Ego non sum (da Gv 1, 27) intitola perciò uno dei suoisplendidi sermoni Giovanni Taulero,12 giacché a poter dire “io”, e “iosono”, a rigore sarebbe solo Dio.13

In effetti, l’uomo morto a se stesso non pensa più in termini diegoità e usa perciò la parola “io” con grande ripugnanza, solo in quanto vi è

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costretto dal linguaggio.14 D’altra parte però, in quanto rinato nello spirito,può dire: “io sono” – come Gesù in Gv 8, 58, come Eckhart nel sermone 52,come le Upanishad, come Le Saux, ecc.15

Nella seconda citazione troviamo inoltre due concetti essenziali. Dauna parte compare infatti la coppia oppositiva “orrore” (griuse) e “profondagioia” (herzenfroide: “gioia del cuore”), ovvero beatitudine, ben al di là diquella che comunemente chiamiamo felicità; dall’altra compare la libertà –libertà che consiste nel distacco, ovvero nell’essere libero dal volere e daicontenuti che esso genera.

“Niente rende veramente uomo come la rinuncia alla propriavolontà”:16 questa frase, che fa davvero “orrore agli uomini non liberi”, sispiega in quanto ciò che rende veramente uomo è la ragione, l’intelletto17.Non però l’intelletto dipendente dal volere proprio e dai contenuti che essoproduce, perché esso è tutto condizionato da essi e perciò loro servo, bensìl’intelletto non dipendente dal volere proprio, distaccato (choristòs):18 soloesso è libero e rende liberi.

La rinuncia alla volontà è precisamente ciò che permette il“distacco” dell’intelletto, e perciò la sua libertà, mentre la volontà è quelche rende servi. Dunque – insegna Eckhart – se vuoi essere veramenteuomo, ossia intelligenza libera, occorre che ti spogli della volontà propria: il“proprio”, il “mio”, l’“io”, è infatti ciò che impedisce l’universaledell’intelligenza, rende particolare quell’intelletto che invece sarebbe in seuniversalis.19

Perciò – riprendendo la citazione – l’uomo completamentedistaccato, “morto a se stesso”, è “ricco di Dio”: infatti Dio è spirito,20

intellectus et intelligere,21 e l’uomo distaccato è, altrettanto, intelletto,ovvero spirito.22

Ma torniamo un attimo all’inizio del brano, ove si si legge che ildistacco da se stessi è necessario “per la verità eterna”. Infatti:

Di proprio non abbiamo se non menzogna, male e peccato, comedice Agostino trattando del Salmo 115, 11: “Ogni uomo è mentitore”, e delpasso di Gv 8, 44: “Quando mente [il demonio] parla di ciò che gli èproprio”.23

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La rinuncia alla propria volontà avviene infatti per laconsapevolezza che l’intelletto è usualmente a servizio dell’affermativitàdell’ego e, in questo senso, la sua normale attività è mentire. La menzognaconsiste infatti nel mandare l’intelligenza– anzi, la mente, il cui ufficio èproprio quello di mentire – nella direzione che serve all’affermazione di noistessi, nel modo specifico in cui il momento lo richiede. Infatti noimentiamo in ogni istante, con la sola eccezione di quei momenti disospensione dell’egoità che sono i momenti di grazia. Questa è lacondizione normale dell’uomo, e chi lo nega anda en mentira, è unbugiardo.24

Solo nel distacco l’intelligenza libera riconosce la menzogna,ponendosi così in rapporto alla verità, nella verità. Ma riconoscere lamenzogna e abrenuntiare se ipsum, rinunciare a noi stessi, altro non è senon la conversione richiesta dall’Evangelo, che conduce alla “veritàeterna”.

1.2. È molto significativo che nella stessa direzione si muova unpersonaggio non certo sospetto di simpatie cristiane e tanto menoagostiniane: Friedrich Nietzsche.

“L’intelletto è maestro di finzione”, e svolge perciò “un normaleservizio da schiavo”, scrive il filosofo tedesco,25 ben consapevole che leverità sono, per il solito, “un mobile esercito di metafore, metonimie,antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono statepotenziate poeticamente e retoricamente, trasferite e abbellite […] illusionidi cui si è perduta la natura illusoria”.26 Riferendosi specificamente allesintesi intellettuali:

Ogni filosofia è una filosofia dell’apparenza […] C’è qualcosa diarbitrario nel fatto che egli [il filosofo] si sia fermato qui, abbia guardatoindietro, si sia guardato attorno, non abbia qui scavato più a fondo e abbiamesso da parte la vanga; c’è anche qualcosa di sospetto in questo. Ognifilosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche unnascondiglio, ogni parola anche una maschera27

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È chiaro anche a Nietzsche che “la menzogna più frequente è quellache ciascuno fa a se stesso; mentire agli altri è un caso relativamenteeccezionale”, e questo “non voler vedere certe cose che si vedono, il nonvoler vedere una cosa così come si vede, è la condizione essenziale di tuttiquelli che appartengono in qualsiasi senso a questo o quel partito: l’uomodi partito è necessariamente un impostore”28; ove il “partito” non va intesosolo in senso politico, ma in tutto ciò che costituisce gruppo, setta, chiesa,accademia – e perciò il filosofare moderno non ha nulla della libertà degliantichi, ma ha sempre “un colorito politico e poliziesco […] alla solaconquista dell’apparenza erudita”.29

Si comprende dunque la polemica di Nietzsche contro il cristianocome “ultima ratio della menzogna”, che “porta all’estrema perfezionequella tecnica giudaica che è l’arte di mentire santamente”.30

La menzogna è, infatti, particolarmente insidiosa proprionell’ambito religioso, perché lì è capace di generare, attraversol’immaginazione, quello stato d’animo carico di gioia, entusiasmo,dedizione, che può portare anche all’eroismo della virtù – e non a caso cisono santi in tutte le religioni –; ma, in quanto appunto frutto diimmaginazione, menzogna, quello stato d’animo non può uscire dal finito,dal particolare della volontà propria, e così non giunge all’universale e allasua luce.

La menzogna tende infatti a riproporsi in ogni istante, tanto più fortequanto più si è riconosciuta la comune, naturale, malizia del mentale, dandoluogo a una sempre maggiore pretesa di verità, per cui il distacco deveesercitarsi anche sul concetto stesso di verità.

È perciò estremamente significativo che il “mistico” Eckhartconvenga con l’“ateo” Nietzsche sulla necessità di liberarsi anche dallaverità – ovvero dal preteso possesso di essa. Commentando il versettopaolino “Nunc vero liberati” (Rm 6, 22), il maestro medievale scrive infattiche “dobbiamo liberarci anche dalla verità, giacché beatitudine e salvezzasono date solo dall’essere nudo, privo di ogni idea che lo limita, incorrispondenza dei nostri modi di pensarlo”.31

La menzogna, infatti, finisce solo quando terminano le proprie“verità”, che sono poi opinioni, convinzioni, ovvero i legami al proprio

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interesse: sotto questo profilo, infatti, le cosiddette “convinzioni sononemiche della verità, più pericolose delle menzogne”.32 È nel distacco chesi giunge alla infinita, beata aghnosìa,33 ovvero a quel “non sapere” che è lafine delle menzogne, la libertà dalle opinioni, libertà dai contenuti, signoriadell’identico e del diverso.

Il pensare come fingere – nel suo senso latino di figurarsi,rappresentarsi, formare, e anche proprio fingere – ci è così connaturale chenon ce ne accorgiamo neppure, come non ci accorgiamo dell’aria cherespiriamo, finché essa è presente. Per accorgersene bisogna infatti usciredalla finzione, essere, in un certo modo, sottratti a quella egoità checontinuamente finge, passando dalla natura alla grazia, attraversoconversione e distacco.34

Conversione e distacco distinguono l’uomo libero da quello nonlibero, per cui ciò che per l’uno è “gioia infinita”, per l’altro è altrettantoinfinito “orrore”. Infatti l’uomo non libero è attaccato al proprio iodeterminato, al proprio volere – e, dunque, preteso essere, avere, sapere –,per cui naufraga nell’orrore quando esso viene in qualche modo negato, oanche soltanto intaccato. Al contrario, l’uomo libero trova profonda gioianell’obliare se stesso, rinunciare alla volontà particolare e identificarsi cosìnell’universale, nell’Uno. Come dice Gesù nel Vangelo di Tommaso (n. 67):“Chi si troverà Uno sarà inondato di luce, chi sarà diviso verrà avvolto ditenebre!”.

Il riconoscimento del legame appropriativo conduce infatti allasoppressione di ogni dualismo, e così al riconoscimento estetico-estaticodella bontà e bellezza del Tutto, che è Uno e divino. Non si tratta qui dipanteismo, in cui il divino si perde, per così dire, nelle cose, ma delcontrario: Rudolf Otto parla giustamente di teopantismo,35 nel quale le cosepassano dalla finitezza nel divino, che non è affatto esaurito da esse.

Riconoscimento estetico, in quanto questa è precisamentel’esperienza della bellezza, che si coglie solo nel “senza perché” della rosasilesiana,36 ovvero là dove le cose non sono oggetto di interesse, diqualsiasi tipo esso sia, ma sono viste nella loro dimensione intemporale ecome un tutto, in una finalità senza il fine.37

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Riconoscimento estatico, perché questa è l’esperienza della finedell’egoità, dell’appropriazione, ovvero in un certo modo proprioun’“uscita” (ek-stasis) da se stessi, almeno nel senso del piccolo “io”psicologico, anche se poi si tratta, in effetti, di una altrettanto profonda en-stasis, “entrata”, all’interno di se stessi, verso il vero Io, “sostanzadell’anima”, o “centro dell’anima”, che è Dio stesso.38

La corrispondenza tra la bellezza e l’esperienza che abbiamochiamato estatica è espressa con precisione dalla parola grazia, cui inerisceanche in italiano tanto un significato spirituale quanto uno estetico. Ancorpiù chiaro il greco charis, grazia, etimologicamente legato a chara, gioia.

Non meraviglia perciò che la mistica abbia sempre come ultimaparola una straordinaria, estatica letizia: quella gioia che è,spinozianamente, segno di perfezione e che è propria dell’assoluto distacco,nel quale tutto appare buono, bello, chiaro, pervaso di luce, degno di amore– anzi, tessuto, intrecciato di amore.

Non c’entra qui Dio, almeno nel senso comune del termine, e nonoccorre perciò scomodare autori “religiosi”: basti pensare ancora aNietzsche, che dell’uomo libero scrive:

Non vuole niente, non si preoccupa di niente, il suo cuore è fermo, solo il suo occhio vive –è una morte a occhi aperti. Molte cose allora vede l’uomo che non aveva mai viste e, fin dovegiunge il suo sguardo, tutto è avvolto in una rete di luce e per così dire sepolto in essa.39

Niente volere, assoluto distacco e “indifferenza” di stile ignaziano esilesiano, “morte” dell’anima, luce che tutto avvolge e nella quale si è come“sepolti”, ma soprattutto un vedere, un occhio, uno sguardo: qui illinguaggio stesso è quello della tradizione mistica e dell’esperienza dellospirito, con la sua gioia estatica, con la sua sobria ebbrezza,40 cui siriferisce lo splendido “canto ebbro” che conclude Così parlò Zarathustra:

Avete mai consentito a una gioia? E allora, amici miei, voi consentiste anche a ogni dolore.Le cose tutte sono incatenate, annodate, legate dall’amore, – e se mai desideraste due volte ciò chefu una volta sola, se mai diceste: “mi piaci, felicità! Attimo, arrestati!”, voi già desideraste che tuttoritornasse.

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Tutto di nuovo, tutto eternamente, tutto incatenato, annodato, legatodall’amore, così voi amate il mondo.41

Il filosofo tedesco mostra il suo radicamento nel mondo cristiano,col quale peraltro tanto polemizza, in questo primato dell’amore-spirito. Èla potenza di Amore, infatti, a partire dal Convito platonico, a esserriconosciuta come forza del distacco, che non è possibile senza il suocontinuo tendere verso quel Bene che è al di sopra dell’essere –trascendente e ineffabile, certo, ma la cui luce e bellezza traspare in tutte lecose di quaggiù. È Amore, né mortale né immortale,42 il mediatore tra Dio el’uomo, il daimon che realizza l’unione tra infinito e finito, e tiene insiemeil tutto.43

Il celebre mito indica che, accanto all’“occhio” dell’intelligenza,occorre che sia ben vivo quello dell’amore, perché solo così si ha losguardo “semplice”,44 ovvero solo così si rompe la scorzadell’appropriazione. Come non si esce dalla propria pelle, così non si saltafuori dalla filopsychìa, dal legame appropriativo all’“io”, se non v’èqualcosa di esterno, per così dire,45 che strappa a questa pelle, a questoinvolucro, e porta verso il nucleo, l’essenza. È ciò che i cristiani chiamano“grazia”.46

1.3. Questo, comunque, è il punto essenziale: la “gioia profonda”,ovvero la beatitudine, esiste. Forse difficile da conseguire per viafilosofica,47 ma comunque possibile. Facilmente raggiungibile, invece, neldistacco, come lo provano le semplici suore che ascoltavano la predicazionedi Eckhart e che ce l’hanno trasmessa. Non il piacere (voluptas, hedonè),che dipende dall’accidentale sensibile, e neppure la felicità (felicitas,eudaimonìa), legata al caso, alle circostanze, e che riguarda sì la psiche, manelle sue facoltà e non nel suo fondo, bensì la beatitudine (beatitudo,makarìa), che è una diversa condizione ontologica, pertinente al fondodell’anima, che è lo spirito. Non qualcosa che si prova, stato d’animoaccidentale, per così dire sovrammesso a un nostro io, ma qualcosa che si è,ovvero non sovrammesso all’io, ma l’io stesso, o, meglio, l’essere stesso,perché non c’è più un io, nel senso di un ego, centro di volizione e di

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appropriazione, che può essere tolto. Perciò Margherita Porete scrive chel’anima semplice, distaccata, non prova gioia, ma è la gioia stessa:

Tale anima nuota nel mare della gioia, ovvero nel mare di delizie fluenti e scorrenti dalladivinità, e non sente nessuna gioia, poiché essa stessa è gioia, e nuota e fluisce nella gioia senzasentire alcuna gioia, poiché essa dimora nella gioia, e la Gioia dimora in lei, è gioia essa stessa, invirtù della Gioia, che l’ha trasformata in se stessa.48

Essenziale è perciò ricordare la nobiltà dell’anima umana, la grandedignità dell’anima, che è una cosa stessa con Dio, è indistinguibile da Dio,un unico essere con Lui,49 perché se ci si ferma alla modestia della“psiche”, con le sue povere caratteristiche, che vengono prese per assolute,non vi sarà mai beatitudine.

Non v’è infatti conoscenza dell’anima, ovvero di se stessi, senzaesperienza di luce, e così neppure può esservi salvezza-salute dell’animasenza esperienza di quella luce che è, e che si è:

Quando l’anima non si disperde nell’esteriorità, giunge a se stessa e risiede nella sua luce,semplice e pura.50

Se si resta vittima dell’egoismo, che è la nostra radice animale, siconosce solo la superficiale felicità psicologica, che sta nel gonfiarsidell’egoità, sempre in rapporto al sociale, nei suoi vari modi – piacere,denaro, potere, fama, ecc. –, e niente si conosce della profondità dell’animae della sua beatitudine.51

Quando invece scompare l’egoità, scompare con essa anche laseparatezza e l’opposizione rispetto a Dio e agli altri52 e si comprendeinvece l’unità, spirituale e materiale insieme, di tutto il cosmo.53 Altreaurore sorgeranno: anche quando non ci sarà più questo uomo qui, altri negioirà, e ciò riempie di gioia, di una beatitudine che niente può togliere.Ogni esperienza spirituale, in Oriente come in Occidente, dice questa stessacosa, con espressioni quasi identiche: beatitudine, gioia estatica in ogniistante della vita, presente quando è scomparsa l’egoità appropriativa, ilsenso dell’io e del mio. Una condizione che potremmo chiamare di santità,ma che non ha niente di eccezionale, anormale: anzi, è la normalità per

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l’essere umano, che vi aspira dal profondo del cuore e che soffre se non laconsegue, se non la è.

Come scrive la Teologia tedesca,54 questo mondo appare davverocome un paradiso, appena scompare la volontà, ovvero ciò che fa egoismo,che fa il “meno” e l’“imperfetto”, impedendo il “più” e il “perfetto”. Infatti“l’amore di questo o quel bene è amore di se stesso, ossia di chi ama,mentre l’amore del Bene è amore di Dio”,55 e in esso tutto il quotidiano – ilsemplice, umile, umano – si trasfigura. L’amore per i genitori, i figli, ilconiuge, gli amici, la cura per le creature – i desideri, le speranze, anche idolori – tutto diventa infinitamente bello, luminoso, fonte di gioia, quandonon è più rivolto all’ego, ma visto come un dono, “senza perché”.

“Il prossimo, gli amici, la bellezza del creato, non decadono al rangodi cose irreali dopo il contatto diretto dell’anima con Dio. Al contrario:soltanto allora divengono reali. Prima erano quasi sogni, non esistevaalcuna realtà” scrive perciò la Weil.56 E – commentando il versetto della IsaUpanishad, “Di questo tutto, nel distacco gioisci” –: “È il distacco a rendereeterne tutte le cose”.57 Distacco e beatitudine sono infatti strettamentelegati.

All’inizio del sermone Misit dominus manum suam Eckhart presentaperciò così il suo annuncio di beatitudine:

Quando predico, sono solito parlare del distacco e di come l’uomo debba essere libero da sestesso e da tutte le cose. In secondo luogo, che l’uomo deve essere di nuovo conformato al Benesemplice, che è Dio. In terzo luogo, che si ricordi della grande nobiltà che Dio ha posto nell’anima,in modo che giunga meravigliosamente fino a Dio. In quarto luogo io parlo della purezza dellanatura divina – quale splendore sia nella natura divina è inesprimibile. Dio è una Parola, una Parolanon pronunciata.58

Quattro sono i termini fondamentali: distacco, anima, Bene-Dio,Parola-Logos.

Seguiamolo dunque in essi.

2. Il distacco

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2.1.Àfele pànta, “distàccati da tutto”, insegna Plotino:59 questa èl’essenza delle religioni spirituali – brahmanesimo, buddhismo,cristianesimo.

Il distacco è l’atto morale e intellettuale insieme con cui si sospendeil desiderio e, parallelamente, si analizzano i contenuti che stanno peresso,60 togliendo ciò che è superficiale e andando verso l’essenziale, comesi deve togliere il marmo che ricopre la statua perché essa possa apparire,61

o come si deve togliere la terra che ricopre una fonte perché la fonte possazampillare di nuovo.62 In effetti il distacco è, innanzitutto, un’operazione diconoscenza, alla ricerca del vero io, del vero essere, e perciò consisteessenzialmente nell’abbandono dell’egoità:

Vigila dunque su di te, e, non appena trovi te stesso, rinuncia a te stesso; questa è la cosamigliore che tu possa fare.

Così Eckhart nelle sue Istruzioni spirituali.63 È il suo primo efondamentale insegnamento: quello del distacco, che è tale solo se èdistacco da se stessi, dall’egoità – ovvero dalla propria volontà. Infatti lafrase appena citata è così introdotta:64

Soltanto chi abbandona la propria volontà e se stesso ha abbandonato davvero tutte le cose,come se fossero state in suo pieno possesso e a sua totale disposizione. Perché solo ciò che non vuoipiù neppur desiderare, tu lo hai veramente lasciato e abbandonato per amor di Dio. Per questoNostro Signore dice: “Beati i poveri in ispirito”,65 ossia nella loro volontà. Nessuno ne devedubitare: se fosse stato preferibile un altro modo di agire, Nostro Signore lo avrebbe detto, mentreha detto: “Chi vuole seguirmi, rinunci prima a se stesso”.66 Tutto dipende da questo.

Al maestro domenicano è chiaro infatti che l’insegnamentoessenziale di Cristo è quello della conversione, ovvero distacco, rinuncia ase stessi, all’amor sui, amore di se stesso – volontà di essere, di avere.

2.2. Il primo filosofo occidentale ad aver compreso che è ilmedesimo insegnamento quello di Platone, delle Upanishad, di Buddha edella mistica cristiana, è Schopenhauer, il “mistico senza Dio”.67 Nel suocapolavoro scrive infatti:68

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Più dappresso a noi sta il cristianesimo, la cui etica è tutta animata da quello spirito, e nonsolo conduce al più alto grado di amore verso il prossimo, ma anche alla rinunzia. Quest’ultima ègià ben visibile in germe negli scritti degli apostoli, ma tuttavia solo più tardi si sviluppa appieno eviene explicite enunciata. Troviamo che gli apostoli prescrivono: amor del prossimo eguale all’amordi sé; carità, amore e benevolenza in cambio di odio; pazienza, mitezza, sopportazione d’ognipossibile offesa senza opporvisi; sobrietà nel cibo per mortificare il piacere; resistenza all’istintosessuale, ove sia possibile, completa. Vediamo qui già i primi gradi dell’ascesi o, propriamente,negazione della volontà. E questa nostra espressione indica proprio ciò che negli Evangeli si chiamarinnegar se medesimo e prender su di sé la croce (Mt 16, 24-25; Mc 8, 34-35; Lc 9, 23-24 e 14, 26-27, 33). Quest’indirizzo si sviluppò presto sempre di più e diede origine ai penitenti, agli anacoreti,al monachesimo; il quale era in sé puro e santo, ma appunto perciò in nulla adatto alla maggioranzadegli uomini, per modo che soltanto finzione e turpitudine poté venirne: imperocché abusus optimipessimus. Col cristianesimo meglio sviluppato possiam noi vedere quel germe ascetico aprirsi nelsuo pieno fiore, negli scritti dei santi e mistici cristiani. Costoro predicano, oltre il puro amore,anche rassegnazione intera, volontaria, assoluta povertà, verace calma, completa indifferenzariguardo a ogni cosa terrena, morte della volontà individuale e rinascita in Dio, perfetto oblio dellapropria persona e assorbimento nella contemplazione divina. Di ciò si ha una compiuta esposizionein Fénelon, Explications des maximes des Saints sur la vie intérieure.69

E prosegue:

Ma forse mai lo spirito del cristianesimo in questo suo sviluppo fu espresso con tantaperfezione e vigore come negli scritti dei mistici tedeschi, e quindi di Meister Eckhart e nel libro aragione celebrato Die deutsche Theologie (la Teologia tedesca),70 di cui Lutero, nella prefazione chevi fece, disse di non avere da nessun altro libro, eccettuati la Bibbia e sant’Agostino, imparatomeglio che da questo, che cosa siano Dio, Cristo e l’uomo. I precetti e gli insegnamenti quiviimpartiti sono la più completa illustrazione, inspirata dalla più intima e profonda certezza, di ciòch’io ho presentato come negazione della volontà di vivere. Colà bisogna quindi imparare a meglioconoscerla, prima di sdottrineggiarvi su con ebraico-protestante saccenteria.

In effetti, quelli che Schopenhauer chiama “mistici tedeschi”, apartire da Eckhart, proseguono coerentemente e quasi senza differenzanell’approfondimento e nella proclamazione del messaggio evangelico:conversione e distacco. Oltre alla già citata Teologia tedesca, dobbiamoricordare il diretto discepolo di Eckhart a Strasburgo, il domenicanoGiovanni Taulero, le cui opere conobbero grandissima diffusione e

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ispirarono anche i mistici spagnoli del sedicesimo secolo; l’altrodomenicano, Enrico Suso,71 e poi Niccolò Cusano, nel quale è fortissimol’influsso eckhartiano.72 Nel sedicesimo secolo è la grandissima figura diSebastian Franck a mantenere viva, in mezzo alla bufera della Riforma, lafiamma della mistica medievale germanica; e poi Valentin Weigel, e ancora,nel secolo successivo, i poeti Daniel von Czepko73 e Angelus Silesius, colsuo capolavoro, Il Pellegrino cherubico, la cui influenza, attraverso ilpietismo, giunge fino a Kant e allo stesso Schopenhauer. Nello stessotempo, Eckhart e i mistici tedeschi, riscoperti dai romantici, sono salutaticome ispiratori dai filosofi dell’idealismo– Fichte, Schelling, von Baader,Hegel.74

Dopo aver citato, nello stesso senso, opere di Taulero (oggiconsiderate spurie, ma che testimoniano ugualmente della familiarità delfilosofo di Danzica con la mistica),75 egli conclude perciò così:

Secondo me gl’insegnamenti di questi genuini spiriti cristiani sono rispetto a quelli delNuovo Testamento ciò che l’alcool è rispetto al vino. Ossia: ciò che nel Nuovo Testamento ci apparecome attraverso velo e nebbia, ci si fa incontro nelle opere dei mistici scopertamente, in pienachiarità ed evidenza. E si potrebbe, per concludere, considerare il Nuovo Testamento come la prima

consacrazione, i mistici come la seconda: .76

Proprio alla fine del suo libro, Schopenhauer ribadisce che l’eticarisultante dal suo pensiero “non è punto nuova e inaudita nella sua sostanza,se pur tale può parere nella sua formulazione. Essa coincide invece appienocoi veri dogmi cristiani, ed è anzi già in essi, sostanzialmente, contenuta epresente; così come in tutta precisione coincide con le dottrine e leprescrizioni morali, sebbene presentate anch’esse in tutt’altra forma, deilibri sacri indiani”.77

Il filosofo di Danzica si riferisce però non al “cristianesimo dell’etàmoderna, che ha dimenticato il suo vero senso, degenerando in uno scipitoottimismo”, ma al cristianesimo “originario ed evangelico”, e in particolarea quello sostenuto da Agostino, “col consenso dei capi della Chiesa, controle stoltezze dei pelagiani”, ossia principalmente alla dottrina “che la volontànon sia libera, ma dall’origine soggetta all’inclinazione del male; che perciòson le sue opere sempre peccaminose, e non posson mai soddisfare la

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giustizia; che finalmente non già le opere, ma la fede sola salva; e codestafede non nasce da proposito o da libera volontà; bensì per l’azione dellagrazia, senza il nostro concorso, viene a noi quasi giungesse dal di fuori”.Oggi, prosegue Schopenhauer, una “rozza e insulsa concezione rigetta comeassurdo, o nasconde”, ciò che è più genuinamente evangelico e, “soggetta aquel borghesismo intellettuale pelagiano, che è appunto il razionalismoodierno […] mette tra le anticaglie proprio i dogmi più intimamente edessenzialmente cristiani”, tenendo invece per fermo solo il dogma originatoe conservato dal giudaismo, che è “collegato col cristianesimoesclusivamente per la via della storia”.78

Il “dogma originato e conservato dal giudaismo”, comeSchopenhauer spiega nella lunga nota apposta al testo, è quello di un Diocreatore, accettando il quale la dogmatica cristiana va incontro ad“insuperabili contraddizioni e oscurità”, che sono quelle derivanti dallanecessità di mettere in accordo questo Dio-altro con l’uomo, per non dire aconcezioni “rivoltanti”, come la predestinazione: “In tal modo si rigetta ciòche è veramente cristiano e si torna al rozzo giudaismo”.

Ben più logico e onesto è il ragionare paradossale buddhista: senessuna cosa può avere origine da se stessa e deve avere necessariamenteun creatore, allora anche Dio avrebbe dovuto averne per cominciare aesistere. Se, invece, ha potuto essere origine di se stesso, perché anche lanatura non ha potuto autogenerarsi? Perché, per spiegare la natura,dobbiamo far riferimento a qualcosa che la trascende? Perché dobbiamoaver bisogno di una conferma del nostro esserci da parte di un Dio“trascendente” che, invece, non ne ha bisogno? Se c’è un essere che puòautoesserci, perché non possiamo autoesserci anche noi?79

È per questo motivo che l’insegnamento liberatore del distacco,della negazione della volontà, si trova espresso, più che in Occidente, nelle“antichissime opere della lingua sanscrita”:

Che quella grave considerazione etica della vita potesse colà raggiungere uno sviluppoancora più ampio, e più risoluta espressione, è forse principalmente da attribuire al fatto che quiviessa non fu limitata da un elemento a lei del tutto estraneo, com’è nel cristianesimo la religioneebraica, alla quale l’alto fondatore di quello dové per necessità, parte consapevolmente e parte forseinconsapevolmente, conformarsi e adattarsi: per modo che il cristianesimo risulta di due elementi

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molto eterogenei, dei quali io l’elemento ch’è soltanto etico amerei di preferenza, anzi in modoesclusivo, chiamar cristiano; e vorrei distinguerlo dal dogmatismo ebraico ch’esso trovò innanzi asé.80

Schopenhauer vede con chiarezza come nel cristianesimo coesistanodue cose eterogenee, anzi, contrapposte: l’elemento etico, ascetico, ovveroil distacco dall’egoità e la liberazione che ne consegue, e il “dogmatismo”ebraico, ovvero la superstizione. La coesistenza è difficile ma, soprattutto,esiziale per la prima componente, giacché il distacco non sopportariferimento a oggettività predeterminate, a “verità” pseudostoriche (in realtàmenzogne, frutto della potenza fabulatrice della religione comeinstrumentum regni), dalle quali scaturisce quella dipendenza equell’alterità dell’essere– di Dio, del Bene– che taglia via alla radice ognipossibilità di liberazione. La coesistenza è stata possibile solo perché imistici hanno utilizzato i miti biblici, e le “verità della fede” che se nefacevano derivare, come mero oggetto di contemplazione, allo stesso modocon cui si potevano utilizzare i poemi omerici o la tragedia greca, traendoneuna bellezza pura. Il contrasto diventa, però, insostenibile nel momento incui il mito vuol passare da oggetto di contemplazione a verità: allora uccidela contemplazione stessa e la mistica diventa mistificazione– il passo èbreve, non solo linguisticamente.81

Con grandissima lucidità, Schopenhauer riconosce anche che lavolontà non può annientare se stessa da sola, ossia con un atto che sarebbeesso stesso comunque un atto di volontà, non libero, tutto rientrante neldominio della naturalità animale, ossia della necessità. La malizia dell’ego èinsopprimibile, sempre pronta a farsi viva, e perciò possibile anche nell’attostesso del distacco.

La liberazione avviene attraverso la conoscenza, ovvero sapendo,riconoscendo anche in questo caso tale malizia: come la lancia di Achilleche, colpendo una seconda volta nello stesso punto, guarisce la ferita cheessa stessa ha inflitto,82 il riconoscimento dell’egoismo insito nell’atto divolontà converte la natura in grazia, fa passare da necessità a libertà. Noisappiamo, infatti, che anche nel distacco è in qualche modo presente lavolontà, ma accettiamo lietamente questa sottomissione alla necessità– al

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dominio della forza, come direbbe Simone Weil– riconoscendolaserenamente.

È la conoscenza che libera: libera perché distacca. Su questacapacità distaccante della conoscenza si fonda il suo primato, comeunanimemente affermano la mistica d’Oriente e quella d’Occidente:

Anche se tu fossi il più grande peccatore tra i malvagi, potrai passare attraverso ogni peccatoe superarlo con il solo mezzo della nave della conoscenza.

Come il fuoco ardente riduce in cenere la materia che lo alimenta, così il fuoco dellaconoscenza riduce in cenere tutte le opere.

In verità, in questo mondo non v’è mezzo di purificazione efficace come la conoscenza.

La conoscenza è un sacrificio maggiore di ogni sacrificio materiale.83

Si faccia attenzione a come la conoscenza viene qui descritta– naveper attraversare il peccato, fuoco per ridurre in cenere, purificazione,sacrificio per distruggere–: tutte immagini che rimandano al fatto checonoscenza e distacco sono tutt’uno. Il distacco, infatti, è operazione tantomorale quanto intellettuale: la possibilità di liberarsi dai legami deldesiderio è indissolubilmente connessa con la capacità di mettere ordine,fare chiarezza nei propri pensieri, che vengono, nel distacco, compresi eperciò pienamente padroneggiati, mentre in precedenza ne eravamo, percosì dire, schiavi. “La conoscenza distacca”, afferma perciò Eckhart,84 alcentro di una tradizione filosofica che va da Eraclito a Wittgenstein.85

Ci liberiamo, dunque, dal determinismo e dall’egoismo intrinseconel volere, solo riconoscendolo come tale. Perciò si può dire che laconoscenza salva, non in un mitico senso gnostico, ma in un sensoassolutamente scientifico: quello spinoziano del fare chiaro e distinto ciòche è invece oscuro,86 riportando tutto al soggetto, e alla misuradell’umano.87

La conoscenza è purificazione, sacrificio nel suo senso più vero, inquanto toglie via ogni pretesa di merito e, parallelamente, anche ogni sensodi colpa, sul quale si concentra l’egoità.88 Il comprendere è in effetti un“risolvere”, ossia, proprio etimologicamente, uno “sciogliere”, e dunque unliberare da legami, distaccare.

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Se è vero, infatti, che “tutte le opere sono avvolte da difetti, come ilfuoco lo è dal fumo”,89 ovvero ci è impossibile uscire dall’egoismo dellavolontà, è però altrettanto vero che la conoscenza distacca e porta così oltrel’opposizione natura/spirito, servitù/libertà. Come scrive sinteticamenteEckhart: “Quando l’anima entra nella luce dell’intelletto, essa non sa piùniente delle opposizioni”.90

Allora, liberi una buona volta dal peso dell’egoità, che abbiamoriconosciuto in tutto il suo potere, si apre il regno della libertà. Ciò appare,comunque, un mistero, ovvero una sorta di miracolo. In un passo distraordinaria profondità, Simone Weil scrive:

Dal momento che l’intelligenza è una tensione verso qualche valore, come farà a distaccarsidal valore verso cui tende per considerarlo, giudicarlo e classificarlo in rapporto agli altri? Questodistacco esige uno sforzo e ogni sforzo dell’intelligenza è una tensione verso un valore. Così, peroperare questo distacco, l’intelligenza deve considerare lo stesso distacco come il valore supremo.Ma per riuscire a vedere nel distacco un valore superiore a tutti gli altri, bisogna già essere distaccatida tutti gli altri. C’è in questo un circolo vizioso che fa apparire l’esercizio del pensiero come unmiracolo: la parola “grazia” esprime questo carattere miracoloso.91

In realtà non v’è niente di nuovo, dal momento che, come si è giàvisto, già Aristotele pensava che l’intelletto attivo, che, solo, è libero,provenisse all’uomo dall’esterno e fosse divino.92

Non meraviglia affatto, perciò, che l’“ateo” Schopenhauer parli aquesto proposito del “mistero della grazia”:

In questo senso non è dunque infondato il vecchio, sempre discusso e sempre affermatofilosofema della libertà del volere; e non è neppure privo di senso e di valore anche il dogmaecclesiastico della grazia operante e della rigenerazione. Li vediamo fusi in unità, il filosofema e ildogma, e possiamo adesso comprendere qual significato intendesse l’eccelso Malebranche con leparole: La liberté est un mystère. Aveva ragione. Quel che i mistici cristiani chiamano azione dellagrazia e rigenerazione, è per noi l’unica diretta manifestazione della libertà del volere. Questa si haquando la volontà, pervenuta alla cognizione della propria essenza in sé, riceve da questaconoscenza un quietivo e appunto perciò è sottratta all’impero dei motivi, il quale sta nel dominiod’un altro modo di conoscenza, i cui oggetti sono esclusivamente fenomeni […] Necessità è il regnodella natura; libertà è il regno della grazia.93

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E prosegue:

Ora, poiché, come vedemmo, quella autosoppressione della volontà procede dallaconoscenza, e ogni conoscenza, in quanto tale, è indipendente dall’arbitrio; così anche quellanegazione del volere, quell’entrare nella libertà non si può ottenere con deliberato proposito, bensìviene dal più intimo rapporto del conoscere col volere dell’uomo. Viene perciò d’un tratto, quasiarrivasse volando.

E questa è la causa per cui fu chiamata dalla Chiesa azione della grazia: ma come la Chiesafa inoltre dipendere l’azione della grazia dall’accoglimento della grazia, così anche l’azione delquietivo è infine un atto di libertà del volere. E poiché in conseguenza di codesta azione della grazial’intero essere dell’uomo viene dalle fondamenta trasformato e convertito, sì ch’egli più nulla vuoledi quanto finora con tanta forza voleva, e quindi è in lui veramente quasi un uomo nuovo sorto alposto dell’antico, la Chiesa chiamò rigenerazione quest’effetto della grazia operante. Quel ch’essachiama l’uomo naturale, a cui nega ogni capacità di bene, è appunto la volontà di vivere; la quale vanegata, se si vuole aver redenzione da un’esistenza com’è la nostra.

Con un pudore che lo onora, Schopenhauer allude, infine, alla realtàspirituale, concludendo così:

Dietro la nostra esistenza si cela invero qualche altra cosa, che si faa noi accessibile sol quando abbiamo rimosso il mondo da noi stessi.94

“Rimuovere il mondo da noi stessi” non significa altro che esserecompletamente distaccati. Solo così il mondo, non più oggetto diutilizzazione da parte nostra, si mostra in tutta la sua pura bellezza, “senzaperché”, pulcherrimum nihil, come lo definisce Angelus Silesius.95 È lastessa conclusione cui giunge Schopenhauer nella celebre chiusa del suocapolavoro, che rimanda, paradossalmente, alla sconvolgente bellezza delcielo stellato:

Per coloro in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tantoreale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è– il nulla.96

L’universo come un nulla; ogni creatura come un nulla, se presanella sua finitezza, ovvero come oggetto di utilizzazione da parte delvolere– “piena di Dio”, invece, e degna di amore nel distac-

co –: questo il costante insegnamento di Eckhart,97 dal qualeriprendiamo il discorso.

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2.3. Il testo delle Istruzioni spirituali sopra citato98 esordisce infattiaffermando che alla rinuncia a se stessi consegue immediatamente– senzamediazione alcuna– la discesa della grazia, ovvero di Dio,99 nell’anima:

Quando l’uomo rinuncia a se stesso nell’obbedienza ed esce da se stesso, Dio è obbligato aentrare in lui, perché se questo uomo non vuole nulla per se stesso, Dio deve volere per luinell’identico modo che per se stesso.100

L’obbedienza cui Eckhart allude in questo passo è, specificatamente,l’obbedienza ai superiori all’interno dell’Ordine domenicano, dal momentoche sta qui parlando, nel convento di Erfurt, ai novizi del medesimo Ordine,ma essa è solo un caso dell’obbedienza alla necessità, ovvero, come eglispiega più volte, della vera umiltà, che non è una generica virtù, ma unsapere: il riconoscere, appunto, il dominio della necessità, e la conseguentecapacità di sottrarvisi.101 È grazie all’umiltà, in questo senso intesa, che siguadagna il “distacco” dell’intelletto attivo, ossia la capacità di pensareliberamente e, con essa– come già si è detto–, di diventare veramenteuomo.102

Le espressioni “Dio è obbligato”, “Dio deve”, ecc., fannoimmediatamente capire che non si sta qui alludendo al Dio della mitologiabiblica, frutto dell’immaginazione, cui viene attribuita una volontàarbitraria, che fa o non fa quello che vuole, manda o non manda, a questo oa quello, con un capriccio assolutamente corrispondente a quello dell’uomoche lo sta pensando. Eckhart sta invece facendo riferimento a una realtàspirituale fondata sull’esperienza dell’uomo, ovvero sull’unico vero sapereche abbiamo, ed è sulla base di essa che si può dire con assoluta certezzache, là dove scompare l’egoità, compare una serenità, una pace, una luce,che esprimiamo col termine riassuntivo “Dio”.

Si potrebbe parlare qui, come fa Simone Weil, di una “fisicasoprannaturale”,103 ovvero di una sorta di meccanica divina, che opera conrigorosa necessità, al pari della meccanica del mondo fisico, ed è in virtù diessa che, prosegue il maestro domenicano:

V’è un equo compenso e un giusto scambio, per cui, nella misura in cui tu abbandoni tutte lecose, in egual misura– né più né meno– Dio entra in te con tutto ciò che ha, se tu in tutte le cose tisei completamente spogliato di ciò che è tuo.104

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Perciò:

Da te stesso devi cominciare e distaccarti da te stesso. In verità, se non fuggi prima da testesso, troverai ostacoli e inquietudine ovunque tu fugga. Chi cerca la pace nelle cose esteriori–luoghi o modi, gente o opere, paese lontano, povertà o umiltà, qualsiasi cosa, per quanto grande– lacerca nel nulla e non trova pace. Chi cerca così cerca male: più si allontana e meno trova quel checerca; come uno che ha perduto la strada, più si allontana e più si fuorvia.105

Tutte le cose create, tutte le creature sono “un puro nulla”, se presein se stesse, fuori di Dio, che è l’essere. Perciò chi cerca la pace, la felicità,nelle creature, la cerca in realtà nel nulla, e perciò non deve stupirsi se trovail nulla.106 È in se stessi, in interiore homine, che si deve trovare rifugio,abbandonando l’ego esteriore, tutto rivolto verso le cose e dipendente daesse. Contro le teorie della “povertà evangelica” esteriore, allora indiscussione nell’ambito religioso e monastico in particolare, il prioredomenicano– membro egli stesso di un Ordine mendicante– così insegna aisuoi giovani alunni:

Cosa si deve fare dunque? Bisogna prima di tutto distaccarci da se stessi: così si abbandonatutto.

In verità, se un uomo abbandonasse un regno o il mondo intero e mantenesse se stesso, nonavrebbe abbandonato nulla. Invece chi si distacca da se stesso si distacca da tutto, anche se mantienericchezza, onori e tutto quanto.

Infatti chi abbandona la propria volontà e se stesso abbandona tutte le cose, come se fosseroin sua proprietà e pieno possesso.107

Infatti è nella volontà l’affermatività dell’ego, e dunque la radicestessa dell’attaccamento. Esso non sta nelle cose, che sono neutre,indifferenti, ma nel nostro atteggiamento verso di esse. Lo stesso si può diredelle opere da compiere: contro ogni ipotesi di “merito” da conseguire conle opere, Eckhart insegna che “le opere non ci santificano, ma siamo noi chedobbiamo santificare le opere”.108

Giova qui riportare un passo del suo sermone Mortuus erat etrevixit:

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Io dico assolutamente che non v’è mai stata neppure un’opera buona, né santa, né beata.Dico ancora che non v’è mai stato un tempo buono, santo, beato, né mai vi sarà– né questo néquella. […] Attenti a quello che dico: l’opera e il tempo in cui l’opera avvenne non sono buoni, nésanti, né beati. Bontà, santità, beatitudine, sono solo denominazioni accidentali dell’opera e deltempo, ma non loro proprie. Perché? Perché un’opera, in quanto opera, non proviene da se stessa,non accade da se stessa, non dal proprio volere, e neppure sa di se stessa […]. L’opera non ha alcunessere, e neppure il tempo in cui avvenne; infatti essa svanisce in se stessa. Perciò essa non è buona,né santa, né beata, ma è beato l’uomo in cui permane il frutto dell’opera– non in quanto tempo eneppure in quanto opera, ma in quanto buona qualità, che è eterna con lo spirito, come lo spirito èeterno in se stesso, ed è lo spirito stesso.

In questo senso non è mai andato perduto l’agire buono, e neppure il tempo in cui avvenne:non perché esso permanga in quanto opera e tempo, ma perché, sciolto dall’opera e dal tempo, èeterno con la sua qualità nello spirito, come lo spirito è eterno in se stesso […] L’opera e il temposono utili solo perché l’uomo abbandoni se stesso. E più l’uomo si libera e abbandona se stesso,tanto più si avvicina a Dio, che è libero in sé, e in quanto l’uomo si libera, non perde né opera nétempo […] I frutti delle opere compiute nello spirito permangono nello spirito, e sono spirito con lospirito. Se le opere e il tempo svaniscono, tuttavia vive lo spirito a partire dal quale furonocompiute, e dunque vive il frutto delle opere, sciolto dal tempo e dall’opera, pieno di grazia, come lospirito è pieno di grazia […] Se anche l’opera se ne va insieme al tempo e viene annientata, nonviene mai distrutta quando è in relazione con lo spirito nel suo essere. E questa relazione non èniente altro che il fatto che lo spirito viene reso libero attraverso il comportamento tenuto nelleopere.109

Sotto questo profilo, dunque, le opere sono necessarie al distacco,ovvero allo spirito, che non emerge pienamente se non attraverso l’opera,nel distacco dall’opera, di cui vede bene la soggezione al determinismospazio-temporale, e dunque la finitezza, la parzialità, l’assenza di merito.Ma esso è spirito proprio in questo riconoscere, in questo sapere, e inquesto corrispettivo agire distaccato, con cui si sta “presso le cose”, non“nelle cose”,110 ovvero non dipendenti da esse.

Non dobbiamo preoccuparci di cosa fare, di quali opere compiere:dobbiamo preoccuparci di essere in un certo modo, e poi la vita stessa, inogni istante, ci dirà cosa dobbiamo fare.

Una sola opera ci rimane, che è nostra e solamente nostra: l’annientamento di noi stessi. Taleannientamento però, per quanto grande sia, rimane imperfetto, se Dio stesso non lo compie in noi.111

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Come si è già detto, l’annientamento della volontà propria puòavvenire solo per grazia, non a opera della volontà stessa, che si limiterebbecosì a rafforzarsi. È vero però che è proprio la volontà giunta al suoculmine, che vuole cioè l’Assoluto, a esaurire se stessa, annullarsi, elasciare spazio alla grazia. È dunque nella fede, in quanto rapporto conl’Assoluto, che la volontà personale scompare, e perciò Eckhart concludecon una straordinaria invocazione:

Che Dio stesso, supremo distacco, aiuti noi a giungervi. Amen.112

Chiamare Dio “supremo distacco” indica chiaramente che Dio nonva comunque pensato come ente: infatti “solo per i peccatori Dio è unente”, scrive Eckhart,113 con una frase terribile per la religiosità comune–ove il peccato cui si allude non rientra nei vari “peccati” possibili, ma èl’unico, vero peccato, che è l’amore di se stesso. Dio non è ente, maintelletto, ovvero spirito, come Gesù dice alla samaritana,114 e lo spirito èquesto, appunto: distacco.115

Infatti Dio è Dio per il suo distacco immutabile ed è proprio daldistacco che egli ha la sua purezza, semplicità e immutabilità. Perciò, sel’uomo deve divenire simile a Dio, questo avviene con il distacco. Essoconduce l’uomo alla purezza, dalla purezza alla semplicità e dallasemplicità all’immutabilità.116

La semplicità è la plotiniana àplosis,117 ovvero distacco da ognisorta di volizioni, contenuti, pensieri, che fa uscire dal “molteplice” econduce all’Uno. È l’argomento del capolavoro di Margherita Porete, Lospecchio delle anime semplici, che Eckhart conobbe nel suo soggiornoparigino, quando fu presente al processo di Margherita stessa, e da cuitrasse alcuni dei suoi più radicali concetti.118

D’altra parte, di fronte al risorgere continuo della volontà propria,tanto più forte in quanto ricca di esperienza, anche e soprattutto diesperienza “spirituale”, occorre un distacco sempre più grande:

Devi sapere che non v’è uomo tanto distaccato in questa vita che non possa ancor di piùrinunciare a se stesso.119

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Enunciando la logica, la meccanica del distacco, il maestrodomenicano prosegue:

L’uomo deve imparare a spogliarsi di se stesso in tutti i doni e a non mantenere niente diproprio, né cercare alcunché– né ricompensa, né utilità, né soddisfazione, né dolcezza, né fervore,né regno dei cieli, né volontà propria. Dio non si dona mai e non si è mai donato a una volontàestranea. Egli non si dona che alla volontà sua propria: dove trova la sua volontà propria egli si donae penetra con tutto quello che è.120

E anche:

Se rinuncio a me stesso per lui, Dio diviene del tutto mio bene proprio, con tutto quello che èe che può dare. Diverrà mio mille volte di più di un oggetto acquistato e tenuto in una cassa. Maiuomo ha avuto qualcosa di suo, quanto Dio sarà mio, con tutto quel che è e che può.121

Importante è, con animo sempre uguale, “trovare e cogliere Dio inogni cosa”, non in una piuttosto che in un’altra, giacché Dio è in ogni cosa:

L’uomo deve esercitarsi a non cercare e non volere alcunché come bene proprio, ma atrovare e cogliere Dio in ogni cosa. Dio non ha mai fatto e non fa alcun dono perché lo si possegga esi trovi la pace nel dono; al contrario, tutti i doni che ha fatto in cielo e in terra, li ha fatti per fare ununico dono: se stesso.122

Il distacco è perciò superiore a ogni altra virtù:

Il puro distacco è al di sopra di tutte le cose, giacché ogni virtù ha in qualche modo di mira lacreatura, mentre il distacco è libero da ogni creatura.123

Sappilo: essere vuoto di ogni creatura è essere pieno di Dio, ed essere pieno delle creature èessere vuoto di Dio.124

Il perfetto distacco non vuole né questo né quello. Vuole essere, ma non essere questo oquello, perché chi vuole essere questo o quello vuole essere qualcosa, mentre il distacco non vuoleessere nulla. Perciò lascia essere tutte le cose davanti a sé, senza importunarle.125

È superiore anche all’amore:

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Io lodo il distacco più dell’amore. Ciò che di migliore ha l’amore è che esso mi obbliga adamare Dio, ma il distacco obbliga Dio ad amare me. Infatti ogni cosa desidera raggiungere il suoluogo naturale: il luogo naturale di Dio è l’unità e la purezza, ed è proprio quello che il distaccoproduce: bisogna dunque che necessariamente Dio si doni a uno spirito distaccato.126

In verità, devi sapere che quando lo spirito libero permane in un vero distacco, esso costringeDio a venire verso il proprio essere. Se potesse permanere senza alcuna forma e senza alcunaccidente, assumerebbe lo stesso essere di Dio.127

Infatti Dio è “senza forma” (formlos), “senza immagine” (bildlos),senza determinazione accidentale, ossia inessenziale, alcuna, e l’uomo chediventasse tale avrebbe lo stesso essere di Dio. Più che un criterio teologicoo metafisico, sempre discutibile, è però l’esperienza concreta a dire quantol’uomo è vicino a Dio, quanto è in Lui:

Nella misura in cui sei in Dio, sei in pace. Nella misura in cui sei lontano da Dio, non sei inpace. È in pace ciò che è solo in Dio. Quanto in Dio, tanto in pace.128

E l’elogio del distacco, significativamente, prosegue:

Io lodo il distacco anche più della misericordia. Infatti essa consiste nel fatto che l’uomoesce da se stesso per andare verso le miserie del prossimo, e così il suo cuore si turba. Invece ildistacco e permane in se stesso e non si lascia turbare da nulla, perché quando l’uomo è turbato daqualcosa, non è come deve essere.129

L’eredità stoica, così profondamente presente nel pensiero cristianoe in Eckhart in particolare, si manifesta non solo e non tanto col richiamoalla imperturbabilità (atarassìa), quanto nel riferimento, peraltro quiimplicito, al fondamentale concetto di “fondo dell’anima”,130 ovvero aquella interiorità profonda che permane immutabile anche quando le facoltàesteriori sono commosse.

Il distacco non è indifferenza verso la sofferenza altrui, ma è invecequella “uguaglianza” che l’animo nobile, l’animo giusto, prova di fronte atutte le cose, pur dolorose che siano. Certo, il dolore può commuovere lefacoltà esteriori, così come un dolce suono di archi è più gradevole di unostridore,131 ma la presenza di Dio nell’anima la rende comunque sempre in

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pace. Non meraviglia perciò che Eckhart dica che il cuore dell’uomospirituale non si turba neppure se vede uccidere i parenti più vicini o gliamici.132

Facendo riferimento ai concetti paolini di “uomo esteriore” ed“uomo interiore”,133 il maestro domenicano spiega:

Ora domanderai cosa è il distacco, per essere così nobile in se stesso. Devi sapere che il verodistacco consiste nel fatto che lo spirito resta insensibile alle vicissitudini della gioia e del dolore,dell’onore e del disprezzo, quanto una montagna di piombo è insensibile a un vento leggero.134

Devi sapere che l’uomo esteriore può agire, mentre l’uomo interiore permane del tutto liberoe insensibile. Ecco un paragone: una porta si apre e si chiude intorno a un cardine. Io paragono latavola della porta all’uomo esteriore e il cardine all’uomo interiore. Ora, se la porta si apre o sichiude, la tavola si muove di qua o di là, ma il cardine permane immobile al suo posto. Lo stesso èin questo caso, se comprendi bene.135

A proposito della preghiera come domanda, che sembra confliggerecon il distacco, Eckhart scrive:

Ora io domando ancora: qual è la preghiera di un cuore distaccato? Rispondo che la purezzadel distacco non può pregare, giacché colui che prega desidera ottenere qualcosa o che Dio gli tolgaqualcosa. Ma un cuore distaccato non desidera niente e non ha niente da cui desideri esser liberato.Perciò esso è distaccato da ogni preghiera, e la sua preghiera non consiste altro che nell’essereconforme a Dio. Questa è tutta la sua preghiera.136

La preghiera come richiesta, in quanto richiesta di qualcosa didiverso e di inferiore a Dio, è un’assurdità,137 o peggio: una bestemmia.138

La preghiera vera, ripete spesso Eckhart con il Damasceno, non è altro chel’elevazione dell’anima a Dio.139

In quanto tale, ovvero in quanto puro volgersi dell’anima a Dio,senza nessuna determinazione, senza nessun sapere, avere o volere, lapreghiera è distacco, toglier via tutti i pensieri– apòthesis noemàton, comela chiama Evagrio Pontico–, fare il vuoto, in un profondo silenzio interioree in una profonda quiete. Solo allora tace quella menzogna che ineriscesempre al nostro pensare, e perciò ein wahrer mensch, un uomovero/veritiero, niente ama come la preghiera.

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2.4. Il distacco più grande e più difficile da compiere è quello dalvalore più alto: la cosa suprema che l’uomo può abbandonare èabbandonare Dio per Dio.140 Perciò:

La cosa migliore per l’anima è stare in un libero nulla. L’intenzione propria di Dio è chel’anima perda Dio. In effetti, finché l’anima ha un Dio, conosce un Dio, sa un Dio, è ancora lontanada Dio. Perciò il desiderio di Dio è quello di annientarsi nell’anima, perché l’anima perda se stessa.Infatti che Dio sia Dio gli deriva dalle creature. Quando l’anima diviene creatura, allora ha un Dio:se perde il suo carattere creato, Dio resta in se stesso ciò che è. Il maggior onore che l’anima possarendere a Dio è abbandonarlo a se stesso e restare vuota di lui.141

Di qui la celebre invocazione: “Perciò prego Dio che mi liberi daDio”.142 E questo vale, specificamente, anche per il Dio del cristianesimo, eper il cristianesimo stesso:

Chi vuole riconoscere la nobiltà e l’utilità del perfetto distacco deve considerare le paroleche Cristo ha pronunciato sulla propria umanità, quando disse ai suoi discepoli: “È necessario che vilasci, perché, se non vi lascio, non verrà a voi lo Spirito santo” (Gv 16, 7). È come se dicesse: Voiavete trovato troppa gioia nella mia presenza, e per questo motivo non potrete ricevere la gioiaperfetta dello Spirito santo. Abbandonate dunque le consolazioni e unitevi all’essere senza forma,perché la consolazione spirituale di Dio è fine, e si offre solo a chi rifiuta le consolazioni dellacarne.143

La gioia perfetta dello Spirito santo non è nella presenza di Dio, manella sua assenza, perché Dio è un essere senza forma (formlos) e quindisolo nell’assenza può “mostrarsi” senza assumere una forma e diventarecosì un idolo.

Come scrive la Weil, “la vera fede implica anche una grandediscrezione nei confronti di se stessi. È un segreto tra noi e Dio, dal qualenoi stessi rimaniamo quasi del tutto esclusi”.144 Ovvero non si deve saperela realtà, la presenza di Dio, perché questo “sapere” lo definisce, lo rende“cosa”, impedisce che sia forma delle cose, “dappertutto e in nessun luogo”,e non cosa.

C’è un rimandare segreto non alle cose, ma alla loro forma, che lacosa non mostra altro che all’uomo completamente distaccato, e che non

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può essere affatto dimostrata. Il “divino” è questa forma, che, nel distacco,appare in tutte le cose. Perciò la Weil annota ancora:

Il contatto con le creature ci è dato tramite il senso della presenza. Il contatto con Dio tramitequello dell’assenza.

In confronto a questa assenza, la presenza diviene più assente dell’assenza.145

Infatti l’anima non deve sapere di questa presenza, ovvero non deveappropriarsi di questa esperienza, perché tale appropriazione gonfia l’io, ecosì uccide “Dio”. Ove entra la creatura, esce Dio– che la creatura sia l’io oun altro– scriveva perciò, paradossalmente, Eckhart.146

3. L’anima

3.1. Il secondo termine essenziale del discorso eckhartiano è“anima”. Agostinianamente, Dio e l’anima sono tutto ciò che interessaconoscere,147 e non meraviglia quindi che i sermoni del maestrodomenicano vertano sempre sull’anima, con una profondità davverostraordinaria.

Dio e l’anima sono la stessa cosa– afferma Eckhart–, in quanto larealtà profonda dell’anima è spirito, come Dio stesso. Si deve tener presenteil fatto essenziale che l’antropologia eckhartiana non è la nostra–impoverita, basata solo su corpo e psiche, senza spirito–, ma quellaclassico-cristiana: corpo, anima e spirito,148 per cui senza l’esperienza diquest’ultimo, fondamentale, termine, le parole di Eckhart sono quasiincomprensibili.

L’essenza dell’anima non è data, infatti, dalle sue facoltà (le“potenze”), ma dal suo “fondo” spirituale, per cui è assurdo pensare diconoscere l’anima attraverso la rassegna delle sue facoltà stesse. Anzi, sottoquesto profilo, “niente è tantoignoto all’anima quanto se stessa”,149 per cuiessa è inesprimibile:

La parola “anima” non significa il fondo e non coglie la natura dell’anima […] Chi devechiamare l’anima secondo la semplicità, la purezza e la nudità, come essa è in se stessa, non puòtrovare nomi per essa […].

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Dio, che è senza nome, non ha nome, è inesprimibile, e l’anima nel suo fondo è tantoinesprimibile quanto lui.150

Non si conosce l’anima senza esperienza del suo “fondo”, e dunquesenza Dio, perché fondo dell’anima e fondo di Dio sono un unico emedesimo fondo, e questo è il “mio” fondo.151

Nel suo monismo assoluto– in questo davvero identico allo advaitadell’India– Eckhart smonta, dunque, la pretesa oggettività dell’anima, inquanto costitutiva di un soggetto, di un ego, in realtà introvabile perchéinesistente. D’altra parte, non si deve pensare che il suo sia unospiritualismo astratto e, per così dire, disincarnato: egli non disconosceaffatto la realtà del corpo e dell’anima (in quanto psiche), tanto da affermareche “lo spirito non può mai essere perfetto, se il corpo e l’anima non sonoperfetti”.152

Corpo e anima sono, per così dire, precedenti allo spirito, nel sensoche l’esperienza dello spirito si ha dopo quella di corpo e anima, esoprattutto quando dall’anima– ossia dallo psichismo egoico– ci siamodistaccati, secondo l’insegnamento evangelico fondamentale: “odiare lapropria anima”.

L’anima deve odiare se stessa per tre ragioni. La prima è che devo odiarla nella misura in cuiè mia, giacché in quanto è mia essa non è di Dio. La seconda ragione è che la mia anima non èperfettamente fissa, radicata e trasformata in Dio […] La terza ragione è che, se l’anima gusta sestessa in quanto anima, e gusta Dio con l’anima, ciò non è bene. Essa deve gustare Dio in se stesso,giacché egli è assolutamente al di sopra di lei. Perciò il Cristo dice: Chi ama la sua anima, laperde.153

Commentando il testo giovanneo sulla necessità che il chicco digrano muoia, se deve portare frutto,154 il maestro domenicano spiega chel’anima deve morire, se deve diventare recettiva di un’altra essenza, che èquella spirituale, divina. Solo dopo la “morte dell’anima”, infatti, comparelo spirito, al “fondo” dell’anima stessa:

Quando vengono tolte via tutte le immagini dall’anima ed essa contempla soltanto l’unicoUno, allora il puro essere dell’anima, permanendo passivamente in se stesso, trova il puro esseredell’unità divina, privo di forme, un essere al di sopra dell’essere.

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L’anima si chiama così in quanto dà la vita al corpo ed è la forma del corpo155 […] si chiamaspirito in quanto è separata dal “qui” e dall’“ora” e da ogni elemento della natura.156

“Separata dal qui e dall’ora”, ossia da quelle determinazioni che dis-tinguono il soggetto, lo gettano nella dualità, rendendolo “proprio” (eigen),ovvero separandolo dall’Uno. Perciò, utilizzando la solita nozione di “uomointeriore”, Eckhart scrive che “l’uomo interiore in modo spirituale sfugge alsuo essere proprio, quando è un solo fondo col fondo di Dio”.157

È infatti nello spirito che si situa, per così dire, il fondo dell’anima,che il maestro domenicano chiama, secondo la tradizione, anche in moltialtri modi, come qui fünkelin, scintilla:

Nello spirito c’è una luce, una scintilla, che sola è libera […] al di sopra di ogni modo,“libera da ogni nome”, priva di ogni forma, libera e distaccata come Dio è libero e distaccato.158

Questa scintilla è così affine a Dio da essere con lui un unico Uno, senza distinzione.159

Un unico Uno, ein einzig Ein, è un’espressione tipica di Eckhart,quasi una cifra del suo pensiero, che non si stanca di ripetere ed esplicitare:

Perché l’anima sia unita o si unisca a Dio, deve essere separata da tutte le cose e sola comeDio è solo […] Le realtà spirituali e quelle materiali non possono essere unite. Se la perfezionedivina deve operare nell’anima, bisogna che essa sia uno spirito, come Dio è spirito.160

Ed è proprio sull’unione essenziale anima-Dio che Eckhart insistemaggiormente, con espressioni non equivoche, e che sono anche quelle chehanno attirato su di lui la censura ecclesiastica:

L’anima è in Dio, e Dio è in essa. Quando si versa l’acqua in un vaso, questo circondal’acqua, ma l’acqua non sarebbe nel vaso, né il vaso nell’acqua; invece l’anima è cosìcompletamente una con Dio, che nessuno dei due può essere compreso senza l’altro. Si puòconcepire il calore senza il fuoco e la luce senza il sole, ma non si può pensare Dio senza l’anima,né l’anima senza Dio, tanto essi sono uno.161

Un’immagine che piace molto al maestro domenicano, che lautilizza anche altrove, come ad esempio nel sermone intitolatosignificativamente L’anima diviene una con Dio e non unita:

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Se si riempie d’acqua una botte, l’acqua è nella botte unita a essa, ma non una con essa,giacché dove è l’acqua non è il legno e dove è il legno non è l’acqua. Se gettate un legno in mezzoall’acqua, il legno è unito all’acqua, ma non uno con essa. Così non è per l’anima: essa diviene unacon Dio, e non unita, giacché dove è Dio, là è l’anima e dove è l’anima, là è Dio.162

“Nessuna unione è più grande di quella tra Dio e l’anima”,163 ed èchiaro che questa unione è perfezione e, insieme, profonda, estatica,beatitudine:

Quando l’anima è unita a Dio, essa ha in lui, in piena perfezione, tutto ciò che è qualcosa. Làl’anima dimentica se stessa, come essa è in se stessa, e tutte le cose, e si riconosce divina in Dio, inquanto Dio è in lei. Si ama in lui in quanto divina ed è unita a lui senza distinzione, in modo tale danon gustare altro che lui e gioire solo di lui.164

Contro ogni idea riduttiva della possibilità di felicità dell’uomo, ilmaestro domenicano parla di una “gioia e una beatitudine di cui l’animagioisce, e che è la stessa gioia e beatitudine di cui gioisce Dio nella suanatura divina”, proprio perché là “non vi è che Uno, e dove è Uno è tutto, edove è tutto è Uno”. Dove è l’anima è Dio, e dove è Dio è l’anima: “Questaè una verità certa. Se dicessi che non è così, parlerei falsamente”.165

3.2. La beatitudine è nella conoscenza di Dio, ma non nel sensodella conoscenza di un oggetto esteriore, perché tutto quel che conosciamoal di fuori di noi, nella distinzione, non è Dio. La conoscenza di Dio è unavita, che fluisce dall’essere di Dio e dall’anima, giacché Dio e l’animahanno un solo essere e sono una sola cosa nell’essenza. La vera beatitudineè quando l’anima ha vita ed essere con Dio,166 e “questa è la conoscenza diDio, che toglie via ogni altra conoscenza ed essere”.167

Non un “sapere”, magari “al di sopra” dei comuni saperi, ma untoglier via ogni conoscenza che non sia conoscenza dell’anima in se stessae di nessun altra cosa se non se stessa in Dio, e Dio in lei.168 Non sapere,ma essere. Sapere ed essere sono infatti due modalità alternative. La primapretende di conquistare l’essere col sapere, ma si trova senza essere e senzasapere, incapace di sussistere perché incapace di reggere la contraddizione,tanto del sapere, quanto dell’essere: scopre di non sapere davvero nulla, e di

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trovarsi smarrita, nella regio dissimilitudinis, ove si passa senza sosta, inperpetuo dolore, da un contenuto all’altro, da uno stato d’animo all’altro.169

V’è dunque un non-sapere che è vero essere; non un possesso, bensìuna vita e un vivere. Questo, infatti, è per eccellenza l’essere: una vita e unvivere.170

Un essere “conosciuto” è un essere altro, che testimonia il nostrostare nell’universo dell’alienazione, del dolore, del due– e dunque delpensiero del male: malati, malvagi.171 Il pensiero di conoscere l’essere è unpensiero appropriativo, frutto dell’egoità. L’uomo nobile, l’uomo interiore,che “fugge sempre se stesso”, sa bene che questo presunto “sapere” è falso,è posto per motivi bassi, ignobili, che sono sempre di potere.172

Se si cancella questa smania di sapere, di un sapere diversodall’essere, l’essere si manifesta nella sua unità, che tu stesso sei. Infattinell’“uomo divino” lo stesso è essere e conoscere.173

Questo è l’insegnamento del celebre sermone Beati pauperesspiritu: povertà come niente avere, niente volere, niente sapere. Questi treniente sono un niente solo. Allora se ne va “Dio” in quanto supremaconcretizzazione dell’oggettivismo e della pretesa del soggetto, e se ne vapure l’“io” come piccola entità determinata, egoità, data dal flusso dipensieri che vanno e vengono senza fine, cercando sempre di fermarsi, fareblocco– essere, possedere.

Non-sapere non significa però affatto beota ignoranza, ma solo non-attaccamento nei confronti sia del soggetto che conosce, sia dell’oggettoconosciuto, e dunque lascia sussistere tutto quel sapere, che possiamodefinire “scientifico”, ovvero quello senza attaccamento, solo fattuale, e chenon tocca mai il Bene.174 Perciò non esiste affatto alcun conflittoscienza/fede: la prima non riguarda il Bene mentre la seconda sì, purtrattando la stessa cosa (ad es. l’origine del mondo). Il sapere scientifico èadiàforon, indifferente rispetto al Bene, senza contare che è semprerivedibile, relazionale e congetturale, in senso cusaniano.175

Si comprende allora, come già accennato, il significato della graziaquale estremo sfuggire dell’anima a se stessa in un “divino” distacco:

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La grazia conduce l’anima a Dio e la porta al di sopra di se stessa, togliendola a se stessa e atutto quel che è creaturale, e unendola a Dio. La grazia opera con l’anima tanto da liberarla da sestessa, in quanto creatura, in modo che non resti se non Dio e l’anima stessa, senza mediazione.176

Per “grazia” non si intende infatti qualcosa che porta, che dà, maqualcosa che toglie, e addirittura “toglie l’anima a se stessa, libera l’animada se stessa in quanto creatura”–, ovvero uccide completamente l’egoità. Lagrazia non opera, e non tocca le facoltà dell’anima, ma la sua essenza:

La grazia non opera; è il suo divenire che è il suo operare. Essa fluisce dall’essenza di Dio esi effonde nell’essenza dell’anima, non nelle sue potenze.177

Perciò Dio, il fondo dell’anima e la grazia sono una cosa sola.178

Contro la superstizione di un Dio-ente, grosso e forte, e, in parallelo, di unio-ente, più piccolo e debole, cui Dio manda– o non manda, ad arbitrio– lasua grazia (che poi diventa un plurale: le grazie, che interessano le facoltàdell’anima), Eckhart parla di un’unica realtà, che è Dio, il fondo dell’animae la grazia stessa, pura luce, “luce soprannaturale”,179 che è, e che noi stessisiamo.

Completo superamento dell’alterità dell’essere, e perciò perfettabeatitudine: essere l’unico Uno, essere la luce stessa, come si esprime ilpoeta mistico:

Nulla in Dio si conosce, egli è un unico Uno,

Ciò che in lui si conosce, questo bisogna essere.180

4. Dio

4.1.Deum nemo vidit unquam, “nessuno ha mai visto Dio”, dicel’apostolo.181 Il discorso su Dio è sempre un discorso a partire dalla propriaesperienza, in corrispondenza di essa.

Il Dio di cui Eckhart parla– o piuttosto non parla– corrisponde allarealtà dell’anima distaccata: perciò egli non si stanca di ricordare ilprofondo, indissolubile, legame tra Dio e anima: Dio è l’essenza dell’anima,la sola cosa che può giungere nel fondo dell’anima– anzi, in quanto “senzanome”, è il “luogo” proprio dell’anima.182 Dio è nell’intimo nostro, dimora

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in noi, se l’anima non è uscita fuori, a spasso con i cinque sensi, mapermane invece in se stessa, nella sua parte più pura ed elevata.183

Se l’uomo si mette in rapporto o prende qualcosa al di fuori di se stesso, non va bene. Non sideve considerare Dio come esterno a noi stessi, ma come nostro proprio essere […] Molta gentesemplice si immagina Dio lassù e noi quaggiù, ma non è così: Dio e io siamo una cosa sola.184

Da questa consapevolezza, tanto paradossale quanto intimamente edessenzialmente cristiana, Eckhart deriva una serie di conseguenze che, perconvenzione, chiameremo “teologiche”.

Dio non è un ente; non ha a che fare con determinazione alcuna; nonentra nella finitezza, nella storicità. Al di sopra di ogni conoscenza, tutto ciòche è contingente deve essere negato di lui: è un puro dimorare in se stesso,in cui non v’è né il questo né il quello.185 È Uno, negazione dellanegazione, privazione della privazione, ovvero ciò cui niente è aggiunto.186

È spirito, che non ha un “dove”,187 non è nel tempo e nemmenonell’estensione;188 Uno ed eterno, e perciò opposto a corpo, molteplicità,temporalità.189

In quanto tale, Eckhart lo chiama Divinità (gotheit), per distinguerlodal Dio dotato di qualche determinazione– a partire da quella di creatore–che è sempre e comunque in dipendenza dell’esteriorità. L’uomo interiore,infatti, coglie l’Uno, la Divinità, come essa è in se stessa, ove niente le èaggiunto, neppure col pensiero.190 Alla lontananza e distinzione (“come ilcielo dalla terra”) tra uomo interiore e uomo esteriore, corrisponde laidentica lontananza e distinzione tra Divinità e Dio:191 infatti Dio è larappresentazione che l’uomo esteriore si fa, mutevole come esso stesso;Divinità è il nome che l’uomo interiore dà alla luce eterna, al di là di ognideterminazione. In quanto tale, Dio può essere definito come nulla,192 senzanatura alcuna,193 e dunque incomprensibile e inconoscibile, almeno dallaconoscenza naturale:194 perciò la teologia positiva è bestiale.

Agostino dice: Ciò che l’uomo può dire di più bello di Dio è tacere,per la sapienza della ricchezza interiore. Taci dunque, e non blaterare,perché, se lo fai, stai proferendo menzogne e commetti peccato […]Neppure devi voler comprendere qualcosa di Dio, perché egli è al di sopra

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di ogni comprensione […] Se comprendi qualcosa di Dio, egli non è nientedi ciò, e per il fatto di conoscere qualcosa di Dio, cadi nell’ignoranza, edall’ignoranza nella bestialità: infatti è animale ciò che nelle creature èsenza conoscenza. Se, dunque, non vuoi diventare una bestia, nonconoscere nulla di Dio, inesprimibile con la parola.195

4.2. Queste dure frasi si comprendono se si comprende il dupliceruolo che la religione può avere.

La religione vera, in senso agostiniano,196 è devozione, fede comericerca dell’Assoluto, e dunque conversione e distacco. Essa porta alla finedell’egoità, dell’affermatività personale, e così all’esperienza estatica dellaluce che su tutto si stende, come il sole che risplende sui giusti e sugliingiusti.197 Derivando da religare, la religione implica etimologicamente illegame, l’unione. Ma ciò ha due sensi: il primo è il legame, l’unione tral’individuo e lo spirito universale, unione mediante la quale l’individualitàscompare, come scompare ogni illusoria distinzione (il due). Questo èanche il significato etimologico di yoga (ovvero giogo, nel senso di ciò cheunisce due cose: latino jugum, tedesco joch).

In quanto scoperta del fondo di se stessi, lareligione unisce con Dio,ma non con un essere esterno a noi, necessariamente illusorio nella misurain cui lo si considera tale: del resto, ponendo un essere supremo esteriorerispetto all’uomo, si dà luogo necessariamente all’antropomorfismo, chenon tarda a divenire materialismo vero e proprio.198

In altro senso, però, la religione costituisce il legame sociale tra gliuomini: fatalmente esso tende a porsi come assoluto, per cui la religionecostruisce un sistema per tenere insieme la società, configurandosi cosìessenzialmente come morale. In effetti, la morale è ciò che dà la stabilitàsociale, e in questo senso non v’è dubbio che la religione sia essenziale auno stato ordinato e a un vivere civile.199 D’altra parte, in quanto sistema, lareligione esclude tanto quanto individua, e così entra fatalmente incontraddizione con la realtà nel suo complesso. Allora appare chiara la suanatura appropriativa, legame non alla verità, ma a se stessi, amor sui, chevuole impadronirsi di Dio per metterlo al servizio del sociale, e lo faappunto con la costruzione di una teologia.

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Storicamente la parola “teologia” è stata coniata da Platone, percontrapporre alla mitologia un discorso che “rappresenti la divinità qualeessa è realmente”, per cui occorrono typoi tes theologhìas, modelli didiscorso razionale su Dio.200 Di Dio dobbiamo pensare soltanto che èbuono, non invidioso, e che è causa solo del bene: un ulteriore sapere suDio è illusorio. Quel che possiamo e dobbiamo compiere è invecel’assimilazione a Dio, attraverso conversione (epistrophè) e distacco,esercizio di morte,201 cercando l’uomo interiore, contrapposto a quelloesteriore, al sociale.202

La teologia biblica, ovvero l’invenzione di un Dio finalizzata allacostruzione e al primato di un popolo,203 è quella che ha fatto da modello alcristianesimo e poi all’islamismo.204

Ora la menzogna teologica si è raffinata, concede anche al Dio dellealtre religioni “verità”, per mantenerne un poco per se stessa, e così dichiara“sacra” ogni Scrittura, ogni tradizione, con tutto ciò che se ne deduce, in ungioco incessante, come quello dei bambini.205

Giustamente perciò Agrippa von Nettesheim dichiarava “supremabestemmia” chiamare divino ciò che è di mano umana. Le teologie, infatti,sono menzogne, castelli di fantasie inventate a servizio dell’egoismoparticolare:206 non discorsi su Dio, ma sulla mentalità, sul pensiero,sull’anima di chi li pronuncia. Interessanti solo in senso psicologico,perché– come dice la Bhagavadgītā– l’uomo è la sua fede,207 per cui ildiscorso teologico (o ateologico) fornisce informazioni importanti– noncerto su Dio, ma sulla psiche del soggetto che lo espone.

Le teologie parlano del Dio determinato nei modi, ovvero di quelDio che l’uomo pensa e perciò “attira in sé”,208 giacché il divino èdappertutto e, in un certo senso, ciascuno ha il Dio che vuole, ma, in quantoparla di se stesso, ovvero di ciò che gli è proprio (ex propriis loquitur),l’uomo sta mentendo, perché tutto quello che procede da se stesso, dallavolontà propria, è menzogna e viene dal demonio, padre di ognimenzogna.209 Della menzogna che l’uomo sempre produce, a serviziodell’egoità, la teologia è in un certo senso il massimo grado, in quantomenzogna che concerne la cosa principale, il valore più alto.

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Il discorso teologico è, nella sua falsità, sempre insensato: infatti inogni discorso su Dio il soggetto “Dio”, che dovrebbe indicare l’Assoluto,finisce necessariamente per diventare un relativo appena assume predicati,o lo si fa agente, ecc. Il pensiero di un Dio-ente, comunque determinato,anche se come puro essere, è perciò un pensiero impensabile, che vale,come si è detto, solo per i peccatori, e le religioni, con le loro teologie più omeno immaginarie, sono ciò che, più di ogni altra cosa, tiene nell’oscurità.

4.3. La parola “Dio” ha un senso corretto, indica cioè l’Assoluto,solo in quanto si limita a indicare il Bene al di sopra dell’essere, la luceeterna che su tutto risplende, in modo assolutamente impersonale,indeterminato, in-distinto.210 V’è perciò un duplice presentarsi di “Dio”:fonte di luce mentre lo si cerca come Assoluto, togliendo così via tutto; maanche il suo contrario: supremo ente, supremo idolo, fonte di alienazione.

Frutto dell’immaginazione, del bisogno, dell’attaccamentodell’uomo, Dio come ente non riesce a superare l’esame della ragione. Lasua assolutezza non sopporta infatti nessuna determinazione, della quale,invece, il Dio-ente non può fare a meno. Neppure pensarlo come puroessere, privo di determinazioni– ovvero nulla–, regge gli attributi che,necessariamente, dobbiamo poi apporgli.

In particolare, non si reggono i rapporti tra Dio e mondo–, perchédella creazione, problema del male, della teodicea, ecc.211

In realtà Dio come ente a sé separato, distinto, è impensabile,ovvero pensabile solo come un idolo– un essere grosso e forte, che fa quelche vuole, fa e disfa, ecc. Il termine e il concetto di Dio (per quantoconfuso: giudice, padre amorevole, misericordioso, ecc.) sta infatti per statid’animo variabili, che però hanno in comune l’essenziale: la pretesa dicogliere il valore supremo, ovvero il supremo aggancio e sostegnodell’egoità. In questo senso, la fede come credenza non si distingue affattodall’ateismo.

Essa fa parte, infatti, del repertorio psicologistico di cui l’egoità sicompiace: “ora credo”, “ora non credo”, “ho trovato Dio”, “ho perdutoDio”, ecc., ove il povero “Dio” è un frutto del peccato fondamentale: la

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menzogna, l’immaginazione che “riempie i vuoti”.212 “Chi crede, non èancora figlio di Dio”, scrive perciò Eckhart.213

D’altra parte, però, in quanto devozione, la fede è già pensiero214

della luce, della verità, del bene; e così è già il movimento dell’intelligenzaverso l’Assoluto, che spazza via tutti i contenuti e le determinazioni,“credenti” o “atee” che siano.

Non v’è, dunque, “conoscenza di Dio” come conoscenza di unoggetto altro, esperito coi sensi o tramite mediazioni, bensì la conoscenzache si ha “diventando Dio”, ovvero un solo spirito con lui. Questaconoscenza è “mistica”215 in senso etimologico: silenziosa, giacchénell’esperienza spirituale non si afferma niente, non si sa niente dioggettivo, ovvero estraneo.

Cosa aggiungerebbe la certezza– peraltro sempre impossibile–dell’“esistenza di Dio”, di un ente al di fuori, ecc.? Cosa darebbe in piùquella “beatitudine”, rispetto alla presente? Niente. L’“esistenza di Dio” ètutta data, qui, nella luce, nella pace che è e che siamo. Non c’è nulla daaggiungere– anzi: un’“esistenza di Dio” come ente grosso e forte fa sparirela luce, perché rimanda ad altro, rimette in cerca di quel Dio-ente vistocome Bene, essere, che mai si raggiunge, e getta in tutti i problemiinsolubili dei “perché”– creazione, teodicea, giudizio, ecc.– per cui se nevanno la pace e la beatitudine.

Reciprocamente, che tu sia in pace lo vedi bene quando ti accorgiche non c’è da aggiungere nulla– né da togliere– alla luce presente, e nonvuoi assolutamente fuggire nel futuro, in altro:

Chi ha il proprio io in Dio, ha pace; chi lo ha fuori di Dio, non ha pace.216

Dunque, chiamare “Dio” un contenuto psicologico, ovvero uno statod’animo, un’esperienza interiore, per quanto importante e bella sia, è unamenzogna terribile– anzi, una bestemmia, assolutamente parallela a quelladi dichiarare “parola di Dio” ciò che proviene dall’uomo, da un contesto eda un interesse determinato. Sotto questo profilo, anzi, la mistica non è lasuprema religiosità, ma la suprema bestemmia, che permea tutto il religioso,a partire dal concetto e dalla parola stessa “Dio”, che viene usatacomunemente per indicare quell’esperienza, quello stato d’animo, quel

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pensiero, cui diamo supremo valore, e su cui fondiamo talvolta la nostravita.

Onestà vuole invece che la si riconosca come nostra, e di qui puònascere il terribile pensiero: non est deus, con tutto l’orrore del nichilismoin cui si precipita, tanto bene intuito da Nietzsche. Ma attraverso questoorrore bisogna passare. Bisogna infatti, in ogni momento, riconoscere chequesto nostro pensare e sentire, e ciò che gli facciamo oggettivamentecorrispondere, non est deus, nemmeno quando con tutto il nostro essereesperimentiamo la pace e la gioia exuperans omnem sensum e saremmodavvero tentati di dire: “Dio”.

Quell’immagine, quel concetto– impossibile, peraltro– chechiamiamo “Dio” è a servizio dell’altrettanto impossibile concetto dicreatura, di “io”, ed entrambi sono perciò determinati nei “modi”, nellafinitezza, e così confusi e contraddittorii.

In effetti, noi chiamiamo Dio e divino ciò che non abbiamosottoposto alla conoscenza, che distacca, e non lo abbiamo fatto per tenerloa disposizione, per servircene in qualche modo– foss’anche un modo“spirituale”–, e così lo facciamo appunto “servo”. È per questo motivo chesi costruisce una teologia, ovvero un presunto sapere di Dio, che lo ponecome “altro”, oggetto finto e finito, a servizio e giustificazione del nostrovolere.

Quando, nel completo amore-distacco, l’anima è fatta pura luce–una luce che su tutto si estende, in un eterno presente, qui e ora–, allora piùforte che mai viene la tentazione di pensare “Dio”, e più forte che mai deveessere l’intelligenza e l’amore che rifiutano l’appropriazione e, con essa, labanalizzazione, la falsità.

“Mistica” non è perciò un’esperienza eccezionale, “esperienza diDio”– un’espressione che è una vera e propria bestemmia–, ma ciò che laparola originariamente significava: silenzio, riserbo, e non perché non sipossano dire cose eccezionali, “speciali”, ma perché proprio non si puòparlare, in quanto il dire significa de-finire, rendere finito e cosìappropriarsi, negando ipso facto la realtà di un essere che non è in nostraproprietà. Silenzio, in quanto non possiamo far coesistere insieme,esplicitamente, negazione e affermazione, ovvero la costante, permanente

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esperienza di qualcosa che siamo tentati di chiamare divino, assoluto, masappiamo anche sempre, insieme, umano, finito.

A rigore, dunque, è impossibile ogni discorso su Dio: anche dire cheDio è spirito.

Diciamo che Dio è spirito, ma non è così. Se lo fosse in sensoproprio, sarebbe espresso.217

Torniamo così alla citazione con cui abbiamo iniziato il discorso suEckhart.

5. Parola-Logos

5.1. Agostino dice: Tutta la Scrittura è vana. Se si dice che Dio èuna Parola, viene espresso; se si dice che Dio è inespresso, è inesprimibile.Tuttavia è qualcosa; chi può esprimere questa Parola ? Nessuno può farlo,se non chi è questa Parola. Dio è una Parola che esprime se stessa, dove Dioè, egli pronuncia questa Parola, dove non è, non la pronuncia. Dio èespresso e inespresso.218

Il maestro domenicano enuncia qui la sua esperienza religiosafondamentale– pensiero centrale del cristianesimo, che lo distingue da ognialtra religione/mitologia –: non v’è una conoscenza di Dio presa dallaScrittura, che può dare solo esteriorità e superstizione.219 Non si puòconoscere Dio come un oggetto, ché sarebbe solo un idolo: Dio è unaParola– Verbum, Logos– che c’è quando la si pronuncia, si proferisce, sigenera, ovvero la si è.220 Perciò occorre che “Dio divenga assolutamenteme, e io assolutamente Dio”;221 ovvero bisogna “generare Dio”.222

V’è un Dio in quanto egli “nasce” nell’anima nostra, si genera inessa, non come ente-idolo, ma come spirito– che, nei termini cristiani, è ilVerbo, il Logos, il Figlio.223

Pensiero niente affatto esoterico o straordinario, la nascita di Dionell’anima, la generazione del Logos, è ciò che si compie ogniqualvolta lanostra anima si rivolge alla luce eterna, ovvero ama e pensa Dio.224 In realtà

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si è davvero ciò che si pensa e si vuole, si ama: “Tu sei una cosa sola conquello che in atto pensi, mediti, ovvero ami, giacché a ogni meditazione opensiero segue sempre l’amore e il pensiero stesso, o meditazione, spira ilfuoco dell’amore”.225

Amore va qui inteso nel suo senso più alto: non passio, ma, alcontrario, distacco, terminus et finis omnis passionis,226 ovvero aperturaall’infinito essere, senza desiderio che non sia desiderio del Bene assoluto,dunque desiderio senza oggetto; come, in stretta concomitanza, pensieronon è qui rappresentazione, ma pensiero privo di rappresentazione, privo diun fine determinato, dunque pensiero del Bene assoluto, al di sopra di ogniessere e, perciò, pensiero libero, distaccato, separatus et immixtus. Lospirito non è altro, infatti, che l’indissolubile unione di pensiero puro e diamore, altrettanto puro: “Spiritus sanctus est lumen intellectus agentis,semper lucens”, ripete Eckhart, e, insieme: “Idem amor et spiritussanctus”.227

Quanto più è puro l’intelletto, che è il nulla di tutte le cose, e chetutto porta al nulla, tanto più sono uno intelletto e intellezione, pensante epensato.228 E a questo pensiero segue sempre l’amore, che fa una cosa soladi pensante e pensato, di amante e amato.229 Perciò la grazia gratum facienssta nel solo intelletto, ovvero nel Logos, nel Figlio, che significa appuntointelletto, ed è lo stesso che spirito.230

Pronunciare la Parola, generare il Logos, significa dunque conoscereDio, e l’uomo, come spirito: l’esperienza di un essere movimento, vita, chetrova espressione solo in modo triadico, trinitario.231

5.2. In effetti, l’esperienza dello spirito passa per tre momenti,assolutamente complementari. Il primo è il pensiero dell’Assoluto comeluce che è, prima di me e indipendente da me e da ogni soggettività. Non,dunque, il Dio rappresentato, determinato nei modi, ma il deus sine modis,cui si volge lo sguardo nel distacco, che si mostra alla coscienza come puraluce, qui e ora presente Esso si mostra sì alla fede, ma non in quantocredenza, bensì dissoluzione di ogni credenza, movimento verso unAssoluto superiore alle alterne circostanze dello psicologico: è infatti inessa, nel nulla che essa produce, che l’Assoluto si mostra nella sua luce, insé sussistente.

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San Giovanni della Croce, in proposito, scrive:

La fede non solo non produce nozione e scienza, ma anzi acceca l’anima e la priva diqualunque altra nozione e conoscenza […] la fede è notte oscura per l’anima e, anzi, quanto più laottenebra, tanto maggiore è la luce che le comunica.232

La luce si comunica immediatamente alla coscienza, esce per cosìdire dalla sua assolutezza “divina” e diventa pienamente “umana”; perciòv’è un secondo momento, che è quello della soggettività, ovveroconsapevolezza di avere in sé, anzi di essere in sé l’assolutezza.

Entrambi i momenti, presi isolatamente e senza dialettica, nonriescono a sussistere. Da una parte, infatti, l’affermazione della pura alteritàdi Dio genera subito il dualismo, in cui quell’alterità è costretta a precisarsi,a determinarsi, a fissarsi, e così si nega come universale, assoluta, e diventaun mero idolo. Dall’altra parte, il pensiero di un Assoluto che è solo in me,nell’uomo, riporta inesorabilmente al soggettivismo, nel quale l’Assolutoscompare ipso facto.

Entrambi i momenti sono però necessari. Senza il primo, infatti,senza il pensiero di un Dio-altro, non v’è Assoluto qui e ora presente,giacché è solo il rapporto con questo “altro” che fa emergere nella suapienezza l’amore, che è appunto rapporto assoluto, e solo così l’animascopre di essere in se stessa quell’assoluto amore. Però anche il secondomomento è necessario, perché senza la consapevolezza che l’Assoluto,quella luce eterna che ci si è presentata come alterità, è tutta quanta anchenell’intelligenza-amore che a essa si rivolge, esso permane nella suaestraneità– come un idolo, appunto–, scomparendo così proprio in quantoAssoluto.

È chiaro allora che nessuno dei due momenti può sussistere, nel suoproprio valore irrinunciabile, senza l’altro, e che tale valore viene menoquando ciascuno dei due momenti perde il suo opposto. Questo valoreirrinunciabile è il terzo momento, lo spirito, movimento di ritornodall’umano verso il divino, come era stato passaggio dal divino all’umano.

La “trinità” non è, dunque, altro che l’espressione schematica dellagenesi e del farsi dell’esperienza spirituale, e perciò non va affattoconsiderata in modo dogmatico, come una “verità”, relativa all’essenza di

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Dio– verità che resta poi un “mistero”. Del resto, quando si parla di“mistero”, si sta compiendo un’operazione disonesta: si presenta come“misterioso” qualcosa che è frutto della nostra immaginazione, che nonriesce però a chiarirsi, perché chiarezza non ha, ma che vogliamo comunquetenere in nostro possesso.

La realtà dello spirito, passaggio continuo dal divino all’umano edall’umano al divino, è espressa da Eckhart in un brano di straordinariapotenza dialettica:

V’è nell’anima qualcosa in cui Dio è nella sua nudità, e i maestri dicono che è senza nome.V’è, e tuttavia non ha essere proprio, giacché non è questo o quello, né qui né là; infatti è quel che èin un altro, e quello in questo, giacché ciò che è lo è in quello, e quello in questo– dato che quellofluisce in questo, e questo in quello.233

Il secondo momento– quello della consapevolezza, ovvero dellafinitezza, dell’umanità, del relativo, portato all’interno dell’Assolutostesso– è il momento dell’estremo distacco e dell’estrema umiltà, in quantoè il cogliere le ragioni determinate, finite, di quel che pure poniamo eaffermiamo come Assoluto. Non si tratta qui affatto di mera negazioneestrinseca, di stampo per così dire illuministico, perché questo momento ècomunque ricco dell’assolutezza: è sì certezza della soggettività,dell’umanità, ma pur sempre dell’Assoluto, che non viene comunque negatocome altro sussistente. Si tratta invece di un atto di estremo coraggio, diestrema volontà di verità, che non indietreggia di fronte a nulla, ovverorifiuta sempre l’appropriazione, riconoscendo sempre di nuovo la maliziadell’autoaffermatività dell’ego.

Questo riconoscere il relativo, l’umano, nell’Assoluto costituiscequel “passare attraverso”, “far breccia” (durchbrechen) in Dio stesso di cuiEckhart parla: com-penetrazione reciproca per cui il divino passanell’umano e l’umano nel divino. La conoscenza, la comprensione, non è,infatti, il superbo “voler sapere più di quanto necessario”,234 ma ilcontrario: guardare con coraggio nella finitezza delle proprie più profonde eimportanti affermazioni.

Proprio questo è il punto: quanto più l’intelligenza guarda cononestà nel relativo, ovvero quanto più riconduce all’umano, portando per

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così dire dal cielo alla terra (humilitas da humus), tanto più l’umano(humanum) passa dalla terra al cielo, diventando veramente divino, non inun’astratta e fissa alterità, che è subito superstizione alienante, ma comespirito e vita.

Negare l’assolutezza di ciò che pure ci appare come supremo valore,fonte di gioia infinita, dire non est deus– neti, neti, “non così, non così”,come nelle Upanishad –235 è l’atto di verità con cui davvero si onora Dio,ed è in questo riportare all’umano che il divino nasce; ma subito muore dinuovo, appena lo si vuole afferrare come tale. Voler afferrare il divino etenerlo a propria disposizione è orribile: quando fanno ciò, la religione, e lasedicente mistica in particolare, sono una vera e propria bestemmia, perchérendono “cosa” lo spirito.

Dio è spirito, e perciò, come scriveva Hegel, la negazione è ilmomento essenziale.236 La consapevolezza del finito nell’Assoluto è infattimomento di negazione, ma Dio è spirito, negazione della negazione, e cosìmedulla et apex purissimae adfirmationis.237

Lo spirito non ha un perché238 in quanto non dipende da alcun fine;non rispetta nessuna appropriazione, giacché “chi vuole che il Logos abitiin lui, deve rifiutare tutto ciò che è proprio”,239 e perciò penetra attraversoogni determinazione, superando il dualismo divino/umano fino a giungerenella solitudine, nel silenzio, nel “deserto”240 dell’Uno, ove ogni dualismotace. Lì è unità e libertà,241 in quanto non v’è più dipendenza da esterioritàalcuna, non v’è rimando ad altro, ma il principio della vita è in noi stessi.242

La vita dello spirito è rapporto, reciproco passaggio dell’unonell’altro: il momento del passare attraverso il divino rendendolo umano èanche il passare attraverso l’umano rendendolo divino: questa la gioiosa–estaticamente gioiosa, beata– generazione nostra nel Logos e del Logos innoi.

La vita dello spirito è dunque solo nel Figlio, il che significa neldistacco, che nega ogni rigida alterità di Dio. Dio è spirito, non-ente, per cuinon è e neppure parla come altro, ma “diviene” (wird), si genera nell’uomo,là dove l’uomo ha fatto il vuoto in e di se stesso, e là anche “disviene”(entwird), ossia viene meno nella sua alterità.243

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Perciò c’è spirito solo nella dialettica dei tre momenti in cui la suavita si svolge: senza questa dialettica Dio è un idolo. Esso procede ex patrefilioque, ovvero dal momento dell’alterità in sé e da quello dell’umanitàpienamente saputa per sé, sintesi e superamento244 di entrambi, che nonriescono a sussistere da soli, e loro intima verità. Senza filioque, ovverosenza il momento dell’umanità, lo spirito resta qualcosa che viene “inviato”dal Dio-ente-altro, idolo grosso e forte, ovvero pura mitologia esuperstizione.

Il primato del Figlio non significa adorazione del Cristo– l’amoreper Cristo uomo impedisce, anzi, l’amore di Dio, scrive con chiarezzaEckhart–,245 ma la ripulsa di ogni positività religiosa e, dunque, anche ilrigetto di ogni pretesa “conoscenza di Dio”, “esperienza di Dio”, ecc., checostituiscono invece una vera e propria forma di idolatria, superstizione,perché quel “divino”, preso da solo, non è altro che umano: mentre sidefinisce “divino”, si sta in realtà appiattendo tutto sull’umano, cercando dipossederlo.

Per contro, invece, e in parallelo, tutta la vita quotidiana diventa, percosì dire, divina, proprio in questo movimento del negare, deldisappropriarsi. Allora il “divino” si offre senza sforzo all’intelligenza,all’amore, dell’uomo distaccato– uomo povero, uomo spirituale –,246 chelascia essere tutte le cose nella loro semplicità e purezza, “senza perché”:per lui tutto si riempie di luce, per lui il presente diventa l’eterno, per luidavvero “Dio è tutto in tutte le cose”, “tutto è pieno di Dio”.247

6. L’a-teismo mistico

È vero, come scriveva Nietzsche, che chi ha detto “Dio è spirito” hafatto fare il passo più grande verso l’incredulità.248 Questo è il paradossoche quanto finora detto può sollevare, e che potremmo chiamare ilparadosso dell’ateismo mistico.249

Accanto agli ateismi più noti e più ovvii– illuminista, positivista,marxista, ecc., diversi ma tutti quanti accomunati dall’ingenuarappresentazione di un Dio-ente-oggetto, che è quello di cui si negal’esistenza, in apparente opposizione ma, in effetti, sullo stesso piano della

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religione comune, che invece la afferma–, v’è un ateismo paradossale, chescaturisce dal profondo dell’esperienza spirituale.

Come abbiamo visto, infatti, in essa non v’è un Dio-ente-oggetto,proiezione del soggetto e della sua volontà, ma un Dio-spirito, che vieneesperito non come oggetto-altro, ma come la soggettività stessa piùprofonda e reale, ossia come il vero “io”, che viene alla luce una voltascomparso il superficiale ego della volontà e delle sue rappresentazioni.

Questa esperienza è “atea” in un primo senso, facile da capire, per ilfatto che essa toglie via tutte le rappresentazioni di Dio (e, potremmo dire,con esse tutte le “religioni”), comprese nella loro determinatezza, ovverodipendenza dai contenuti dell’egoità, e, parallelamente, verificate nella loropovertà, incapacità di sussistenza, al di fuori del contenuto per cui essenascono.

C’è però un senso più profondo, più importante, più grave e menofacile da capire in questa esperienza di Dio come spirito, non-ente che siadora sui monti o nei templi, ma in spirito e verità,250 ossia essendo quellospirito stesso.251

Infatti, che Dio-spirito compaia solo quando– annichilita la volontàe, con essa, l’egoità psichica– si sia spirito, lo rende per così diredipendente da un atto che è comunque dell’uomo, giacché senza quell’attoDio non sussisterebbe affatto. Perciò Silesius scrive il profondissimodistico:

Io so che senza me Dio non può vivere un attimo, Se io mi annullo, deve di necessità esalarelo spirito.252

I due versi si comprendono a partire dal secondo: se io mi annullo(werde ich zunicht), Dio deve necessariamente (Gott muss, von Not,espressioni eckhartiane: perché non si tratta qui di un soggetto al modo delsoggetto umano, che fa o non fa, vuole o non vuole, sceglie questo o scegliequello– ogni rappresentazione è idolatrica, alla lettera) den Geist aufgeben,ovvero “emanare lo spirito”, dare all’uomo il suo essere, che è spirito.Preciso riferimento al cruciale versetto giovanneo 19, 30 sulla morte diCristo: nello “spirare” egli “emise lo spirito”, ma anche “consegnò, emanòlo spirito”.253 Ma anche “esalare lo spirito”, ossia morire, giacché Dio in

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quanto ente determinato muore alla morte del soggetto, ossia all’estinzionedella sua volontà.

Dunque Dio dipende dall’uomo, non può vivere un attimo senzal’uomo, in duplice senso. In un primo facile senso, in quanto è un ente, unidolo, rappresentazione creata dall’uomo stesso, ne sia egli consapevole ono. In un secondo e più difficile senso, perché la sua realtà vera, di spirito,dipende da quella che i mistici chiamano appunto “morte dell’anima”, che ècondizione dell’essere dello spirito.

Il gioco di parole fondamentale den Geist aufgeben indica loscomparire, il morire, del Dio-ente alla morte della volontà e, insieme, ilsuo esserci, effondersi come spirito– che è proprio l’atto di “spirare”, nelduplice senso del soffiare dello spirito e dell’esalare l’ultimo respiro.

I versi silesiani riassumono dunque in un breve giro di parole quelloche potremmo chiamare “ateismo mistico”. E questa non è solo una nostradefinizione: “atei spirituali” furono infatti definiti, nell’ambito dellacontroversia sul quietismo, i mistici della corrente speculativa, di originegermanica.254 Mistico, nel senso originario del termine, perché esperienzadi unità, unitas spiritus, nella quale è scomparsa ogni rappresentazione e,con essa, ogni forma di alterità, e perciò stesso esperienza di assoluta pace,gioia, beatitudine. Ancora Silesius recita:

Non ottiene l’uomo perfetta beatitudine,

Se prima l’unità non ha risucchiato l’alterità.255

Completa scomparsa dell’alterità dell’essere, e perciò perfettabeatitudine; ma, appunto, anche “ateismo”, proprio in quanto tutto ciò chepotremmo chiamare “divino” è qui e ora presente, in noi.256

Non v’è dubbio che la possibilità di un esito radicalmente ateodell’esperienza spirituale esista, e che, anzi, questo sia l’unico ateismodavvero importante (gli altri, in quanto non sanno cosa spirito sia, sono coseda ragazzi), vorremmo dire davvero satanico, nel senso etimologico ditentatore.

I mistici accennano spesso alla possibilità di questo esito, in cui Dio,tutto presente in nobis, non è più, è davvero morto, ovvero pensiamo che siatutto frutto del nostro pensiero: un crinale davvero molto sottile segna qui la

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differenza tra ateismo e… che cosa? Perché qui non possiamo usare laparola “fede”, che rimanda alla credenza, e dunque ancora all’alterità(ricordiamo che “chi crede non è figlio di Dio”); né la parola “religione”,che rimanda a un complesso di culti, norme, ecc., assolutamenteinsignificanti; né teismo, o simili. Scopriamo che non v’è una parolaadeguata della nostra lingua per esprimere quanto vorremmo dire. Infatti citroviamo, per così dire, al di là, o al di qua, dell’affermazione e dellanegazione.

Lo stesso pensiero, che tutto è solo qui, nell’anima nostra, puòinfatti assumere due significati opposti: il primo è l’orrore dell’assenza diDio, l’orrore del nulla, della finitezza e della morte davanti a noi; il secondoè, invece, la beatitudine dell’essere l’essere, spirito nello spirito, per cuitutto, davvero tutto, è Uno, e noi lo siamo: ein einig Ein, un unico essere.Come abbiamo citato all’inizio:

Ciò che per gli uomini non liberi è un orrore, è profonda gioia per l’uomo libero.257

La differenza tra queste due possibilità dipende infatti solodall’essere legati o no all’egoità. Nel distacco la domanda scompare: non cisi domanda più cosa sia l’essere (ad es. il domani “eterno”, la sortedell’anima, ecc.), perché la domanda è frutto di un legame, con il quale siricade nella finitezza, e da lì nella contraddizione e nel dolore. È chiaroallora che il presunto sapere sta al posto dell’essere: sapere non si può, masi può essere, e allora davvero sai, quando sei.

La differenza è data dunque da ciò che sei, ovvero da ciò che pensi eami, perché questo si è davvero:

Uomo, in quel che ami sarai trasformato:

Diventi Dio se l’ami, terra se terra ami.258

Non v’è dubbio che sempre si ami, che sostanza e vita dell’animasia l’amore, e che esso inizi sempre come desiderio di un bene particolare.Però, quando è grande, l’amore diventa perciò distacco,259 finché sicomprende che, in realtà, è l’amore stesso, il Bene in sé, che, da sempre, sista amando.260 L’amore ci trasforma; ci si trasforma in ciò che si ama,perciò, quando è ormai l’Amore che si ama, si diviene e si è l’Amore stesso.

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L’amore appare davvero Dio, perché assoluto: “divino” nonsignifica affatto che rimanda ad altro, ma, al contrario, che non sopportaalcun rimando ad altro. Rimandare ad altro, infatti, significherebbe che essonon è vero. Perciò non possiamo dire “di Dio” questo infinito amore che sututto si stende: certamente in un certo modo è nostro, ma non c’è più un ioad amare, non c’è più neppure la creatura, e nemmeno “Dio”, ma solo ununico amore, un’unica luce. “Dio” c’è quando c’è la creatura, io o prossimoche sia, ma quando sparisce questa, sparisce anche “Dio”.261 Perciò:

La cosa migliore per l’anima è stare in un libero nulla. L’intenzione propria di Dio è chel’anima perda Dio. In effetti, finché l’anima ha un Dio, conosce un Dio, sa un Dio, è ancora lontanada Dio. Perciò il desiderio di Dio è quello di annientarsi nell’anima, perché l’anima perda se stessa.Infatti che Dio sia Dio gli deriva dalle creature. Quando l’anima diviene creatura, allora ha un Dio:se perde il suo carattere creato, Dio resta in se stesso ciò che è. Il maggior onore che l’anima possarendere a Dio è abbandonarlo a se stesso e restare vuota di lui.262

L’amore non è ciò che unisce– unisce nell’operazione ma nonnell’essere,263 e in questo senso il distacco, anche da Dio, è più fortedell’amore –; però è amando che si diviene l’amore, cioè l’essere:

Praticare l’amore è grande fatica:

Bisogna essere, come Dio, l’Amore stesso.264

Questo distico significativamente si intitola “Bisogna esserel’essere”. Essere l’essere: un’espressione per niente affatto retorica. Il poetavuol dire che l’amore non è qualcosa che accidentalmente si prova, ma chesostanzialmente si è, per cui quando finisce l’egoità determinata in unvolere– cioè in un amore– determinato, si ha quella sorta di trasformazioneontologica per cui non v’è più il piccolo io, destinato alla finitezza e allamorte, ma il nostro vero essere, per così dire eterno, fatto di intelligenza eamore, ovvero spirito: tat tvam asi, “questo tu sei”.265

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1 Cfr. Deutsche Mystiker des XIV Jahrhunderts, a cura di F. Pfeiffer, Leipzig 1857, Band II,“Meister Eckhart”, p. 598. Vedi, in italiano, Meister Eckhart, La via del distacco, a cura di M.Vannini, Mondadori, Milano 1995, p. 125.

Ricordiamo qui, in breve, che Meister Eckhart è un domenicano tedesco, contemporaneo di Dante. Aivertici dell’insegnamento universitario, come è dimostrato da quel Meister (magister) che divenneuna sorta di nome proprio, e anche ai vertici del suo Ordine, fu però accusato di eresia e messo sottoprocesso, a Colonia e poi ad Avignone. Alcune sue proposizioni furono censurate nella bolla papaleIn agro dominico, del 1327, dalla quale risulta comunque che egli morì in pace e comunione con laChiesa. Le sue opere, a lungo quasi del tutto dimenticate a causa della condanna subita, sono stateriscoperte prevalentemente nel secolo XIX e sono ora tradotte anche in italiano: saranno qui citate divolta in volta.

2 Questa citazione si compone di due brani diversi. Il primo è tratto dallo scritto pseudoeckhartianoDas ist Schwester Katrei (cfr. Pfeiffer, cit., p. 467 e, in italiano, Pseudo Meister Eckhart, DiventareDio. L’insegnamento di sorella Katrei, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 2006, p. 73). Ilsecondo è in Pfeiffer, cit., p. 600 (cfr. La via del distacco, cit., p. 127).

3 Cfr. Ananda K. Coomaraswamy, Induismo e buddismo, Rusconi Libri, Milano 1994, pp. 9 e 63.

4 Meister Eckhart als normative Gestalt geistlichen Lebens è il titolo del libro di A.M. Haas(Johannes Verlag, Einsiedeln 1974, poi Freiburg 1995), tradotto dallo scrivente come Introduzione aMeister Eckhart, Nardini, Fiesole 1997.

5 Cfr. Mt 16, 24; Lc 9, 23, ecc.

6 Cfr. Gv 12, 25; Mt 16, 25; Mc 8, 35; Lc 9, 24.

7 “Chi vuole penetrare nel fondo di Dio, in ciò che ha di più intimo, deve prima penetrare nel fondoproprio, in ciò che ha di più intimo, giacché nessuno conosce Dio se prima non conosce se stesso”,afferma Eckhart nel sermone “Haec est vita aeterna”, in I sermoni, a cura di M. Vannini, ed. Paoline,Milano 2002, p. 408. Gli fa eco san Giovanni della Croce: “La conoscenza di sé, dalla quale, comedal suo fondamento, nasce la conoscenza di Dio” (Notte oscura, I, 12, 5). Non insistiamo sullecorrispondenze tra Eckhart, san Giovanni della Croce e, più in generale, i mistici cristiani,rimandando comunque alla mia Storia della mistica occidentale. Dall’Iliade a Simone Weil,Mondadori, Milano 20102.

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8 Difendendosi dalle accuse rivoltegli, il maestro domenicano scrive infatti: “Noi non dobbiamosapere di niente il perché o il per come al di fuori di noi, né Dio, né creatura, né per noi stessi né peralcuna cosa al di fuori di noi, giacché se ci muoviamo verso qualcosa senza partire da noi stessi,commettiamo sempre un peccato mortale” (cfr. G. Théry, “Édition critique del pièces relatives auprocès d’Eckhart, contenues dans le manuscrit 33b de la bibliothèque de Soest”, in Archivesd’Histoire Doctrinale et Littéraire du Moyen Age, 1926, pp. 195 s.

9 Cfr. ad es. il Commento al Vangelo di Giovanni di Meister Eckhart, a cura di M. Vannini, Roma,Città Nuova 20102, nn. 484, 544, 671, ecc. Quando parla in volgare, Eckhart chiama l’amor suiprevalentemente eigenschaft, parola che esiste immutata anche nel tedesco attuale, ma che i traduttorimoderni talvolta rendono con Selbstsucht, o Ichsucht. Noi l’abbiamo tradotta con “appropriazione”.Caterina da Genova riconosceva di “avere alle spalle più abitudini alla appropriazione che non peli diun gatto, e talmente occulti che non si possono vedere né pensare” (cfr. Caterina da Genova, Vitamirabile. Dialogo. Trattato sul purgatorio, a cura di F. Lovison, Città Nuova, Roma 2004, p. 60).

Riportiamo qui, per il suo straordinario rilievo, un passo dalle Massime di François de LaRochefoucauld, da cui hanno preso spunto, tra gli altri, tanto Schopenhauer quanto Nietzsche:“L’amor proprio è amore di sé e di ogni cosa per sé; rende gli uomini idolatri di se stessi e lirenderebbe tiranni degli altri se la fortuna ne desse loro i mezzi; non indugia mai fuori di sé e sisofferma su argomenti estranei come le api sui fiori, per trarne ciò che gli è necessario. Nulla è piùimperioso dei suoi desideri, nulla è più segreto dei suoi progetti, nulla più astuto della sua condotta;le sue sottigliezze non si possono descrivere, le sue trasformazioni superano quelle dellemetamorfosi, le sue finezze quelle della chimica. Non si possono sondare le profondità né penetrarele tenebre dei suoi abissi. Là è al riparo dagli occhi più perspicaci; egli vi compie mille giri viziosi.Spesso è invisibile anche a se stesso; vi concepisce, vi nutre, vi alleva, senza saperlo, un gran numerodi affetti e di odii; ne forgia di così mostruosi che, quando vengono alla luce, li rinnega o non puòrisolversi ad ammetterli […] Esso incarna tutti i contrari: è imperioso e obbediente, sincero edissimulato, misericordioso e crudele, timido e audace. Ha inclinazioni differenti secondo la diversitàdei temperamenti che lo guidano, e lo votano ora alla gloria, ora alle ricchezze, ora ai piaceri; cambiasecondo il mutare dell’età, della fortuna e dell’esperienza; ma gli è indifferente averne parecchie ouna sola, perché si divide tra parecchie e si concentra su una quando gli è necessario o gli piace. Èincostante, e, oltre ai cambiamenti che derivano da cause estranee, ve ne sono un’infinità che nasconodal suo intimo; è incostante per incostanza, per leggerezza, per amore, per novità, per stanchezza eper nausea; è capriccioso, a volte lo si vede al lavoro con la massima sollecitudine, alle prese confatiche incredibili, per ottenere cose che non gli portano alcun vantaggio o che addirittura gli sononocive, ma che persegue perché le desidera. È bizzarro, e spesso concentra ogni sua attenzione nelle

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occupazioni più frivole; trova tutto il piacere nelle più sciatte e conserva tutta la fierezza nelle piùspregevoli. È presente in tutti gli stati della vita, in tutte le condizioni; vive dappertutto, vive di tutto,vive di niente; si accontenta delle cose come della loro privazione; passa perfino dalla parte di chi locombatte, entra nei loro disegni e, cosa ammirevole, insieme a loro odia se stesso, trama per lapropria dannazione, lavora per la propria rovina. Infine, si preoccupa solo di esistere, e pur di esistereaccetta talvolta di essere nemico di se stesso […] Ecco il ritratto dell’amor proprio, di cui tutta la vitaè soltanto una grande e lunga agitazione […] (cfr. La Rochefoucauld, Massime, trad. di M. Enoch,Newton Compton, Roma 1993, pp. 52 s.).

10 Cfr. A.M. Haas, “Mors mystica”, in Sermo mysticus, Universitätsverlag, Freiburg (Schweiz) 1979,pp. 392-480; T. Kobusch, “Freiheit und Tod. Die Tradition der ‘mors mystica’ und ihre Vollendung inHegels Philosophie, in Theologische Quartalschrift, 164 (1984), pp. 185-203. Al tema è dedicato ilmio La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, Le Lettere, Firenze 20042. Dal canto suo,Simone Weil scrive: “Tutto lo sforzo dei mistici è sempre stato volto a ottenere che non ci fosse piùnella loro anima nessuna parte che dicesse ‘io’” (S. Weil, “La persona e il sacro”, in Morale eletteratura, a cura di N. Maroger, ETS, Pisa 1990, p. 43). “Il peccato in me dice ‘io’” (S. Weil,Quaderni, I, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1982, p. 371). Vedi, in proposito, più avanti, pp. 78s.

11 Cfr. Gv 3, 1-10. Per il tema cruciale della “morte dell’anima” e della rinascita spirituale in Eckhart,cfr. i sermoni 17, 49, 58, 95, 98, il Commento al Vangelo di Giovanni, cit., nn. 526-530, nonché Isermoni latini, nn. 540-544 e 547-556 (cfr. l’edizione italiana, Città Nuova, Roma 1989, a cura delloscrivente).

12 Cfr. G. Taulero, I sermoni, introduzione e note di M. Vannini, traduzione di F. Belski, ed. Paoline,Milano 1997, pp. 772-780. Taulero è il discepolo di Eckhart cui si deve in larga misura il salvataggiodell’opera di quest’ultimo, condannata dalla Chiesa. Si noti che la tematizzazione dell’“io” inOccidente comincia proprio con Eckhart – ossia con colui che per primo distingue un vero “io” da unfalso “io”: cfr. B. Mojsisch, “‘Ce moi’: la conception du moi de Maître Eckhart”, in Revue deSciences Religieuses, 1, 1966, pp. 18-30. Sulla coincidenza di questo punto col buddhismo, vedi quiil cap. “Passaggio in India”, pp. 173 ss.

13 “Ego, la parola che significa ‘io’, a nessuno appartiene più propriamente che a Dio, nella suaunità” (sermone “Ego elegi vos de mundo”, in I sermoni, cit., p. 266), anzi, “nessuno può far propriala parola ‘io’, se non il Padre” (sermone “Ecce ego mitto angelum meum”, in I sermoni, cit., p. 280).Cfr, anche il sermone 77, ancora su Ml 3, 1, “Ecce, ego mitto angelum meum”, in I sermoni, cit., pp.525 s.

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14 Fenomeno costante nella storia della mistica: vedi qui il cap. “Henri Le Saux”, p. 223 e nota 14.Cfr. Platone, Cratilo, 439 e. Il tema è discusso nel mio Tesi per una riforma religiosa, Le Lettere,Firenze 2006, capp. IX e X.

15 Vedi qui il cap. “Henri Le Saux”, pp. 228 ss.

16 “Niente rende veramente uomo come la rinuncia alla propria volontà. In verità, senza questarinuncia della volontà in tutte le cose, non si compie davvero nulla davanti a Dio. Se si giunge arinunciare completamente alla nostra volontà e a spogliarci per Dio di tutte le cose, esteriori einteriori, allora abbiamo compiuto tutto – e niente in precedenza” (cfr. “Istruzioni spirituali”, inMeister Eckhart, Dell’uomo nobile, a cura di M. Vannini, Adelphi, Milano 1999, p. 76).Commentando Prov 30, 15: “La sanguisuga ha due figlie, che dicono: ‘Dammi, dammi!’”, Eckhartscrive: “La sanguisuga è la volontà propria; le figlie sono vanità e voluttà” (cfr. “Commento allaSapienza”, n. 211, in Meister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento, a cura di M. Vannini,Bompiani, Milano 2012).

17 Homo id quod est, per intellectum est: cfr. ad es. “Libro delle parabole della Genesi”, n. 113, inMeister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento, cit.

18 Cfr. Aristotele, De anima, 430 a. La pagina aristotelica, con la distinzione tra intelletto “passivo”ed “attivo”, è assolutamente cruciale. Cfr. in proposito la mia Storia della mistica occidentale, cit.,pp. 63-68. Sull’importanza di Aristotele per Eckhart e sul significato filosofico del suo pensiero hainsistito Kurt Flasch (si veda il suo recente Meister Eckhart, Philosoph des Christentums, München2010). Lo studioso tedesco sottolinea in particolare il legame che Eckhart ha col suo maestro, AlbertoMagno, e, attraverso di lui, con l’interpretazione che Averroè dà del libro terzo del De anima diAristotele, proprio su questo punto.

19 Che la volontà sia ciò che, per eccellenza, fa schiavo l’uomo, è certezza comune a tutta laletteratura spirituale, di ogni tempo e di ogni cultura. Ci limitiamo qui a ricordare due luminosefigure di donna: Margherita Porete, nel suo Specchio delle anime semplici, a cura di R. Guarnieri, G.Fozzer, M. Vannini, San Paolo, Cinisello Balsamo 20102, cap. 48, p. 259; e Simone Weil, che annota:“Dire ‘io sono libero’ è una contraddizione, perché a dire ‘io’ è ciò che non è libero in me” (cfr. S.Weil, Quaderni, II, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 74).

20 Cfr. Gv 4, 24.

21 Cfr. “Commento alla Genesi”, n. 168 (in Meister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento, cit.);“Quaestio parisiensis I. Utrum in deo sit idem esse et intelligere”, in M. Vannini, Meister Eckhart e il

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“fondo dell’anima”, Città Nuova, Roma 1991, pp. 124-130. È evidente qui la radicale opposizione diEckhart (come di Alberto Magno) a Tommaso d’Aquino e alla cosiddetta “metafisica dell’Esodo”,per la quale Dio è essere. Infatti il celebre passo Es 3,14, fondante tale metafisica, che i latinitraducevano ego sum qui sum, indica in realtà la stra-potente volontà di Dio: frutto di una concezionein cui il valore è la forza. È da rilevare anche come, di conseguenza, Eckhart e Alberto Magno nonaccettino affatto il dualismo tomista tra naturale e soprannaturale.

22 “Homo igitur secundum hunc modum, ut dicit Themistius, assimilatur Deo […] Et quam mirabilisest iste ordo, et quam extraneus est iste modus essendi!”, scrive Averroè (In Aristotelis De AnimaLibrum Tertium, 616-622). Sottolineiamo quell’extraneus, che si riferisce al fatto che nell’uomol’intelletto attivo, secondo Aristotele, è “divino” e proviene all’uomo “dall’esterno” (cfr. Degenerazione animalium, 736 b), quasi un “altro genere di anima, separato come l’eterno lo è dalcorruttibile” (cfr. De anima, II, 413 b). E perciò Eckhart può scrivere che: “Intellectus non est ensnaturae, sed altius quid natura” (cfr. R. Otto, Mistica orientale, mistica occidentale, cit., p. 89).

23 Cfr. “Commento all’Esodo”, n. 195, in Meister Eckhart, Commenti all’Antico Testamento, cit. AdAgostino è ispirato il canone 22 del Concilio di Orange, del 529: “Homo non habet de se nisimendacium”.

“Empio, cieco, sciocco e bugiardo è ogni uomo”, intitola Franck il paradosso n. 67, ricco diinnumerevoli riferimenti scritturistici (cfr. S. Franck, Paradossi, a cura di M. Vannini, Morcelliana,Brescia 2009, pp. 113-116).

24 Così Teresa d’Avila, nel suo “Castello interiore”: “Nelle creature non c’è verità. Dio solo è verità,che non può mentire; giustamente David dice in un salmo che ogni uomo è mentitore. Chi pensa ilcontrario, anda en mentira” (cfr. santa Teresa de Jesus, Obras completas, por el Padre Efrén de laMadre de Dios, BAC, Madrid 1954, vol. II, pp. 466-481).

25 Cfr. F. Nietzsche, “Su verità e menzogna in senso extramorale”, in La filosofia nell’epoca tragicadei greci e Scritti dal 1870 al 1873, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1973, p. 370.

26 Ibidem, p. 361.

27 Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1968, ilcapitolo: “Cosa è aristocratico?”.

28 Cfr. F. Nietzsche, L’anticristo, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1970, § 55.

29 Cfr. F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei greci, cit., p. 278.

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30 Cfr. F. Nietzsche, L’anticristo, cit., § 44.

31 Cfr. Meister Eckhart, I sermoni latini, cit., n. 169. In questo senso Nietzsche scrive che: “Chi pensapiù profondamente, sa di aver sempre torto, faccia e giudichi come vuole” (Umano, troppo umano, I,a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1965, IX, 518), e perciò teorizza e pratica la libertà dalleopinioni, il distacco: “Noi siamo liberi di non formarci alcuna opinione su una cosa o su un’altra,giacché le cose stesse, secondo la loro natura, non possono costringerci a nessun giudizio”, scrive inAurora, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1964, § 82.

32 Cfr. F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, 483. Sulla “convinzione” religiosa come menzogna,cfr. ancora L’anticristo, § 55.

33 “Beato chi raggiunge l’ignoranza (aghnosìa) infinita”, scrive Evagrio Pontico (KephalaiaGnostica, centuria III, 88). In proposito, cfr. I. Hausherr, “Ignorance infinie” e “Ignorance infinie ouscience infinie?”, in Hésichasme et prière, Pontificio Istituto Orientale, Roma 1966, pp. 38-49 e 238-246. Vedi p. 84 e nota 169.

34 Conversione e distacco è anche il titolo di una delle prime e principali opere di Valentin Weigel, ilpastore protestante (1533-1588) che sviluppa l’insegnamento eckhartiano, pubblicata in italiano,insieme alla sua Breve introduzione alla Teologia tedesca, da Morcelliana, Brescia 2010, a cura delloscrivente.

35 Cfr. R. Otto, Mistica orientale, mistica occidentale, cit., p. 93, nota 1. Per lo studioso tedesco, ilpanteismo è una forma inferiore di mistica, un “primo gradino”.

36 Cfr. il celebre distico I, 289 del Pellegrino cherubico di Angelus Silesius: “La rosa è senza perché:fiorisce perché fiorisce, / a se stessa non bada, che tu la guardi non chiede” (ed. it. a cura di G. Fozzere M. Vannini, San Paolo, Cinisello Balsamo 19922). Silesius è stato giustamentechiamato”versificatore di Eckhart” da Reiner Schürmann nel suo Maître Eckhart ou la joie errante,éd. Planète, Paris 1972, p. 160.

37 In questo senso l’estetica kantiana mostra di essere erede neppur troppo lontana della misticatedesca, là dove parla del sublime come di ciò che risveglia in noi “una forza, che non è natura, percui consideriamo come insignificanti i beni, la salute, la vita”. Proprio la strapotenza della naturaevoca in noi un’altra forza, grazie alla quale guardiamo alla natura senza paura, concependo inveceun profondo rispetto per quell’Essere che si manifesta non tanto nella potenza della natura, quanto esoprattutto in questa forza, presente in noi (cfr. I. Kant, Critica del Giudizio, Laterza, Bari 1970, pp.115-116). La forza che non è natura, presente in noi, non è, infatti, altro che la grazia.

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38 Cfr. Giovanni della Croce, Fiamma viva d’amore, B, 1, 9-12. Ugualmente Teresa d’Avila, nel suo“Castello interiore”, in santa Teresa de Jesùs, Obras Completas, cit., p. 481. Che Dio sia il vero “io”,ben distinto – anzi, opposto – all’individualità egoica, è consapevolezza che percorre tutta la misticaoccidentale, da Plotino a Eckhart a Simone Weil. Vedi più avanti, cap. “Henri Le Saux”, p. 230 e nota25.

39 F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1967, 308. Vedi inproposito il capitolo “Nietzsche: Ecce homo” del mio Mistica e filosofia, Le Lettere, Firenze 2007,pp. 149-162.

40 L’espressione è di Origene, che parla di una “ebbrezza non irrazionale, divina”; gli fa seguitoGregorio di Nissa: cfr. la Storia della mistica occidentale, cit., p. 121.

41 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, IV, “Il canto ebbro”, 10. A esso fa riscontro preciso il branoche conclude la terza parte del libro, ovvero quel “I sette sigilli, ovvero canto del Sì e dell’Amen”,che manifesta persino nel titolo, con i suoi riferimenti scritturistici (Ap 5, 1-8, 5 e, soprattutto, 2 Cor1, 19-20, ove il “Sì, Amen” è Cristo) la dipendenza dal mondo cristiano. Vedi in proposito il miosaggio “Friedrich Nietzsche. Un rapporto di amore/odio con Gesù e un sorprendente tentativo diidentificazione”, in AA.VV., Cristo nella filosofia contemporanea, a cura di S. Zucal, San Paolo,Cinisello Balsamo 2000, vol. I, pp. 685-726.

42 Cfr. Platone, Convito, 202 d.

43 Ibidem, 202 e.

44 Vedi la conclusione de Lo specchio delle anime semplici di Margherita Porete, p. 497 e nota 401.

45 E perciò, nel mito platonico della caverna, l’uomo prigioniero non “si libera” da solo, ma “vieneliberato” da qualcos’altro – anzi, viene poi condotto verso la luce a forza, perché non vorrebbelasciare quel mondo di ombre cui è abituato. Cfr. Platone, Repubblica, 515 c.

46 Rimando, per questo cruciale tema, al mio Sulla grazia, Le Lettere, Firenze 2008.

47 Cfr. Spinoza, Ethica, V, XLII, scolio. Sul tema, cfr. il mio “Beatitudine”, in AA.VV., Felicità, acura di F. Nodari, La Compagnia della Stampa, Roccafranca (BS) 2011, pp. 203-227. Testo presenteanche sul sito www.marcovannini.it.

48 Cfr. Lo specchio delle anime semplici, cit., cap. 28, p. 213.

49 Vedi più avanti, pp. 80 ss.

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50 Cfr. il sermone “Surrexit autem Saulus“, in I sermoni, cit., p. 494. Spiegando la visione sulla via diDamasco, il maestro domenicano sta qui dicendo che Paolo vide Dio come nulla, cioè come luce, ecosì trovò anche se stesso. Silesius canta: “Io sono una luce eterna, che brucia ininterrotta; / Olio estoppino è Dio, il mio spirito il vaso” (Pellegrino cherubico, I, 161: “La luce eterna”). Un’immaginesimile è quella dell’anima come puro occhio, solo occhio, solo un vedere, in quanto priva di volizionio contenuti e solo contemplazione, luce nella luce. È immagine che si trova in tutte le tradizionispirituali, ma prevalentemente associata a un concetto teistico: cfr. ad es. lo Pseudo Macario:“L’anima resa degna dello spirito, fonte della sua luce, diventa tutta luce, tutta volto, tutta occhio;non vi è in essa parte alcuna che non sia ricolma degli occhi spirituali della luce, cioè non vi è in essanulla di tenebroso, ma è trasformata tutta intera in luce e spirito ed è tutta colma di occhi; non haalcuna parte posteriore o che stia a tergo, ma è volto in ogni lato” (Pseudo Macario, Spirito e fuoco.Omelie spirituali [Collezione II], Qiqajon, Magnano 1995, p. 56). Ben nota la frase di Eckhart, chesuscitò l’entusiasmo di Hegel: “L’occhio nel quale vedo Dio è lo stesso occhio con cui Dio mi vede;l’occhio mio e l’occhio di Dio non sono che un solo occhio, una sola visione, una sola conoscenza,un solo amore” (sermone 12, “Qui audit me”, in I sermoni, cit., p. 172).

51 Priva di questa conoscenza essenziale, la moderna psicologia è perciò mutila e, nelle sue preteseterapeutiche, sostanzialmente inane. Cfr. il mio La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia,cit., al capitolo conclusivo: “La fine della cura d’anime. Le impossibili terapie”.

52 “Se preferisci che mille marchi d’oro siano tuoi piuttosto che di un altro, non sei nel giusto. Se amiuna persona più di un’altra, sbagli – anche se ami tua madre o tuo padre più di ogni altro uomo. E sepreferisci la beatitudine in te più che in un altro uomo, non sei nel giusto” scrive Eckhart (sermone“Praedica verbum”, in I sermoni, cit., p. 276). Quando però il “bene degli altri ti è caro assolutamentecome il tuo”, e “il tuo onore non ti rende più felice di quello di un altro”, allora, reciprocamente, tugioisci della gioia di tutti, tua è la beatitudine di tutti, dei santi come della Vergine Maria – unabeatitudine senza fine (cfr. il sermone “Moyses orabat”, in I sermoni, cit., p. 249).

53 Questa è la grande eredità antica, con il suo concetto di anima mundi, passato poi nella misticacristiana. Giustamente perciò la Weil poteva dire che san Francesco d’Assisi è “uno stoico puro “(cfr.S. Weil, Lezioni di filosofia, a cura di M.C. Sala, Adelphi, Milano 1999, p. 207).

54 Titolo dato da Lutero, in polemica con la Scolastica e con Roma, al Libretto della vita perfetta,opera di un anonimo Cavaliere Teutonico di Francoforte, che riassume, alla fine del Trecento,l’insegnamento di Eckhart. Lo si può leggere in italiano nell’edizione bilingue: AnonimoFrancofortese, Teologia tedesca. Libretto della vita perfetta, a cura di M. Vannini, Bompiani, Milano2009.

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55 Cfr. “Il libro delle parabole della Genesi”, n. 195, in Meister Eckhart, Commenti all’AnticoTestamento, cit.

56 Cfr. S. Weil, Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1984, p. 167. “L’attaccamento non è altro chel’insufficienza nel sentimento della realtà. Dal momento che si sa che qualcosa è reale, non ci si puòpiù attaccare a esso” (Quaderni, II, cit., p. 329); ma, reciprocamente, esso appare compiutamentereale quando non è più oggetto di desiderio, ovvero quando l’anima va oltre il desiderio e accoglienell’essere la finitezza in quanto tale, dandole valore infinito: è allora che scopre l’infinito nel finito,riportando la finitezza all’Essere. Di qui il distico silesiano, che parve “incommensurabilmenteprofondo” a Schopenhauer (cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di P. Savj-Lopez eG. Di Lorenzo, Laterza, Bari 1914-1916, IV, 68): “Uomo, tutto ti ama! Tutto ti si fa intorno; / tuttoricorre a te per arrivare a Dio” (Pellegrino cherubico, II, 275), giacché “ogni creatura si porta nel miointelletto per essere in me spiritualmente. Io solo riporto tutte le creature a Dio” (sermone “Nolitetimere eos”, in I sermoni, cit., p. 623).

57 Cfr. S. Weil, Quaderni, IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 322.

58 Cfr. il sermone “Misit dominus manum suam”, in I sermoni, cit., p. 397.

59 Enneadi, V, 3, 17.

60 Non a caso il termine greco afaìresis indica tanto l’operazione morale del distacco, quanto quellaintellettuale della “astrazione”, con cui si tolgono i particolari per giungere all’universale. Cfr. ilcapitolo “Fede come distacco in Eckhart” del mio Dialettica della fede, Le Lettere, Firenze 2011.

61 Cfr. Plotino, Enneadi, I, 6, 9, 7-16, con un’immagine che passa in Dionigi Pseudoareopagita, Demystica theologia, 2, 1025 b, e si ritrova anche nel trattato eckhartiano “Dell’uomo nobile”, inMeister Eckhart, Dell’uomo nobile, cit., p. 226.

62 Cfr. “Dell’uomo nobile”, in Dell’uomo nobile, cit., p. 225.

63 Cfr. “Istruzioni spirituali”, in Dell’uomo nobile, cit., p. 61.

64 Ibidem.

65 Cfr. Mt 5, 3. Il versetto evangelico dà il titolo al sermone 52, che è il più celebre di quellieckhartiani. In esso, come caratteristica dell’uomo veramente povero in ispirito, accantoall’estinzione della volontà, compare quella del sapere e di ogni “avere” (non nel senso dipossedimenti materiali, ma in quello di una propria essenza). Per un’analisi del sermone, rimando al

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mio Prego Dio che mi liberi da Dio (frase che è presente proprio nel sermone stesso), cit., pp. 77-102.

66 Cfr. Mt 16, 24-25; Mc 8, 34-35; Lc 9, 23-24 e 14, 26-27, 33.

67 Faggin intitolava proprio così la sua monografia sul filosofo di Danzica (Schopenhauer, misticosenza Dio, La Nuova Italia, Firenze 1950).

68 Cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, libro quarto, § 68.

69 Questo testo, fondamentale nella storia della spiritualità, e la cui condanna da parte papale (breveCum alias, di Innocenzo XII nel 1699) segna l’emarginazione della mistica, si può leggere in italianonell’edizione San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, a cura di M. Vannini: François de SalignacFénelon, Spiegazione delle massime dei santi sulla vita interiore.

70 Anche altrove Schopenhauer esprime la sua altissima valutazione dell’opera, mettendone il suoanonimo autore allo stesso livello di Buddha, di Platone, di Lao Tse: cfr. Teologia tedesca, cit., p. 26,nonché il mio saggio “Au delà de Platon et de Bouddha: la Theologia Deutsch”, in Revue de SciencesReligieuses, 75, 4, 2001, pp. 563-571.

71 I Sermoni di Taulero si possono leggere in italiano nelle edizioni Paoline, cit. Di Suso si veda ilLibretto dell’eterna Sapienza (ed. Paoline, Milano 1994) e, particolarmente significativo per il suospirito eckhartiano, il Libretto della verità, a cura di M. Vannini, Mondadori, Milano 1998.

72 Si leggano in particolare le sue quattro prediche im Geiste Eckharts (cfr. N. Cusano, Il Dionascosto, a cura di L. Mannarino, Laterza, Bari 1995) o il De visione dei (La visione di Dio, a cura diM. Vannini, Mondadori, Milano 1998). Cusano è, del resto, uno dei principali canali grazie al qualele opere di Eckhart sono giunte fino a noi.

73 Cfr. D. von Czepko, Sapienza mistica, a cura di G. Fozzer e M. Vannini, Morcelliana, Brescia2005 (è la traduzione dei Sexcenta Monodisticha Sapientum, da cui prese ispirazione AngelusSilesius per il suo Pellegrino cherubico).

74 Cfr. E. Benz, Les sources mystiques de la philosophie romantique allemande, Vrin, Paris 19872.

75 Nella pagina immediatamente precedente a quella che stiamo citando, Schopenhauer si riferiscecon grandissima stima non solo a san Francesco d’Assisi, ma anche ad altre “vite di santi”, comepure a Madame Guyon, l’ispiratrice di Fénelon, “bella e grande anima, il cui ricordo mi riempieognora di ammirazione” (cfr. Madame Guyon, Un modo semplice di pregare, a cura di M. Vannini,

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Mondadori, Milano 2000). Ricordiamo anche l’altissima stima del filosofo di Danzica per AngelusSilesius: cfr. l’introduzione al Pellegrino cherubico, cit., p. 68.

76 “Piccoli e grandi misteri” (scritto in greco, senza spiriti e accenti, come Schopenhauer fa sempre),con riferimento alle iniziazioni misteriche del mondo ellenico.

77 Cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., § 70.

78 Ibidem.

79 Sono le obiezioni che lo scienziato giapponese Araj Hakuseki formulava alla dottrina dellacreazione, appresa dal missionario, e poi martire, Giovanbattista Sidotti, nel 1720. Le riporta LucianoMazzocchi nel suo “La via buddista e la via cristiana”, in Fraternità, gennaio-giugno 2011, pp.78-80.L’assurdità del concetto di creazione– assente in tutta la filosofia classica– era chiara anche aEckhart, che lo accetta per la testimonianza biblica, ma ne è intimamente lontano: le prime tre tesi delmaestro medievale condannate dalla bolla papale In agro dominico riguardano infatti propriol’eternità del mondo. Che il concetto– anzi, il mito– della creazione stravolga ragione e cristianesimoinsieme, è espresso con chiarezza da Fichte, nella sua Introduzione alla vita beata (cfr. il mio Tesi peruna riforma religiosa, cit., pp. 221-227).

80 Cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, § 68.

81 In modo tanto profondo quanto, per certi versi, profetico, il filosofo di Danzica prosegue: “Se,come già spesso, e in particolar modo nell’età presente si è temuto, quell’alta e redentrice religionedovesse un giorno decadere del tutto, io troverei di ciò la ragione nel fatto ch’ella consta non già d’unelemento semplice, bensì di due elementi in origine eterogenei, e venuti a collegarsi sol per il corsodegli eventi. La loro scomposizione, causata dalla natural disuguaglianza e dal contrasto colprogredito spirito di quest’età, non mancherebbe di produrne lo scioglimento; ma in seguitorimarrebbe tuttavia integra la parte puramente morale, perché questa è indistruttibile”.

82 Cfr. Dante, Inferno, XXXI, 4-6.

83 Cfr. Bhagavadgītā, 4, 33-38. Cfr. il mio La mistica delle grandi religioni, Le Lettere, Firenze2010, p. 96.

84 Cfr. il sermone 19, “Sta in porta domus domini”,in I sermoni, cit., p. 209.

85 Cfr. P. Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2007, e il paragrafodedicato a Wittgenstein della mia Storia della mistica occidentale, cit., pp. 331-335.

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86 Cfr. Spinoza, Ethica, V, III, nonché il capitolo “Spinoza: necessità e libertà” del mio La mortedell’anima, cit., pp. 205-239.

87 Vedi i testi eckhartiani citati alle note 7 ed 8.

88 Nota finemente la Weil (cfr. Quaderni, IV, cit., pp. 106 s.) come il senso di colpa, nel suo centro,sia identico al sentimento dell’io, che non si può eliminare se non con la pratica della virtù, la qualedistrugge il senso di colpa.

89 Cfr. Bhagavadgītā, 18, 48.

90 Cfr. il sermone “In occisione gladii”, in I sermoni, cit., p. 144.

91 Cfr. S. Weil, Quelques réflexions sur la notion de valeur, citato da S. Pétrement, La vita di SimoneWeil, a cura di M.C. Sala, con una nota di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1994, p. 423 s.

92 Vedi sopra, p. 20 e nota 22.

93 Cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., § 70. Sulla messa in dubbio della libertà delvolere da parte delle neuroscienze, cfr. B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza,Raffaello Cortina, Milano 2007; M.S. Gazzaniga, Who’s in charge? Free will and the science ofbrain, Ecco Press, New York 2011. Ne riferisce E. Boncinelli nell’articolo “Ecco perché il liberoarbitrio non è libero” su La Lettura, p. 11, del Corriere della Sera 20 novembre 2011.

94 Ibidem.

95 Cfr. l’introduzione al Pellegrino cherubico, cit., p. 7.

96 Cfr. Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., § 71.

97 Cfr. ad es. il sermone “Omne datum optimum”: “Tutte le creature sono un puro nulla. Non dicoche valgano poco o che siano qualcosa: sono un puro nulla. Le creature non hanno essere, perché illoro essere dipende dalla presenza di Dio: se Dio si allontanasse un istante, le creature sarebberoannientate” (I sermoni, cit., p. 116), e anche: “Che cosa è un cuore puro? È puro chi è distaccato eseparato dalle creature, perché ogni creatura insozza, in quanto è nulla. Infatti il nulla è un difetto, einsozza l’anima. Tutte le creature sono un puro nulla: né l’angelo né la creatura è un qualcosa. Lecreature insozzano, perché sono nulla” (sermone “In hoc apparuit caritas dei”, in I sermoni, cit., p.121). D’altra parte, in quanto tutte le creature sono in Dio, e sono un unico essere, chi non conoscessealtro che le creature, non avrebbe bisogno di libri sacri o di prediche, giacché “ogni creatura è pienadi Dio, ed è un libro” (cfr. il sermone “Quasi stella matutina”, in I sermoni, cit., p. 152). “Tutte le

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creature vanno in caccia di Dio col loro amore, perché Dio è amore e tutte le creature desideranoamore […] Dio ha effuso il suo amore in tutte le creature […] Ogni creatura ha in sé qualcosa che èdegno di amore” (sermone “Man liset heute”, in I sermoni, cit., p 448).

98 Vedi p. 38 e nota 63.

99 Infatti la grazia di Dio non è altro che Dio stesso: “Dio, il fondo dell’anima e la grazia sono unacosa sola” (cfr. La via del distacco, cit., p. 125).

100 Cfr. “Istruzioni spirituali”, in Dell’uomo nobile, cit., pp. 57 s.

101 Cfr. ad es. i sermoni “Surge illuminare Iherusalem” e “Homo quidam nobilis”, in I sermoni, cit.,pp. 183 s.; 187 ss. Con l’umiltà, dichiarata “regina di ogni virtù” e madre di ogni scienza, inizia, nona caso, anche lo Specchio delle anime semplici di Margherita Porete: vedi op. cit., p. 122 e note 1 e 2.

102 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 318: “L’uomo è uomo per l’intelletto e la ragione.Ma l’intelletto astrae dall’hic et nunc e, in quanto tale, non ha niente in comune con nulla, è privo dimescolanza, separato– come si dice nel libro III del De anima […] Sii dunque così: umile, ovverosoggetto a Dio, separato dal tempo e dall’estensione, non mescolato, senza niente in comune conalcunché– così giungi a Dio, e Dio a te”. Nello stesso testo (n. 95) Eckhart scrive perciò che l’uomoche non è umile “non è”.

103 Cfr. Simone Weil, La prima radice, ed. Comunità, Milano 1980, p. 228, e lo studio di SabinaMoser intitolato proprio La fisica soprannaturale. Simone Weil e la scienza, San Paolo, CiniselloBalsamo 2011. Espressioni come “Dio deve, di necessità”, “obbligare, costringere Dio”, ecc., usateda Eckhart, fanno ben intendere come per lui non vi siano due realtà– quella soprannaturale, del Dio-ente, grosso e forte, e quella naturale, con l’uomo piccolo e debole–, ma, al contrario, una sola realtà,regolata da una sorta di meccanica divina.

104 Cfr. “Istruzioni spirituali”, in Dell’uomo nobile, cit., pp. 61 s. Gli fa eco Angelus Silesius(Pellegrino cherubico, cit., I, 138): “Quanto più esci da te e ti vuoti di te, / Tanto più Dio fluisce in tecon la sua Divinità”.

105 Ibidem, p. 60.

106 Cfr. il sermone “Impletum est tempus Elizabeth”, in I sermoni, cit., p. 162. Vedi nota 97.

107 Cfr. “Istruzioni spirituali”, in Dell’uomo nobile, cit., pp. 60 s.

108 Ibidem, p. 62.

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109 Cfr. Meister Eckhart, Il ritorno all’origine, a cura di M. Vannini, Le Lettere, Firenze 2006, pp.27-35. In parallelo, nel “Commento all’Ecclesiastico”, n. 27 (in Commenti all’Antico Testamento,cit.), scrive che è l’opera a dare la pace, che è il frutto dell’opera.

110 Così si esprime Eckhart nel sermone 86, “Intravit Iesus in quoddam castellum”, (cfr. I sermoni,cit., p. 566).

111 Cfr. “Istruzioni spirituali”, in Dell’uomo nobile, cit., p. 109.

112 Così si conclude il trattato “Del distacco” (cfr. Dell’uomo nobile, cit., p. 146).

113 Cfr. “Commento alla Genesi”, cit., n. 211 (Commenti all’Antico Testamento, cit.).

114 Cfr. Gv 4, 24.

115 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., nn. 331-344, ove si commenta il versetto giovanneo3, 8: “Spiritus ubi vult spirat, et vocem eius audis, sed nescis unde veniat aut quo vadat”.

116 Cfr. “Del distacco”, in Dell’uomo nobile, cit., p. 136.

117 Cfr. P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo, Einaudi, Torino 1999.

118 Per questo argomento, mi permetto di rimandare alla mia introduzione all’opera stessa: “Libro divita e di battaglia”, pp. 73-104, limitandomi qui a rilevare come Eckhart debba proprio a Margherital’abissale concetto che l’uomo non deve avere in sé alcun “luogo proprio”, ma che Dio stesso deveessere il suo “luogo”: cfr. il sermone “Beati pauperes spiritu” (I sermoni, cit., p. 393) e la discussionedel passo nel mio Prego Dio che mi liberi da Dio, cit.

119 Cfr. “Istruzioni spirituali”, in Dell’uomo nobile, cit., p. 61.

120 Ibidem, pp. 102 s.

121 Ibidem, p. 111.

122 Ibidem, p. 101.

123 Cfr. “Del distacco”, in Dell’uomo nobile, cit., p. 131.

124 Ibidem, p. 136.

125 Ibidem, p. 133.

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126 Ibidem, pp. 131 s. “Homo divinus nihil amat”, scrive sinteticamente Eckhart nel Commento alVangelo di Giovanni, n. 390, dal momento che l’amore vero, che è lo spirito e Dio, è termine e fine diogni passione (cfr. ibidem, nn. 162, 164-165, 436, 450, 475, 506, 629, 663).

127 Cfr. “Del distacco”, in Dell’uomo nobile, cit., p. 135.

128 Cfr. “Istruzioni spirituali”, in Dell’uomo nobile, cit., p. 116.

129 Ibidem, pp. 134 s.

130 Su questo concetto fondamentale, di origine stoica, si veda il mio Meister Eckhart e il “fondodell’anima”, cit. Anche Epitteto insegna: “Quando tu vedi alcuno che pianga o per morte di alcunsuo congiunto o per lontananza di un figliolo o perdita della roba […] non farai difficoltà disecondare il suo dolore in parole, e anco, se occorre, di sospirare insieme seco, ma guarda che tu nonsospirassi però di cuore” (Manuale, XVI, nella traduzione di Giacomo Leopardi). Si veda inproposito anche P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2005.

131 Cfr. il sermone “Intravit Iesus in quoddam castellum”, in I sermoni, cit., p. 570.

132 Cfr. il sermone “Videte qualem caritatem”, in I sermoni, cit., p. 523.

133 La coppia antinomica uomo interiore/uomo esteriore si trova in Platone (Repubblica, 589 a);passa in Paolo (2 Cor 4, 16); in Plotino, (Enneadi, V, 1, 10); in Agostino (De vera religione, 72-74),ove sono i celebri passi sulla verità che abita in interiore homine e sulla necessità di rientrare in sestessi, allontanando il molteplice e cercando il luogo “da cui ha origine il lume stesso della ragione”.

134 Cfr. “Del distacco”, in Dell’uomo nobile, cit., p. 130.

135 Ibidem, p. 140.

136 Ibidem, p. 142.

137 “Come chi facesse cento o duecento leghe per andare a trovare il papa, e poi, presentandosi a lui,gli chiedesse un fagiolo, dicendo che è questo l’unico motivo per cui ha fatto tanto cammino”, scriveEckhart nel “Libro della consolazione divina” (cfr. Dell’uomo nobile, cit., p. 202).

138 Chi chiede a Dio qualcosa di diverso da Dio stesso testimonia con ciò di farne uno strumento:costui “segue Dio come il nibbio segue la donna che porta trippa o salsicce, come i lupi seguono lacarogna, come la mosca segue la pentola” (Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 232). Nelsermone “Moyses orabat dominum deum suum”, si dice che: “Se sei malato e preghi per la tua salute,

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essa ti è più cara di Dio. Allora egli non è il tuo Dio: è il Dio dei cieli e della terra, ma non è il tuoDio”, ove è sinteticamente espressa la distanza tra una concezione di Dio come forza, potenza,suprema alterità da propiziarsi, e quella di Dio come spirito, vivente nel profondo dell’anima (cfr. Isermoni, cit., p. 247).

139 Cfr. Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, III, 24.

140 Cfr. il sermone “Qui audit me”, in I sermoni, cit., p. 170. Gli fa eco Angelus Silesius: “Il distaccocattura Dio; ma abbandonare anche Dio / È un modo di distacco che poco gli uomini intendono”(Pellegrino cherubico, II, 92: “Il più mistico distacco”).

141 Cfr. Meister Eckhart, Il ritorno all’origine, cit., p. 39.

142 Cfr. il sermone “Beati pauperes spiritu”, in I sermoni, cit., p. 394.

143 Cfr. “Del distacco”, in Dell’uomo nobile, cit., pp. 144 s. Cfr. anche il sermone “Expedit vobis utego vadam”, in Meister Eckhart, La nobiltà dello spirito, a cura di M. Vannini, SE, Milano 2011, pp.133-139.

144 Cfr. Attesa di Dio, cit., p. 155 (corsivo nostro).

145 Cfr. S. Weil, Quaderni, II, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1985, p. 168. Questoprofondissimo passo è commentato nel mio Prego Dio che mi liberi da Dio, cit., p. 141. Ricordiamoanche gli splendidi versi di Hölderlin: “Sta l’uomo innanzi a Dio, come egli deve, / solo, senzatimore. Lo protegge / la sua semplicità. Non ha armi né astuzia / finché Dio lo soccorre conl’assenza” (F. Hölderlin, Le Liriche, a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1977, vol. II, p. 43).

146 Cfr. il sermone “Ubi est, qui natus est, rex Iudaeorum?”, in I sermoni, cit., p. 639.

147 Cfr. Agostino, Soliloquia, I, 1.

148 Su questo cruciale argomento, mi permetto di rimandare ancora al mio La morte dell’anima.Dalla mistica alla psicologia, cit.

149 Cfr. il sermone “Dum medium silentium”, in I sermoni, cit., p. 629. E il testo prosegue: “Unmaestro dice infatti che l’anima non può formare o estrarre immagini da se stessa. Perciò non puòconoscersi con nulla: infatti le immagini giungono sempre attraverso i sensi, e dunque essa non puòavere alcuna immagine di se stessa. Di conseguenza l’anima conosce tutte le altre cose, ma non sestessa; di nessuna cosa sa così poco come di se stessa– proprio a causa di questa mediazionenecessaria”. Cfr. anche il sermone “Modicum et non videbitis me”, in I sermoni, cit., p. 485. Si noti la

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corrispondenza col celebre frammento: “Per quanto tu percorra l’anima, mai ne troverai i confini;tanto profondo è il suo logos”, di quell’Eraclito che, straordinariamente, Eckhart chiama: “Uno deinostri più antichi maestri, che trovò la verità prima ancora che sorgesse la fede cristiana” (cfr. ilsermone “Stetit Iesus”, in I sermoni, cit., p. 301).

150 Cfr. il sermone “Qui odit animam suam”, in I sermoni, cit., pp. 199 s.

151 Cfr. ad es. il sermone “In hoc apparuit caritas dei”, in I sermoni, cit., p. 126.

152 Cfr. il sermone “Deus caritas est”, in I sermoni, cit., p. 468.

153 Cfr. il sermone “Qui odit animam suam”, in I sermoni, cit., p. 200. Cfr. anche Gv 12, 25.

154 Cfr. il sermone “Nisi granum frumentis”, in I sermoni, cit., pp. 615-617.

155 Secondo la teoria aristotelica, ripresa da Tommaso d’Aquino, l’anima è infatti forma corporis. Sichiama anima, in latino, in quanto animat, ovvero dà vita.

156 Cfr. il sermone “Renovamini spiritu mentis vestrae”, in I sermoni, cit., p. 551.

157 Cfr. il sermone “Deus caritas est”, in I sermoni, cit., p. 468.

158 Cfr. il sermone “Intravit Iesus in quoddam castellum”, in I sermoni, cit., p. 104 con la notarelativa.

159 Cfr. il sermone “Ave, gratia plena”, in I sermoni, cit., p. 232.

160 Cfr. il sermone “Puella, surge!”, in I sermoni, cit., p. 558.

161 Cfr. il sermone “Daniel der wissage”, in I sermoni, cit., p. 432.

162 Cfr. il sermone “Die Seele wird ein”, in I sermoni, cit., p. 451.

163 Cfr. il sermone “In diebus suis”, in I sermoni, cit., p. 160.

164 Cfr. il sermone “Si quis mihi ministrat, me sequatur”, in I sermoni, cit., p. 427.

165 Cfr. il sermone “Deus caritas est”, in I sermoni, cit., p. 466.

166 Cfr. il sermone “Non sunt condignae”, in I sermoni, cit., pp. 600 s.

167 Ibidem, p. 601.

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168 Ibidem.

169 Uno stretto rapporto lega l’esperienza dell’Uno, o non-dualità, che è comunque l’esperienza di unsupremo “sapere”, con la cancellazione di un sapere distinto dall’essere e, dunque, con una sorta disuprema ignoranza. Questo della “dotta ignoranza” è un concetto che, a partire da Plotino, percorretutta la mistica, da Agostino a Dionigi Pseudoareopagita, a Evagrio Pontico, alla mistica medievaletedesca, a Walter Hilton (The Cloud of Unknowing), a Cusano, alla “notte oscura” di san Giovannidella Croce, a Franck (cfr. Paradossi, cit., n. 193: “In nihili sapiendo iucundissima vita”, con lecitazioni di Taulero e della Teologia tedesca), fino a Czepko, Silesius, ecc. Anche Margherita Poreteinizia il suo Specchio delle anime semplici dicendo che non lo capiranno quelli che “non sono la cosastessa” (op. cit., p. 131), perché si tratta proprio di questo: essere l’essere, non conoscere l’essere.Vedi p. 25, nota 33.

170 “Chi cerca Dio senza modo, lo prende quale è in se stesso, e costui vive nel Figlio, ed è la vitastessa. Se qualcuno interrogasse per mille anni la vita, chiedendole perché vive, ed essa potesserispondere, non direbbe altro che questo: io vivo perché vivo” (cfr. il sermone “In hoc apparuit caritasdei”, in I sermoni, cit., p. 127).

171 Cfr. Spinoza, Ethica, IV, LXVIII: l’uomo libero, ovvero guidato dalla sola ragione, tuttocomprende (ha “idee adeguate”) e quindi non pensa il male. Che il pensiero del male sia un non-pensiero, Eckhart lo afferma nel suo “Commento alla Sapienza”, n. 10 (cfr. Commenti all’AnticoTestamento, cit.). Su questo cruciale punto, cfr. anche il capitolo: “Hegel: il pensiero dell’altro e ilmale” del mio Mistica e filosofia, cit., pp. 129-147.

172 Come abbiamo già detto (vedi pp. 22 s.), Nietzsche ha ben chiaro il carattere “sospetto” del fattoche il filosofo smetta a un certo punto lo “scavo”, dopo “essersi guardato attorno”, ossia dopo avercalcolato cosa gli è più utile affermare. Il carattere sempre sociale dell’utilitarismo dell’ego èevidente.

173 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 224. Notiamo subito la perfetta corrispondenza colpensiero delle Upanishad: “Il brahman è sconosciuto a chi lo conosce; conosciuto da chi non loconosce (Kena Upanishad, II, 3); “Ciò per mezzo del quale tutto diventa noto, con che cosa lo si puòconoscere? Come si può conoscere lo stesso conoscitore?” (Brhādaranyaka Upanishad, II, 4, 14; maanche III, 4, 2; IV, 5, 15, ecc.). Ai nostri giorni, Nisargadatta Maharaj dice: “Puoi conoscere solo ciòche non è. Ciò che è, puoi solo esserlo” (Io sono Quello, Rizzoli, Milano 1982, vol. II, p. 80). Cfr.anche Prior to Consciousness. Talks with Sri Nisargadatta Maharaj, edited by Jean Dunn, The AcornPress, Durham (North Carolina), 20072.

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174 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 481: “Il bene non è proprio di alcuna cosa creata”.Perfetta coincidenza con la riflessione di Wittgenstein: si vedano le proposizioni 6.4-7 del suoTractatus logico-philosophicus.

175 Niccolò Cusano, autore del De docta ignorantia, lo è anche del De conjecturis: il nostro sapere èsempre relazionale e sempre rivedibile, come la misura di un corpo, che è in rapporto all’unità dimisura e sempre perfezionabile, all’infinito. Così hanno pensato tutti i grandi scienziati, comeGalileo, Keplero, Newton, Leibniz: basti leggere la commovente pagina del Saggiatore di Galileosull’origine dei suoni. Per una riflessione attuale sul tema, rimando ancora a S. Moser, La fisicasoprannaturale. La scienza in Simone Weil, cit.

176 Cfr. il sermone “Elizabeth pariet tibi filium”, in I sermoni, cit., p. 611.

177 Cfr. il sermone “Impletum est tempus Elizabeth”, in I sermoni, cit., p. 162. Cfr. anche Commentoal Vangelo di Giovanni, cit., n. 521; sermoni 21, 38, 43 (I sermoni, cit., pp. 228; 317 s.; 342). Il testopiù rilevante in proposito è però nei Sermoni latini, cit., nn. 251-268, ove il maestro domenicanocommenta il versetto paolino “Gratia dei sum id quod sum” (1 Cor 15, 10), che spiega in che senso,senza la grazia, non si è affatto.

178 Vedi nota 99.

179 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 89; Sermoni latini, cit., n. 268.

180 Cfr. Pellegrino cherubico, cit., I, 285: “Il conoscente deve diventare il conosciuto”.

181 Cfr. Gv 1, 18.

182 Cfr. il sermone “Stetit Iesus”, in I sermoni, cit., p. 300.

183 Cfr. il sermone “Gaudete in domino”, in I sermoni, cit., p. 292.

184 Cfr. il sermone “Iusti vivent in aeternum”, in I sermoni, cit., p. 135.

185 Cfr. il sermone “Nunc scio vere”, in I sermoni, cit., p. 110.

186 Cfr. il sermone “Unus deus”, in I sermoni, cit., p. 226; Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n.692.

187 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 215.

188 Ibidem, nn. 206, 210.

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189 Ibidem, n. 376.

190 Ibidem.

191 Cfr. il sermone “Nolite timere eos”, in I sermoni, cit., pp. 622 s.

192 Questo il contenuto del sermone “Surrexit autem Saulus”, in I sermoni, cit., pp. 488-495. Cfr.anche Meister Eckhart, Il nulla divino, a cura di M. Vannini, Mondadori, Milano 1999; MargheritaPorete, Specchio delle anime semplici, cit., cap. 26, p. 209; Angelus Silesius, Pellegrino cherubico,cit., I, 25, 200, ecc.

193 Cfr. il sermone “Os suum aperuit sapientiae”, in I sermoni, cit., pp. 604-606.

194 Cfr. il sermone “Homo erat dives”, in I sermoni, cit., pp. 534 s, ove Eckhart cita il Liber decausis. Si fa eccezione per la conoscenza per grazia, come quella che ebbe Paolo, rapito al terzocielo; però essa non può, comunque, essere espressa.

195 Cfr. il sermone “Renovamini spiritu mentis vestrae”, in I sermoni, cit., p. 552.

196 Cfr. Agostino, De vera religione, Mursia, Milano 1987, in particolare il cap. 3, tutto intessuto dielementi platonici e neoplatonici. Cfr. anche la mia introduzione all’opera.

197 Cfr. Mt 5, 45.

198 Cfr. R. Guénon, “La religione e le religioni” (articolo pubblicato originariamente su La Gnose, n.10, 1910, pp. 219-222, ristampato più volte).

199 Una morale “laica” è certo possibile, ma più in teoria che nella “verità effettuale”, come direbbeMachiavelli: cfr. ad es. Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro primo, XI, XII.

200 Cfr. Repubblica, 379 a-c.

201 Cfr. Fedone, 64 a.

202 Cfr. Repubblica, 589 a. Questo tema è sviluppato nel mio Prego Dio che mi liberi da Dio, cit.,cap. II: “La religione come verità e come menzogna”.

203 Cfr. Shlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, Milano 2010: ampia ricognizionestorica, dalle origini del monoteismo al mito dell’esilio, dal formarsi del canone biblico al fenomenodel proselitismo ebraico, dalla questione dei khazari alle origini del giudaismo sefardita, dallastoriografia sionista all’uso politico della Shoah. Sand afferma, tra l’altro, che lo stato di Israele è

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un’etnocrazia più che una democrazia, in quanto la sua legislazione è ispirata a criteri biologico-religiosi più che liberal-pluralistici. Questa tesi è discussa da M. Giuliani in “Postsionismo: una sfidafra storiografia e politica”, in Vita e Pensiero, 2, 2001, pp. 32-39. Ebraismo, cristianesimo, islamismosono sistemi socio-politici, con dei miti per tenere insieme il popolo. Tanto che la relazione diappartenenza è comunque esteriore: la circoncisione, i sacramenti, l’osservanza dei precetti. Religionidell’esteriorità, in cui Dio è un altro, un grosso idolo. Di qui l’ossessione dell’idolatria: il Dio diMosè è tanto idolo che teme la concorrenza di un vitello d’oro! Come nota Bergson nel suo Le duefonti della morale e della religione, il Dio delle religioni è sempre “Dio degli eserciti”, in quanto delsociale, del politico, e perciò della forza. Ora, in tempi di buonismo– di décadence, come direbbeNietzsche–, si cerca di camuffare questo aspetto violento della religione, ma in realtà esso sussistesempre, più o meno evidente, e comunque vien fuori nel dualismo, nel pensiero del male. Infatti, cisono sempre dei “cattivi”: come prima c’erano gli “eretici”, gli “infedeli”, ecc., ora i “terroristi”, i“razzisti”, ecc.

204 Lo nota anche Ferruccio Parazzoli, che perciò scrive, tra l’altro: “Sacra Scrittura. In primo luogocancelliamo, per poter procedere, l’aggettivo ‘sacra’. Scrittura: l’Antico come il Nuovo Testamento,gli Atti, perfino l’Apocalisse, sono scritture (questa volta con la lettera minuscola). A quale genere discrittura appartengono? La prima e più comune risposta sarà: al genere religioso. Sbagliato. Nessunadi quelle scritture può essere incasellata tra i testi di natura religiosa” (Eclisse del Dio unico, ilSaggiatore, Milano 2012, p. 91).

205 Cfr. S. Franck, Paradossi, cit., n. 89: “Templorum, imaginum, festorum, sacrificiorum etc.,ceremoniarum, nullus in novo testamento usus”; n. 199: “Malorum omnium operculum nomen Dei”;n. 200: “Condimentum omnis malitiae verbum dei”, con i riferimenti ad Agrippa. Franck vuolecontrapporre la verità dell’insegnamento del Cristo, tutto spirituale, alle religioni costituite, che lonegano: “giochi di ragazzi”, “assolutamente difformi dallo spirito degli apostoli”, definisce i libri deiteologi anche nella sua celebre lettera a Campanus (cfr. S. Franck, Religione e libertà. Lettera aGiovanni Campano, a cura di M. Vannini, Morcelliana, Brescia 2012). Hegel parla dei teologi del suotempo, tutti basati sulla Scrittura, come di ragionieri che tengono l’amministrazione di una ditta, deicui beni non hanno però parte alcuna, ignari come sono dello spirito (cfr. Lezioni sulla filosofia dellareligione, ed. it. a cura di E. Oberti e G. Borruso, Zanichelli, Bologna 1974, vol. I, p. 103).

206 Nel suo Dell’incertitudine e della vanità delle scienze (traduzione di Ludovico Domenichi,Firenze 1547, a cura di Tiziana Provvidera, Aragno, Torino 2004, p. 259) Agrippa cita lo stoicoZenone di Cizio: “Non è punto necessario l’edificare templi né luoghi sacri perché ragionevolmentenon s’ha da tenere né stimare per cosa santa né sacra, la quale sia stata fabricata da uomini”, e ricordache Serse bruciò tutti i templi che trovò in Grecia, “perché era cosa empia e ribalda chiudere gli dèi

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dentro le mura” (cfr. Erodoto, Hist., I, 131-132 e VIII, 109). Quello che vale per i templi e i luoghisacri, vale anche per le Scritture sacre e le teologie, ugualmente “fabricate da uomini”.

207 Cfr. Bhagavadgītā, 17, 3.

208 Cfr. S. Franck, Paradossi, cit., nn. 19-21, 31, 52-53, ecc.

209 Cfr. Gv 8, 44 nell’interpretazione che Eckhart ne dà nel suo Commento al Vangelo di Giovanni,cit., nn. 480-485. Perciò Franck, nella Lettera a Giovanni Campano, cit., scrive che i teologi, senzaconversione, senza distacco, non sono seguaci del Cristo, bensì “quei lupi che san Paolo prevideavrebbero aggredito il gregge del Signore, dopo la sua partenza (At 20, 29), e quelli che Giovannichiama Anticristi (1 Gv 2, 18-19)”.

210 Il senso etimologico della parola “Dio” rimanda infatti alla luce, al cielo luminoso: deus-dies. Nel“Commento alla Sapienza”, cit., n. 154, Eckhart scrive: “Deus est quoddam indistinctum, quod suaindistinctione distinguitur” (Commenti all’Antico Testamento, cit.).

211 Sotto questo aspetto, la parola più seria e più religiosa è quella di Epicuro: “Dio o vuole togliere imali e non può, o può e non vuole, o non vuole né può. Se vuole e non può, è impotente, il che nonpuò pensarsi di Dio. Se può e non vuole, è invidioso, e anche questo è contrario alla natura di Dio. Senon vuole né può, è invidioso e impotente, e quindi non è Dio. Se vuole e può, il che soloconverrebbe a Dio, donde deriva allora l’esistenza dei mali? E perché Dio non li toglie?” (fr. 374,Usener). “Dunque la divinità non si occupa delle cose del mondo” (Sesto Empirico, Ipotiposipirroniane, III, 3, 11).

212 “Ciò che in noi proviene da Satana, è l’immaginazione” (S. Weil, Quaderni, II, cit., p. 138);infatti l’immaginazione “tappa le fessure attraverso le quali potrebbe passare la grazia” (ibidem, pp.39, 52). Citando Boezio: “In divinis oportet intellectualiter versari, non ad ymaginationes deduci”,ripete Eckhart, difendendosi dalle accuse (vedi nota 8).

213 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 158.

214 In tedesco la devozione (Andacht) contiene la radice del verbo pensare (denken), come notavaanche Hegel. Cfr. il mio Dialettica della fede, cit., cap. “Il concetto hegeliano della fede”. Che la fedenon produca credenze, ma, al contrario, tolga via ogni credenza e conduca nella “notte”, nel nulla, èaffermato risolutamente anche da san Giovanni della Croce: cfr. il mio La religione della ragione,Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 91 ss., nonché il capitolo “La fede come ‘notte oscura’ diDialettica della fede, cit.

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215 Sulla mistica come elemento fondamentale della religione, cfr. William Payne Alston, PerceivingGod, Cornell University Press, Ithaca 1991.

216 Cfr. il sermone “Populi eius”, in I sermoni, cit., p. 136.

217 Cfr. il sermone “Stetit Iesus”, in I sermoni, cit., p. 301.

218 Vedi p. 37 e nota 58.

219 Cfr. ad es. Agostino, De vera religione, 99 (uno dei testi prediletti di Eckhart, tra quelli delmaestro da lui prediletto). Il tema è centrale nella riflessione di Franck: cfr. Paradossi, cit., nn. 121:“Scriptura occidens littera. Verbum Dei unificans spiritus est”; 122: “Veritas non potest scribi, autexprimi”; ecc.

220 Su questo punto si veda il sermone “Praedica verbum”, in I sermoni, cit., pp. 273-278, e il miosaggio “Praedica verbum. La generazione della Parola dal silenzio”, in AA.VV., Il silenzio e laparola da Eckhart a Jabès, a cura di M. Baldini e S. Zucal, Morcelliana, Brescia 1989, pp. 17-31.

221 Cfr. il sermone “Renovamini spiritu mentis vestrae”, in I sermoni, cit., p. 554. La medesimaespressione nel sermone “Modicum et non videbitis me”, in I sermoni, cit., pp. 485 s. Ricordiamocome anche Schwester Katrei affermi esplicitamente: “Io sono diventata Dio” (cfr. Pseudo MeisterEckhart, Diventare Dio. L’insegnamento di sorella Katrei, cit., p. 67).

222 Ricordiamo il distico del Pellegrino cherubico, I, 285, “Il conoscente deve diventare ilconosciuto”, già sopra citato (p. 88 e nota 180).

223 Eckhart ripete spesso che il Figlio è la fonte dello Spirito santo, che lo Spirito santo è dato solo aquelli che vivono nel Figlio– anzi, che lo Spirito santo è una sola cosa con il Figlio, è identico alLogos. Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., nn. 31, 38, 82, 160, 500, 642. Si noti chel’identità Figlio-spirito è uno dei punti che accomunano Eckhart ed Hegel.

224 Cfr. Hugo Rahner, “La nascita di Dio. La dottrina dei Padri della Chiesa sulla nascita di Cristo dalcuore della Chiesa e dei credenti”, in Simboli della Chiesa. L’ecclesiologia dei Padri, San Paolo,Cinisello Balsamo 19942, pp. 15-143. La dottrina della nascita del Logos nell’anima è pervenuta almaestro domenicano principalmente attraverso Agostino, che rileva spesso il profondo rapporto traamore e pensiero, per cui si ama quel che si conosce, si conosce quel che si ama e si diviene quel chesi ama (cfr. De Trinitate, IX, 10-12; IX, 2). Si veda l’introduzione al Commento al Vangelo diGiovanni, cit., § 4, pp. 11-15.

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225 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., nn. 507 e 509. E nei Sermoni latini, cit., n. 515: “Tusei una cosa sola con quel che attualmente pensi e mediti, conosci e contempli: in quella medesimaimmagine sei trasformato, faccia a faccia (cfr. 1 Cor 13, 12), sei ispirato dal suo amore”. In quanto ilLogos, il Figlio, è imago dei (cfr. Col 1, 15 e 2 Cor 3, 18), Eckhart può affermare l’identità anima-Dio: l’anima è uguale a Dio, giacché in ogni atto di amore-distacco, generando il Logos, vienetrasformata in quella medesima immagine. Per il concetto di “metafisica dell’immagine” cfr.Vladimir Lossky, Théologie négative et connaissance de Dieu chez Maître Eckhart, Vrin, Paris 1960.

226 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., nn. 450, 474-475.

227 Ibidem, nn. 162, 506, 658, 663.

228 Ibidem, nn. 100, 141, 241, 318, 568, 669, 697.

229 Ibidem, nn. 508, 509.

230 Si ricordi che è dopo la mediazione stoica che si comincia a chiamare spirito (pneuma) quello cheera l’aristotelico intelletto (nous), soprattutto grazie a Filone Alessandrino. Da lui riprendono iltermine i Padri greci, a iniziare appunto dagli alessandrini.

231 Come comprese perfettamente Hegel, non si capisce la Trinità senza spirito, e viceversa. Cfr. ades. le hegeliane Lezioni sulla filosofia della religione, cit., vol. II, parte terza, capitolo IV, 3a sezione:“La passione e la resurrezione di Cristo”, p. 375, ove il conoscere Dio come trino è condizione percomprendere quell’“eterno movimento che è Dio stesso”. Hegel sapeva benissimo che “trinità” non èaffatto un concetto biblico, ma ellenico, ed è nota anche la grande simpatia che nutriva per Proclo.Trinitas è infatti una parola che compare in latino per la prima volta con Tertulliano, che rende così laplatonica triàs, ovvero il principio triadico, su cui tanto ha riflettuto il neoplatonismo.

232 Salita del monte Carmelo, II, 3, 3-5. Vedi p. 99 e nota 214.

233 Cfr. il sermone “Sant Paulus sprichet”, in I sermoni, cit., p. 244 (corsivo nostro). Hegel, checonobbe questo testo attraverso le Institutiones di Mosheim (anche perché esso termina con laproposizione XII censurata nella bolla In agro dominico), scrive perciò che lo spirito “è tale in quantopercorre i tre elementi della sua natura: questo movimento attraverso se stesso costituisce la suarealtà:– quello che si muove è lui; esso è il soggetto del movimento e anche lo stesso muovere, o lasostanza attraverso cui passa il soggetto […] Lo spirito è in quanto è questo movimento” (cfr.Fenomenologia dello spirito, tr. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1960, vol. II, pp. 283 s.).Margherita Porete chiama lo spirito “essere senza essere” (Lo specchio delle anime semplici, cit., cap.115, p. 411).

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234 Così recita la bolla In agro dominico, censurando Eckhart. La si può leggere in I sermoni, cit., pp.21-27.

235 Alla celebre espressione della Brhādaranyaka Upanishad (IV, 4, 22; 5, 15) corrisponde allalettera quella eckhartiana: “Non questo, non quello” (cfr. ad es. i sermoni “Nunc scio vere” e “Iesushiez”, in I sermoni, cit., pp. 110; 240.

236 Cfr. Lezioni sulla filosofia della religione, cit., p. 369.

237 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., nn. 556, 692. Cfr. le hegeliane Lezioni sulla filosofiadella religione, cit., ove il filosofo scrive: “Lo spirito è spirito in quanto è negazione della negazione”(p. 375).

238 Cfr. il sermone “Convescens praecepit eis”, in I sermoni, cit., p. 268.

239 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 290.

240 Cfr. G. Jarczyk e P.-J. Labarrière, L’impronta del deserto. L’a-teismo mistico di Meister Eckhart,Guerini e Associati, Milano 2000.

241 Cfr. il sermone “Convescens praecepit eis”, in I sermoni, cit., p. 268, con riferimento a 1 Cor 6,17: “Chi si unisce al Signore, è con lui un solo spirito” e a 2 Cor 3, 17: “Il Signore è spirito, e dove èlo spirito del Signore, lì è libertà”.

242 “Anche se ciò sembra assurdo, come molte altre cose, alle menti più rozze, è tuttavia veritàevidente che un’opera non è divina né perfetta se l’uomo non la compie a partire da Dio in se stesso,in conformità del passo: ‘Il Padre, che permane in me, egli stesso compie le opere’ (Gv 14, 10), e senon la compie per un habitus che ha in sé, in conformità del passo: ‘Lo Spirito santo giungeràdall’alto in te’ (Lc 1, 35). ‘In te’– dice.” Così Eckhart nel suo Scritto di difesa (vedi nota 8), diseguito al passo ivi citato. Notiamo come anche Teresa d’Avila descriva allo stesso modo l’esito delcammino spirituale, nelle settime e ultime mansioni del suo “Castello interiore” (II, §§ 9-10), oveparla di uno starsene in pace, in perfetta unione, raccolti in se stessi, nel “centro dell’anima, che è lospirito” (in Obras completas, cit., pp. 481 s.).

243 Cfr. il sermone “Nolite timere eos”, in I sermoni, cit., p. 624. Vedi qui il cap. “Passaggio inIndia”, p. 145.

244 Proprio nel senso della hegeliana Aufhebung, che è toglimento e, insieme, mantenimento su unpiano più alto. Sullo Hegel “mistico”, si veda il capitolo “Hegel: morte dell’anima e libertà dello

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spirito” del mio Mistica e filosofia, cit., pp. 107-120, nonché Storia della mistica occidentale, cit., pp.314-320.

245 Cfr. Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 655.

246 “Uomo distaccato, povero, interiore, spirituale, nobile” sono in Eckhart espressioni equivalenti:cfr. il trattato “Dell’uomo nobile”, in Dell’uomo nobile, cit., pp. 221 s.

247 Al detto di Talete (DK, 11, A 22) fa riscontro 1 Cor 15, 28.

248 Cfr. Così parlò Zarathustra, parte quarta, capitolo: “La festa dell’asino”. Il sottile discrimine traesperienza spirituale è ateismo è, peraltro, oggetto della riflessione dell’Anonimo Francofortese, ilcui Libretto della vita perfetta (o Teologia tedesca) è dedicato essenzialmente proprio a distinguere la“vera luce” dalla “falsa luce”.

249 Opportunamente l’edizione italiana cit. (a cura di D. Carosso e M.P. Donat-Cattin) del libro diGwendoline Jarczyk e Pierre-Jean Labarrière, Maître Eckhart ou l’empreinte du désert (Paris 1995)sottotitola: L’a-teismo mistico di Meister Eckhart.

250 Cfr. Gv 4, 23-24.

251 “Chi si unisce al Signore è con lui un solo spirito”: 1 Cor 6, 17; “Noi abbiamo il nous di Cristo”:1 Cor 2, 16.

252 Cfr. Pellegrino cherubico, I, 8: “Dio non vive senza me”.

253 Parèdoken to pnèuma: ove il verbo paradìdomi è àpax legòmenon in tutto il Vangelo.

254 Cfr. la mia Storia della mistica occidentale, cit., cap. “La sconfitta”, pp. 273 ss.

255 Cfr. Pellegrino cherubico, IV, 10: “La perfetta beatitudine”.

256 Di qui le paradossali espressioni che ricorrono negli scritti di questi mistici: “L’anima non sa piùche farsi di Dio, né Dio di lei”, scrive Margherita Porete (Lo specchio delle anime semplici, cit., cap.135), ed Eckhart: “Un uomo giusto non ha bisogno di Dio. Io non ho bisogno di quello che ho”(sermone “Gott hat die Armen”, in I sermoni, cit., p. 445).

257 Vedi nota 2. Si situano a questo punto le profondissime parole della hegeliana Fenomenologiadello spirito: “Non quella vita che inorridisce davanti alla morte, schiva della distruzione; bensìquella che sopporta la morte e in essa si mantiene è la vita dello spirito. Esso ottiene la sua verità solo

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a patto di ritrovare se stesso nella assoluta lacerazione […] Lo spirito è questa forza solo perché saguardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di esso. Questo soffermarsi è la mirabile forza chetrasforma il negativo nell’essere” (op. cit., p. 26, in traduzione lievemente ritoccata).

258 Pellegrino cherubico, V, 200. Il titolo: “Ci si trasforma in quel che si ama” (da sant’Agostino)rimanda al celebre passo agostiniano: “Come chi ama la terra sarà terra, così chi ama Dio sarà Dio”(In Ep. Joh., II). Cfr. il corrispondente passo della Bhagavadgītā (17, 3): “Quale è la fede di unuomo, quello egli è” (vedi p. 166).

259 Questa la lezione fondamentale del Convito platonico. Al culmine della sua esperienza estatica,Maria Maddalena de’ Pazzi dichiara che la specie suprema d’amore è quello “morto”, che nondesidera, non vuole e non cerca cosa alcuna, perché l’anima che possiede questo amore nulla vuole,nulla sa e nulla vuol potere, e neppure desidera intendere, conoscere e gustare Dio, “per la mortarelassazione che ha fatta di sé in Dio” (cfr. Maria Maddalena de’ Pazzi, Le parole dell’estasi, a curadi G. Pozzi, Adelphi, Milano 1992, pp. 178 s.). Che la mistica fiorentina parlasse come Eckhart nondeve meravigliare, vista la sua lettura delle opere di Taulero (cioè di Eckhart medesimo). Si trattasempre di comprendere la fondamentale lezione platonica, ovvero il profondo, inscindibile rapportotra amore e distacco. “This relation between indifference and love is indeed the most difficult point inphilosophical thinking”, scrive giustamente, discutendo di Hegel, il filosofo buddhista YoshinoriTakeuchi (“Hegel and buddhism”, in Il Pensiero, VII, 1962, n. 1.2, pp. 5-46).

260 “Amare amabam”, scrive Agostino, ricordando i suoi amori giovanili: era in realtà l’amore chestava amando, quando amava le fanciulle; ma allora non lo aveva ancora capito. Cfr. Confessioni, III,1.

261 Cfr. il sermone “Nolite timere eos”, in I sermoni, cit., p. 624.

262 Cfr. il sermone “Perdersi per trovarsi”, in Il ritorno all’origine, cit., p. 39 e nota 1, pp. 58-60.

263 Cfr. il sermone “Populi eius”, in I sermoni, cit., p. 138. Notiamo anche, di passaggio, come“sesso” significhi etimologicamente separatezza (sexus, da secare). Infatti, contrariamente al banalesentimentalismo, diffuso anche nel religioso (si pensi alle equivoche utilizzazioni “mistiche” delCantico dei Cantici), niente come la sessualità indica e produce inequivocabilmente la dis-tinzione,la divisione. Cfr. S. Weil, Quaderni, III, p. 298: “Nell’unione carnale uomo e donna voglionodiventare uno, ma non possono. È l’unico desiderio fisico che per essenza non può mai esseresoddisfatto. La loro unità, che è il bambino, è estranea all’uno e all’altra”; con il rimando a Lucrezio(cfr. De rerum natura, IV, particolarmente vv. 1110 s.).

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264 Cfr. Pellegrino cherubico, I, 71. Il rapporto conoscenza-amore è magistralmente toccato da MariaZambrano quando parla di quei “mistici della ragione”, come Giovanni della Croce e Spinoza, neiquali l’annullamento delle potenze dell’anima (cfr. Salita del Monte Carmelo) e la riduzione dellepassioni (cfr. Ethica, IV) hanno la medesima finalità: “convertire l’anima in un cristallo di rocca,altrettanto invulnerabile e trasparente”. Con il “medesimo assolutismo dell’amore, di un amore perqualcosa in cui ci siamo convertiti, e che è la nostra propria essenza […] essi conseguirono l’unitàdella vita con la conoscenza” (cfr. M. Zambrano, “S. Giovanni della Croce: dalla ‘notte oscura’ allapiù chiara mistica”, in appendice a La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano1997, pp. 124-126).

265 Cfr. Chāndogya Upanishad, VI, 9. Vedi il capitolo seguente, p. 137.

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Passaggio in India

Chi venera una divinità considerando che essasia altra da sé: “Altri è il Dio, e altri sono io”,costui non sa. Per gli dèi egli è come unabestia.

Brhad āranyaka Upanishad

Siate rifugio a voi stessi, siate luce a voi stessi.

Ultime parole del Buddha

ai discepoli

1. La grazia dell’India

La ricerca, in India, di valori spirituali non presenti o non benriconosciuti in Europa non è una caratteristica solo dei nostri tempi.Significativamente, essa risale invece al maestro stesso della mistica nelmondo classico, ossia a Plotino, che, secondo quel che narra Porfirio, si unìalla spedizione dell’imperatore Gordiano contro i persiani, desideroso diconoscere “sia la loro filosofia, sia quella che predominava tra gli indiani”.1La spedizione dell’imperatore fallì e Plotino non giunse in India, ma questonon gli impedì di trovare nel platonismo quel che cercava.

La grazia dell’India è comunque la grazia dell’Uno, la graziadell’interiorità: così pensava, giustamente, Henri Le Saux, forte della sualunga esperienza di quel paese e della sua tradizione spirituale.2 L’interioritàsi può declinare in molti modi, da cui derivano i molteplici darsanadell’India, i molti “punti di vista”, tutti in qualche modo validi e nessunoesclusivo, anche se, in sostanza, la via dell’interiorità non è altro che la via

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del distacco, che costituisce il cammino verso l’Uno, verso la beatitudine,non meno che il cammino della conoscenza:

Quando tutti i desideri annidati nel cuore si dileguano, allora il mortale diventa immortale; inquesta vita consegue il brahman.3

Perciò uno dei grandi maestri del pensiero indiano, Patañjali, scrivenei suoi celebri Aforismi sullo Yoga:

15. Quando uno è libero da sete di cose viste o rivelate, allora consegue la prima forma didistacco.

Allorché la mente, in forza della meditazione, riesce a scorgere le deficienze degli oggetti,pur essendoci contatto con cose divine o no, essa raggiunge il distacco sia nei riguardi della sete dicose viste– cioè a dire donne o cibo, bevande o potere–, sia nei riguardi di cose rivelate, quali ilconseguimento del cielo o della disincarnazione o del dissolvimento nella natura. Tale distacco, nelquale non ha luogo desiderio di prendere o di lasciare, e che, essenzialmente, non è che assenza difruizione, prende il nome di “dominio”.4

Il distacco è, innanzitutto, distacco dal desiderio di possedere, diavere o di essere, sia che si tratti di possessi carnali, sia di conseguimenti“spirituali”, come il cielo, o il paradiso, o, nella concezione indiana,l’estinzione del ciclo delle nascite. Si noti che il divino, o “rivelato”, nonviene negato, ma anch’esso è oggetto di distacco, giacché è cosa comunquefinita, “deficiente” in quanto determinata. Il distacco non è essenzialmenteche la mancanza della fruizione, cioè dell’appropriarsi della cosa, materialeo spirituale che sia. Ed è allora che non sono più vittima e dipendente dallecose, bensì loro signore– per cui, paradossalmente, il distacco è dominio.

E prosegue:

16. Tale distacco diviene maggiore allorché c’è distacco, da parte del discernimentodell’anima, degli elementi costitutivi.

Perciò da una parte si raggiunge il distacco con lo scorgere le deficienze inerenti alle cose,viste o rivelate che siano; dall’altra la mente, grazie all’esercizio della contemplazione dell’anima,diviene come saziata da un perfetto discernimento, dovuto, appunto, alla purezza di talecontemplazione e perviene così al distacco dagli elementi costitutivi, con le loro caratteristiche, siamanifeste sia immanifeste. Duplice è dunque il distacco. Ora, il secondo tipo consiste in una pura

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calma della conoscenza […] ond’è che tale distacco rappresenta il limite ultimo della conoscenza el’isolamento è da esso indisgiungibile.5

Come abbiamo visto anche in Eckhart, è la conoscenza che distacca.C’è infatti una fase superiore, più profonda, di distacco, che è tuttaintellettuale, in quanto la mente scorge cosa è, dell’anima, che determina illegame alle cose. È precisamente in questo vedere, in questo discernere, inquesto conoscere, che avviene il distacco: la mente guarda agli “elementicostitutivi” come a elementi che non la toccano, non la determinano più–ma, anzi, è essa a dominarli, senza sforzo alcuno. Insieme alle cose– diqualsiasi tipo– desiderate, se ne vanno così anche i pensieri che stanno peresse, i contenuti mentali che sorreggono il desiderio, da esso originati.Allora:

Simile in ciò a colui che dall’alto di una vetta osserva i sottostanti, il saggio, attinta la calmadella conoscenza, guarda, ormai affrancato dal dolore, a tutte le creature, le quali invece ne sonoafflitte.6

Il distacco dà la completa chiarezza mentale e, in questa calma, inquesto arresto del fluire delle idee, si ha la beatitudine, che è un profondoritorno in se stessi, en-stasi, conoscenza di sé e– proprio come in Eckhart–esperienza dell’anima come di una pura luce:

Allora l’anima, priva di qualsiasi relazione con gli elementi costitutivi, ridotta unicamentealla sua natura propria, non è che luce, pura e isolata.7

Pura e isolata, l’anima viene a consistere unicamente della suapropria luce.8

2. Il brahmanesimo

2.1. Le Upanishad

Al di là dei diversi sistemi di pensiero, che sia la conoscenza asalvare è il concetto essenziale del brahmanesimo, nel quale la verità

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fondamentale è l’identità tra spirito incarnato nel soggetto (ātman), realtàvera e profonda dell’uomo stesso, e spirito eterno, universale (brahman).

Nel profondo del cuore– al “fondo dell’anima”, direbbe Eckhart–v’è infatti lo ātman, lo spirito, il Sé essenziale:

Un piccolo spazio si trova nel profondo del cuore, altrettanto vasto quanto lo spazio cheabbraccia il nostro sguardo. L’identico e il diverso vi sono riuniti– il cielo e la terra, il fuoco e l’aria,il sole e la luna, la folgore e le costellazioni, con tutto ciò che appartiene loro in questo mondo eanche con ciò che loro non appartiene– tutto ciò vi è riunito.9

Chi conosce la realtà di se stesso conosce perciò tutta la realtà, eviceversa: anche per le Upanishad chi conosce se stesso conosce anche Dio,tanto che esse pronunciano una parola che suona bestemmia per le religionibiblico-coraniche:

Chi venera una divinità considerando che essa sia altra da sé: “Altri è il Dio, e altri sono io”,costui non sa. Per gli dèi egli è come una bestia.10

La conoscenza essenziale dell’identità tra lo spirito dell’uomo e lospirito universale, divino, costituisce la liberazione, la salvezza, che è ancheprofonda felicità:

In verità questo grande e increato ātman, senza vecchiaia, senza morte, immortale, privo ditimore, è il brahman. In verità il brahman è felicità e diventa il brahman stesso, che è felicità, coluiil quale così si conosce.11

Quel che è essenziale, dunque, è riconoscere l’unità del Tutto,superando ogni dualità. Un profondo, davvero commovente, testoupanishadico insegna– proprio come Platone, Agostino, Eckhart– chenell’amore, delle creature o di qualsiasi altra cosa, è in realtà lo spirito chesi sta amando:

Non è certo per amore del marito che il marito è caro: è per amore dello spirito [ātman] cheil marito è caro. Non è certamente per amore della sposa che la sposa è cara: è per amore dellospirito che la sposa è cara. Non è certamente per amore dei figli che i figli sono cari: è per amoredello spirito che i figli sono cari. Non è certamente per amore del brahman che si ama il brahman: èper amore dello spirito che si ama il brahman. Non è per amore del potere che si ama la potenza: è

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per amore dello spirito che si ama la potenza. Non è per amore dei mondi che i mondi sono cari: èper amore dello spirito che i mondi sono cari. Non è per amore degli dèi che gli dèi sono cari: è peramore dello spirito che gli dèi sono cari. Non è per amore degli esseri che gli esseri sono cari: è peramore dello spirito che gli esseri sono cari. Non è per amore verso ogni cosa che ogni cosa è cara: èper l’amore dello spirito che ogni cosa è cara. È lo spirito, invero, che si deve considerare, chebisogna ascoltare, cui bisogna pensare, su cui bisogna meditare. O Maitreyī, si prende conoscenza ditutto soltanto mediante la contemplazione, l’ascolto, la meditazione, la conoscenza dello spirito.12

Se questo non accade, si è rigettati nel mondo dell’alterità,dell’alienazione, ove altri è l’uomo, altro è Dio. Perciò il medesimo testoprosegue:

Il brahman abbandona colui il quale pensa il brahman fuori dello spirito [ātman-il Sé]; ilpotere abbandona colui il quale pensa il potere all’infuori dello spirito; i mondi abbandonano colui ilquale pensa i mondi al di fuori dello spirito; gli dèi abbandonano colui il quale pensa gli dèi al difuori dello spirito; le creature abbandonano colui che pensa le creature al di fuori dello spirito; tuttigli oggetti che esistono abbandonano colui che li pensa al di fuori dello spirito. Questo brahman,questo potere, questi mondi, questi dèi, queste creature, tutti questi oggetti, tutto ciò che esiste èspirito.13

Infatti, l’illusorio pensiero di un principio spirituale fuori dallospirito dell’uomo e, comunque, di una realtà “oggettiva”, a qualsiasi livello,fuori dallo spirito – ove il “fuori” è, ovviamente, metaforico–, getta lontanodall’essere, nell’alienazione e perciò nel dolore. Il male, infatti, e anche ildolore, è tutto nell’alterità dell’essere, alterità di Dio, ovvero nel dualismoin cui l’uomo si trova, per ignoranza.

La salvezza, la liberazione, si ottiene infatti grazie alla conoscenza,che è la comprensione dell’unità e della bontà del Tutto. Perciò la via diliberazione si caratterizza subito, in conformità con la strada maestra dellamistica speculativa, come rifiuto di pensare il male, che è essere il male:

Il male è tutto ciò che viene detto di non pertinente all’oggetto. Proprio questo è il male […].

Il male è infatti, quaggiù, ciò che si concepisce di cattivo. Proprio questo è il male.14

È per questa ragione che colui il quale così conosce, essendo calmo,domo, distaccato, paziente, in sé raccolto, vede se stesso nello spirito e vede

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lo spirito in ogni cosa; il male non lo soverchia, egli è sempre al di là dalmale; il male non lo brucia, ed egli invece arde ogni male; egli è svincolatodal male, dalla passione, dal dubbio […].15

Il due è infatti il male (dys), e perciò la medesima Upanishad dice:

Corre di morte in morte chi vede solo il molteplice nell’universo.16

L’universale realtà del principio spirituale che costituisce il cosmo eche è identico nel Tutto– ivi compreso l’uomo– è insegnata nella celebre“Sesta lettura” della Chāndogya Upanishad, ove il padre svela al figlio,Svetaketu, come tutto l’universo sia costituito da un’essenza sottile, che è lavera realtà, lo ātman, “e questo sei tu”: tat tvam asi, “tu stesso lo sei”.

“Butta questo sale nell’acqua e ritorna da me domani mattina.”Svetaketu obbedì al padre. Allora il padre gli disse: “Portami ora quel saleche ieri sera hai gettato nell’acqua”. Svetaketu guardò nell’acqua e non lovide più. Si era sciolto.

“Assapora un po’ di quell’acqua prendendola alla superficie. Comeè?” “È salata.” “Assapora un po’ di quell’acqua prendendola in basso.Come è?” “È salata.” “Assaporane ancora e vieni da me.” Il figlio gliobbedì e gli disse: “È sempre lo stesso”. Allora il padre disse a Svetaketu:“Così pure, o figlio mio, tu non afferri l’essere, e purtanto esso è presenteivi [ove tu sei].

Tutto quanto esiste è animato da questa essenza sottile; essa èl’unica realtà, essa è lo ātman. E tu stesso lo sei”.17

Tu sei ātman, spirito, e non questo individuo qui, determinato– ilpiccolo Konrad o Heinrich, direbbe Eckhart. Gli fa eco la celebre,fondamentale, parola della Isa Upanishad:

Quello spirito che è qui ed è dappertutto, io lo sono.18

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2.2. La Bhagavadgītā

Capolavoro religioso-filosofico tra i più grandi di tutti i tempi, evera summa della spiritualità indiana, la Bhagavadgītā, ovvero il “Canto delBeato”, è un breve testo– circa 700 versi– all’interno del grande poemaepico sanscrito, anonimo, Mahābharata. È costituito dall’insegnamento cheil dio Krishna conferisce all’eroe Arjuna nel momento in cui questi sta peraffrontare, in un’immane battaglia, i nemici. L’eroe è infatti scoraggiatodalla prospettiva di uccidere quelli che sono suoi parenti e anche grandiguerrieri, un tempo suoi maestri: non è la paura della morte a trattenerlo, mail senso della vanità delle cose umane e l’amarezza che anche una eventualevittoria porterebbe.

Personificato nell’auriga del carro da guerra– colui che tiene leredini, che guida: come nel Fedro di Platone,19 dunque, il principiorazionale reggitore dell’intera anima umana–, il “beato” è quel Dio che è,insieme, il Dio personale di ogni uomo, il Dio creatore dell’universo, e,infine, l’Assoluto che trascende ogni forma. Sotto quest’ultimo aspetto,perciò, sarà quella realtà ultima che le successive scuole buddhisticheidentificheranno col sūnya, il “vuoto”, o, in quanto mèta dell’ascesi, colnirvāna, l’“estinzione”.20 Il nome stesso del dio, Krishna, significaetimologicamente il “nero”, l’oscuro, e rimanda perciò alla profonda,oscura, tenebra del “fondo dell’anima”, che ciascuno di noi porta sepoltanella coscienza e che è l’essenza dell’anima nostra individuale, là dove essasi identifica con la divinità universale, o con l’universale spirito. Diotrascendente e insieme immanente, Krishna è nato infatti da genitori umanie conosce l’esperienza della morte– una morte violenta, per la freccia di uncacciatore ignaro, che “non sa quello che fa”-; avatāra, ovvero“incarnazione, discesa” di Vishnu, che è l’amore divino, il principio solareche pervade l’universo, egli insegna la sostanza di ogni mistica, ovvero larealizzazione dell’identità tra il Sé o spirito individuale, ātman, e lo spiritouniversale, brahman, e, all’interno di questo sapere fondamentale, fornisceall’eroe Arjuna (alla lettera il “chiaro”, il “raggiante”) una fondamentaleregola di vita, che è quella del distacco nell’azione.

Sotto questo fondamentale aspetto, l’azione, di cui il combattimentoè simbolo essenziale, è proprio ciò che permette all’uomo il distacco,

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perché è proprio essa che fa chiara la distinzione tra la natura inferiore(prakrti, “fonte”), fatta di passione, desideri, paure, e l’essenza razionalesuperiore (purusa, “spirito”), che, nell’azione stessa, avverte perfettamentela propria indifferenza ai suoi frutti– vittoria o sconfitta, merito o colpa,lode o biasimo. Come insegna Eckhart, dunque, le opere sono per ildistacco, e l’essenza del distacco non sta nell’inazione, ma nell’opera. Ma,ancora come nella mistica speculativa, il distacco è possibile solo attraversola conoscenza (jñāna), la riflessione, la meditazione, ed essa, a sua volta, èpossibile solo quando tutto lo spirito è rivolto a Dio, in quel rapporto difede, amore, devozione, che la Gītā chiama bhakti. Intelligenza e amore,dunque, sono riuniti in un’unica opera: sono i due occhi dell’anima che,insieme, fanno un unico sguardo.21

I diciotto discorsi in cui il Canto del Beato si scandisce, secondo levarie “vie” (marga) di liberazione, presentano questo insegnamentofondamentale all’interno di una profonda esperienza spirituale, checostituisce una sintesi di quelli che saranno i maggiori sistemi filosofico-religiosi dell’India classica: il vedānta, ovvero la dottrina dell’identitàmetafisica tra anima vivente individuale e spirito universale; il Sāmkhya,con la sua articolata descrizione dei vari “stati” (guna) e componenti dellapsiche, con le sue varie facoltà, correlate agli elementi fisici; lo yoga,infine, in cui l’emancipazione dei sensi dalla realtà esteriore permette laconcentrazione, la meditazione, fino all’unificazione interiore con ilbrahman.

Ci limitiamo qui a indicare alcuni punti essenziali dell’opera.

2.2.1. Eternità del Tutto

Allo sconfortato Arjuna, il dio rivela innanzitutto– nel secondo,fondamentale, discorso– l’eternità di tutto ciò che è:

Non ci fu un tempo in cui Io non esistessi, né tu, né questi guerrieri; e nessuno di noi inavvenire cesserà di esistere.22

Ciò che non esiste non può giungere a essere; ciò che esiste non puòcessare di essere. Chi coglie l’essenza della verità comprende entrambe le

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cose.23

Sappi che ciò che pervade questo universo è immortale. Nessunopuò determinare la distruzione di quello, che è inestinguibile.24

Permanenza di tutte le cose nell’essere, che è divino: quidquid est,in deo est, come insegnavano le Regulae di Alano di Lilla nel medioevocristiano. Le cose, in quanto sono, sono nell’essere, e non possono veniredal non-essere o precipitarvi: questo insegnamento fondamentale, familiarealla filosofia occidentale con l’eleatismo,25 si salda qui col principioteologico, altrettanto fondamentale e altrettanto familiare all’Occidente colplatonismo, della presenza eterna in Dio di tutta la realtà, sotto il suoaspetto spirituale, di idea, di essenza. Passato nel mondo cristiano con ladottrina giovannea del Verbo in cui tutto è stato fatto,26 questo secondoprincipio ha sostenuto l’intuizione dell’unità del Tutto, che è in Dio e divinoe, come tale, eterno come Dio stesso. Ciò comporta, evidentemente, ilrifiuto della concezione biblica di creazione, ovvero la sua interpretazionenel senso di creazione continua, eterna, in temporale pro-duzione delle cosenel mondo, il quale, beninteso, non è affatto fuori di Dio, giacché fuori diDio, che è l’essere, non v’è nulla.27 Perciò, anche per il mistico cristiano, iosono sempre esistito e la morte non è che un ritorno là da dove siamo usciti,nella prima origine di tutte le cose– anzi, in realtà non siamo mai usciti, masempre siamo stati all’interno.

“Qualunque cosa non sia esistente al principio o alla fine, non puòesistere neppure nel presente”, recita un commento alle Upanishad: il rigorelogico del pensiero parmenideo si salda con l’onestà che rifiuta lasuperstiziosa nozione di un Dio capriccioso che crea un essere al di fuori dise stesso e poi, eventualmente, lo distrugge. Essa ha, anzi, ben chiaro, che lastessa nozione di un Dio determinato, separato dal mondo come un agente èseparato dalle cose, ha senso solo finché si resta nel mondo delle apparenze,nell’agostiniana regio dissimilitudinis,28 ovvero nella dimensione dellalontananza dall’essere, lontananza da Dio.

Leggiamo in proposito un passo del sermone eckhartiano Nolitetimere eos:

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Dio diviene (wird) là dove tutte le creature esprimono Dio: là diviene Dio. Quando eroancora nel campo, nel fondo, nella corrente e nella fonte della Divinità, nessuno mi chiedeva dovevolessi andare o cosa facessi: là non v’era nessuno che mi potesse porre domande. Ma quando fluiiall’esterno, tutte le creature pronunciarono: “Dio”! Se qualcuno mi chiedesse: “Fratello Eckhart,quando andate fuori di casa?”, allora è certo che vi sono stato dentro. Così tutte le creature parlanodi Dio. E perché non parlano della Divinità? Tutto quello che è nella Divinità è uno, e di ciò non sipuò parlare. Dio opera, la Divinità non opera, non ha niente da operare, non è in lei opera alcuna,mai ha guardato a un’opera. Dio e la Divinità sono distinti dall’operare e dal non operare […]Quando giungo nel fondo, nel campo, nella corrente e nella fonte della Divinità, nessuno mi chiededa dove io venga o dove sia stato. Là nessuno ha mai sentito la mia mancanza, e là Dio disviene(entwird).29

In un contesto straordinariamente simile a quello del testo indianoche stiamo riassumendo– il commento al passo evangelico Mt 10, 28: “Nontemete quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima”, incui la possibilità di uccidere il corpo è opposta all’impossibilità di ucciderel’anima–, il maestro domenicano contrappone la nozione di un Diorelazionale alle creature, e, in quanto tale, da esse dipendente e finito,determinato nei “modi” della creazione, a quella di una Divinitàimpersonale, in cui tutto è Uno, senza distinzione, e perciò senza possibilitàdi determinazione. Il ritorno dell’uomo nel “fondo” della Divinità è perciòil “venir meno” del Dio determinato; ma, a ben vedere, non di un ritorno sitratta, proprio perché nessuno era mai uscito da quel fondo, elementofontale e originario dell’essere.

Il corpo, ovvero la carne e il sangue, uccidono e anche muoiono, malo spirito non uccide lo spirito, e neppure muore– spiega Eckhart all’iniziodel sermone citato, e Krishna gli fa eco:

Colui che pensa che esso uccida e colui che pensa che sia ucciso, sono entrambi in errore,perché esso non uccide, né è ucciso.30

Esso non nasce mai, né mai muore; né, essendo ciò che è venuto a essere, cesserà di essere: ènon-nato, permanente, originario, eterno; non è ucciso quando il corpo è ucciso.31

Lo spirito che si è incarnato nel corpo di ciascuno è eterno, o Bhārata, e non può mai essereucciso. Perciò non trarre motivo di ansia da creatura alcuna.32

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Come è chiaro dai testi nella loro integrità, non si sta qui affermandoun’assurda eternità delle cose nella loro transitoria fisicità, ma l’eternità delprincipio spirituale che le pervade: quello è l’essere, quello è Dio. Le formefenomeniche del mondo fisico sono anzi destinate a perire– ovvero ascomparire–, per il semplice motivo che non sono: infatti “ciò che nonesiste, non può giungere a essere”, come sopra si è detto, ovvero la loroesistenza è relativa, sempre relazionale, non assoluta.

L’affermazione dell’eternità dell’essere non intende perciò negare ladeperibilità e mortalità delle singole cose e dei singoli enti, ma affermareche la loro vicenda appartiene a uno sfondo immutabile ed è possibile soloin relazione a tale sfondo. La distruzione di un singolo ente, la suascomparsa fenomenica, non è evento capace di annientare l’essere nella suatotalità: tale scomparsa, infatti, non è cessazione dell’essere, ma solo di unasua manifestazione specifica, appunto di un “modo” dell’essere, o di unente.

Il problema però non si risolve con una discussione metafisicasull’essere e il non-essere, bensì a partire da un’impostazione etico-religiosafondamentale. Si tratta infatti di cogliere la realtà come unità e totalitàinsieme, piuttosto che come molteplicità infinita di enti di per sé sussistenti,uno dei quali poi potrebbe essere, eventualmente, Dio. E, a sua volta, questaintuizione fondamentale dipende strettamente dal distacco compiuto neiconfronti dell’egoità, dell’affermatività dell’io.

Non meraviglia affatto che questa esperienza si presenti pereccellenza nell’ambito di una cultura aristocratico-cavalleresca, qualeappunto quella che fa da sfondo alla Gītā o al medioevo germanico, dalmomento che essa compare quando è al suo culmine la volontà, quando il“nobile amore”, rivolto alla gloria, al bene nel suo senso appropriativo,scopre, proprio per la sua grandezza, per il suo essere rivolto al “più” e nonal “meno”,33 l’insufficienza dell’io e delle sue pretese autoaffermative, deisuoi legami. È allora che si cessa di pensare nei termini dell’ego edell’essere del molteplice: il tutto appare come uno, e come divino, nelmomento stesso in cui non è più oggetto di appropriazione, ma diquell’amore distaccato, di quella carità, che lascia essere l’essere, che nonfa alcuna violenza alle cose, cogliendo la bontà del tutto anche nel suoperire. Proprio il perire, infatti, paradossalmente rimanda all’essere, sul cui

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sfondo soltanto esso è, in quanto perire: il mostrarsi dell’essere è ilmostrarsi di questo s-fondo, ovvero di questo fondo abissale, ab-grundliches Grund, che non può cogliersi come qualcosa di determinato.

Tutte le creature sono unum purum nihil, un assoluto nulla,34 per unverso, un unico essere, eternamente reali e una cosa sola in Dio,35 per unaltro, e comprendere Dio come Uno, non come ente tra gli enti, ècomprenderlo come Tutto.36 Il sapiente vede l’Uno in tutti gli esseri:

Nel brahmano saggio e umile, nella mucca, nell’elefante, come pure nel cane e nel fuoricastache mangia carne di cane, il sapiente vede sempre lo stesso essere.37

Perciò il dio rivela all’eroe che, quando avrà ottenuto la conoscenza,non cadrà più in confusione, ma

potrà vedere gli esseri tutti, senza esclusione, nello spirito, e dunque in Dio.38

2.2.2. Al di là delle Scritture

Il profondo rapporto tra visione metafisica e atteggiamento etico-religioso cui abbiamo accennato si ritrova puntualmente nel discorso diKrishna. Il dio, infatti, dopo aver esposto ad Arjuna questa sapienzarazionale (relativa al Sāmkhya), prosegue insegnandogli quella che riguardail comportamento (yoga).

È significativo come il testo indiano parta immediatamente, propriocome Eckhart,39 col distacco supremo: non solo dai godimenti (ovverolegami) terreni, ma da quel supremo godimento (e supremo legame) che è ilCielo, e perciò inviti subito a prendere le distanze dalle Scritture e dallasuperstizione che esse generano:

I non-saggi si compiacciono delle parole dei Veda, dicono che non c’è altro, il loro essere èdesiderio ed hanno per mèta il cielo, si compiacciono dei discorsi che promettono la rinascita comericompensa per le azioni e implicano molti riti per ottenere il piacere e il potere.40

L’intelligenza distinguente di coloro che sono dediti al piacere e al potere non è capace digiungere alla conoscenza stabile.41

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I Veda riguardano il dominio dei tre guna, ma tu renditi libero dai tre guna, o Arjuna, renditilibero dagli opposti, rivolto alla verità suprema, senza curarti di acquistare e conservare, padrone deltuo spirito.42

Il non-saggio sta legato alla Scrittura, che nutre la sua superstizionee alimenta quel desiderio che lo costituisce intimamente, smania di potere edi felicità. La Scrittura, proprio in quanto tale, ovvero in quanto si presentacome rivelazione divina, sostiene intrinsecamente l’alterità di Dio, lalontananza dell’uomo dall’essere, e perciò non può muoversi altro che inuna logica del desiderio, del merito e della ricompensa. La rinascita– o lavita eterna– esprime nel modo più forte tale desiderio, proprio nella suaaccezione etimologica di de-siderio, ovvero lontananza dalle stelle (dallatino sidera), dal cielo, simbolo della verità eterna, all’opposto delpensiero, che è con-siderazione, cioè lo stare vicino alle stelle, al cielo. Lalogica del desiderio, ovvero della lontananza dall’essere, dell’alienazione, èquella del merito e della ricompensa (e, per contro, della colpa e dellapena), perché in esso le azioni non hanno in se stesse il loro fine, non sono“senza perché”, ma rimandano incessantemente a un fine diversodall’azione stessa– e con ciò testimoniano la loro intrinseca insufficienza.Come insegna ancora Eckhart, infatti, sono opere vive, divine, quelle chehanno in se stesse il loro fine, che sono operate di per se stesse; operemorte, invece, quelle mosse da altro, senza principio in se stesse.43

Il non-saggio sta dunque nel mondo dell’alterità, della divisione; lasua intelligenza è tutta quanta di tipo dis-tinguente, dis-criminante, ovverorivolta al giudizio sul bene e sul male, frutto della pretesa di essere, seppuredi un essere determinato, di un piccolo “io” psicologico, che si nutre delconfronto oppositivo con gli altri. Tale intelligenza discriminante,calcolante– quella che Plotino chiama loghismòs, ben distinto da lògos– nonè capace di giungere alla conoscenza stabile, ovvero alla concentrazionenell’Uno, giacché è figlia del desiderio, nella sua infinita mutevolezza,frutto dell’incessante divenire psicologico.

Le Scritture concernono il dominio dello psicologico– i guna–, masi tratta proprio di liberarsi dallo psicologico e dalla sua logica, che èappunto quella del dominio, dell’acquisizione e del possesso, dellaconservazione, uscendo dal regno del molteplice ed entrando invece in

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quello dell’Uno, della verità suprema, là dove non hanno più luogo gliopposti. Questo è uno dei punti su cui il Canto del Beato ritorna conmaggiore insistenza:

Soddisfatto di quel che ottiene per caso, avendo superato ogni coppia di opposti, libero dasentimenti di invidia, imperturbabile nella buona e nella cattiva sorte, anche nell’azione non servo.44

Così viene, infatti, descritto il sapiente, a differenza dell’ignorante,che invece

cade nell’illusione a causa del turbamento dovuto agli opposti, prodotti dal desiderio edall’avversione.45

L’illusione degli opposti, della molteplicità, è causata infatti dallepassioni:

A causa dell’inganno della dualità, generato dall’attrazione e dall’avversione, tutti gli esserisono soggetti all’illusione fin dalla nascita.46

Ma

chi non prova avversione né attrazione va considerato uomo davverodistaccato: libero dalle coppie degli opposti, egli è libero da legami.47

E ancora:

Libero dall’orgoglio e dall’illusione, sconfitto il senso di colpacausato dall’attaccamento, sempre assorto nello spirito, allontanati idesideri, allontanate le coppie degli opposti rappresentate dai piaceri e daidolori, ritorna senza smarrimento alla mèta eterna.48

Al sapiente tutto appare come Uno perché egli è uno:

Di uguale animo nei confronti dei compagni, degli amici e deinemici, degli indifferenti, dei neutrali, degli odiosi, dei partigiani, dei giustie degli empi.49

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L’uguaglianza (la Gleichheit eckhartiana) dell’animo, ovvero ildistacco, produce il superamento di tutto lo psicologico, con la sua continuaalternanza, e la conoscenza stabile dello spirito, in cui si è padroni di sestessi. Spirito significa innanzitutto luce dell’intelligenza, lògos nondiscriminante, che tutto comprende come Uno.50

L’utilità dei Veda è perciò, per l’uomo della conoscenza,paragonabile a quella di una cisterna in un luogo da ogni parte inondatodalle acque,51 ove è chiara l’opposizione non solo tra la abbondanza delleacque di un fiume e la pochezza di quelle di una cisterna, ma anche tra loscorrere vivo delle prime e lo stagnare putrescente delle seconde.

2.2.3. Al di là del desiderio

Essenziale è comunque– questo l’insegnamento fondamentale diKrishna– il distacco dai frutti dell’azione:

Tu hai diritto all’azione, ma non ai suoi frutti. Non dipendere dalfrutto dell’azione, ma non essere attaccato neppure alla non-azione.52

È così che il sapiente si eleva, infatti, a una condizione eticasuperiore a quella della contraddizione, della dis-tinzione, del dualismobene/male, merito/demerito, che per lui scompaiono.53 Nella luce dellaragione tutto appare luminoso, avvolto di luce, fino alla paradossale, manon per questo meno vera, conclusione che:

In ogni opera, anche nel male, e nel male sia in quanto alla pena chein quanto alla colpa, si mostra e risplende ugualmente la gloria di Dio,conformemente al passo: “La luce risplende nelle tenebre” (Gv 1, 5), e:“Luce e tenebre, lodate il Signore!” (Dn 3, 72); Rm 4, 17: “Chiama le coseche sono come quelle che non sono”. Perciò loda Dio anche chi offendequalcuno, nell’offesa stessa, ovvero nel peccato dell’offesa, e, quanto piùoffende e gravemente pecca, tanto più loda Dio, anzi, perfinobestemmiando Dio lo si loda.54

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In questo essere assolutamente distaccato, al di là degli opposti, al dilà del bene e del male, consiste la conoscenza stabile dello spirito, e l’uomoche la possiede “ha l’anima libera da turbamento, pur in mezzo ai dolori, eva esente da desideri violenti, pur in mezzo ai piaceri, libero da passione,paura e collera: egli è uomo di saldo spirito”;55 “privo di attaccamento, nonesulta né prova avversione quando si imbatte in cose piacevoli o spiacevoli,con l’intelligenza saldamente fissa nella suprema conoscenza”.56

Al contrario,

dall’attaccamento nasce il desiderio, dal desiderio nasce l’ira,dall’ira nasce il turbamento mentale, dal turbamento mentale nasce laconfusione nella memoria, dalla perdita della memoria nasce la fine dellaconsapevolezza e con la cessazione della consapevolezza l’uomo va inrovina.57

Perciò occorre stare vigili nei confronti dei sensi, che rischiano diprendere il sopravvento sull’intelligenza, trascinando via l’intelligenza,“come il vento trascina via una nave sull’acqua”.58

Il sapiente usa certamente i sensi, ma “padrone di se stesso,avvicinandosi agli oggetti con i sensi liberi da attrazione e repulsione, eposti sotto controllo”.59 Là dove invece i sensi prendono il dominio, nontrova luogo la meditazione, e senza meditazione non v’è conoscenza di sé,non v’è pace, non v’è quindi felicità.60

L’opposizione tra l’ignorante, dominato dai sensi e dalle forzepsichiche a essi legate, e il sapiente, in cui predomina l’intelligenza, èdescritta dal dio con una splendida immagine:

In quella che per tutti gli esseri è la notte, veglia colui che è padronedi sé. Là dove invece tutti gli esseri sono desti, è notte per il sapiente chevede.61

La realtà vera, spirituale, è oscura, “notte”, per gli ignoranti, chevivono la vita dei sensi, del desiderio, conquistati da quegli oggetti esterioriche per loro costituiscono la realtà. Per contro, essa costituisce la nottedell’ignoranza per il sapiente, che conosce, “vede”, la realtà spirituale. In

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essa il molteplice, e la stessa distinzione tra conoscente e conosciuto,appaiono illusione, come un frutto di sogno notturno.

Il vero nemico dell’uomo è il desiderio, e l’ira che da esso procedequando si trova contrastato:

Tutto ciò– sappilo– è in questo mondo il nemico. Come il fuoco èavvolto dal fumo, come uno specchio dalla polvere, come un fetodall’utero, così la conoscenza è coperta dal desiderio. È il desiderio,difficile da soddisfare e capace di assumere infinite forme a suopiacimento– questo nemico del sapiente sempre in agguato–, a occultare laconoscenza.62

Occorre perciò che si ristabilisca la corretta gerarchia dei saperi:

Eccellenti sono i sensi, ma dei sensi migliore è la mente; superiore alla mente l’intelletto;ancor più elevato dell’intelletto è Lui.

Così, giunto a conoscere Colui che è al di sopra dell’intelletto,rinsaldato il tuo spirito con lo Spirito, uccidi, o eroe dal forte braccio, ilnemico che ha la forma del desiderio e che è così duro da sconfiggere.63

In questa gerarchia dei modi della conoscenza si noti che il principiospirituale superiore, anche al di là dell’intelligenza, è indicato nel testo colmaschile “Lui”, con evidente riferimento a una realtà divina che è anchepersonale, sia pur nella sua impersonalità al di sopra dei contrari. È nel suospirito che deve trovare forza lo spirito dell’uomo, che solo così sarà ingrado di sconfiggere il desiderio.

Questo secondo discorso del dio si conclude, perciò, descrivendo lacondizione di beatitudine di cui gode, nel presente, chi domina il desiderio el’attaccamento:

Colui nel quale tutti i desideri penetrano come le acque nel mare, che, pur essendoneriempito da tutte le parti, resta però immutabile, raggiunge la pace– l’uomo che agisce senzaattaccamento, abbandonando tutti i desideri, distaccato dal proprio ego, senza orgoglio, senza vanità,

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costui non si smarrisce più nell’illusione, ma raggiunge la beatitudine divina dello spirito(brahmanirvānam).64

2.2.4. Fede e grazia

La conoscenza che salva è necessariamente conoscenza anche delrapporto corpo/anima, o natura/spirito, nel loro intrecciarsi ma ancheprofondamente distinguersi. Su questo tema cruciale la Bhagavadgītāritorna più volte, in specie nel settimo e nel tredicesimo discordo diKrishna, a riprova del rilievo di un argomento che costituiva già, e costituiràpoi, motivo di differenziazione tra le diverse scuole filosofico-teologicheindiane.

Punto di partenza è, come abbiamo visto, il fatto che tutta la realtà èdivina. Il dio insegna infatti che:

La terra, l’acqua, il fuoco, l’aria, l’etere, la mente, l’intelligenza discriminante, il senso di sé:tutto ciò costituisce la mia natura (prakrti) in otto forme distinta.65

Questa però è la realtà inferiore, giacché v’è anche una realtà, onatura, superiore, che consiste nella vera vita, dalla quale è sorrettol’universo intero. Questa realtà superiore è infatti lo spirito di Dio, chepervade, sostiene e dà vita al Tutto.66 Perciò il dio può dire che tutti gliesseri hanno origine da Lui, che è principio e fine dell’universo. Con unasuggestiva immagine, che rimanda in un certo modo alla catena aurea diOmero e della tradizione neoplatonica,67 l’universo stesso è detto essereintessuto in Dio, come le perle sono infilate in un filo.68

Il testo ha però cura di impedire la piatta identificazione del mondosensibile col principio divino, il quale resta anche sempre trascendente:

Quali che siano i modi dell’essere [i tre guna], essi tutti derivano da me. Essi sono in me, maio non sono in loro.69

Tutto questo mondo è pervaso da me, dalla mia forma nonmanifesta. Tutti gli esseri dimorano in me, ma non io in loro […]

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Sostenendo tutti gli esseri, ma non dimorando in loro, io stesso ne sonol’origine.70

Essere dai mille volti, uno e molteplice insieme, Dio si presentadavvero come coincidentia oppositorum: come padre e come madre, comedissoluzione e conservazione, come sole e come pioggia, come immortalitàe come morte, come esistenza e non esistenza.71 Presente nel cuore di tuttigli esseri, è lo spirito che costituisce principio, parte mediana e fine degliesseri stessi.72

Con il tratto aristocratico, distaccato, universalistico, tipico dellagrande mistica, il testo dichiara anzi che tutti coloro che sono devoti aglidèi, qualsiasi essi siano, stanno– senza saperlo– in realtà adorando Lui, ilprincipio supremo, che è lo stesso per tutti gli esseri.73 In quelli che gli sonodevoti, il Dio dimora, ed essi in loro,74 secondo quel concetto che i cristianichiamerebbero di corpus mysticum, ma che nella Gītā assume un carattereprevalentemente conoscitivo: dimora infatti in Dio, qualsiasi sia il suocomportamento, quel sapiente che venera il Dio presente in tutti gli esseri.75

È il sapiente che, nello yoga– ovvero in quella unione con l’Uno che è,insieme, distacco dalle cose che causano sofferenza–,76 conosce il vero Séspirituale, e perciò lo vede presente in tutti gli esseri, scorgendo cosìdappertutto la stessa realtà.77

Al di sopra di ogni superficiale distinzione tra personale eimpersonale, il Dio che è supremamente personale nella sua impersonalità,si esprime nei confronti del sapiente, che gli è devoto, con parole toccanti,ben più profonde della religione biblico-coranica:

Per chi vede me in ogni cosa, e ogni cosa in me, io non sono mai perduto, né lui è maiperduto per me.78

Non v’è, del resto, contrapposizione tra fede-devozione da un lato econoscenza dall’altro. La contrapposizione sussiste solo se si intende laprima in modo superstizioso, come dipendenza da contenuti finiti, di voltain volta diversi, e non nel suo senso forte di distacco, orientamento allaverità assoluta, in forza della quale ci si distacca, ovvero si distrugge, ognifinitezza.79 Non a caso la Gītā recita:

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Ottiene la sapienza chi ha fede, chi ha la conoscenza come finesupremo.80

In strettissimo parallelo con la mistica cristiana, il testo formula anziil principio per cui l’uomo si trasforma in quello che ama: in terra se ama laterra, in Dio se ama Dio.81 Krishna rivela infatti che:

I devoti degli dèi raggiungono gli dèi, i devoti degli antenati raggiungono gli antenati, coloroche venerano i demoni raggiungono i demoni, chi onora me raggiunge me.82

Infatti, la realtà di ciascuno è data dalla sua fede:

L’uomo ha la natura della sua fede: come è la fede di un uomo, cosìè l’uomo.83

E anche qui non si può non pensare all’agostiniano pondus meumamor meus: il mio peso è il mio amore, da esso sono condotto là dove sonocondotto.84

Per contro, là dove manca la fede, ossia l’orientamento all’Assoluto,viene meno ogni possibilità di comprensione e, al suo posto, subentra ilpensiero del male, in cui consiste per essenza la malvagità. Come non mai,su questo punto la Bhagavadgītā concorda con l’Ethica di Spinoza: chi nongiunge al pensiero di Dio, non può comprendere nulla. Per cui,

con mente limitata, colmo di desiderio insaziabile, pieno diipocrisia, orgoglio e arroganza, concepisce, a causa dell’illusione, pensierisciocchi e si dedica– con un impegno affannoso che termina solo con lamorte– a soddisfare il desiderio, convinto che in questo mondo sia tutto.85

Egli pensa infatti che “l’universo sia senza verità, senzafondamento, senza un Signore, determinato soltanto dalla libidine”.86

Questa infatti, come spiega Sankara,87 è l’opinione dei materialisti(lokāyatika), per i quali il desiderio sessuale è la sola causa di tutti i viventi.L’origine di questo traviamento è comunque da riportare all’egocentrismo.

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È per esso, infatti, che il malvagio è schiavo della superbia, della libidine edell’ira– le tre porte dell’inferno, che occultano la vera essenza spiritualedell’uomo, e, anzi, fanno sì che il malvagio odii Dio, che pure alberga nelsuo corpo.88

Potremmo perciò ancora, agostinianamente, concludere chenell’uomo si combattono due amori: uno di sé, con il disprezzo di Dio, el’altro di Dio, con il disprezzo di sé, con la precisazione però che quel sestesso che viene amato nell’amore di sé non è il vero Sé, la realtà veradell’uomo, ma solo un’illusione, un’apparenza, mentre il vero Sé è proprioquel Dio che, a un primo sguardo, appare altro e lontano.

La natura, con la necessità a essa inerente, è insuperabile sul pianodella necessità– che, peraltro, è essa stessa manifestazione divina–, ma sisupera nella conoscenza, che è il distacco. Con un’immagine tantosplendida quanto nota, la Bhagavadgītā paragona perciò il divenire cosmicoa un albero che, come l’albero di pipal, ha le radici aeree, in alto, in Dio, e irami verso il basso, “alimentati dai guna, aventi come germogli gli oggettimateriali, per cui le radici, che finiscono nell’azione, si prolungano inbasso, nel mondo degli uomini”.89 Tale “albero dalle salde radici vaabbattuto con la forte spada del distacco, incamminandosi per quella stradada cui non si torna indietro”,90 ovvero riconoscendo, al di là del divenire,quell’essere eterno, quello spirito supremo, che sostiene il divenire stesso,rendendogli, con la conoscenza, onore.91

Così, fattosi puro intelletto, completamente padrone di se stesso, aldi là di amore e di odio,92 avendo abbandonato ogni attaccamento all’io,ogni idea di appropriazione, in completa pace,93 l’uomo si identifica conbrahman, considerando tutti gli esseri in identico modo, senza dolore esenza desiderio, in assoluta serenità.94 Essenziale è però, come abbiamo giàvisto, la fede:

Per la via della fede l’uomo ottiene la conoscenza di Dio, come è e chi è, e con la veraconoscenza di Dio entra subito in Lui.95

Come si vede, non si insegna qui la dissoluzione del soggetto umanoin un Assoluto indistinto– come spesso è sostenuto, falsamente, daidifensori della cosiddetta concezione “personale” di Dio–, ma la

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trasformazione dell’esistenza temporale in una vita divina, nella quale sientra

dedicando ogni atto a Dio, mantenendo il cuore fisso in Lui, e cosìsuperando, con la sua grazia, tutte le difficoltà.96

A questo amore, che è conoscenza, e conoscenza che è amore, unasola cosa fa da ostacolo: l’attaccamento all’ego. Rivolgendosi ad Arjuna, ildio gli conferma che:

Se non mi ascolterai a causa dell’attaccamento all’io, andrai inrovina.97

Né si deve pensare che questa dottrina venga presentata come fruttodi mera riflessione filosofica: al contrario, essa deriva, come rivelazione,dall’amore che Dio ha per l’uomo. Il dio conclude infatti il suoinsegnamento rivolgendosi all’eroe con i toni del più caldo affetto:

Ascolta ancora la mia parola suprema, la più segreta di tutte.Siccome mi sei molto caro, ti dirò ciò che è bene per te: fissa su di mel’anima tua, sii a me devoto, rendi a me onore– così verrai a me. Te loprometto, in verità, perché mi sei caro. Metti da parte ogni dovere, cercasolo in me il tuo rifugio; non ti affliggere, perché io ti libererò da tutti imali.98

Dal canto suo, l’uomo deve perciò confidare in Dio e nella suagrazia. Infatti Krishna esorta Arjuna così:

Va’ da Lui, cercando in Lui rifugio con tutto il tuo essere: con la suagrazia conseguirai la pace suprema e l’eterna dimora.99

Non v’è, dunque, alcun dubbio che Coomaraswamy avesse ragionenell’indicare la vicinanza tra induismo e mistica eckhartiana. Neriepiloghiamo, in breve, i punti di contatto, già di volta in volta indicati.100

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Rigoroso primato dell’intelletto, ovvero dello spirito, giacchél’uomo è essenzialmente intelletto, cioè spirito, e tale è anche Dio.101 Infattinoi siamo, nel fondo, unus spiritus, Uno con Dio.102 Comprensioneassoluta, al di là di amore e odio103 – anzi, di ogni passione, nel distacco daogni forma di appropriazione, di egoità, in pace e serenità assolute.104

Uguale animo, sempre, e verso tutti gli esseri, il cui bene ci è caro quanto ilnostro.105 Non occorrono testi sacri: nella fede, nell’amore per Dio, sidiviene la cosa stessa, giacché l’amare conduce a un conoscere che non è ilsapere di una realtà diversa e lontana, ma lo stesso essere.106 Non occorronoopere particolari: una sola opera è necessaria, la rinuncia a se stessi.107 Neldistacco, Dio è sempre presente.108 Non occorre sforzo, ma la grazia di Dio,dalla quale dipende il nostro stesso essere.109

3. Il buddhismo

3.1. L’illuminazione

Il buddhismo nasce nell’ambito della religione tradizionaledell’India, come reazione a una mitologia diventata straripante e allasuperstizione ritualistica. È perciò sostanzialmente corretto, al di là delleovvie differenze, considerarlo una riforma filosofica che in un certo modoinvera il brahmanesimo, ripristinandolo nella sua autenticità.110

Il buddhismo ha infatti in comune con il brahmanesimo il primatodella conoscenza, che è distacco, con la conseguente rimozione di ogniattaccamento. Dal distacco proviene l’esperienza del vuoto e lacomprensione dell’ego come irrealtà, prodotto mentale che generaottenebramento e sofferenza. L’origine della sofferenza è infatti quelpensiero dell’“io” e del “mio” che si elimina togliendo l’illusione dellasussistenza autonoma degli esseri, con il conseguente dualismo.

Di fronte alla malizia dell’egoità, che continuamente risorge, ilbuddhismo insegna soprattutto il “retto rammemoramento”, ovvero avigilare su se stessi, facendo continuamente il vuoto, guadagnando in ogniistante la libertà dell’intelligenza, la piena chiarezza. Questo vigilare evegliare su se stessi111 è anche un risvegliarsi, un’illuminazione, un passaredall’oscurità alla luce:112 dove si fa il vuoto, là giunge infatti subito la luce,

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secondo quella mirabile meccanica divina che abbiamo già incontrato inEckhart.

Frutto di questa luce presente è anche quel distacco dalleaffermazioni del divino (e, in parallelo, dalle sue negazioni), che impediscele fantasie teologiche. Perciò il buddhismo autentico non è affatto ateo,come talvolta si dice, ma il suo apofatismo estremo porta al distacco anchedalle religioni.113

L’esperienza di base dell’illuminazione buddhica è quella di undistacco dalla sensazione e corporeità, nonché dall’elemento psichico ementale, fino al conseguimento di una condizione di perfetta purezza,“luminosità”, dell’intelligenza, cui corrisponde una altrettanto assolutatranquillità, pace, simile alla stoica atarassia.

Nella visione della realtà contemplata dal Buddha, la catena dellenascite e delle morti, ove in ciascuna esistenza si “sconta”– siapositivamente che negativamente– ciò che si è compiuto nell’esistenzaprecedente (karman), deriva dall’ignoranza (a-vidyā), intesa però in modoben più rilevante che semplice ignoranza personale, in un senso quasicosmico, e dalla quale derivano le singole coscienze individuali, sulla basedi quelle “forze co-efficienti” (samskāra) che formano enti ed eventi. Ognipersonalità individua si estrinseca nei suoi “sei ricettacoli”, ovvero i cinquesensi e il mentale che li unisce, per cui è costituita essenzialmente dallasensazione, ovvero da un contatto con il mondo percepito come realtàesterna, nei confronti della quale sta fatalmente in rapporto di attaccamento,brama.

Quest’ultima è la causa del dolore dell’esistenza e, insieme, laradice dell’incessante rinascita. Per estinguere il dolore, e per usciredall’infernale ciclo del samsāra, occorre dunque comprenderla nelle suecause e, una volta compresa, liberarsene. Comprenderla e liberarsene fannoun tutt’uno, giacché anche nel buddhismo il pensiero vero non è semplice“ragionamento” dipendente da un fine, bensì penetrazione intuitivadell’intelligenza assolutamente distaccata, e la conoscenza non è perciòcontatto della mente con una realtà pensata esteriore e lontana, marealizzazione diretta (bhāvana) di una identità con la cosa stessa, ossia un“divenire [questo proprio il significato etimologico di bhāvana] la cosa

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stessa”. Ciò accomuna il buddhismo alle grandi esperienze spirituali, daPlotino a Eckhart, ivi compresa, ovviamente, la Bhagavadgītā.

Il racconto del risveglio, dell’illuminazione, cui evidentemente ilnobile Siddhârta giunse per gradi, attraverso una riflessione che noichiameremmo senz’altro filosofica, si conclude comunque con ladichiarazione di una liberazione, di una salvezza, di una “redenzione”:114

Con questo animo purificato, saldo, terso, schietto, rischiarato nella mente, duttile, compatto,incorruttibile, io rivolsi l’animo alla cognizione dell’estinguersi delle illusioni. “Questo è il dolore”,compresi secondo realtà. “Questa è l’origine del dolore”, “questa è la fine del dolore” […] “questa èl’illusione, questa l’origine dell’illusione, questa la fine dell’illusione, questa la Via per la finedell’illusione”, compresi secondo realtà. Così riconoscendo, così vedendo, il mio animo fu redentodall’illusione del desiderio, dall’illusione dell’esistenza, dall’illusione dell’ignoranza.115

L’esperienza dell’illuminazione è, dunque, quella della fine di unillusione, ossia esperienza del riconoscimento di una realtà fondamentale,quella del dolore e della sua origine, insieme alla via per estinguerla.L’illusione del desiderio, che deriva da quella dell’esistenza, ossia, in ultimaanalisi, dall’ignoranza, può essere dissipata solo dalla conoscenza. Nessunvisionarismo, dunque, nessuna rivelazione di ordine celeste– che, anzi,saranno oggetto di specifico rifiuto e confutazione –: è la conoscenza che“salva”.

Incontrando a Benares gli antichi compagni di ascesi, Siddhârta,divenuto il Buddha, rivolge loro quel sermone che costituisce l’inizio dellapredicazione– il celeberrimo discorso che mette in moto la “ruota dellaLegge” (Dharmacakra). Esso contiene l’enunciazione di quella “Via dimezzo”, ossia equidistante dagli estremi di un’inutile mortificazione e dauna vita dedita a illusorii piaceri, che si deve percorrere per giungere,attraverso un “ottuplice sentiero”, alla conoscenza delle quattro “nobiliverità”, e così all’illuminazione, alla liberazione, al nirvāna:

Una volta, quando il Beato si trovava a Benares, nel parco diIsipatana, nel giardino delle gazzelle, così parlò al gruppo dei cinquemonaci:

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“Questi due estremi, o monaci, non dovrebbero essere seguiti da unoche abbia lasciato la vita nel mondo: dedizione ai piaceri dei sensi, che èbassa, rozza, volgare, ignobile e inutile, e infliggersi tormenti, il che èdoloroso, ignobile e privo di utilità.

O monaci, la Via di mezzo riconosciuta dal Tathāgata,116 dopo averevitato gli estremi, produce la visione, produce la conoscenza, conduce allaquiete, all’intuizione, all’illuminazione, al nirvāna.

Ma quale è, o monaci, quella Via di mezzo riconosciuta dalTathāgata che produce la visione, produce la conoscenza, conduce allaquiete, all’intuizione, all’illuminazione, al nirvāna?

Solo questo nobile ottuplice sentiero, e cioè:Retta visioneRetto pensieroRetta parolaRetta azioneRetta condotta di vitaRetto sforzoRetto rammemoramentoRetta concentrazione.Questa è invero, o monaci, la Via di mezzo riconosciuta dal

Tathāgata, che produce la visione, produce la conoscenza, conduce allaquiete, all’intuizione, all’illuminazione, al nirvāna.

Questa, o monaci, è la nobile verità circa il dolore: nascita è dolore,malattia è dolore, morte è dolore, unione con ciò che non si ama è dolore,separazione da ciò che si ama è dolore, non conseguire ciò che si desidera èdolore: in breve, i cinque elementi117 dell’attaccamento al mondo sonodolore.

Questa, o monaci, è la nobile verità circa l’origine del dolore: labrama che cagiona la rinascita è accompagnata da appassionato piacere,poiché trae piacere da questo o da quell’oggetto, cioè a dire, laconcupiscenza, la sete di vivere e la sete di annientarsi.

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Questa, o monaci, è la nobile verità circa la cessazione del dolore: lacompleta cessazione, la rinuncia, l’abbandono di questo bramare, ilcompleto allentamento della sua presa e il completo distacco da esso.

Questa, o monaci, è la nobile verità circa la via che conduce allacessazione del dolore: solo questo ottuplice sentiero, e cioè la retta visione,il retto pensiero, la retta parola, la retta azione, la retta condotta, il rettosforzo, il retto rammemoramento, la retta concentrazione.118

Come è chiaro dal testo, le “verità” essenziali concernono il dominiopressoché universale del dolore nell’esistenza umana e la sua origine, che èil desiderio, la brama, l’attaccamento– in tutte le sue molteplici e anchecontraddittorie forme. Subito dopo, la consapevolezza che il modo pervincere il dolore è la fine completa del desiderio, dell’attaccamento, ovveroil totale distacco, il quale si ottiene con un cammino a più vie, enunciate inordine di progressiva importanza e difficoltà.

I primi “sentieri”, infatti, sanciscono il dovere di tenere una condottamoralmente ineccepibile, sia sotto l’aspetto esteriore, sia sotto quellointeriore– in pensieri, parole, opere, insomma, come si direbbe inlinguaggio cristiano–, secondo regole ben precise, con le quali si instaurauna disciplina e si creano abitudini di vita che favoriscono la calmainteriore, la serenità, la pazienza, che sono le condizioni necessarie allariflessione, alla meditazione.

Per “retta visione” si deve intendere, infatti, il guardare la realtà cosìcome essa si presenta, ovvero senza sovrammetterci tendenze personali; per“retto pensiero” il controllo costante delle rappresentazioni concettuali, chedevono essere adeguate alla realtà; per “retta parola” la corrispondenza traessa e l’oggetto enunciato. Fin qui si potrebbe facilmente riportarel’insegnamento del Buddha a quello, ad esempio, dello stoico Epitteto,119

come a dottrine ben presenti nella filosofia occidentale si potrebberoriportare i “sentieri” che seguono: la “retta azione”, che consiste nell’agirein modo corretto quando e quanto sia necessario; la “retta condotta di vita”,per cui si soddisfano le esigenze del corpo e della vita fisica in modo chenon contrastino con lo scopo della liberazione; il “retto sforzo”, ossial’adeguamento dell’azione all’importanza del fine da perseguire. Anche qui,infatti, non siamo lontani dall’etica greca della sofrosyne, della temperanza,

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o, più specificamente, dalla concezione aristotelica della virtù etica come“giusto mezzo”.

Ma questo retto comportamento è, in fondo, solo propedeuticoall’esercizio della riflessione: è infatti quest’ultima ad avere la massimaimportanza, tale da fare del buddhismo essenzialmente una teoria e unaprassi della meditazione, in una direzione e con una profondità spessoignote al mondo occidentale.

Il nocciolo della meditazione buddhista si trova infatti in quellapratica del “retto rammemoramento” che è indicato come settimo sentiero.Si tratta, con esso, di acquisire piena coscienza di ciò che si fa e si pensa,fin nei minimi dettagli, fino a giungere a consapevolezza che gli eventi“esteriori” della realtà sono costituiti in effetti di pensiero. Come recitano iversi iniziali del Dharmapada:120

1. Gli elementi della realtà sono predeterminati dai pensieri, sonocumuli di pensieri, sono costituiti da pensieri.

Se un uomo parla o agisce con mente oscurata, il dolore lo seguecome la ruota segue il piede dell’animale che la tira.

2. Gli elementi della realtà sono predeterminati dai pensieri, sonocumuli di pensieri, sono costituiti da pensieri.

Se un uomo parla e agisce con mente chiara, la gioia lo segue comel’ombra che mai abbandona.

Perciò è fondamentale lo sforzo dell’attenzione, della vigilanza,ovvero della continua presenza a se stesso, cui sono dedicati i versi delsecondo capitolo del Dharmapada:

21. La vigilanza è la via per non morire, la disattenzione è il sentiero della morte.

I vigilanti non muoiono, i disattenti sono come morti.

22. I saggi che chiaramente conoscono la vigilanza si rallegrano nella vigilanza, lieti nel cibodegli uomini nobili.

23. Questi uomini perseveranti, concentrati, coraggiosi, nel possesso della Disciplinaconseguono il nirvāna, incomparabile perfetta pace.

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24. Chi è riflessivo, possessore del rammemoramento, che compie azioni rette, che vivesecondo la Disciplina, nella vigilanza e nella temperanza, accresce il proprio valore.

25. Attraverso la riflessione, la vigilanza, la temperanza, il controllo, il saggio si costruisceun’isola che i flutti non sommergeranno.

26. Gli sciocchi, gente di poco intelletto, praticano la disattenzione. Il saggio invececustodisce la vigilanza come bene supremo.121

3.2. Conoscenza e distacco

Non v’è dubbio che qui il criterio mistico-speculativo essenziale,ovvero quello della conoscenza che distacca, sia applicato con estremaradicalità. È il criterio che abbiamo già incontrato nella Bhagavadgītā, eche, in Occidente, rimanda innanzitutto a Spinoza: la passione cessa diessere tale quando ce ne facciamo idea chiara e distinta, e in questo modo sipassa, senza sforzo, dalla servitù della passione (che è anche,etimologicamente, patire) alla libertà dello spirito.122 Ma nel non-attaccamento neppure alle condizioni più nobili e positive, nella certezza didover combattere anche quella che gli autori cristiani chiamano gulaspiritualis, ovvero la concupiscenza, il legame ai godimenti di ordine“spirituale”, non possiamo non pensare ancora una volta a Meister Eckhart.

L’insegnamento del Buddha, infatti, è innanzitutto una lotta controlo psichico, in qualsiasi modo si presenti, e l’estinzione dello psichismo è ilrisultato cui vuole pervenire in ultima analisi la meditazione. Sia nellaforma delle successive, purificatorie, prese di coscienza riguardanti il corpo,i fattori psichici, i contenuti mentali– che tutti vengono compresi per quelloche sono: impermanenti, insignificanti, dolorosi–, sia nella forma della“piena concentrazione” rivolta dal pensiero al pensiero stesso, per cui vienemeno il pensiero logico-discorsivo, fondato sulla contrapposizionesoggetto/oggetto, e, insieme, svaniscono i fattori emotivi e si accede a unostato di quieta felicità, al di là della contrapposizione stessafelicità/infelicità,123 si tratta comunque di pervenire a quella condizione disvuotamento dallo psichismo, a quel “vuoto” (sūnya) insieme noetico edemotivo, che è detto nirvāna, estinzione:

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Non v’è fuoco pari alla passione, non vi è tenebra pari all’ira, non v’è dolore pari all’essercomposto di aggregati psichici (skandha), non v’è felicità pari alla calma interiore.

La fame è la peggiore malattia, le predisposizioni psichiche (samskāra) le peggiori sventure.Chi ha riconosciuto ciò secondo realtà, prova suprema felicità nel nirvāna.124

È evidente perciò che il nirvāna non va pensato come unacondizione, uno “stato” da conseguire alla stregua di uno stato d’animo, dicui l’“io” possa fruire. Si deve invece comprenderne la valenzaessenzialmente conoscitiva: l’estinzione è conoscenza, proprio come, percontro, “v’è un’impurità che è la peggiore delle impurità: l’ignoranza(avidyā), suprema impurità”.125 Sotto questo profilo, perciò, l’esperienzadel nirvāna, nel cui “vuoto” noetico viene meno la distinzione soggettoconoscente/oggetto conosciuto, è pur sempre un’esperienza di unità,giustamente paragonabile a quella che nei sistemi ontologici indiani vieneconcepita come unione del Sé individuale (ātman) con lo spirito universale(brahman).126

Il significato mistico-speculativo, rivolto all’Uno, del buddhismo, èconfermato anche da due elementi assolutamente caratterizzanti in talsenso. Il primo è il superamento dell’egoità, con lo svanire del concettostesso di “io”, dissolto nell’impermanenza127 degli aggregati che per cosìdire lo compongono, tanto che si può definire davvero monaco “colui chenon si identifica con il proprio nome e forma (nāma-rūpa), che non siaffligge per ciò che non è più”.128 La dissoluzione dell’ātman, ovvero diquella che noi chiameremmo anima sostanziale, soggettiva, risolta negliskandha, corrisponde a quella dissoluzione dell’anima che riscontriamo inEckhart, e che obbedisce sia all’impossibilità di conoscerla nella suastraordinaria, indicibile profondità, sia all’impossibilità di trovare unsuppositum, un supporto sostanziale, a quel legame che non c’è più, a quellevolizioni che sono scomparse– e anche a quel pensiero che è scomparsoinsieme a esse.

Il secondo, ancor più rilevante e definito (dato che il primo a voltecompare, sia pur sempre contraddittoriamente, nelle mistiche dell’amore“unitivo”), è il superamento di quella opposizione bene/male che è fruttodel legame, dell’attaccamento, e con ciò del dualismo che, per forza, neconsegue. Ancora nel Dharmapada possiamo leggere infatti:

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39. Per colui il cui pensiero non vaga, la cui mente non è trascinata, che ha abbandonatobene e male, per colui che è vigilante, non esiste paura.

267. Chi, avendo da sé rigettato il bene e il male, in condizione di purezza, operi nel mondocon mente esperta, costui è detto monaco.

412. Colui che ha abbandonato entrambi i legami, quello del bene e quello del male, che piùnon soffre, che non è preso da passione, che è puro, costui è detto brāhmano.

Universale comprensione, universale distacco, conducono infattil’uomo spirituale, l’uomo libero, al di là del bene e del male, al di sopradella contraddizione e degli opposti. Per quanto ciò si possa vedere siaall’interno di un Tutto che è buono, sia all’interno di una concezione di unassoluto nulla, si tratta in effetti della medesima esperienza conoscitiva, didistacco e pace, come è comprovato dall’identico esito “etico”, ovvero dalcomportamento che ne deriva. L’uomo libero, l’uomo nobile, prova infatticompassione (kārunā) per tutti gli esseri, partecipando intimamente allagioia e al dolore di tutti; benevolenza (maitrī) verso tutti; letizia econsiderazione della bontà di tutte le cose (muditā);129 equanimità nelconsiderare le vicende in cui siamo coinvolti (upeksā).130

Nella sua veste più autentica, originaria, prescindendo dalle milleforme in cui si è evoluto, il buddhismo è, dunque, proprio come perEckhart,131 essenzialmente una dottrina del distacco, e, in stretto rapportocon quello, professa innanzitutto la dottrina della anattā, ovverodell’impermanenza, della non-sostanzialità, cioè della natura relazionaledelle cose che il maestro domenicano esprime dicendo che le creature nonhanno un essere– anzi, sono un solo essere.132

Appartiene infatti essenzialmente al buddhismo la comprensionedell’indissolubile unità di tutti gli esseri e la dimostrazionedell’impossibilità della sussistenza di un soggetto e di un “io” separato. Inun celeberrimo testo, dialogando col fedele discepolo Ananda, Buddhadescrive la relazione che caratterizza ogni aspetto della realtà:

“Ananda, tra gli elementi interconnessi che hanno fatto sì che la ciotola esista, vedidell’acqua?”. “Certo, signore. Il vasaio ha avuto bisogno di acqua per impastare l’argilla e modellarela ciotola.” “Dunque l’esistenza della ciotola dipende dall’esistenza dell’acqua. Inoltre, Ananda,vedi l’elemento fuoco?” “Certo, signore. È stato necessario il fuoco per cuocere l’argilla, dunque

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vedo in essa fuoco e calore.” “Che altro vedi?” “Vedo aria, senza la quale il fuoco non si sarebbeacceso e il vasaio non avrebbe respirato. Vedo il vasaio e l’abilità delle sue mani. Vedo la suacoscienza. Vedo il forno e la legna che lo ha alimentato. Vedo la pioggia, il sole e la terra che hannofatto crescere gli alberi. Signore, vedo migliaia di elementi interconnessi che hanno concorso allaformazione di questa ciotola.” “Eccellente, Ananda! Contemplando questa ciotola si vedono in essagli elementi interdipendenti che le hanno dato origine. Questi elementi, Ananda, sono all’interno eall’esterno della ciotola. Un elemento è la tua stessa coscienza. Se tu togliessi il calore per restituirloal sole, se restituissi l’argilla alla terra, l’acqua al fiume, il vasaio ai genitori e la legna alla foresta,esisterebbe ancora la ciotola?” “No, signore. Restituendo alla loro origine gli elementi che hannoconcorso alla formazione della ciotola, questa non esisterebbe più.”133

Come nel vaso d’argilla è presente l’acqua che è servita a farlo, laterra di cui è costituito, ecc., fino all’aria e alla luce del sole che hapermesso la vita, e dunque il crescere e il farsi di tutti gli esseri, così è perogni essere e, ovviamente, per l’uomo: noi non siamo un essere isolato,autosussistente, ma qualcosa che è in rapporto con tutto il cosmo, dalla lucedel sole al cibo che mangiamo, agli altri uomini che entrano in rapporto coni nostri sensi e ci modificano, ci rendono quel che di volta in volta siamo.

3.3. La genesi interdipendente

Fondamentale nel buddhismo è la dottrina della genesiinterdipendente (paticcasamuppāda),134 l’articolato modo con cui sidescrive il condizionamento universale, su cui si impernia la legge delkarman, ovvero dell’atto e delle conseguenze che esso portainesorabilmente con sé. È costituita da dodici fattori, di cui ciascuno ècondizione del susseguente, in modo che, esistendo o non esistendo esso,esiste o non esiste anche l’altro.

Il primo135 di questi fattori è l’ignoranza, o nescienza (avidyā), laquale è duplice, vale a dire non conoscenza o cecità (ignoranza delle quattronobili verità, dell’impermanenza degli aggregati, ecc.) e falsa conoscenza (icosiddetti quattro malintesi, viparyāsa, consistenti nel prendere per eternoquello che è transitorio, per piacevole quello che è doloroso, per puro quelloche è impuro, per un sé o entità personale quello che ne è sprovvisto).

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Condizionati dall’ignoranza sono i coefficienti (samskāra) oformazioni karmiche, consistenti negli atti corporei, vocali e mentali. Questiatti sono di tre specie: moralmente buoni, cattivi o neutri. Questi ultimisono peculiari a certe forme estatiche.

Condizionata dai coefficienti è la coscienza (vijñāna). La coscienzaè qui la coscienza che appare nel seno della madre al momento dellaconcezione. Questa coscienza è il risultato degli atti da noi compiuti inpassato.

Condizionato dalla coscienza è il “nome e forma” (nāma-rūpa),ossia l’organismo psicofisico costituito dai cinque aggregati, di cui il primoè materiale e gli altri quattro mentali.136

Condizionati dal “nome e forma” sono le sei basi dei sensi, ossiaocchio, udito, ecc.

Condizionato dalle sei basi è il contatto, costituito propriamente dalconcorso dell’organo dei sensi, dell’oggetto e della coscienza (ossia dai treelementi precedenti).

Condizionata dal contatto è la sensazione affettiva (vedanā), la qualepuò essere piacevole, spiacevole o neutra.

Condizionata dalla sensazione affettiva è la sete, desiderio o brama,di appropriarsi dell’oggetto piacevole e di liberarsi da quello spiacevole.

Condizionata dalla sete è l’appropriazione (upādāna), la quale puòessere di quattro specie: appropriazione o attaccamento a oggetti sensibili,attaccamento a false opinioni, attaccamento a voti e a riti, attaccamentoall’idea che esiste un sé, un’entità personale.

Condizionata dall’appropriazione è l’esistenza (bhava), o nuovaesistenza.

Condizionata dall’esistenza è la nascita (jāti), la quale abbracciatutto il periodo prenatale, dalla concezione al parto.

Condizionate dalla nascita sono vecchiaia e morte.Come si vede, il discorso del buddhismo si muove qui sia a livello

ontologico, sia a livello gnoseologico, ovvero concerne tanto la realtàquanto la mente e la conoscenza dell’uomo– ben persuaso, del resto, che laprima dipende dalla seconda quanto la seconda dalla prima. Di

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conseguenza, l’infondatezza dell’una è anche l’infondatezza dell’altra,l’illusorietà dell’una l’illusorietà dell’altra. Di questa illusorietà dà unaserrata dimostrazione il capolavoro di Nāgārjuna, le Stanze del cammino dimezzo. Tale dimostrazione, peraltro, presentando se stessa come assoluta,sancirebbe la possibilità di un sapere definitivo, e smentirebbe perciòl’asserita illusorietà, per cui deve limitarsi alla pars destruens, allaconfutazione delle dogmatiche, senza nulla affermare:

Se io avessi una qualche tesi, senza dubbio sarei vittima di questi controsensi. Ma io non honessuna tesi, e quindi non mi si può imputare nessun controsenso.137

La consapevolezza del condizionamento, e quindi della relatività ditutte le opinioni, che così vengono eliminate, non è peraltro una nuovaopinione: chi afferma questo è davvero “inguaribile”.138

Accanto alla dottrina della genesi interdipendente, un ruoloaltrettanto rilevante lo ha quella degli aggregati (khandha). Da essa si ricavache quello che noi chiamiamo riduttivamente “soggetto”, “individuo”,“persona”, è in realtà una formazione complessa, una struttura articolata epolivalente, costituita da cinque tipi di aggregati:139

1. aggregato delle forme materiali, che comprende i quattro elementitradizionali (acqua, aria, terra, fuoco), i cinque organi di senso e le cinqueforme sensibili a essi relative, oltre alla mente, che ha per oggetto i pensieri;

2. aggregato delle sensazioni, piacevoli o spiacevoli, o neutre,prodotte dal contatto di ciascun organo di senso con le forme a essocorrispondenti, ivi comprese quelle mentali;

3. aggregato delle percezioni, caratterizzato dalla consapevolezzadelle sensazioni, la quale è sempre associata a un atteggiamento didesiderio, o di avversione, o di indifferenza;

4. aggregato dei condizionamenti– dalle condizioni biologiche aquelle genetiche, da quelle psicologiche a quelle sociali o culturali– capacidi determinare uno stato o un’attività vitale;

5. aggregato della coscienza, ossia della consapevolezza che tienepresenti i nessi che legano se stessa agli altri quattro aggregati, e questi traloro.

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È importante notare che ciò che lega le singole componenti diciascun gruppo di aggregati, e ciascun gruppo di aggregati all’altro, non èun rapporto di semplice giustapposizione, ma una relazione di implicazionireciproche, per cui l’aggregato della coscienza non è mai qualcosa di“puro”, non può pretendere di avere un’esistenza autonoma, incondizionata.

Dunque, in generale ogni realtà che pretenda di porsi come un “sé” ècostretta a riconoscere che, per poterlo fare, deve ricorrere al confronto conciò che è diverso da sé, ovvero fondarsi su ciò che essa non è.140 Inparticolare, poi, il piccolo sé, l’anima o ātman individuale, non può averecoscienza di sé come entità determinata, relativa e transitoria, se non inriferimento all’ātman universale, assoluto ed eterno. Ma quest’ultimo, a suavolta, è concepibile solo in relazione alle sue infinite manifestazioni, senzale quali non potrebbe venir colto né dai sensi né dal pensiero.

Gli elementi della realtà non sono, dunque, soltanto connessi tra diloro, ma ciascuno di essi è costituito da connessioni, ovvero la strutturastessa del reale è relazionale. Con ciò non si distrugge ogni realtà, ma solola pretesa che ogni realtà ha di considerarsi assoluta, irrelata.

Ed è proprio la consapevolezza della natura insostanziale (anattā) eimpermanente (anicca) della realtà a liberare dal dolore, a “salvare”. Infatti,anche nel buddhismo la salvezza è il distacco, frutto della conoscenza,come, in parallelo, il male è l’ignoranza, ciò che produce attaccamento.

3.4. La liberazione

Questa riflessione dischiude la possibilità di liberarsi dallasofferenza, che è causata sempre e solo dall’ignoranza. La conoscenza, laconsapevolezza, è perciò la chiave della liberazione, perché, come si èdetto, essa distacca.

Questa consapevolezza, questa chiarezza, è una vera e propriailluminazione, con tutta la serenità che essa porta con sé:

Sorrise e levò lo sguardo a una foglia stagliata contro il cielo azzurro, la cui puntaondeggiava verso di lui come se lo chiamasse. Osservandola in profondità, il Buddha vi distinsechiaramente la presenza del sole e delle stelle; perché senza sole, senza luce e senza calore, quella

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foglia non sarebbe esistita. Questo è in questo modo, perché quello è in quel modo. Anche le nuvolevide nella foglia, perché senza nuvole non c’è la pioggia, e, senza pioggia, quella foglia non potevaesistere. E vide la terra, il tempo, lo spazio, la mente: tutti presenti nella foglia. In verità, in quelmomento preciso, l’universo intero si manifestava nella foglia. La realtà della foglia era un miracolostupefacente.

Generalmente si pensa che una foglia sia nata a primavera, ma ilBuddha vide che essa esisteva già da tanto, tanto tempo nella luce del sole,nelle nuvole, nell’albero e in se stesso. Comprendendo che quella foglia nonera mai nata, comprese che anche lui non era mai nato. Entrambi, la foglia elui stesso, si erano semplicemente manifestati. Poiché non erano mai nati,non potevano morire. Questa visione profonda dissolse le idee di nascita emorte, di comparsa e scomparsa; e il vero volto della foglia, assieme al suostesso volto, divennero manifesti. Vide che è l’esistenza di ciascunfenomeno a rendere possibile l’esistenza di tutti gli altri fenomeni. L’unocontiene il tutto, e il tutto è contenuto nell’uno.141

Sotto questo profilo il divenire, il non-essere, non è più oppostoall’essere, come l’attaccamento fa opinare.

Il Buddha comprese che l’impermanenza e l’assenza di un sé sono le condizioniindispensabili alla vita. Senza impermanenza, senza mancanza di un sé, nulla potrebbe crescere edevolversi. Se un chicco di riso non avesse la natura dell’impermanenza e del non-Sé, non potrebbetrasformarsi in una piantina. Se le nuvole non fossero prive di un sé e impermanenti, non potrebberotrasformarsi in pioggia. Senza natura impermanente e priva di un sé, il bambino non potrebbediventare un adulto.142

Fondamentale è dunque la consapevolezza che i viventi soffronoperché non comprendono che partecipano della stessa natura di tutti gliesseri. Prigionieri dell’ignoranza, gli uomini dividono la realtà in soggetto eoggetto, io e altri, esistenza e non esistenza, nascita e morte, e da ciò derivala sofferenza del desiderio, dell’attaccamento.

Buddha coglie così il legame profondo tra amore e distacco, oveamore non è la passione, come la comune ignoranza e l’avidità suppongono,ma terminus et finis omnis passionis, comprensione e com-passione:

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Comprensione e amore sono un’unica cosa. Senza comprensionenon vi può essere amore. Il carattere degli uomini è il prodotto di condizionifisiche, emotive e sociali. Questa comprensione ci impedisce di odiareanche chi agisce crudelmente e ci spinge a fare qualcosa per cambiarequelle condizioni. La comprensione origina compassione e amore, i quali aloro volta determinano la giusta azione. Per poter amare bisogna primacomprendere, ed ecco che la comprensione si rivela la chiave dellaliberazione.143

Alla vita è necessario l’amore, ma non l’amore fondato sullalussuria, la passione, l’attaccamento, la discriminazione e il pregiudizio […]Dipendendo per natura dai concetti di “io” e “mio”, questo amore èimprigionato nell’attaccamento e nella discriminazione […] Poiché èirretito nell’attaccamento, teme i mali a cui sono esposte le persone amate ese ne preoccupa prima che accadano. Poi, quando le disgrazie vengono, lasofferenza è tremenda. L’amore fondato sulla discriminazione genera ilpregiudizio, ovvero indifferenza e perfino ostilità nei confronti di coloroche escludiamo dal nostro amore. Attaccamento e discriminazione sonocause di sofferenza per noi stessi e per gli altri […].

L’amore di cui tutti gli esseri sono assetati è la gentilezza (maitri) ela compassione (karuna). Maitri è l’amore che opera per la felicità altrui,karuna è l’amore che opera per alleviare l’altrui sofferenza. Maitri e karunanon pretendono nulla in cambio. Gentilezza e compassione non sonolimitate ai genitori, al coniuge, ai figli, ai parenti, alla casta e al paese, ma siallargano a tutta l’umanità e a tutti gli esseri. Maitri e karuna nonconoscono discriminazione tra “mio” e “non mio”. Senza discriminazione,non c’è attaccamento.144

Non v’è dubbio che questi siano anche gli esiti della riflessione diEckhart. In particolare, l’esperienza di compassione del buddhismo, per cuitutti gli esseri sono ugualmente cari, coincide con la finedell’appropriazione, con cui si partecipa all’universale Logos, essenzacomune dell’uomo.

E così la carità procede in modo del tutto naturale, non forzoso, dalpensarsi in relazione essenziale con tutte le creature, il cui bene ti diventa

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caro come il tuo; altrimenti è innaturale, unilaterale e, in ultima analisi,inefficiente. Dove c’è il pensiero di un soggetto separato e separante, lacarità è forzosa, ma se pensi che tutte le creature siano un unico essere,allora ti è chiaro che difendendo gli altri difendi te stesso, come difendendote stesso difendi gli altri.

Una riflessione onesta vede bene che il principio di individuazione,che oppone il sedicente “io” agli altri, è la causa di ogni egoismo, ma ne èanche, insieme, il risultato. L’intelligenza veramente orientata all’Assolutocoglie infatti il legame profondo che, da un lato, tiene insieme il pensierodell’io, quello del male, e quello della distinzione tra le cose; dall’altro, percontro, l’emergere dell’universale Logos, il non pensare il male, lacomprensione che tutto è Uno, nel più puro senso eracliteo:145

La nascita e la morte di ogni dharma sono interrelate alla nascita e morte di tutti gli altridharma. L’uno contiene i molti, e i molti contengono l’uno. Senza l’uno, non possono esservi imolti. Senza i molti, non può esservi l’uno. Ecco la meravigliosa verità della genesi interdipendente.Vedendo in profondità la natura dei dharma, trascenderete ogni ansia nei confronti di nascita emorte.146

In lucida, stringata sequenza, Buddha indica l’origine dell’errore edel dolore:

Il concetto di morte c’è perché c’è il concetto di nascita. Entrambe sono visioni errate,radicate nella falsa idea di un sé. La falsa idea di un sé c’è perché c’è attaccamento. L’attaccamentoc’è perché c’è desiderio.147

Anche qui il lettore occidentale non può fare a meno di pensare,innanzitutto, a Eraclito:

È difficile combattere contro il desiderio: ciò che vuole, infatti, lo compra, pagandolo conl’anima.148

Infatti col e nel desiderio si perde l’anima– nel senso che si perdel’equilibrio e la consapevolezza del Logos.

Anche su questo punto la consonanza tra il buddhismo ed Eckhart ètotale: il distacco libera da ogni legame, ovvero dissolve ogni contenuto,

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scioglie e libera da ogni dogmatismo, da ogni presunto sapere, che invecemette in divisione:

Tutti i concetti, come esistenza e non esistenza, nascita e morte, uno e molti, creazione edistruzione, venuta e andata, contaminato e immacolato, aumento e diminuzione, sono creati dallapercezione e dalla discriminazione mentale. Dal punto di vista dell’Assoluto incondizionato, il verovolto della realtà non può essere imprigionato nelle limitazioni dei concetti.

Praticate la contemplazione, che dissolve ogni idea di esistenza enon esistenza, nascita e morte, uno e molti, creazione e distruzione, venutae andata, contaminato e immacolato, aumento e diminuzione, e otterrete lalibertà.149

In particolare, sono da “sciogliere” i nodi legati ai concetti che piùtengono legata, prigioniera, l’intelligenza: quelli di essere e non essere.

Essere e non essere sono concetti che nulla hanno a che vedere con la realtà. La realtàtrascende i confini tracciati dai concetti […] Falsa visione è il cadere in una di queste due idee,dell’essere e del non essere. Vedendo la vera natura della realtà, non aderiremo più a tali opinioni.150

Sotto questo profilo, Buddha non insegna il nichilismo– comespesso gli veniva rimproverato –, bensì il superamento dell’opinione e, inparticolare, il superamento delle opinioni contrapposte dell’essere e del nonessere. Come recita il poeta mistico:

Le opinioni sono sabbia: stolto chi vi edifica!

Su opinioni ti basi: come puoi esser saggio?151

Buddha insegna a superare i confini della percezione e delladiscriminazione mentale, in forza della quale,

non vedendo la natura indipendente e vuota di tutti i dharma, le persone comuni lipercepiscono come fenomeni indipendenti e separati. Questo esiste indipendentemente da quello,questo è separato da quello. Considerare così i dharma equivale a servirsi della spada delladiscriminazione per tagliare a pezzi la realtà.152

Come l’uomo distaccato, “povero”, del sermone eckhartiano, ilBuddha non ha dottrine da affermare, “niente sa”:

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Credere in una dottrina significa perdere la libertà. Diventando dogmatici, si pensa che lapropria dottrina sia l’unica giusta e si accusano le altre di eresia. Dalla ristrettezza di vedute nasconodispute e conflitti capaci di espandersi all’infinito, non solo sprecando tempo prezioso, maprovocando a volte una guerra. L’attaccamento alle opinioni è il massimo ostacolo al sentierospirituale. Legandoci a opinioni ristrette, ne veniamo irretiti a tal punto che chiudiamo la porta allaverità.153

Ecco un esempio:

Un asceta andò dal Buddha e gli chiese: “O Gotama, esiste il Sé?”,ma a questa domanda il Buddha rimase in silenzio. Allora l’asceta chiese:“O Gotama, non esiste il Sé?”, e per la seconda volta il Buddha non rispose.Perciò l’asceta se ne andò.

Appena questi si fu allontanato, Ananda chiese al Buddha: “Signore,perché non avete risposto alle domande dell’asceta?”.

Il Buddha rispose: “Ananda, se alla prima domanda avessi rispostoche sì, il Sé esiste, questo avrebbe significato essere d’accordo con quegliasceti e brahmana che sono eternalisti. Se alla seconda domanda avessirisposto che no, il Sé non esiste, questo avrebbe significato essere d’accordocon quegli asceti e brahmana che sono nichilisti”.154

Ove, evidentemente, eternalismo e nichilismo sono due opinioni, epoi due scuole, due sètte, altrettanto limitate.

Ricordiamo che, ancora una volta, parte dal filosofo greco del Logosla polemica contro l’attaccamento alle opinioni, “giochi di fanciulli”, fruttodi “mal caduco”,155 ma– quel che è ancor peggio– frutto di menzogna, tantopiù grave quando coinvolge il divino, e che richiama la punizione dellafiglia di Dio, la Giustizia:

Anche colui che alla prova è il più stimato conosce e conserva solo opinioni, ma invero Dikecoglierà sul fatto gli artefici e i testimoni di menzogne.156

Proprio come l’uomo distaccato di Eckhart, il Buddha “nientevuole” e pratica infatti la appanihita, ovvero l’assenza di fine, non

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perseguendo nulla, ma vivendo nel presente, davvero “senza perché”.Infatti:

Se ogni dharma è contenuto in un altro dharma, essendo essi in relazione reciproca, perchésfuggirne uno per inseguirne un altro?157

E, ancora come l’uomo distaccato, il Buddha gode della grande,indistruttibile, serenità, che deriva dalla meditazione, dalla consapevolezza,con cui si guarisce ogni ansia, pena e disperazione, e si esperimenta lameraviglia della vita, goduta nel presente come eterno:

Dimorando con diligenza nella presenza mentale e osservando iprecetti, un bhikkhu [monaco] sviluppa la concentrazione, che usa perilluminare tutti i dharma. Proiettando in profondità questa luce, vede lanatura impermanente e priva di un sé dei dharma. Vedendo la naturaimpermanente e priva di un sé del dharma, non si fa più legare da alcundharma. Egli recide allora le catene che tengono in schiavitù gli uomini: lecatene dell’avidità, dell’odio, del desiderio, della pigrizia, del dubbio, dellafalsa idea di un sé, delle visioni estremistiche, delle visioni errate e dellevisioni che esigono inutili proibizioni. Recidendo tali catene, il bhikkhuperviene alla liberazione e alla vera libertà.158

Per cui il Buddha può concludere che:

La liberazione è una grande felicità.159

In comune con Eckhart il buddhismo ha dunque il primato dellameditazione, ricercando, con l’onestà dell’intelligenza, nel profondo di noistessi e non altrove, la liberazione, ovvero quella “salvezza” altrimentiimpossibile. Non v’è alcun bisogno di rimandare ad altro: il rimando è per ilBuddha una tentazione– quello che nei termini teologici occidentali sipotrebbe chiamare “peccato originale”–,160 giacché la liberazione si trovadentro l’impermanenza del momento che si sta, nel presente, vivendo, senzaaggrapparsi a nessun fuori e a nessun oltre. Il rimandare a un Dio-altro è peril Buddha una grande illusione– anzi, una grande tentazione.161

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Come il Buddha si astiene dal pronunciarsi su una “esistenza diDio” che, in quanto alterità, non ci interessa affatto, così Eckhart insegna adandare oltre Dio, rimuovendo ogni pretesa di possesso del divino e ognipretesa conoscenza teologica, che è soltanto menzogna. Il concetto-problema di Dio come “altro” svanisce infatti allo svanire del desiderio,dell’attaccamento, di cui rappresenta proprio la forma suprema: perciòl’uomo veramente distaccato fa il vuoto in se stesso, non lasciando alcunchédi “proprio”.162

Coloro che illusoriamente pensano “privo di aggregati andrò nelnirvāna”, “il nirvāna sarà mio”, son vittima del grande demone di unpensiero illusorio basato sull’io e sul mio.163

Invece tutto è, esiste, è bello e fonte di gioia, quando è vuotodall’“io” e dal “mio”,164 e perciò Nāgārjuna può affermare che il nirvāna ègià qui: è il samsāra. L’“io” e il “mio” sono la fonte di errore: questo è ciòche, più di tutto, accomuna la mistica indiana a quella cristiana, la quale, apartire dal “Qui odit animam suam” del Vangelo, insiste sul fatto cheproprio l’“io” e il “mio” sono radice di ogni male.165

Non meraviglia perciò che i più attenti studiosi delle religioni-filosofie dell’India abbiano riconosciuto in esse il medesimo insegnamentoevangelico, una volta che lo si sia liberato da quegli elementi esteriori chelo hanno deformato. Anzi, proprio la profonda comprensione e l’esperienzaconcreta della mistica indiana può servire a riscoprire l’essenza delmessaggio cristiano, occultata dalla mitologia biblica.166

Questa è l’importanza del “passaggio in India”, esemplarmentecompiuto, ai nostri giorni, da Henri Le Saux.

1 Cfr. Porfirio, Vita di Plotino, III, 15.

2 Lo sottolineava Bettina Baümer, discepola e amica di Le Saux, nella relazione tenuta al convegnodi Camaldoli “Nella caverna del cuore. L’itinerario mistico di Dom Henri Le Saux in India” (22-24ottobre 2010).

3 Brhadāranyaka Upanishad, IV, 4, 7. Cfr. Upanishad antiche e medie, cit., p. 140.

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4 Cfr. Patañjali, Gli aforismi sullo Yoga (Yogasūtra), a cura di Corrado Pensa, Boringhieri, Torino1978, p. 47. Traduzione lievemente ritoccata.

5 Ibidem.

6 Ibidem, p. 72. Si tratta in realtà di una citazione dal Mahābharata, XII, 17, 20; 151, 11.

7 Ibidem, p. 111.

8 Ibidem, p. 183. Identico pensiero in Eckhart: vedi il cap. precedente, p. 33 e nota 50.

9 Chāndogya Upanishad, VIII, 1 (cfr. op. cit., p. 330). Le Upanishad (il termine significa, alla lettera,“sessioni”, con evidente riferimento a una prassi magisteriale) testimoniano la lunga elaborazionespeculativa della tradizione induista: si veda in proposito il mio La mistica delle grandi religioni, cit.,pp. 74 ss., da cui riprendo qui alcune parti e a cui rimando per un approfondimento.

10 Brhādaranyaka Upanishad, I, 4, 10 (cfr. op. cit., p. 51). Parola che corrisponde a quella di Eckhart:“Molta gente semplice immagina Dio lassù e noi quaggiù. Ma non è così: Dio e io siamo una cosasola” (cfr. il sermone “Iusti vivent in aeternum”, in I sermoni, cit., p. 135.

11 Ibidem, IV, 4, 25 (cfr. op. cit., p. 145).

12 Ibidem, II, 4, 5 (cfr. op. cit., pp. 77 s.). Yājñavalkya sta impartendo l’insegnamento alla dilettaMaitreyī.

13 Ibidem, II, 4, 6 (cfr. op. cit., p. 78).

14 Ibidem, I, 3, 1-5 (cfr. op. cit., pp. 40-41).

15 Ibidem, IV, 4, 23 (cfr. op. cit., pp. 144-145).

16 Ibidem, IV, 4, 19 (cfr. op. cit., p. 142).

17 Chāndogya Upanishad, II, 4, 5 (cfr. op. cit., pp. 77-78).

18 Cfr. Isa Upanishad, 16 (cfr. op. cit., p. 522). Abbiamo reso con “spirito” l’originale purusa, cheFilippani-Ronconi preferisce non tradurre. Concetto-chiave della metafisica e della spiritualitàdell’India, già a partire dal Rig Veda, 10, 90, esso significa l’uomo universale, cosmico, spirituale, lacui “realizzazione è lo scopo dell’ascesi, costituendo il trascendimento dell’individualità incarnatamediante l’accesso alla sfera indefettibile”– come scrive Filippani-Ronconi nel glossario al testocitato, p. 698. “Io vengo a conoscere questo possente spirito (purusa) […] Chi lo ha conosciuto

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supera la morte”, recita la Svetasvatara Upanishad, III, 8, in quanto chi conosce così, diventa quelloche conosce.

19 Un parallelismo impressionante col mito della biga alata del Fedro (246 a-254 a) si ha nella KathaUpanishad, III, 3-8: “Riconosci lo ātman come il padrone del carro, il corpo come il carro, la psichecome l’auriga, la mente come le redini. I saggi denominano i sensi cavalli, gli oggetti dei sensi corsie,lo ātman unito ai sensi e alla mente il fruitore. Colui il quale è privo di discriminazione perché non hala mente raccolta, di costui i sensi sono indisciplinati, come per un auriga cattivi cavalli. Colui ilquale, invece, ha discernimento, perché la sua mente è raccolta, di costui i sensi sono come cavallidocili per un auriga” (cfr. op. cit., pp. 501-502).

20 Cfr. la presentazione di Pio Filippani-Ronconi alla Bhagavadgītā, con il commento di SrīSankāracārya (traduzione dall’inglese di G. Marano, Luni, Milano 1997, p. 8).

21 Cfr. la conclusione de Lo specchio delle anime semplici di Margherita Porete (cit., p. 497, e la nota401, ivi).

22 Cfr. Bhagavadgītā, 2, 12 (d’ora in avanti, BG). Per le traduzioni italiane dell’opera, vedi, oltre laversione sopra citata, quella di I. Vecchiotti, Bhagavadgītā, con saggio introduttivo, commento e notedi Sarvepalli Radhakrishnan, Ubaldini, Roma 1964, e quella di Stefano Piano, Il Canto del Beato,San Paolo, Cinisello Balsamo 1998.

23 Cfr. BG, 2, 16.

24 Cfr. BG, 2, 17.

25 Si rilegga il poema parmenideo: “Essendo ingenerato è anche imperituro, tutt’intero, unico,immobile e senza fine. Non mai era né sarà, perché è ora, tutto insieme, uno, continuo. Difatti qualeorigine gli vuoi cercare? Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò né di dirloné di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è. E quand’anche, quale necessitàpuò aver spinto lui, che comincia dal nulla, a nascere dopo o prima? Di modo che è necessario o chesia del tutto o che non sia per nulla […] L’essere come potrebbe esistere nel futuro? In che modo maisarebbe venuto all’esistenza? Se fosse venuto all’esistenza non è e neppure se è per essere nel futuro.In tal modo il nascere è spento e non c’è traccia del perire” (DK, 28, B 8).

26 Cfr. Gv 1, 1-3: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era inprincipio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui neppure una delle cose createè stata fatta”.

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27 Si veda, in proposito, il “Commento alla Genesi” di Meister Eckhart, in Commenti all’AnticoTestamento, cit., nn. 2-27, con la discussione dell’“In principio” biblico, e, in parallelo, il suoCommento al Vangelo di Giovanni, cit., nn. 4-51, con la corrispondente interpretazione dell’“Inprincipio” giovanneo.

28 Cfr. Agostino, Confessioni, VII, 10, 16. L’espressione è presa da Plotino (Enneadi, I, 8, 13).

29 Cfr. Meister Eckhart, I sermoni, cit., p. 624.

30 Cfr. BG, 2, 19.

31 Cfr. BG, 2, 20.

32 Cfr. BG, 2, 30.

33 Così parla Margherita Porete nel suo Specchio delle anime semplici, che mostra nel modo piùchiaro il cammino di fine amour dall’oggetto sensibile all’universale, secondo la logica del Convitoplatonico, fino all’estinzione di se stesso proprio in quanto amore, al suo farsi non-amore e diventarequell’“essere senza essere” che è lo spirito.

34 Cfr. il sermone “Omne datum optimum”, in I sermoni, cit., p. 116. Vedi il capitolo precedente, p.56 e nota 97.

35 “Io dico: tutte le creature sono un unico essere” (cfr. il sermone “In occisione gladii”, in I sermoni,cit., p. 142). “Tutte le cose sono una sola cosa in Dio, e in Dio non v’è niente che non sia essere” (cfr.il sermone “Haec est vita eterna”, in I sermoni, cit., p. 411); “Tutte le creature sono in Dio, e sono lasua Divinità, e questo significa la pienezza” (cfr. il sermone “Unus deus et pater omnium”, in Isermoni, cit., p. 227).

36 “Dio è Uno, è negazione della negazione” (ibidem); “Più Dio è riconosciuto come Uno, più èriconosciuto come Tutto” (cfr. il sermone “Unser herre underhuop”, in I sermoni, cit., p. 406).

37 Cfr. BG, 5, 18.

38 Cfr. BG, 4, 35.

39 Cfr. ad es. la sua proposizione VIII, tra quelle condannate dalla bolla papale In agro dominico:“Qui non intendunt res, nec honores, nec utilitatem, nec devotionem internam, nec sanctitatem, necpraemium, nec regnum coelorum, sed omnibus his renuntiaverunt, etiam quod suum est, in illishominibus honoratur deus”.

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40 Cfr. BG, 2, 42-43.

41 Cfr. BG, 2, 44.

42 Cfr. BG, 2, 45. I guna sono i modi essenziali della psiche, nella triplice realtà di sattva (equilibrio,armonia, conoscenza), rajas (attività, desiderio, passione), tamas (oscurità, inerzia, passività).

43 Cfr. ad es. il suo Commento al Vangelo di Giovanni, cit., nn. 19, 62, 177, 311, 340, 585.

44 Cfr. BG, 4, 22.

45 Cfr. BG, 7, 27.

46 Cfr. BG, 7, 27.

47 Cfr. BG, 5, 3.

48 Cfr. BG, 15, 5.

49 Cfr. BG, 6, 9.

50 Allo stesso modo, Eckhart scrive: “La purezza dell’anima consiste nell’essere purificata da unavita divisa ed entrare in una vita unita. Tutto quel che è diviso nelle cose basse è unito quandol’anima si innalza a una vita in cui non c’è contraddizione. Quando l’anima giunge nella luce dellaragione, essa non sa più niente della contraddizione”. “Cos’è la contraddizione? Gioia e dolore,bianco e nero sono in contraddizione, ma ciò non ha alcuna sussistenza nell’essere” (cfr. il sermone“In occisione gladii”, in I sermoni, cit., p. 144).

51 Cfr. BG, 2, 46. Lo stesso parallelismo è utilizzato da Origene, nel suo Commento al Vangelo diGiovanni, 4, 1-42, ove l’acqua del pozzo di Giacobbe rappresenta la Scrittura, che “non contienealcuni dei più importanti e divini misteri di Dio”, mentre l’acqua viva è il Logos. Chi attinge alpozzo, ovvero a parole che solo in apparenza sono profonde, sarà appagato solo per poco tempo:quello necessario a scoprire che non è verità quella che ha creduto tale. Chi invece attinge all’acquaviva, alla sorgente interiore del Logos, non avrà più sete.

52 Cfr. BG, 2, 47.

53 Cfr. BG, 2, 50.

54 Cfr. Meister Eckhart, Commento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 494. Queste proposizioni, estrattedal contesto che le spiega, sono state condannate dalla bolla In agro dominico (articoli IV, V, VI).

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55 Cfr. BG, 2, 56.

56 Cfr. BG, 2, 57.

57 Cfr. BG, 2, 62-63.

58 Cfr. BG, 2, 67.

59 Cfr. BG, 2, 64.

60 Cfr. BG, 2, 66.

61 Cfr. BG, 2, 69. A questo testo corrisponde esattamente il passo eckhartiano citato all’inizio, p. 12:“Ciò che è orrore per gli uomini non liberi, è gioia profonda per gli uomini liberi”. Il contrastoveglia/sonno rimanda invece a Eraclito: DK, 22, B 1; 89.

62 Cfr. BG, 3, 37-39.

63 Cfr. BG, 3, 42-43.

64 Cfr. BG, 2, 70-72.

65 Cfr. BG, 7, 4.

66 Cfr. BG, 7, 5.

67 Cfr. Iliade, VIII, 19, e poi, ad es., Macrobio, Commentario al Sogno di Scipione, I, 14-15.

68 Cfr. BG, 7, 7.

69 Cfr. BG, 7, 12.

70 Cfr. BG, 9, 4-5.

71 Cfr. BG, 9, 15-19.

72 Cfr. BG, 10, 20.

73 Cfr. BG, 9, 23 e 29.

74 Cfr. BG, 9, 29.

75 Cfr. BG, 6, 31.

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76 Cfr. BG, 6, 23.

77 Cfr. BG, 6, 29.

78 Cfr. BG, 9, 29.

79 Cfr. ancora il mio Dialettica della fede, cit., capitolo: “Fede come distacco in Eckhart”.

80 Cfr. BG, 4, 39. Il contesto è quello, già citato, del “fuoco della conoscenza, che riduce in ceneretutte le azioni”. Il fuoco della fede brucia ogni idolo.

81 Cfr. Agostino, In Ep. Joh., II. Citazione molto amata da Eckhart, e ripresa anche da Silesius (vediil cap. precedente, p. 123 e nota 258).

82 Cfr. BG, 9, 25.

83 Cfr. BG, 17, 3

84 Cfr. Agostino, Confessioni XIII, 9, 10. Vedi anche Pellegrino cherubico, cit., VI, 118: “L’amoreattira verso l’amato”.

85 Cfr. BG, 16, 9-11.

86 Cfr. BG, 16, 8.

87 Cfr. op. cit. alla nota 20, p. 274.

88 Cfr. BG, 16, 18 e 21.

89 Cfr. BG, 15, 1-2.

90 Cfr. BG, 15, 3-4.

91 Cfr. BG, 15, 19. “Il sacrificio della conoscenza” è quello con cui viene onorato Dio, studiando iltesto stesso della Gītā: cfr. BG, 18, 70.

92 Cfr. BG, 18, 51

93 Cfr. BG, 18, 53.

94 Cfr. BG, 18, 54.

95 Cfr. BG, 18, 55.

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96 Cfr. BG, 18, 57-58.

97 Cfr. BG, 18, 58.

98 Cfr. BG, 18, 63-66.

99 Cfr. BG, 18, 62.

100 Cfr. il mio La mistica delle grandi religioni, cit., pp. 109-110, con le relative note.

101 Cfr. ad es. il sermone “Adolescens tibi dico: surge”, in I sermoni, cit., p. 339, e anche ilCommento al Vangelo di Giovanni, cit., n. 500.

102 Cfr. ad es. il sermone “Sant Paulus sprichet”, I sermoni, cit., p. 224.

103 Cfr. ad es. il Commento al Vangelo di Giovanni, nn. 162, 164-165, 436, 450, 475, 506, 629, 663,ecc.

104 Cfr. ad es. il sermone “In omnibus requiem quaesivi”, in I sermoni, cit., pp. 434-438.

105 Cfr. ad es. i sermoni “Praedica verbum” e “Qui audit me”, in I sermoni, cit., p. 276; 169.

106 Cfr. ad es. il Commento al Vangelo di Giovanni, cit., nn. 387, 643, 731.

107 Cfr. ad es. le “Istruzioni spirituali”, in Dell’uomo nobile, cit., pp. 61 e 109.

108 Cfr. ibidem, pp. 65-66.

109 Cfr. I sermoni latini, cit., nn. 251-268.

110 Oltre al già citato Coomaraswamy, sono di questa opinione il maestro contemporaneoBuddhadāsa Bhikkhu, di cui si veda No religion, Buddhadāsa Foundation, Chaya (Tailandia) 2005,pp. 7, 19-20, ecc.; nonché Georges Vallin, La prospettiva metafisica. Unità trascendente dellametafisica integrale delle religioni, ed. Victrix, ARQ, Forlì 2007 (l’edizione originale francese èPUF, Paris 1958), p.156.

111 Ricordiamo il cuore dell’insegnamento di Eckhart: “Vigila su di te stesso e, non appena trovi testesso, rinuncia a te stesso: questa è la cosa migliore che tu possa fare”. Vedi il capitolo precedente, p.38 e nota 63.

112 Non a caso il Risvegliato, il Buddha, è l’Illuminato, che ha nell’etimo del suo nome la radiceindoeuropea di “luce” (sanscrito bod = greco phos).

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113 Cfr. Buddhadāsa Bhikkhu, No religion, cit., p. 7.

114 L’immagine del Buddha seduto che, con le dita, “scioglie il nodo” dell’esistenza, del dolore, è ineffetti l’immagine di un liberatore, di un “redentore”, se si pensa al significato etimologico dellaparola e si tiene presente che ancora in tedesco “redentore” è Erlőser, il liberatore– alla lettera, lo“scioglitore” (vedi il greco lyo).

115 Cfr. P. Filippani-Ronconi, Il buddhismo, Newton Compton, Roma 1994, p. 17 (traduzionelievemente ritoccata).

116 Altro appellativo del Buddha, di incerta derivazione. Probabilmente risulta dalla fusionedell’avverbio tathā (così) e dal participio passato gato (andato), oppure āgato (venuto): dunque“colui che così [ovvero secondo realtà] è andato (o venuto)”.

117 I cinque “elementi costituenti” (skandha) qui evocati sono la forma (rūpa), ovvero ciò che l’uomopercepisce come proprio corpo, le sensazioni (vedanā), le idee (samjñā), le costruzioni psichiche(samskāra) e, infine, la coscienza (vijñāna), intesa come lo scenario su cui si rappresenta lo scorreredell’esistenza.

118 Cfr. Buddha, Aforismi e discorsi, a cura di P. Filippani-Ronconi, Newton Compton, Roma 1994,pp. 24-25 (traduzione lievemente ritoccata).

119 Cfr. il suo Manuale, XLV: “Se uno si lava in fretta, non dire che si lava male, dì che si lava infretta. Se uno beve molto vino, non dire che fa male, dì che beve troppo vino…”.

120 Con le sue 423 strofe, il Dharmapada (o Dammapada, in pali), ovvero, alla lettera, “l’orma delladisciplina”, cioè i “versi della Legge”, costituisce forse il testo classico della pur amplissimatradizione letteraria del buddhismo, di cui rappresenta una sorta di breviario. Citiamo quidall’edizione a cura di Eugenio Frola: Canone buddhistico. L’orma della disciplina, Boringhieri,Torino 1979, p. 15, in traduzione talvolta da noi ritoccata.

121 Cfr. op. cit., pp. 19-20 (traduzione lievemente ritoccata).

122 Cfr. Spinoza, Ethica, V, 3.

123 Non a caso Filippani-Ronconi evoca in proposito la stoica atarassia (cfr. Il buddhismo, cit., p. 20).

124 Dharmapada, cap. XV, 202-203.

125 Ibidem, cap. XVIII, 243.

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126 Cfr. Filippani-Ronconi, Il buddhismo, cit., p. 21.

127 “Tutti gli elementi dell’esistenza sono impermanenti. Quando con intelligenza questo sicomprende, ci si estingue rispetto al soffrire– questa è la via verso la purificazione […] Tutti glielementi della realtà sono privi di essenza. Quando con intelligenza questo si comprende, ci siestingue rispetto al soffrire– questa è la via verso la purificazione” (Dharmapada, cap. XX, 277-279).

128 Dharmapada, cap. XXV, 367.

129 Cfr. ad es. Dharmapada, cap. XXIII, 331-332: “Quando capita l’occasione è piacevole lacompagnia, è piacevole la contentezza, qualsiasi ne sia la causa. La buona azione compiuta èpiacevole quando si dice addio alla vita, è piacevole abbandonare ogni dolore. Nel mondo èpiacevole lo stato di madre, è piacevole lo stato di padre, è piacevole lo stato di monaco, è piacevolelo stato di brāhmano”. La gioia dell’esistere, la letizia “senza perché” che deriva da tutte le cose, èuno dei tratti caratteristici anche dell’atteggiamento eckhartiano verso la vita.

130 Questo, ossia l’eguale animo in ogni circostanza, più di tutti è il punto che distingue l’“uomogiusto”, ovvero l’uomo nobile, l’uomo spirituale, secondo Eckhart: “Niente è più triste e doloroso peril giusto di ciò che è contrario alla giustizia, ovvero non essere lo stesso in tutte le cose” (cfr. ilsermone 6, “Iusti vivent in aeternum”, in I sermoni, cit., p. 131); “È giusto chi rimane identico nellagioia e nel dolore, nella dolcezza e nell’amarezza; chi non trova ostacolo in niente, in modo datrovarsi sempre Uno nella giustizia” (cfr. il sermone “In diebus suis”, in I sermoni, cit., p. 161).

131 Niklaus Largier, nel suo “Meister Eckhart und der Osten” (in Eckhardus Theutonicus, homodoctus et sanctus. Nachweise und Berichte zum Prozeß gegen Meister Eckhart, Universitätsverlag,Freiburg [Schweiz] 1992, pp. 185-204), elenca sessanta titoli, quasi tutti in lingua tedesca, suirapporti tra Eckhart e buddhismo, induismo, taoismo. Delle straordinarie affinità tra il maestrotedesco e il buddhismo zen si sono occupati in particolare quei giapponesi che hanno studiato inGermania, spesso con formazione heideggeriana, che sono giunti a una comprensione molto profondadi Eckhart, proprio partendo dalla loro cultura orientale. Filippani-Ronconi (Il buddhismo, cit., p. 22)ricorda anche che “adoperando la terminologia di san Paolo nelle sue Epistole, si potrebbe dire che ilfine della disciplina buddhica è quello di superare l’‘uomo psichico’ risvegliando l’interiore ‘uomopneumatico’ [ovvero spirituale]”, e l’equivalenza potrebbe essere sviluppata in dettaglio.

132 Vedi sopra, p. 149 e note 34 e 35.

133 Samyutta Nikāya. Discorsi in gruppi, a cura di V. Talamo, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1998,XXXV, p. 84.

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134 Giangiorgio Pasqualotto, nel suo Il buddhismo. I sentieri di una religione millenaria, BrunoMondadori, Milano 2003, p. 52, chiarisce così la dottrina della genesi interdipendente: “Ogni realtà è,contemporaneamente, condizionata e condizionante, per cui può essere considerata isolatamente solose la si astrae dalla rete di relazioni in cui è inserita; questa operazione risulta certamente legittima,ma solo se viene effettuata sapendo che essa consiste in una parziale e contingente ‘estrazione’ diparti da un tutto organico, come se fosse un prelievo di una singola cellula da un tessuto vivente: ognianalisi di una parte è importante solo a condizione che non si dimentichi mai la sua natura di parte,ossia la sua qualità non sostanziale, anattā”.

135 Riprendiamo qui, alla lettera, la spiegazione che del concetto di genesi interdipendente dà RanieroGnoli nel glossario a Nāgārjuna, Madhyamaka kārikā. Le stanze del cammino di mezzo, a cura di R.Gnoli, Boringhieri, Torino 1961, pp. 187-189 (d’ora in avanti, MK).

136 Il primo degli skandha, infatti, è costituito dai quattro elementi propri anche alla fisica greca:terra, acqua, fuoco e aria. Vi sono poi le sensazioni affettive, che risultano dai contatti con occhio,orecchi, naso, lingua, corpo e mente; le idee, o nozioni, di colori, suoni, odori, sapori, tangibili eimmagini mentali; le volizioni, che concernono quanto sopra e, infine, la conoscenza visiva, uditiva,ecc. Così, ad esempio, quando si trova una collana per strada, la vista di essa è la materia, il piaceredi averla trovata è la sensazione affettiva, la nozione è l’operazione mentale di riconoscerla comecollana, la volizione è il desiderio di prenderla, la coscienza discriminativa di essa è la conoscenza.Cfr. MK, pp. 190-191.

137 Così recita la stanza 29 de La sterminatrice dei dissensi, breve trattato di Nāgārjuna, pubblicatoda Gnoli insieme a Le Stanze del cammino di mezzo. Cfr. op. cit., p. 147.

138 Cfr. MK, XIII, 8, p. 82: “La vacuità […] è eliminazione di tutte le opinioni. Coloro poi per cuianche la vacuità è un opinione, questi sono detti inguaribili”.

139 Riprendo qui, con lievi modifiche, la sintesi di Pasqualotto, op. cit., pp. 43 ss., cui rimando per inecessari approfondimenti.

140 In proposito, Pasqualotto (op. cit., nota 2, p. 46) rileva che, nella cultura occidentale, rari sono ipensatori che hanno inteso la realtà come costituita da relazioni, ed elenca Eraclito, Platone, Hegel.

141 Questi testi sono del monaco zen contemporaneo Thich Nhat Hahn, nel suo Vita di Siddharta ilBuddha narrata e ricostruita in base ai testi canonici pali e cinesi, Ubaldini, Roma 1992, p. 82(riprendo qui alcuni passi dal mio Tesi per una riforma religiosa, cit., pp. 175-190).

142 Ibidem, pp. 82-83.

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143 Ibidem, p. 86.

144 Ibidem, p. 189.

145 “Ascoltando non me, ma il Logos, è saggio convenire che tutto è Uno” (DK, 22, B 50).

146 Cfr. Thich Nhat Hahn, op. cit., p. 281. Cfr. Eraclito, DK, 22, B 88.

147 Ibidem, p. 282.

148 Cfr. DK, 22, B 85.

149 Cfr. Thich Nhat Hanh, op. cit., p. 316.

150 Ibidem, p. 304. Su questo punto cruciale, occorre vedere in particolare il capolavoro di Nāgārjuna,Le stanze del cammino di mezzo, cit.

151 Cfr. Pellegrino cherubico, cit., VI, 251: “A chi pratica separatezza”.

152 Cfr. Thich Nhat Hanh, op. cit., p. 316.

153 Ibidem, p. 147.

154 Cfr. Samyutta Nikāya. Discorsi in gruppi, cit., p. 565.

155 Cfr. DK, 22, B 46, 70.

156 DK, 22, B 28.

157 Cfr. Thich Nhat Hanh, op. cit., p. 316. Cfr. anche tutto il capitolo 53, “Dimorare nel momentopresente”, pp. 241-246.

158 Ibidem, p. 365.

159 Ibidem.

160 Ricordiamo il passo di Eckhart citato al capitolo precedente, nota 8.

161 Lo nota finemente Luciano Mazzocchi nel suo “La via buddista e la via cristiana”, in Fraternità,gennaio-giugno 2011, p. 80.

162 Ricordiamo come la mistica cristiana insegni a toglier via anche lo spirito, perché non vi siaappropriazione, e parla perciò non solo di “morte dell’anima”, ma anche di “morte [o ‘notte’] dello

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spirito”. Cfr. ad es. Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, cit., capp. 59, 60, 64. Lostesso fa Giovanni della Croce, su cui vedi il capitolo “La fede come notte oscura” del mio Dialetticadella fede, cit.

163 MK, XVI, 1-9, pp. 88-90.

164 Cfr. Buddhadāsa Bhikkhu, op. cit., p. 25.

165 Questa esperienza appartiene a ogni intelligenza spirituale. Il grande poeta mistico persianoRumi, ispirandosi ai cristiani Padri del deserto, scrive: “Un uomo bussò alla porta dell’Amato e unavoce chiese: Chi è? Egli rispose: Sono io. La voce disse: Non c’è posto qui per me e per te. La portarimase chiusa. Dopo un anno di solitudine e di privazioni lo stesso uomo ritornò a bussare alla portadell’Amato. La voce, da dentro, chiese: Chi è? Sei Tu. La porta gli fu aperta”. E Shams-i-Tabriz,similmente: “Chiunque entri in quel luogo [il paradiso] dicendo: ‘Sono io’, sarò io [Dio] che lorespingerò con violenza, percuotendolo in faccia” (cfr. A.K. Coomaraswamy, “Chi è Satana e dov’èl’inferno?”, in Rivista di Studi Tradizionali, 43, 1975, p. 121).

166 Per quanto riguarda specificamente il buddhismo, fu il grande studioso austriaco Karl EugenNeumann, grazie soprattutto a Schopenhauer, a riconoscere per primo l’“intima parentela tra gliinsegnamenti di Buddha e quelli del Cristo”, nel suo Die innere Verwandtschaft buddhistischer undchristlicher Lehren, Leipzig 1891, ove svolge un continuo parallelismo con Meister Eckhart.Traduttore insigne del canone buddhistico antico, Neumann fu fatto conoscere in Italia da GiuseppeDe Lorenzo, cui si deve anche la prima versione italiana del capolavoro di Schopenhauer, e di cui siveda India e buddhismo antico, Laterza, Bari 1903 (poi 1926; rist. an. 1981).

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Henri Le Saux

Il vedānta mi ha donato ciò che non mi ha maidonato la Chiesa.

Henri Le Saux

1. Un monaco cristiano-hindū

Quel passaggio in India che Plotino non riuscì a compiere lo hacompiuto ai nostri giorni Le Saux. In realtà è stato più di un passaggio,perché Le Saux non è mai tornato in Europa, ha preso nome e cittadinanzaindiana, in India è morto e sepolto. La cosa importante, però, è che egli nonha abbandonato il cristianesimo in India, ma vi ha, anzi, trovato la chiaveper comprenderlo nella sua essenza, al di là delle interpretazioni riduttive efuorvianti che, nei secoli, gli sono state date dalla teologia e dalla Chiesa.Sotto questo profilo, perciò, è “tornato”, per noi, cristiano dall’India, dovecristiano davvero non era arrivato.

Henri Le Saux era nato a Saint-Briac, in Bretagna, il 30 agosto1910. È probabile che la sua famiglia fosse originaria del Galles, giacché LeSaux nel dialetto bretone significa “i sassoni”, ovvero coloro che, nelmedioevo, erano passati dalle isole britanniche nel continente. Dopo laformazione nel seminario di Rennes, rinunciò a proseguire a Roma gli studidi teologia e nel 1929 entrò nel monastero benedettino di Sant’Anna aKergonan, dove nel 1935 fu ordinato sacerdote e dove svolse anche lemansioni di liturgista, che gli fecero nascere quell’amore per il cantogregoriano che non lo abbandonò mai. Nel 1939 fu arruolato nell’esercito(le leggi laiciste della Terza Repubblica non esentavano i chierici dalservizio militare) e fu coinvolto nella disfatta francese, finendo prigionierodei tedeschi con tutto il suo reggimento. Riuscì però a fuggire e si nascosecon altri monaci prima in un’antica certosa, poi in un castello, vivendo làfino alla Liberazione, quando poté tornare nel suo monastero.

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La vocazione a recarsi in India risale agli anni trenta, quando LeSaux cominciò a essere attratto dalla spiritualità di quel paese e prese astudiarla con cura. Di particolare importanza fu però la conoscenzadell’esperienza di padre Jules Monchanin, che si era trasferito a Kulittalai,nell’India del Sud, per vivere una vita consacrata alla conoscenza e alservizio di quel paese, al fine di incarnare il cristianesimo nei modi di vita,di preghiera, di contemplazione, propri di quella civiltà. Le Saux entrò incorrispondenza con Monchanin, esponendogli il progetto di una fondazionemonastica (ashram) nuova, ove la regola benedettina riuscisse a conciliarsicon le forme tipiche della spiritualità hindū. Ottenuto il permesso deisuperiori, nel luglio 1948 salpò per l’India e nell’agosto raggiunseMonchanin. L’anno dopo visitò per la prima volta l’ashram di RamanaMaharshi sulla collina sacra di Arunachala1 e nel 1951, per la festa di sanBenedetto, insieme a Monchanin inaugurò l’ashram della Trinità aShantivanam, la “foresta della pace”, nel Tamil Nadu, ove Le Saux assunseil nome di Abhishikteshvarananda, ossia “Colui la cui gioia è l’Unto delSignore”, abbreviato in Abhishiktananda.

L’idea dei due eremiti era quella di inculturare la vita contemplativacristiana nella tradizione dell’India, assumendone le forme, secondol’esempio già iniziato, tre secoli prima, dal gesuita italiano Roberto Nobili;ma, al pari di questo, l’esperimento di Monchanin e Le Saux non ebbegrande successo, incontrando sia quelle incomprensioni in ambito cristianoche avevano già fatto fallire l’impresa di Nobili, sia quelle in ambito hindū,ove si vedeva nel tentativo dei due monaci una forma nuova dicolonialismo, non materiale, ma spirituale, capace di minare la tradizionereligiosa indiana. Si deve anche aggiungere che Monchanin e Le Saux nonerano neppure completamente d’accordo, in quanto il primo restava legatoalle forme dogmatiche e cultuali cristiane molto più del secondo.

Nel 1952 Le Saux lasciò perciò Shantivanam e tornò a visitareRamana Maharshi ad Arunachala, soggiornando a lungo, a più riprese, nellecaverne della sacra collina, ove “respirò”, per così dire, a fondoquell’esperienza di unità, di non-dualismo (advaita), che è il cuore stessodella spiritualità hindū, condividendola profondamente. Da essa ebbe piùche dalla tradizione ecclesiastica, tanto che egli parla spesso di se stessocome di “noi hindū”, fino a scrivere:

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Ho vissuto le mie ore migliori da hindū! Il vedānta mi ha donato ciòche non mi ha mai donato la Chiesa!2

E, d’altra parte, egli restava intimamente anche un cristiano, unmonaco benedettino, per cui dovette compiere un doloroso travagliospirituale. L’amico e, per molti versi, maestro Sri Poonja racconta questoepisodio:

Swami Abhishiktananda e io eravamo seduti sulle rive del Gange vicino a Rishikesh.Eravamo seduti in silenzio, ma a un certo punto lui si voltò verso di me e chiese: “Ram, quantolontano sono dalla liberazione?”. Lui mi chiamava sempre Ram, come allora facevano pochi altri. Iorisposi: “Quanto il cielo è lontano dalla terra”. Mi accorsi che era rimasto interdetto dalla risposta.“Ma cosa c’è di sbagliato in me?”, chiese tristemente. “Ho meditato per molti anni, ho praticatointenso tapas,3 ho dedicato la mia intera vita a questo scopo.” “Se davvero vuoi essere libero,” glidissi, “ti posso dire come farlo all’istante. Perché aspettare cinque settimane o cinque anni? Hai conte una borsa. Getta questa borsa nel Gange e ti garantisco che sarai libero all’istante. Perché non lofai?” Era un’offerta seria, ma egli non poté accettarla. Nella sua borsa aveva i suoi libri cristiani,insieme con il necessario per celebrare la messa. Gli stavo chiedendo di gettare la sua cristianità nelfiume, ma non poteva farlo. “Non posso,” disse, “mi sono affidato al cristianesimo e non lo lasceròmai.”4

Le Saux stesso scrive:

Che lo voglia o no, io sono profondamente legato a Gesù Cristo e dunque alla koinonìa[comunità] della Chiesa. È in lui che il “mistero” si è rivelato a me dal momento del mio risveglio ame e al mondo. È sotto la sua immagine, sotto il suo simbolo che io conosco Dio e che conosco mee il mondo degli uomini […] Per me Gesù è il mio sadguru [supremo maestro]. È in lui che Dio miè apparso. È nel suo specchio che io mi sono riconosciuto, adorandolo, amandolo, consacrandomi alui.5

Le Saux passò comunque il resto della sua vita in India. A grandilinee, si possono individuare tre periodi principali.6 Il primo va dal suoarrivo al 1957, anno in cui morì Monchanin. In questo, che è il periodoanche dell’esperienza dell’ashram di Shantivanam, Le Saux prese contattonon solo con Ramana Maharshi, ma anche con Sri Gnanananda,7 con ilquale ebbe un rapporto assai importante.

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Il secondo periodo va dal 1958 al 1968, che è l’anno del suotrasferimento all’eremo di Gyansu, sull’Himalaya. Dopo la morte diMonchanin, infatti, Le Saux prese progressivamente le distanze dall’ashramdi Shantivanam e compì diversi viaggi nell’India del Nord, stringendoamicizia, tra gli altri, con Raimon Panikkar.

Il terzo e ultimo periodo, dal 1968 in poi, fu passato da Le Sauxsoprattutto sull’Himalaya, insieme al discepolo Marc Chaduc. Comparveroi problemi di salute, fino all’infarto che lo colpì a Rishikesh il 14 luglio1973, dopo il quale esperimentò una sorta di estatica beatitudine, da luistesso paragonata al ritrovamento del Graal,8 fino alla dipartita, avvenuta aIndore, il 7 dicembre di quello stesso anno.

La vicenda personale e spirituale di Le Saux risulta con chiarezzadal suo Diario, particolarmente interessante perché in esso egli annotavaquello che pensava davvero, mentre nei libri pubblicati dovette sempre farei conti con la censura ecclesiastica, l’opportunità del momento, ecc.9 Ciriferiremo qui perciò quasi esclusivamente a esso.

2. Conosci te stesso

La ricerca di Le Saux è, come per Eckhart,10 agostinianamente laricerca di Dio e dell’anima– anzi, secondo il precetto dell’oracolo di Delfi,è ricerca prima dell’anima e poi di Dio: “Conosci te stesso, e conoscerai testesso e Dio”. Perciò scrive:

Il primo compito dell’uomo è rientrare all’interno e incontrare sestesso. Chi non ha incontrato se stesso, come potrà incontrare Dio? Non siincontra il Sé indipendentemente da Dio. Non si incontra Dioindipendentemente dal Sé.11

Finché non abbiamo incontrato noi stessi, nella nudità interiore– unanudità più sconvolgente ancora della nudità esteriore–, viviamo in unmondo fabbricato da noi stessi, immaginato dalla nostra mente. Noi, ilmondo e Dio non siamo che sogni che si sognano, e non la realtà. Chi nonsi è visto nudo, crederà che tutti siano venuti al mondo con le mutande econ un paio di calzini.

Il Dio adorato da uno che non ha incontrato se stesso nudo, è unidolo.12

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La nudità è immagine classica nella storia della spiritualità. Nudoequivale a essenziale, privo di sovrastrutture. Per trovare l’essenza bisognaspogliarsi di tutto ciò che è accidentale, sovrammesso: occorre perciò laplotiniana afaìresis, il toglier via, il distacco.

Riflettendo sulla caratteristica principale del samnyāsin, ovvero delmonaco della tradizione hindū, Le Saux nota:

Anche questo è essenziale al monaco hindū. Il “non io”, “non mio”, per essere genuino deveandare così lontano. Sprofondare in me, nel più profondo di me stesso. Dimenticare il mio io,perdermi nell’io dell’ātman divino che è all’origine del mio essere, della mia coscienza di essere. E,in questo unico o primordiale Io, sentirmi tutti gli esseri. È da qui che hanno origine non-violenza,compassione, ecc.13

Il senso dell’ego dipende essenzialmente da un volere, da un volersi,ovvero da quella filautìa, amore di sé, per il quale, pur consapevoli di nonessere i più intelligenti, i più belli, i più buoni, ecc., comunque ci vogliamo,e, pur desiderando le doti e i beni altrui, in nessun modo vorremmo esserealtri da quelli che siamo. È su questo amore di sé che si esercita il piùprofondo ed essenziale distacco: quello che conduce, appunto,nell’universale ātman.

Nel nostro tempo, anche per reazione a un vecchio spiritualismoinconsistente, imperversa il primato del “corpo”, visto in un certo sensocome il vero “io”.

Certamente il corpo dà un senso di appartenenza, di identità, che èlegato alle funzioni vitali, e che si fa sentire attraverso il dolore, il piacere,ecc. Non occorre insistere su questo. È però altrettanto chiaro che non ci sipuò identificare col proprio corpo, che può mutare, essere corrotto, ferito,addirittura sostituito in alcune sue parti, ecc. Guardando, ad esempio, unafotografia di quando ero bambino, mi è evidente che io sono ancora quello,anche se tanto mutato nel corpo.

Infatti, di solito tendiamo a identificarci con un io che pensiamo piùo meno ingenuamente costituito dai suoi contenuti mentali: volizioni,desideri, legami, speranze, pensieri di vario genere, che riportiamo tuttiquanti a un soggetto che chiamiamo appunto “io”, ma a una riflessione piùmatura appare chiara l’estrema mutevolezza di questi pensieri, di questi

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contenuti mentali. Mutevolezza nel tempo lungo, per cui oggi ho opinioniben diverse da quelle di quando ero giovane, ma anche nel tempo breve, inquanto il mio pensiero varia di continuo, quasi in ogni istante, così comevariano gli stati d’animo, a seconda delle circostanze– soddisfazione,insoddisfazione, gioia, tristezza, sazietà, fame, ecc.

Condizionati dalla grammatica del nostro linguaggio, si pensa alloraall’io come a quel soggetto,14 che permane nel mutare stesso dei suoipensieri e delle sue volizioni, o, anzi, che è quello che li/le genera. Ma, suquesto piano, risulta poi impossibile determinare un io senza contenuti,senza determinazione alcuna. Ovvero ci è impossibile rispondere alladomanda: chi sono?, senza poter dare descrizioni, del tipo: sono uno chepensa questo, che ama questo, che vuole questo. Insomma: sono questo. Matutto ciò appare insignificante e sciocco. Non ha senso dire: io sono quelloche ama x, o che pensa y, o che vuole z; proprio come non ha senso definirsicon qualifiche del tutto accidentali e transitorie, per quanto rilevanti–italiano, celibe, cattolico, comunista, operaio, insegnante, o che altro.

Così appare vacuo il concetto di “persona”, come qualcosa che nonha sussistenza, ma di continuo muta, e comunque sta tutto nei contenuti chela compongono. Davvero “persona” è una maschera, seguendo la suaetimologia, che si indossa a piacere e a piacere si muta. In effetti, c’èqualcosa di tronfio e di falso nel concetto di persona, e anche di personalità.Bisogna esser retti da una smania di essere, di potere, di avere, di sapere,per poter pensare nei termini di “persona”, con tutto quel che segue (“dirittidella persona”, ecc.). Del resto, il concetto non si regge appena trova i suoilimiti, come ad esempio quando si tratta di decidere se è “persona” chi nonha facoltà di certo tipo, o è in coma, o è ancora nel ventre materno, ecc.:allora è evidente il suo carattere puramente retorico e vano.15

Il concetto di persona è fuorviante, anche quando è attribuito a Dio,scriveva Le Saux,16 anche se Dio è l’unico cui si potrebbe applicarecorrettamente l’aggettivo “personale”, sia pure accanto a quello di“impersonale”.17

Noi desideriamo comunque trovare un io che abbia sussistenzaassoluta, che abbia essere, se non addirittura che sia l’essere, ed è questoche sfugge. Infatti ci si rende conto dell’insussistenza di tutti quei contenutiche chiamiamo “io”, e che esso stesso è una costruzione mentale. Perché io

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non sono questi contenuti aleatori, e neppure una psiche determinata,proprio come non sono questo corpo qui: corpo e psiche mutano, ma io hochiaro che non sono quello. “Se questo corpo ha fame, io non ne sonotoccato”, scriveva perciò, giustamente, Le Saux.18

Un uomo onesto sa bene, in fondo, che tutto quello che affermacome se stesso è una sua costruzione. Ovvero sa bene, se guarda in fondoall’anima, con quello che si chiamava una volta “esame di coscienza”, chec’è una falsità radicale in questa sua affermazione di sé, in questo suo porsicome “qualcosa”– un porsi, che, peraltro, viene meno a ogni istante, alprimo mutamento di un certo peso. Eppure non può fare a meno di cercarese stesso, di cercare di conoscere se stesso, come conoscenza prima efondamentale.

Non riusciamo però a trovare noi stessi, l’io in quanto essere, finchélo cerchiamo come un essere determinato– questo io, il mio io. Il questo èintrovabile come essere, né, del resto, ha gran senso la determinazioneaccidentale– ora voglio questo, ora penso questo.19

Giustamente negli Aforismi sullo Yoga l’affermazione “io sonoquesto” (asmi-ta) è dichiarata fonte di sofferenza. Il “questo”, infatti, sioppone al Tutto, si distingue dal Tutto, ovvero dall’essere, e non riesce aporsi come tale, ad affermarsi come essere, come uno. È ciò che fanaufragare nel “mare della dissomiglianza”, ovvero della dualità, dellalacerazione, della separatezza, ove non vi è che dolore.

Nella ricerca di noi stessi come un “questo”, come un qualcosa, sitrova il nulla– o meglio, non si trova nulla. Nulla che sia essere, che nonabbia un’esistenza assolutamente labile, inconsistente. Da qui le formuleparadossali di tanti mistici: io sono nulla, sono un nulla.20

Le Saux scrive, perciò:

“Questo” è ciò che mangia, ciò che beve, ciò che respira, ciò che cresce, ciò che ascolta […]e così via, ciò che conosce, ciò che (mi?) inclina in una certa direzione o nell’altra, ecc.21

Il “questo” è dato da ciò che ora penso, da ciò che ora voglio,dunque dal legame, quando l’energia che pervade il cosmo non vienelasciata liberamente fluire, ma viene bloccata, fatta girare su stessa, in quel

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“vortice” (vrtti) che è appunto il peccato dell’egoità, il peccato del“questo”.22 Quando lo si comprende, si comprende che:

Io non sono questo.

Io sono al di sopra e al di sotto di questo.

Io sono la sua sorgente.

Io non sono questo. Io sono più in profondità.

Io sono immerso nella profondità della sorgente.

Al di sotto di questo, nel suo centro, non sentendo niente, vedo tutto, in pace.

Raggiungere sat, cit, ananda [essere, coscienza, beatitudine], immergermi in essi e realizzareil mio io reale.

Io sono più in là, al di sotto, più profondo del Sé che parla, che mangia, che guarda, cheascolta, che cammina, che pensa, che desidera.

Posso infrangere la fortezza di questo corpo e cercare la mia dimora.

Benché dica la mia dimora, non è una dimora. Aham [Io] non ha né corpo né nome.

Infrangendo la fortezza del corpo, penetrando all’interno, sono al di là del luogo e del tempo.

Dico qui, benché senza luogo.

Dico ora, benché senza tempo.

Lodo il mio essere “io sono”.

Lo Spirito santo insegna ad alcuni a fare miracoli, ad altri a parlare le lingue, ad altri ainsegnare, e così di seguito. A coloro che ne hanno avuto la grazia, esso mostra la via dell’“io sono”[…] Il Padre e io siamo uno.23

Il cristiano Le Saux parla, com’è abituato, di Spirito santo e cita quiil passo evangelico in cui Gesù esprime la sua unità col Padre (Gv 10, 30).

Ancora più significativo in proposito è però il passo evangelico incui Gesù dice ai giudei, che non sono in grado di capire: “Prima cheAbramo fosse, io sono”, e Le Saux lo riporta esplicitamente:

Prima di essere nato, ero? Nel linguaggio del tempo, devo dire senza dubbio: non ero. Ma“io sono” non è il contrario di “io non ero”? Io sono ha un rapporto essenziale con l’eterno Aham.Non posso dire “io sono” senza riferirmi all’eternità. Se “io sono”, allora, sul piano su cui “io sono”

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è vero, “io non ero” non ha nessun senso. Antequam Abraham fieret, ego sum [Gv 8, 58]. Per esseresul piano del contingente e del temporale, io sono sul piano dell’Assoluto e dell’eterno.24

Potremmo ricordare anche le parole di Gesù nel Vangelo diTommaso (n. 20): “Beato colui che era, prima di venire al mondo!”, ovverocolui che scopre il suo profondo ego sum, che viene alla luce appena sitolgono via tutte le menzogne dei nostri fittizi “saperi”.

Ogni stato di coscienza è impermanente. Però in questaconsapevolezza di esser nulla, di non essere, v’è un “io sono”, che non è unego solido, autoaffermativo. Esso, anzi, nasce all’opposto dell’affermativitàdell’io, quando compare una luce impersonale (e anche supremamentepersonale) in cui l’ego è scomparso, lasciando solo questa luce. In un certosenso, dunque, si trova se stessi quando non ci si trova, come nel sermonedi Taulero “Io non sono” che abbiamo già citato.25

È infatti proprio nell’esperienza di scoprire il se stesso determinatocome un nulla, ovvero l’insussistenza di questo io, nella scomparsa del“questo”, che si scopre un essere, un “io sono” di carattere assoluto, con lacaratteristica dell’essere, che è quella che attribuiamo per tradizione a Dio.

Le espressioni “io sono Dio”, “sono diventato/a Dio” e simili, chericorrono nella mistica di tutti i tempi e di tutti i luoghi, vogliono esprimerel’assolutezza di questa scoperta dell’essere.26

Non v’è un sapere in ciò, nel senso di una qualche affermatività,perché questo non è un io, e nemmeno un Dio. L’“io sono” non enunciainfatti una ontologia, impossibile come ogni sistema, ma una realtàspirituale, quella, estatica, di beatitudine. “Estasi” perché fuori di sé, fuoridi Dio, oppure “enstasi”, perché in sé e in Dio:

Se Dio non fosse un Io, come potrei essere io stesso un Io? In fondo al mio io, alla radice,c’è l’Io di Dio. E dunque, se Dio è io, io sono il tu che egli si dice, che egli mi dice.27

L’ascesi vedānta consiste non nel mettere qualcosa al posto delproprio ego, non nel cedere il posto– il che è sempre artificiale e forzato –,ma nel riconoscere che il posto è già occupato da sempre, dall’eternità;l’“io” che vi si è installato non è che un usurpatore e, il giorno in cui

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diventa chiaro che il posto è già occupato, l’usurpatore non può fare altroche svanire.28

Ogni dualismo è qui superato, rendendosi conto che l’Assoluto puòsolo essere soggetto, con una sola coscienza che “io sono”, un eternamentecosciente, un essere puro e libero. In termini cristiani, se esiste il Dioinfinito, niente altro può davvero esistere: nella sua infinità, Dio esauriscel’esistenza dell’universo. La nostra esistenza come individui separati è unapercezione falsa: in quanto tali non possiamo esistere, nel senso letterale diquesta parola. Il nostro essere è tutt’uno con quello di Dio:

Io so che egò eimì [io sono]. Non mi chiedete altro, se c’è la mia personalità o no, io non neso niente, non me ne preoccupo affatto. Utilizzando secondo i casi diversi mythoi o supporti mentaliper esprimere il mio segreto.29

L’uomo interiore fugge sempre se stesso, è continuo distacco, percui saremmo tentati di dire “io sono questo distacco”, se ciò non fosseancora un determinarsi nel “questo”, e così perdere ancora una volta il vero“io sono”, che non è personale, privato, ma Dio stesso. Perciò,paradossalmente, si può dire che “il risveglio a Dio è inseparabile dalrisveglio a sé”:30

Questo “Io sono”, questo risveglio a me stesso, è il risveglio stessodi Dio a se stesso (impiego paradossale, qui, della terza persona). Questorisveglio è contemporaneamente nel tempo e al di fuori del tempo. È ilrisveglio a un livello che non è in nessun modo misurabile dal tempo.

È in questa Parola, aham, ascoltata al fondo di me, che il mondointero fu fatto, esiste, sussiste: i cinque elementi, il tempo, i sensidell’uomo, il suo corpo, ecc… Questo Io sono è la luce (phos, jyotis) ditutto, la vita (vita, bios, prana) di tutto, al di là di ogni tenebra.

La Divinità alla radice dell’anima, non-altro.31

Significativamente, Le Saux ricorre qui al concetto di Divinità (laGottheit eckhartiana) per indicare un Assoluto che è al di sopra dellerappresentazioni di Dio, determinato, personale, che, in quanto tale, sta inopposizione all’io. E, in parallelo, ricorre anche alla nozione eckhartiana di

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“fondo” (Grund) dell’anima, per indicare “qualcosa” nell’anima che non èl’anima nel suo senso meramente psicologico, e, al di fuori dello spazio edel tempo, è non-altro dalla luce eterna:

La Divinità è quella profondità di me stesso che è al di fuori della durata, al di fuori dellacontingenza, a se,32 ecc. Chi è così audace da accettare la propria aseità? Non c’è orgoglio tranneper chi osa paragonarsi. Si è orgogliosi in rapporto a un “altro” […].33

Il Dio vivente non è necessariamente colui cui diciamo Tu […].Ogni Tu rivolto a Dio è una menzogna, o piuttosto un errore. Poiché

Dio non è un Tu come gli altri Tu che conosciamo, i Tu che noiconcepiamo. Dire Tu a Dio è renderlo– per noi– non vivente. Chi crede diconoscerlo e si è sforzato di conoscerlo meglio, in verità non lo conosce eanzi si allontana da lui.

Il Dio vivente non s’incontra che nel fondo di sé, nel raccoglimentoal fondo di sé, al fondo della propria vita, al di fondo di ciò per cui noi–ogni “io”– siamo viventi […].

Non bisogna cercare Gesù né a Betlemme, né a Nazaret, né aCafarnao, né sul Calvario, nemmeno all’uscita dal sepolcro una mattina diPasqua. Bisogna cercarlo là dove è realmente il Dio vivente, absconditus insinu Patris.34

E il seno del Padre è il fondo di me.35

Questo Grund, che Gesù chiama Abba.36

In modo assolutamente parallelo a Eckhart, Le Saux identifica fondodell’anima e fondo di Dio, ritenendo che Gesù abbia avuto la medesimaesperienza: egli chiamava Abba, cioè “padre”, nel modo più familiare,secondo la sua cultura, quello che noi chiamiamo impersonalmente“fondo”.

In altre parole, l’esperienza di advaita delle Upanishad è quellastessa di Gesù, testimoniata nei Vangeli sinottici, dove si descrive il suobattesimo. Dire che Gesù ha riconosciuto se stesso come Figlio di Diosignifica che ha esperimentato l’upanishadico aham brahma asmi (io sonobrahma). Nel giudaismo– esclusivista, monoteista, dualista– non si

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potevano trovare parole diverse da quelle di “Figlio di Dio”. Questaespressione, infatti, esprime la vicinanza di Gesù a Dio, anziché la realtàdella sua identità. Giovanni riferirà questa esperienza con parole migliori,mettendo sulle labbra di Gesù l’espressione: “Io e il Padre siamo uno”.37

La medesima esperienza di intimità, di immanenza o piuttosto dinon-distanza (non c’è nessun “abisso”!), fatta da Gesù, considerandosiFiglio del Padre, fufatta in India sotto il segno dell’ātman/brahman: ahamasmi brahman [io sono brahman].38

Non c’è niente né al di sopra né al di sotto di lui.Tutto questo mistero è Gesù, lo “Io sono”, egò eimì [Gv 8, 58].Aham asmi namakah [Il mio nome è “Io sono”: Brhādaranyaka

Upanishad, I, 4, 1].

L’esperienza del fondo dell’anima è quella dell’assolutezza delpresente, in cui non ha alcun peso ciò che è temporalità, corporeità:

Accettare la non-durata. Nessun domani. Ma nessun domani va dipari passo con nessun passato. “Io” non sparisco alla morte di questo corpo,ma nemmeno “Io” continuo a esistere. Perché “Io” sono, non toccato dallecondizioni del corpo.39

Il momento della morte non è privilegiato che nel contesto del mito,in illo tempore. È nel presente che io accedo a me.

Nessuna spiegazione di come possa vivere al di fuori di questocorpo è soddisfacente. Io so solamente che sono nato in questo corpo e chemorirò in questo corpo– il che vuol dire che la mia coscienza è emersa nelcorso del tempo cosmico in un luogo dello spazio e in un agglomerato dimateria legato al tempo e allo spazio–, e che verrà un giorno in cui questoagglomerato si dissolverà.

I verbi “io nasco”, “io muoio”, implicano l’espressione in istocorpore. Non hanno un valore assoluto.

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Prima (di nascere) io sono. Dopo (la morte) io sono, non: ero e sarò:ego sum.40

A che morte può andare incontro, infatti, chi non è e non ha piùun’egoità, chi è già morto a se stesso, ovvero colui il cui spirito non è più ilsuo spirito (l’ātman individuale), bensì lo spirito di Dio (l’ātmanuniversale), al di sopra di ogni individualità e di ogni dualità?

Silesius recita:

Prima ancora che io fossi, ero Dio in Dio

E ancora posso esserlo, se son morto a me stesso.41

Nel celebre sermone Beati pauperes spiritu Eckhart scrive:

Perciò prego Dio che mi liberi da Dio, perché il mio essereessenziale è al di sopra di Dio, se prendiamo Dio come inizio delle creature.Però in quell’essere in cui Dio è al di sopra di ogni essere e di ognidistinzione, là ero io stesso, volevo me stesso e conoscevo me stesso, percreare questo uomo che sono. Perciò io sono causa di me stesso, secondo lamia essenza, che è eterna, e non secondo il mio divenire, che è temporale.Perciò io sono non nato e, secondo il modo del mio non esser nato, sonostato in eterno, sono ora e sarò in eterno. Quello che sono secondo la nascitadeve perire ed essere annientato, giacché è mortale, e dunque devecorrompersi col tempo. Nella mia nascita furono generate tutte le cose e iofui causa di me stesso e di tutte le cose, e, se non lo avessi voluto, né io néle cose sarebbero, ma, se io non fossi, neanche Dio sarebbe: che Dio siaDio, infatti, io sono una causa e, se io non fossi, Dio non sarebbe Dio.42

Non ci soffermiamo ulteriormente. Ci limitiamo a riportare laconclusione di questo stesso sermone:

Con questa povertà [descritta nel sermone] l’uomo raggiunge ciòche è stato in eterno e che sempre sarà. Qui Dio è uno con lo spirito, equesta è la povertà maggiore che si possa trovare.

Chi non comprende questo discorso, non affligga perciò il suocuore. Infatti l’uomo non può comprendere questo discorso finché non

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diventa uguale a questa verità, giacché questa è una verità senza veli,scaturita dal cuore di Dio, senza mediazione.43

3. Il tempo e l’eterno

Meditando sulla mitologia della “storia della salvezza”, Le Saux neformula una critica esplicita, che mostra il distacco ormai compiuto rispettoalla dimensione alienante del tempo, del molteplice, del corporeo:44

Non mi sono mai sentito così lontano dal “Tempo” come quest’anno […].

Pasqua appartiene terribilmente al “Tempo”. È l’eterno visto attraverso le lenti deformantidel “Tempo” […].

Che cosa è Pasqua? Cosa è la messa? Cosa è la domenica? Gli anniversari presuppongonoche si sia ancora nel Tempo. Che cos’è un anno, un ricordo distinto, per chi è penetrato nell’eternitàe ha trasceso le frontiere del Tempo, l’intero dominio della “limitazione”, compresa quelladell’individualità?45

Questo distacco dalla tradizione giudaico-cristiana è tanto forte, cheLe Saux non si considera più occidentale, ma si sente ormai hindū:

Per gli occidentali la salvezza deve venire: questo è il messianismo ebraico e il messianismocristiano, del tipo paolino escatologico e del tipo interiore giovanneo, e il messianismo scientista omarxista. La salvezza è al di fuori, viene dal di fuori (tuttavia Gesù insegna che il regno è dentro dinoi).46

Per noi hindū, la salvezza non sta in un divenire, in una futura fine, in un domani o fra poco.La salvezza è, e, nella misura in cui noi siamo, noi siamo salvati, noi siamo la salvezza […] Non sitratta di trovare un complemento di sé, ma di scoprire sé, di incontrare sé.47

Infatti:

La salvezza è l’esperienza del Sé.48

La salvezza è “uscire dal tempo”. Accedere all’eternità.49

Di contro a una eternità “pensata”, dunque assolutamente fittizia, LeSaux, utilizzando ancora la nozione eckhartiana di “fondo”, nota:

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Non c’è una “salvezza” nel tempo, fuori di noi: l’eternità è pensatadall’uomo come una continuazione, una persistenza. Ma essa non è nientedi tutto ciò. L’uomo non pensa il presente che in rapporto a un passato e aun futuro. Ma il presente è innanzitutto il presente. Né l’eternità né ilpresente possono essere pensati. Dio è quel Fondo (intravisto in un lampo)verso cui il pensiero tende indefinitivamente.50

E “salvezza” non significa affatto una qualche prosecuzione diquesta esistenza fisica in un tempo eterno– ovvero, orribilmente, senza fine–,51 bensì il trovarsi in patria, in pace, nella luce, qui e ora, nel presente, cheè l’unico tempo vero:

Quando sperimento che “io sono”, questo non vuol dire checontinuerò a essere in un tempo che continuerà a essere dopo la distruzionedi questo mio organismo. L’“io sono” non ha niente a che vedere con la miavita “futura”, perché l’essere non è del futuro, ma del presente, e il presenteè l’eterno.52

La persona pacificata è quella che vive nel presente, che ha integratoil passato nella sua interezza (nessuna frustrazione, vincite e sconfitte sonoaccettate nello stesso modo e accolte con equanimità, gli errori sonoperdonati e si perdona se stessi per aver peccato) e per essa il futuro nonpone nessun problema; né paura, né desiderio, né la minima proiezione disé nel futuro, totalmente se stessa nella totalità del momento presente: totussimul.53

Riflettendo sulle diverse formulazioni che l’esperienza di salvezza,pace assoluta, riceve nel mondo cristiano e in quello indiano, il testoprosegue:

La pacificazione assoluta nasce dall’aver raggiunto il fondo: un equilibrio essenziale. Per ilcristiano è l’esperienza della saggezza, un’esperienza diretta, una esperienza della e attraverso laconnaturalità [sc. tra uomo e Dio], il frutto ultimo della fede. Per l’hindū, è l’esperienza di essere.

Quando ho realizzato che IO SONO, ovvero che il mio io, liberato da tutti gli attributispazio-temporali, coincide con lo aham essenziale che io sono al fondo di me, quale spazio rimaneper qualsiasi desiderio, per qualsiasi paura? Per una completezza ancora da raggiungere?54

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Causa dell’alienazione comune è la pusillanimità– la micropsychìaclassica–,55 ovvero, come direbbe Eckhart, il disconoscimento della grandenobiltà dell’anima umana:

Per la maggior parte degli uomini il Dio-altro non è che l’impossibilità di sostenere se stessi.La paura di essere. La vertigine dell’essere. Allora si esorcizza questa debolezza e si costruisce unappiglio solido ed eterno per tenersi nell’essere, senza doversi assumere la responsabilità di essere.56

L’uomo non osa accettarsi come Assoluto. Allora trasferisce questoAssoluto in Dio! Che sollievo! Sì, trasferimento di ciò che è in-sopportabilein sé. Luogo di incontro delle insufficienze della superficie con la Pienezzadel fondo. Ma la superficie preferisce appoggiarsi su un’altra piuttosto cheaccettare l’autosufficienza dell’essere […].57

Contro il luogo comune del profetismo quale elemento “nobile”della Scrittura ebraica, LeSaux coglie con precisione il suo caratterealienante: il rimando al futuro, fuori dal presente, che è l’unico tempo vero,il tempo dell’essere e non dell’immaginazione e della menzogna.

La lettura dei Profeti è disperante: sempre per l’indomani!58

“Coloro che assassinano l’ātman. Chiunque desideri che ciò che ènon sia (Marco Aurelio)”, scriveva perciò Simone Weil,59 legandocorrettamente insieme stoicismo e induismo.

L’ipocrisia del profetismo si manifesta, di conseguenza, nella fuganel “peccato”:

I nostri peccati? Una bella scusa. Una “manovra diversiva”: domandare perdono per liberarsidal dovere di “essere”.60

L’alterità di Dio permette, infatti, di vivere come ci pare, magari alriparo di un “salvatore”. Pensandoci “poveri peccatori” possiamo esimercidall’essere– ovvero dal percorrere la via del distacco, fino alla scoperta delSé, del vero io e del vero Dio, qui e ora, nel presente, che è l’unico temporeale, non illusorio.

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D’altra parte, la religione cristiana, ancorché mitologica, èpreferibile all’ateismo, in quanto sostiene l’immortalità dell’anima, ovverola sopravvivenza individuale, che dà un qualche sentore dell’Assoluto:

L’uomo, il cristiano, incapace di vivere al di fuori del suo mito! Ma il mito di unasopravvivenza individuale è più reale, in fondo, della negazione concettuale di questasopravvivenza. Poiché questo mito è il solo mezzo dell’uomo di vivere un senso dell’Assoluto.61

Del resto, si comincia sempre ingenuamente col mito. Esso vacompreso, superato, ma non negato in una astratta e intellettualisticarazionalità di tipo illuministico:

Questo mito deve sfociare nella realizzazione dell’Essere e non dissiparsi in una negazionepuramente razionale e quindi falsa.62

Del migliore illuminismo, peraltro, Le Saux condivide pienamentel’onestà, con la quale si smaschera la petitio principii per cui la verità della“rivelazione biblica” viene sostenuta in forza del suo stesso contenuto,nonché la pretesa teologica di contrapporre la “storicità” della storia biblicaai “miti” delle altre religioni. Il monaco francese non solo conoscel’illusorietà di tale presunta storicità, ma soprattutto la sua insignificanzarispetto a una verità che abbia davvero valore. Proprio come Lessingscriveva– “casuali verità storiche non possono mai diventare la prova dinecessarie verità eterne”–,63 Le Saux, in forza della sua esperienzaspirituale, scrive:

Non è la storicità del cristianesimo che fonda il suo valore. Niente del tempo e dei “fatti”può fondare il non-creato e l’eterno.64

E proprio alla denuncia della fuga nella temporalità, nel futuro comenel passato, dedica diverse riflessioni:

La saggezza abramica, che sia ebraica, cristiana o musulmana, e al livello più alto diciascuna delle sue branche, è un “progetto” di salvezza. Essa ha accettato l’irruzione di Yahweh nel“progetto” dell’uomo, che di colpo ha trovato se stesso […].

Qui non c’è nessun progetto. Non c’è nessun tempo in cui Yahweh possa fare irruzione.Yahweh viene incontrato nella sua eternità, là dove esso è prima che mi abbia incontrato nel

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tempo.65

Perché la nostra realizzazione è al di dentro. Noi non siamo per ildomani, né per l’oggi, né per il futuro prossimo, ma per l’istante presente.66

D’altra parte, è chiaro che solo l’esperienza dell’Assoluto nelpresente permette di sfuggire all’alienazione, che cerca salvezza nel tempo:

Chi ha gustato questo sapore incomunicabile del presente, come può andare alla ricerca di“sapori” spirituali del passato, nella storia ebraica, nella storia della Chiesa, nei miti che cercano diesprimere la Realtà nella “storia”, nei misteri o nei sacramenti che servono a ricordare il passato o aprefigurare un avvenire anch’esso irreale come il passato?67

Il passato irreale della storia biblica– i miti di Abramo, deiPatriarchi, dell’Esodo, del Patto, ecc.–,68 posto a prefigurare un avvenireanch’esso irreale, o comunque inventato, sia che si tratti delle “magnifiche eprogressive sorti dell’umanità”, grazie al “Dio che dirige la storia”, sia chesi tratti delle fantasie sulla vita postmortem:

Decidere che Dio è questo o quello, che l’aldilà della morte è questo o quello, come deve farridere tutto ciò Dio! L’uomo può al massimo cercare di applicare le sue categorie, di proiettarlenell’aldilà.69

Il non-creato, l’eterno, il regno di Dio, non sta nella temporalità enell’esteriorità, ma nel profondo dell’anima, e si mostra quando scompare ilvolere personale, ovvero l’egoità:

Il saggio, per definizione, vede le cose come le vede Dio stesso, perché, penetrando in sé, èimmerso in Dio. Al fondo della sua contingenza, ha scoperto l’essere; al fondo della sua distinzione,l’unità indivisibile; al fondo del tempo, l’eternità stessa. Egli è passato sul piano della vita eterna, èpenetrato nel regno di Dio.

Ma come spiegare meglio? È diventato un solo spirito con Dio. Èaffondato in Dio, il suo pensiero è affondato, il suo volere è affondato; ilsuo io non esiste più. È entrato nel suo Io divino.70

Per il saggio non c’è più differenza; egli non è nemmeno colui chevede l’unità sotto la differenza; egli “ignora” la differenza stessa. Non

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diciamo che Dio ignora il male? Egli non ama e non odia, non desidera enon teme. La sua pace e la sua beatitudine hanno una trascendenza chesupera ogni concezione umana [exsuperans omnem sensum: Fil 4, 7].71

Il medesimo testo prosegue tentando di evidenziare la paradossaledialettica Io umano/Tu divino, riprendendo la terminologia e i concettieckhartiani del “fondo”:

Dio è al fondo dell’“io”. Dio è l’Io reale, ricoperto, rivestito dall’egoismo.

Dio è al fondo del “tu”. Dio è il Tu reale, ricoperto, rivestito dall’egoismo.

Due vie d’accesso al Divino, al brahman: l’Io, il Tu: vie d’accesso esistenziali, non proveattraverso definizioni che portano soltanto a idee.

Non soltanto Dio è al fondo di ogni Tu, ma senza Dio non vi sarebbero né Tu né Io. E il Tuè, con e dopo l’Io, la realtà esistenziale immediatamente percepita dall’uomo. Inoltre l’Io non sirivela che in relazione al Tu, e il Tu in relazione all’Io.

E conclude esplicitamente riferendosi alla necessità del superamentodi ogni alterità:

Finché l’Io è in opposizione al Tu, è egoismo, è l’ego che si sovrappone all’io-sono.72

Di fronte alle banalità di un cristianesimo ridotto tutto allo storico,al sociale, il benedettino francese ripete, profondamente rivissute, le paroledi Plotino: “Il solo verso il Solo”,73 dalle quali soltanto, poi, può nascere unamore tra gli umani che sia veramente tale:

L’advaitin cristiano ha tutto ciò che gli serve per nutrirsi in Giovanni e Paolo. Ma egli deverestare solo. Se l’advaita diventa una dottrina, se si istituzionalizza, diventa un falso advaita […] Lasolitudine di Colui che è solo. Il silenzio di Colui che è Solo. La nudità di Colui che è Solo.74

La creazione di una dottrina pone infatti immediatamente in queldualismo vero/falso che, nel caso dell’esperienza dell’advaita, ovvero non-dualità, la smentisce ipso facto. La solitudine non è una condizione fisica, diseparatezza dai propri simili, ma lo “stato”, per così dire, dell’interiorità,ove si può conoscere se stessi, vivendo la non-alterità:

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Questa solitudine o non-alterità (an-anyatva; ekatva, ekanta) risplende di luce propria. È lascoperta della mia aseità, del fatto che io sono al di là di ogni divisione di tempo, di materia e dispazio. È la scoperta che non c’è nessun abisso tra me e Dio, quel Dio sul quale ho proiettato tutte lemie nozioni di Assoluto, mentre questa nozione di assolutezza non può scaturire che da me. Si diràche essa scaturisce dalla mia esperienza di incompletezza, di finitezza. Ma questa esperienza difinitezza non può che essere radicata in un’esperienza di infinitezza che è profonda, primordiale,inafferrabile in se stessa. Il lampo della realizzazione è proprio questa scoperta di infinitezza,illimitatezza, al fondo, alla sorgente stessa di tale finitezza. È come scoprire il mio Io puro, in sé, nelfondo, nella sorgente del mio io-con, del mio io-agente, pensante, senziente, ecc. È comel’estrazione della parte più profonda di sé dal proprio fondo. Cfr. l’immagine della KathaUpanishad, VI, 17: estrarre il purusa dal fondo del cuore.75

Contro ogni mitologia e superstizione religiosa, nella quale Dio èproiezione della psiche, Le Saux scrive:

Soltanto il fondo di sé non si proietta. Il presente non si proietta, è. Dopo la morte del “Dio”del concetto e del mito, risplende soltanto l’unico e vero Dio, vivente nell’esperienza del fondo. Nonci sono dubbi che, attraverso i miti e i concetti, il “fondo” possa essere talvolta raggiunto, possa cioèverificarsi l’incontro tra l’uomo della coscienza fenomenica e il Sé. Questo è il punto essenziale diogni missione spirituale, l’oggetto di ogni messaggio religioso.76

L’opera ultima da compiere è eliminare quest’ultima distinzione trachi cerca e ciò che è cercato. È questo il nodo del cuore [hrdayagranthi].Ramana aveva ragione a raccomandare di annientare il pensiero stessodell’ego che è la fonte di tutto il resto.77

4. Ramana Maharshi

L’incontro con Ramana Maharshi fu di grandissima importanza perLe Saux. In lui vide, infatti, un saggio che aveva concretamente realizzato ilrisveglio a sé, e dunque il risveglio a Dio; ne parla perciò più volte, conprofondo rispetto e quasi venerazione: noi ci limitiamo a descriverlo quibrevemente, seguendo le sue parole.78

Nato il 30 dicembre 1879 a Tiruzuchi, non lontano da Madurai, nelTamilnadu, si chiamava in realtà Venkataraman, e solo nella seconda partedella sua vita ricevette quel’appellativo e quel nome di Bhagavan Sri

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Ramana Maharshi con cui poi fu noto. All’età di diciassette anni si recò aTiruvannamalai– in sanscrito Arunachala, il santo monte, uno dei luoghi piùsacri dell’India meridionale–, ove visse senza interruzione fino alla morte,avvenuta il 14 aprile del 1950. Fu ad Arunachala che Le Saux lo incontròdue volte, nel 1949.

Dopo un’adolescenza assolutamente normale, neppure troppo intrisadi devozione, all’età appunto di diciassette anni, mentre, insieme al fratellomaggiore, frequentava una scuola diretta da missionari americani,Venkataraman ebbe un’esperienza eccezionale: un giorno, all’improvviso,fu assalito dall’idea della propria imminente morte, per cui fu colto daviolenta paura. In realtà non c’era nessun pericolo vicino e niente poteva farpensare a una prossima fine, ma il giovane fu comunque sconvolto e tuttopervaso dalla preoccupazione della morte che lo attendeva.

Invece di rigettare come assurda quella idea, Venkataraman guardòin faccia risolutamente la possibilità della propria morte e decise dicimentarsi con essa senza esitazioni. Per rappresentarla nel modo piùrealistico, si distese per terra e provò a immaginare l’atto stesso deltrapasso, sentendo così che il movimento e la vita si ritiravano da unmembro dopo l’altro, che il rigor mortis si avvicinava sempre di più ai suoiorgani vitali, mentre i sensi venivano meno, la mente si appannava esvaniva anche la coscienza di sé, come avviene quando si cede al sonno.

Ma ecco che, nel momento stesso in cui si dileguava la suacoscienza personale, sorgeva, con una lucidità e una forza sconvolgenti eliberanti, la pura coscienza di essere. Tutto è scomparso, tutto è venutomeno… eppure, io sono! In tale esperienza non avevano parte né il corpo,né i sensi, né il pensiero e neanche la consapevolezza di sé, nel sensocorrente del termine. C’era solo questa esperienza, nella sua nudità, chesembrava scaturire da se medesima, risplendere del suo stesso fulgore, privadi qualsiasi sostegno, libera da ogni tipo di legame: IO SONO. Era una lucepura, abbagliante; nulla era visibile nel suo irraggiamento, o, per megliodire, non c’era altro che quell’irraggiamento.

In questa sparizione di tutto, era scomparsa la stessa morte. Qualemorte, infatti, può cogliere colui che semplicemente è, che è puramentecosciente di essere? Soggetto alla temporalità e alla morte è ciò che èsoggetto alla divisione, alla scomposizione, al mutamento, ma colui che è,

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al di là di tutto ciò, non può mutare né svanire. Permane sempre, in quantoè. Quando è sorta in qualcuno la coscienza che “io sono”, egli vive ormai suun piano di consapevolezza che non può essere toccato da alcuna minacciadi estinzione.

Questa fu l’unica, decisiva, esperienza di Ramana, che dominò tuttoil resto della sua vita. Luce inalterabile, fondamento di tutta la vita interioreed esteriore di colui nel quale rifulse. Ben presto gli uomini presero aprosternarsi davanti a colui il cui volto era divenuto raggiante in questaconsapevolezza, e fu chiamato Bhagavan, beato. Ma lui, indifferente a tutto,rifiutava di darsi qualsiasi nome, cosciente ormai solo di ciò: che egli era.79

Dopo questa esperienza, il giovane Venkataraman non fu più lostesso e non poté sopportare la vita consueta. Così, improvvisamente,abbandonò tutto e tutti, prese il treno per Madras e si recò aTiruvannamalai, ove giunse il primo di settembre 1896. Per alcuni mesivisse nei cortili del tempio, in silenzio, mendicando e meditando; poi, perottenere una solitudine più grande, si ritirò nelle grotte sul fianco del montesanto Arunachala, ove, piano piano, giunsero discepoli e si formaronocapanne per accogliere i devoti che venivano a visitarlo.

Ramana viveva in mezzo a tutto questo come in un sogno, nel qualeperò egli era, paradossalmente, sveglio e che prendeva molto sul serio, mapur sempre un sogno… e, del resto, non è tutto soltanto līlā, gioco delSignore, come una rappresentazione? Colui che così sa rappresenta la suaparte nel mondo con lo stesso senso di responsabilità con cui un attoreinterpreta la sua parte sulla scena, ma, al pari di quello, non dimentica la suavera identità, che gli fu svelata nell’esperienza del Sé.

Quando ricominciò a leggere libri, Ramana fu sorpreso diriconoscere nella descrizione dell’esperienza vedantica, qual è riportata neimanuali, la sostanza stessa di quella che aveva trasformato la sua vita. Unodegli aspetti più interessanti del suo caso è la coincidenza fra ciò che egliaveva sperimentato in modo così repentino e spontaneo e la lungatradizione spirituale dell’India, trasmessa di secolo in secolo. D’un colpo, esenza sospettarlo, egli era giunto a quell’intuizione che stava al principiodell’insegnamento degli antichi sapienti e che poi aveva dominato tutto losviluppo della filosofia hindū. La sua intuizione di giovinetto gaio e giocosotestimoniava la realtà dell’esperienza su cui avevano dissertato i maestri.

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Sankara ne aveva tratto una filosofia che sta tra i più notevoli sistemi dipensiero formulati dall’uomo. Gaudapada e, prima di lui, gli ignoti autoridel Yoga-vasistha e dell’Astavakra-samhita ne avevano esposto lecondizioni e le conseguenze in termini che forse sono meno tecnici, ma cheriescono a esporre in modo ancora più sconvolgente l’inesorabilità di taleesperienza e la solitudine interiore in cui pone chi la compie. Agli occhi diLe Saux, il vecchio bramino con lo sguardo assente, seduto nudo su uno deigradini del tempio di Arunachala o in qualche grotta del suo monte,indifferente a tutto, unicamente rivolto verso l’interno, rappresentò la provavivente del perdurante operare dell’appello che l’India continua a rivolgerea ogni uomo: aprirsi a quella profondità del Sé nella quale è chiamatoall’essere.

Indubbiamente, l’insegnamento fondamentale che Ramanatrasmetteva, semplicemente con la sua silenziosa e sorridente presenza, eraquello del distacco dall’ego:

Non preoccuparsi né dell’idea di essere realizzato né di quella di non esserlo. Tutto ciògonfia di continuo l’ego. Finché penso a un ego da trascendere o da annientare, lo sto soltantogonfiando!80

Bisogna aver smesso di dire Io per poter incontrare Dio.81

5. La via del distacco

Che la via del distacco possa essere faticosa, soprattutto per quel checoncerne i legami di tipo religioso (religio vuol dire legame!), Le Saux loesperimentò pienamente.

Una pagina del Diario, scritta nel novembre 1956, lo mostra conchiarezza:

L’agonia dell’ego, e questo disorientamento, queste notti di cui parla Giovanni della Croce, edi cui noi apprendiamo qui la ragione profonda. E l’ego si attacca a tutto, a tutto ciò che in lui è piùsottile, più alto, più puro. A tutto ciò che gli è apparso nella luce più adamantina, la luce dell’essere.Egli abbandona tutto, ciò che si chiama nel linguaggio spirituale “le cose create”, le cose di questomondo, ed è facile. Ma le cose eterne, come le abbandonerà?82

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Di fronte alla presupposizione dogmatica di “realtà eterne” che nonsi possono abbandonare, l’intelligenza onesta di Le Saux così prosegue:

Come se ci fossero “cose eterne”! Come se tutto ciò che è afferrabile dall’intelletto nonappartenesse al creato, non fosse connaturato a ciò che siamo!83

Poi c’è il legame con la tradizione ecclesiastica cristiana, che siautosostenta, presentandosi come divina, e, d’altra parte, la tradizioneinduista, con le sue Scritture e i suoi guru. A entrambe si deve opporre ilneti, neti– “non questo, non questo”– che le Upanishad stesse insegnano.Le Scritture e le tradizioni sono la zattera che serve a passare il fiume, lascala che serve per salire, ecc.: tutto quel che occorre lasciare, una volta cheha esaurito il suo compito. Legame più difficile da sciogliere, infine, quellodell’ego e della sua volontà:

Però c’è la Chiesa, ci sono i sacramenti, ecc. Sì, neti, neti. Ma c’è la rivelazione che mi èvenuta dalle Upanishad, ci sono i sapienti, ci sono i guru, c’è tutta questa atmosfera culturale nellaquale ho avuto accesso all’illuminazione: una zattera che ti è servita a passare il guado, quello checredevi un guado; una torcia che ti è servita ad accendere le braci– quelle che tu credevi spente –,come proclamano le stesse Upanishad. Lascia andare la zattera alla corrente, lascia cadere la torcianelle braci, neti, neti. Ma c’è infine un ego che corre verso l’illuminazione, che vuolel’illuminazione piena, che vuole la conoscenza di brahman, e c’è colui che desidera la salvezza, che,come il Buddha sotto l’albero pipal, è tutto teso verso la realizzazione suprema.84

Se non ci si libera dall’egoità, inutile sperare la salvezza, o l’essere:

Finché c’è colui che desidera la salvezza, non c’è salvezza. Finché c’è desiderio dell’essere,non c’è l’essere. Finché c’è un’altra persona o un’altra cosa, non c’è ancora niente.85

Occorre infatti superare ogni dualità, che si fonda sull’autocentrarsi dell’ego, per il quale ilmondo e il prossimo sono “altro”. In spirito ancora una volta profondamente eckhartiano, Le Sauxnota perciò che l’esperienza di unità tra se stessi e il cosmo è quella primaria (e ciò dimostra ancorauna volta, se mai ce ne fosse bisogno, l’assurdità delle accuse di “solitudine” rivolte al mistico):

La dualità primordiale da superare è questa: me stesso e il resto, nonquella tra Dio e “me”. Finché ci saranno questi “altri” al di fuori di me, Dioe il mondo vi saranno confusi, anche se possono essere distinti e definiti in

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seconda battuta. Finché il mondo mi resta aliud, Dio non potrà mai esserpercepito da me all’interno di me.

Sopprimere questo “centro”, che chiamo “me stesso” e attorno alquale traccio cerchi concentrici che sono la mia mente, il mio corpo, ilmondo concepito essenzialmente in relazione a me e infine Dio, concepitoanch’esso, ahimé, in relazione a me.

Raggiungo l’illuminazione quando realizzo che il centro èdappertutto reale come in “me”. Dio però non è questo centro, perché Dio èsenza luogo e senza tempo […].

Trasferire il “centro” dappertutto… il che significa “farlo svanire”.L’essenziale interdipendenza. Il peccato è la mostruosa ipertrofia di questaparticolarità o particolarizzazione della materia in un corpo, in cui simuove, o che è animato da una mente.86

Il peccato è, appunto, il legame all’ego, l’amor sui. Se lo sidistrugge, compare una gioia profonda, che, paradossalmente, non puòneppure essere detta “mia”, perché questo ego non c’è più:

Gioia profonda, gioia “mia”. Ma essa non è mia. È la gioiaessenziale in cui, liberato dalla limitazione del mio ego, io sono, per cosìdire, ormai sprofondato. Una farfalla, liberata dai limiti dell’io impuro,dell’io puro, uscita dalla crisalide, vola felice nella profondità, nell’abisso,nel vuoto dell’io divino ed essenziale.

La “mia” gioia non può essere piena. Piena è solo “la” gioia chetrascende tutti i sentimenti, tutte le esperienze, quindi tutti gli attributidell’io. Andare al di là della gioia è uno degli stadi della meditazionebuddista. Quando la “mia” gioia diventa piena, cessa di essere mia, e,poiché essa è piena, è la Gioia, la Pace, primordiale, essenziale, la stessache Dio gusta in sé, in “me”, in ogni essere…87

Si noti la perfetta consonanza con quello che scriveva MargheritaPorete nel suo Specchio delle anime semplici: non si può dire che l’animaprovi gioia, perché è diventata la gioia stessa.88

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A Margherita– come pure a Eckhart– può essere riferito anche unaltro tema molto importante della riflessione di Le Saux sul distacco: quellodella necessità di andare oltre l’amore, in quanto legame, attaccamento.

Realizzazione, illuminazione, si tratta di “un” superamento, “del”superamento. Non dell’abbandono a un altro– all’Altro –, no, nemmenoall’amore per lui. L’amore che si prova non è l’amore totale, esso risentedell’attaccamento al Sé, al Sé inferiore. L’amore che è al di là di tutti isensi, la pace che è al di là di tutti i sensi, la gioia che è al di là di tutti isensi. Al di là dell’amore, della pace, della gioia.89

Amare senza essere attaccati.

L’amore per Dio stesso è un legame da tagliare.

Amare Dio senza attaccamento.90

In Oriente come in Occidente, il vero monaco, l’asceta rinunciante,non è, in fondo, altro che un antico stoico:

Il monaco non ha nessun desiderio, nessun attaccamento. Non cerca nessun piacere.L’immagine del più nobile asceta che si nutre soltanto di ciò che gli capita (come per caso), cheaccoglie con indifferenza totale tutti gli avvenimenti e le condizioni successive della sua esistenza incorpore.

Egli non desidera nessuna perfezione, soprattutto non desidera la “realizzazione” brahmanicaallo scopo di ottenere gloria (anche se poca) tra gli uomini. Si dà senza calcolare; semplicemente, intutte le circostanze, si dà tutto.91

E, come lo stoico antico, il vero monaco non è legato neppure alproprio distacco e, dunque, è capace di stare in ogni situazione– monacoanche in mezzo alla folla:

Essere nudi e attaccati alla propria nudità è peggio di essere vestiti senza attaccamento alproprio vestito. Rifiutarsi di portare un vestito per dimostrare la propria libertà è una libertà di tipolegalistico. L’uomo veramente libero non ha bisogno di dimostrare la propria libertà, né a se stessoné ad altri.92

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L’uomo veramente libero è veramente “nudo”, vuoto, e, in questosenso eckhartiano e buddhista insieme, libero anche dalle immagini di Dio:

Se uno non rinuncia a tutto quello che ha, omnia quae possidet [Lc 14, 33], anche a Gesù cheha davanti agli occhi […] Perfino al Dio di Gesù, perché anche questo è soltanto un’idea chepossiede il mio “ego” e che impedisce all’ego di sparire nell’abisso.93

Andare oltre le immagini di Gesù, che sono sempre fonte diappropriazione, nutrimento per l’egoità.

Rinunciare anche a Dio per Dio: questa è la suprema rinuncia.94

Radicale è perciò, anche in Le Saux, la critica alla teologia:

I teologi partono di solito dall’uomo in presenza di Dio […] Ora l’uomo non può essere inpresenza di Dio; l’uomo non può vedere Dio senza morire. In presenza di Dio l’uomo non è.

In presenza di Dio l’essere umano non è. Dio solo è […].

“Mettiamoci in presenza di Dio”: ciò non ha senso. Perché non c’èniente e nessuno in presenza di Dio. Nell’essere c’è soltanto Dio, che èfaccia a faccia con sé.95

Di contro al presunto sapere teologico, chi ha davvero esperienzadell’Assoluto sa di non sapere niente di Dio:

Esistono soltanto due tipi di persone che sono in pace:

coloro che non hanno compreso niente del mistero di Dio e che tuttavia credono di averlocompreso: i teologi;

coloro che lo hanno “realizzato” e che ammettono di non sapere niente di Dio.96

Con evidente riferimento autobiografico, pensando alla faticacompiuta nello spogliarsi della forma accidentale del teologo e del prete, iltesto prosegue:

Quale angoscia quando tutto in te reclama la realizzazione e i teologi e i preti intorno a te– epiù ancora il teologo e il prete che ti porti dentro, che sei– ti minacciano di una “perdita essenziale”se lasci il cammino dell’intelletto. Eppure Gesù ha detto: troverà la propria anima solo colui cheaccetterà di perderla [Gv 12, 25].97

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6. Mistica versus religione

Occorre dunque conoscere lo spirito, molto più che la storia diGesù,98 che è tutta nel tempo, in un passato in cui l’incontro con Cristo èillusorio. La dimensione del tempo, dello ieri e del domani in cui vivonogiudaismo e cristianesimo, è infatti una dimensione alienante, lontanadall’essere.99 “La mistica è essenzialmente il conseguimentodell’Assoluto”,100 mentre la religione, invece, sta nel relativo, ovverocostituisce una sovrapposizione alla nostra essenza, che è pura, nuda euniversale:

Ci si converte, si riceve una iniziazione, si diventa cristiani, musulmani, sufi, vedantin, ecc.Si tratta di forme sovrapposte. Mentre l’essenziale è spogliarsi di tutto il sovrapposto, recuperare lapropria forma perduta.101 Non c’è una “verità storica” ebraico-cristiana opposta alla “mitologia”pagana: si tratta di due mitologie, e quella giudaica non è certo migliore, in nessun senso, di quellagreca. La posizione di Le Saux nei confronti del cristianesimo storico, delle sue “sacre scritture”,della tradizione ecclesiastica, è perciò quella dell’uomo intellettualmente onesto:

Da Monchanin ho appreso il carattere relativo delle Scritture e deldogma cristiano: una volta compreso ciò, grazie a lui, ho solo applicato lalogica.102

Ha “applicato la logica” andando avanti, liberandosi del rispettosacrale per ciò che ha solo un valore relativo: il rispetto sacrale, il prendereper divino ciò che è di mano umana, impedisce l’esperienza vera del divinoqui e ora, in nobis, che è poi l’esperienza di Gesù e il messaggio che ci halasciato.

Analizzando alcuni testi scritturistici ebraici, e paragonandoli conquelli dell’India, Le Saux non può fare a meno di notare la disperantemiseria dei primi, con la loro concezione superstiziosa di Dio:

I testi di Geremia e i salmi geremiaci che la Chiesa ci fa leggere nelperiodo della Passione sono davvero orribili. Come può un cuore cristianorecitarli senza provare nausea? Coloro che hanno scelto questi testi nonhanno mai compreso il Pater, dimitte illis!103

Che concezione ristretta di Dio, di Yahweh d’Israele! Dio ridottoalla dimensione della loro sicurezza, della loro prosperità individuale e

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nazionale. Dov’è il Dio-in-sé104 in tutto questo? Perfino i poveri, gliebioniti, divennero dei farisei, più superbi davanti a Dio della loro povertà edella loro virtù di quanto i ricchi non lo fossero dei loro beni davanti agliuomini!105

Il salterio è terribilmente giudaico e riporta il cristiano a un livelloprecristiano, non evangelico, giacché nei salmi ripetiamo ciò che gli antichiscribi giudei scrissero molto tempo fa, in conflitto con l’Evangelo: peressere trasformati in preghiera cristiana, i salmi richiedono unatrasformazione non minore di quella che sarebbe necessaria per leUpanishad o per la Bhagavadgītā, scrive perciò Le Saux.106

Veramente i salmi sono terribili con i loro costanti scontri con i nemici di Dio. Come se Diopotesse avere dei nemici! Chi si oppone a Israele, anche soltanto sul piano temporale, è proclamatonemico di Dio! Tuttavia, nello stesso tempo, i profeti mostrano bene che i nemici di Israele sonospesso degli strumenti di Dio! Che contrasto con la serenità del vedānta!107

Rispondendo a un interlocutore che aveva detto: “Il Saccidānanda èun concetto metafisico, non è il Dio vivente”, Le Saux nota: “Come se lavita di Dio consistesse negli scatti d’ira che i profeti proiettano in lui!”, eprosegue: “Ma chi può comprendere l’intensità della vita del Saccidānandase non ne è mai stato sfiorato… bruciato?…”.108

L’hindū si perde in sé, in Dio. La sua preghiera è uno sguardo, unosprofondamento, uno svanire, una liberazione suprema. L’ebreo infastidisceDio con la sua personalità. Nell’ebreo, tutto è centrato su di sé. Dio devecombattere per il suo popolo, sterminare i suoi nemici. Quale fatica e qualedistrazione sono i salmi ebraici per l’hindū che ha realizzato il Sé!

Quello che vale per l’ebraismo vale anche per il cristianesimo, seesso non ha conversione (metànoia), distacco, “decreazione”: allora tuttoincrementa l’egoità– che è ciò che fa propriamente la Bibbia ebraica.

Yahweh è un Dio nazionale. L’Israele cristiano ha ereditato losciovinismo ebraico. La preghiera e il culto ebraico, poi cristiano, sono

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centrati sull’uomo; anche quando sono teocentrici, esprimono un Dio che èuna proiezione dell’uomo.109

Il cristiano ha un complesso di persecuzione. Si inventa deipersecutori anche quando non ne ha nessuno di reale. Un’eredità ebraica. Isalmi sono invocazioni d’aiuto e di vendetta.

L’ebreo non arriva a dimenticarsi e a perdersi in Dio. Salvami,vendicami. E quando non trova nemici esterni, si attacca al suo “peccato”interiore. Non può lasciare in pace il suo Signore.

Questo atteggiamento inquieto è stato molto poco trasfigurato dalcristiano. Il cristiano si riposa sub umbra alarum Dei [“all’ombra delle alidi Dio”: cfr. Salmo 17, 8]. Questo è il tema fondamentale del cantogregoriano. Egli si inginocchia ai piedi del Signore per farsi accarezzare dalui, mentre l’ebreo, in piedi davanti a lui, gesticola impaziente.

Come tutto ciò è “esteriore” per noi hindū!110

Su questo punto, la riflessione di Le Saux incontra quella di SimoneWeil, che paragona la nobiltà dell’Iliade– lo straordinario poema in cuil’autore, greco, pone sullo stesso identico piano “amici” e “nemici”, e siconclude, anzi, con gli onori funebri resi all’eroe “nemico” – allaconcezione ristretta dell’ebraismo, idolatrica, perché “non è il nomeattribuito all’oggetto, ma il modo dell’adorazione, che distingue l’idolatriadalla religione”.111

In particolare, sulla preghiera, come non ricordare quanto Platonescrive sulla “devozione discreta” degli spartani, il popolo più religiosodell’Ellade, che agli dèi non fanno mai richieste determinate, limitandosi apregarli che concedano loro, “sopra ogni altro bene, quanto è nobile ebello”?112 E già abbiamo visto il parere di Eckhart sulla preghiera, che, sediventa domanda di qualcosa di diverso da Dio stesso e dalla sua luce, èbestemmia.113

Anzi, la bestemmia è già tutta nel porsi come un io di fronte a Dio:“Io ti prego…”; ma come puoi dirlo, se non c’è un “io”? E come puoimettere te di fronte a Dio? Che sfacciataggine! Che bestemmia!114

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Le Saux si esprime perciò con un radicalismo che è pari solo aquello di Eckhart, o di Ibn Arabi,115 ben consapevole della possibilità difraintendimento del suo linguaggio da parte di chi pensa solo in terminiappropriativi, reificanti– ovvero non pensa:

La conoscenza di Dio è sapere che non c’è che Lui. Che è Lui Colui che conosce e Colui chegioisce che il mio ego pretende di essere, e, nello stesso tempo, Colui che è conosciuto e l’oggettodel godimento di questo pseudosoggetto.116

Non c’è che Dio. Chi lo comprenderà senza cadere nel monismo onel panteismo?117

Le Saux nota, perciò, in primo luogo l’opposizione radicale tramessaggio cristiano ed ebraismo; in secondo luogo, consequenzialmente, ilfatto che la costituzione della Chiesa è stata un tradimento del messaggio diCristo e la costruzione di una nuova sinagoga:

Quale enorme mutazione l’apparizione di Gesù in quel popolo! Ahimè, i suoi discepolihanno ri-fondato una sinagoga!118

La Nuova Alleanza doveva creare un cuore nuovo, dare lo spirito.Dov’è lo spirito? La Chiesa è ben presto ridiventata sinagoga, legalismo,ritualismo, formalismo. Ma non poteva essere altrimenti, dato che lo spiritonon è veramente penetrato.119

Contro le menzogne della “rivelazione biblica”, fatte proprie dallaChiesa,120 con cui si vorrebbe svelare il mistero, Le Saux sottolinea laverità del buddhismo, che insegna l’unica cosa onesta: il distacco.

Il Buddha non aveva ragione a chiedere semplicemente lacessazione di ogni desiderio? Non c’è una via diretta al mistero, c’è soltantola rinuncia a ogni via.121

Scrivendo negli anni del Concilio Vaticano Secondo, Le Saux vedecon chiarezza il suo senso complessivo: “ha cercato di attaccarsi al mondo”,

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in un tempo in cui il mito cristiano non regge più di fronte alla scienza; maè una strada che non porta lontano. L’unico punto fermo, presente nellamistica cristiana, è l’esperienza del fondo dell’anima, del Grund der Seele:

Il mito non regge più. La ragione discute indefinitamente le sue conclusioni. Un solo puntofermo: l’esperienza del fondo. Il Concilio ha cercato di attaccarsi al mondo. Il suo senso del misteroè ancora troppo speculativo, mitico, sentimentale.122

Il Concilio rimanda al giudaismo come padre del cristianesimoperché il suo concetto di Dio è quello rappresentativo-superstiziosodell’immaginazione umana:

Il cristianesimo giudaico, come tutte le religioni, resta a livello dei deva,123 con un devaunico e primordiale che esso proietta in un mitico (spaziale-temporale: eterno) aldilà. Ed è perquesto che le sue formule– e la sua griglia mentale– non soddisfano più.124

Il cristianesimo giudaico non ha capito nulla dell’insegnamento diGesù, che ha liberato da ogni rappresentazione religiosa, da ogni deva fruttodell’immaginazione:

Gesù si è riconosciuto Figlio di Dio, al di là di tutti i deva, del suo essere e dell’universo eanche della sua religione […].

Più che dal peccato, è dai deva che ci ha liberati.125

Peraltro, secondo Le Saux, dopo gli ebrei, anche i greci hannodistorto il messaggio di Gesù:

L’idea del messia ha rimpicciolito Gesù. […]Gli ebrei hanno ridotto Gesù al messia della loro storia della

salvezza, della loro salvezza. I greci ne hanno fatto una discesa divina, ladiscesa in terra del loro Logos.

L’India, libera dalla storia e soprattutto dalla particolarità storica–quest’impossibile “popolo di Dio”!– e libera anche dal logos e dall’eidos,ha colto immediatamente il mistero universale.126

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I miti di stampo giudaico e le teologie razionali di marca ellenicanon hanno reso chiara la “divinità” di Gesù, ma, al contrario, l’hannorivestito di forme false di grandezza.

La pretesa di ridurre Gesù alle forme giudaico-greche dicomprensione lo svuota della sua universalità e della sua reale “divinità”,malgrado le formulazioni dogmatiche nette.

La divinità di Gesù è essenzialmente la sua “trasparenza divina”.Dio, l’Assoluto, non può essere ricondotto né ridotto a un punto deltempo.127

L’esperienza religiosa dell’India è “incontestabilmente superiore” aquella ebraica, come pure a quella ellenistica, e dunque permetteun’interpretazione più profonda, più autentica del messaggio di Cristo.128

Infatti:

La metànoia129 predicata da Gesù non è il passaggio da un dharma130 a un altro. È il ritornototale al Sé, che corrisponde al passaggio allo stadio della “realizzazione”.

Questa metànoia è nirvrtti.131

Non si tratta di “credere” che Gesù sia Dio, che ci sono tre Persone nel Dio che ci “salva”.Queste non sono che formule, qui in India letteralmente incomprensibili. È puro giudaismo fermarsia tali formule e riti.132

Cristo non perde niente della sua vera grandezza quando vieneliberato dalle false forme di grandezza con cui l’avevano ridicolmenterivestito i miti e la riflessione teologica.133

Contro la retorica della pretesa superiorità delle “tre religionimonoteiste rivelate”, Le Saux non ha dubbi: le mitologie giudaiche,giudaico-cristiane e islamiche sono una cosa meschina di fronte almessaggio di liberazione dell’induismo, del buddhismo, di Cristo–nonostante tutte le degenerazioni.

La liberazione attraverso Cristo– la si confronti con la liberazionedei rsi 134 upanishadici– del Buddha (nonostante le degenerazioni

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successive). Giudaismo e islam, a che basso livello al confronto!135

Le religioni aggiungono al messaggio dell’Assoluto una “glossa” euna “gnosi” che è appunto ciò che le costituisce in quanto religioni– lateologia, che serve a nutrire l’ego e la sua smania di esserci:

Io non ho che un messaggio, il messaggio dell’Assoluto. È lo stesso messaggio che Gesù etutti gli altri veggenti hanno insegnato: il faccia a faccia con la morte, con Yama,136 con Dio. Lanudità totale di questo faccia a faccia, senza più né male né bene. Nessun merito, la puramisericordia, dice il cristiano. Ma tutte le religioni aggiungono una glossa e una gnosi a questomessaggio, e così il ritorno all’ego ritrova la propria pastura. E noi ritorniamo pastura di mrtyu [lamorte].137

Quando si teologizza, si cade.138

Contro la teologia, Le Saux esprime un giudizio tanto netto quantosqualificante:139

Io non sono interessato affatto ad alcuna forma di cristologia […] Lascoperta dello IO SONO di Cristo è la rovina di ogni teologia cristiana,giacché tutte le nozioni vengono bruciate nel fuoco dell’esperienza […] Nelfuoco di questo IO SONO scompaiono tutte le nozioni sulla personalità,ontologia, storia di Cristo, ecc.

I preti e i teologi si arrestano e fanno arrestare i loro fratelli alsegno!

Dogmi, canoni, riti: soltanto segni.140

Noi siamo vittime dei nostri sistemi di segni, segni monetari,linguistici, sociali, religiosi, ecclesiastici– necessari, ma alla fineopprimenti.141

Esser rimasto vittima del complesso di “segni” ereditati dallatradizione teologica è il limite che Le Saux trova anche nel pur amatoEckhart, a proposito del quale nota che egli cerca nella Bibbia solo ciò cheserve a illustrare le sue tesi, come fa sempre la teologia postpatristica, per

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cui le sue “meravigliose intuizioni mistiche” vengono malamente distortedalla sua metafisica, che complica ogni cosa– a differenza della “graziadelle Upanishad, che mostra come tutto è così semplice!”.142

Stante l’impossibilità di esprimere compiutamente, in un discorso“teologico”, l’esperienza fondamentale, tutta la storia della Chiesa è,dunque, storia di una lunga, millenaria, mistificazione:

Non c’è pensiero del mistero che non sia già nāma-rūpa,143 formula. L’esperienza nelmomento originale non si palesa che con un “Ah!”.

Non c’è niente che si possa discernere prima del nāma-rūpa, né nella teologia cristiana, nénel pensiero di Gesù, modellato dalla cultura giudaica.

E poi vennero i concilii! Ci fu l’ellenizzazione, con il suo potere ditrasformazione, e inoltre il legalismo romano, che s’impossessarono dellaTorah ebraica. E la Chiesa cadde nell’intellettualismo del medioevo enell’idolatria che lo accompagnò. Che peccato che i riformatori non sianostati capaci di scoprire lo spirito!144

Le teologie, come pure le ideologie “laiche”, sono maschere, che gliuomini si danno perché non sono in grado di sostenere la loro nudità, la loronullità– che pure essa può essere una maschera:

Soltanto maschere, tutti questi cristiani, questi hindū, questi musulmani, questi buddisti,questi comunisti, ecc. L’uomo non sopporta di essere nudo di fronte all’altro. Ammesso che sopportiegli stesso la propria nudità! (Ma anche la nudità corporale può essere una maschera)… Maschereche si attaccano così fortemente alla pelle che non si possono più staccare!145

Occorre dunque superare tutte le religioni– in nome del Dio vero,andare oltre le rappresentazioni di Dio, cui ciascuno è portato dalcondizionamento (il karman), che determina corpo e mente. Corpo e mentenon sono lo spirito, che è l’essenziale:

Che mi importa di essere cristiano, che mi importa di essere hindū?Non sono il karman e le circostanze che hanno messo ciascuno su una certavia? Fede e culti riguardano il mentale e il corpo: una mente per pensareDio, una lingua per cantarlo, un corpo per adorarlo.146

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Una fede vale l’altra. La fede si trova sul piano del mentale.147

Le Saux intende qui per “fede”, ovviamente, la credenza religiosa, ein questo senso può scrivere:

L’asceta non-dualista che è, ormai fuor di dubbio, la mia grazia e ilmio appello interiore, è libero da ogni rito, da ogni fede, ecc.148

Libero da ogni rito, libero da ogni fede in quanto credenza: “Chicrede non è figlio di Dio”, insegnava infatti Meister Eckhart. Il benedettinofrancese sa però benissimo che la fede, in senso forte e puro, non ècredenza, ma negazione di ogni credenza, e perciò, citando non a caso sanGiovanni della Croce, scrive:

La contemplazione è essere passati attraverso la barriera del suono:non identificare più Dio con i prodotti del proprio pensiero o delle proprieemozioni. La pura e nuda fede, disse Giovanni della Croce, per cercare difar comprendere agli uomini che Dio non è niente di ciò che essi pensanoche egli sia; non ciò che gli uomini adorano, dice la Kena Upanisad.149

Si può perciò distinguere tra una fede “qualificata”, ovverodeterminata, scaduta a livello di credenza e perciò relativa, e una fedeassoluta:

Il cristianesimo è una fede qualificata. La fede assoluta rifiuta ogni qualificazione.150

Superficiale è perciò il cosiddetto “dialogo interreligioso”, che non èaltro se non un dialogo tra le varie superstizioni, ove ciascuna cede un po’di posto all’altra, per mantenerne uno anche per se stessa:

I dharma si contraddicono a vicenda. Il loro dialogo reciproco non può che esseresuperficiale. Altrimenti esso li farebbe esplodere tutti rivelando in essi il livello dello spirito. Ognidharma è fondato su una fede particolare. Rifiuta l’autorità ultima della ragione umana (il livellodella filosofia). Non c’è dunque nessuna autorità capace di decidere tra essi. Ogni dharma giudicagli altri a partire dalla propria “fede” particolare. Si può raggiungere una “fede” non particolaristica?

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Senza dubbio no, perché ogni espressione della fede la particolarizza e ne fa un “altro”dharma.

Però c’è il piano dello spirito. Sul piano dello spirito ogni dharma esplode. Ma questo nonpuò essere detto, perché lo spirito è un’“esperienza” e non un “tema”. E quando se ne parla, essodiventa un tema, e l’ascoltatore confonde questo tema con l’esperienza.151

La realtà spirituale è dialettica, nel senso che non si può esprimerein una proposizione finita, ma va al di là di ogni coppia di opposti, ossia sicoglie, appunto, solo in quello che Le Saux chiama qui “piano dellospirito”, cui si giunge con l’esperienza, non con dimostrazioni estrinseche:

Naciketas pone a Yama la domanda: Asti? Na asti?152 Yama non risponde direttamente, mapoco a poco gli fa realizzare il Reale, che è al di là di tutti gli advaita, di tutte le coppie diopposti.153

Advaita vuol dire che la realtà è una sola (il che non esclude affatto,peraltro, la possibilità del discernimento). Sotto il profilo teologico,dobbiamo perciò dire, ad esempio, che “Dio non è né Persona né non-Persona, né Tu né Io, e dunque è tanto Persona quanto non-Persona, tanto Ioquanto Tu”,154 e che “monoteismo/politeismo è discussione di persone chenon sanno. Dio non è né Uno né una moltitudine. Na eka na-aneka [né unoné non-uno] Na-asti na-nasti [né è né non è].

Il mistero di Dio è ben espresso sia da un mito ‘politeista’ sia da unmito ‘monoteista’: manifestazioni molteplici di Dio, dunque dii, deva,theoi”:155 Le Saux esprime qui in latino, sanscrito e greco il concettoteologico-rappresentativo di Dio, le varie raffigurazioni del divino, cheappartengono allo psichismo dell’uomo e non hanno nulla a che fare con laverità. Infatti:

Tutto ciò che si sa o si crede di sapere di Dio è falso. C’è soltanto una cosa da sapere di Dio–che supera l’intelligenza e giunge alle sorgenti dell’essere– ed è che questa conoscenza è un totaleaffidamento. È nella rinuncia ad appoggiarsi su di sé che si conosce Dio, esistenzialmente. Questa èla fede e la conoscenza di brahman.156

Totale affidamento, totale resa, total surrender, come scriveva inquegli stessi anni Madre Teresa di Calcutta,157 ovvero distacco, “rinuncia

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ad appoggiarsi a sé”: questa è la fede e la conoscenza esistenziale di Dio.Esperienza della realtà, dell’unica (advaita) realtà, che è Dio stesso.

La presenza di Dio– il Dio presente nell’assenza di Simone Weil, ilLoingprés di Margherita Porete–158 è perfettamente chiara all’uomo che ècapace di riconoscerlo qui e ora, in tutte lecose:

L’uomo che chiude gli occhi a mezzogiorno e domanda a Dio di manifestarsi attraverso laluce!

Dio è qui, a portata di mano. In tutto.159

Con linguaggio e anche con immagini che ricordano ancora unavolta molto da vicino quelle di Eckhart, il monaco francese scrive:

In ogni atto, in ogni essere, qualunque sia, Dio è totalmente presente.160

C’è tanto spirito nell’atto di cuocere una patata o di preparare il tèquanto nello studio arduo della Pratyabhijna [sistema dello shivaismo delKashmir] o della Summa [di Tommaso d’Aquino]. Dio non è meno Dio, lospirito non è meno spirito quando fa muovere l’ala di una mosca di quando“inspira” la generazione divina.161

Il concetto di ātman appariva talvolta a Le Saux troppo statico pertradurre lo spirito del cristianesimo, per cui usava volentieri il concetto dishakti, tipico di Abhinavagupta e dello shivaismo del Kashmir, ovvero laforza vitale che permea tutto l’universo, che si effonde in tutte le cose–corpo, mente, mondo.162 Shakti è femminile, come grazia, che non apportanuove forme, ma è la “forma” capace di “informare” tutto, ovvero tuttotrasformare con la sua luce.163

L’uomo non deve fare altro che lasciare fluire la shakti, ovveroaccogliere la grazia di Dio, facendo il vuoto in se stesso, con quellaapertura-spaccatura di se stesso, che apre il “passaggio all’altra riva”:

L’altra riva l’uomo non la raggiunge che con la spaccatura di sé, con l’apertura di sé nelpunto più profondo. E ciò non può essere misurato con nessun rito, con nessuna formula, connessuna preghiera, con nessuna legge.164

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L’“apertura” (break open) corrisponde in pieno al durchbrucheckhartiano,165 con cui si “passa” nella Divinità:

Quando accetto che non vi sia per me né paradiso né inferno (in linguaggio biblico), soltantoallora passo all’altra riva.

Gesù passò in Dio quando disse: Eloi, lamma sabachtani [“Dio, perché mi haiabbandonato?”: Mt 27, 46]. Soltanto nella rinuncia all’intero sé, tutto è ritrovato, è salvato. Ma se sifa questa rinuncia con l’idea di ritrovarsi, né ci si perde né ci si ritrova.166

7. Oltre il cristianesimo

Non v’è dubbio che Le Saux sia rimasto sempre cristiano, anchenello specifico senso di un profondo rapporto con la figura di Gesù Cristo,ma l’esperienza indiana gli fece comprendere che Gesù era l’uomo che harealizzato tutte le sue virtualità d’uomo, compresa la suprema: la non-dualità con Dio.167

Andando al di là dei saggi dell’advaita, Gesù è penetrato al di là delsuo “io” nel mistero dell’“io” del Padre, origine del suo stesso “io”. Al di làdei Patriarchi e dei Profeti dell’Antica Legge, Gesù è penetrato al di là del“tu” del Padre, nell’“io” ancor più essenziale da cui trae origine. Pater etego unum sumus [Gv 10, 30].

E chiunque in sé penetri nel mistero supremo, in Cristo, è passato inDio, dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce; vivo, jam non ego sedChristus in me vivit [Gal 2, 20]. Questo è il senso di vivere Deo di chiunquesia risorto in Cristo.168

Purtroppo il messaggio e l’esperienza di Gesù non sono staticompresi, innanzitutto dal suo popolo: proprio in quanto maestro cheannuncia il mistero,169 Gesù fu condannato dai preti della sua religione peraver proclamato il mistero interiore che ci libera.170

Il Vangelo è rivolto innanzitutto agli ebrei. È una liberazione dalgiudaismo, così come l’Upanishad lo è stata dal “brahmanesimo”. Il veromessaggio del Vangelo è questa liberazione al di là dei nomi-formeutilizzati.171

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Ma il cristianesimo è stato sclerotizzato in religione e, diventandouna religione, si è svuotato del suo mistero e della sua forza.172

Gesù non fu capo o fondatore di una religione; questo avvenne piùtardi.173 Non religione, ma, al contrario, liberazione dalla religione– inquesto caso dal giudaismo–, il Vangelo fa superare nomi e forme (nāma-rūpa), ossia ogni determinazione, che è legame all’egoità.

Come si è già detto, sia la mitologia giudaica, sia la razionalitàellenica non sono state in grado di cogliere il messaggio di Gesù. Occorreliberarsi dalla storicità– in particolare dall’“impossibile concetto di popolodi Dio”–, per avere accesso alla verità.

Sotto questo profilo, niente vieta di dar valore ai miti religiosi,purché non sia un valore assoluto:

Una volta riconosciuta la verità fondamentale del mito religioso e delle molteplici forme cheesso ha assunto, si accetta la verità simbolica di ogni formula, di ogni rito, ecc., ma si rifiutadecisamente di dar loro un valore assoluto.

Proprio quello che fece Gesù in rapporto al giudaismo del suo ambiente, e che lo portò allacroce!174

Gesù è stato compreso dai cristiani in modi inessenziali:

Gesù è stato compreso dai cristiani solo come il maestro che è altro, Uomo perfetto,Creatore, Sacerdote, Salvatore. Troppo raramente è brillato il lampo del tat tvam asi [Tu sei Quello]ed è scaturito spontaneamente l’aham asmi [io lo sono].175

Gesù è un uomo che ha totalmente scoperto e realizzato il propriomistero. È innanzitutto questo. Tutto il resto è un’aggiunta superflua. Tuttoil resto è gnosi. La salvezza è nella sua persona, non in qualche tipo di gnosiche gli venga aggiunta senza necessità. È il suo Nome che salva e non inomi che gli danno gli uomini. Il suo nome è “IO SONO”. Il nome di ogniessere cosciente è innanzitutto io, io-Aham [cfr. Brhādaranyaka Upanishad,I, 4, 1].

Gesù è salvatore per il fatto che egli ha realizzato il suo NOME.Egli ha mostrato e aperto il cammino al di fuori del mondo fenomenico e ha

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raggiunto la caverna del cuore, ove si trova il mistero nascosto, al di là deicieli, che è il mistero del Padre.

Scoprendo il Padre, non ha trovato un “altro”: Ego et Pater unumsumus [Gv 10, 30].176

È a questo punto che si incontra il concetto trinitario, e la nozioneessenziale di spirito:

Lo spirito è il mezzo che fa sì che i due non siano “altro” per l’altro.Lo spirito è il mistero della non-dualità del Padre e del Figlio, del generatoe del non-generato! In questa visione puranica, Gesù riconosce di nonessere nient’altro che il Padre, che non ci sono abissi.177

Per primo l’apostolo Paolo tentò di esprimere il mistero di Cristo,ma in termini già ellenistici:

Paolo visse nel suo “essere afferrato” al di dentro da Cristo,l’“essere afferrato” di Cristo da parte del Padre, il mistero essenzialedell’essere nel fondo di me che è “io sono”.

Questo mistero interiore che Gesù chiamò il Padre e questarelazione con l’interno del mistero che egli chiamò lo spirito.

Et tres sunt unum [1 Gv 5, 8].E spiegò questo agli ebrei, come se quella povera gente fosse in

grado di capirci qualcosa. La Trinità è l’interpretazione data dall’intellettogreco all’impatto dell’esperienza di Gesù nella sua profondità sugli ebrei esui cristiani ellenistici […].178

In realtà, nota Le Saux:

La meditazione della Trinità in se stessa, nel suo mistero, è lacontemplazione, propriamente non-dualista, in cui l’anima svanisce sulpiano che le è considerato proprio e non esiste più che sul piano di Dio.

La Trinità è il mistero di Dio e di me stesso vissuto nella sua realtàdivina ed eterna. C’è il Padre e c’è un io, venuto da e nello stesso tempopassato nel Figlio. E c’è lo spirito, il pneuma, la Presenza del Padre in me,la Presenza-Figlio in me; quest’ultimo mistero di non-dualità, al quale il

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concetto di Persona fa ancora meno giustizia che nel caso del Padre e delFiglio.

La Trinità significa, nell’alta contemplazione, aver trasferito,proiettato in Dio stesso, la cui essenza è infinitamente semplice, il misterodi questo duplice sguardo che mi costituisce davanti a lui.179

Sotto questo profilo, il cristiano Le Saux resta convinto che “solo larivelazione della Trinità permette di trascendere l’induismo”,180 ma laTrinità non si comprende che nell’esperienza di non-dualità, perché laTrinità è un’esperienza, non una formula teologica.181 La formulazioneteologica non coglie mai la sua verità,182 per cui Il mistero della Trinità varitrovato al di là del Concilio di Nicea, che ha posto in stallo la teologia.183

Il risveglio al mistero non ha niente a che vedere con i dogmi sulla Trinità, sull’incarnazione,sulla redenzione […] È tutto l’edificio trinitario che crolla. Perché esso è ancora solo nome eforma.184

I greci hanno fatto della Trinità un mito, i latini un concetto astratto.E così il dogma centrale del cristianesimo è “inutile” nella vita normale eordinaria del cristiano,185 perché egli non la vive, è per lui soloun’astrazione.186

Al contrario, la Trinità non ha niente di una trimurti astratta,speculativa o mitica; è una circolazione eterna con la mia Sorgente, è la miadiffusione eterna nell’unico soffio vitale,187 ovvero è ciò che esprimel’esperienza dello spirito, nel suo essere movimento e vita, e la sicomprende solo in tale esperienza, che fu di Gesù e che può e deve esserepropria di ogni uomo. Meister Eckhart scriveva:

Tutto quello che Dio ha dato al Figlio era diretto a me, e me lo ha dato così come a lui;niente ho di meno, né l’unione, né la santità della Divinità, né alcuna altra cosa.188

E Le Saux gli fa eco:

Gesù è ogni uomo su cui lo spirito si è posato.189

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Gesù non avrebbe potuto esser detto theòs [Dio]dall’uomo, se questial fondo di sé non avesse sentito la propria theotès [Divinità].190

È l’esperienza personale della luce, dell’Uno, che fa dire che Gesù èDio: senza questa esperienza, si tratta solo di un mito, che la culturamoderna ha fatto, giustamente, sparire. Ma l’esperienza di Gesù, l’“iosono”, è quella che tutti gli esseri umani sono chiamati ad avere:

Il nome salvifico di Cristo è aham asmi [io sono]. E la confessione di fede profonda non èl’esteriore “Cristo è il signore”, ma so’aham asmi [io sono lui]. Come lui, a un tempo nato e non-nato.191

Purtroppo la teologia cristiana ha fatto di Gesù e anche di Dio undeva, e i deva sono precisamente il muro che ostruisce la vista diretta delmistero di brahman/ātman.192 La rappresentazione religiosa, la teologia,pone degli dèi, delle immagini, ed esse sono precisamente quel cheimpedisce di giungere al Dio vero, allo spirito che è anche il mio spirito. Inquesto senso la teologia è, come insegna Eckhart, falsità e bestemmia.193

Occorre dunque ritrovare la Sorgente e mettere l’uomo (disorientato daideva, dall’alienazione religiosa e dal sacro sovrapposto) davanti a se stesso,nel proprio fondo. Fargli scoprire che è “più profondo” di tutte le forme e ditutte le analisi esistenziali.194 D’altra parte, il rapporto con Gesù Cristo nonè di dipendenza: ovvero viene, deve venire il momento in cui la dipendenzafinisce e lascia il posto alla comunione. Gesù non chiama forse “amici” isuoi discepoli, nel momento in cui prende congedo da loro?195

Gesù è il mio vero maestro, come ho scritto spesso. È attraverso ilsuo mistero che ho riscoperto Dio e me stesso, che ho raggiunto la miaidentità.

Ma viene il giorno in cui il maestro diventa translucido, diventatalmente trasparente che sparisce, se ne va (per così dire), sparisce nelbrahman, nell’ātman che egli fa risplendere.196

Non a caso Le Saux cita più volte con approvazione la parabolainduista-buddhista sulla zattera, necessaria per passar il fiume, ma che poi

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va abbandonata: parabola che il cristianesimo “non ha mai compreso, nétanto meno concepito”–, anche perché va applicata a se stesso.197

Gesù deve scomparire nella sua “forma”, affinché lo spirito possavenire. La vera conoscenza di Gesù è nello spirito. La teologia hasfortunatamente reificato questo mistero della Sorgente (peghè),198 dellaprofondità, del prabhava.199 E reificato Gesù, e reificato, reso sostanza, lospirito.200

Tutte le immagini di Gesù e le costruzioni teologiche intorno a lui sene devono andare, perché costituiscono un legame per gonfiare l’ego, e conciò negano esplicitamente il messaggio cristiano. La teologia oggettivizza,reifica, e fa anche dello spirito, che è soggetto, movimento e vita, unaimmota sostanza– negandolo perciò in quanto tale. Perciò:

L’uomo non deve fermarsi a nessun archetipo. Tutti gli archetipi della coscienza e del cosmodevono essere trascesi. Cristo l’ha ripetuto spesso ai suoi: bisogna che me ne vada, bisogna chescompaia [Gv 14, 28]; è necessario per amore di voi, cui la mia presenza diventa un ostacolo […].

Altrimenti Cristo stesso assume il ruolo di un idolo. L’uomo che ha paura del mistero edell’abisso installa il mistero e l’abisso in un quadro che si è inventato o che gli è stato dato, ma cheegli può vedere e concepire, e a cui può gridare: “Tu sei l’abisso”. E l’abisso che egli crede dipercepire non può più essere l’abisso. E il mistero che egli crede di toccare non è più il mistero. Gliè sfuggito, neti, neti.201

Il monaco francese non si stanca perciò di ripetere un tòpos dellamistica di ogni tempo:

Bisogna che Gesù se ne vada, bisogna che la dualità sparisca[…].202

Il cristianesimo [vero] non può che essere advaita.203

Gesù disse ai suoi discepoli: è bene per voi che io me ne vada [Gv14, 28]. E in effetti sparì. Passione, resurrezione, ascensione. Cristo ritornanell’ascensione nel luogo da cui non è mai uscito.204

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Sparì in seno al Padre. Colui che è morto, risorto e risalito in cielo,non è più “conosciuto” ormai che nel pneuma, nello spirito, in una formaspirituale, pneumatikè.205

Di fronte alla situazione religiosa del presente, Le Saux ritiene chesi sia vicini a una svolta epocale, nel senso che sta per finire il cristianesimodei primi due millenni– una religione sostanzialmente traditricedell’insegnamento di Gesù– e che si stia preparando un’era nuova, in cui sigiunga a una vera presa di coscienza di sé e del Sé. Allora devonoscomparire le religioni stesse, come pure la Chiesa, il cui dovere è quello dipreparare il suo stesso superamento:

Chiesa e religioni sono legate all’era neolitica che finisce. Esse non dureranno più del temponecessario a preparare l’uomo a questo totale impossessamento di se stesso. L’ateismo attuale è unanecessità per l’evoluzione religiosa dell’uomo. Il dovere delle chiese: preparare l’uomo a questacoscienza di sé, preparare l’uomo a sopportare la propria scomparsa. Quanto meschini sono iproblemi teologici, liturgici, ecumenici attuali!206

Che le chiese siano pronte a questo compito è dubbio, dato che nonhanno capito molto:

Il cristianesimo [ufficiale] grida che l’advaita non è compatibile con esso. E, in effetti, ilvero advaita spazza via la Chiesa istituzionale del Vaticano.207

Il cristianesimo, con le sue teologie e le sue Scritture, è vistocomunque da Le Saux come una “soluzione provvisoria”, per uomini chenon hanno esperimentato il risveglio, che non sanno dell’Uno, testimoniatoinvece nel vedānta. Citando l’amico Panikkar:

Padre Panikkar ha scritto questa frase formidabile sul cristianesimo: “Provvisorio, giusto peril tempo presente”.208 Allora? È il vedānta che tiene la chiave dell’eternità. La Chiesa è dunquesoltanto per i non-risorti, per coloro che non hanno l’esperienza dell’asmi [io sono].

Il cristianesimo non è che una soluzione provvisoria per questi uomini, l’immensamaggioranza, che sono coinvolti nel divenire, nel molteplice.209

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Il benedettino francese, “monaco cristiano-hindū”, non ha dubbi,infatti, sul fatto che il mito della Chiesa sia superato, così come quello diCristo.210 Al termine della sua vita, esprime così una certezza e lascia uncompito:

L’età postreligiosa è incominciata con la Brhādaranyaka Upanishad. La sua ombra siallunga sempre più rapidamente. Ciò che c’è da costruire ora è il cristianesimo dell’erapostreligiosa. Superamento di tutto il cristianesimo di venti secoli.

Accettare la rivoluzione portata da Gesù, subito svuotata dalla prima generazionecristiana.211

1 Cfr. Swami Abhishiktananda-Henri Le Saux, Ricordi di Arunachala. Racconto di un eremitacristiano in terra hindū, a cura di S. Rossi, ed. Messaggero, Padova 2004. All’amico Stefano Rossi,grande studioso di Le Saux, esprimo qui tutto il ringraziamento per l’aiuto prestatomi. Si veda anchePaolo Trianni, Henri Le Saux– Swami Abhishiktananda. Un incontro con l’India, Jaca Book, Milano2011. Sul rapporto tra Le Saux e Monchanin, cfr. M. Giani, Un ponte tra cultura europea e culturaindiana. L’itinerario di Jules Monchanin (1895-1957), Jaca Book, Milano 2000. Più in generale,Sonia Calza, La contemplazione: via privilegiata al dialogo cristiano-induista. Sulle orme di J.Monchanin, H. Le Saux, R. Panikkar e B. Griffiths, ed. Paoline, Milano 2001.

2 Cfr. Swami Abhishiktananda-Henri Le Saux, Diario Spirituale di un monaco cristiano-samnyāsinhindū 1948-1973, a cura di Raimon Panikkar, trad. it. di C. Lamparelli, con la collaborazione di M.Pavan, Mondadori, Milano 2001, p. 225 (d’ora in avanti, Diario).

3 Alla lettera “ardore”, in sanscrito; nel senso di ardente meditazione.

4 Cfr. David Godman, Nothing Ever Happened, Avadhuta Foundation, Boulder (Colorado) 1988, vol.II, pp. 86-88. Cfr. S. Rossi, «I “Segreti dell’India”. Profilo introduttivo di Swami Abhishiktananda»,in AA. VV., “Il passaggio all’altra riva. Henri Le Saux (Swami Abhishiktananda)”, in Vita monastica,LIX, n. 231, edizioni Camaldoli, 2005, p. 25. Bettina Baümer riportava, al già citato convegno su LeSaux tenutosi a Camaldoli nell’ottobre 2010, la sua testimonianza personale sulla profondacommozione che lo prendeva, anche negli ultimi anni della sua vita, durante la celebrazione dellamessa di mezzanotte del Natale, quando pronunciava le parole dell’Introito: “Dominus dixit ad me:hodie te generavi, tu es filius meus”.

5 Ibidem, p. 426.

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6 Riprendo qui alcune righe da S. Rossi, «I “Segreti dell’India”», cit., pp. 6 s.

7 Cfr. Swami Abhishiktnanda-Henri Le Saux, Gñānānanda. Un maestro spirituale della terra Tamil,a cura di S. Rossi, Servitium-Città Aperta, Troina 2009.

8 Cfr. la lettera a suor Marie-Thérèse Le Saux, in James Stuart, Swami Abhishiktananda. His life toldthrough his letters, with a foreword by Donald Nicholl, ISPCK, Delhi 1995, p. 306.

9 Le Saux stesso espresse più volte, privatamente, la sua insoddisfazione per gli scritti pubblicati, inparticolare per il suo maggiore, Sagesse hindoue, mystique chrétienne (1965), che già nell’edizioneinglese susseguente (1974) subì delle variazioni (una seconda edizione riveduta inglese è del 1984).

10 Il rapporto Le Saux-Eckhart è stato oggetto di diversi studi. Ricordiamo innanzitutto le numerosepagine che al tema dedica M.M. Davy nel suo Henri Le Saux-Abhishiktananda. Le passeur entredeux rives, Cerf, Paris 1981. Le Saux aveva letto Eckhart, per quanto lo permettevano le edizionidelle sue opere allora disponibili, e lo cita più volte, sempre sottolineando la sua vicinanza a lui.

11 Le Saux usa l’espressione “il Sé”, di origine vedica, per indicare la realtà profonda dell’uomo, nonpiù identificato con il mutevole “io” psicologico.

12 Cfr. Diario, cit., p. 136.

13 Ibidem, p. 86.

14 Lo rilevava acutamente Nietzsche: cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi (1887-1888), Adelphi,Milano 1971, p. 115. Sull’impossibilità di cogliere qualcosa che continuamente muta aveva riflettutoPlatone: cfr. Cratilo, 439 e: “Come può essere qualcosa ciò che non è mai nello stesso modo?”.Sintetizzando la ricerca attuale di neuroscienziati e scienziati cognitivi, Metzinger scrive: “Alcontrario di ciò che la maggior parte delle persone crede, nessuno è mai stato o ha mai avuto un“io”… L’odierna filosofia della mente e le neuroscienze cognitive stanno per mandare in frantumi ilmito del soggetto” (cfr. T. Metzinger, Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto,Milano, Raffaello Cortina, 2009).

15 Con la consueta lucidità, Simone Weil scrive perciò che “si ha ragione quando si dice chel’antichità non aveva la nozione del rispetto dovuto alla persona”, ma ciò perché “pensava con troppachiarezza per una concezione così confusa”, e prosegue notando che “colui per il quale conta solo larealizzazione della persona ha perso del tutto il senso del sacro”, giacché il moderno concetto di“realizzazione della persona” è legato al suo “gonfiarsi per il prestigio sociale” (cfr. “La persona e il

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sacro”, cit., pp. 44-52). “È la rinuncia a essere persona che fa dell’uomo il riflesso di Dio” (cfr. S.Weil, Attesa di Dio, cit., p. 138).

16 Cfr. Stuart, op. cit., p. 197.

17 “Il termine persona si applica con proprietà solo a Dio, come pure il termine impersonale”,scriveva Simone Weil (Attesa di Dio, cit., p. 155). Personale, per l’uomo e per l’immaginazioneantropomorfica, in realtà è l’aggettivo che ci dà il senso di “reale” – ovvero, in ultima analisi,materiale; ed è giusto che sia così, per non cadere in uno spiritualismo inconsistente: la materia è lospirito visibile, come lo spirito è la materia invisibile, come pensava Schelling.

18 Cfr. Diario, cit., p. 132.

19 Ricordiamo ancora una volta il pensiero eracliteo: “Per quanto tu percorra l’anima, non ne troveraii confini” (DK, B 45).

20 Cfr. ad es. Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, cit., cap. 26, p. 209; AngelusSilesius, Pellegrino cherubico, cit., I, 24, ecc.

21 Cfr. Diario, cit., p. 94.

22 Cfr. Antonia Tronti, “Conclusioni”, in AA.VV., Il passaggio all’altra riva, cit., p. 130. Cfr. ancheDiario, cit., pp. 87, 242 s.

23 Cfr. Diario, cit., pp. 94 s.

24 Ibidem, p. 195.

25 Cfr. G. Taulero, I sermoni, cit., pp. 722-780. Vedi qui il cap. “Meister Eckhart”, p. 17 e nota 12.

26 Così Schwester Katrei (vedi qui il cap. “Meister Eckhart”, p. 105 e nota 221). Così santa Caterinada Genova, che scrive: “Il mio io è Dio stesso” (cfr. Caterina da Genova, Vita mirabile. Dialogo.Trattato sul purgatorio, cit., p. 51). Così Simone Weil: “Io sono tutto. Ma questo io è Dio, e non è unio” (cfr. Quaderni, I, cit., p. 371). Anche nella mistica delle altre religioni troviamo la stessaconsapevolezza: così in al-Hallaj, in Rumi, ecc. Cfr. in proposito le mie Tesi per una riformareligiosa, cit., pp. 92 ss.; 114 s.

27 Cfr. Diario, cit., p. 432.

28 Ibidem, p. 238.

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29 Ibidem, p. 456.

30 Ibidem, p. 423. Eveil à soi-Eveil à Dieu, è il titolo anche di uno scritto di Le Saux (Paris 1971). Tr.it.: Risveglio a sé, risveglio a Dio, CENS-Servitium, Sotto il Monte (BG) 1996.

31 Ibidem, p. 381.

32 Ovvero autosussistente, nel latino della Scolastica.

33 Cfr. Diario, cit., p. 381.

34 Formula tratta da Ambrogio, Sulla fede nella resurrezione, 92, che si legge nel Breviario la quintadomenica dopo Pasqua.

35 Cfr. Diario, cit., p. 153.

36 Ibidem, p. 401.

37 Lo rilevava G. Gispert-Sauch S.J. nella sua relazione, tenuta al citato convegno di Camaldoli, il 23ottobre 2010: “La Trinità, Cristo e advaita: la teologia mistica di H. Le Saux”.

38 Cfr. Diario, cit., p. 457.

39 Ibidem, p. 381.

40 Ibidem, p. 407.

41 Pellegrino cherubico, cit., V, 233. Il distico si intitola: “Quando l’uomo è Dio”.

42 Cfr. I sermoni, cit., p. 394, nonché il capitolo relativo del mio Prego Dio che mi liberi da Dio, cit.

43 Ibidem.

44 Cfr. Meister Eckhart, Commento al Vangelo di Giovanni, cit., nn. 376, 380, 450.

45 Cfr. Diario, cit., pp. 128 s.

46 Cfr. Lc 17, 21.

47 Cfr. Diario, cit., p. 138.

48 Ibidem, p. 382.

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49 Ibidem.

50 Ibidem, p. 380.

51 “Se ti sembra più lunga l’eternità del tempo, / Stai parlando di pena, non di beatitudine”, recitaSilesius, in uno dei numerosi distici del suo Pellegrino cherubico dedicati al tema del tempo edell’eternità (II, 258).

52 Cfr. Diario, cit., p. 314.

53 Ibidem, p. 320.

54 Ibidem.

55 Cfr. Aristotele, Ethica Nicomachea, 1125 a.

56 Cfr. Diario, cit., p. 240.

57 Ibidem, p. 380.

58 Ibidem, p. 336 s.

59 Cfr. Quaderni, I, cit., p. 281.

60 Cfr. Diario, cit., p. 336 s. “Modestia: farsi piccolo per essere veramente piccolo e poter essereveramente cattivo”, notava Hegel nelle sue Lezioni sulla filosofia della religione, cit., II, p. 377, nota2.

61 Ibidem, p. 385.

62 Ibidem.

63 Cfr. G.E. Lessing, “Sulla prova dello spirito e della forza”, in Opere filosofiche, a cura di G. Ghia,UTET, Torino, 2006 p. 546. Sul “problema di Lessing”, dai suoi tempi a Kierkegaard, fino alladisputa tra Jaspers e Bultmann, ecc., si veda l’ampio studio di R. Celada Ballanti, Pensiero religiosoliberale. Lineamenti, origini, prospettive, Morcelliana, Brescia 2009.

64 Cfr. Diario, cit., p. 458.

65 Ibidem, p. 312.

66 Ibidem, p. 334.

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67 Ibidem, pp. 194 s.

68 Cfr. ad es. M. Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza, Roma-Bari 2006.

69 Cfr. Diario, cit., p. 356.

70 Ibidem, p. 154.

71 Ibidem, p. 224.

72 Ibidem.

73 Cfr. Enneadi, VI, 9, 11.

74 Cfr. Diario,cit., p. 376. Altrove, parlando della solitudine del monaco hindū, il samnyāsin,definisce la sua solitudine spirituale come quella del “solo con il Solo, o piuttosto solo nel Solo”(ibidem, p. 85).

75 Ibidem, p. 475. Per la nozione di purusa, vedi il cap. precedente, p. 138 e nota 18. Realtà piùprofonda dell’uomo, con intrinseca caratteristica teandrica, veniva da Le Saux assimilato al Cristo.

76 Ibidem, p. 405.

77 Ibidem, p. 217.

78 Utilizziamo qui, liberamente riassumendo, alcuni passi del capitolo secondo, “La morte trascesa”,della parte prima, “L’esperienza vedantica”, del libro di Le Saux Tradizione indù e mistero trinitario,traduzione di Flavio Poli, Emi, Bologna 1989 (ed. originale: Saccidānanda. A Christian Approach toAdvaitic Experience, ISPCK, Delhi, India, revised edition, 1984). Per una riflessione in merito, siveda il saggio di Caterina Conio, “Osservazioni sulla mistica di Ramana Maharshi”, ora in Misticacomparata e dialogo interreligioso, a cura di A. Fiorentini, G. Germani, F. Ghelardi, M. Giani, JacaBook, Milano 2011, pp. 143-166.

79 Non a caso Ramana faceva riferimento a se stesso in terza persona, al neutro. Ad esempio, nelbiglietto senza firma che lasciò quando si congedò dai suoi, scriveva: “Non si spenda denaro neltentativo di ritrovare questo”. Ciò coincide perfettamente con quanto sappiamo anche di alcunimistici occidentali, come ad esempio Caterina da Genova, che utilizzavano espressioni simili perevitare di parlare in prima persona. Vedi sopra, nota 26.

80 Cfr. Diario, cit., p. 478.

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81 Ibidem, p. 301. Vedi capitolo precedente, nota 165.

82 Ibidem, p. 242.

83 Ibidem.

84 Ibidem.

85 Ibidem.

86 Ibidem, pp. 102 s.

87 Ibidem, p. 102. L’immagine dello spirito che, come farfalla, si libra/libera dalla crisalidedell’egoità rimanda a Teresa d’Avila, “Castello interiore”, quinte mansioni, II, 2-9 ss.

88 Vedi qui il cap. “Meister Eckhart”, p. 32 e nota 48. Della lettura di Margherita Porete il Diario recaesplicite tracce: cfr. pp. 187, 204, 220. Altre testimonianze in Sagesse Hindoue (ed. 1965), pp. 38 n.12, 123, 154.

89 Cfr. Diario, cit., p. 103.

90 Ibidem, p. 105.

91 Ibidem, p. 328.

92 Ibidem, p. 290.

93 Ibidem, p. 205.

94 Cfr. Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, cit., II, 92. Vedi qui il cap. “Meister Eckhart”, p. 73e nota 140.

95 Cfr. Diario, cit., pp. 313 s. Significativa in proposito anche l’annotazione dell’ottobre 1966: “Hoappena letto L’essenza della verità di Heidegger. È illuminante su questo punto. L’Essere si svela inogni ente, ma questo svelamento nello stesso tempo lo obnubila, poiché mentre ogni ente manifestal’Essere e attira l’attenzione della coscienza proprio in quanto Essere, la coscienza correcostantemente il pericolo di ridurre l’Essere a questo particolare ente che le è davanti. (Sotto questepagine si legge in trasparenza la teologia cristiana)”. Ibidem, p. 370.

96 Ibidem, p. 211.

97 Ibidem.

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98 Ibidem, p. 411.

99 Ibidem, p. 311.

100 Ibidem, p. 203.

101 Ibidem, p. 480.

102 Ibidem, p. 207.

103 “Padre, perdona loro!” (Lc 23, 34).

104 Nel senso del Dio vero, non idolo creato dall’uomo.

105 Cfr. Diario, cit., p. 335.

106 Cfr. Stuart, op. cit., pp. 164 s.

107 Ibidem, p. 333.

108 Ibidem, p. 222. Saccidānanda, termine composto da sat, essere, cit, coscienza, ananda,beatitudine, con riferimento alla realtà suprema, è anche il titolo inglese dell’opera Sagesse hindoue,mystique chrétienne (vedi in questo cap. la nota 9).

109 Ibidem.

110 Ibidem, p. 223.

111 Così la Weil, in La prima radice, cit., p. 238. Sul rapporto tra Le Saux e Simone Weil, cfr. SusanVisvanathan, An Ethnography of Mysticism: The Narratives of Abhishiktananda. A French Monk inIndia, Indian Institute of Advanced Study, Rashtrapati Nivas Shimla, 1998, chapter II: “Simone Weiland Abhishiktananda: The Mystical Journeys”, pp. 40-54. In realtà il rapporto tra i due, francesi econtemporanei, andrebbe studiato molto più a fondo.

112 Cfr. Platone, Alcibiade secondo, 148-149.

113 Vedi qui il cap. “Meister Eckhart”, p. 72 e note 137 e 138.

114 “L’advaita distrugge il misero ‘Tu’ che diciamo a Dio (e anche ai nostri fratelli) a livello mentale,e anche il misero ‘io’ della nostra coscienza fenomenica” (cfr. lettera ai coniugi Miller, marzo 1970,in Stuart, op. cit., p. 356).

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115 Pensiamo al Trattato dell’unità (o Trattato della conoscenza del Signore attraverso la conoscenzadi se stessi) del grande mistico Ibn Arabi (1165-1240), ma ricordiamo, soprattutto, Spinoza, Ethica,VI, prop. 35 e 36, con corollario e scolio.

116 Cfr. Diario, cit., p. 93.

117 Ibidem, p. 162.

118 Ibidem, p. 336.

119 Ibidem, p. 337.

120 Cfr. ad. es. nel Diario, cit., pp. 186 s., la polemica contro il “doppio volto” (cioè l’ipocrisia)necessario per accettare “certi miti come realtà storiche e ontologiche”.

121 Ibidem, p. 356.

122 Ibidem, pp. 375 s.

123 In sanscrito, “esseri celesti”, “divinità”, qui nel senso di entità mitologiche.

124 Ibidem, p. 391.

125 Ibidem.

126 Ibidem, p. 462.

127 Ibidem, p. 422.

128 Ibidem, p. 326.

129 Termine greco evangelico, che significa “cambiamento di mente”, “conversione”.

130 Termine sanscrito, qui nel senso di osservanza religiosa, ossequio dottrinale.

131 In sanscrito, “liberazione”. Vrtti è il “vortice”, per cui vedi anche sopra, p. 227.

132 Cfr. Diario, cit., p. 389.

133 Ibidem, p. 466.

134 In sanscrito, “sapienti”, “veggenti”.

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135 Cfr. Diario, cit., p. 411.

136 È l’argomento della Katha Upanishad, per cui vedi anche più avanti, p. 286.

137 Cfr. Diario, cit., p. 426.

138 Ibidem, p. 470.

139 Così scrivendo al reverendo Murray Rogers, il 2 settembre 1973 (cfr. Stuart, op. cit., pp. 310 s.).

140 Ibidem, p. 371.

141 Ibidem, p. 483.

142 Cfr. ibidem, p. 152. Le Saux sta riferendo al canonico Lemarié della sua recente lettura del librodi Vladimir Lossky, Théologie négative et connaissance de Dieu chez M. Eckhart (Paris 1960), cheha trovato “molto interessante, ma difficile”. “Come la Scolastica ha complicato la gente! […] Comeun Eckhart o una Margherita Porete sarebbero altrimenti fioriti in ambito indiano!” Infatti anche la“eccellente Margherita Porete” spiega in maniera complicata “ciò che per noi hindū è così semplice”(cfr. Diario, cit., p. 220).

143 In sanscrito, “nome-forma”, nel senso di determinazione concettuale individuante, che non riescea esprimere la realtà nella sua completezza.

144 Cfr. Diario, cit., p. 470.

145 Ibidem, p. 483.

146 Ibidem, p. 132.

147 Ibidem, p. 207.

148 Ibidem, p. 139.

149 Ibidem, pp. 353 s.

150 Ibidem, p. 390.

151 Ibidem, p. 430. “Il motivo della crisi attuale è l’esaltazione della teologia al di sopradell’esperienza di Dio”, scriveva Le Saux nel luglio 1969 a suor Teresa di Gesù del Carmelo diLisieux (cfr. Stuart, op. cit., p. 215). A un’altra suor Teresa di Gesù (ovvero santa Teresa d’Avila), ilfrancescano san Pedro de Alcàntara scriveva di esser rimasto molto sorpreso nel vedere che ella si

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voleva rimettere al giudizio dei teologi in una questione non di loro competenza come quella dellaperfezione, nella quale bisogna chiedere consiglio solo a chi la pratica (cfr. G. Morel, Le sens del’existence selon saint Jean de la Croix, Aubier, Paris 1960-1961, vol. I, p. 36).

152 “C’è? Non c’è?” (Katha Upanishad, I, 20). Il giovane bramino Naciketas sta interrogando Yama,il dio della morte, in merito all’esistenza dell’uomo dopo la morte stessa.

153 Cfr. Diario, cit., p. 350.

154 Ibidem, p. 382.

155 Ibidem, p. 384.

156 Ibidem, p. 390.

157 Cfr. Gloria Germani, Teresa di Calcutta. Una mistica tra Oriente e Occidente, ed. Paoline,Milano 2003, che mette in evidenza il profondo legame che Madre Teresa ha con Meister Eckhart.Anche Le Saux usa l’espressione total surrender: cfr. ad es. il Diario, cit., p. 192.

158 Vedi qui il cap. “Meister Eckhart”, p. 65 e nota 118. Le Saux (cfr. Diario, cit., p. 308)significativamente cita i versetti della Isa Upanishad: “Egli si muove e non si muove, / è lontano ed èvicino; / è al di dentro di tutto ciò che è / e al di fuori di tutto ciò che è”, che ricordano non solo il“lontano-vicino” di Margherita Porete (per cui cfr. Lo specchio delle anime semplici, cit., capp. 58ss.), ma anche la sequenza medievale, utilizzata da Bonaventura, nel suo Itinerarium mentis in Deum,V, 8: “Intra omnia, non inclusum / extra omnia, non exclusum / supra omnia, non elatum / infraomnia, non prostratum”. Eckhart, seguendo Agostino, parla di Dio ubicumque et nusquam (ilpantachoù kaì oudamoù di Plotino).

159 Cfr. Diario, cit., p. 375.

160 Ibidem, p. 93.

161 Ibidem, p. 92.

162 Ibidem, p. 137. Lo notava Bettina Baümer nella sua relazione al citato convegno su Le Saux aCamaldoli (24 ottobre 2010), sottolineando come con questo concetto si superi la concezione delmondo come maya, illusione, tipica del vedānta e di Sankara. Sul rapporto tra Eckhart eAbhinavagupta, cfr. C. Poggi, Les œuvres de vie selon Maître Eckhart et Abhinavagupta, Les DeuxOcéans, Paris 2010.

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163 Ibidem, p. 335. Il gesuita J.P. de Caussade scrive: “L’azione divina inonda l’universo, penetratutte le creature, le sommerge: dovunque siano, essa è; le precede, le accompagna, le segue. Bastalasciarsi andare alle sue onde […] Tutto si riduce al più puro e più semplice abbandono dell’animaalla volontà di Dio” (L’abbandono alla provvidenza divina, Adelphi, Milano 1989, pp. 14-16). Cfr.anche il mio Sulla grazia, cit.

164 Ibidem, p. 385. Il “passaggio all’altra riva” ovvero dalle tenebre alla luce, rimanda a ChāndogyaUpanishad, VII, 26, 2 e a Mundaka Upanishad, II, 3, 6. È il titolo dell’opera di Le Saux: The FurtherShore. Three Essays by Swami Abhishiktananda, ISPCK, Delhi 1975.

165 Cfr. in proposito lo studio di Shizuteru Ueda, Die Gottesgeburt in der Seele und der Durchbruchzur Gottheit, Mohn, Gütersloh 1965.

166 Cfr. Diario, cit., p. 385.

167 Ibidem, p. 381.

168 Ibidem, p. 159.

169 Ibidem, p. 426.

170 Ibidem, p. 207.

171 Ibidem, p. 448.

172 Ibidem, p. 467.

173 Ibidem, p. 426.

174 Ibidem, p. 469.

175 Ibidem, p. 436.

176 Ibidem, p. 477.

177 Ibidem. “Puranica” significa alla lettera “antica”, con riferimento alle narrazioni mitiche eagiografiche della tradizione indiana, cui Le Saux paragona qui la mitologia biblica.

178 Ibidem, pp. 237 s.

179 Ibidem, pp. 343 s.

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180 Ibidem, p. 305.

181 Ibidem, pp. 490 s.

182 Ibidem, p. 491.

183 Ibidem, p. 343.

184 Ibidem, p. 468.

185 Ibidem, p. 364.

186 Ibidem, p. 366.

187 Ibidem, p. 432.

188 Cfr. il sermone 5 a, “In hoc apparuit caritas dei”, in I sermoni, cit., p. 119.

189 Cfr. Diario, cit., p. 389.

190 Ibidem, p. 460.

191 Cfr. la lettera a Marc Chaduc, metà giugno 1972, in Stuart, op. cit., p. 305. Rileviamo ancora unavolta il parallelismo col sermone 52 di Eckhart.

192 Cfr. Diario, cit., p. 422.

193 Vedi qui il cap. “Meister Eckhart”, p. 72 e nota 138.

194 Cfr. Diario, cit., p. 429.

195 Cfr. Gv 15, 14-15. Il Vangelo di Giovanni, con la nozione di Cristo-logos e di Dio-spirito, è,comprensibilmente, il più amato e citato da Le Saux– come da Eckhart.

196 Cfr. Diario, cit., p. 441.

197 Ibidem, pp. 204 e 311.

198 In greco, “sorgente”.

199 In sanscrito, “origine”.

200 Cfr. Diario, cit., p. 401.

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201 Ibidem, p. 189. Il riferimento iniziale agli “archetipi” testimonia la lettura di Jung, che Le Sauxstava facendo in quel periodo (siamo nel 1955) e che cita spesso. Con grande lucidità, il benedettinocomprende che gli archetipi junghiani (ovvero le divinità della mitologia antica) rappresentanoelementi della sensibilità o dello psichismo inferiore, dai quali si deve prendere congedo. Cfr. inproposito Augusto Vitale, “Jung e lo spirito dell’Oriente”, in AA.VV., Jung e l’Oriente, Moretti eVitali, Bergamo 2005, pp. 114-134.

202 Ibidem, p. 360.

203 Ibidem, p. 155.

204 Ibidem, p. 291. Cfr. il sermone eckhartiano “Nolite timere eos”, in I sermoni, cit., p. 624, citato alcap. precedente, p. 145 e nota 29.

205 Ibidem, p. 220.

206 Ibidem, p. 385.

207 Ibidem, p. 214. “L’Anubhhava, cioè l’esperienza di advaita, fa esplodere l’interasistematizzazione ebraico-cristiana del cristianesimo”, scrive in una lettera (cfr. Stuart, op. cit., p.271).

208 Si riferisce al libro di Raimon Panikkar, Unknown Christ, p. 63 (tr. it. Il Cristo sconosciutodell’induismo, Jaca Book, Milano 1994).

209 Cfr. Diario, cit., p. 373.

210 Ibidem, p. 473.

211 Ibidem, p. 397. Significativo notare come il pensiero di Le Saux su questo punto coincida conquello di Sebastian Franck– “la più grande figura religiosa del cristianesimo moderno”, come lochiama Piero Martinetti (cfr. Gesù Cristo e il cristianesimo, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 446); “Ilprimo storico veramente moderno”, anzi, “il primo uomo moderno”, precursore anche di Kant, comelo definisce Dilthey (cfr. il capitolo: “Sebastian Franck: i paradossi del cristianesimo” del mio PregoDio che mi liberi da Dio, cit.). Anche Franck ritiene che il messaggio di Cristo sia stato svuotato giàdalla prima generazione cristiana: invece del rinnegamento di se stessi e della rinascita allo spirito, siè infatti creata una teologia. Le teologie sono giochi per bambini, recite di carnevale, e bambini iteologi, a cominciare da quei Padri della Chiesa che nulla hanno a che fare con l’Evangelo; perciò lechiese di cui sono Padri non hanno niente a che vedere con Cristo. Nel loro fondarsi sulla Scrittura,

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ovvero sulla lettera che uccide invece che sullo spirito che vivifica (2 Cor 3, 6), sono, anzi, chiesedell’anticristo, mentre i veri discepoli di Cristo sono tutti quelli che hanno rinnegato l’“uomovecchio”, pagani o turchi (ai nostri giorni avrebbe detto buddisti o induisti) che siano, anche se nonhanno mai sentito parlare di Cristo. Vedi nota 205 al cap. “Meister Eckhart”.

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Conclusione

Quello che Le Saux pensava è solo l’illusione di un eremita, isolatosulle montagne dell’Himalaya? È destinato a restare pensiero di quei pochiche hanno condivisa o comunque compresa la sua straordinaria esperienzadi monaco benedettino e samnyāsin hindū, tra Occidente e Oriente? O non èdavvero il compito che ci attende in un futuro postcristiano– ormai non piùfuturo ma presente?

In realtà Le Saux non era affatto solo nel suo cammino: unariflessione molto simile a quella che egli svolse in solitudine, con l’aiutodella millenaria esperienza dell’India, veniva compiuta anche in Europa,ove le intelligenze più oneste ugualmente riscoprivano l’essenza delmessaggio evangelico.

Pensiamo innanzitutto a Simone Weil, che ha descritto con perfettachiarezza la radice dello sradicamento:1 l’invenzione biblica di un Dio.Oltre a tutte le menzogne che l’accompagnano, essa stabilisce infatti, tantosurrettiziamente quanto radicalmente, il principio della menzogna stessacome fondamento di “verità”, in quanto sancisce l’alterità di Dio– e dunquedell’essere, della verità. Come la Weil sottolinea, il Cristo affermòprecisamente il contrario: “Io sono la verità”,2 “Chi vede me, vede ilPadre”,3 e perciò fu mandato a morte dalla casta sacerdotale. Il rimando aDio come altro sta infatti per il non-essere Dio, non-essere verità, rendendocosì legittima la menzogna, che appare ineliminabile, propria dell’uomo,nella sua condizione di alienato, nella “caverna” platonica.

Noi nasciamo e viviamo nella menzogna. Non ci sono date chemenzogne. Noi stessi, perfino: crediamo di vedere noi stessi e non vediamoche l’ombra di noi stessi.4

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Il mentire dipende dall’incapacità di guardare in faccia il nulla,ovvero di riconoscere la propria menzogna. Si pensa così alla verità come aqualcosa che si può, eventualmente, avere, non certo essere. Quando siparte dal chiamare divino, “ispirato”, ciò che è frutto dell’amore di sé, lamenzogna diventa una sorta di seconda pelle, indossata con naturalezza,tanto che non si riesce più nemmeno a vederla, a riconoscercela. Ildualismo– Dio/non-Dio, Dio/uomo, uomo/uomo–, ovvero il pensiero delmale, sembra così la condizione ovvia del pensare e dell’essere, che è peròl’essere malus, malvagio, e così l’avere male, la malattia dell’anima.5

Non meraviglia perciò che la nostra intera società sia afflitta daldolore del sentirsi sradicati, lontani dall’essere, lontani dal bene, perché cosìè davvero. Il male è in noi stessi, nella menzogna diventata un habitusnormale a servizio dell’egoità, quasi una seconda natura, come se altradimensione non fosse possibile– e, infatti, altra non se ne vede. Di qui lacontinua fuga nell’esteriorità, nel sociale, nelle sue varie forme, dalsuccesso personale fino al progressismo– forma ultima e più velenosadell’alienazione messianica–,6 con il suo cercare nel futuro ciò che non è, esoprattutto ciò che non si è, nel presente, ovvero nell’essere reale, qui e ora.

Nella riscoperta della “fonte greca”, ovvero dell’onestà dellafilosofia– cioè del platonismo–, di cui la mistica è rimasta unica testimone,7la Weil vedeva perciò la sola possibilità di una rinascita spirituale per ilnostro tempo, che considera “miserabile”.

Lo stesso pensava Maria Zambrano, che riteneva la mistica oppostaalla religione, in quanto la mistica è l’autodistruzione, l’“autofagia”dell’anima, che si annulla perché sia– o, meglio, vi sia– spirito. L’anima“divora” se stessa (così parla anche san Giovanni della Croce, tanto caroalla scrittrice spagnola), “decrea” l’ego, si libera dall’ego, perché venga ainabitarla la grazia di Dio, lo spirito di Dio. Perdere l’anima, odiare l’anima,“morte dell’anima”: questa è la mistica.

Oggi la mistica è scomparsa– notava ancora la Zambrano–, e così èscomparsa la filosofia, perché la mistica è la nutrice della filosofia, ovverodi Platone. Ma è in realtà il cristianesimo che ha rinnegato la mistica:l’esperienza di Cristo è infatti quella dell’unione con Dio nello spirito,giacché Dio è spirito.8 Perciò Paolo dice che se pensiamo come Cristo, che

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si è formato in noi, abbiamo lo spirito di Cristo e scrutiamo le profondità diDio.9

Il tradimento di Gesù nell’orto degli ulivi è, secondo la Zambrano, iltradimento della mistica, che si è perpetuato nei secoli, fino a oggi, e perciòla mistica è– di fatto– sostanzialmente estranea, anzi, opposta alcristianesimo, costituitosi come religione, come Chiesa, con una teologia e,soprattutto, una morale. La morale è come la teologia, frutto dell’amore disé: dunque qualcosa da consumare, da distruggere, un involucro darompere, come fa la crisalide per diventare farfalla, secondo il noto esempioaddotto da Teresa d’Avila,10 perché l’amore-distacco non la sopporta.Perciò meglio dei preti e dei teologi ha visto Nietzsche, che ha riconosciutol’intrinseco distacco dalla morale da parte delle tre religioni più importanti–induismo, buddhismo e cristianesimo–,11 e cita opportunamente lapreghiera di Eckhart: “Prego Dio che mi liberi da Dio”, proprioapplicandola alla morale.12

Dove c’è spirito, infatti, non c’è teologia e non c’è morale, ma solola libertà che consegue alla morte dell’anima e alla rinascita spirituale: “Ubispiritus domini, ibi libertas”.13 Religione, teologia, morale, rimandanosempre ad altro, mentre la mistica è quella “vocazione estatica” dell’animache pone qui e ora in patria: nell’eterno, nell’Uno.14

Perciò è tanto importante il passaggio in India: perché è il passaggioall’Uno, che chiude l’alienazione e il dualismo biblico. La cristianità hainfatti perduto, con Riforma e Controriforma, l’opportunità storica che lariscoperta del platonismo le dischiudeva nel Rinascimento,15 quando sirealizzò quella mirabile sintesi tra lo spirito di verità della mistica e quellodella filologia, che, unite,16 smontarono le menzogne delle varie teologie,riconoscendo la semplice verità dei fatti: il messaggio di Gesù è quello dellarinuncia a se stessi, con cui si nasce allo spirito e alla carità verso tutti gliuomini, in una beatitudine qui e ora presente. Tale la perfettaconsapevolezza di Erasmo,17 di Agrippa, di Franck,18 ecc., tutti d’accordonel ritenere pervertito l’insegnamento evangelico subito dopo l’epocaapostolica, quando furono elaborate le diverse teologie, pretesi saperi cheprendono il posto dell’essere, per cui nacquero i varii cristianesimi, senzaalcun rapporto con l’insegnamento evangelico, che, anzi, veniva così ipsofacto negato.

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Questi uomini del Rinascimento avevano già ben chiaro quello chela scienza contemporanea ha dimostrato sul piano storico, ma erano, d’altraparte, ricchi anche di esperienza spirituale, e perciò in grado dicomprendere la verità dell’insegnamento evangelico stesso, in nome delquale affrontarono non di rado le persecuzioni e le condanne ecclesiastiche.

In loro la fede non era credenza, e non era affatto disgiunta dallascienza. Oggi, invece, la cristianità vive prevalentemente una fede che ètutta credenza– non esperienza, ma anelito, immaginazione, appoggiata sumiti e invenzioni teologiche. Vive dunque in una sorta di minoritàintellettuale19 e difatti cerca di sfuggire all’onestà della verità storica,rifugiandosi nel mondo artificiale, illusorio, della Scrittura.

La condizione della religione cristiana oggi è perciò molto simile aquella del paganesimo alla sua fine, quando intellettuali ormai solo retoripotevano sì continuare ad attingere alla ricchezza di una tradizionericchissima, scrivendo anche pagine dense di sapienza, ma senza piùpossibilità di convincere davvero, perché i miti di Eracle, di Prometeo, diUlisse, ecc., non erano più creduti, ma erano ormai solo argomenti perl’arte, per la poesia, per la retorica, e appoggiarsi su di essi compromettevaquella sapienza che il paganesimo poteva ancora enunciare.

Così oggi i “pastori” pascono il “gregge”, ma prima di tutto Dio e sestessi, foliis verborum,20 ovvero con la retorica dei miti biblici, senza potercomunicare quello che non sanno, non hanno (nemo dat quod non habet) esoprattutto non sono. Infatti:

Tutto quel che la Sacra Scrittura dice di Cristo, si verifica totalmente anche in ogni uomobuono e divino.21

L’uomo buono, divino, è l’“uomo nobile”:22 la minorità intellettualeè prima di tutto minorità spirituale, ovvero minorità dell’uomo, che non si èaccorto della sua nobiltà, ovvero di essere egli stesso luce, e conosce solo ilpiacere, che è dei sensi, o la felicità, che è della psiche, ma non labeatitudine, che è dello spirito. Di questo si tratta, infatti:

Ora potreste chiedermi: se io ho in questa natura tutto ciò che Cristo può offrirmi secondo lasua umanità, perché noi lo esaltiamo come Nostro Signore e nostro Dio? Perché egli è stato un

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messaggero di Dio verso di noi, e ci ha portato la nostra beatitudine. Ma la beatitudine che ci haportato era nostra.23

Infatti la luce, la beatitudine, è nostra. Non di altri, non poi. Qui eora: piena liberazione, jīvanmukti, perfetta pace, piena luce. Si tratta solo diriconoscere cosa sia veramente nostro, ovvero chi veramente siamo.

1 Riprendiamo di proposito il concetto e il termine dall’opera maggiore della Weil, L’enracinement(tr. it. La prima radice, cit.), ma il riferimento è a tutta l’opera della scrittrice francese: si vedacomunque, in particolare, il capitolo “Israele” de L’ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2002.

2 Cfr. Gv 14, 6. Che il cristianesimo abbia e sia il concetto di verità come soggetto e non solo comesostanza, e che esprima ciò nella rappresentazione che enuncia l’Assoluto come spirito–“elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua religione”, è perfettamente compresoda Hegel (cfr. Fenomenologia dello spirito, “Prefazione”, cit., pp. 13-19), che si mostra vero erededella mistica speculativa del suo paese, per la quale si tratta non tanto di conoscere l’essere, quanto diessere l’essere.

3 Cfr. Gv 14, 9.

4 Così Simone Weil, commentando il mito platonico della caverna, (vedi “Dio in Platone”, in LaGrecia e le intuizioni precristiane, Borla, Roma 1999, p. 69).

5 Cfr. in proposito il mio La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia, cit.

6 Si vedano ancora le pagine weiliane sopra citate. Sulla forma più attuale dell’alienazione delprogressismo, quella dell’idolatria della “scienza”, vedi S. Moser, La fisica soprannaturale. SimoneWeil e la scienza, cit.

7 Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., specialmente alle pp. 161 ss., con iriferimenti espliciti a Eckhart, Spinoza, Schopenhauer.

8 Cfr. Gv 10, 30; 1 Cor 6, 17; Gv 4, 24. Cfr. M. Zambrano, “S. Giovanni della Croce: dalla ‘notteoscura’ alla più chiara mistica”, in appendice a La confessione come genere letterario, cit., pp, 109ss. L’espressione “decreazione” è weiliana (cfr. il capitolo “Simone Weil: presenza e assenza di Dio”del mio Prego Dio che mi liberi da Dio, cit.); Zambrano dice “pervenire al non-essere” (op. cit., p.112).

9 Cfr. Fil 2, 5; Gal 4, 20; 1 Cor 2, 10-16.

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10 Cfr. “Castello interiore”, mansioni quinte, cap. 2. Teresa è, insieme a Giovanni della Croce,riferimento essenziale per la Zambrano.

11 Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1968, III, 17: “Né nel modo dipensare indiano [sc. buddhismo e brahmanesimo], né in quello cristiano la ‘redenzione’ [o‘liberazione’: Erlősung] è considerata raggiungibile con la virtù, col miglioramento morale […]Esser rimasti veritieri su questo punto può forse esser considerato il miglior tratto di realismo nelletre grandi religioni, peraltro così profondamente intrise di morale […] Teniamo dunque in onore la‘redenzione’ nelle grandi religioni…”. Nietzsche è qui debitore al compagno di scuola, l’indologoPaul Deussen (1834-1919), seguace di Schopenhauer.

12 Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Milano 1965, 292, “Ai predicatori di morale”.Sull’opposizione mistica/morale, sempre valide le osservazioni di Rudolf Otto nel suo Misticaorientale, mistica occidentale, cit., pp. 233 ss., capitolo: “Mistica ed etica”.

13 Cfr. 2 Cor 3, 17.

14 Cfr. M. Zambrano, Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 36. Cfr. S. Zucal, MariaZambrano. Il dono della parola, Bruno Mondadori, Milano 2009, e “Maria Zambrano: mistica eparola”, in Rivista di Ascetica e Mistica, 3, 2010, pp. 867 ss.

15 L’alba incompiuta del Rinascimento, titolava perciò significativamente Henri De Lubac il suolibro su Giovanni Pico della Mirandola (ed. it. Jaca Book, Milano 1977).

16 Cfr. in proposito R. Celada Ballanti, Il pensiero religioso liberale, cit., pp. 150 ss.

17 Si legga, ad esempio, l’Elogio della follia, al capitolo LX, cosa viene affermato dei teologi: dicontro alla dottrina di Cristo, che “non insegna altro che la pazienza, la bontà d’animo, il disprezzoper la vita” (ibidem, cap. LXIX), essi hanno elaborato una serie di teorie, ove “spiegano a loroarbitrio i più profondi misteri”, ecc.

18 Oltre ai Paradossi, cit., si veda di Franck la splendida Lettera a Giovanni Campano, cit.

19 Ricordiamo la celebre riposta di Kant alla domanda “Was ist Aufklärung?”: “L’illuminismo èl’uscita dell’uomo dallo stato di minorità intellettuale; è il coraggio di sapere; sapere aude”.

20 Cfr. Meister Eckhart, “Commento alla Sapienza”, in Commenti all’Antico Testamento, cit., n. 61:“Isti faciunt capram de deo, pascunt eum foliis verborum…”.

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21 È la proposizione XII di quelle censurate dalla bolla In agro dominico. La XI recita: “Tutto quelloche Dio Padre ha dato al Figlio suo unigenito nella natura umana, lo ha dato anche a me, senzaalcuna eccezione, né dell’unione né della santità: lo ha dato tutto a me come a lui”. Cfr. MeisterEckhart, Il ritorno all’origine, cit., pp. 9 s.

22 “L’uomo nobile è quel Figlio di Dio unigenito che il Padre ha generato dall’eternità”: è la prop.XXI (Il ritorno all’origine, cit., p. 13). Ricordiamo ancora il trattato “Dell’uomo nobile”, in MeisterEckhart, Dell’uomo nobile, cit.

23 Cfr. il sermone 5 b, “In hoc apparuit caritas dei”, in I sermoni, cit., p. 125. Allo stesso modo ilBuddha, secondo la tradizione, si congedò dai discepoli esortandoli a “essere luce a se stessi, rifugioa se stessi”.

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Indice

Il perché di un libroMeister Eckhart

1. Il lieto annuncio: la beatitudine

2. Il distacco

3. L’anima

4. Dio

5. Parola-Logos

6. L’a-teismo mistico

Passaggio in India1. La grazia dell’India

2. Il brahmanesimo

2.1. Le Upanishad

2.2. La Bhagavadgītā

2.2.1. Eternità del Tutto

2.2.2. Al di là delle Scritture

2.2.3. Al di là del desiderio

2.2.4. Fede e grazia

3. Il buddhismo

3.1. L’illuminazione

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3.2. Conoscenza e distacco

3.3. La genesi interdipendente

3.4. La liberazione

Henri Le Saux1. Un monaco cristiano-hindū

2. Conosci te stesso

3. Il tempo e l’eterno

4. Ramana Maharshi

5. La via del distacco

6. Mistica versus religione

7. Oltre il cristianesimo

Conclusione