Oltre il confine. La propaganda e la società di massa nel...

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- 1 - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Viale Pasubio 5, Milano | www.scuoladicittadinanzaeuropea.it Kit realizzato in collaborazione con “Oltre il confine. La propaganda e la società di massa nel 900” Kit didattico APPROFONDIMENTO 1: BREVE STORIA DEL CINEMA SOVIETICO E DELLA SUA EREDITÀ IN OCCIDENTE Biografia autore Federico Rossin, (Milano, 1977), storico e critico del cinema, professore e formatore itinerante (Italia, Francia, Belgio e Portogallo). Curatore indipendente e consigliere artistico per numerosi festival europei (Cinéma du réel a Parigi, DocLisboa a Lisbona, ecc) e cineteche (Film Museum di Vienna, Cinémathèque française, ecc). Specialista di cinema documentario, sperimentale e d’animazione. Ha curato due libri e pubblicato decine di saggi critici in volumi collettanei, in svariate lingue e paesi. Sta attualmente lavorando ad un libro di teoria e critica del cinema documentario per un editore francese. Articolo Il cinema sovietico ha in larga misura determinato la nostra visione del cinema come arte per le masse e forgiato una nuova visione del mondo: il visibile diventa un caleidoscopio pensante, decostruito al montaggio e ricostruito dallo spettatore. I grandi registi sovietici hanno posto gran parte delle basi per la teoria del film a venire e sono tutt'oggi studiati e letti in tutto il pianeta. Interrogarsi sull'influenza di questo cinema nel mondo occidentale, significa porre delle domande radicali al cinema del presente, cercando di riattivare un'eredità che non sia solo un bagaglio di invenzioni formali da utilizzare impunemente, ma anche un sogno politico che ci obblighi a ripensare il ruolo dell'arte e degli artisti nella società. Secondo quanto scritto da Anatolij Lunačarskij, il primo commissario del popolo all'istruzione del governo RISORSE DI APPROFONDIMENTO Materiale: scheda pdf

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“Oltre il confine. La propaganda e la società

di massa nel 900”

Kit didattico

APPROFONDIMENTO 1: BREVE STORIA DEL CINEMA SOVIETICO E DELLA SUA EREDITÀ IN OCCIDENTE Biografia autore

Federico Rossin, (Milano, 1977), storico e critico del cinema, professore e formatore itinerante (Italia, Francia, Belgio e Portogallo). Curatore indipendente e consigliere artistico per numerosi festival europei (Cinéma du réel a Parigi, DocLisboa a Lisbona, ecc) e cineteche (Film Museum di Vienna, Cinémathèque française, ecc). Specialista di cinema documentario, sperimentale e d’animazione. Ha curato due libri e pubblicato decine di saggi critici in volumi collettanei, in svariate lingue e paesi. Sta attualmente lavorando ad un libro di teoria e critica del cinema documentario per un editore francese.

Articolo Il cinema sovietico ha in larga misura determinato la nostra visione del cinema come arte per le masse e

forgiato una nuova visione del mondo: il visibile diventa un caleidoscopio pensante, decostruito al

montaggio e ricostruito dallo spettatore. I grandi registi sovietici hanno posto gran parte delle basi per la

teoria del film a venire e sono tutt'oggi studiati e letti in tutto il pianeta. Interrogarsi sull'influenza di

questo cinema nel mondo occidentale, significa porre delle domande radicali al cinema del presente,

cercando di riattivare un'eredità che non sia solo un bagaglio di invenzioni formali da utilizzare

impunemente, ma anche un sogno politico che ci obblighi a ripensare il ruolo dell'arte e degli artisti nella

società.

Secondo quanto scritto da Anatolij Lunačarskij, il primo commissario del popolo all'istruzione del governo

RISORSE DI APPROFONDIMENTO Materiale: scheda pdf

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bolscevico, Lenin avrebbe detto che “il cinema è per noi la più importante delle arti”. Ciò che è

particolarmente significativo in questa presa di posizione è che Lenin non solo riconobbe il cinema come

un'arte in un periodo storico in cui molti lo consideravano solo una forma di divertimento a buon mercato,

ma soprattutto che profetizzò che il cinema, ancora in una fase iniziale del suo sviluppo linguistico e

storico, avrebbe avuto un grande ed influente avvenire.

Nel 1919 la giovane Unione Sovietica si trovava di fronte ad un'enorme popolazione composta da molte

nazioni ed etnie. L'analfabetismo era diffusissimo e i mezzi di comunicazione e trasporto erano

totalmente inadeguati e sottosviluppati. I capi del partito bolscevico affrontarono il compito difficile e

spesso scoraggiante di dover spiegare la Rivoluzione al popolo, ma non ebbero il lusso del tempo o delle

condizioni tranquille per farlo. La promessa incarnata dal nuovo medium di massa - il cinema -, in un paese

in cui larga parte della produzione era svago puramente commerciale, venne riconosciuta

immediatamente per le sue potenzialità di strumento di propaganda politica, di agitazione sociale e di

educazione popolare.

Il fascino tutto modernista che i leader bolscevichi avevano per le nuove tecnologie come mezzi per

trasformare una società retrograda, contribuì alla scelta della settima arte come portabandiera della

Rivoluzione: i miti - di ascendenza futurista - della macchina, del movimento, della meccanica, hanno le

loro radici anche qui. Fin dai primi anni '20 si decise di determinare per ogni proiezione pubblica una

quota obbligatoria di film a scopo didattico e di propaganda. Lunačarskij sottolineò la necessità di portare

il cinema in tutto il paese con lo scopo di far conoscere a tutti i popoli delle Repubbliche la novità della

Rivoluzione (dichiarazione pubblicata sulla Kinonedelia N° 4, 1925).

Una volta spazzata via la vecchia guardia del cinema zarista (con alcune eccezioni), il cinema sovietico

divenne cosa esclusiva della generazione più giovane e più agguerrita ideologicamente. Sergej Ėjzenštejn

(1898-1948), Dziga Vertov (1896-1954), Vsevolod Pudovkin (1893-1953), Aleksandr Dovženko (1894-

1956), LevKulešov (1899-1970), Grigorij Kozincev (1905-1973) e Leonid Trauberg (1902-1990) iniziarono

tutti da un rifiuto radicale del cinema come spettacolo d'intrattenimento, e denunciarono (sulla scorta

della coeva teoria letteraria dello straniamento elaborata da Viktor Šklovskij) le opere filmiche in cui lo

spettatore fosse solo un soggetto immobile e passivo: ciascuno a suo modo e secondo il proprio stile e le

proprie teorie, militavano tutti per un cinema-attrazione, un cinema-circo, un cinema-evento di cui lo

spettatore fosse un partecipe soggetto pensante, stimolato continuamente nell'occhio (il cine-pugno per

scuotere il pubblico), nel corpo (la teoria dell'estasi raggiunta attraverso la forma) e nel cervello (il cinema

intellettuale). Le emozioni andavano studiate e veicolate attraverso calcolati effetti di montaggio, e la

costruzione del senso doveva nascere dal combattimento contro la falsa immediatezza del naturalismo

borghese e grazie all'attivo contributo del pubblico opportunamente coinvolto (il maestro di tutti i cineasti

era un uomo del nuovo teatro, Vsevolod Mejerchol'd). La forma filmica diventava così il grimaldello con

cui aprire il ricco scrigno ideologico della Rivoluzione alle genti di tutte le repubbliche dell'URSS. Il

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contenutismo bruto e falsamente edificante

del realismo socialista (e le conseguenti accuse

di formalismo) sarebbe arrivato solo alla fine

degli anni '20.

Il mito del produttivismo propagandato dal

regime catturò l'interesse dei cineasti i quali

ben presto compresero che la nuova società

che volevano costruire poteva essere

realizzata solo sulla base di rapidi sviluppi

industriali e innovazione tecnologica: il cinema

doveva essere parte di questa battaglia del

nuovo sul vecchio nel saper costruire nuove

mitologie culturali ed irrigare con efficacia

retorica l'immaginario del popolo al lavoro. Se

la forma filmica era al centro delle ricerche

plastiche e teoriche, l'aspetto ideologico

restava comunque centrale: i pionieri del

cinema sovietico furono (chi più, chi meno)

ispirati dalla teoria marxista e tentarono di

applicarne le idee alla realizzazione dei loro

film. Ėjzenštejn, ad esempio, elaborò una teoria globale della produzione cinematografica e la mise in

pratica nelle sue opere: tutto doveva richiamare il concetto di dialettica marxiana e di conflitto (la lotta

di classe come leitmotif e motore estetico del film): dall'angolo della cinepresa alla giustapposizione di

immagini e sequenze durante il processo di montaggio, dal movimento all'interno dell'inquadratura alla

scelta della scala dei piani, tutto era pensato seguendo lo scontro costante di forze in gioco, ritmi visivi e

masse contrapposte. Non fu un delirante determinismo ideologico ma una coerente e potente

circolazione fra teoria e prassi.

Da quando Lenin aveva nazionalizzato l'industria cinematografica (27 agosto 1919), lo Stato era diventato

l'unico proprietario dei mezzi di produzione, l'unico committente ufficiale e l'unico garante della qualità

ideologica dei film. La produzione venne sempre accompagnata dalla creazione di laboratori per lo studio

sistematico, scientifico e teorico dell'arte cinematografica (quello di Kulešov era celebre). L'obiettivo di

questi laboratori era quello di determinare i migliori metodi per trasformare il medium cinematografico

in un potente strumento di istruzione e di propaganda. Si cercava di inventare una nuova forma di lavoro

intellettuale inteso come operatore sociale collettivo, armonizzandola nell'orizzonte della trasformazione

rivoluzionaria e sotto l'egida costante del partito.

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Con l'arrivo al potere di Stalin i cineasti d'avanguardia avranno di fronte a sé solo due scelte obbligate:

“l'integrazione organica dentro le nuove strutture del dominio (e della riorganizzazione coattiva del

lavoro), e l'autodissoluzione nel silenzio o nell'utopia produttiva”1. Dal momento in cui la classe

lavoratrice sovietica verrà ridotta al mero ruolo di forza-lavoro attiva nella produttività socialista, anche

l'intellettuale-regista dovrà trasformarsi sempre più nel cantore intonatissimo di un socialismo (ir)reale

identificato nella riorganizzazione

sistematica della produzione, nel lavoro

realizzato dalle masse ordinate, nello

sviluppo economico ad ogni costo. Nei

quasi venticinque anni che vanno dalla

visione del popolo pensante e ribelle de

La corazzata Potëmkin (Бронено́сец

«Потёмкин», 1925)1diĖjzenštejn, ai

beati e rubicondi Cosacchi di Kuban di

Ivan Pyr'ev (Кубанскиеказаки, 1949)2,

ligi al dovere kolchoziano, si consuma la

tragedia del popolo russo ma anche

quella del cinema sovietico, la sua

progressiva riduzione da impresa

estetico-politica di straordinaria

inventività e novità, a macchina di

propaganda sempre meno formalmente

elaborata e sempre più spinta ad

un'imitazione dei codici naturalistici del

cinema occidentale. Le eccezioni a

questa brutale semplificazione critica

sono state numerose, ma la tonalità

della vicenda non cambia...

La storia dell'influenza del cinema

sovietico in occidente è ancora tutta da

scrivere e da verificare: il cinema è un'operazione chimica dai molti componenti difficilmente distinguibili

1 Tra gli indiscutibili capolavori della storia del cinema, il film di Ėjzenštejn fu realizzato in occasione del 20° anniversario della

rivoluzione del 1905 e ne racconta un episodio: l’ammutinamento, nel porto di Odessa,dell’equipaggio della nave da guerra che

dà il titolo al film, spalleggiato da una rivolta popolare soffocata nel sangue dai soldati cosacchi dello zar. Famosissima la scena

– oggetto anche di illustri citazioni – della carrozzina che, non più trattenuta dalla madre uccisa, precipita lungo scalinata dove

i soldati stanno facendo strage di manifestanti. 2 Film sentimentale che ha come sfondo le vaste campagne russe, che appaiono ricche e operose grazie alla meccanizzazione e

all’efficiente organizzazione del lavoro portate dalla rivoluzione socialista e dalla collettivizzazione delle terre.

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una volta agglomeratisi. Sappiamo come e quanto la settima arte sovietica sia riuscita a costruire un

immaginario potentissimo, divenendo un riferimento ineludibile per tutti i militanti al di fuori dell'URSS.

Negli anni '20 la sua lezione estetica faticò a farsi conoscere se non in contesti da cinéma d'art:

ricordiamoci che La corazzata Potëmkin fu censurato in molti paesi fino agli anni '60 (anche in Italia!) per

timore che scatenasse rivolte

popolari e spingesse i soldati all'insubordinazione. Se negli anni '30-'40-'50 è il realismo socialista

staliniano ad imporsi come veicolo essenzialmente ideologico, è soprattutto negli anni '60 e '70 che

un'ondata di neo-sovietism oradicale s'impone in tutto il mondo: registi africani, indiani, sudamericani,

cubani, medio-orientali, che avevano studiato al VGIK3 di Mosca e che si erano formati sui classici sovietici

nuovamente disponibili nel periodo seguito al Disgelo, tornano ad adottare i principi plastici e formali di

Ėjzenštejn& C. con lo scopo di criticare e distruggere l'odiato modello imperialista hollywoodiano. A loro

si affiancano registi nati artisticamente nelle nouvelles vagues europee e di quelle nate oltre la cortina di

ferro, diventati militanti in rivolta contro l'industria culturale occidentale o contro l'establishment post-

staliniano.

Ma il paradosso e forse la beffarda morale di questa vicenda di migrazioni di forme e di idee sta

nell'adozione massiccia di stilemi e invenzioni visive di ascendenza sovietica da parte di registi occidentali

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di oggi. Nelle mani dei cineasti post-moderni americani o europei che ammirano e studiano come cosa

sacra l'opera di Vertov e Pudovkin, il montaggio sovietico (che in sé e per sé, privato della sua funzione

estetico-politica, non esiste!) si è standardizzato ed è diventato un tipo di dispositivo ormai

convenzionale, collaudato formalmente, retoricamente efficace e visualmente digeribile per gli

spettatori, soprattutto se ben “cucinato” ed integrato in opere filmiche che si vogliono apolitiche o al

massimo “politicamente impegnate”. In buona sostanza l'industria culturale occidentale si è impadronita

dell'eredità del cinema sovietico attraverso molteplici riscritture, cancellazioni ed appropriazioni: lo

spettacolo hollywoodiano che riusa furbescamente oggi il cinema sovietico ne disinnesca il progetto di

straniamento narrativo (lo spettatore non deve più essere cosciente di assistere ad un film), si disinteressa

totalmente alla sua pedagogia rivoluzionaria (lo spettatore non deve più apprendere dal film), rompe

definitivamente la circolazione partecipativa tra pubblico e opera (lo spettatore non deve più essere parte

attiva del processo estetico innescato dal film). Che cosa resta dunque dopo questo svuotamento di

senso? Il cinema come mero ed efficacissimo medium di propaganda.