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Irene BrinOLGA A BELGRADO

I edizione: aprile 2012© 2012 Lit Edizioni s.r.l. Elliot è un marchio di Lit EdizioniSede operativa: Via Isonzo 34, 00198 RomaTutti i diritti riservati

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Olga a Belgrado

Ai primi del maggio 1941 dovetti andare a Belgrado: il con-solato di Fiume mi consegnò, con semplicità, un foglietto,che mi autorizzava a recarmi dovunque fossero truppe te-desche.

Poteva anche darsi che un ferroviere acceso di zelo mifermasse alla prima stazione, e fino a Zagabria ogni do-manda sul contenuto della mia piccola valigia, o del mioportafoglio o del mio permesso, mi faceva temere di doverscendere in un qualunque angolo di pianura o tra i grandialberi raggruppati intorno ad un casottino. Ma le visite era-no negligenti quanto frequenti: controllori e doganieri indivisa serba appena modificata mi consideravano distrattimormorando «ja, Sie können weiter»; e sembrava non cifossero limitazioni per me. Leggevo racconti di delitti, neltreno interamente vuoto, caldo sotto il sole, ed era inutileaver fame o sete, niente e nessuno poteva aiutarmi, ma ioavevo fame e sete lo stesso.

Quando arrivai a Zagabria pioveva forte.Erano le cinque del pomeriggio e andai nell’ufficio dei

vagoni letto, per chiedere se il mio foglietto appena tim-brato mi autorizzava a fissare un posto, e a proseguire. Unuomo dai baffi malinconici mi rispose «weiter», ancora, eaggiunse distrattamente «dieci». Parlava un orribile tede-

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pire ogni stazioncina, disporre attrezzi, capostazioni e sol-dati secondo prospettive abituali.

Tutti mangiavano molto: i grossi signori serbi, dai rigo-gliosi baffi e dalla pelle oscura, lustra intorno alle palpebredi un bistro tanto denso e terribile da rievocar senz’altroBeograd assediata e conquistata dai Turchi, immergevanosolenni i cucchiai nello spessore di una minestra infittita dacavoli e salsicce, manovrando poi di forchette in un densorisi-e-bisi, di coltello intorno alle massicce cotolette, e rac-cogliendo infine le diverse posate, e l’estremo appetito, perun budino di riso, costellato di frutta giulebbata. Accuratinel tergersi i baffi, secondo gesti per noi quasi storici, par-lavano incessanti e frettolosi; e certo il senso della lonta-nanza non veniva dallo scorrere armonioso di boschi neri,e di cieli violetti, ormai, oltre il vetro, ma piuttosto dalle mi-steriose parole, dove solo dinari risultava comprensibile, olire, o kune o marks: e così avvolti in un discorrere quasitintinnante di internazionale valuta, fasciati dal greve odo-re dei cibi ce ne andavamo verso Belgrado («ja freilich, Siekönnen weiter» mi aveva detto il signor Zakosek Rudolf,Konduktor).

Non mi fu facile dormire; troppo spesso il treno sostava,troppo lontane e segrete le voci delle stazioni, e solo al mat-tino mi abbandonai ad un vero sonno, ma già era ora di al-zarsi, un paesaggio romantico, popolato di anatre selvati-che, di grandi papaveri gonfi e di immobili mulini, ci aspet-tava fuori, incorniciato nella mattina color d’argento.

Quante nuvole, e acqua, e salici piangenti, mentre lebarche ci portavano all’altra riva.

Un solo vaporetto sembrava esser rimasto in quel trattodi fiume, il Voivoda, e dondolava sulla corrente tempestosa

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sco, sfatto, e spiegò che il treno partiva alle sei e mezza, masapevo di dover traghettare il fiume, a Belgrado?

Non lo sapevo: mi accorgevo di non saper nulla, nem-meno, con esattezza, che cosa volessi; eppure mi piacevatanto esser sola e, almeno quanto durante certe escursioniin Africa, affidata a me stessa, responsabile. Lasciai la vali-gia alla stazione, e presi una vettura per veder Zagabria inun’ora. Pioveva forte, la lucida coperta di incerato scende-va fino agli sportelli, né si poteva sollevarla: viscide strisciedi selciato, zoccoli di cavallo, piedi in galosce, era quantopotevo vedere; la voce del cocchiere mi arrivava ovattata eremota, e mi ammoniva a guardare i begli alberi – rechts – oil grande palazzo – links.

Infine ci fermammo davanti ad una scaletta sporca escesi in un botteghino di libri vecchi, dove ne trovai alcuninuovissimi: il vetturino li considerò compiaciuto, si fermòancora davanti ad una pasticceria, poi ad un ufficio dicambio: e devo dire che, quando tornai a Zagabria, la set-timana dopo, ed imparai a conoscerla bene, mi fu impos-sibile, nonostante lunghe ricerche, ritrovare uno solo diquesti negozi, incorniciati dallo sportello stretto e velatodi pioggia.

Però avevo appena disposto libro, pantofole e vestagliesulla cuccetta numero dieci, che cominciò a schiarire, e sipartì dunque da Zagabria tra ventagli di chiara pioggia, chenel rosato crepuscolo palpitavano tremando. La floridacampagna, il molle fluire del fiume, i grattacieli rustici, le va-ste fabbriche dove caratteri cirillici si addolcivano in terminidi internazionale dolcezza, cioccolata, bomboni, accompa-gnarono per un lungo tratto la corsa del treno, e dalla vettu-ra ristorante, già illuminata, diveniva piacevole cercar di ca-

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spalle, dedicandogli gesti ed occhiate imperiosamentecomplici.

Ma Zakosek non capì, o non volle capire, e mi guardòcomprensivo. Aveva baffi simili a quelli di Napoleone III, enel discorrere gli si gonfiavano un poco, alitando. Avevaanche gli occhi malinconici, miracolosamente animali dicerti austriaci all’antica, e solo dopo averlo lasciato dovevocapire che somigliava mio nonno. Mi trasse in disparte, bi-sbigliando che anche lui doveva restare a Belgrado quattroo cinque giorni, e avrebbe dormito in un vagone letto, peril momento inutilizzato, in fondo ad un binario morto. Po-teva prepararmi una cabina, provvedere lenzuola, candele,anche un poco d’acqua, non tanta, però; se potevo, era me-glio che facessi il bagno in città, e mi trovassi lì alle sette etre quarti, perché alle otto cominciava il coprifuoco.

Eravamo arrivati, o almeno si scendeva, senza le tettoie,tuttavia, i chioschi, le banchine, che ritualmente annuncia-no e rappresentano la stazione, ma semplicemente tra cu-muli di macerie recenti, e nuove impalcature, ed un’attivitàfitta, da far pensare piuttosto un cantiere, che non una ro-vina. Pagai qualcosa come cinquanta centesimi, destinatialle spese di ricostruzione, e uscii dal cancelletto di legno,nuovo anche quello, appena verniciato: la mattina di mag-gio era tenue ed opaca, senza riflessi né ombre, gli edificidisposti ad anfiteatro smantellato apparivano placidamen-te falsi, con le inutili scritte, Hôtel Kavana, e quei segreti ditubi, di tappezzerie, e quelle strade ripide. Non avevo ba-gaglio con me, non conoscevo nessuno, ero armata di unasaponetta verde, di un foglietto timbrato; forse il vetturinonon mi avrebbe capita, ed un grande ma non triste silenziorendeva i miei passi leggeri, e privi di consistenza, mentre

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e gialla. Al di là, trovammo il cimitero delle automobili. Mi-gliaia, abbandonate sulle strade dai fuggiaschi, raccolte làin condizioni tanto singolari da evocare naturalmente unaValle di Giosafatte motorizzata, dove le Cadillac e le Ford,le Fiat e le Mercedes Benz aspettano la loro fine, segnatacerto non da angelici squilli, ma dall’ultimo soffio delle lo-ro ambiziose sirene.

Risalimmo in treno, un trenino buffo, campagnolo, consedili di legno. Un ometto, naturalmente lustro e baffuto,interruppe i discorsi finanziari fino allora tenuti con ungruppo di colleghi e mi si avvicinò per chiedermi dove con-tassi di alloggiare. Quando gli risposi, stupita, «In un al-bergo qualunque», si mise a ridere, come se io avessi dettouna cosa spiritosissima, e mi batté gaiamente due dita sul-la mano. Mi spiegò che non c’erano alberghi, a Belgrado,alcuni erano requisiti, altri distrutti dal bombardamento,altri in disordine, e quanti, per ragioni di affari, dovevanoandarci spesso, preferivano affittare un quartierino; lui peresempio ne aveva uno simpaticissimo, con una brava si-gnora che si occupava di cucina, e io certo non avrei rifiu-tato di essere sua ospite. Sorrise e pronunziò la frase inevi-tabile e consacrata: «Cara bambina, in simili momenti,nevvero?, non ci sono più uomini, né donne! Solo creatureumane e, cara piccola, vi potete fidare di me!».

Eravamo fermi, in un labirinto rugginoso treni e trenipassavano, carichi di automobili private, di autocarri mili-tari, di ruote, le anitre emergevano dagli stagni, annoiate.Risposi che sì, eravamo tutti creature, ma io preferivo chie-dere al Konduktor se avesse qualche altro indirizzo, e il si-gnore servizievole mi guidò verso Zakosek, dietro le mie

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Avevo ormai perduto ogni orientamento; monotoniquartieri bianchi si succedevano, solo interrotti dalle mo-schee; faceva fresco e il mezzogiorno calava tetro, senzacampane. Il giro finì in piazza Principe Ereditario (le aveva-no già cambiato nome, e mi era difficile afferrare le compli-cate consonanti della mia guida), e lì mi ritrovai sola, un’al-tra volta: mi fermai davanti alla mostra di un giornalaio, chetra gli archi di un edificio scomparso aveva steso quattrocordicelle, per far sventolare meglio Signal e Koralle. Difronte c’era un cinematografo: si programmava Allò, Jani-ne, Marika Rökk sorrideva, con molti denti, da un cartello-ne. La gente usciva dagli uffici, due ragazze stavano fermedavanti ad una vetrina vuota, con un’unica volpe rossiccia,a tappetino. Ne erano evidentemente entusiaste.

Mi accorsi di aver fame, ed entrai in un caffè; lungo,affollato, con gli odori grassi e forti che mi divenivano fa-miliari, ma mi davan noia lo stesso: c’erano forse quarantapiatti diversi, schierati sopra un tavolone, carne quasi sem-pre, in larghi sughi ocellati di grasso, o pesci in maionese.Io mi servii di prosciutto e di fegato d’oca, un cameriere miportò il pane e la birra: enorme bicchiere, fetta non menoenorme. Purtroppo trovai due mosche rinvoltate nel pro-sciutto, e tre compresse nel fegato. Così me ne andai senzaaver toccato nulla.

Ricominciai a girare, a piedi stavolta, o salendo su tranvaiche mi portavano in direzioni opposte, ma non mi perdevomai; alle tre ero di nuovo in piazza Principe Ereditario, e de-cisi di riposarmi nel bagno. Entrai all’Albergo Balkan: il di-rettore parve contento di vedermi, parlava l’italiano benissi-mo, e cominciò a chiedermi se Alfredo in via della Scrofa haancora le posate d’oro; lui c’era stato ad imparare la cucina.

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mi avviavo alla carrozza nera, con i due cavalli bianchi e latromba di gomma a lato. Naturalmente l’uomo non mi po-teva, in un senso ragionevole, intendere, eppure fu ugual-mente facile metterci d’accordo: e si cominciò a risalireverso il centro.

C’era poca gente per le strade, solo automobili, militari,tram gialli e lenti, o vetture. Così scarsi rumori, e un’auravuota e compatta, intorno alle case prive di tetto, aperte, lefinestre cave sul cielo fermo, ornate dai riccioli contorti diuna lamiera ondulata, nell’interno affollate di travi cadute,come di boschi, cupamente patinati dal fuoco. E l’ordineimposto dall’occupazione tedesca; gli operai piccoli, pol-verosi, apparentemente inadeguati, davanti ai grattacieli infrantumi, intenti ad estrarre i rari mattoni, i rari legni anco-ra sani, disponendoli in fila, senza fretta. E bisognava an-che pensare alle strette tele di Averkam, se i falegnami congesti antichi e precisi posavano tavole sulle piaghe di pietraappena chiuse, cristalli su intelaiature prive di vernice, gial-line contro pareti nere di incendio.

Ogni tanto il vetturino, col manico della frusta, indicavaqualcosa, ma non si capiva se chiedesse compiacimento ocompianto: la Banca Agricola torreggiante e dirupata, lepalazzine nitide e senza sfondo, che non fosse, tra le griglie,di nuvole volanti. Si fermava davanti alle chiese, mi facevascendere; vidi due mummie, vestite d’argento e di veli rosa,e accanto ad esse una ragazza inginocchiata, che alzandosisi rivelò altissima e stranamente luminosa.

Parlava tedesco, e mi accompagnò per spiegare al vet-turino dove avrebbe dovuto condurmi; poi sorridendosparì in un portone lì vicino, con la grande trama della sca-la in vista, attraverso i crepacci: lei però saliva indifferente.

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Spiegò subito che i ritratti risalivano a qualche tempoinnanzi; ora i dolori, le ingiustizie della vita, le crudeltà de-gli uomini l’avevano sciupata come vedevo: sedemmo e michiese quanti anni le davo, senza lasciarmi il modo di ri-sponderle, poiché «trentotto» annunciò subito trionfante,«nessuno lo crederebbe».

Se il primo quarto d’ora trascorse in sospiri, il secondofu per narrarmi che, francese di nascita, aveva seguito inIstria il marito italiano, e ne era stata ingannata, e aveva poicercato conforto nello studio, precisamente divenendoostetrica; ma i cattivi avevano detto di lei cose tanto tre-mende che era dovuta scappare, di notte, e rifugiarsi in Ju-goslavia, portandosi dietro la figlia giovinetta: «Speravotanto di sposarla bene, invece ha preso un tranviere».

Arrivai al cancello di legno della stazione verso le ottomeno dieci, correndo. Rudolf Zakosek era lì che mi aspet-tava, un poco preoccupato per il ritardo, e sorridendo miaccompagnò al vagone, apparentemente abbandonato,che costituiva la nostra casa. Naturalmente nessuno ciavrebbe dato noia; era impossibile trasbordare un vagoneletto, non è vero? Mi mostrò nobilmente le lenzuola pulite,sulla cuccetta, si toccò il berretto, e disse buonanotte: io co-minciai a tirar fuori le pantofole, i libri, la vestaglia e poi mivenne in mente che non avevo niente da mangiare con me.

Uscii nel corridoio per cercare il Konduktor, ma nonc’era: le due porte alle estremità del vagone eran chiuse, esolo venti metri lontano, fra piloni divelti e palizzate prov-visorie, vedevo passare qualche manovale frettoloso, manon osavo chiamarlo. Del resto la Restauracija non funzio-nava, lo sapevo, i negozi intorno eran già chiusi, e Zakosek

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Poi tornò triste, mi raccontò che il suo bambino, uscito conla bambinaia il giorno del bombardamento, era stato travol-to dai fuggiaschi e ucciso nella ressa, ma la moglie ancoranon lo sapeva, lo credeva solo smarrito, stessi quindi atten-ta a non dire nulla; tutti zitti, zitti tutti ripeteva premendosiun dito sulle labbra, in atto involontariamente furbesco.

Ma non poteva offrirmi la sala da bagno, perché nonc’era gas, le condutture sarebbero state riparate solo la set-timana prossima: però conosceva una signora che aveva loscaldabagno a legna, lì vicinissimo, una francese distinta, esapeva molte lingue, e mi sarei trovata benissimo, il facchi-no poteva condurmi. Ci salutammo, e mi ripeté zitti, zitti.

La signora Olga abitava nella via che congiunge piazzaPrincipe Ereditario a piazza del Monumento, proprio difronte al grattacielo. Una scala pretenziosa e qualsiasi:sembrava di salire a prender ripetizioni di matematica, epoi il facchino bussò ad un uscio vetrato; una servetta sin-golarmente ciabattona e spettinata, odorante di acquaio edi letto, aprì e scomparve correndo a chiamar la signora,che arrivò subito, senza rumore, vestita di bianco, con i ric-ciolini biondi e gli occhi azzurri, limpidi, tra le rughe fitte.«Benvenuta» mi disse «benvenuta, ora faccio preparare ilbagno; ci vorrà un’oretta, però, e noi intanto faremo con-versazione».

Entrammo in un salottino ammobiliato di legni chiari evelluto marrone a righe; un pastello al muro presentava lasignora in abito da sera, celeste, con bretelline sottili sullespalle nude, grasse, e una nuvoletta di tulle intorno al collo.In un altro pastello era incoronata da un cappellino di pa-glia, alla pastora, vestita di bianco stavolta, ma sempre isuoi occhi avevano un tenero colore di violetta.

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fezione del tiro e tutta la saggezza militare tedesca toglie-vano ogni sorpresa davanti alla scomparsa della stazione, alcrollo del Parlamento, e anche davanti al Museo del Prin-cipe Paolo, risparmiato e intatto, ma chi poteva spiegarmila netta divisione di due palazzetti gemelli?

Mi svegliai e credetti di aver sognato quelli soltanto, e letorte di fragole: avevo anche varcato oceani di acqua tiepi-da, aggrappata ad una saponetta, e avevo sentito la voce diOlga, faremo conversazione mia cara.

Zakosek Rudolf cantava, in fondo al corridoio, Ich binder Gigerl-König, e c’era qualche fischio di treno, ma remo-to. Fra le pieghe della tenda di cuoio, rimasta aperta, appa-riva un sole ad occhiello, smorto dietro una nebbia soffice,compatta: mi ritrovai quasi subito fuori dal cancello – ver-sando dinari 2, per la ricostruzione – e corsi verso un caffèa far colazione. Era anche questo un grande caffè, con tavo-li lunghi carichi di paste secche e di frutta; ma per fortuna lemosche mancavano, e potei imburrarmi tranquilla il bellis-simo pane: seduto poco lontano da me c’era un graduato te-desco, che beveva caffè con panna. Un serbo piccolo, oc-chialuto e con baffi, traversò la sala per venirgli vicino, battéi tacchi, mormorò Gestatten Sie e gli chiese, non senzaumiltà, se volesse esser guidato verso Belgrado.

Ricominciai a camminare, a salire e scendere dai tram,entrando poi nei negozi, nei giardini, nelle chiese, ansiosadi stabilire un bilancio con modestia descrittivo, tale dapoter comporre le sei cartelline; ma me ne dimenticai pre-sto – anzi con straordinaria leggerezza mi avvidi di averperduto ogni desiderio e ogni possibilità di immagini, enemmeno un aggettivo mi restava fedele, nemmeno un av-verbio. Mangiai delle fragole: ora ne riconoscevo l’impor-

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stesso non avrebbe voluto affrontare le leggi del coprifuo-co per raggiungere qualche osteria di turno. Tornai nel mioscompartimento, mi affacciai alla finestra, il cielo era vastoe tutto acceso di quel rosa denso, cremoso e quasi lilla, chenelle grandi città si accompagna, non senza tristezza, allostridio delle rondini, ai giochi dei bambini sperduti per lesere troppo lunghe. Qui davanti a me non c’erano bimbi,né uccelli, ma solo ferro sconvolto, aspra terra, contorti ce-menti, da voler scoprire leggi del destino, o di indifferenza,o di giustizia, ed io ero molto stanca.

Sdraiata, mi ricordai di aver visto delle fragole nelle ve-trine, durante il giorno intero: facevano parte della città,come la polvere, come la lamiera ondulata in cascate deco-rative: e anche il pane, naturalmente, in enormi candidepagnotte, lasciava supporre bibliche abbondanze. Avevomolta fame, e inutilmente cercavo di leggere una traduzio-ne di Defoe, comprata dal librivecchi di Zagabria. Il fine-strino era ancora aperto e la prima stella si incorniciò fra lepieghe della tendina di cuoio, dolcemente verde.

Decisi di pensare al mio articolo. In fondo ero venutaper scrivere e vidi il Direttore torreggiare dietro la sua scri-vania, amichevolmente ironico: almeno sei cartelline miraccomando. Potevo incominciare con le anatre, per esem-pio, o, usando termini tecnici, con i Pionieren o racconta-re ordinatamente, seguendo un piano logico: ma non c’eralogica, a Belgrado, troppo pane accanto a troppa polvere,la distruzione che, lasciando in piedi il grattacielo, avevapolverizzato le casette di un piano o due, lì intorno, o il ne-gozio del fotografo, ben custodito e chiuso sotto le dila-ganti macerie di un casamento di dodici piani. Tornavo, in-volontariamente, a speculazioni inutili sulla fatalità: la per-

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vi ciglia biondicce su quegli occhi ostinatamente attoniti emesti. Sospirava spesso, raccontandomi la festeggiata gio-vinezza, le furenti passioni, la sua vocazione di ostetrica, lecalunnie delle rivali, ed alluse, ma fuggevolmente, ad unadisgraziata che era morta all’ospedale, dicendo terribilibugie.

Le chiesi come vivesse a Belgrado, e rispose che affitta-va qualche stanza, che curava qualche cliente con iniezioni,aveva venduto dei gioielli e dei quadri; anzi negligente ac-cennò ad una oleografia incorniciata sul muro, disse diaverla fatta stimare, valeva quarantamila lire, lei ne posse-deva altre sei o sette, e per qualche tempo era al sicuro; poi,dopo la nostra vittoria, ci sarebbe stata un’amnistia e, libe-ra di tornare in Istria, avrebbe sposato il marinaio. Nessu-no poteva supporre, nevvero, che lei fosse già nonna, e delresto non si era mai potuta affezionare al nipotino, figliolodel tranviere e della sciocca ragazza ostinata a disobbediresempre, anche quando si sarebbe potuto rimediare facil-mente ogni pasticcio.

La servetta tornò a dire che il bagno era pronto, e la se-guii nella stanza bianca, già scrostata, ricavata da un pezzodi corridoio, dove la vasca, gli specchi, i lavandini appari-vano opachi e negletti. Come il giorno prima, feci solo ladoccia, mi asciugai con il mio grande fazzoletto, con il mas-saggio, muovendomi tra le porcellane ed i legni adagio,oscuramente spaventata.

Capii mentre mi rivestivo che non ero coraggiosa, chenon sarei tornata qui, anche a costo di non potermi lavarealtrimenti, di riposarmi nei caffè o sulle panchine, di nonscambiare parola con anima viva. Pagai Olga in fretta, sa-lutandola; ma lei mi prese una mano, la baciò e pianse, sup-

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tanza, allargate nelle immense torte, strette nelle tartine dipasta frolla, nelle crostate, o ancora fresche e innocenti neicestini. Odoravano forte, nella giornata umida, come se,celate in un bosco, amorosamente chiamassero.

Davvero qualcosa di vegetale, di restituito a primitivi in-canti, pesava sulla cupa bellezza delle rovine; e le case li-berty, di stucco, si nobilitavano per le travi monche, i tetticrollati, gli attorcigliati balconi, quanto i quartieri recenti,razionali e qualsiasi ritrovavano, per la evocazione di assedîe di lotte, una poesia fulgida e fosca di cui ciascuno sembra-va dignitosamente ignaro. I grandi, biondi e involontaria-mente solenni soldati tedeschi campivano sulla scarsa gen-te frettolosa, senza alterigia di vincitori: né quelli mostrava-no astio di vinti. «Brillen weg» mi gridò di lontano unfotografo ambulante, accennandomi di togliere gli occhia-li neri; ma era Traorin di Traù, lo disse come se cantasse, ag-giunse che presto tornava a casa, e trovai anche un vetturinodi Spalato, che faceva lo scultore, e ciascuno discorreva delbombardamento con tranquillità, senza vanteria né paura,quasi di un temporale o di una tromba marina.

Fu verso le quattro del pomeriggio che mi sentii troppostanca per continuare, e decisi di salire dalla signora Olga.Forse doveva essere una prova, anche per me, dovevo ca-pire di non temerla. «Ben tornata» disse stavolta, e diedeordine che accendessero lo scaldabagno. Sedemmo nel sa-lottino e, stirando con due dita sul ginocchio la sua vestebianca, raccontò che aveva amato un marinaio, lo amavaancora, e certo lui non l’aveva dimenticata, ma la posta nonfunzionava, fra Serbia e Italia, potevo inoltrargli una lette-ra io, dal confine? Mi accorsi che non batteva mai le cigliao, almeno, non mi riusciva mai di vedere calare quelle bre-

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prontamente interrotto. Ero certa che fosse stata una ra-gazza a gridare, una ragazza lunga, magrolina, con gli occhiverdi; e non c’era posto per quel mio coraggio e neppure,oh neppure, per la pietà.

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plicandomi di passare un momento, l’indomani, a ritirarela lettera per il marinaio; bastava che l’imbucassi a Zaga-bria, ed avrei salvato due vite. Le lacrime intanto colavanoappiccicose tra le mie dita.

Sognai sempre Olga, la notte, e mi pareva che fossimolei ed io, sole nella città smantellata e tranquilla, e tra noidue si dovesse decidere qualcosa, ma non sapevo che. Ve-stita di bianco, sfatta e puerile, la vedevo salire scale altis-sime e senza pianerottoli, o scomparire nelle botteghinedel sottosuolo; io avrei dovuto raggiungerla, salvarla, manon sapevo come. Svegliandomi, decisi che non mi sareicurata del suo messaggio al marinaio, e ripresi a girare perla città.

Ero nei giardini di Kalameda, quando cominciò a pio-vere: le gocce fitte e larghe precipitavano dagli alberi sulleaiuole ancora forate di trincee, di ricoveri, ma verdi. Rima-si un poco davanti al fiume, lago in quel punto, decorativoed inutile, quale lo si può vedere in un giardino vuoto, sot-to la pioggia. Risalii verso il quartiere elegante, dove stava-no i due palazzetti gemelli, rappresentato uno soltanto dal-la sua travatura di ferro, l’altro intatto; un vetraio cantandosostituiva una lastra ancora macchiata di calce (mi ero giàabituata a camminare sui frantumi di vetro, senza sentirlipiù scricchiolare). Nel breve giardino che li divideva, unireos fioriva, diritto, un poco stupido, distratto.

E poi salii le scale di Olga. Volevo solo dirle «la lettera»e andar via, ma pensavo che fosse molto poco, forse avreidovuto trovare un coraggio davvero impossibile, declama-torio, ma cristiano, e dirle ravvediti, e dirle sii buona. Inve-ce, mentre stavo per posare il dito sul campanello, sentii ungrido uscire di lì, un grido chiaro, quasi gaio, lungo, e poi

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Un’altra Irene Brin

di Flavia Piccinni

In tutte le case, negli anni Cinquanta, c’era un galateo. Eraquello della Contessa Clara Ràdjanny von Skèwitch che,con un’eleganza e uno snobismo adesso dimenticati, inse-gnava le buone maniere agli italiani che durante la guerraavevano sopportato miserie e povertà, scordando l’educa-zione e il bon ton. In realtà, la Contessa Clara era IreneBrin o, meglio, era Maria Vittoria Rossi che dalla nobilemadre austriaca Maria Pia, e nel corso della sua originalecarriera da giornalista, aveva imparato la raffinatezza, maanche l’arte del savoir faire e dell’ironia.

Perfino in casa di mia nonna, a Taranto, c’era il galateodella Contessa Clara, con la sua inconfondibile sovracco-perta di Nils Martellucci e i suoi dogmatici, imprevedibili ea volte surreali consigli. Nonna lo teneva sul comodino del-la grande camera da letto, vicino ai classici e alle collane diperle, e lo sfogliava di continuo per vedere come organiz-zare una cena, per sapere come comportarsi con un anzia-no cugino ricoverato. Possedeva quel volumetto da quasiquarant’anni – ormai le pagine erano gialle e la copertinarovinata –, eppure lo consultava come fosse stato appenapubblicato e le toccasse leggerlo per la prima volta. È pro-prio al Galateo della Contessa Clara che devo la prima in-tossicazione alimentare della mia vita, e la scoperta di quan-

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non rimarrà quella che è, e nella funzione in cui è. Men-tre la nostra reazione è internazionalistica, un vero pa-rossismo di nazionalismi scoppierà intorno a noi, e l’o-dio seminato di questa lunga e dura guerra non farà chefornire continue scintille per fiammate violente e perrepressioni feroci.

Alla data del 25 luglio 1943, Maria Vittoria Rossi-IreneBrin è da pochi mesi rientrata in Italia, e sta per pubblica-re da Vallecchi Olga a Belgrado. Scontata la radicale divari-cazione dei destini di Irene e di Falco, non cessano di im-pressionare i flagranti tratti identitari che li hanno acco-munati e avrebbero continuato ad accomunarli: la lucidaforza di rappresentazione della catastrofe e la “fortuna”editoriale inesorabilmente postuma.

FRANCO CONTORBIA (Novi Ligure, 1946) insegna Letteratura ita-liana moderna e contemporanea nella Facoltà di Lettere e Filo-sofia dell’Università degli Studi di Genova. Ha curato i quattrovolumi dell’antologia Giornalismo italiano 1860-2001 (Monda-dori, Milano 2007 e 2009).

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talenti di cui parlava Indro Montanelli, ma di un’inconte-nibile, infinita, sterminata infelicità. Gli occhi tanto chiarida sembrare trasparenti, il naso dritto, le labbra sempreimbronciate. Il viso di Irene Brin mi parlava, e allora le uni-che parole che avevano un senso diventavano quelle diMassimo Campigli che nel 1954, mentre la ritraeva, ammi-se: “Irene è così campigliesca che tutto diventa troppo fa-cile. Devo invece riuscire a spiegare la sua tristezza”. Forse,però, la sua tristezza nessuno riuscì mai a capirla, rendendocosì impossibile interpretarla attraverso un quadro, attra-verso un racconto. Ed è forse proprio per questo che nes-suno è mai stato in grado di comprendere davvero chi fos-se questa donna che ebbe decine di pseudonimi e di talen-ti, e che era tanto instancabile nell’intraprendere milleprogetti quanto capace di portarli tutti a compimento.Questa donna snob, coltissima, grande lavoratrice e nemi-ca di quella cialtronaggine che considerava tipicamenteitaliana. Nemica della banalità, e sempre in grado di sco-prire un’ottica nuova con cui guardare le cose, e il mondo.Sempre abile a trovare una prospettiva diversa.

Al contrario di ogni logica, negli anni per me Irene Brinè diventata un crescente mistero. Più la studiavo, più leg-gevo le sue parole e conoscevo la sua vita, meno riuscivo acapirla. Ed è stata la sua poliedricità, che era brava a sop-portare con inconsueta naturalezza, quella che mi ha fattoprima appassionare, e poi innamorare di lei. Il suo percor-so da inappuntabile figlia di un generale a signora forte eindipendente, così coraggiosa da mettere in discussionepiù e più volte la sua vita, si è fatto modello. Come model-lo è diventato il motto che Irene Brin aveva, e che mi hasvelato il nipote prediletto, Vincent Torre, figlio della so-

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to le parole, e i libri, siano importanti. Era agosto. Nella ca-sa al mare sulla litoranea, mia nonna stava organizzandouna cena per i famigerati parenti di Milano; cercava qual-cosa di originale con cui concludere il pasto, che sarebbestato indigeribile e interminabile, e alla fine trovò ciò di cuiaveva bisogno: il sorbetto al gorgonzola. Il dolce, complicel’afa salentina, fu un successo. Il giorno dopo tutti gli ospi-ti, compresi quelli di Milano che lo avevano mangiato consofisticato entusiasmo, erano a letto in preda alle coliche.

Negli anni seguenti ho sfiorato la Contessa Clara, IreneBrin, Marlene a più riprese. Incrociavo Maria Vittoria Ros-si, e nemmeno lo sapevo. Era a lei che si ispiravano, più omeno consapevolmente, le giornaliste di costume che leg-gevo. Era lei l’artefice di alcune delle più belle traduzioniche mi facevano scoprire autori francesi e inglesi, fra cuil’indimenticabile prosa di Riflessi in un occhio d’oro diquella Carson McCullers con cui condivideva il genio el’indole anticonformista. Era lei che aveva fatto conoscereall’Italia artisti come Salvador Dalí e Alexander Calder dicui andavo a vedere le mostre. Sempre lei aveva presenta-to al mondo il talento di Alberto Burri e Giacomo Balla, eaveva ospitato per prima alla Galleria dell’Obelisco l’in-confondibile tratto di Renzo Vespignani.

La incrociavo segretamente, quasi fosse un’amante, enei suoi confronti provavo sempre diffidenza. Non riusci-vo bene a capire chi fosse questa Irene Brin. Si trattava diuna scrittrice? Una giornalista? Magari un’esperta di mo-da? Per caso una gallerista?

C’erano troppe possibilità, e i ritratti delle sue fotogra-fie in bianco e nero mi restituivano l’immagine non di uncamaleonte, di quel camaleonte dalle mille vite e dai mille

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dere per decenni, ringiovanendosi di due, cinque, perfinosei anni –, fu tante donne e tante autrici. Alle parole dellagiovane e inesperta Marlene seguirono quelle di Oriane –in omaggio alla Duchessa di Guermantes de Alla ricerca deltempo perduto, uno dei libri che più amava leggere – e quel-le di Mariù. Seguì poi la storia della danzatrice Bella Otero,di cui firmò nel 1944 La mia vita, che venne presentata dal-lo Studio Editoriale Italiano come un’autobiografia. E poiarrivò la Contessa Clara, quindi Maria del Corso.

Su tutte, però, vinse Irene Brin. Vinse quel nome che dapseudonimo si fece reale. Tutti iniziarono a chiamarla così,ed era così che lei firmava le lettere per l’amata e temutissi-ma mammie, per la sorella, i biglietti per gli amici e per il ni-potino Vincent. Ma Irene Brin, come raccontò sul quaran-tunesimo numero de Il Borghese1, interamente dedicato al-la prematura scomparsa del direttore Leo Longanesi, altronon era che un nome inventato.

“Io non mi chiamo né Irene, né Brin, anche se così figu-ro in contratti, elenchi telefonici, discorsi famigliari. Sononomi inventati da Leo Longanesi. Io sono un’invenzione diLeo Longanesi” spiegava. Più che di Leo Longanesi, IreneBrin era in realtà l’invenzione polimorfica e in continuaevoluzione di tutti quelli che la incontravano e che in lei ve-devano ora una bionda e magrissima bellezza, ora una for-mosa mora. “Come diavolo faccia, questa donna, a ingras-sare e a dimagrire nello spazio di poche ore, solo lei lo sa, oforse non lo sa nemmeno lei… il suo camaleontismo sem-bra non trovar confini in nessuna legge della natura” sot-tolineava Indro Montanelli ne I rapaci in cortile. In effetti,Irene Brin dimagriva e ingrassava con una velocità impres-sionante, cambiava colore di capelli, abbigliamento, modo

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rella Franca. «Never take a no for an answer» ripeteva con ilsuo inglese perfetto, quasi ad annunciare che, al mondo,non esisteva un diniego in grado di frenarla. Non c’eraniente, per lei, così difficile da essere irraggiungibile. E lasua determinazione, il suo incredibile talento, la portaronoa fare cose impensabili per quell’epoca. Impensabili, pro-babilmente, anche per l’epoca in cui viviamo adesso.

Tutto era iniziato da un giornale di Genova, Il Lavoro,dove il redattore capo era il temuto Giovanni Ansaldo, acui Irene si era presentata giovanissima, appena diciotten-ne. Su quelle pagine aveva esordito negli anni Trenta, sottolo pseudonimo di Marlene, con un pezzo sulla chiusura de-gli stabilimenti balneari. “Cominciai prestissimo, a Geno-va, dove mio padre faceva parte di una società marittima.Scrissi un pezzettino, lo spedii al capo-ufficio pubblicitàche in quel giorno festeggiava la nascita del dodicesimomaschio. Sarà di buon umore, pensavo, e lui magari sistrappava i capelli. Però l’articolo non lo strappò e appar-ve. Ben presto tutte le collegiali ligure (o lombarde) si de-dicarono ai cani schiacciati. Le distaccai scoprendo il cuo-re della donna cannone o il motivo segreto per cui Girar-dengo anziano tornava alla bicicletta” scrisse, poco primadi morire, nel 1968. Quei cani schiacciati cui faceva riferi-mento sono i pezzi di costume su cui nessun redattore vo-leva lavorare, e che venivano destinati ai praticanti che dalgiornale non potevano pretendere niente, spesso neppureuna paga. Ma Il Lavoro fu soltanto l’inizio di un complica-to labirinto di collaborazioni giornalistiche fra loro diver-sissime, che trovano nella penna sempre originale e acutal’unico fil rouge. Perché Maria Vittoria Rossi, come era na-ta a Roma il 14 giugno del 1911 – data che riuscì a nascon-

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Le parole di Terracini verranno dimenticate, e pochi an-ni dopo Irene incontrerà qualcuno in grado di farle battereil cuore. “Era innamoratissima di Carlo Roddolo, e fu at-traverso di lui che la conoscemmo, sia io che Gaspero delCorso. La morte di Carlo in Abissinia fu per lei un colpoterribile. Fu per riscotersene che si fidanzò con Gaspero, oalmeno così mi disse: ‘Gaspero ha accettato di prendermi edi tenermi come sono: una donna vuota, una donna mor-ta’. È stata invece una delle coppie più unite che mai si sia-no viste, per quanto dubbio sia il filo che la legava” rac-contò Indro Montanelli3, che fu l’artefice dell’incontro frai due. Fu lui ad affidare a del Corso le struggenti lettere delcompagno di reggimento morto perché le consegnasse al-l’autrice, una madrina di guerra genovese timida e cortese.Fu lui, in qualche modo, a suggerire la nascita prima diun’amicizia, poi dell’amore.

L’invenzione si intreccia a più riprese con questo rap-porto e lo fa diventare leggenda fin dal primo incontro, chein realtà fu solo uno dei rari appuntamenti fra Gaspero eIrene prima del matrimonio. Quella sera di febbraio del1935, a Roma faceva freddo e Irene Brin entrò nel salonedelle feste dell’hotel Excelsior in via Veneto con un vestitodi lamé bianco, foderato di rosso, dal piccolo strascico.Gaspero, che aveva una gamba fasciata e non poteva alzar-si, la invitò al suo tavolo e i due trascorsero tutta la serata adiscutere di Proust. Il mito vuole che nacque così, come inuna romantica fiaba, l’amore che accompagnò – fra alti ebassi, fra innumerevoli pettegolezzi – Irene Brin per tuttala vita.

Esistono decine e decine di simili aneddoti, forse inven-tati, forse veri, ma sempre così ben orchestrati da rendere

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di porsi e di parlare. Cambiava, come se non ci fosse altrascelta che diventare un’altra per sopravvivere. Come setutto fosse una questione di vita o, più probabilmente, sol-tanto di morte.

A guardarla oggi, la sua carriera sembra fatta solo disuccesso. Eppure non mancarono le critiche, che l’accom-pagnarono fin dagli esordi. Enrico Terracini, con cui pro-babilmente Irene aveva intrecciato una breve relazione aitempi de Il Lavoro, nel racconto le Figlie del generale, pub-blicato nel 1934 sul numero di Solaria di marzo-aprile epresto ritirato in seguito anche alla denuncia per diffama-zione del generale Rossi2, raccontava la storia di Claudia eDonata, e della madre Vincenzina.

I riferimenti ai Rossi erano chiari e Terracini svelava diuna mamma “furba e indiavolata” capace di fare del mari-to, e delle figlie, ciò che più voleva. Una donna che spinge-va le due ragazze “a fingere, a studiarsi in ogni momento, ameditare sui loro atti, anche più futili, a leggere e divorarelibri di tutte le moli e di ogni qualità pur di sapersi distin-guere dalle altre fanciulle”, costringendole a diventare “su-perbe e fredde”, con “troppa cura nel guardare loro stesseper riuscire a vivere come le altre donne”. Di Irene, la bel-la Claudina, Terracini scriveva che “orgogliosa com’è, giàsi vede nei panni di una nuova Giorgio Sand” e anche se“ha solo vent’anni ma tutto si è già perduto senza speranzae il corpo che è sfinito dal lungo cilicio del dimagrire e i se-ni sfioriti a non portare il reggipetto e la pallida tremanteschiena. Cosa Claudina ancora possiede? La sua purezzaintegrale di cui nessuno sa cosa farsene tanto è sciupata esfiorita dal lungo sforzo di resistere, resistere”. E poi “l’a-more dov’è?”.

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che è inaugurata dal numero di telefono di Gianni Agnel-li. Poi ci sono le redazioni, prima fra tutte Il Borghese, scrit-to a penna in un mare di nomi a matita, ma anche indirizzidi Parigi, Berlino, Cannes. Rue, Straße, Avenue.

Nel 1946, su un’agenda altrettanto piccola e marronescuro, invece non c’è niente, quasi l’anno fosse passato in-vano. Nel 1949 la copertina è verde foresta, le pagine sonoingiallite e sottili come quelle dei blocchetti di un tempo.Non ci sono che pochi appuntamenti e tanti indirizzi, per-lopiù londinesi. C’è l’ex style editor di Vogue Madge Gar-land, la London Gallery di Cork St., il ristorante di SohoJardin Des Gourmets.

Il 1950 è un quaderno dalla pelle nera dove è scritta sol-tanto la prima pagina, poi ci sono mesi di silenzio e, soltan-to dopo l’estate, la vita riprende a essere raccontata. Dal 1°agosto, era un martedì, i giorni tornano a riempirsi. Ci sonoballi, concerti, incontri con artisti e scrittori. Le ultime pa-gine sono decine di numeri impilati in somme, che fannotanti ed esosissimi conti in lire.

Nel 1953 la vita di Irene sembra piena come quella dicui mi aveva parlato il nipote Vincent. Ci sono apparta-menti da vedere, letture da fare (l’11 gennaio appunta“Stiamo leggendo il Diario di Pavese che troviamo di unapersonalità”). Le parole sono di biro blu. Poi ci sono le in-numerevoli mostre, gli incontri con De Chirico, da semprecaro amico della coppia, i pranzi (il 29 gennaio annota“Pranziamo al Buco, tra Indro, Colette e Jacopelli, Bom-piani e Laura. Poi andiamo dai Gherardo Casini dove ri-troviamo tutta l’intellighenzia romana”). Tanto la scritturadi Gaspero è sottile e precisa, quanto quella di Irene – chepreferiva la macchina da scrivere alla penna – è tondeg-

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impossibile, perfino per chi Irene l’aveva conosciuta bene,separare la fantasia dalla realtà.

Per questo, per cercare un sentiero di verità, per impa-rare a conoscere la vera Irene Brin – a patto che sia mai esi-stita un’Irene più sincera delle altre –, ho incontrato tantepersone che le sono state amiche, e forse nemiche, chel’hanno studiata e raccontata. Per alcuni resta solo un’anti-conformista esperta di moda capace di comprendere letendenze e di anticiparle. Per altri un’abile gallerista. Peraltri ancora una giornalista che andrebbe riscoperta e co-nosciuta per quello che è stata: un grande talento ingiusta-mente dimenticato.

Le parole degli amici e degli studiosi confermavano il ri-tratto di una donna poliedrica e inafferrabile. Ma anchequesto non mi bastava. Come non mi bastavano i dolci e af-fannosi ricordi del nipote Vincent Torre, la vita della Gal-leria dell’Obelisco che Irene aveva aperto con il marito nel1946 in via Sistina 146 – dove adesso c’è un negozio di ar-ticoli cinesi – e che Lorenza Trucchi mi raccontava comeuna splendida avventura, le fotografie di Jaja Indrimi che laritraevano sempre bellissima.

Allora ho cercato le sue agende alla Galleria Nazionaled’Arte Moderna, dove è conservato il fondo Irene Brin,Gaspero del Corso e Galleria dell’Obelisco, catalogato di re-cente e acquistato alla fine degli anni Novanta da un anti-quario romano, Giuseppe Cassetti, che a sua volta l’avevacomprato dagli eredi.

Nelle agende, tutte dai colori diversi e dalle copertine ditela e di pelle, ho scoperto qualcosa di più sulla vita di Ire-ne. Si inizia con il 1945: un’agenda di pelle marrone chiaro,che sta a malapena sul palmo di una mano tanto è piccola, e

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Una donna impegnata, completamente assorbita dallaroutine pubblica. Dagli incontri e dalle cene. Dal presente.Mi raccontavano questo le agende. Ma anche tutto questonon mi poteva bastare, perché per me Irene Brin continua-va, e continua ancora oggi, a essere altro. Allora avevo lettotutto quello che mi era stato possibile trovare, i libri vecchie quelli ristampati, la corrispondenza con gli amici e con idirettori, soprattutto con quel Leo Longanesi che il 7 otto-bre del 19534 le scriveva: “Da tempo non lavoriamo più as-sieme, ma io ho conservato sempre grande nostalgia deglianni di Omnibus, in cui andavamo tanto d’accordo. Eccoche ora possiamo ricominciare daccapo. Ieri, frugando frale vecchie carte, ho trovato un Suo manoscritto rimastoinedito, e rileggendolo ho pensato che potrebbe venirnefuori un bellissimo libro di sicuro successo. Si tratta di unastoria rapida della moda e dei gusti. A parte, glielo restitui-sco perché Lei, se crede, come io mi auguro, possa allun-garlo e completarlo nei passi invecchiati”.

Longanesi accenna a un libro – che secondo la lettera al-legata constava all’epoca di appena “29 cartelle” – che“dovrebbe cominciare dal 1870, vale a dire da Roma Capi-tale e arrivare fino ad oggi” per “dare al lettore un quadroun po’ più storico del mutare dei gusti e delle fogge del ve-stire”. Una sorta di “storia del secolo” che avrebbe dovutoessere “una storia del costume, senza mostrarlo”. Del ma-noscritto in questione, andato perduto o forse soltanto di-menticato, non si sarebbe saputo altro.

D’improvviso, però, era poi arrivato il rifugio dalla su-perficialità di un tempo. Era arrivato Olga a Belgrado, quel-lo che personalmente considero come il più brillante scor-cio di trasparenza in una vita che era stata fuga, che era sta-

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giante ed elementare nella sua semplicità. Sembra quella diuna bambina.

Il 1953 racconta come è la vita di Irene esattamente die-ci anni dopo la pubblicazione di Olga a Belgrado, quandolei era ormai lontana dagli orrori della guerra in Jugoslaviae in Italia, e sembrava aver dimenticato la disperazione del-la povertà e l’ossessione per i soldi, ma non per l’oblio. Val-lecchi è ancora nella sua vita, e il 3 febbraio 1953 Irene scri-ve “Arrivano Vallecchi e Rosai”. E il 4 febbraio aggiunge“Mostra Rosai. Passo metà della giornata a comporre e ri-comporre il tavolo per il pranzo che Vallecchi vuol dare daMino in via Borgognone”, a cui parteciperanno Bartolini,Palazzeschi, Piccioni, Cesare Brandi.

Ormai Irene Brin, però, non è più la donna che ha rac-contato la guerra, ma è la Contessa Clara, che si entusiasmaper la telefonata che Colombo le fa il 6 febbraio e che anno-ta con un lapidario “La prima edizione del mio Galateo èesaurita e si ristampa subito”. Ci sono ancora i party. Ci so-no Massimo Campigli e Camilla Cederna. Ancora cocktail.La vita è intensa. Il successo è arrivato, e dal 1954 Irene rac-conta tutto. Nelle sue agende non manca una telefonata fat-ta o ricevuta, un pranzo, una cena, un appuntamento. Nul-la sfugge alla sua mania catalogatrice – che la spinse poi a di-ventare archivista di se stessa, come dimostrano i libroniconservati presso l’Archivio Irene Brin di Roma. Ormai ipensieri di Irene hanno dimenticato la guerra e sono diver-si, come racconta anche Gaspero: “Irene pensa di scrivereun libro sul glamour all’italiana”. E poi ci sono i viaggi inTurchia, in America, nel Regno Unito, in Francia. Ma è an-cora splendido tornare a casa, come lei stessa annota il 1°gennaio del 1957. “Stiamo a casa ed è molto bello”.

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La sarta slovena o I capelli verdi – rielaborando ancora il te-sto di Olga a Belgrado, da cui cancella la descrizione di“due belle ragazze” che indossavano “abiti e giacche grigi,le camicette di maglia, l’impermeabile ripiegato sul brac-cio, e quelle dense frangette bionde sugli occhi liquidi,quelle labbra sottili e ostinate, quei colli brevi un pocograssi, così frequenti laggiù, quando ad una solidità paesa-na, e ruvidamente incompiuta, si sovrappongono elabora-te ambizioni di una Hollywood adottata in ritardo”7.

Il resto sono singole parole cambiate dalle simili sfuma-ture, corsivi corretti, “Lawrence o Montherlant?” cancel-lato nel racconto Il Chow-Chow8, un 1920 che ne La pattu-glia9 diventa 1930. Tutto qui. Non ci sono altre correzionisu quel testo che racconta la lunga e appassionante avven-tura a Belgrado di una donna che, a modo suo, ha rivolu-zionato l’Italia e, pur non avendo bambini, ha avuto tantifigli. Figli nell’arte e nella scrittura. Figli cattivi, che non so-no stati in grado di amarla, ma soltanto di dimenticarla.

Irene mi ha accompagnato per lunghi e appassionantimesi. Mesi in cui l’ho odiata, e durante i quali non sono riu-scita a capirla. La sua ricerca era stata lunga, e forse infrut-tuosa. E oggi sono felice che per me Irene Brin resti un mi-stero. Una donna che non ha rinunciato alla sua comples-sità di cui, forse, finì per essere vittima. Una donna che si èlasciata trascinare dalla corrente, ma ha saputo ugualmen-te trovare la sua strada che a tratti resta incomprensibile,anche se certamente non meno affascinante. È impossibi-le esserle indifferente, perché nelle sue parole si legge unastraziante malinconia, una disperazione silenziosa, un’ir-requietezza travolgente che soltanto le cose belle, e vere,conservano ancora.

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ta incredibile ricerca, che era stata ossessiva necessità dinascondersi per esistere.

E così avevo inseguito affannosamente Olga, e gli orroriche Irene aveva raccontato con la forza e l’ordine che solole grandi scrittrici possiedono. Con quella capacità di re-stare in equilibrio fra il dramma personale – quello di unamoglie che parte con il marito generale per una terra sco-nosciuta e con il compito di scrivere “almeno sei” cartelli-ne per Il Mediterraneo, il periodico con il quale lavoravadalla chiusura di Omnibus avvenuta nel gennaio del 1939 –e l’orrore che si trova davanti. Un orrore cui è tragicamen-te impreparata, e che si fa poesia nelle sue parole e nel suosguardo. Un orrore che la trasforma.

Irene Brin smette di essere una donna con mille ma-schere e diventa una donna in grado di comprendere ildramma, e farlo suo. Una donna impietosa con i partigianie con quelle città di sassi, piene “di pietre taglienti, le stessepietre che, ammucchiate, dividevano i muretti lungo i viot-toli polverosi o, saldate insieme con la calce, case sbilencheed ostili”5. Una donna che è crudele con una terra, propriocome è sempre stata crudele con se stessa.

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna è custoditol’ultimo giro di bozze del testo. Sono pagine gialle, dai mar-gini rovinati; pagine che fanno respirare la storia.

Irene fa poche correzioni, sono perlopiù tagli e cambi diparole. Cancella “Mi ricordavo certe giornate sulla lineaMetaponto-Battipaglia, con un eguale deserto intorno e do-ve l’assenza di panini imbottiti e di gazzose diventava sensi-bilissima ed amara” dalla prima pagina di Olga a Belgrado6.

Nasconde il suo gusto per la moda – che comunque cor-re limpido nel corso del libro e si fa chiaro in racconti come

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Per questo, per me, lei oggi è soprattutto una parenteche un giorno fu capace di spingere mia nonna a cucinareun sorbetto al gorgonzola ad agosto. Una parente che hafatto della sua vita quello che ha voluto, e che mi ha inse-gnato il potere dei libri e della sincerità. Perché si può es-sere mille nomi e mille vite, ma restare ugualmente semprefedeli a se stessi.

1. Pp. 588-589.2. Più probabilmente la censura scattò perché sul numero era stato

pubblicato anche il sesto capitolo de Il garofono rosso di Elio Vittorini. 3. Indro Montanelli, I conti con me stesso: diari, 1957-1978, Rizzoli,

Milano 2009.4. La corrispondenza in questione è conservata presso la Galleria

Nazionale d’Arte Moderna (UA 82, Longanesi, Milano).5. Il paese dei sassi. 6. La porzione cancellata è dopo “io avevo fame e sete lo stesso” e il

testo continua con “Quando arrivai a Zagabria pioveva forte”.7. Nel dattiloscritto a p. 5. 8. Nel dattiloscritto a p. 89. 9. Nel dattiloscritto a p. 114.

FLAVIA PICCINNI (Taranto, 1986) vive a Roma. Nel 2005 ha vintoil Premio Campiello Giovani. Ha pubblicato Adesso tienimi(Fazi, 2007) e Lo Sbaglio (Rizzoli, 2011). Collabora con nume-rosi giornali, e fa parte della redazione di Nuovi Argomenti. Hascoperto Irene Brin da bambina, e non l’ha più dimenticata.

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Indice

Olga a Belgrado 7Il paese dei sassi 23La sarta slovena 47Siphilis 53Il padrone di casa 59Incontro al parco 67Traccia dell’uomo grasso 73Trgovina 81Il Chow-Chow 93Ombre di Maria 99I capelli verdi 111La pattuglia 119Un giorno d’estate 143

Documenti per Olga a Belgradodi Franco Contorbia 151

Un’altra Irene Brindi Flavia Piccinni 173

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