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01 Officina.it è la rivista che Alma Edizioni dedica a tutti coloro che si occupano di italiano per stranieri: insegnanti, glottodidatti, linguisti, studenti, appassionati, amanti della lingua italiana e dell’Italia. Oltre ad essere una rivista, officina.it è una newsletter visua- lizzabile sul nostro sito www.almaedizioni.it/officina.it. Per riceverla direttamente nella propria mail è sufficiente iscriversi, gratuitamente, al nostro sito. In questo terzo numero riuniamo le ultime tre uscite on line: Ripartire dal lessico Breve storia della glottodidattica Quando gli studenti “sbagliano”: l’errore Sommario n° 3 - aprile 2009 Ripartire dal lessico Intervista a Mario Rinvolucri pag. 02 Recensione del libro: A. Corda, C. Marello “Lessico. Insegnarlo e impararlo” pag. 05 Articolo: Verso una concezione lessicale della lingua pag. 06 Attività didattiche pag. 10 Breve storia della glottodidattica Intervista a Christopher Humphris pag. 14 Recensione del libro: L. Van Lier “The ecology and semiotics of Language Learning. A sociocultural perspective” pag. 17 Articolo: Cento anni di glottodidattica in dieci istantanee pag. 18 Attività didattiche pag. 21 Quando gli studenti “sbagliano”: l’errore Intervista a Gabriele Pallotti pag. 26 Recensione del libro: “Pedagogia, epistemologia e didattica dell’errore” a cura di L. Binanti pag. 29 Articolo: Correggere il parlato - tipi di feedback a confronto pag. 31 Test: E io come rispondo agli errori? pag. 34 02 14 26 officina.it n° 3 - aprile 2009 Coordinamento: Carlo Guastalla Euridice Orlandino Chiara Sandri Redazione: Leonardo Gandi Annarita Zacchi Progetto grafico: Aurora Giacalone Impaginazione: Roberto Di Iulio Vignette: Luigi Critone Sebastiano Onano Cristiano Senzaconfini Foto di copertina: Archivi Alinari, Firenze Alma Edizioni Viale dei Cadorna, 44 50129 Firenze tel +39 055 476 644 fax +39 055 473 531 [email protected] www.almaedizioni.it Presentazione © 2009 Alma Edizioni srl - L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali mancanze o inesattezze.

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Officina.it è la rivista che Alma Edizioni dedica a tutti coloro chesi occupano di italiano per stranieri: insegnanti, glottodidatti,linguisti, studenti, appassionati, amanti della lingua italiana edell’Italia. Oltre ad essere una rivista, officina.it è una newsletter visua-

lizzabile sul nostro sito www.almaedizioni.it/officina.it.Per riceverla direttamente nella propria mail è sufficienteiscriversi, gratuitamente, al nostro sito.

In questo terzo numero riuniamo le ultime tre usciteon line:

Ripartire dal lessicoBreve storia della glottodidatticaQuando gli studenti “sbagliano”: l’errore

Sommario n° 3 - aprile 2009

Ripartire dal lessico

Intervista a Mario Rinvolucri pag. 02

Recensione del libro: A. Corda, C. Marello “Lessico. Insegnarlo

e impararlo” pag. 05

Articolo: Verso una concezione lessicale della lingua pag. 06

Attività didattiche pag. 10

Breve storia della glottodidattica

Intervista a Christopher Humphris pag. 14

Recensione del libro: L. Van Lier “The ecology and semiotics

of Language Learning. A sociocultural perspective” pag. 17

Articolo: Cento anni di glottodidattica in dieci istantanee pag. 18

Attività didattiche pag. 21

Quando gli studenti “sbagliano”: l’errore

Intervista a Gabriele Pallotti pag. 26

Recensione del libro: “Pedagogia, epistemologia

e didattica dell’errore” a cura di L. Binanti pag. 29

Articolo: Correggere il parlato - tipi di feedback a confronto pag. 31

Test: E io come rispondo agli errori? pag. 34

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officina.itn° 3 - aprile 2009

Coordinamento:Carlo GuastallaEuridice OrlandinoChiara Sandri

Redazione:Leonardo GandiAnnarita Zacchi

Progetto grafico:Aurora Giacalone

Impaginazione:Roberto Di Iulio

Vignette:Luigi Critone Sebastiano Onano Cristiano Senzaconfini

Foto di copertina:Archivi Alinari, Firenze

Alma EdizioniViale dei Cadorna, 4450129 Firenzetel +39 055 476 644fax +39 055 473 [email protected]

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2009Ripartire dal lessico

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“Le parole sono diventate un’ossessione. Le raccolgo, le

metto da parte come uno scoiattolo che fa scorta di noci per

l’inverno, le ingollo e non mi basta mai. Ma a forza di

mandarne giù magari riesco a incorporare la lingua, a farne

parte della mia psiche e del mio corpo”. Sono parole di una

studentessa speciale, Eva Hoffman, che lascia la Polonia

per il Canada, nel 1959 (Lost in translation, Penguin Books,

New York 1989. Ne esiste una traduzione italiana, dal titolo

Come si dice, edita da Donzelli nel 1996). Una nuova vita,

una nuova lingua. Mi colpiscono due cose: l’identificazione

fra lingua e parole, l’idea che si accumulino parole, si

incorpori quindi una lingua, come si raccolgono e divorano

noccioline, cioè come tanti elementi discreti. Una visione

ingenua, secondo quanto direbbero molti glottodidatti e

esperti di linguaggio. Vorrei un tuo commento.

John Morgan e io la pensiamo propriocome Eva Hoffman. Introducendol’edizione 2004 di Vocabulary abbiamoscritto che imparare una parola è unprocesso relazionale. Lo si potrebbedescrivere un “fare amicizia con le paroledella lingua straniera”. Non condividiamol’idea secondo cui una parola è un purosignificante, una specie di etichetta daapplicare a un significato che sta là, nelmondo. È davvero molto più di questo.Se una parola non è che un’etichetta,perché gli studenti una la ricordanoapparentemente senza sforzo e inveceun’altra, incontrata in condizioni identiche, non gli entraproprio in testa? Proprio come uno sguardo, unmovimento, un’osservazione casuale, un tono di voce o unqualsiasi elemento nell’ambiente può influenzare la nostraprima impressione di una persona, così la nostra percezionedi una parola può risentire di cose come:

M ario Rinvolucri è insegnante, formatore

e autore. Ha lavorato 32 anni per Pilgrims

e ha curato a lungo la rivista elettronica

Humanising Language Teaching. Fra i suoi libri:

Creative Writing, con Christine Frank (Helbling),

Multiple Intelligences in EFL, con H. Puchta

(Helbling), Unlocking Self-Expression through

NLP, con J. Baker (Delta Books), Vocabulary,

con J. Morgan (OUP), Humanising your

Coursebook (Delta Books), Using the Mother

Tongue, con S. Deller (Delta Books), Ways

of Doing, con P. Davis e B. Garside (CUP), Imagine

That, con H. Puchta and J. Arnold. Mario è anche

autore, con I. Fletcher de Tellez, di un CD-ROM,

Mindgame (Clarity).

– il suono delle vocali– il suono delle consonanti– la sensazione che si prova, pronunciandola, nei polmoni,

nella gola, della bocca, sulla lingua e nel naso– la tonalità– l’altezza– la velocità di enunciazione– le parole cui si accompagna– come si scrive– la sua forma sulla pagina o sullo schermo– le associazioni convenzionali– le categorie semantiche e sintattiche cui sembra

appartenere– associazioni letterarie– associazioni personali del singolo studente– la sua capacità di evocare immagini sensoriali variabili

da persona a persona– le circostanze in cui la si è incontrata

Se accetti che una parola abbia questecaratteristiche o aspetti e altri ancora,allora è chiaro che imparare il suono, laforma e il significato ordinario dellaparola vuol dire conoscerla e possederlasolo in minima parte. Il sistema fonologico di una nuova linguasi può impararlo in pochi giorni, per lagrammatica ci vorrà qualche settimana.Ma imparare diecimila parole, con le loroassociazioni, connotazioni e collocazioni

è un’impresa molto più complessa, che richiederà anni diesposizione e pratica costante. La grammatica e le regolefonologiche sono sistemi che si possono imparare inmodo cosciente da giovani e da adulti, giovandosi magaridell’aiuto di un insegnante esperto di questi sistemi, maimparare le parole è un’impresa che può essere affrontata

Imparare unaparola è un processo relazionale. Lo sipotrebbe descrivereun “fare amicizia con le parole dellalingua straniera”

Intervista a Mario Rinvolucri

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Intervista a Mario Rinvolucri2009

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con successo solo nel tempo e solo dall’oceanica mentelinguistica inconscia dell’apprendente. Insomma, sottoscrivocompletamente le parole di Eva Hoffman.

Nell’articolo che proponiamo in questo numero, Michael

Lewis suggerisce di spostare l’attenzione dalla grammatica

al lessico, ci spiega perché, che cosa comporta, e come

riorganizzare di conseguenza il lavoro in classe. Anche tu

e Morgan, nel vostro libro – che fra

l’altro è, come dite, perfettamente

adattabile a studenti di altre lingue –

siete per dare più peso e più tempo al

lavoro sul lessico.

Ma mentre Lewis sul lessico propone

soprattutto attività di studio,

osservazione e analisi, diciamo così “a

freddo”, mi sembra che invece nel vostro

libro voi, almeno in alcune sezioni, diate

molta importanza a un lavoro sul lessico

di tipo suggestivo, evocativo, in

generale più libero e “caldo”, cioè non

analitico e controllato. Quasi che per

Lewis contasse maggiormente una presa

cognitiva sul lessico e per te invece una

presa emotiva, affettiva. È corretto?

E potresti parlarci un po’ di questo tuo,

e vostro, approccio all’insegnamento

del vocabolario?

Posso diventare un vero anglosassone [Mario è di origini

piemontesi] e rispondere alla domanda con un paio diesercizi?

Avanti.

a) Gli studenti leggono un testo del manuale. Nonimporta se è un testo piatto, se lo trovano insignificantee noioso. Chiedi di sottolineare tre o quattro parole ocollocazioni o espressioni che gli piacciono, per unqualsiasi motivo. Fai lo stesso anchetu e spiega perché hai sottolineatoproprio quelle parole e espressioni.Poi chiedi agli studenti di dire a granvoce le parole che hanno scelto loro eperché. Ho fatto questo esercizio condegli operai bengalesi dei quartieripoveri di Londra, con dei ragazzini econ dei colleghi durante dei corsi diformazione. I risultati sono ogni voltasorprendenti. I miei studenti miinsegnano un sacco di cose su chisono e su come si accostano alleparole della lingua bersaglio.

b) Ora domanda agli studenti di indicaredelle parole o gruppi di parole che non gli piacciono.Procedi come sopra.

c) Infine puoi invitare gli studenti a sottolineare parole eespressioni che a loro parere sono tipiche della linguabersaglio. Questo stimola un utile confronto fra laprima lingua e quella bersaglio.

Le parole avranno naturalmente per la maggior partedegli studenti un valore emotivo e in molti casisensoriale. Se Lewis prende in considerazione il lessicosolo nei suoi aspetti semantici, collocazionali ecolligazionali [questi due ultimi termini fanno riferimento

all’interdipendenza esistente fra strutture sintattiche e

elementi lessicali, per cui una data parola si presenta più

spesso “in compagnia” di certe altre parole o relazioni

grammaticali], ne viene fuori unaconcezione della parola singolarmenteimpoverita. È vero comunque che ci sono paroleprive di valori sensoriali, quelle cioèprevalentemente astratte. Ma possochiederti di fare tu un secondo esercizio,mentre leggi? [Lo stesso invito è qui

rivolto al lettore] Leggi le parole quisotto e osserva la prima rappresentazionesensoriale che ne hai. Un’immaginementale, suoni, una musica, un sapore,un odore, una sensazione fisica. Qual èla tua prima rappresentazione sensoriale?Prova a concentrarti su una parola pervolta, per evitare sovrapposizioni.

La cosa affascinante di questo esercizioè che le rappresentazioni di ogni parolavariano moltissimo da persona a persona.Se per esempio domandi a una classe diitaliani la loro prima rappresentazionedella parola “Madre”, il 25% diceun’immagine, il 10% una voce, il 60%una sensazione corporea e una piccolaminoranza un sapore o un odore.L’esercizio illustra come ascoltando oleggendo creiamo un intero mondo di

“immagini” a partire dalle parole che ci arrivano attraversogli occhi e le orecchie (metto “immagini” tra virgoletteperché le rappresentazioni possono essere acustiche,gustative, olfattive e cinestetiche oltre che visive). Se sipuò dire che una parola abbia un certo grado di stabilitàsemantica, la rappresentazione sensoriale che genera

Imparare le parole è un’impresa che può essere

affrontata con successo solo nel tempo e solo

dall’oceanica mente linguistica

inconsciadell’apprendente

Ascoltando o leggendo creiamoun intero mondo di “immagini” a

partire dalle paroleche ci arrivano

attraverso gli occhie le orecchie

MuccaFare una passeggiata

Monte Rosa

Una finestraIl Papa

Essere vecchio

ColtelloMadre

Nuotare in un lago

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istantaneamente in chi legge o ascolta è ogni voltadiversissima. Anche se questa stabilità semantica puòrivelarsi illusoria. Se ti dico che “ho mal di testa”probabilmente penserai di capire che cosa intendo. Manovantanove volte su cento penserai che ho quel mal ditesta che capita di avere a te. Oliver Sacks osserva che ineurologi riconoscono più di ottanta varietà di mal di testa.E allora quanto è semanticamente stabile l’espressione“mal di testa”? Ci sono studenti ad ogni modo che sembranoavere quella che chiamerei una visione del mondo “fredda”o spiccatamente logico-matematica. Vedono e sentonodavvero le parole come puri significanti di significati. Chesiano questi gli studenti con cui ha lavorato Lewis?

Non solo le parole hanno valori sensoriali e emozionali,

su questo non dovrebbero esserci dubbi. La tua mossa

successiva è sostenere che le parole si attaccano meglio

alla “mente” se il contatto con loro è un’esperienza

emotivamente e sensorialmente ricca, significativa. Apro

un noto corso di italiano, sezione dedicata al ripasso

lessicale, tema il cibo e la cucina, livello A2-B1. Ecco alcuni

esercizi proposti: completare schemi (diagrammi a ragno

con al centro le parole “carne”, “verdura”, “frutta” e

“altro”: bisogna inserire otto parole in ognuno: “vitello”,

“maiale”…), abbinare immagini a verbi (“tagliare”,

“bollire”, “friggere”, “assaggiare”…), scegliere da un

elenco i cibi che “usi normalmente” (“usare dei cibi”?!:

ma come parla?! direbbe Moretti). Esercizi di questo tipo,

abbastanza piatti, potrebbero conservare, nella tua

prospettiva, almeno un senso “utilitaristico”? Molti

insegnanti direbbero: non si può essere sempre “ispirati”

e lavorare su un piano più “profondo” o semplicemente

giocoso, come quello che suggerisci.

Usare diagrammi a ragno per rivedere il vocabolarioandrà benissimo, credo, con quegli studenti di cui sidiceva, dotati di mente logico-matematica, che però sonouna netta minoranza nella classi di lingua. Lo stesso sipuò dire che valga per attività basate su rapportigerarchici fra elementi lessicali, come per esempio:“Mezzi di trasporto – veicolo – camion – autoarticolato”.Non definirei “piatti” questi esercizi, ma certo se il librodi cui parli ne propone solo di questo tipo, allora è un altro discorso, perché ci sono ben altri materialifacilmente reperibili. Spero che pecchi di pessimismoquando dici o lasci intendere che molti insegnanti tiranoavanti con quello che si ritrovano nel libro. Gli insegnantidi italiano a stranieri che mi ricordo io sono spesso deigiovani pieni di energie e di immaginazione, che lavoranosodo. Non si chiede a nessuno di inventare ogni volta laruota. Ci sono parecchi libri che servono a insegnare il vocabolario, e quello che ho scritto con Morgan non èche uno fra gli altri. Un modo per inventare delle nuovebuone attività per il lessico è prendere un vecchioesercizio e rovesciarlo. Fammi concludere con un esempiodi questo tipo. Ecco il classico esercizio “Cacciaall’intruso” nella versione standard: scrivi alla lavagnauna serie di parole, per esempio queste: “martello”,“ago”, “sega”, “chiodo”, “cacciavite” e chiedi aglistudenti di trovare l’intruso. La risposta è “ago”, perchénon fa parte dell’insieme “attrezzi da falegname”. Ed eccolo stesso esercizio in una versione rinnovata: dopo averscritto le stesse parole spieghi che ogni parola puòessere l’intruso, per esempio, se consideri l’insieme,diciamo cosi, “cose che spingono”, allora l’intruso è“martello”, perché percuote. Rovesciare vecchi esercizi è molto divertente. Invito tutti a provare!

John Morgan, Mario Rinvolucri,Vocabulary, 2004, OUP

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Recensione del libroA.Corda e C.Marello,“Lessico.Insegnarlo e impararlo”

È un testo utile per l’insegnante di lingua a stranieri euna risorsa cui attingere quando ci si pone il problema,

abbastanza diffuso, del lessico e di come intenderlo all’in-terno della pratica didattica. Il punto di vista delle autrici èche sia l’insegnamento grammaticale tradizionale che gli at-tuali metodi comunicativi per ragioni diverse trascurano illessico, mentre questo avrebbe bisogno di attenzione espli-cita durante la lezione di lingua.

I l primo capitolo, “Dal punto di vista di chi impara: l’ap-

prendimento del lessico”, si concentra sulle difficoltà diimparare parole nuove e sui fattori che influenzano l’appren-dimento sia in senso positivo che negativo. Una prospettiva,se non inedita, comunque poco frequentata e che sarebbeinteressante sviluppare magari con ricerche ed interviste astudenti di provenienza diversa. Il secondo capitolo, “Dal

punto di vista di chi insegna: l’insegnamento del lessico”,discute la distinzione fra vocabolario ricettivo, produttivo epotenziale, passa in rassegna i vari criteri di selezione e pre-sentazione del lessico e sosta su due aspetti cui le autricisono particolarmente sensibili: si apprende meglio se si im-para “a dedurre il senso dal contesto” e “facendo altro”.Come si legge in una vera e propria dichiarazione teoricanell’introduzione al volume: “Crediamo che il lessico si

apprenda nel modo più efficace in rapporto a una situazio-

ne specifica, e che quindi vada insegnato in modo conte-

stualizzato, magari facendo altro (…). Le parole nuove si

imparano leggendo, scrivendo, ascoltando e parlando, ma

soprattutto facendo in modo che i compiti proposti siano

motivanti e coinvolgenti”.

N egli ultimi due capitoli, infine, troviamo indicazioniper un uso appropriato e efficace del dizionario nel-

l’insegnamento del lessico e una serie di esercizi da propor-re in classe, divisi in due macro-aree: attività per introdurreparole nuove e per il consolidamento delle conoscenze.

T ra i tanti spunti e riferimenti teorici offerti dalle autrici,vi sono tre aspetti che possono orientare l’insegnante

di lingua nella pratica:

1 Secondo le autrici è importante aver chiaro che nontutto il lessico con cui lo studente viene a contatto può

essere usato subito nella comunicazione. Le ricerche diconoche imparare una parola per usarla quando serve è diffici-le più o meno il doppio che impararla ricettivamente (vedinel testo la distinzione tra vocabolario ricettivo, produttivo,potenziale). Sarebbe dunque inutile insistere con liste di pa-role da riprodurre ed esercizi correlati: il processo di acqui-sizione avviene con tempi e modalità più complessi. Meglio,soprattutto nelle prime fasi, esplicitare questa teoria aglistudenti e proporre in misura maggiore attività ricettive (let-ture e ascolti) stimolando la consapevolezza e la capacitàdi riflettere sul proprio modo di apprendere e di memoriz-zare parole nuove. Invece, notano le autrici, docenti e stu-denti assumono in modo implicito che il vocabolario vada

imparato tutto quanto in modo produttivo e i manuali so-stengono questa visione, con un carico eccessivo e forseinutile di lavoro.Va detto che dall’uscita del testo (nel 1999, e poi riedito,per altro editore, nel 2004) non sono passati molti annima importanti passi avanti sono stati fatti nella direzioneauspicata dalle autrici sia dal punto di vista dell’editoriache della ricerca.

2 Nel testo si sostiene che è meglio imparare e insegna-re il significato delle parole nuove secondo il contesto

in cui le incontriamo. Ciò comporta, com’è ovvio, che gli stu-denti vengano a contatto con un significato particolare e noncon tutti i significati delle parole. È così, secondo le autrici,che si apprende naturalmente una lingua, a poco a poco, el’esposizione ai testi permette di acquisire lessico nuovo econsolidare ciò che si è imparato in precedenza. Inoltre, sesiamo d’accordo che ciò che ha più ha valore è la costruzio-ne progressiva di senso in una lingua nuova, le parole assu-mono tanta più pregnanza quanto più sono legate ad obiet-tivi e compiti motivanti. Dunque, più che le indagini sulla fa-mosa “motivazione” ad apprendere (che rimane sempre unpo’ generica, astratta) sono utili tutte le attività che coinvol-gono gli studenti in prima persona e li spingono a prende-re decisioni.

3 Un principio generale molto invocato nel testo di Cordae Marello è l’autonomia dello studente. Si fa notare che

quanto più l’apprendente viene messo di fronte alla propriacapacità di gestire la nuova lingua tanto più progredisce.Venendo al lessico, si consiglia di insegnare esplicitamentele strategie di deduzione che favoriscono la comprensionedei testi così come quelle di compensazione, che permet-tono di comunicare pur non conoscendo la parola esatta.Tutto ciò, pur riconoscendo la difficoltà di proporre questestrategie agli adulti, che magari hanno già imparato altrelingue straniere con metodologie diverse e si aspettano lariconferma di procedure note. Anche se oggi, dopo il Quadro

Comune Europeo di riferimento per le lingue, il concetto diautonomia dell’apprendente dovrebbe essere condiviso esostenuto – ed infatti compaiono nei manuali parti in cui lostudente è invitato alla riflessione sulle sue abilità – secon-do Corda e Marello molto resta da fare in questa direzione

a livello pratico, per un lavoro inclasse più orientato allo scopo eche coinvolga lo studente al puntoda stimolarne la presa di iniziativa.

Alessandra Corda, Carla Marello,Lessico. Insegnarlo e impararlo, 2004,Guerra (precedentemente uscito comeInsegnare e imparare il lessico, 1999,Paravia/Sciptorium)

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Verso una concezione lessicale della lingua.

Una sfida per gli insegnanti

di Michael A. Lewis

Questo articolo è dedicato all'approccio lessicale e porta la firma di Michael Lewis,

insegnante e metodologo, che ne ha posto le basi nell'ormai classico The Lexical Approach

del 1993. A questo volume ne sono seguiti altri due, impegnati a mettere la teoria in pratica,

Implementing the Lexical Approach (1997) e Teaching Collocation (2000). Un'intensa attività

di diffusione del nuovo approccio ha portato Lewis a tenere conferenze in oltre trenta paesi.

Fra gli altri suoi numerosi libri, The English Verb, Business English (con Peter Wilberg, 1986

e 1983), Practical Techniques for Language Teaching (con Jimmie Hill, 1990).

L’originale di questo articolo è stato pubblicato in “Babylonia”, 3, 2005, pp. 7-10 (numero

dedicato interamente all’approccio lessicale).

IntroduzionePensi che insegneresti le lingue allo stesso modo se non tifossi formato come insegnante di lingue? E quante analogievedi fra le attività che svolgi in classe e ciò che fa “natural-mente” chi è immerso in situazioni che richiedono l’uso dellalingua? Sospetto che tu faccia lavorare molto i tuoi studentisul vocabolario (le “parole nuove”) o sulla grammatica, so-prattutto sui “tempi verbali”, e sospetto invece che gli ap-prendenti “naturali” abbiano a cuore una cosa sola, cioècomprendere e produrre significati. Scopo di questo artico-lo è sostenere, come suggerisce con forza la moderna ricer-ca nella linguistica dei corpora, che la pratica di classe develasciare il vocabolario e la grammatica per il lessico e unmodo nuovo di guardare al testo, con occhi lessicali appun-to, perché è proprio dal lessico che si crea il significato. Mafacciamo prima qualche passo indietro. Perché insegni le lingue nel modo in cui lo fai? Per abitudine?Perché è così che te le hanno insegnate a scuola? Ti limiti aseguire il manuale? Dai ai tuoi studenti regole grammaticaliesplicite? Li incoraggi a compilare liste di “parole nuove”?Fai esercizi di trasformazione (“Volgi al passivo”)? Lavori conla lingua “ripulita” dei classici materiali didattici (o sei inve-ce per l’inglese vero, naturale, che si trova per esempio nelleriviste o in Internet)? Un insegnante riflessivo basa il proprioinsegnamento su convinzioni più o meno esplicite riguardoalla natura della lingua e dell’apprendimento. Ogni nuovaconcezione in entrambi gli ambiti dovrebbe riflettersi in quel-lo che poi succede in classe. Questo articolo esaminerà leimplicazioni di alcuni recenti cambiamenti nella concezionedella natura della lingua e del modo in cui il cervello imma-gazzina e recupera la lingua. Si suggerirà inoltre che le attivi-tà didattiche sopra citate possano in realtà rendere l’appren-dimento più difficile, e che dunque sia necessario sostituirlecon altre più efficaci. Ma perché questo accada gli insegnan-ti dovranno prima comprendere perché tali cambiamentisiano desiderabili.

Lo studio del fenomeno del linguaggio (altra cosa rispettoalle singole lingue) è ancora relativamente recente. I primitentativi furono condotti per lo più sul latino, lingua alta-mente flessiva. Di conseguenza, almeno in Europa, i lingui-sti hanno sempre finito con l’attribuire un valore eccessivoa quella che è stata tradizionalmente chiamata “grammati-ca”, in particolare alle forme del verbo. Fino a venticinqueanni fa lo studio della lingua era affidato soprattutto all’in-tuizione o ha prodotto risultati “scientifici” solo all’appa-renza. In effetti una ricerca su basi realmente scientifichesi è resa possibile solo con l’avvento dei corpora compute-rizzati di lingua naturale. Va inoltre rilevata l’influenza negativa, specie in ambito sta-tunitense, esercitata dalla tesi chomskiana secondo cui unalingua è l’insieme delle “frasi possibili” in quella lingua.Questa definizione del tutto inadeguata non ha fatto altroche restituire importanza alla grammatica della frase isola-ta. Gli studi sui corpora elettronici mostrano al contrario chemolti fenomeni possibili restano tali o addirittura sono estre-mamente improbabili (We’ve had our downs and ups; Good

morning, Gentlemen and Ladies; Hello, I haven’t seen you

for seven and a half months; I like weak tea but powerful

coffee) [1]. Una concezione esauriente del linguaggio devespiegare sia ciò che è possibile sia ciò che, pur forse possi-bile, è assai improbabile. Fino a trenta anni fa era opinione comune che la lingua sipotesse dividere in “grammatica” e “vocabolario”. Tale di-stinzione, che sarà molto familiare a gran parte degli inse-gnanti, conduce a un approccio “riempitivo” (“slot and fil-

ler”) alla pratica grammaticale [2]. Anche in questo caso glistudi sui corpora di lingua naturale hanno dimostrato cheè un approccio del tutto sbagliato che rende l’apprendi-mento di una lingua inutilmente difficile (e, si potrebbe ag-giungere, particolarmente scoraggiante per molti studentimeno abili).

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Vale infine la pena segnalare che la linguistica dei corporasi è prevalentemente esercitata sull’inglese (anche in que-sto articolo gli esempi sono tutti presi dall’inglese); ma èevidente che i tratti emersi al suo riguardo sono comunia tutte le lingue. Alcuni anni fa, a Washington, presentan-do molte delle idee qui sostenute a un pubblico di inse-gnanti delle lingue più diverse – cinese, farsi, finlandese,coreano, arabo, ebraico e altre ancora ritenute “lontane”dall’inglese – non solo ho registrato consenso, ma c’è statopersino chi ha definito la propria lingua “più lessicale” del-l’inglese. Benché gli esempi che porto siano tratti dall’in-glese, ritengo che le idee di fondo abbiano una loro validi-tà universale.

Alcuni risultati della ricercaChe cosa hanno dunque rivelato gli studi sui corpora elet-tronici di lingua naturale? Ecco alcuni dei risultati più signi-ficativi:

1 Poche strutture o “regole” sono totalmente fisse; quasiogni affermazione possibile sulla strutturazione (pat-

terning) linguistica è di natura tendenziale o probabilistica:ci sono poche certezze. John Sinclair, uno dei padri della lin-guistica dei corpora, è chiaro al proposito: “Le generalizza-zioni grammaticali non poggiano su fondamenta rigide, masono l’accumulo di strutture relazionali (patterns) di centi-naia di parole individuali e di espressioni.” (Sinclair 1991:100)

2 Vocabolario e grammatica non sono categorie separa-te, ma inestricabilmente connesse. Separarle genera

confusione, non chiarezza. Ancora Sinclair: “I dati oradisponibili [al 1990 e adesso confermati (N.d.A.)] gettanoseri dubbi sull’opportunità di postulare domini separatiper il lessico e la sintassi.” (Sinclair 1991:104)

3 La lingua è costituita prevalentemente da stringhe diespressioni prefabbricate (elementi lessicali) dotate di

una maggiore o minore possibilità di variazione - on the other

hand non ammette l’opposto (grammaticalmente corretto)on this hand, ma richiede on the one hand, che deve inol-tre apparire in posizione di antecedente; a week on Thurs-

day può diventare a week on [day], mentre a month/year

on Thursday (di nuovo grammaticalmente accettabile) appa-re del tutto improbabile.

4 Esprimendoci nei termini della distinzione tradizionale“vocabolario/grammatica”, non ci sono strutture pre-

determinate in cui inserire singole parole, ma è la parola chedetermina la strutturazione (patterning) circostante, cioè la“grammatica”. Insomma, la lingua naturale funziona in modoesattamente opposto a quello descritto dal classico (e ormaiquasi del tutto abbandonato) approccio “riempitivo” ampia-mente diffuso una ventina di anni fa.

5 Strutture (patterns) tipiche di certi generi (orali e scritti)di inglese possono essere rare o non presentarsi affat-

to in altri generi. È una differenza molto più sottile rispettoa quella fra inglese scritto e parlato. La più completa gram-matica di una lingua finora pubblicata – la Longman Gram-

mar of Spoken and Written English (LGSWE) – mette a con-fronto quattro generi: la conversazione, il notiziario, la nar-rativa e la scrittura accademica. Le sorprese sono molte:le domande sono relativamente rare in ogni forma di inglese

scritto; i dieci verbi più comuni (ausiliari esclusi) sono fre-quentissimi nella conversazione ma estremamente rari nellascrittura accademica, e si presentano in strutture del tuttodiverse allo scritto e al parlato; anzi, le strutture tipiche as-sociate a molte se non a quasi tutte le singole parole sonostrettamente correlate ai diversi generi. Il dato di fondo èche di “regole” davvero generali ce ne sono pochissime mache, in compenso, la lingua è costituita di lessico (lexis),cioè di mini-strutture composte da più parole, in misuraassai maggiore di quanto finora immaginato. John Sinclair neaveva già percepito la conseguenza più radicale quasi ventianni fa: “Prove tanto evidenti ci inducono a considerare ilprincipio idiomatico non più secondario rispetto alla gram-matica, ma di pari se non superiore importanza nello spie-gare il formarsi del significato nel testo.” (Sinclair 1991:112)

Il principio idiomatico Conviene a questo punto esaminare più da vicino il “prin-cipio idiomatico”, a volte chiamato anche “idiomaticità”.Innanzitutto non ha quasi niente a che vedere con le tradi-zionali “espressioni idiomatiche” che si insegnano agli stu-denti di lingue, cioè quelle frasi fatte, considerate fisse, piùo meno colorite, da non prendere alla lettera (vedi i classiciIt’s raining cats and dogs e He kicked the bucket the other

day, che, detto per inciso, non ho mai sentito usare da unmadrelingua se non durante discussioni sull’idiomaticità!).Queste locuzioni erano considerate tipiche del parlato, marare o assenti nella scrittura accademica. Le si riservava aglistudenti avanzati, ma in genere con l’avvertenza di evitarle,dato che un uso anche solo lievemente imperfetto avrebbepotuto suscitare effetti comici o ridicoli. Un’altra categoria di espressioni fisse prese in considera-zione erano i cliché, termine in sé già dispregiativo, per cuianche di essi si sconsigliava l’uso. Ecco che cosa arrivavaa dirne nientemeno che George Orwell: “L’invasione dellamente da parte delle frasi fatte (lay the foundations, acqui-

re a radical transformation) può essere contrastata solo re-stando costantemente in guardia, poiché ogni frase del ge-nere anestetizza una parte del cervello.”È interessante notare come lo stesso Orwell, lo ricordo inTeaching Collocation, non sia riuscito a evitare espressio-ni quali bitter winter, carried on as best as they could, the

outside world, perfino in un’opera così originale come La

fattoria degli animali [3]. Lungi dall’anestetizzare il cervello,il ricorso a elementi lessicali prefabbricati facilita la com-prensione del lettore/ascoltatore, permettendogli di con-centrarsi più agevolmente sulla nuova informazione conte-nuta nel messaggio.Si è già visto che per Sinclair “il principio idiomatico è al-meno tanto importante quanto la grammatica”. A mio pare-re dovremmo adesso accettare l’idea che questo principioè quasi certamente più importante della grammatica nellaproduzione del significato. Tocchiamo qui il punto decisivo:la lingua serve essenzialmente a creare e scambiare signi-ficati; non parliamo per fare esempi del passato prossimo,non ci formiamo prima una frase in testa per poi “trasfor-marla” al passivo o volgerla nel cosiddetto “discorso indi-retto”. La lingua prodotta durante attività didattiche di que-sto tipo merita a stento di essere descritta come “lingua”,tanto che alcuni linguisti la definiscono a ragione “compor-

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tamento simil-linguistico”. Gli insegnanti che propongonoattività del genere dovrebbero valutare attentamente sesono in grado di giustificarne l’utilità ai loro studenti. Io cre-do di no; ritengo anzi che tali pratiche complichino inutilmen-te l’apprendimento e siano di fatto un ostacolo per un’acqui-sizione efficace.

Le classiche frasi idiomatiche Si può notare en passant che le classiche frasi idiomatichesono tutt’altro che fisse e che anzi si presentano raramentenella forma riportata nel dizionario; i madrelingua riprendo-no la forma “base” per variarla impercettibilmente o render-la addirittura quasi irriconoscibile (naturalmente deve resta-re riconoscibile). Ecco alcuni esempi tratti dal mio corpuspersonale:

When Diana, Princess of Wales, walked into a room, all

heaven broke lose.

(Daily Telegraph, 29/8/98)

An awful lot of blood has flowed under the bridge.

(Robin Cook, allora ministro degli esteri, spiegando un cam-biamento della politica del governo britannico in Kosovo,TV News, 4/4/99)

Sound like the wag the dog syndrome to me.

(Alex Thompson, intervista a Channel 4 News, 6/12/98)

He’s a man of a couple of medium-sized ideas.

(Un commentatore politico dopo l’elezione di G.W. Bush,12/00) [4]

Esempi non solo arguti e divertenti, ma anche in vari sensiassai rivelatori. In primo luogo smentiscono le parole diOrwell: “distorcere” un’espressione fissa aiuta chi parla/scri-ve a creare significato, ma solo grazie al fatto che sia chiparla/scrive sia chi ascolta/legge conosce la soggiacenteespressione “fissa” o presunta tale. In secondo luogo, sivede che non esiste una distinzione netta tra frasi idioma-tiche – all hell broke loose, the tail is wagging the dog – ecollocazioni: a big idea non sarebbe normalmente conside-rata un’espressione “idiomatica”, ma questo è precisamen-te quanto hanno mostrato i corpora computerizzati: la lin-gua che usiamo è in larghissima misura prodotta dalla nostramemoria, si tratti di elementi totalmente prefabbricati o dipiccole variazioni su elementi (quasi) fissi; ed è questo unfenomeno che pervade tutta la lingua, il parlare comune, lanarrativa, la scrittura accademica.

Implicazioni pedagogiche Quali sono le implicazioni pedagogiche di tutto ciò? In unaformula, occorre che gli insegnanti prestino più attenzioneal “vocabolario” – torneremo su questo termine più avanti– e meno alla grammatica tradizionale; come osserva il miocollega di un tempo Jimmie Hill: “Dedicare molto tempoalla grammatica tradizionale dell’inglese lingua secondacondanna gli studenti a restare a un livello intermedio.”(Hill 2000: 68) Se gli insegnanti devono compiere questa necessaria inver-sione di rotta, bisogna smettere di considerare il “vocabo-lario” come una collezione di singole “parole nuove” e svi-

luppare strategie che inducano loro per primi, e poi gli stu-denti, a guardare i testi con nuovi occhi, attenti al lessico.Domandare agli studenti “ci sono parole che non capite?”non li aiuta affatto. Prima di tutto perché così si evidenziaquello che non sanno, finendo fra l’altro per demotivarli,specialmente i meno abili. In secondo luogo, punto forsepiù importante, è difficile se non impossibile imparare qual-cosa di completamente estraneo; è invece la lingua che giàsi è “affacciata” alla mente dell’apprendente quella con lemaggiori probabilità di essere acquisita – si tratti di elemen-ti riconosciuti ma non ancora impiegati attivamente, oppu-re di vocaboli ad ampio spettro collocazionale di cui solouna o due semplici collocazioni siano note. Con le parole diPeter Shekan: “Molto spesso la sfida pedagogica non con-siste nel proporre qualcosa di completamente nuovo, manel rendere accessibile ciò che è solo relativamente nuovo.”(Shekan 1998: 139) Una strategia ovvia, in questo senso, è esplorare altre pos-sibilità collocazionali, stimolando gli apprendenti a sviluppa-re l’abilità di usare parole conosciute solo in parte (un’ideaampiamente sviluppata in Keywords for fluency di GeorgeWoolard). Un modo semplice per “entrare” nel testo è pren-derne uno o una sua parte e chiedere agli studenti di sotto-lineare tutti i sostantivi che riescono a trovare. Poi li si mettea cercare le altre parole che secondo loro fanno parte del“blocco” (chunk) che contiene ogni sostantivo precedente-mente sottolineato. In base all’età e al livello degli studenti,gli insegnanti potranno costruire un percorso più o meno gui-dato, per esempio far ricercare prima gli aggettivi che vannocon i sostantivi, poi i verbi che li precedono (i verbi che ven-gono dopo sono assai meno significativi, come vedremo frabreve), infine ogni altra piccola parola – articoli, preposizio-ni – che faccia parte del “blocco”. Provate voi stessi a svol-gere questa attività; all’inizio non noterete granché, ma conla pratica comincerete a vedere sempre più “blocchi”, equelli che troverete avranno dimensioni sempre maggiori.(Ciò potrà risultare controintuitivo agli insegnanti che abbia-no imparato che scomporre le cose rende più facile impa-rarle; secondo me, al contrario, scomporre è spesso fontedi successivi problemi. Imparare due parole in tempi diver-si e poi doverle mettere insieme per formare una frase èovviamente più difficile che imparare una frase e poi scom-porla, processo fra l’altro molto simile a quello seguito datutti noi quando imparavamo la prima lingua). L’obiettivo èdunque spingere gli apprendenti a vedere, registrare (e for-se tradurre, prendendo così di petto la nota questione del“non tradurre parola per parola”) le unità lessicali (chunks)più ampie che riescono a individuare sulla base di parolechiave parzialmente note, cioè l’esatto contrario rispetto alporre al centro dell’attenzione parole nuove isolate. Aspetto fondamentale, con la pratica si comincerà a tenereinsieme le parole grammaticali, come gli articoli e le prepo-sizioni, e i sostantivi portatori di significato; scoprendo così(o cominciando a scoprire) la “grammatica della parola”,ovvero l’elemento centrale della lingua, tutto l’opposto dellatradizionale dicotomia vocabolario/grammatica.Va sottolineato che l’approccio lessicale (ampiamente de-scritto e discusso in The Lexical Approach e Implementing

the Lexical Approach) non disdegna né bandisce la gramma-tica, ma invita semplicemente gli insegnanti a rivederne la

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propria concezione; ad abbandonare cioè gli assurdi eser-cizi di trasformazione, a riequilibrare il sillabo riducendodrasticamente lo spazio riservato alle regole tradizionali –spesso ipergeneralizzazioni fuorvianti – e alla pratica deicosiddetti tempi, a dare priorità alla “grammatica della pa-rola”, in modo che questa nuova, fondamentale dimensio-ne grammaticale, completamente ignorata nelle analisi con-suete e pressoché inesistente nei manuali, acquisti l’impor-tanza che merita.Se l’insegnante ci riflette, riconoscerà che l’insegnamentotradizionale del vocabolario si concentrava ampiamente suisostantivi e l’insegnamento tradizionale della grammaticasulla struttura del sintagma verbale. Ora, gli studi sui corpo-ra rivelano che la seconda parola più diffusa in tutti i generidi inglese è l’apparentemente insignificante “of” (circa il 2%di tutti i testi raccolti). Risulta che questa preposizione ha unruolo centrale nella costruzione dei sintagmi nominali che,nella frase inglese, sono spesso il soggetto grammaticale(di qui l’importanza dei sostantivi che precedono il verboprincipale, centrali per la “grammatica della parola” nel sin-tagma nominale): One of the principal causes of the Second

World War; The death of President Kennedy; New members

of staff. È impossibile scrivere bene in inglese senza saperusare le espressioni con “of”, ma nei sillabi tradizionali esse

non occupano che un minimo spazio (a pint of milk, a bar

of chocolate!). (Sempre in Keywords for fluency si trovanomolte idee per la pratica di queste espressioni). “Of” è cosìimportante nel sistema dell’inglese che il monumentaleLGSWE sopra citato riserva una quarantina di pagine a esa-minare le varie strutture che includono questa preposizione.Chi insegna altre lingue si chieda quanto tempo dedicain classe a lavorare sulla struttura del sintagma nominale.È assai probabile che essa sia a stento considerata e che,come per l’inglese, tendano a dominare il sintagma verbalee i sostantivi isolati. La moderna ricerca linguistica mostra dunque al di là diogni dubbio che la lingua è molto più “lessicale” – cioècostituita da “blocchi” prefabbricati del tutto o parzial-mente fissi – di quanto finora si pensasse; che molte dellepresunte strutture utili e/o tipiche care alle grammatichetradizionali sono rare o inesistenti nella lingua naturale; chealtre strutture essenziali per esprimersi correttamente sonorimaste sin qui ignorate. I dati disponibili parlano chiaro.Rimane aperta una grande questione: gli insegnanti cam-bieranno l’oggetto del loro insegnamento e il loro approc-cio ai testi? Solo gli insegnanti possono introdurre i neces-sari cambiamenti in classe. Saranno – sarai – all’altezzadella sfida?

“Pro/Contro” l’approccio lessicale

KRYSZEWSKA, H. (2003), Why I won’t say good-bye to the Lexical

Approach, “Humanising Language Teaching”, 5, 2LINDSTROMBERG, S. (2003), My good-bye to the Lexical Approach,“Humanising Language Teaching”, 5, 2

Michael A. Lewis, The Lexical

Approach, LTP, 1993, Hove (ora Thomson ELT, Boston)

Note1 Sarebbe come dire, in italiano: “Abbiamo avuto i nostri bassi e alti”,

“Signori e Signore, buongiorno”, “Ciao, è un secolo e mezzo che nonci si vede”, “Il caffè mi piace forte, il tè debole” (N.d.T.).

2 Un modo di concepire e costruire gli esercizi grammaticali in cui singolivocaboli dal significato fisso sono inseriti in strutture grammaticali altret-tanto fisse per così ottenere frasi corrette: per es., “Il treno è arrivato”, “Lanave è arrivata”, “Gli amici sono arrivati”, “Le zie sono arrivate” (N.d.T.).

3 Lewis si riferisce all’inizio del cap. 7 della Fattoria degli animali: “Fuun inverno duro. Ai temporali seguirono nevischio e neve, poi un geloterribile che non si spezzò fino a febbraio inoltrato. Gli animali porta-

vano avanti come meglio potevano la ricostruzione del mulino, bensapendo che il mondo esterno teneva gli occhi su di loro e che gli invi-diosi esseri umani avrebbero gioito e trionfato se il mulino non fossestato finito in tempo” (N.d.T.).

4 In italiano sarebbe come dire: “Quando Diana, principessa del Galles,entrava in una sala, si scatenava il paradiso”, “Ne è passato di sanguesotto i ponti”, “Mi sembra la sindrome del carro e dei buoi” (ma l’espres-sione idiomatica the tail is wagging the dog, letteralmente “la codaagita il cane”, indica che un elemento secondario acquista più impor-tanza di un elemento centrale), “È un uomo dalle medie vedute” (N.d.T.).

BibliografiaBIBER, D. et al. (1999), Longman Grammar of Spoken and Written English,

Longman, London

HILL, J. (2000), Revising priorities: from grammatical failure to colloca-

tional success, in: Teaching Collocation

LEWIS, M. (1993), The Lexical Approach, LTP, Hove (ora Thomson ELT, Boston)

LEWIS, M. (1997), Implementing the Lexical Approach, LTP, Hove (ora Thom-son ELT, Boston)

LEWIS, M. (a cura di) (2000), Teaching Collocation, LTP, Hove (ora ThomsonELT, Boston)

SINCLAIR, J. (1991), Corpus, Concordance, Collocation, Oxford UniversityPress, Oxford

SKEHAN, P. (1998), A Cognitive Approach to Language Learning, OxfordUniversity Press, Oxford

WOOLARD, G. (2004, 2005), Keywords for Fluency, (Pre-intermediate, Inter-mediate and Upper Intermediate), Thomson ELT, Boston

Per approfondire, in italiano

CARDONA, M. (2004), Il lexical approach nell’insegnamento del-

l’italiano, “In.IT”, 14, pp. 1-7MENEGAZZO, E. (2006), L’approccio lessicale di Lewis e la lingua

dello studio, “Itals”, IV-12, pp. 67-89SERRA BORNETO, C. (1998), L’approccio lessicale in C’era una volta

il metodo (a cura di C. Serra Borneto), Carocci, Roma

Traduzione di Leonardo Gandi

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5 Analisi lessicale5a Ricostruisci le 7 espressioni qui sotto.

asrocs ùip oiap repamirp otnat la

1. ______ omeno

2. ______massimo

3. la settimana______

4. ______ laprecisione

5. ______ o poi

6. un ______d’ore

7. ogni______

5b Inserisci nella trascrizione le espressioni che hai ricostruito al punto 5a.Poi consultati con un compagno. Alla fine potete riascoltare il brano come conferma.

Lui - … Che freddo che fa dentro questo scompartimento.

Lei - Sì. E poi non hanno ancora acceso il riscaldamento,

non so perché.

Lui - Eh, bisognerà chiamare un controllore.

Lei - Mah, sì, arriverà _______________________.

Lui - Eh, speriamo.

Lei - Ma sì…

Lui - Qui non si può mica stare così. Ah… che dice: farà freddo anche a destinazione?

Lei - Beh, certo, nell’ultima settimana le temperature si sono un po’ alzate però, pensi, ____________________ io

ero a Milano e… ci saranno stati… quattro, cinque gradi ________________________.

Lui - Addirittura! Eh allora farà freddo. Quindi lei ci va spesso a Milano?

Lei - Mah, _______________________.

Lui - Pensa che arriveremo… quando? A che ora? _________________________.

Lei - Mah, non penso che ci vorranno più di ________________________ … che ore saranno adesso? Le due…

Lui - Adesso sono le due e un quarto. Due e sedici ________________________.

Lei - Ecco io penso che al massimo entro le quattro e mezza saremo a destinazione.

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Attività didattiche

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Attività didatticheUna lingua è sì governata parzialmente da regole, ma è fatta anche di un vasto

numero di espressioni fisse e semifisse – “come va?”, “a proposito”, “mi dispiace

veramente che”, “quello di cui avrei bisogno è” – che vengono richiamate

in modo globale, senza ogni volta rimontarle pezzo a pezzo, per potersi

esprimere fluentemente. Uno dei meriti dell’approccio lessicale è aver

richiamato l’attenzione su questa dimensione della lingua.

Diane Larsen-Freeman, figura di rilievo nel campo dell’acquisizione

delle lingue seconde, pur riconoscendo che una lingua presenta

una quantità enorme di tali espressioni prefabbricate, si domanda

se occorra insegnarle esplicitamente e soprattutto come. Il rischio

è a suo avviso che si finisca col riproporre dei frasari, ricchissimi e

aggiornati quanto si vuole, ma pur sempre dei frasari da mandare a mente.

Domande importanti che meritano risposte concrete.

Proponiamo qui due attività “lessicali” tratte dal recente Magari, corso di livello intermedio e avanzato edito da

Alma Edizioni (pag. 12-13). La prima attività è orientata a richiamare l’attenzione degli studenti su alcune espressioni

fisse tratte da una conversazione (disponibile on line su www.almaedizioni.it/officina.it). La seconda attività è un

gioco a coppie in cui si improvvisano dialoghi, in situazioni date, cercando di utilizzare espressioni fisse nel modo più

corretto e adeguato. La procedura di entrambe le attività è applicabile ad altri elementi lessicali.

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6 GiocoSi gioca in gruppi di quattro, una coppia contro l’altra. A turno, ogni coppia deve improvvisare un dialogo (durata: 1minuto e 1/2) su una situazione scelta dall’altra coppia, usando il maggior numero possibile di espressioni della lista.La coppia avversaria deve controllare se le espressioni sono usate in modo adeguato. Vince la coppia che alla fine delgioco avrà usato più espressioni in modo corretto.

Magari (esclamazione)

Magari (avverbio)

Più o meno

Un paio d’ore

Per la precisione

Prima o poi

Al massimo

La settimana scorsa

Ogni tanto

situazioni

espressioni

Cliente/Cameriere: in un ristorante italiano il cliente si lamenta per il conto troppo alto.

:icima euD.ailatI ni oiggaiv nu etazzinagro

:onailati id etnangesnI/etnedutSetneduts ol

.osroc lus inoizamrofni edeihc

Due amici: siete in viaggio in Italia e decidetecosa portare a casa come souvenir.

:onailati erotagreblA/etneilCatnemal is etneilc li

.eneb av non aremac al éhcrep

:icima euD.inailati ilged àtilatnem allus etetucsid

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2009Breve storia della glottodidattica

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Hai cominciato a insegnare sul finire degli anni Sessanta.

Nei libri si legge che lì è la svolta, il passaggio cruciale

tra l’approccio strutturale dominante e la novità

dell’approccio comunicativo. Puoi delineare le principali

differenze fra questi approcci?

L’approccio strutturale vedeva la lingua come un insiemedi strutture sintattiche. La padronanza di ciascuna diqueste strutture si raggiungevaattraverso la formazione di abitudini. Performare un’abitudine bisognava ripeterlatantissime volte. Per convincere gli studentia sopportare così tante ripetizioni gliinsegnanti si comportavano comeanimatori del villaggio turistico: allegriaallegria e tanti rinforzi positivi, “bravo”,“perfetto”; frasi “inserite” in situazionispesso comiche o assurde, gran varietànei modi di evocare le situazioni: disegnialla lavagna, cartelloni, vignette,diapositive, mimi, messe in scena.L’essenziale era far ripetere la stessastruttura sintattica quante volte possibile durante tutta lalezione. Ciascun errore linguistico era considerato unrinforzo di un’abitudine negativa e quindi doveva a tutti icosti essere evitato.

U na conversazione sui metodi e le idee

che più hanno ispirato e ispirano

l’insegnamento delle lingue straniere.

Christopher Humphris, insegnante di

inglese, formatore e autore, espone i suoi

punti di vista e invita gli insegnanti a

riflettere sul passato, ma anche a impegnarsi

nella ricerca di nuove strade.

Christopher Humphris insegna inglese come

lingua straniera dal 1969. Forma insegnanti

di lingua dal 1972 ed è responsabile del

Dipartimento di Formazione insegnanti e

Ricerca della Dilit International House a

Roma dal 1985. È inoltre coautore di:

Comunicare subito, (Dilit), Comunicare

meglio, (Bonacci), Ascolta!, (Klett), Italiano

Super Plus facile, (Klett), English Through

Play, (Anicia), Volare 1, 2, 3, (Dilit, e

Alpha & Beta). È caporedattore del

semestrale Bollettino Dilit dal 1980.

Organizza annualmente i convegni e i seminari

internazionali presso la Dilit International House

dal 1989 e ne ha curato gli Atti fino al 2002.

È vero che i primi approcci alternativi nascono nei primianni Settanta ma l’anno zero dell’era comunicativa è stato,a dirlo con Keith Morrow (convegno storico a Venezia diquell’anno), il 1978. Prima di allora si cercava di “correggere”alcuni dei difetti dell’approccio strutturale. L’esigenza piùsentita era quella di insegnare frasi più utili. Nascevanol’approccio funzionale, l’approccio nozionale, l’approccionozionale-funzionale. Finalmente gli studenti non dovevano

più aspettare anni prima di poter dire “Tel’avevo detto” o “Vorrei che tu fossi qui”,o semplicemente “Un caffè” o “Magari” o“Senta, scusi”. L’approccio comunicativo,però, tardava ad arrivare perché la lineaufficiale (quella del Consiglio d’Europaper intenderci), nonostante i toni“rivoluzionari” che usava per convincerela professione (ansiosa in quell’epoca diaccogliere idee nuove), sosteneva che lametodologia di insegnamento non andavacambiata. Secondo loro andava cambiatosoltanto ciò che si insegna, non come siinsegna. Questa posizione confusa –

ingenua diremmo oggi (infatti il “Quadro Europeo”pubblicato nel 2000, in cui si parla del “saper essere”, del“saper fare”, di autonomia e altro, ne costituisce lacorrezione) – provocò la pubblicazione di nuovi materiali

Intervista a Christopher Humphris

È vero che i primiapprocci alternativinascono nei primianni Settanta mal’anno zero dell’era

comunicativa è stato il 1978

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che venivano abbandonati dagli insegnanti dopopochissimo tempo. L’aggettivo “comunicativo” era dimoda e veniva applicato a qualsiasi tentativo diinsegnare frasi in ordine di utilità piuttosto che in ordinedi complessità strutturale. A queste frasi non si davanopiù etichette tipo “presente indicativo” bensì quelle ditipo “raccontare abitudini quotidiane”. Nel 1978 laconfusione nell’uso dell’aggettivo “comunicativo” vennechiarita da Keith Morrow (e da chi la pensava come lui):“in aula se non vengono rispettati i fattori piùelementari della comunicazione l’insegnamento non sideve chiamare comunicativo”. E dette degli esempi: nonsi fa una domanda se si conosce la risposta; ciò chedice uno non può non tener conto di ciò che ha appenadetto l’altro (es. “Dove abiti? Qual è il tuo numerotelefonico?” vs. “Dove abiti? E il telefono?”); la forma diciò che sarà detto è frutto di una scelta da parte di chista per parlare, ecc. Principio moltosemplice (e una sfida molto grande) cheha spinto molti di noi a cambiarerealmente il modo di insegnare.

Vorrei invitarti a uno sguardo retrospettivo,

non tanto sui metodi o gli approcci

glottodidattici, quanto sulle idee che a

tuo parere hanno più segnato la storia

della glottodidattica negli ultimi

cinquant’anni, idee provenienti da vari

settori scientifici e culturali. Si pensa

subito per esempio all’idea di interlingua,

a certe intuizioni di Krashen…

La teoria dell’interlingua è statafondamentale per uscire dalla morsa cheil comportamentismo aveva sul nostrosettore. Finalmente una teoria che nonstigmatizzava l’errore, che consideraval’apprendimento linguistico unaquestione di sviluppo, di crescita, di tuttoil sistema usato dallo studente. Finalmente l’insegnantepoteva vedersi non più come un meccanico che dovevasostituire le parti rotte, bensì come un giardiniere chedoveva curare le condizioni ambientali affinché la piantapotesse crescere più in fretta. S. Pit Corder è statosicuramente lo studioso più interessante da questo puntodi vista. Per quanto riguarda il come studiare gli aspettiformali della lingua, le influenze più positive (anche senon ancora a sufficienza) vengono da Piaget, Vygotsky eBruner, i quali hanno studiato come il sapere aumenta ecome si impara. A differenza di Chomsky (che si ferma alriconoscimento della natura innata della facoltà diacquisizione linguistica), questi riconoscono chel’apprendimento esiste e che l’apprendimento puòrallentare, può fermarsi ad uno stadio di potenza limitata,o, al contrario, può continuare ad arricchirsi e acquisireuna sempre più grande potenza espressiva. Focalizzanol’attenzione sui processi di apprendimento per capirequali sono le condizioni ambientali, interpersonali eintrapersonali che possano favorire un apprendimentopiù efficace.

Torniamo ai metodi. Si sente spesso dire che “il” metodo

è un mito, che è finito, che ci vuole eclettismo o, come

si dice ora, un metodo “composito”. So che anche tu sei

contrario alle “fisse” metodologiche. Però tieni molto

a un principio di coerenza. Come vedi allora questa

questione dell’eclettismo?

Se un giorno un insegnante pretende dai suoi studentiche cerchino di risolvere problemi linguistici discutendofra di loro e consultando testi autentici e il giornoseguente, per fretta, interrompe uno studente duranteun ragionamento (perché lo ritiene sbagliato), non devesorprendersi se dopo un po’ troverà i propri studenti“passivi”. Meno c’è coerenza più gli studenti devonousare la propria intelligenza per difendere la propriadignità (minacciata da un insegnante che non riconoscepiù il suo diritto di ragionare senza condizionamenti).

Detto questo la ricerca di nuove strade,di nuove attività non dovrebbe maifermarsi: ci sarà sempre un modomigliore per fare le cose.

Il Total Physical Response è un metodo

che sembra stia conoscendo una

riscoperta in Italia, almeno

nell’insegnamento dell’italiano agli

alunni stranieri della scuola pubblica.

È anzi uno degli ingredienti del metodo

“composito” sostenuto da una voce

autorevole come Graziella Favaro, per

esempio in Insegnare l’italiano agli

alunni stranieri (La Nuova Italia).

So che tu sei invece molto critico al

riguardo del Total Physical Response.

[Una descrizione del TPR si trova in

questo numero, nell’articolo “Cento

anni di glottodidattica in dieci

istantanee”, pag. 18 paragrafo 7].

Se Graziella Favaro lo considera semplicemente uningrediente di un metodo, si trova in buona compagnia.In compagnia di moltissimi insegnanti di lingua (noicompresi) da almeno 40 anni. La prima volta che l’ho vistoio personalmente era nel 1968 e si chiamava piùmodestamente “Robots”. L’ho visto attuato da una normaleinsegnante d’inglese, non in un centro di formazione inqualche capitale europea bensì in una piccola scuola mediain un paesino perso in mezzo alla campagna della Borgognain Francia. Sicuramente la lezione che ho visto riscuotevaun certo successo presso i ragazzi. Questo gioco (chiamarlo“metodo” è un’esagerazione) viene chiamato da sempre“Robots” da migliaia di insegnanti e si trova anche fra igiochi presentati nel manuale Volare di cui io sono coautore.Un gioco che può essere riproposto – perché no? – piùvolte alla stessa classe. Chi lo fa realmente in classe avràqualche sorpresa se cerca di applicare la versione chepropone Asher (colui che ha inventato il nome Total Physical

Response). Troverà che, contrariamente a ciò che Ashersostiene, gli studenti non vedono l’ora di poter dare loroi comandi. Lui, invece, vuole condannarli al silenzio

2009 Intervista a Christopher Humphris

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Per quantoriguarda il come

studiare gli aspettiformali della

lingua, le influenzepiù positive

vengono da Piaget,Vygotsky e Bruner

i quali hannostudiato come

il sapere aumenta e come si impara

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Intervista a Christopher Humphris 2009B

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(giustificato da quello slogan krasheniano superficiale“filtro affettivo”)! In “Robots”, invece, sono gli studenti chedanno i comandi. Per una critica più approfondita poteteconsultare il mio articolo del 1990, “Input comprensibile oinput autentico?”(www.dilit.it/formazione/articoli/InputComprensibileOInputAutentico.htm)

Restando nell’ambito dei cosiddetti

approcci “umanistico-affettivi”, attribuisci

loro qualche merito, magari per quanto

concerne il modo di rappresentare la

relazione didattica, o se non altro

ne apprezzi qualche tecnica specifica?

Personalmente non avrei mai raggruppatotali approcci sotto un unico nome.Secondo me l’unica cosa che hanno incomune è che tentavano di affrontarel’uno o l’altro difetto del metodo audio-orale che meglio rappresentava ilsoprammenzionato “approccio strutturale”.Il Community Language Learning avevail pregio di lasciare agli studenti la decisione delcontenuto dell’apprendimento. In più dava allo studenteil ruolo di pretendere eventuali ripetizioni all’insegnante.Il Silent Way aveva il pregio di vietare il fare eco da partedell’insegnante (e quindi ha introdotto l’uso delle dita),creando un livello di attenzione negli studenti mai vistoprima. La Suggestopedia aveva il pregio di riconoscere ilvalore negativo dello sforzo, della tensione. Il Total

Physical Response aveva il pregio di dimostrare che laproduzione poteva essere ritardata rispetto alla ricezione.La dicitura “umanistico-affettivo” lascia credere checercavano tutti di abbassare lo stress. Non è affatto veroper i primi due. Per quanto riguarda la discussa centralitàdell’insegnante falliscono tutti quanti.

“Complessità” è una parola che sta iniziando a circolare

per descrivere sia l’apprendimento linguistico sia le

dinamiche di classe. Recentemente ci hai organizzato un

convegno. Che cosa ti aspetti da questa nozione, dagli

studi che cominciano ad apparire?

Mi aspetto, fra le altre cose, che:– si aumentino di molto gli studi longitudinali delle

interlingue e che nel confronto tra uno stadio i e unostadio i+1 si eviti di considerare singoli atomi della lingua(es. un tempo verbale) e si esplorino invece le relazioniintratestuali e interpersonali (es. “in turni lunghi i concettirisultano più chiari secondo l’interlocutore?” e, diconseguenza, “come si evolve la padronanza di tecnicheper ottenere turni lunghi?”);

– vengano eseguiti sempre più studi di lingue in uso,esplorando e documentando, per esempio, come vengonocostruiti gli enunciati nel parlato spontaneo in temporeale e come vengono resi coesi con ciò che precede, ilsignificato del silenzio e il rapporto fra di esso e il non-silenzio, il significato della relativa altezza dei toni neldialogo, come viene realizzata la negoziazione deisignificati, ecc.;

– vengano studiati i dialoghi fra madrelingua e non-madrelingua;

– vengano esplorate le condizioni affettive e cognitive incui l’apprendente lotta con i limiti della propria interlingua,ammesso e concesso che sia riconosciuta l’importanza,anzi la necessità, di tale lotta;

– venga studiato come l’interazione inclasse influenzi questo processo.

Una volta hai scritto che nella nostra

professione si legge poco. Che le cose

siano cambiate o no, potresti indicare i

cinque libri – o i cinque articoli – a tuo

parere indispensabili per farsi un’idea di

quello che è successo di significativo

nella nostra professione?

– Notional Syllabuses, David Wilkins,Oxford University Press, 1976, in cui ilimiti dell’approccio strutturale o“sintetico” vengono rilevati e l’uso dimateriali autentici viene contemplato

per la prima volta [trad. it., I programmi nozionali,Bologna, Zanichelli, 1978].

– Error Analysis, Jack Richards, Longman, 1974, in cui lateoria dell’interlingua viene esposta da diversi studiosi.

– The Communicative Approach to Language Teaching,Christopher Brumfit & Keith Johnson, Oxford UniversityPress, 1979, che fa una panoramica dei diversi aspettidell’approccio comunicativo.

– A Grammar of Speech, David Brazil, Oxford UniversityPress, 1995, che fa vedere la necessità di smettere diconsiderare la lingua in uso come una variante dellalingua dei linguisti.

– Ecology and the Semiotics of Language Learning, Leovan Lier, Kluwer Academic Publishers, 2004. Una bomba!(La recensione si trova in questo numero a pag. 17).

La ricerca di nuove strade, di nuove attività

non dovrebbe mai fermarsi: ci sarà sempre

un modo migliore per fare le cose

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2009 Recensione - The Ecology and Semiotics of Language Learning

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Recensione del libroLeo van Lier, “The Ecology and Semioticsof Language Learning”

Q uesto libro di van Lier è un libro complesso, ricchis-simo di riferimenti, ma nonostante ciò estremamen-

te coinvolgente. Una vera summa delle idee che, maturatenegli anni in diversi campi – dalla teoria socioculturale diVygotsky alla pedagogia critica di Bruner, dalla semioticasociale di Halliday alle “ecologie” di Gibson e Bateson, percitare solo alcuni esempi – sostengono a parere dell’autoreun “modo di pensare all’insegnamento e all’apprendimen-to che possa essere applicabile in ogni situazione, e unmodo di lavorare che prenda l’apprendente impegnato eattivo come punto di partenza” (224).

I l primo punto che colpisce è il risalto dato dall’autore allanozione di educazione linguistica, definita una delle più

importanti attività umane: “Tutta l’educazione è educazionelinguistica, dato che la lingua è una qualità che definisce ilsenso dell’essere umano” (2). Il nesso inseparabile lingua-educazione è il fulcro dell’approccio ecologico all’apprendi-mento linguistico: non si tratta di un metodo, ci avverte vanLier, né di una teoria. Piuttosto, di una “visione del mondo”,un “modo di pensare e di agire” (3), ovviamente sostenutoda posizioni teoriche, linguistiche e didattiche, di un incorag-giamento alla discussione critica. Ne esce rafforzata un’ideanon (illusoriamente) utilitaristica o minimalistica dell’inse-gnamento linguistico, in cui si tratterebbe di trasmettere deicontenuti linguistici o tutt’al più sviluppare abilità linguisti-che. Per van Lier, al contrario, ogni esperienza di apprendi-mento è come minimo occasione per fare i conti con visionidi sé, degli altri, delle realtà culturali, delle relazioni fra esse-ri umani. “Un approccio ecologico vede l’apprendente comeuna persona intera, non un’unità di produzione grammatica-le. Questo comporta avere cose significative da fare e dadire, essere preso sul serio, ricevere responsabilità, essereincoraggiato a affrontare progetti impegnativi, a pensarecriticamente e a assumere il controllo del proprio apprendi-mento. L’insegnante fornisce assistenza, ma solo quantobasta e al momento opportuno […] considerando le abilità inevoluzione e gli interessi dell’apprendente come la veraforza trainante del curriculum” (223-224).

M a perché il riferimento all’ecologia? Rileggendo la no-zione classica di ecologia come studio degli organismi

nel loro rapporto con l’ambiente, e connettendola alle più re-centi teorie dei sistemi complessi e del caos, van Lier fa pro-pria da un lato un’istanza politica , perfino attivistica (6).Nessuna disciplina si può permettere di prescindere dalla si-tuazione ambientale: come sappiamo, un tipo di ingegneriaecologica, così come un buon management e la capacità diaccudire, riparare, sono aspetti sempre più necessari nel no-stro pianeta così sotto stress. Perché ciò non dovrebbe vale-re per il sistema educativo? I sistemi sociali, di cui l’educati-vo com’è ovvio fa parte, non hanno in realtà bisogno di usci-re dalla dimensione di fissità, di rassegnata accettazione diuno status quo che nega ogni tentativo di cambiamento. Mala prospettiva ecologica di van Lier si fa sentire, dall’inse-gnante, anche in un senso più “tecnico”, laddove si suggeri-sce, per esempio, di abbandonare una visione “causa-effetto”

del processo pedagogico – dosare l’input offerto e attender-si un certo output – per una in cui assumono massima rile-vanza gli aspetti parzialmente imprevedibili e incontrollabilidel processo di insegnamento-apprendimento.

C ruciali nella classe di lingua “ecologica” sono le nozio-ni di consapevolezza, autenticità e autonomia dello

studente, su cui van Lier ha scritto i suoi testi maggiori negliultimi dieci anni. “È scaduta l’immagine di una classe confile di teste vuote che assorbono la conoscenza che provie-ne dalla testa parlante di fronte a loro. Abbiamo in menteinvece una comunità di pratiche in cui gli apprendenti sioccupano del proprio apprendimento svolgendo attività divario tipo, lavorando insieme, fianco a fianco o per proprioconto. In questo ecosistema gli apprendenti sono autono-mi, cioè liberi di definire il significato delle proprie azionientro il proprio” (7-8). Van Lier completa il ragionamentosuggerendo che “il curriculum più naturale in una prospet-tiva ecologica è quello basato sui progetti” (222).

P er van Lier la lingua è un sistema di relazioni piuttostoche una collezione di oggetti. L’apprendimento di una

lingua è un modo per relazionarsi più profondamente aglialtri e al mondo stesso. Di qui la profonda rivalutazione dellaconversazione come motore dell’apprendimento linguistico:“il significato è creato, agito e condiviso nella conversazio-ne. L’apprendimento linguistico, se deve avere un senso, ese deve essere legato al sé e alla formazione di identità,deve perciò essere incorporato nella conversazione. Foglilavoro, libri di grammatica, esercizi e test non possono farealtro che da respingenti, se non sono integralmente con-nessi ad atti di parola, a presentazioni di sé, a proiezioni diidentità” (145).

L a grammatica, scrive van Lier, abbracciando una prospet-tiva cosiddetta “emergentista”, “non è un prerequisito

della comunicazione, ma piuttosto un derivato della comu-nicazione. Regolarità e sistematicità sono prodotti dalla par-ziale sedimentazione di forme usate frequentemente in sot-tosistemi temporanei ” (88). Respingendo sia il modello(chomskiano) che ipotizza l’attivazione di un modulo biologi-co sia il modello comportamentista basato sull’imitazione el’associazione, van Lier sostiene che “l’apprendimento lingui-stico emerge” non come “il risultato di un accumulo di re-gole apprese esplicitamente, ma piuttosto come risultato di

attività cognitive e/o sociali in cuila lingua è usata in modi significa-tivi ”, quindi “dalla partecipazionea pratiche linguistiche, praticheche sono sempre radicate in siste-mi di significati storici, culturali eistituzionali ” (88).

Leo van Lier, The Ecology and

Semiotics of Language Learning.

A Sociocultural Perspective, 2004,Kluwer Academic Publishers

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Cento anni di glottodidattica

in dieci istantanee

di Leonardo Gandi

Dal metodo grammaticale-traduttivo fino al comunicativo e alle sue evoluzioni più recenti,

passando per gli approcci cosiddetti “umanistico-affettivi”. Un panorama delle proposte

che hanno influenzato e ancora influenzano la pratica didattica.

L a storia della glottodidattica è fatta di idee e di teorie, dipratiche e di metodi, di scambi continui con altre discipli-

ne, con la cultura del tempo. Impossibile in poche pagine of-frirne se non un quadro selettivo. Le dieci istantanee cercanodi dare un’idea di come si è tentato di organizzare negli ultimicento anni l’insegnamento linguistico.

1. Metodo grammaticale-traduttivoErede di una tradizione antichissima, in cui una lingua si stu-dia per leggerne e apprezzarne gli autori classici. Chi ha stu-diato latino o greco a scuola sa bene, almeno dovrebbe, di chesi tratta. Agli inizi del secolo ventesimo il metodo grammatica-le-traduttivo è uno dei più adottati anche per lo studio dellelingue vive. La lettura e la scrittura sono le abilità più curate,a discapito delle altre. Le lezioni sono frontali. L’insegnantespiega la grammatica, seguendo una successione ordinata diregole secondo quanto prescritto dalle grammatiche dell’epo-ca, fa fare esercizi e traduzioni, fa memorizzare liste di vo-caboli. La correzione immediata degli errori è un corollario.Certe sopravvivenze di questo metodo sono facilmente leggi-bili nei gesti di molti insegnanti contemporanei.

2. Metodo direttoSi oppone al metodo grammaticale-traduttivo, muovendo prin-cipalmente dalla constatazione che non prepara gli studenti ausare la lingua come il senso comune vorrebbe, vale a dire percomunicare. La traduzione, macchinosa, antieconomica, nonè ammessa. I significati dovrebbero passare “direttamente”,attraverso l’uso di dimostrazioni e l’aiuto di supporti visivi. Lagrammatica non è spiegata. Allo studente è affidato il compi-to di ricavare induttivamente le nozioni linguistiche. In breve, sicerca di portare in classe l’immemorabile esperienza dei viag-giatori: ascolta e cerca di capire, prima o poi capirai e parleraianche tu. La lingua orale diventa preminente nelle lezioni. Siorganizzano situazioni in cui lo studente può esercitarsi a con-versare, a pensare nell’altra lingua, a auto-correggersi. Le con-versazioni sono guidate dall’insegnante che in genere parteleggendo un testo di presentazione, dopo di che si inauguraun ciclo di domande e risposte sui contenuti del testo o sul si-gnificato di termini non compresi. Le domande non linguistichevertono sui dati manifesti, per esempio, dopo aver mostrato edescritto una mappa dell’Italia, si domanda “da quanti mari èbagnata?” e si deve rispondere con una frase completa: “è ba-gnata da 4 mari”. Gli studenti in definitiva scambiano informa-zioni già note o di routine (“quanti anni hai?”, “ho sedici anni”)cercando di imitare le forme usate dall’insegnante: questo siintende in effetti per “comunicare”.

3. Metodo audio-oraleSi diffonde, prima in America e poi in Europa, nel dopoguerra.Anch’esso si basa sull’uso preminente della lingua orale edevita la riflessione grammaticale esplicita. Gli storici racconta-no che sia nato per insegnare le lingue ai militari di stanza inpaesi esteri. Il metodo diretto, a cui in parte si collega, dovet-te apparire troppo indisciplinato ed estemporaneo. Rigore,scientificità ed efficacia misurabile sono, prevedibilmente, iprincipi ispiratori. La lingua è suddivisa e presentata in strut-ture (grammaticali) ordinate, dal semplice al complesso, se-condo la rappresentazione fornita dalle grammatiche struttu-raliste. L’insegnante le presenta una a una, sempre attraversoesempi di lingua supposta “viva” (dialoghi ad hoc recitati dal-l’insegnante o da una voce registrata) e guida gli studenti allaloro esecuzione sempre più accurata. Questo avviene attra-verso vari tipi di esercizi orali, rigidi e basati sulla ripetizione,i cosiddetti esercizi strutturali o pattern drills. La teoria del-l’apprendimento retrostante è di tipo comportamentista:imparare è un processo di formazione di abitudini (corrette).Si insegna perciò ad evitare accuratamente gli errori, comefonte di abitudini, per l’appunto, errate. Capita, nei casi mi-gliori, che l’insegnante (almeno quello con studenti “civili”)si ritrovi a dover sviluppare non solo un repertorio complessodi tecniche ma anche doti di brillantezza, e persino di empa-tia, dovendo orchestrare le esercitazioni obbligate senza ab-battere la motivazione dello studente. A dispetto delle radi-cali confutazioni cognitiviste subite negli anni Sessanta dalcomportamentismo, il metodo audio-orale sembra aver im-pregnato di sé le abitudini (anche se forse non le menti) dimolti insegnanti post audio-orali.

4. Silent WayIl crepitio dei pattern drills (drill è termine militare, “esercita-zione”, e, prima ancora, “trivella”, “trapano”) cari al meto-do audio-orale produce non solo abili esecutori di strutturegrammaticali ma anche delle vittime, vale a dire modesti co-municatori e persone che ignorano molte delle risorse intel-lettuali di cui dispongono. Non è strano che a difesa di costo-ro – in particolare del secondo tipo di vittime – una delle vocia levarsi sia quella di un matematico-filosofo-pedagogista,Caleb Gattegno, attivo negli Stati Uniti e ideatore negli anniSessanta della “via silenziosa” all’apprendere (le lingue, manon solo). Sensibile alle ragioni del cognitivismo e del costrut-tivismo che vanno in quegli anni scalzando gli assunti com-portamentisti, e sostenitore di una rinnovata educazioneall’autonomia e alla consapevolezza, Gattegno propone indefinitiva un metodo (benché dica che non lo è) in cui tutto il

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merito dell’apprendimento debba andare allo studente. Il si-lenzio che dà il nome a questa “via” non è certo l’arma tradi-zionalmente più usata dall’insegnante. Qui diventa invece lamodalità centrale attraverso cui l’insegnante si mantiene de-centrato e stimola le risorse personali degli studenti. Questeultime sono così indotte a concentrarsi sugli “strumenti” tipi-ci, e un po’ esotici, del Silent Way: regoli (bastoncini coloratiche “materializzano” per es. elementi lessicali e sintattici),tabelle dei suoni e delle grafie della lingua, disegni, materialidi lettura. Poco importa che, grazie ad essi, e con i laconici in-terventi dell’insegnante, gli studenti si misurino per lo più, co-me nei metodi precedenti, con una lingua assai semplificata,fatta in prevalenza di frasi (essere “bravo” significa sempre, inpratica, maneggiare adeguatamente delle strutture). La stradaè però aperta verso una diversa organizzazione dell’apprendi-mento: l’insegnante non trasmette conoscenze e modelli, noninterroga, non fa esercitare, ma allestisce situazioni in cui sonogli studenti ad agire, decifrando significati, collaborando fraloro, autocorreggendosi, costruendo le proprie rappresenta-zioni linguistiche con fiducia e indipendenza. Questa è unadelle non ultime ragioni di certe riserve verso questo meto-do, reputato un po’ ostico proprio per l’insegnante comune.

5. SuggestopediaNon è l’autonomia la strada scelta dallo psicologo bulgaroGeorgi Lozanov per rivelare allo studente le potenzialità di cuidispone e renderlo più abile con le lingue. Per Lozanov si trat-ta semmai di liberare lo studente dalle idee e dagli abiti incon-sci che proiettano una luce sgradevole sulle cose nuove da im-parare e sulle proprie capacità di impararle. La lezione sugge-stopedica cerca perciò, prima di tutto, di creare le condizionifavorevoli a “desuggestionare” (la suggestopedia tenderà adun certo momento a essere chiamata, appunto, “desuggesto-pedia”) gli studenti dai propri impedimenti mentali e “sugge-rire” atteggiamenti positivi. Di qui l’uso della musica, di tecni-che di rilassamento, di giochi, di strategie come l’assunzionedi identità diverse, la cura dell’ambiente in cui si svolgono lelezioni, della gestualità minuta che accompagna le mosse del-l’insegnante. Gli anni Sessanta/Settanta emergono anche inun altro senso. Le neuroscienze stanno infatti svelando dati im-portanti sui processi cerebrali che accompagnano l’apprendi-mento. La memoria acquista centralità come oggetto di studio,si studiano i modi che ne esaltino il funzionamento. La sugge-stopedia ne fa il motore centrale dell’imparare. E piuttosto ov-viamente imparare è, in un senso, avere in memoria. Ma, unpo’ troppo letteralmente, la suggestopedia si fa un vanto di riu-scire a far memorizzare più vocaboli e strutture in un tempodato rispetto a tutti gli altri metodi (di qui anche l’altro nome,miracolistico, con cui è conosciuta: “Superlearning”), e consi-dera questo il segnale di un apprendimento linguistico andatoa buon fine. In effetti la lezione suggestopedica si basa in lar-ga misura sulla ripetizione/memorizzazione di lunghi dialoghi.Si tratta poi spesso di testi in cui emerge una visione edulcora-ta dei rapporti umani e del paese di cui si studia la lingua.L’idea, piuttosto ingenua, è che “sensazioni positive” facilitinol’apprendimento. L’insegnante deve avere l’abilità e il carismanecessari a gestire lezioni “rilassate” ma sorrette da copionipredeterminati (c’è un libro fatto di dieci lezioni, ogni lezione haun dialogo di 200-400 parole, la traduzione nella L1, note gram-maticali e culturali). In questo senso la suggestopedia è un’ot-

tima palestra per chi pensa all’insegnamento come a un’attivi-tà rigorosa, fatta di cura dei dettagli. Resta il fatto che agli stu-denti si offrono campioni linguistico-culturali abbastanza gene-rici e per nulla negoziabili. I loro interessi e bisogni sono di fat-to inesplorati. Curare gli “affetti” e ignorare i “bisogni”, come èstato sostenuto, può essere un caso di manipolazione emotiva.

6. Community Language LearningL’apprendimento (di una lingua straniera) come esperienza po-tenzialmente disorientante, addirittura minacciosa; lo studen-te come persona da ascoltare, accettare empaticamente, servi-re, nel senso dello psicologo americano Carl Rogers e della suaterapia “client-centered”; le esperienze dell’educazione bilin-gue. Sono questi gli spunti centrali del CLLelaborato da CharlesCurran, gesuita e psicologo allievo di Rogers, a partire dal 1959,negli Stati Uniti. Ecco come si presenta una lezione tipo. Gli stu-denti, seduti in cerchio, avviano una conversazione su un argo-mento scelto da loro. Se sono principianti, usano la madrelin-gua, ovviamente nel caso che ne condividano una (in classi plu-rilingui ci si affiderà alla mimica). L’insegnante traduce nella L2,badando a tradurre frasi intere e non singole parole, lo studen-te che ha parlato prova a ripetere. La conversazione procedein questo modo, alternando le lingue, fino alla sua conclusio-ne naturale. Il tutto è registrato e poi trascritto. Le registrazionie le trascrizioni sono la base per poi lavorare sulla lingua, ria-scoltando le proprie voci, analizzando aspetti lessicali e gram-maticali, migliorando la pronuncia, riprendendo “pezzi” signifi-cativi per provarli in nuovi contesti. In queste fasi il lavoro sisvolge spesso in coppie o piccoli gruppi. Con studenti interme-di o avanzati l’insegnante, durante la conversazione di parten-za, si limita naturalmente a fornire singole parole, riformulazio-ni e correzioni. Segue le attività una fase in cui gli studenti sonoinvitati a riflettere e pronunciarsi sull’esperienza. Potranno peresempio dire la loro sul fatto che i contenuti linguistici del cor-so sono interamente determinati dalla contingenza delle loroconversazioni e non proposti in un programma precostituito.

7. Total Physical ResponseSe si teme che gli studenti, messi di fronte a una lingua scono-sciuta, non ce la facciano e si perdano d’animo, ma non si amaparticolarmente smarrirsi nella psicologia, nei silenzi pedagogi-ci, nei valori suggestivi della musica, si può cercare una diversarisposta, una “risposta fisica totale”, nel metodo messo a puntoda James Asher. Siamo sempre in questi sperimentali, anticon-venzionali anni Sessanta, questa volta in California. Una dellecritiche ricorrenti è che il TPR non è un metodo “completo”. Lostesso potrebbe probabilmente dirsi per tutti i metodi, ma in ef-fetti un corso TPR ripropone con poche variazioni un’esperien-za tipo. L’insegnante presenta nuovi contenuti linguistici sottoforma di comandi. Lo studente, per eseguirli, deve ovviamentecomprenderli. All’inizio non ha neppure bisogno di parlare, losi lascia in pace, a godersi il suo “periodo del silenzio” (se pro-vasse a esprimersi con i suoi rudimentalissimi mezzi rischiereb-be, si teme, di frustrarsi - ma: e gli studenti che, a dispetto diinsegnanti pedissequamente ligi al metodo, vorrebbero ugual-mente provarci?). Entriamo in una classe: ecco, l’insegnantevuole presentare il passato prossimo; dice a uno studente“Corri alla finestra e aprila”; l’ordine è compreso/eseguito;allora, a un altro studente “Hai visto? È corso alla finestra e l’haaperta. Ora vai lì anche tu e chiudi la finestra”. La lingua pre-

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sentata di volta in volta è quindi assai semplificata, espressain frasi discrete, ordinata in sequenze grammaticali via via piùcomplesse in modo non dissimile da quello previsto dai silla-bi strutturali. La lezione, per quanto condotta in maniera crea-tiva e giocosa, non deve andare avanti finché tutti non sono ingrado di compiere gli stessi passi. I corpi sono coinvolti, glistudenti non restano appiccicati alle sedie, coi prevedibilibenefici che ne conseguono. I movimenti – fisici e linguistici –però assomigliano piuttosto a delle manovre.

8. Approccio naturale La naturalezza cui si richiama questo approccio vuole sugge-rire che per imparare una lingua straniera è bene fare più o me-no come fanno i bambini con la lingua madre. Di qui il primatodell’esposizione alla lingua, l’enfasi sull’acquisizione sponta-nea, il rinvio della fase del parlato, lo scarso interesse per glierrori, il ruolo secondario dell’apprendimento esplicito dellagrammatica, l’uso in classe di materiali linguistici “graduati”.Queste intuizioni sono sistematizzate, a partire dalla secondametà degli anni Settanta, dagli americani Stephen Krashen eTracy Terrell in cinque “ipotesi” sulla mente che apprende unalingua. 1. L’acquisizione spontanea è una cosa, l’apprendimen-to cosciente è un altro. Studiare le regole della grammatica puòservire a produrre discorsi frutto di queste regole, ma non ser-ve a acquisire la lingua, cioè a usarla in modo spontaneo (ipo-tesi della distinzione acquisizione-apprendimento); 2. le strut-ture grammaticali sono apprese in un ordine prevedibile validoper tutti (ipotesi dell’ordine naturale); 3. c’è un meccanismomentale deputato a controllare/(auto)correggere gli errori, edè bene che entri in funzione con moderazione e quando neces-sario, cioè per es. se non si è presi dalla conversazione (ipote-si del monitor); 4. l’acquisizione – di nuove strutture, di nuovolessico – ha luogo quando si è esposti a input comprensibile(i) contenente però quell’elemento ancora non acquisito (+1),cioè quando si focalizzano significati in larghissima misura com-prensibili, senza concentrarsi sulle forme (ipotesi dell’input);5. le emozioni, gli umori, gli atteggiamenti, le atmosfere che ac-compagnano lo studio possono influire su di esso, in senso po-sitivo o negativo (ipotesi del filtro affettivo). Tutte queste ipote-si sono state ampiamente discusse e, se accolte, solo in formepiù deboli.

9. Approccio comunicativo Negli stessi anni, in Europa, prende forma in maniera articolatal’approccio comunicativo (alcuni nomi di riferimento: Hymes,Wilkins, Brumfit, Morrow, Allwright), assai meno “esotico” e inparte tecnicamente meno codificato rispetto ad alcuni meto-

di/approcci illustrati sopra. Il problema dell’incompetenza co-municativa degli studenti, generata dai metodi di tipo struttu-rale, viene posto con forza al centro dell’attenzione. In una ver-sione iniziale – funzionalista – del comunicativismo, la tenden-za a risolvere il problema sostituendo etichette semantiche aquelle grammaticali, oscura il fatto centrale: gli studenti devo-no misurarsi con una lingua non solo realistica ma fatta ditesti e di discorsi estesi, non di frasi isolate. Solo lavorando sutesti e discorsi si può capire, e imparare, come funziona unsistema linguistico e culturale; solo comprendendo gradual-mente questo funzionamento, e provando ad incorporarlo o aincorporarsi in esso, si può dire di stare imparando a “comu-nicare”. Ecco allora che l’insegnante comunicativo non avràpiù tanti timori a esporre gli studenti a materiali linguisticicomplessi, a mettere in pratica l’idea che solo un tasso signi-ficativo di incomprensibilità fa sì che abbia senso impegnarsiper andare avanti, a affidare agli studenti compiti di analisigrammaticale anziché contare sul proprio repertorio di spie-gazioni (o sulla semplice “acquisizione spontanea”), a toglie-re enfasi al tema dell’errore, a spingere spesso gli studentia provare a esprimersi liberamente.

10. E oltreCon gli anni Ottanta e fino ai giorni nostri il modello comunica-tivo si arricchisce continuamente di ulteriori apporti. Su un pia-no generale acquistano sempre più rilievo le dimensioni cultu-rale e interculturale, ritenute indispensabili per “abitare” dav-vero una lingua straniera. Una analoga propensione verso l’in-troduzione nella didattica di quote sempre maggiori di “realtà”è visibile nei cosiddetti approcci orientati ai compiti (task), inparticolare nel Project Work, in cui si realizza compiutamente ilprincipio secondo cui fare cose nella lingua studiata è il modomigliore per progredire nell’uso e nella conoscenza di quellalingua (vedi la sezione “Attività didattiche” a pag. 21 di que-sto numero per una proposta di Project Work). Un altro esem-pio di allargamento degli orizzonti, sempre in una prospetti-va comunicativa, ma questa volta relativo alla lingua stessa,è dato dall’approccio lessicale, secondo il quale occorre por-tare l’attenzione degli studenti su quei “blocchi” prefabbri-cati di parole – espressioni fisse o semifisse, parole che vannospesso insieme in dati contesti – che costituiscono la verabase di una lingua (pag. 2-11). Una semplice menzione fina-le per una nozione – “complessità” – e un approccio – “eco-logico” – che sembrano destinati a attrarre buona parte delladiscussione teorica nei prossimi anni. Sulla prima ci si soffer-ma brevemente nell’intervista (pag. 14). L’approccio ecologi-co è illustrato nel testo di cui si occupa la recensione (pag. 17).

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do, Carocci, RomaSTEVICK EARL W. (1980), Teaching Languages. A Way

and Ways, Newbury House, Rowley, MA

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2009 Attività didattiche

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Titolo Project Work. Un “manuale” per l’autoapprendimento.

Obiettivo Gli studenti avanzano proposte concrete per imparare da soli una lingua. Riflettono,

si confrontano fra loro e con degli “esperti”, scrivono, riscrivono, fino a produrre un

testo collettivo che raccolga gli esiti della loro esplorazione, e possa magari dare

suggerimenti ad altri studenti, stimolarli a un percorso analogo.

Materiali Due testi, per avviare il lavoro (vedi box, per due esempi).

Livelli B1-C2

Durata Approssimativamente 4-6 ore, in più giorni di lezione.

Svolgimento Fase 1. Presentare la proposta alla classe

Preparare due testi che si prestino a introdurre, anche indirettamente, il progetto (nei

box due esempi, assolutamente non vincolanti: uno, un breve testo, “provocatorio”,

di Krashen; l’altro, scritto da uno studente). Formare coppie di studenti e consegnare

a ciascuna i due testi. Se i testi sono brevi entrambi gli studenti possono leggerli tutti

e due. Se sono più lunghi, uno studente ne legge uno e il suo compagno legge l’altro.

Nei due casi la lettura – e le eventuali riletture – è seguita da uno scambio di impressioni.

Chiedere agli studenti qual è la ragione, secondo loro, per cui sono stati proposti loro

quei testi. Cambiare le coppie e lasciare che discutano un po’ la cosa. Quindi

ascoltare le risposte.

Dire agli studenti che la vostra ragione era introdurre l’obiettivo del “progetto”

che vorreste proporre loro: scrivere una sorta di “manuale” collettivo per

l’autoapprendimento. Servirà, potete spiegare, a chiarirsi le idee su un punto

importante per ogni studente di lingua (come usare al meglio il tempo fra una lezione

e l’altra, e come continuare dopo la fine del corso) e a lasciare un documento

che potrà essere utile agli studenti che verranno dopo di loro. Raccolto, si spera,

l’assenso degli studenti, si può passare alla fase successiva.

Attività didatticheCome rendere gli studenti sempre più autonomi, inventivi,

responsabili, soddisfatti del proprio apprendimento? E come fare

i conti con studenti che dichiarano o lasciano intendere di non volerne

sapere di essere autonomi? Come proporci, noi insegnanti, come

consulenti per percorsi di autoapprendimento senza somministrare

le nostre personali ricette, senza limitarci a “rispettare/rispecchiare”

le opinioni che gli studenti hanno sull’imparare? Un modo possibile

per avviare questo processo è proporre alla classe un progetto:

realizzare una sorta di “manuale” per l’autoapprendimento.

Il Project Work, o “didattica per progetti”, fa leva sulla responsabilità

degli studenti, come singoli e come membri di un gruppo. Crea

perciò l’ambiente di lavoro ideale per un’esperienza, al tempo stesso,

di apprendimento autonomo e sull’apprendimento autonomo,

in cui la lingua bersaglio è costantemente messa in tensione.

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Attività didattiche 2009B

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Svolgimento Fase 2. Organizzare il lavoro

Proporre alla classe un modello di svolgimento del lavoro (per es. quello descritto

nella fase 3). Discutere il modello con gli studenti, eventualmente accogliere modifiche

(modificare conseguentemente la fase 3).

Dividere la classe in gruppi di lavoro (coppie se la classe è poco numerosa; altrimenti

gruppetti di 3-4). Come? A sorte.

Fase 3. Svolgere il lavoro

Per cominciare: scrivere un testo autobiografico

Gli studenti scrivono un testo di riscaldamento, che cioè cominci a far riflettere sui

modi personali di imparare. Si danno alcuni spunti, almeno un paio. Per es.: “Come

ho imparato una lingua straniera”, “Come ho imparato a fare una cosa che mi

piace fare”. In ogni gruppo ci devono essere almeno un testo scritto a partire dal

primo spunto e uno scritto a partire dal secondo.

Terminata la scrittura, gli studenti leggono insieme i vari testi.

Seguono una o due revisioni dei testi (per es. con gruppi di 4: prima revisione in

coppia, a e c, b e d; seconda revisione in coppia, a e c, b e d).

I testi sono quindi copiati e archiviati.

Interviste agli “esperti”

I gruppi preparano delle domande da sottoporre a un insegnante, per definizione

“esperto” in materia di autoapprendimento. L’intervista dovrebbe mirare a

scoprire che cosa consiglia normalmente di fare ai suoi studenti e che cosa fa o ha

fatto personalmente per progredire da solo in una lingua.

Quando le domande sono pronte, chiedere agli studenti di dedicare un po’ di

tempo a curarne la forma.

Per l’insegnante si tratta ora (ma meglio averlo già fatto) di prendere contatti con

alcuni insegnanti disposti a fare da “esperti” e essere intervistati. (L’insegnante

che coordina il progetto può rilasciare un’intervista a uno dei gruppi).

I gruppi fanno le interviste. Materialmente, uno studente pone le domande, gli

altri prendono nota delle risposte. Registrare però sarebbe l’ideale. In questo

caso, non c’è nessuna nota da prendere. Uno studente fa le domande, l’insegnante

risponde, gli altri studenti ascoltano e, se vogliono, interloquiscono per avere

chiarimenti o far sviluppare meglio certi punti.

I gruppi riascoltano l’intervista se è stata registrata o leggono gli appunti.

Si copiano e archiviano i passaggi-chiave, virgolettati o riformulati.

Realizzazione del “manuale”

I gruppi riuniti decidono il formato e il supporto del “manuale” per

l’autoapprendimento che stanno finalmente per accingersi a completare. Potrebbe

essere un semplice libretto fatto di pagine A4 scritte a mano o al computer, una

serie di cartelloni, una pagina web, ci potrebbero essere delle foto, dei video…

Ogni studente, nei vari gruppi, scrive un testo in cui descrive la propria “visione”

dell’autoapprendimento linguistico. Alcuni elementi non dovrebbero mancare,

e sarebbe bene specificarli: un’esperienza e una prospettiva personali, il racconto

preciso e concreto di quello che si è fatto, si fa e ci si ripromette di fare per imparare

da soli un’altra lingua, l’eco che hanno lasciato le riflessioni e le esperienze dei

compagni coi quali si è dialogato.

Una o due revisione dei testi.

Questi testi, insieme a quelli autobiografici scritti all’inizio e alla sintesi

dell’intervista con l’“esperto”, vanno a comporre il materiale da inserire nel

formato/supporto scelto.

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Svolgimento Realizzazione materiale dei vari capitoli del “manuale”.

Potrebbe essere divertente e interessante (e potrebbe invogliare e impegnare di

più gli studenti durante tutto il lavoro) organizzare una presentazione del “manuale”

agli altri studenti della scuola. Una specie di “convegno”. Se tutti sono d’accordo,

direzione compresa, bisogna decidere come procedere: si può fare in una

discussione plenaria, che sarà anche un modo non rituale per rivedere tutti

insieme il lavoro realizzato.

Fase 4. Presentare il progetto

Svolgimento del “convegno”, presentazione dei capitoli del “manuale”, “dibattito” e

eventuale sperimentazione delle proposte.

Nota L’insegnante ha un duplice ruolo nello svolgimento del progetto. Da un lato

suggerisce programma, tempi di lavoro, e fa in modo che siano rispettati. Dall’altro

agisce come consulente: ascolta le proposte e le fantasie di autoapprendimento degli

studenti, ne interpreta gli eventuali aspetti evasivi o fossilizzati, fornisce

informazioni, accompagna in una fase di revisione o integrazione. Inutile sottolineare

che anche l’insegnante, dialogando con gli studenti e leggendo il loro “manuale”,

può fare delle scoperte interessanti sull’autoapprendimento.

E

F

TESTO 1

Gli studenti adulti insistono a volere che si correggano tutti i loro errori, molti avvertono che lostudio della grammatica è molto importante e che si impara a parlare un’altra lingua parlandola. Certo è difficile per gli insegnanti resistere a questa pressione, specialmente quando fare attivitàcomunicative è talvolta percepito come non professionale, come un segno di ignoranza dellagrammatica. Bisogna tuttavia rendersi conto che è nostra responsabilità professionale insegnaresecondo le proprie convinzioni riguardo a come si impara una lingua. Gli ingegneri non tengono conto della pubblica opinione quando si tratta di costruire un ponte,e i chirurghi si guardano bene dal permettere alla gente di dire loro come operare.Una soluzione, sia a breve sia a medio termine, di questo problema è informare gli studenti sucome si impara una lingua. Questo giustificherà la metodologia e fornirà loro gli strumenti percontinuare a migliorarsi dopo la fine del corso.

Stephen Krashen, Why support a delayed-gratification approach to language education?

“The Language Teacher”, 28(7), 3-7 (2004).

TESTO 2

Questo è il modo in cui a uno studente piace continuare a lavorare sulla lingua per conto suo:

Il pomeriggio esco con il dizionario e una matita. Vado in un giardino, mi metto a sedere, apro il dizionario e comincio a studiare le parole. Vado a cercare le parole che potrebbero essermi utili in una certa occasione, o semplicementequelle parole che in quel momento mi viene voglia di sapere. Sottolineo tutte le parole che leggo e che provo a imparare. Leggo le nuove parole e le ripeto a voce alta molte volte. Ora il mio dizionario è pieno di parole sottolineate. Ma ne restano ancora tantissime da sottolineare.

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2009Quando gli studenti “sbagliano”: l’errore

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G abriele Pallotti è professore associato

di Didattica delle lingue moderne

presso la facoltà di Scienze della formazione

dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

È stato coordinatore e responsabile di

numerosi progetti di ricerca e

sperimentazione didattica per enti locali

e nazionali. Svolge attività di ricerca

e formazione sulla linguistica applicata,

l’acquisizione della seconda lingua,

l’analisi conversazionale, la didattica

della scrittura. Ha presentato i suoi lavori

a congressi nazionali e internazionali

ed è stato invitato a tenere lezioni

in diversi paesi europei ed extraeuropei.

Ha pubblicato articoli e saggi

sull’apprendimento delle lingue, la

didattica della scrittura e la semiotica.

Tra le sue pubblicazioni, La seconda lingua (Bompiani), Scrivere per comunicare (Bompiani),

Studiare all’università (Sansoni, con C. Cacciari), Imparare e insegnare l’italiano come seconda

lingua (Bonacci).

Intervista a Gabriele PallottiVorremmo soffermarci in questa breve conversazione sulla

natura dell’errore. L’atteggiamento che come insegnanti

abbiamo verso gli errori degli studenti

sembra dipendere molto dalla nostra idea

di che cos’è un errore. In La seconda

lingua lei scrive che “molti di quelli che

dal punto di vista della lingua di arrivo

possono essere caratterizzati

negativamente come errori, deviazioni

o mancanze, dal punto di vista

dell’apprendente sono manifestazioni

di regole di un sistema interlinguistico

transitorio”. Si potrebbe cominciare

illustrando questa differenza.

Quando cerchiamo di parlare una secondalingua, noi non vogliamo mai fare errori,siamo sempre in totale buona fede.Quello che produciamo è l’inglese, ilfrancese o l’italiano “secondo noi”, cioèsecondo quelle che per noi sono le regoledi tali lingue. Talvolta le “nostre” regolenon corrispondono in tutto o in partealle regole della L2, ed ecco che i suoiparlanti nativi percepiscono degli errori.Ma dal nostro punto di vista, si tratta diregole. E non solo dal nostro punto divista: anche un osservatore esterno,come un linguista o un insegnante, può

notare che le nostre produzioni sono sistematiche.Un’apprendente cinese studiata nel Progetto di Pavia

(sull’acquisizione dell’italiano L2; iprincipali risultati in Verso l’italiano, a c.di A. Giacalone Ramat, Carocci, 2003,ndr) una volta disse: “in italiano ilpassato è facile, sempre -to”. Ecco,quella era la sua regola per il passato,che l’avrà portata a dire cose come iomangiato, io guardato o anche io andato

o noi arrivato. Tutte queste frasicontengono “errori”, nel senso di nonessere conformi alla regola italiana diformazione del passato prossimo. Peròpresentano anche una regolarità, cioè“passato = tema verbale + -to”. È ugualmente vero dire che una frasecome noi arrivato contiene degli errorioppure segue delle regole. Però si trattadi due diversi punti di vista: uno vedel’interlingua come un sistema che deveessere descritto solo con riferimento aun’altra lingua, l’altro come un sistemalinguistico con la sua logica interna. Io credo che il secondo punto di vista siapiù produttivo, perché ci fa capire megliocosa fanno i nostri studenti, cosa passaper la loro testa, e quindi come possiamoaiutarli meglio.

Imparare a descrivere

le interlingue ècome imparare

a descrivere linguesconosciute

di altri popoli:impegnativo,

ma estremamenteaffascinante.

È un processo discoperta, richiede

intelligenza, spiritodi osservazione,empatia e tanta

esperienza

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2009 Intervista a Gabriele Pallotti

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Se gli errori sono finestre sulla mente dello studente che

impara, all’insegnante basta affacciarsi per vedere che

succede o occorre un certo addestramento, diciamo così,

per capirci qualcosa? Altrimenti, sembrerebbe, ogni

insegnante finisce per vedere ciò che è abituato a vedere.

Come aiutarsi a vedere “meglio”? E ancora, di quali processi

specifici nella mente dell’apprendente gli

errori possono essere una spia?

In effetti passare da una prospettivaall’altra richiede un po’ di allenamento.L’errore balza agli occhi di tutti,qualunque parlante nativo è in grado digiudicare che in quella frase c’è unerrore. Non serve alcuna professionalitàper indicare gli errori in un testo. Invece,la ricostruzione delle logiche sottostantirichiede buone competenze di linguisticadescrittiva, tipologica e acquisizionale.Uno dovrebbe essere almeno consapevoledi come possono funzionare linguemolto diverse, non tanto per scoprireeventuali transfer dalla L1, ma per poterimmaginare quali regole potrebberoessere seguite nell’interlingua del nostrostudente. Il suo sistema interlinguistico potrebbeavere regole che si rifanno a concetti come animatezza,determinatezza, modalità, azione, aspettualità, che disolito non appaiono nelle grammatiche tradizionali eche quindi molti insegnanti non conoscono. Imparare adescrivere le interlingue è come imparare a descriverelingue sconosciute di altri popoli: impegnativo, maestremamente affascinante. È un processo di scoperta, richiede intelligenza, spirito diosservazione, empatia e tanta esperienza.Si tratta di mettersi nei panni di chiapprende e cercare di ricostruire le suelogiche, come lui o lei vede l’italiano,come lo sta interpretando e ricostruendo.È un grande sforzo di avvicinamento e decentramento, mentre l’ottica dell’in-dividuare gli errori è piuttosto egocen-trica: “io faccio così, tu fai diversamente,non mi interessa capire realmente cosafai e perché lo fai”. Alcuni errori possonoindicare la volontà di trovare semplicitàe regolarità dove, purtroppo, in italianonon ci sono: si tratta di sovraregolariz-zazioni come loro leggiono, che cercadi uniformare il paradigma di leggere,che invece ha due diverse basi, legg- elegg-. Altri errori indicano il tentativodi costruire forme complesse perindicare certi aspetti verbali, come io era legge per direio leggevo. Con l’esperienza si iniziano a capire questestrategie e si riesce pertanto a capire cosa sta sotto glierrori.

In che senso il detto “sbagliando si impara” ha, se lo ha,

un fondamento linguistico acquisizionale?

Il fondamento ce l’ha certamente, e si trova in alcuni principibasilari della psicologia dell’apprendimento. Ricostruire il sistema di una lingua significa fare ipotesi su comeessa funziona. Alcune di queste ipotesi saranno sbagliatee il renderci conto di ciò ci porterà a mettere meglio apunto la nostra rappresentazione della L2. Certo, si

potrebbe temere che la produzione dierrori dia luogo a cattive abitudini, chepoi si radicano e non cambiano più.Questa idea era comune nella psicologiacomportamentista, che aveva infattisviluppato il metodo audiolinguistico nelquale gli studenti svolgevano esercizimeccanici e ripetitivi, così semplici eguidati da rendere quasi nulla lapossibilità di sbagliare. Tuttavia, oggisappiamo che questa non è la migliorestrada per insegnare una lingua: inprimo luogo, per gli effetti deleteri sullamotivazione; in secondo luogo, perchénon promuove un atteggiamento attivodi ricerca delle regole. Chi apprendedeve essere un formulatore instancabiledi ipotesi, deve ragionare sulla L2, esserecome un curioso esploratore all’interno

della sua complessità. È chiaro che, come tutti gli esploratori,ogni tanto prenderà un sentiero sbagliato. Pazienza, poitornerà a cercare meglio. Il ruolo dell’insegnante èimportante a questo proposito. La correzione degli erroriinfatti non è da demonizzare, ma neanche da assolutizzare.Se essa è vista come un aiuto a trovare la strada, non c’ènulla di male: se in una città sconosciuta qualcuno ci diceche siamo nella direzione sbagliata per andare al Duomo,

non ci offendiamo né ci sentiamo punitie frustrati, ma lo ringraziamo. Perònell’apprendere una lingua si esploranotante strade allo stesso tempo e nonpossiamo sentirci dire che sono tuttesbagliate: il feedback correttivo sarà utilesu una o due strutture alla volta, o sudiverse allo stesso tempo, ma ciò solo neilivelli più avanzati. Altrimenti, i nostricontinui “no, non si fa così” rischiano digenerare confusione e, in effetti, anchefrustrazione.

Errori “più o meno gravi”, “blu e rossi”:

un modo di esprimersi che proviene da

una visione “punitiva” dell’errore. Come

analizzare e classificare gli errori in una

visione, diciamo così, più obiettiva?

Intanto, non chiamerei gli errori “gravi” o“lievi”, come se fossero peccati. È più corretto dire che cisono errori che denotano un certo stato di avanzamentodell’interlingua, più basilare, e altri che sono tipici di fasipiù avanzate. Prendiamo queste frasi: 1. Lunedì arriva in

Italia 2. Lunedì arrivato in Italia 3. Lunedì abbiamo arrivato

in Italia 4. Lunedì siamo arrivato in Italia 5. Lunedì

abbiamo arrivati in Italia 6. Lunedì siamo arrivati in Italia.

Chi apprende deve essere

un formulatoreinstancabile

di ipotesi, deveragionare sulla L2,

essere come uncurioso esploratore

all’interno della suacomplessità

È importanterendere consapevoli

gli studenti dellenostre strategie dicorrezione, di cosa

sia un errore, della distinzione traun errore linguistico

e un’infelicità o inadeguatezzacomunicativa

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Intervista a Gabriele Pallotti 2009Q

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Tranne la 6., sono tutte frasi sbagliate, nel senso checontengono errori. Eppure è chiaro che 1. indica unostadio in cui non ci si è nemmeno resi conto che il verbosi flette per esprimere il passato, 2. mostra un’embrionaleconsapevolezza del tipo “passato sempre-to”, 3. rivela la scoperta che -to non basta,ma serve anche un ausiliare, 4. ci fa vedereche l’apprendente ha anche capito chein italiano esistono due ausiliari per ilpassato prossimo, in 5., pur sbagliandol’ausiliare, si dimostra di essersi resi contoche alcuni participi passati si accordanoper genere e numero con il soggetto.Non è questione di penna rossa o blu, madi capire che l’allievo sta concentrandol’attenzione su aspetti diversi dellacostruzione complessa “passato prossimo”e di questo dobbiamo tenere conto persvolgere interventi didattici mirati, utilied efficaci.

Il Quadro Comune Europeo invita a farsi

un’idea della competenza linguistica e

dei progressi di chi studia una lingua sulla

base delle sue “riuscite”, di ciò che è in

grado di fare usandola. Nella pratica,

tuttavia, la valutazione spesso si basa ancora sugli

“errori”. Qual è la sua posizione al riguardo?

Il QCE tiene chiaramente distinte due dimensioni dellacompetenza: una è la competenza comunicativa, lacapacità di compiere azioni in modo efficace usando illinguaggio; l’altra è la competenza linguistica, laconoscenza di determinate strutture della L2. La maggiorparte dei sillabi oggi sono organizzati attorno a questidue grandi assi, che certamente interagiscono in varimodi, ma che è bene tenere analiticamente separati infase di programmazione e valutazione. Insomma, nellavalutazione dovremo tenere ben distinta la capacità di“funzionare” adeguatamente sul piano comunicativo daquella di seguire le regole. Così sarà diverso il feedback

che daremo agli allievi: in certi casi diremo “sì, ti capisco,ma la frase così come l’hai costruita non è corretta”, inaltri casi dovremo dire “hai seguito le regole dell’italiano,ma non ho capito cosa volevi dire”.

Se l’errore è interpretabile, per riprendere

la sua definizione, come la manifestazione

di una regola, sembrano derivarne

conseguenze non da poco sulla pratica

didattica. Quali sono a suo avviso le più

importanti?

Ho già menzionato diverse conseguenzedidattiche che derivano da una certaconcezione dell’errore. Più in generale,direi che è importante rendere consapevoligli studenti delle nostre strategie dicorrezione, di cosa sia un errore, delladistinzione tra un errore linguistico eun’infelicità o inadeguatezza comunicativa.Questo riesce molto bene con adolescentie adulti, ma è un discorso che si puòfare, nei modi opportuni, anche con ibambini. Discutere degli errori, di cosasono, come si formano, perché li facciamo,è un argomento interessante e importante,

uno dei pochi ambiti in cui in una classe di lingua sicomunica realmente e non si fa solo finta. Tutti gli studentisono molto interessati a capire meglio le dinamiche diapprendimento e questa consapevolezza li rende piùautonomi, più motivati, più in controllo del loro percorsoevolutivo. Insomma, dovremmo evitare che l’insegnantesia una specie di oracolo, detentore del misteriosocontrollo dell’errore, che corregge senza spiegare esenza discutere. L’insegnante dovrebbe invececoinvolgere attivamente gli studenti nel processo diinsegnamento, nel fissare gli obiettivi e nel valutare irisultati. Tutta la glottodidattica moderna e anche lepolitiche linguistiche europee vanno in questadirezione e credo che valga la pena impegnarsi perseguire queste indicazioni.

Tutti gli studentisono molto

interessati a capiremeglio le dinamichedi apprendimento

e questaconsapevolezza

li rende piùautonomi,

più motivati, più in controllo del loropercorso evolutivo

Gabriele Pallotti, Imparare e

insegnare l’italiano come seconda

lingua, 2005, Bonacci

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2009 Recensione - Pedagogia, epistemologia e didattica dell’errore

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Recensione del libro“Pedagogia, epistemologia e didattica dell’errore”, a cura di Luigino Binanti

U na lunga tradizione, a partire da Agostino epassando per Cartesio, equipara l’errore al

male: si erra per cattiva volontà o sotto l’influsso dipassioni, allontanandosi dal vero e dal giusto che al-trimenti si imporrebbero direttamente alla ragione.L’errore è una sorta di peccato di presunzione ouna deviazione viscerale e cieca dall’ordine divinoo razionale. Errore: vagabondare senza criterio (ignorare i giustifini). Sbaglio: abbaglio (non saper vedere la realtà).

U n modo diverso di pensare l’errore si affacciaquando, col filosofo inglese Bacone, fondato-

re della moderna metodologia della ricerca, l’errorenon è più inteso come un corpo estraneo alla ragio-ne ma come un elemento ineliminabile del processoconoscitivo. La conoscenza è un’impresa che avanzain mezzo all’incertezza, attraverso gli errori – ancoraconnotati negativamente, come “idoli”, illusioni – eil loro superamento.

O ccorre tuttavia aspettare la metà del secoloscorso perché una visione “positiva” dell’er-

rore si imponga nella riflessione epistemologica estorica sulle scienze per poi, con qualche decenniodi ritardo, investire la pedagogia e la didattica. È que-sta la tesi ispiratrice del volume Pedagogia, episte-

mologia e didattica dell’errore, che raccoglie ventibrani di filosofi, scienziati e pedagogisti, tutte vocinote e autorevoli, alcuni ormai dei classici, comePopper, Bachelard, Montessori. Il curatore, LuiginoBinanti, pedagogista, ha dedicato a questi temi ancheun altro libro dal titolo significativo, Sbagliando s’im-

para. Una rivalutazione dell’errore (Armando, 2005).

C he cosa significa visione “positiva” dell’errore?Per larga parte dell’epistemologia novecen-

tesca “non esiste una via metodologica che ci con-

senta di evitare l’errore. La soluzione dei problemi

scientifici può essere raggiunta soltanto tramite l’im-

maginazione e percorrendo il sentiero delle conget-

ture e delle confutazioni” (8). L’errore non solo è ine-liminabile dal processo della ricerca, ma è anche ciòche propriamente consente, attraverso le sue con-futazioni, il progresso della ricerca. Non è insommaun fallimento ma una riuscita: “La storia ci presenta

una serie di successi dei quali ciascuno supera ed

eclissa il precedente” (47). Anche la storia della scien-za ha infatti ormai imparato a vedere legami pro-duttivi fra le ipotesi più audaci, fantasiose, metafi-siche (irrise e respinte per lungo tempo come “erro-ri”) e lo sviluppo delle scienze moderne. Questa vi-sione della crescita della conoscenza, praticata giàda secoli dagli scienziati, in cui l’errore è “un fatto

positivo, normale e utile” (Bachelard), e infine rico-nosciuta dai filosofi e storici della scienza, è ormaisedimentata in veri e propri luoghi comuni: si impa-ra dagli errori, non si possono evitare gli errori, chifa pochi errori fa anche poche scoperte.

L a scuola non poteva non interrogarsi a sua voltasulla concezione dell’errore che dominava nelle

aule. A partire dagli anni Sessanta comincia infatti asvilupparsi, in ambito statunitense e in parte euro-peo, un movimento di profonda revisione critica deisistemi educativi. È del 1969 un libro di Postman si-gnificativamente intitolato Teaching as a Subversive

Activity. Le tesi di questo autore forse non suonanopiù, adesso, così sovversive: “È sorprendente vede-

re come gli studenti possano perdere una parte della

loro paura di sbagliare, profondamente radicata in

loro, quando si trovano con un insegnante che non

chiede loro di essere nel giusto, ma soltanto di unir-

si a lui nella ricerca dell’errore: del suo come del

proprio” (136).

I l “metodo dell’indagine”, ripreso dalla praticascientifica, è, purché applicato con serietà, il

modello di riferimento che attraversa tutti i con-tributi dedicati all’errore in campo pedagogico.“La definizione più semplice del metodo dell’in-

dagine è quella di processo dell’apprendimento

in cui lo studente assume un onere pesante nel

risolvere problemi intellettuali. Ciò richiede che

gli studenti imparino a porre domande, a racco-

gliere dati, a formulare generalizzazioni di natu-

ra non superficiale ” (137).

A ll’interno di questo processo di progressivescoperte, l’errore “perde quindi la sua fisiono-

mia di ‘risposta sbagliata’, risposta incomprensibi-

le, oscura, perché data alla cieca. La presenza del-

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Recensione - Pedagogia, epistemologia e didattica dell’errore 2009Q

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l’errore diventa invece l’indicatore di vie di risolu-

zione diverse e più adeguate. Infatti, se la risposta

erronea, in quanto frutto di riflessione creativa, è cri-

teriata, allora è grazie ad essa che si possono esa-

minare modalità di soluzione e ipotesi di risoluzione

più efficaci e significative” (Mollo, 158).

L a didattica che prende forma in una prospetti-va simile è basata sui problemi anziché sugli

esercizi, sul promuovere negli studenti un “atteg-

giamento riflessivo e inventivo”, sull’adozione daparte degli insegnanti di un atteggiamento falli-bilista: “Il problema esige una scoperta da farsi;

l’esercizio si esegue perché una scoperta è già stata

fatta” (Antiseri, 10); “Se infatti si procede in manie-

ra trasmissiva, prendendo un insieme di idee già or-

ganizzate, frammentando il tutto in tante sequenze

da far apprendere, allora l’errore assume la conno-

tazione di una non adeguazione al sistema presen-

tato e pertanto viene considerato come uno ‘sba-

glio’ e basta” (Mollo, 165); “L’atteggiamento giu-

stificazionista porta gli insegnanti a giustificare,

provare, difendere, insistere su quanto essi credono,

giacché l’essere ‘corretto’ è qualcosa di più d’un im-

perativo intellettuale: è un imperativo psicologico.

L’essere corretti, ci è stato insegnato, è il modo mi-

gliore di evitare l’umiliazione ed altre forme di pu-

nizione […]. Il fallibilista muove dalla premessa che

tutti gli esseri umani sono fallibili, specie nelle loro

idee […] cerca[no] non di giustificare le proprie opi-

nioni bensì di sottoporle a indagine nella certezza

che esse contengano errori e nella speranza di elimi-

narne qualcuno” (Postman, 136).

S pesso l’insegnante esita nel lanciare gli stu-denti alla ricerca di proprie risposte perché ha

un rapporto pre-scientifico, si potrebbe dire, con laconoscenza: “Credendo nel mito della verità, gli

insegnanti ritengono che il loro compito consista

nell’illuminare gli allievi e nell’impedir loro di com-

mettere errori” (Baldini, 124); oppure perché è fre-nato dal timore che gli studenti si perdano in un pro-cesso autonomo di scoperta: “Ma l’approccio critico

non può determinare apprensione nelle persone?

I giovani in specie non hanno bisogno di una certa

somma di sicurezza, di un minimo di sapere sicuro e

di idee sicure con cui tenere insieme il loro mondo?

L’approccio critico non può spaventarli e renderli

scettici? È ovvio che tutti abbiamo il dovere di non

suscitare apprensione nei giovani, ma sarebbe sba-

gliato cercare di infondere loro sicurezza mediante

conoscenze e idee, dal momento che conoscenze e

idee sono fallibili, far questo potrebbe essere causa

in loro di future delusioni e ansie. Inoltre credo che

sia comunque un errore cercare di dare sicurezza

agli altri ” (Perkinson, 149). “Solo liberando gli alun-

ni dal bisogno di certezze, essi potranno concentrar-

si sul miglioramento del sapere attraverso la critica”(Binanti, 27).

L’ idea che l’errore, nei campi più diversi, sia ilsintomo di un’evoluzione è tutto sommato ab-

bastanza recente, e non è certo che sia stata del tuttometabolizzata. Questa idea porta infatti con sé tuttauna serie di conseguenze, alcune delle quali il volu-me di Binanti ci aiuta a riconsiderare, a ridiscutere.Una fra queste, forse non priva di interesse per l’in-segnante di lingua, è che sia preferibile un sistema(una classe) dove si segnalino frequenti errori: ciòsarebbe indice di un sistema aperto e vitale, chesopporta meglio l’incertezza inevitabile e favoriscel’evoluzione di nuovi ordini.

Pedagogia, epistemologia

e didattica dell’errore, a cura di Luigino Binanti, 2001,Rubbettino

Sbagliando s’impara.

Una rivalutazione dell’errore, a cura di Luigino Binanti, 2005,Armando

Dello stesso autore:

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Il feedback nell’interazione in classeSe si confrontano le strutture interazionali tipiche del con-testo didattico con quelle del contesto extrascolastico piùcomune, ovvero la conversazione tra pari, si noteranno fa-cilmente alcune significative differenze. L’esempio che se-gue, fittizio ma prototipicamente verosimile, aiuta a visua-lizzarne alcune:

a) Tra amici: 1 � (Gianni) (scusa) sai che ore sono? 2� Le dieci.1 � Grazie.2� Prego.

b) In classe:1 � John, che ore sono? 2� Le dieci.3� Le dieci, esatto!

La differenza più macroscopicamente evidente qui consistenel fatto che l’interazione tra pari è strutturata su serie dicoppie adiacenti (il detto popolare “botta e risposta” ne èsintesi calzante), mentre lo scambio prototipico del conte-sto scolastico [1] è chiuso da un “terzo turno” di feedback [2]

da parte dell’insegnante, tipicamente assente nell’intera-zione tra pari.Appare quindi evidente che l’elemento più immediatamen-te distintivo dell’interazione per l’apprendimento attuatain classe è la sistematica presenza di un feedback, intesocome informazioni attorno alla (non) accettabilità di unaproduzione linguistica dello studente (detta output): essoè caratteristico, per la sua ricorrenza sistematica, del soloambiente di apprendimento formale, la classe. Ciò detto, l’importanza di guardare al feedback per inda-gare l’efficacia del contesto di apprendimento formale (laclasse di L2) ai fini dell’acquisizione delle lingue risulta par-ticolarmente evidente; non è dunque per caso che tanta par-te degli studi interazionisti si occupi di discutere l’impor-tanza del feedback per l’apprendimento. Nell’ambiente linguistico che circonda l’apprendente vi sonosia evidenze o prove positive che evidenze o prove negati-ve (Long, 1996); con le prime si intendono esempi di linguaben formata, grammaticale, accettabile, mentre con il secon-do termine ci si riferisce alle informazioni, esplicite o impli-cite, su ciò che è invece agrammaticale, inaccettabile nellalingua obiettivo.

Se, in generale, non vi sono dubbi sul fatto che l’apprendi-mento necessiti di evidenze positive (che possiamo chiama-re anche input), più controverso è il ruolo assegnato all’evi-denza negativa (che chiameremo feedback) [3]. Vi è infatti undibattito, tuttora in corso, relativo al ruolo del feedback;tale dibattito si sostanzia in due punti: la necessità o menodi fornire evidenza negativa per ottenere apprendimento, ela modalità migliore per fornirla. Qui di seguito confronteremo, basandoci sugli attuali risul-tati delle ricerche interazioniste sul tema, alcune tipologiedi feedback; nel farlo considereremo unicamente la compo-nente correttiva, ignorandone il pur imprescindibile, nonchépsicoaffettivamente rilevante, versante valutativo. Parimenti,non discuteremo l’opportunità, raccomandata da ben notiapprocci, di evitare la correzione. Seguiremo piuttosto le trac-ce del filone interazionista, che ritiene di avere dimostratoi vantaggi della presenza di feedback sull’assenza dello stes-so e si è pertanto da tempo concentrato sulla seconda que-stione: qual è il feedback migliore?

Realizzazioni del feedback: i grandi favoritiTra i molteplici feedback possibili, solo alcuni vengono inda-gati con particolare attenzione: si tratta di quelli che costi-tuiscono espressione concreta – e pertanto strumento didifesa e propugnazione – di approcci teorici diversi. I tipi di feedback che risultano i più “gettonati” nelle prefe-renze degli studiosi sono essenzialmente tre, e sono varia-mente difesi, attraverso confronti sperimentali molto circo-stanziati. La classificazione che segue ne riporta la dicitura,l’esemplificazione e il rimando teorico più vicino a ciascuno.

I principali tipi di feedback

Reazioni alla produzione “Ieri ho arrivato tardi”:

1) la sollecitazione o prompt (Lyster, 2004), più o meno foca-lizzata sull’elemento errato:

Come scusa? (vago) // Hai detto HO? (focalizzato)(Ipotesi dell’output, Swain, 1985)

2) la riformulazione o recast (Long, 2007), più o meno enfa-tizzato:

Ieri sei arrivato tardi (non enfatizzato). // Ieri SONO/ SEI

arrivato tardi (enfatizzato). (Teoria del contrasto, Saxton, 1997; Ipotesi dell’intera-zione, Long, 1996)

Correggere il parlato: tipi di feedback

di Roberta Grassi

Una panoramica delle varietà principali di feedback nei riguardi del parlato degli studenti,

e un’occasione per riflettere sulle proprie modalità di correzione e la loro dipendenza

da convinzioni profonde sulla natura dell’apprendimento e dell’insegnamento. Roberta Grassi

è ricercatrice in Glottodidattica presso l’Università degli Studi di Bergamo, dove insegna Didattica

delle Lingue Straniere Moderne. È formatrice nell’ambito di Corsi e Seminari di Aggiornamento

per insegnanti di Italiano L2 e per insegnanti di classi plurilingui nella scuola dell’obbligo.

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Articolo 2009

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3) L’informazione metalinguistica (Ellis et al., 2006), più omeno precisa e più o meno “tecnica”:

Devi cambiare qualcosa in questa frase (generale). //“Ho” non va bene (focalizzata ma non tecnica). // L’ausi-

liare non è “avere” (focalizzata e tecnica).(Proceduralizzabilità della conoscenza esplicita, DeKeyser,2003).

Vediamo ora ciascuna di queste tipologie di feedback. Il prompt o sollecitazione (punto 1), consiste nella solleci-tazione ad un’autocorrezione da parte dell’apprendente (odi un suo pari, o del gruppo intero). Esso può attuarsi indiversi modi: verbalmente, attraverso la gestualità e/o leespressioni facciali, o variamente combinando le suddettecomponenti.Il tratto della sollecitazione considerato più rilevante dallaletteratura riguarda il coinvolgimento degli apprendenti nellacorrezione dell’errore. Proprio questo creerebbe ulteriori op-portunità di acquisizione di strutture della L2. Nello speci-fico, solo grazie alla pratica, ovvero alla possibilità per gliapprendenti di produrre lingua, si avrebbero miglioramentisignificativi a livello morfosintattico. Il richiamo è all’ipotesiteorica detta dell’output (Swain, 1985), il cui presupposto èche spesso gli apprendenti sono in grado di comprendereil significato di un input senza però cogliere la morfosintas-si su cui questo si basa; sarebbe piuttosto la produzione adavere il ruolo cruciale nello sviluppo della sintassi e dellamorfologia. In base a tale visione teorica, pertanto, la rea-zione “migliore” sarebbe quella di spingere l’apprendente adautocorreggersi e così a produrre altro output, per giunta più(probabilmente) corretto.D’altra parte, il prompt presenta anche svantaggi pratici,oltre a venire criticato da altre impostazioni teoriche. Dalpunto di vista pratico, critica è la lunghezza delle sequen-ze di correzione innescabili dal prompt: la produzione chesegue la correzione può essere nuovamente scorretta, osuscitare ulteriori domande di precisazione, rendendo ne-cessarie spiegazioni ed approfondimenti. Per tali motivi, siè notato che il ricorso al prompt è più comunemente utiliz-zato quando l’errore coinvolga aspetti linguistici sui qualil’insegnante ritiene opportuno soffermarsi immediatamen-te, mentre è disfavorito quando il fuoco dell’attività sia al-tro o, banalmente, sia necessario proseguire rapidamente.In tali casi, la preferenza va ad una correzione più implicitae risolutiva, che prende il nome di recast o riformulazione(punto 2).I punti forti della riformulazione, secondo i suoi difensori(Long, 2007), sarebbero legati al fatto che tale correzionenon interrompe il flusso comunicativo – e quindi non di-strae, ma neppure inibisce né tantomeno confonde gli stu-denti con spiegazioni metalinguistiche –, mentre veicola leinformazioni di cui si ha bisogno immediatamente, quandol’attenzione e la motivazione dell’apprendente sono proba-bilmente attive e faciliteranno il noticing (Schmidt, 1990),ovvero il processo attraverso il quale si “nota” una formae/o lo scarto esistente tra la forma prodotta e quella, adia-cente, (ri)formulata dall’insegnante. È infatti, secondo i di-fensori del recast, (più) probabile che un commento dell’in-segnante sia notato e “registrato” come evidenza negativaper il solo fatto di essere adiacente alla produzione scor-

retta, con cui contrasta (il richiamo qui è alla Teoria del Con-trasto di Saxton, 1997).Oltre al fatto che l’apprendente, ricevendo una correzionerisolutiva, non è sollecitato (come vorrebbero i difensori delprompt) a elaborare lingua o a riflettere su come riparare ilsuo errore, tra i “difetti” del recast vi sarebbe tuttavia l’am-biguità derivante dalla sua implicitezza. Studi sperimentalidimostrano infatti che l’intenzione correttiva del recast puòeffettivamente sfuggire all’apprendente, in modo particola-re su errori a livello morfologico.Un fattore determinante nel disambiguare gli scopi del recast

è però dato dal contesto e dall’attività didattica in corso,nonché dalla sua (bassa) frequenza, mentre alcuni accorgi-menti potrebbero aumentarne la riconoscibilità: l’enfasi sul-l’elemento corretto e/o la riformulazione parziale, ovvero delsolo elemento da riparare. È pur vero però che la correzio-ne implicita di una produzione che contenga più di un erro-re, ancor più se a livelli diversi, è particolarmente a rischiodi passare, almeno parzialmente, inosservata [4].Proprio quest’implicitezza, che Long porta a vanto della ri-formulazione, è l’elemento più criticato dai difensori (cfr. Elliset al., 2006) della correzione metalinguistica esplicita, l’ul-timo tipo di feedback che illustreremo qui (punto 3). Il “feedback metalinguistico” è costituito da un’informazio-ne che indica all’apprendente la natura dell’errore. Tale in-formazione può essere usata come un prompt esplicito, adaiutare cioè un’autocorrezione dello studente (devi usare

l’ausiliare ‘essere’ qui), o viceversa corredare un recast (arri-

vare è verbo di movimento, perciò si dice ‘sono arrivato’).In entrambi i casi, il tratto portante del feedback metalin-guistico è il suo esplicito richiamo a conoscenze me-talinguistiche dichiarative; ciò da un lato lo rende meno am-biguo, mentre dall’altro costruisce un “ponte” tra le cono-scenze in possesso dell’apprendente (che, a livello dichiara-tivo, ha già imparato che l’ausiliare dei verbi di movimento

è ‘essere’) e la loro automatizzazione in un uso rapido edinconscio. Sempre sul fronte dei pregi, se è vero che questo tipo dicorrezione blocca il flusso della comunicazione, ebbenesarebbe proprio questa sorta di time out comunicativo afavorire il già menzionato processo di noticing, secondogli interazionisti condizione fondamentale per l’apprendi-mento. Inoltre, il feedback esplicito costituito da informa-zioni metalinguistiche sarebbe più efficace del feedback

implicito perché contribuirebbe all’apprendimento nonsolo del singolo elemento oggetto d’errore, ma dell’inte-ro sistema in cui quell’elemento si inserisce (l’appren-dente riceverebbe cioè indicazioni su quale sia l’ausiliarenon solo del verbo “arrivare”, ma anche della generalitàdei verbi di movimento). Studi mirati (per l’italiano cfr. Grassi, Mangiarini, in stampa)mostrano però che l’effetto di tali focalizzazioni sarebbecomunque temporaneo, legato ad una memorizzazione nonduratura; ciò in particolare quando gli apprendenti non sia-no “pronti” per acquisire una data struttura. L’elemento del-la readiness sarebbe cruciale per l’efficacia di tale moda-lità correttiva (come, probabilmente, di tutte le tipologiedi feedback).Un’ulteriore critica a questo feedback osserva invece chel’informazione metalinguistica è generalmente più lunga del

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Bibliografia

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Roberta Grassi, Parlare all’allievo

straniero. Strategie di adattamento

linguistico nella classe plurilingue. Perugia, Guerra, 2007

recast, e che potrebbe essere questo ad incidere positiva-mente sull’apprendimento: la discriminante tra i due sa-rebbe allora non tanto la qualità (+/- esplicitezza), quantola quantità della correzione fornita. Chiudiamo anche rispetto a quest’ultimo feedback con con-siderazioni utili per la pratica didattica. La sua applicabilità,innanzitutto, è limitata dal fatto che non tutti gli appren-denti hanno le conoscenze necessarie per comprendere ri-mandi grammaticali “tecnici”. Inoltre, in ogni caso, la corre-zione metalinguistica non può essere applicata indiscrimi-natamente: va limitata a quelle strutture che l’apprendenteè pronto per acquisire, ed è chiaro che il riconoscimento ditale “apprendibilità” è compito non facile per l’insegnante,anche se in tal senso possono risultare utili studi come quel-li acquisizionali (cfr. Grassi, Bozzone Costa, Ghezzi, 2008).

Conclusioni Da questa panoramica, breve ed essenziale, sulle caratteri-stiche principali del feedback ci sembra emerga l’opportuni-tà di una riflessione anche da parte degli insegnanti sulleloro modalità di correzione “preferenziali”, certamente rifles-so di convinzioni profonde (per quanto non formalmente sin-tetizzate) sulla natura dell’apprendimento e dell’insegna-mento. Registrare alcune proprie lezioni e riascoltarsi conattenzione può portare a sorprese e a spunti d’azione per lelezioni successive, mentre la raccolta di informazioni sullapercezione e il gradimento del feedback, in generale o nellesue specifiche realizzazioni, può aggiungere dati degni diconsiderazione. Resta naturalmente ferma la necessità, oltreall’inevitabilità e all’opportunità, di fornire alla classe unfeedback differenziato e calibrato sulle esigenze contingenti.

Note1 Sul tema vd. Grassi 2007. 2 Per esigenze legate alla chiarezza del raffronto, nell’esempio in

esame è stato posto in effetti un feedback “positivo”, o meglio un fol-

low up, un terzo turno, non correttivo bensì valutativo. Evidentemente,di fronte a produzioni corrette dell’apprendente il feedback eventua-le sarà positivo, mentre solo a seguito d’errore se ne avrà uno nega-tivo. Più interessante ai fini glottodidattici è il feedback negativo ocontenente evidenze negative; di questo ci occuperemo qui.

3 In realtà, un punto chiave nell’indagine sul ruolo dell’evidenza nega-tiva è proprio l’assegnabilità delle diverse modalità di feedback (cfr.par. 2) alla sola categoria di evidenza negativa o, al contrario, positi-va, o ad entrambe. Non potendo qui addentrarci nella questione, as-sumeremo per comodità la posizione “semplificata”, che identifica ilfeedback con l’evidenza negativa.

4 La correzione di una produzione con errori multipli è, comunque at-tuata, sempre problematica.

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E io come rispondo agli errori?

Come si concilia quello che sai e che pensisugli errori e quello che fai in classe quandogli studenti “sbagliano”? Il tema non è nuovo, ma le idee e lepratiche, con il tempo, a volte cambia-no (e a volte no). Il test “E io come ri-

spondo agli errori? ” è un invito a ri-flettere sulla propria pratica didattica,a prendere posizioni non astratte, “dapoltrona”, e ad argomentarle (cosa cheriesce meglio ed è più divertente se si èpiù di uno a rispondere). Un test basatosu risposte a scelta multipla può peccaredi semplificazione, illudersi che il lettore siriconosca sempre in uno (solo) degli scenarialternativi via via dipinti. Ne siamo consapevoli(non ci illudiamo). Lo sforzo di essere lucidi può richiedere,a chi legge, di accettare qualche forzatura e di apportare per proprio conto i distinguo del caso.Comunque, in questo test, almeno non ci sono “risposte sbagliate”, e “copiare” non è punibile.

TEST

1. Organizzi un’attività in cui gli studenti

parlano liberamente fra loro in coppie.

Come ti comporti con gli errori?

Non intervengo né durante né dopo l’attività.

Se lo faccio lo studente tenderà a osare di

meno e io voglio che osi di più.

Non intervengo durante l’attività ma annoto

gli errori più appariscenti o tali da pregiudicare

la comunicazione e dopo l’attività li comunico,

li correggo o li faccio correggere dagli studenti.

Intervengo durante l’attività, correggendo

gli errori più appariscenti o tali da pregiudicare

la comunicazione.

2. Una volta alla settimana gli studenti scrivono

dei testi per un blog di classe. Li correggi

o no prima che siano messi in rete?

Correggo i testi, cioè indico gli errori più

importanti rispetto al percorso didattico in atto,

ma abbastanza spesso cerco di favorire

l’autocorrezione segnalando il tipo di errore

con un simbolo (Gr o L, per es., per indicare un

errore di grammatica o di lessico) e guidando

così lo studente a individuare la forma corretta.

Non correggo i testi, metto gli studenti in

coppie e dico loro di collaborare a riscrivere

i propri testi, aiutandosi con dizionari

e grammatiche, chiedendo a me quando serve.

Correggo tutti gli errori di grammatica,

ortografia, lessico e punteggiatura,

evidenziandoli bene con una penna colorata.

3. Gli studenti hanno appena finito di lavorare

individualmente a un cloze. Come organizzi la

fase successiva?

Chiedo se hanno dei dubbi da chiarire. Se uno

studente mi prega di correggere le frasi

una per una o dare direttamente le risposte,

acconsento.

Metto gli studenti in coppie e dico loro di

confrontare le proprie versioni. Cambio coppie

e faccio svolgere un ulteriore confronto.

Chiedo di sottopormi i punti ancora dubbi o

controversi, li giro alla classe, ascolto i pareri,

e infine mi pronuncio.

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Organizzo un giro di risposte, ogni studente

dice la sua soluzione, io confermo o correggo.

4. Gli studenti hanno ascoltato due volte una

conversazione spontanea di circa tre minuti.

Avranno capito? Quanto avranno capito?

Cosa avranno capito? Come procedi?

Verifico, ponendo o facendo leggere domande

di comprensione, se hanno compreso il senso

generale della conversazione e alcuni aspetti

specifici fondamentali. Se riscontro errori di

comprensione li correggo. Preferisco usare

conversazioni semplificate e più brevi, perché

più comprensibili.

Faccio ascoltare altre volte, dopo ogni ascolto

gli studenti a coppie confrontano le loro

interpretazioni della conversazione. Al termine

degli ascolti previsti non verifico se ci sono

errori di comprensione. Se uno studente mi fa

una domanda, la giro agli altri, se la risposta

non convince lo studente, faccio riascoltare

la conversazione o provo a rispondere io.

Faccio ascoltare un’altra volta. Verifico la

comprensione ponendo o facendo leggere una

batteria di domande. Se riscontro errori li

correggo o li faccio correggere dagli studenti

stessi. Ma prima degli ascolti ho fornito

parole chiave o un’illustrazione della situazione

in modo da rendere poco probabile che gli

studenti commettano grossolani errori di

comprensione.

5. Uno studente solleva durante la lezione

un argomento che tutti trovano interessante.

La discussione si anima. Gli studenti cercano

di esprimersi al loro meglio, vogliono

veramente capire e farsi capire, da te e dai

compagni.

Chiedo agli studenti se hanno capito quello

che ha detto un loro compagno, quando mi

sembra che potrebbero non aver capito, per

un qualche motivo (voce bassa o confusa,

errori di lessico o grammatica, costruzione

contorta…). Se qualcuno palesemente non ha

capito, invito lo studente che ha parlato a

ripetere; se le espressioni del viso degli

studenti non sono abbastanza esplicite, chiedo

nuovamente se hanno capito; se ancora non

capiscono e nei casi dubbi, ripeto io.

Faccio in modo che chi non capisce lo dica

a chi sta parlando. Se vedo che non tutti gli

studenti seguono questo precetto, mi sforzo

di rammentarglielo. A parte questo, cerco

di restare concentrato sulle domande

e le osservazioni degli studenti.

Ripeto ad alta voce le frasi scorrette, e le

correggo. Ripeto anche le frasi che, oltre

a essere magari scorrette, possono dare adito

a fraintendimenti. Queste frasi le ripeto

semplificandole, rimettendole a posto, un

pezzetto per volta. Poi mi guardo intorno per

vedere se ora hanno capito tutti.

6. Durante un’attività di produzione orale controllata

uno studente dice “ieri ho arrivato tardi”.

Invito gli altri studenti a pronunciarsi sulla

correttezza della frase. Se l’errore non è

individuato e corretto, do un’informazione, per

es. “l’ausiliare non è giusto”.

Dico “come, scusa?” (anche se ho capito)

oppure “ho?”.

Dico “sono arrivato tardi”, o “sei arrivato

tardi”, o “c’è uno sbaglio”, “ho non va bene”,

“l’ausiliare non è avere”.

7. Leggi la trascrizione di una drammatizzazione

di venti minuti realizzata da un gruppetto di

studenti principianti.

Penso “certo, ci sono degli errori, ma quanto è

divertente!”.

Penso “se non sanno ancora coniugare i verbi,

perché tenerli lì a parlare e a insistere negli

sbagli così a lungo?”.

Penso “divertente, poteva anche durare di più”.

8. Uno studente ti chiede di correggerlo quando

parla. Che fai?

Gli dico che lo farò senz’altro, dopo di che mi

rivolgo alla classe ed elogio la passione per la

correttezza di questo studente.

Gli rispondo che non lo farò, a meno che non

sia lui a domandarmi se una certa cosa che ha

detto è corretta o no.

Dico che lo farò, quando lo reputerò necessario

e in modo da non interferire troppo con la

conversazione, mia con lui, o sua con uno

o più compagni.

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9. Cosa provi di fronte agli errori degli studenti?

Avverto un senso di fatica, di disordine, mi

sento all’ingresso di un tunnel.

Provo un senso rinnovato della mia professione

e della sua utilità.

Mi sembra di vedere un bicchiere mezzo pieno.

10. Cosa pensi dell’affermazione secondo cui lo

studente migliore è quello che sbaglia di più,

perché osa di più?

Sono d’accordo.

Penso che sia un’esagerazione.

Non sono d’accordo.

11. Con quale affermazione sei più d’accordo?

“La correzione degli errori è parte integrante

del lavoro del docente in qualsiasi momento

della lezione”. (M. Mezzadri, I ferri del mestiere,

Guerra, 2003: 274-75).

“Spetta agli apprendenti che ricevono un

feedback negativo vedere che cosa vogliono

e riescono a farne. L’eliminazione degli errori

non sarà necessariamente una conseguenza

immediata e neppure remota”. (D. Larsen-

Freeman, Teaching Language: from Grammar

to Grammaring, Thomson-Heinle, 2003: 124).

“Ci sono ottime ragioni per difendere

l’opportunità di correggere, anche con una

certa assiduità. La prima è di tipo affettivo e

psicologico: spesso gli studenti hanno bisogno

della correzione perché questa rappresenta

una conferma dell’attenzione che l’insegnante

dedica loro”. (A. Cattana, M.T. Nesci, Analisi e

correzione degli errori, Paravia, 2000: 92).

12. Quale affermazione riflette meglio il tuo punto

di vista?

“Occorre dissociare l’errore dall’errante […]

Identificare gli individui con errori particolari è

spesso non solo un ostacolo che blocca il

miglioramento, ma anche la causa di sofferenze

non necessarie ai singoli”. (R. M. Swartz,

Mistakes as an Important Part of the Learning

Process, “High School Journal”, 6, 1976: 20-21).

“Se modello e prestazione non combaciano, la

correzione diventa necessaria, se si vuole che lo

studente apprenda il modello. A volte lo stesso

studente nota l’errore e si corregge ripetendo.

Se non se ne accorge, bisogna farglielo notare”.

(N. Brooks, L’apprendimento delle lingue

straniere, La Nuova Italia, 1968: 280, Ed. or. 1960).

“Non siamo d’accordo con coloro (tanti) che

sostengono che alla fine dell’attività in cui c’è

stato libero uso dell’interlingua l’insegnante

deve presentare alla classe alcuni ‘errori’

ricorrenti e li deve correggere con l’aiuto della

classe. Chi propone questa modalità sostiene

che non intacca l’amor proprio dello studente

che ha sbagliato perché non viene rivelato il

‘peccatore’. Tale affermazione rivela, secondo

me, un’ambiguità dell’insegnante. [Se]

l’insegnante riconosce allo studente lo status

di ricercatore non gli può venire in testa che

qualcuno potrebbe vergognarsi di un errore”.

(C. Humphris, La correzione degli errori,

Bollettino Dilit, 2003, 2:5).

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10. A - 1B - 2C - 3

11. A - 2B - 1C - 3

12. A - 2B - 3C - 1

Punteggio inferiore a 16 punti

Mostri di possedere una visione piuttosto pacificata dell’errore. Un’abbondanza di erroriti sembra sintomo di un apprendimento che spicca il volo. Non ti occupi perciò degli erroriquando gli studenti si esprimono liberamente. Quando svolgono attività focalizzate sulleforme fai in modo che ricevano, da te o dai compagni, trasparenti conferme/smentitedelle loro ipotesi.

Punteggio compreso tra 16 e 24 punti

Mostri di possedere tolleranza e comprensione verso gli errori. Sai che rappresentano tap-pe necessarie dell’apprendimento. Ti sembra però opportuno inserire un intervento cor-rettivo in tutti i vari momenti della lezione. Credi anche che la questione dell’errore sia untema emotivamente ricco di insidie, e per questo cerchi di espungere ogni possibile aspettominaccioso dalla correzione.

Punteggio superiore a 24 punti

Mostri di possedere una visione negativa dell’errore. Gli errori segnalano che c’è qualcosache non va, che bisogna intervenire. Ogni momento della tua lezione diventa allora un’oc-casione per fare attenzione agli errori, coglierli e correggerli. Ti aspetti molto da questa tuaassidua attività di correzione, sia in termini di conferma del tuo ruolo professionale sia intermini di progressi degli studenti.

Somma il punteggio che hai ottenuto per ogni domanda e calcola il tuo profilo.

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