Officina degli Affogati 2

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1 numero 2 maggio 2012 Indice La stanza segreta B. Lotti Libri M. Pellegrini Il corpo R. Cardellicchio A Canuto N. Marmeggi Il sarto C. Giuntoli Una lunga giornata d’estate F. Votino Il gioco di Ismaele D. Baldanzi Parenti fetenti P. Riccobono Novembre R. Cappellicni Andrew Warhola jr. S. Billeri La donna di carta (2° parte) C. Giuntoli 1 3 5 7 9 11 13 17 19 22 Il piccolo Ugo curiosava tra gli oggetti custoditi gelosamente nella”stanza dei ricordi” che la nonna Amelia aveva lasciato inavvertitamente con la porta socchiusa. Tutte le volte che Ughino era andato a casa della nonna si era domandato cosa ci fosse in quella stanza eternamente chiusa. Quella mattina lei era uscita frettolosamente e gli aveva raccomandato di non uscire di casa fino al suo ritorno. Lui, dopo aver fatto le abluzioni mattutine e la colazione, aveva gironzolato per la grande casa in cerca di un suggerimento per un gioco, per un’avventura ideale, insomma di un qualche cosa con cui passare il tempo. Ed era stato in quel girovagare che aveva trovato la porta socchiusa di quella stanza proibita. Il cuore gli era balzato in petto per la bramosia di varcare quella soglia e per il timore dei rimproveri della nonna Amelia. Ma il desiderio vinse la paura ed era entrato. Ugo aveva sempre pensato che in quella stanza fossero celate presenze pericolose e che la nonna fosse la guardiana di quel mondo La stanza segreta Bruno Lotti proibito. Un timido passo dopo l’altro e superò la porta e quello che vide lo riempì di meraviglia e di stupore: bambole e balocchi occupavano il suo sguardo. La luce proveniente dalle alte finestre inondava la stanza e creava una ebbrezza di riflessi sulle superfici colorate dei giocattoli. Questi non erano moderni come quelli che aveva nella casa dei suoi genitori, ma avevano un fascino particolare che subito lo attrassero: auto a pedali, motocarri, un triciclo rosso, una giostra con tutti gli animali che pendevano dall’alto, una piccola casa completamente arredata, un seggiolone con un bambolotto a sedere e una sedia a dondolo con una

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maggio 2012

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numero 2maggio 2012

IndiceLa stanza segreta B. LottiLibri M. PellegriniIl corpo R. CardellicchioA Canuto N. MarmeggiIl sarto C. GiuntoliUna lunga giornata d’estate F. VotinoIl gioco di Ismaele D. BaldanziParenti fetenti P. RiccobonoNovembre R. CappellicniAndrew Warhola jr. S. BilleriLa donna di carta (2° parte) C. Giuntoli

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Il piccolo Ugo curiosava tra gli oggetti custoditi gelosamente nella”stanza dei ricordi” che la nonna Amelia aveva lasciato inavvertitamente con la porta socchiusa.Tutte le volte che Ughino era andato a casa della nonna si era domandato cosa ci fosse in quella stanza eternamente chiusa. Quella mattina lei era uscita frettolosamente e gli aveva raccomandato di non uscire di casa fino al suo ritorno. Lui, dopo aver fatto le abluzioni mattutine e la colazione, aveva gironzolato per la grande casa in cerca di un suggerimento per un gioco, per un’avventura ideale, insomma di un qualche cosa con cui passare il tempo. Ed era stato in quel girovagare che aveva trovato la porta socchiusa di quella stanza proibita. Il cuore gli era balzato in petto per la bramosia di varcare quella soglia e per il timore dei rimproveri della nonna Amelia. Ma il desiderio vinse la paura ed era entrato. Ugo aveva sempre pensato che in quella stanza fossero celate presenze pericolose e che la nonna fosse la guardiana di quel mondo

La stanza segretaBruno Lotti

proibito. Un timido passo dopo l’altro e superò la porta e quello che vide lo riempì di meraviglia e di stupore: bambole e balocchi occupavano il suo sguardo. La luce proveniente dalle alte finestre inondava la stanza e creava una ebbrezza di riflessi sulle superfici colorate dei giocattoli. Questi non erano moderni come quelli che aveva nella casa dei suoi genitori, ma avevano un fascino particolare che subito lo attrassero: auto a pedali, motocarri, un triciclo rosso, una giostra con tutti gli animali che pendevano dall’alto, una piccola casa completamente arredata, un seggiolone con un bambolotto a sedere e una sedia a dondolo con una

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bambola dai lunghi capelli biondi, un teatrino con i burattini, uno studiolo in legno con sopra carta penna e calamaio, un gigantesco pallottoliere. Vicino ad una delle finestre c’era un vecchio giornale imbrunito dagli anni e sopra un aeroplano. Ugo gli si avvicinò e ne toccò la carlinga: uno scatto e la porta di accesso si aprì. Entrò e si mise a sedere al posto di guida. Quando sollevò gli occhi dalla console dei comandi la stanza era scomparsa e l’aeroplanino volteggiava nel cielo azzurro, fendeva nubi di panna, cabrava su paesi sconosciuti sfidando montagne color cioccolato, sfiorando la superficie smeraldina degli oceani. Infine l’aereo si fece piccolo piccolo, come un moscerino ed entrando attraverso la serratura della finestra atterrò sul giornalino riacquistando le sue dimensioni reali.Ugo ne uscì disorientato ma subito fu attratto dal clangore del clacson della vecchia cadillac gialla decappottata, parcheggiata vicino al tender di una locomotiva da manovra. Era fantastica!gli interni erano rossi, la strumentazione d’argento. Appena si accomodò al posto di guida l’auto ebbe un balzo e partì. Corse per strade sconosciute attraverso città con mille idiomi ma lui li capiva tutti e conobbe i bambini del mondo, i

loro crucci e i loro desideri e capì che erano gli stessi che aveva lui. Quando scese dalla cadillac fu attratto dal teatrino e vi entrò. Subito si sentì pesante. Ma sì era l’armatura che aveva addosso che pesava. Prima che se ne rendesse conto il fendente del suo nemico lo colpì e cadde a terra. Un urlo alle sue spalle lo fece alzare di nuovo e prima di lanciarsi ancora nel combattimento, una dulcinea con il volto della nonna Amalia gli avvolse al collo il suo foulard. Rinvigorito dal

suo amore si oppose al nemico con tutta la sua forza rintuzzando i suoi attacchi, ora scomposti, finché non lo volse in fuga. Uscito dal palcoscenico montò sulla locomotiva che sferragliando e

sbuffando partì. Si fece infinitamente piccola e affrontò un buco nella screpolatura dell’intonaco di una parete della stanza. La corsa folle per quella caverna minacciosa sembrava non avesse fine. Incontrarono mostri dalle fameliche mandibole che più volte tentarono di ghermire il picccolo Ugo, salite e discese dalla pendenza impossibile, dirupi scoscesi e aguzzi, strapiombi infiniti dove la vecchia locomotiva arrancava faticosamente per sfuggire alle forze del male che volevano strapparla dalla solida strada ferrata che l’avrebbe portata alla salvezza. Una volta riemerso da

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quello che non era stato un viaggio ma una fuga per rivedere la luce, corse verso la giostra che era in movimento con a bordo tutte le creature del bosco, del mare e del cielo in uno sfolgorio di colori e di suoni. Vi salì e la giostra cominciò a girare sempre più veloce annientando la gravità e il tempo. Un grande sonno rese pesanti le sue palpebre e si addormentò. Uno schiocco di frusta e uno strattone lo svegliarono precipitosamente. Ugo sulle prime non si rese conto dove si trovava e del suo nuovo stato d’essere. Aveva sete, tanta sete e davanti a lui, a pochi metri vide un lago. Corse per bere quell’acqua limpida, ma una volta arrivato alla riva lo specchio delle acque gli rimandò la sua immagine: si era traformato in somaro. Inutilmente cercò di chiedere aiuto ma dalla

sua bocca uscì solo una voce rauca e disarticolata. La disperazione lo travolse, cercò di scappare lontano, ma la frusta lo colpì sul groppone e l’acuto dolore lo fece desistere dalla fuga. Un omone grande e grosso come un gigante lo prese e lo trascinò verso un carro enorme per imbrigliarlo nelle cinghie con altri sventurati che ragliavano più forte di lui. L’angoscia vanificava ogni suo sforzo di salvezza e un velo di terrore offuscava la sua mente quando sentì aprirsi la porta di casa. Ugo si trovò, come per magia, nella stanza dei giocattoli. Si assicurò di avere ripreso le sue fattezze normali e, senza voltarsi, corse incontro alla nonna e l’abbracciò con tutte le sue forze, deciso a confessargli di aver disobbedito al suo desiderio.

LibriMarisa Pellegrini

In famiglia, ho sempre sentito raccontare che ho imparato a leggere da sola a quattro anni aiutandomi con i nomi sulle scatole dei medicinali di mia nonna, e da allora non ho più smesso.I libri sono sempre stati e sempre saranno i miei oggetti preferiti. Quando ero piccola, leggevo Topolino e il Corriere dei Piccoli, che era grande come un lenzuolo.Ricordo la gioia di andare a comprarli all’edicola,

rigorosamente per mano a mio nonno e poi a casa leggerli avidamente. Nel tempo ho sempre chiesto in regalo dei libri per ogni festa o ricorrenza, ero una bambina vivace, ma con un libro stavo buona per ore. Ho sempre letto di tutto, anche perché in casa c’erano grandi librerie dove attingere a piene mani. Verso i quattordici anni, trovai tre libri che mia madre aveva nascosto per non farmeli leggere a quell’età, erano L’amante di Lady Chatterley,

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Cioccolata a colazione e Jules e Jim. Nel giro di pochi giorni li lessi tutti e tre, forse non comprendendoli del tutto. Li ho riletti poi dopo anni con un’altra consapevolezza. Anche la mia casa è stracolma di libri, se ne possono trovare in tutte le stanze, bagni compresi; addirittura lungo le scale che scendono nel seminterrato, sui muri ci sono scaffali, costruiti da mio marito, che accolgono vecchie collezioni di Oscar e gialli Mondatori e altri libri che non ho coraggio di buttare. Con la mia amica del cuore, anche lei lettrice accanita come me, ci scambiamo sempre i libri e dato che abita a Viareggio e non ci vediamo spesso, lo scambio consiste sempre in grandi borse stracolme. Ho sempre un libro con me e nei viaggi in giro per il mondo anche tre o quattro in valigia e appena arrivata alla meta, il

primo pensiero è di cercare un’edicola o libreria, nel caso non bastassero quelli portati da casa.Ricordo che alcuni anni fa, durante una vacanza di un mese in Grecia, dovetti comprare un libro in inglese non trovando niente nei piccoli paesi che visitavamo, solo ad Atene trovai pubblicazioni in italiano.Per me possedere un libro nuovo è pura magia, toccare la copertina, assaporare l’odore della carta fresca di stampa, leggere i risvolti e poi tuffarsi nella lettura ansiosa di scoprire sempre qualcosa.di nuovo. Nelle mie librerie ci sono volumi un po’ sgualciti, sono quelli letti e riletti, i più amati che ogni tanto riprendo in mano e leggo appassionandomi sempre come la prima volta che gli ho letti.

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Il corpoRiccardo Cardellicchio

Mattia, dodici anni neanche compiuti, attraversa la strada e s’avvicina all’auto del sostituto procuratore. Un carabiniere l’occhia. Mattia evita lo sguardo indagatore. La sua curiosità è tutta per il centro del campo, dove gioca spesso tra le rovine di una casa colonica, ridotta a un muro sberciato coperto d’erba.Il carabiniere gli tocca una spalla. Non è posto per lui, questo. Che vada a casa, da sua madre.Mattia lo scruta. Fa qualche passo. Dà l’impressione d’attraversare la strada. Invece sgattaiola da un’altra parte, accanto a un’altra auto dei carabinieri. E continua a guardare verso il centro del campo.L’ambulanza lascia il posto al carro funebre.La gente s’agita.Il traffico sussulta, rallenta, si blocca.Diomio, cos’è successo?Che c’è là?Una donna s’allontana. Non le vanno certi spettacoli, non sa bene di che si tratti, ma se c’è un carro funebre, se ci sono i carabinieri, non deve essere niente di buono.Un vigile: per favore, per favore, circolate, non c’è niente da vedere, non c’è proprio niente da vedere, circolate.Un clacson.Un altro clacson.

Una voce irritata: accidenti, io devo andare a casa, m’aspettano, non posso stare qui tutta la mattina.Il vigile urbano allarga le braccia. Da solo può poco. I carabinieri sono più in là, preoccupati di non far avvicinare anima viva, la gente deve stare lontana – ha detto il magistrato – almeno trecento metri, però trecento metri non sono, saranno duecento, ma chisenefrega, non si va mica a prendere il metro, ci mancherebbe.La gente sta dall’altra parte della strada asfaltata, la prima che hanno asfaltato, della lottizzazione.A sinistra, ci sono altre strade. Una appena tracciata, tra l’erba. A destra, c’è quella stretta, che va alla villetta di Clelia, la vedova del notaio Malesani, quello burbero, mezzo sbilenco.Mattia non demorde, non s’arrende.Sa quello che vuole.Lo vuole perché è curioso.Perché non vede l’ora di raccontarlo agli amici.Ai genitori, no.Dioneguardi.Certe cose non fanno bene, gli dicono e ripetono, un martello in testa, fino alla noia. Stagli lontano.S’infila nella strada appena tracciata tra l’erba.E va gattoni.Ci sono arbusti e viti abbandonate.Alza leggermente il capo e s’accorge

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d’essere a pochi passi dal corpo.Che è lì. Nudo. Bianco.Sangue scuro, raggrumato sul collo e sul petto.Gli occhi sbarrati. Terribili nella fissità della morte.Lo guarda, Mattia, affascinato ed emozionato, le vampe al viso, la bocca asciutta, quasi secca che fa fatica a deglutire.Il respiro, poi, è ridotto a un sibilo affannoso.E’ il corpo nudo d’una donna.E’ la prima volta che vede una donna nuda. Ma così fa un effetto strano.Distoglie lo sguardo dagli occhi e cerca di spostarlo sul petto e sul ventre. Ma sono secondi. Torna agli occhi, a quegli occhi aperti che non vedono più, che hanno dentro, impressa, forse, l’immagine dell’assassino.Perché?La testa gli martella.Perché?Un fruscio lo distoglie dalla scena.E’ un cane, che avanza annusando. Un randagio, che lo raggiunge speranzoso.Mattia lo scaccia. E il cane abbaia. E attira l’attenzione dei carabinieri. E lo fa scoprire.Mattia si mette a correre. Non sente quel che gli dicono, i carabinieri.Ansando, raggiunge la strada

asfaltata, dove bivaccano i suoi amici. Che gli chiedono dov’è stato, è così pallido. Ma lui scuote la testa, non gli va di raccontare, non gli va di fare il gradasso com’era nelle sue intenzioni avvicinandosi al corpo.Il corpo. Quel corpo che ha davanti agli occhi, immagine indelebile, diversa da quel che s’era immaginato.Non un gioco. Non una finzione. Non

una fantasia.Una cosa reale.Terribile.Un omicidio.Un corpo di donna giovane. Bella.Senza più vita.E gli occhi.Gli occhi fissi.

Nessuno che abbia pensato di chiuderglieli.Raggiunge la sua abitazione, Mattia.Farfuglia ciao a sua madre e corre in camera.Brividi di freddo l’accartocciano.Si butta sul letto.Chiude gli occhi, ma li riapre immediatamente.Quel corpo.Quegli occhi.E’ come se li avesse dentro di sé.Scuote la testa: no. Poi a voce alta fa: “Mamma, sto male”.Non dice perché.La donna entra in camera, gli tocca la fronte, mormora sorpresa: “Ma scotti”.E lui si mette a piangere.

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A CanutoNoemi Marmeggi

E’ ancora lì, in mezzo alla piazza, quel che resta del magnifico gelso. Adesso è solo un ceppo, contornato da qualche erbaccia e da alcuni fiori che incuranti spuntano qua e là. Sono ancora lì, i miei campi adesso incolti, sconfinate distese che corrono da sotto il sentiero fino al torrente Egola.E’ ancora lì, il vecchio forno dove le donne facevano il pane, ormai trasformato in una piccola cappella.Quando torno da queste parti, passeggio con le mani in tasca, accarezzo con lo sguardo quei luoghi a me così cari e poi chiudo gli occhi, respirando l’aria, l’aria di Canuto, che per me è unica.Credo sia la stessa di quegli anni, quegli anni favolosi della mia infanzia…Sì, penso sia stata quella la prima volta.Urla di gioia mi avevano svegliato improvvisamente e fatto correre alla finestra: mio fratello non smetteva di saltellare contento e di indicare quello che si vedeva fuori. Un manto bianco e spesso aveva ricoperto completamente tutta Canuto. Gli alberi si piegavano sotto il peso di

quella bella coltre scintillante, i tratti del paesaggio a cui eravamo abituati si riconoscevano con difficoltà, tutto il vicinato commentava con gioia e un po’ di disagio l’accaduto. Era il 1990, avevo cinque anni, e vedevo la neve per la prima volta.Ai miei occhi era meravigliosa e non stavo più nella pelle dal poterla esplorare da vicino. Così, armati di doposci, sciarpe e cappotti, tutti noi ragazzi del luogo andammo fuori a giocare.

Camminando nel magico silenzio ovattato, sovrastati dagli alberi alti e innevati, trovammo con grande stupore le orme di uno scoiattolo che aveva zampettato nella neve e ci sembrò che tutta la natura partecipasse complice a quell’evento così

speciale. Il panorama risplendeva al timido sole che incominciava a spuntare da dietro le nuvole.Ci avviammo verso l’aia e comin-ciammo a fare a pallate: gli altri erano più grandi e più abili, io e la mia inseparabile amica Daila, essendo le più piccole, facevamo fatica a tirare le nostre piccole palle di neve. Ma non importava, tutto era una scoperta

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nuova ed era sufficiente per renderci contente. E poco bastava, all’epoca, anche per farci divertire: qualunque cosa pur di scivolare sulla neve di quella piccola discesina accanto all’aia, provando attimi di pura euforia. Lo slittino era uno solo, e andava condiviso, ma qualcuno non si fece problemi e prese dei vecchi pezzi di tessuto in plastica, ci si mise a sedere sopra e… via giù per la discesina! Il divertimento consisteva in qualcosa di estremamente elementare, ma questo ci permise di trascorrere la mattinata in maniera indimenticabile.La neve si era affacciata per la prima volta nella mia vita, e lo aveva fatto lasciandomi nella mente e nel cuore un episodio semplice ma allo stesso tempo indelebile.Questo è stato solo uno degli innu-merevoli momenti indimenticabili della mia infanzia.Il tempo è passato in fretta e ognuno ha preso la sua strada. Ma quando ci rincontriamo, tutti lo confermano: chi

è nato e cresciuto a Canuto sa di per certo di aver trascorso lì i migliori anni della propria vita.E come non avrebbero potuto esserlo? Un fazzoletto di campagna su cui compaiono qua e là poche abitazioni, reduce di un passato contadino, vivo ma allo stesso tempo preservato dalla confusione del vicino paese in evoluzione, ricco delle semplici tradizioni di una volta. Un luogo fatto di veri valori grazie all’insegnamento dei nonni, delle colorite espressioni toscane, di vecchi trattori e aratri per le bestie, ma anche di giochi semplici, pomeriggi passati sul dondolo scolorito, corse nei prati e merende di pane, sale e olio…Ho scritto lì le prime righe della mia esistenza e quando guardo fuori e vedo il mondo che non mi piace, mi abbandono con emozione ai ricordi, mi vibra il cuore e so di per certo che la vita vale la pena di essere vissuta, perché può sempre regalarti pagine stupefacenti come queste.

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La macchina da cucire era quella di sua madre. Lei ci aveva passato le nottate e la sua vita, ma i vestiti che uscivano dalle sue mani era vere opere d’arte. E Nello era cresciuto fra rocchetti di filo, stoffe e nastrini. Da sotto il tavolo della cucina cuciva piccole pezze di stoffa mentre il cigolio della macchina da cucire di sua madre lo accompagnava. Sua madre aveva lasciato la luce dei suoi occhi su quelle pezze di stoffa e lui aveva preso il suo posto. Le signore dell’alta società si affollavano per farsi cucire i vestiti da quel bel giovanotto. Stoffe di tutti i colori e tipi invasero la piccola stanza dove Nello lavorava e dove le signore si facevano anche un po’ accarezzare da quelle mani tanto magiche che cucivano intorno ai loro corpi stoffe pregiate. Poi la guerra. Nello continuò il suo lavoro, ma le stoffe che cuciva erano sempre meno pregiate e molto spesso si trovava a ricucire paltò e giacche sempre più verdi e sempre più scure.Qualche signora del paese gli portava i vestiti dei suoi figli per allungarne

Il sartoCinzia Giuntoli

le maniche e l’orlo, tanto le spalle rimanevano sempre le stesse. Nello resisteva, arriveranno tempi migliori, pensava. Se il Signore mi ha dato questo dono un motivo ci deve essere.Al lume della candela aspettava che i bombardamenti passassero e che le persone tornassero nelle loro case. Non avrebbe mai abbandonato la sua Singer. La copriva con il coperchio

in legno e nel cassetto sotto la macchina con cura teneva una scatola di latta che conteneva i fili di tutti i colori, i bottoni che recuperava dai vestiti che non si potevano

più accomodare e i nastrini scuciti con cura dai cappelli o dagli orli.Tutte le mattine si scaldava dell’orzo e lavorava fino alle cinque del pomeriggio, mangiando quello che gli portavano i suoi clienti. Quando una mattina nella sua bottega entrò quel signore distinto, Nello credette che si fosse sbagliato. Il signore distinto si accomodò sullo sgabello pieno di stoffe, appoggiando il mento sulle mani che tenevano il bastone e guardò dritto negli occhi il sarto.

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“Lei è il signor Nello, il sarto del paese?” ”Vorrei dirle per servirla, ma vedo che non ha la necessità di rattoppare qualche vestito.”“Veramente vorrei farle fare un lavoro. Mi hanno detto che lei è preciso e che quando un lavoro deve essere fatto perché è giusto lo fa senza tanti rigiri di parole.”Nello si alzò da dietro la sua Singer, la coprì con il coperchio di legno e si avvicinò al suo cliente.“Vediamo, di cosa si tratta.”Il signore distinto sospirò. “Devo aiutare qualcuno, qualcuno a cui il Signore non ha ancora fatto trovare la strada per stare bene, e io cerco di spianargliela un pochino.”Parlava con fare semplice, con parole ben scandite, senza lasciare lo sguardo di Nello.“La mia particolarità è nascosta fra le pieghe della stoffa, come posso aiutarla a spianare una strada?” ”Se la cosa può interessarle, stasera le porto il primo lavoro da fare.”Nello annuì e lo sconosciuto uscì senza aggiungere altro.Erano ormai le cinque del pomeriggio. Nello chiuse la Singer, spolverò il piano dove tagliava le stoffe, mise a posto aghi e forbici. Non pensava più al signore distinto che era venuto la mattina, ormai avrà

trovato un altro sarto, pensava fra sé. Poi qualcuno bussò e al suo avanti, entrano nella bottega quattro persone: un bambino, un uomo, una donna e il signore distinto. “Ecco le lascio il lavoro, passerò io a pagarla. Deve essere bravo e attento. Deve aiutare queste persone a ritrovare la loro dignità. Nello prese il cappotto dell’uomo e lo pose sul tavolo. Con piccoli gesti sicuri scucì, ritagliò e lo ricucì.Dopo prese un panno dello stesso colore, lo inumidì e strusciò piano la stoffa per renderla omogenea. Così fece alla giacca del bambino e al cappotto della donna. Ci volle tutta la notte al lume di candela, ma alla fine le vesti erano tornate come nuove. Silenziosamente come erano arrivate le tre persone se ne andarono. Il giorno dopo e i giorni dopo ancora altre persone si presentarono alla bottega di Nello. Lui non diceva nulla, le faceva sedere e lavorava, fino

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a quando il segno della vergogna di altri non era sparito. Nello sapeva che era pericoloso, ma non importava, era la sua piccola parte ad un mondo di cui non era mai riuscito a capirne il senso.Il signore distinto ogni tanto passava, si sedeva sul panchetto pieno di stoffe e chiedeva se andava tutto bene. Nello annuiva e aspettava altro lavoro. Le persone, senza nome e senza parola, entravano nella sua bottega e uscivano con una speranza. Nello intanto continuava la sua opera, tanto che aveva abbandonato ogni altro tipo di lavoro. Se qualcuno chiedeva un lavoro di sartoria lui rinunciava, per paura che si incontrasse con le silenziose persone della sera.Qualcuno però, troppo curioso, cominciò a chiedere di cosa campava adesso che nessuno più gli portava i vestiti a ricucire. E poi, come mai la

Singer non si sentiva più durante il giorno? Nessuno aveva capito cosa faceva Nello, e nessuno capì perché quella mattina nella bottega entrarono due soldati tedeschi con un altro militare, portando via Nello senza alcuna spiegazione. Una signora che era affacciata di fronte alla bottega disse che Nello, mentre sorrideva ai tedeschi, coprì la sua Singer, spolverò il tavolo, si mise la giacca troppe volte rattoppata e salì sulla camionetta. Nessuno lo ha più rivisto.Adesso, dopo tanti anni, la piccola bottega è stata riaperta, per fare dei lavori di ristrutturazione. La polvere ha impregnato ogni cosa, le stoffe, il panchetto, la Singer.Non ha però ricoperto la scatola di latta gelosamente nascosta sotto la macchina da cucire con decine di stelle gialle con la scritta JUDGE.

Una lunga giornata d'estateFrancesca Votino

Il corpo dell’uomo che solo tre ore prima, in una afosa giornata estiva vestito con abiti pesanti e scuri, con l’ombrello al braccio, era salito su un autobus affollato, scatenando reazioni di ilarità e sorpresa tra i passeggeri, adesso giaceva esanime sul pavimento di mattonelle a scacchi del monolocale di periferia.

Il cadavere rispondeva - si fa per dire - al nome di Federico Vangone, quarant’anni, di professione salu-miere, benestante e molto conosciuto nella area flegrea.Il corpo presentava profonde ferite d’arma da taglio all’addome, sulla schiena e sulle mani, con le quali, presumibilmente, il commerciante

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aveva tentato istintivamente di parare i feroci colpi del suo aggressore. Il commissario Pasquale Vicedomini, Lino per gli amici, accorso sul luogo del misfatto accompagnato dal suo vice Giovanni Quagliarulo, tre agenti della questura centrale e due tecnici della scientifica, scosse la testa più volte mentre osservava attentamente la scena del crimine. Ispezionando da cima a fondo il locale il commissario rinvenne, in un cassetto della scrivania situata nella camera da letto, un quadernetto nero a quadretti pieno zeppo di nomi, date e conti segnati in rosso. Con tutta probabilità, considerata la cospicuità delle cifre segnate all’interno, non doveva trattarsi di semplici crediti che il defunto droghiere potesse vantare nei confronti dei clienti del negozio, bensì di prestiti ad altissimo interesse, in pratica di usura vera e propria, pensò subito il commissario.

Vicedomini convocò in questura, nei giorni seguenti, le persone che comparivano sulla lista e prese ad interrogarle. Vagnone infatti era un usuraio, di quelli della peggior specie, uno che si appoggiava per riscuotere i crediti ad alcuni esponenti malavitosi della famiglia Benincasa che controllava il quartiere. Torchiati a dovere fra i debi-tori del mascalzone saltò fuo-ri l’assassino reo confesso. Si trattava di un certo Mario Esposito, trentatre anni, netturbino, che per soddisfare le voglie di lusso sfrenato della bella e procace consorte si era indebitato fino al collo con il Vangone. Tuttavia era sempre riuscito ad onorare i propri debiti fino a quando i tassi usurai erano balzati così in alto che per non incorrere nell’intervento dei Benincasa aveva dovuto cedere all’aberrante richiesta dello strozzino: cedergli la moglie a fini sessuali. La cosa durò qualche mese, allorquando la signora Franca, moglie dell’Esposito, tornò a casa dall’ennesima seduta di pagamento in natura e rivelò al marito che in quell’occasione il Vangone aveva preteso delle prestazioni molto particolari, in parole povere la Franca aveva dovuto sottostare all’azione sodomitica del depravato creditore. Fu in seguito a quest’ultima rivelazione che l’Esposito, assalito da una furia cieca e devastatrice, si era recato a casa del Vangone e l’aveva massacrato

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con una trentina di pugnalate inferte con un coltellaccio da cucina. Mentre il Vicedomini ed il Quagliarulo s’avviavano lentamente giù al bar su quella metropoli tentacolare perduta in se stessa calavano, come un lugubre sudario, le prime ombre della sera. Un altro giorno era trascorso

consumato fra le lordure dell’umanità, pensò il commissario Vicedomini, assalito da improvvisa stanchezza. Domani un nuovo sole illuminerà le stesse brutte facce di sempre e noi saremo al solito al nostro posto a fare gli spazzini del crimine. C’est la vie, mon amì.

Il gioco di IsmaeleDavid Baldanzi

Quando Moser mise la ruota oltre la linea del traguardo del campionato del mondo di ciclismo prima di tutti gli altri e suo padre fece un salto di gioia sulla poltrona, a Ismaele si disegnò un sorriso sornione sul viso. Se solo suo padre avesse avuto la curiosità di guardare il quaderno delle statistiche che Ismaele teneva in soffitta si sarebbe accorto che era già tutto scritto lì sopra. Che la corsa si sarebbe conclusa con una volatona finale e che su tutti avrebbe prevalso Francesco Moser. E’ vero, il vincitore del giro d’Italia sul quaderno di Ismaele non era lo stesso, e nemmeno quello del tour de France. Ma questo non significava niente. Non era colpa sua se quel ciclista belga con il nome strano che era arrivato primo al Giro d’Italia non c’era tra le sue bilie. Probabilmente se ci fosse stato

avrebbe vinto anche la sua versione del Giro. Chissà. Il Tour de France, poi. Te li raccomando quei francesi. Ti pareva che non facessero vincere uno di loro. Figurati che nel Tour che Ismaele aveva fatto correre alle sue bilie Thévenet era arrivato dopo il centesimo posto.La mamma di Ismaele lo brontolava

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sempre perché diceva che era un gran disordinato e che lasciava tutte le cose in giro per casa e lei gli doveva andare dietro per metterle a posto, ma se avesse visto il quaderno delle statistiche che Ismaele teneva in soffitta si sarebbe ricreduta.Ismaele aveva un quaderno per ogni stagione di corse delle bilie che aveva fatto. D’inverno, quando non poteva andare alla pescaia a giocare, preparava i tracciati delle tappe del Giro d’Italia, del Tour de France, della Milano San remo e del campionato del mondo. Una tappa per ogni pagina sinistra del quaderno. A seconda della lunghezza della pista decideva quanti giri fare. La pagina a destra, invece, la usava per scriverci l’ordine di arrivo, la classifica generale e quella a punti. Nelle ultime pagine del quaderno, invece, faceva il riepilogo della stagione con i premi per il ciclista che aveva vinto più gare e tutte le altre statistiche della stagione. Intorno a metà aprile si ritirava in soffitta a pulire le bilie. Una ad una tutte e 137 le bilie, che teneva in una scatola. Da quel momento i suoi ciclisti rinchiusi dentro le bilie gli facevano compagnia in ogni momento della giornata: a scuola, durante le spiegazioni di geografia, Ismaele si annotava i nomi di tutte le città di

cui la maestra parlava e quelle che gli suonavano meglio all’orecchio le usava come punto di arrivo o di partenza di una tappa. E chi se ne frega se magari erano distanti quasi mille chilometri. I suoi ciclisti potevano fare questo ed altro. Quando andava a giocare con i suoi amici a calcio nel campetto dietro casa per lui non era tanto importante saper controllare il pallone e fare goal, quanto, piuttosto, superare nella corsa un avversario e arrivare prima di lui sul pallone. Perché Ismaele, in quel momento, era Moser in una volata al

fotofinish o, più spesso, Gianbattista Baronchelli, il suo ciclista preferito. Che però non era tanto forte in velocità, ma appena la strada iniziava a inclinarsi su per una montagna, Gibì, come lo chiamavano i cronisti, si alzava sui pedali ed erano dolori per tutti. A Ismaele piaceva giocare a calcio con gli amici, però da maggio a settembre il uso pensiero era tutto per le corse con le bilie. Quando, nelle

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giornate torride d’estate, i suoi amici andavano lungo il fiume a pescare cercando i punti più ombreggiati per starsene un po’ al fresco, lui preferiva sudare sotto il sole dando schicchere alle bilie lungo la pista scavata nella sabbia con il braccio e fare la cronaca in diretta della corsa. Una volta Maria Grazia, la sua compagna di classe con la lingua più lunga della scuola, gli aveva detto, mentre ritornavano dalla messa, che ad Angela, la ragazzina bionda con l’apparecchio di terza, sarebbe piaciuto diventare la sua fidanzata. Ismaele ci aveva pensato un po’ su cercando conforto nella punta delle scarpe e, nonostante la testa gli si fosse svuotata del tutto, quando arrivò davanti al portone di casa e Maria Grazia pretese una risposta, lui le disse che sì, per lui andava bene. Che altro non era che la prima cosa che gli era passata per la testa.Il giorno dopo a scuola, durante l’intervallo, Angela cercò il suo sguardo con un sorriso a tutto apparecchio e Ismaele pensò che in fondo non era poi così male. Bionda, occhi azzurri, un bel visetto. L’apparecchio tanto prima o poi se lo sarebbe tolto. Chissà, magari quella risposta data così tanto per fare alla fine diventava una cosa bella davvero. Ma Maria Grazia sembrava tenere a questa unione più che Angela e Ismaele stessi. Ogni giorno faceva di tutto perché i due si incontrassero e rimanessero un po’ da soli. Iniziò

addirittura ad invitare Ismaele a fare i compiti insieme a casa sua perché aveva il giardino confinante con quello della casa di Angela. Fino a quando decise che Angela e Ismaele erano stati fidanzati abbastanza. Potevano finalmente unirsi in matrimonio. Coinvolse allora tutta la classe: Marco avrebbe fatto il prete; Raffaele e Walter i chierichetti; Fabrizio il testimone dello sposo; lei il testimone della sposa e Sabrina e Patrizia le damigelle d’onore. Decise anche il luogo dove i due promessi sposi avrebbero coronato il loro sogno d’amore. C’era, tra la pescaia e il ponte, un terreno di sabbia mista a ghiaia e terra dove d’estate cresceva alta l’erba e alcune piante spontanee alta abbastanza da nascondere una squadra di bambini agli occhi di chi passava sul ponte o era alla pescaia a pescare. Ismaele cercò di dissuadere Maria Grazia dal celebrare il matrimonio proprio in quel posto, a poche decine di metri dall’insenatura di sabbia dove lui andava a giocare con le bilie. Ma Maria Grazia non volle sentire ragioni. Quello era il posto perfetto. E un venerdì di giugno, alle 5 del pomeriggio, fu celebrato il matrimonio tra Angela e Ismaele. Finita la cerimonia, con tanto di lancio di ghiaia portafortuna perché il riso nessuno ci aveva pensato a portarlo, Maria Grazia invitò il resto della banda a lasciare i due novelli sposi soli perché si dovevano baciare. Che cosa? Un momento, pensò Ismaele,

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questo non era previsto. Baciare Angela? Che poi baciare voleva dire sulla bocca... Quando rimasero soli l’unica cosa che riuscì a pensare Ismaele fu alla Milano San Remo che avrebbe disegnato la mattina dopo sulla sabbia. Un paio di settimane prima suo padre, sapendo della sua passione per le bilie, gli aveva portato un sacchetto con dieci bilie nuove tra le quali, oltre al settimo Gimondi, al quinto Merckx e al nono Saronni della sua collezione, c’era Hennie Kuiper, un ciclista olandese che non era mai riuscito a trovare e che non vedeva l’ora di sperimentare come se la cavava sulla pista. Secondo lui poteva anche vincere a sorpresa la prima gara cui avrebbe preso parte, la Milano San Remo del mattino dopo, per l’appunto. Ma prima c’era Angela da baciare. E questo era un problema non da poco. L’avesse almeno un po’ aiutato... Invece lei se ne stava lì a guardarlo con un mezzo sorriso, a

strappare l’erba di fronte a sé, senza dire niente. Ismaele contò fino a cinque poi chiuse gli occhi e si buttò addosso ad Angela. Spinse le sua labbra su quelle di Angela per tre secondi poi si alzò e chiamò Maria Grazia e gli altri. Era chiaro che a Maria Grazia non bastava l’assicurazione di Ismaele che il bacio c’era effettivamente stato. Lo chiese anche ad Angela, che negò che c’era stato un vero e proprio bacio. Lui non aveva tirato fuori la lingua. Ismaele cadde dalle nuvole, mentre gli altri già si apprestavano a lasciarli di nuovo soli perché lui facesse il suo dovere fino in fondo. - No, disse a tutti, mi dispiace ma non posso farlo. Domani ho la Milano San Remo e si sa che gli atleti il giorno prima della gara non possono fare sesso.Prese la bicicletta e pedalò via il più velocemente possibile. E chi se ne frega se nessuno dei presenti non aveva capito quello che intendeva.

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Parenti fetentiProvvidenza Riccobono

PERSONAGGI-ARVARO- i’ nonnoMARISA- la nonnaPIERO- i’ figliolo grandeARMIDA- la moglie di PieroVIRMA- la figliola di Piero e ArmidaI’ BIMBO- figliolo di Piero e ArmidaI’ GIANGI- fratello di Piero e giovanotto grullo di ‘asa

Casa Cecconi. La solita mangiaa della Domenia.- Bene - dici i’ nonno. Ora che vu siee arrivai, e si spera di pote’ mangia’.-- Sì, ma a i’ bimbo, gli scappa la ‘acca- dice l’Armida mentre si dirige co’ i’ vasino ‘n mano verso le ‘amere.-- Oh Piero, digli quarcosa... tutte le vorte è la solita musia. Vù arrivae e ‘nvece di mangia’ i’ bimbo a’ da caa’.-- Oh babbo, e bimbi son bimbi-- Sì, e bischeri son bischeri.-- Che a’ detto?-- Nulla, unn’ ho detto nulla- sospira Arvaro.Intanto i’ Giangi, transita vers’ i’ bagno. Anc’ a lui e gli dee scappa’ quarcosa. Quando ved’ i’ bimbo su’ i’ vasino, gli scatta l’idea. I’ genio. La bella pensaa di scambia’ li stronzi.Quando L’Armida la va a vedè se i’ bimbo ha fatto, ne rimane: e comincia a grida’.- Oh Piero, corri. Vien’ a vede’, è success’ una ‘osa...-

Piero piglia e va a vede’.- Bonanotte... ora un si mangia più- brontol’ i’ nonno.La nonna, e gli dà un’occhiataccia-Te, un tu pensi arto che a mangià, costì.-- O vedrai, o Marisa, se è pronto...poi e viene ghiaccio, e un’ mi garba.-Intanto quell’attri, arrivano co i bimbo e i’ vasino ‘n mano. Piero l’è tutto soddisfatto, mentre l’Armida ha ancora l’occhi di fori.- Allora? Avee finio con codesta merda?- chied’ i’ nonno scocciao.- Merda? Quest’è un’opera d’arte. Un bimbo che sa fa’ certe ‘ose, nella vita pole tutto- dice Piero mostrandogl’ i’ vasino.- Dio bono, che schifo. Gli farà male fa’ codeste ‘ose?-- Oh babbo, che schifo? Ma ti rendi ‘onto?- continua Piero, sventolandogli i’ vasino sott’ i’ naso. Ni’ qui mentre arriva la nonna.- Allora, si mangia? Oh, Madonnina benedetta...- e rimane co’ i’ vassoio ‘n mano.- Questa creatura, ha fatto codesto stronzolo?-- Sì, mamma. Che te ne pare? Degno figlio di’ su’ babbo- dic’orgoglioso.- A me, e mi pare uno schifo. I’ che gli dae da mangia’ a codesto figliolo?-Intant’ arriv’ i’ Giangi.- Che si mangia oggi?-chiede ‘olla faccia di ‘ulo - Ah, stronzi...-

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- Bah... eccolo, è arriva’ i’ meglio- dic’ i’ nonno rassegnao.Intanto Armida, sta ancora co’ i’ vasino ‘n mano.- Allora? La volee posa’ codesta merda? Vu avee fatt’ un puzzo pe’ la ‘asa che mai...- dice la nonna che già s’inviaa a ‘ncazza’.- Oh, mamma mia...o come siee venui schicchignosi- dice Piero.-A tutto e c’è un limite- dic’i’ nonno- o si mangia, o si caa.-- Ma i che è, questo ‘asino?- dice Virma, la figliola, che par che si sii levaa ora.- Bah, è arrivaa anche lei. Se tu ti levassi codesti zipoli dall’ urecchi, e tu ci sentiresti meglio- dic’ i’ nonno.Armida allora e gli dice:- A proposito Arvaro, l’ha vista come sta bene la tu’ nipote, colla minigonna. Sembra me quand’ aveo la su’ età. Belli mi’ tredicianni...-- Mah, e c’è da essin’ orgogliosi, davvero, par che si’ una balla legaa- bubbol’ Arvaro- Du’ figlioli: uno com’ i’ babbo, e una come la mamma...e siam’ a posto - concrude.L’Armida, però, un raccoglie. Un si fa provoa’.- Bad’ un po’, se tu la fa’ finia...- interviene la nonna.

- Sì, e tu chiaccheri bene te, ma qui invece della minestra...e si mangia quarcosartro. Fammi be’ un po’ di vino, vai, e mi rimetto la bocca...-- Un lo be’ a digiuno, e ti fa male..-- Sta zitta, vecchiaccia. Per te, mi fa mal’ ogni ‘osa. Ma quello che mi fa bene, però, e un tu me lo dai, sa’.-- O via, ora si ‘omincia co’ discors’ a bischero...e si va’ a fini’ fori da’ i’ seminato- sbotta la nonna.Giangi intanto, e se la ride sotto baffi.- I’ che tu ridi te? Pinzo e grullo. Anch’ i’ tu’ nipote ti supera...- dice Piero a i su’ fratello.- Su, si mangia? A me tra poo e m’è

passaa la fame- dici i’ nonno.- Anch’a me - dice Piero- anzi, lo sa’ i’ che si fa? E si va via. Gnamo Armida, qui e un siamo graditi.-- Che famiglia di mmerda...proprio- dic’ i’ nonno.- Gnamo- ribadisce Piero, mentre ridà i’ figliolo e i’ vasino alla su’ moglie.

- Ma davvero andae via?- s’ inform’ i’ Giangi.- Sì, perché?- risponde Piero.- Perchè ti voleo di’ una ‘osa.-- Che mi volei di’?-Ti voleo di’, che quello stronzo...l’ho fatto io- dic’ orgoglioso.- Come? Te?-- Sì, io, perché? Un si pole?-

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- Se’ andao a caa’ ni’ vasino...-dic’ i’ nonno.- Noo, che caa’. Gliel’ ho scambiao.-- Sicché te, tu avresti scambiao lo stronzo...o perché?-gli dice Piero. - Perché anch’ io voleo dimostra’ di sape’ fa’ quarcosa...- dice colle lacrim’ a l’ occhi.- Che famiglia di mmerda...- si lascia scappa’ la Virma.- O che parole son codeste?- gli dic’ i’ nonno.- O’ nonno, uffa che palle.-

- Davvero Giangi, tu ha fatto tutto questo pe’ fa vede’ chi sei?- gli dice Piero.- Sì..- dic’ abbassando i’ capo.I’ moment’ è catartio.- Dev’ammette, che tu cia’ arte.. e i’ mi’ figliolo...è a tempo, a rifassi. Vieni qua, Giangi- gli dice e l’abbraccia.- O’ via, quand’ avee finio di di’ stronzae e di fa’ “Caramba che sorpresa”: badamo se finarmente si mangia- dice la nonna.

NovembreRiccardo Cappellini

Quell’odore di fumo era arrivato senza preavviso e, inevitabilmente, l’aveva spinta all’indietro nel tempo di decine e decine di anni. Era lo stesso odore di legna che arde e fuliggine di un camino troppo usato che sentiva ogni volta a casa di sua madre. Un odore tipico che l’accoglieva ogni domenica mattina quando, invariabilmente da un anno all’altro, arrivava in auto nell’aia della vecchia casa dov’era nata. Sua madre, rimasta vedova troppo presto, viveva da sola in quella grande casa colonica costruita per accogliere le famiglie allargate di un tempo. Era una donna forte, tenace e che non si lasciava mai andare. Una donna d’altri tempi che non aveva voluto lasciare il suo orto per seguire la figlia in città. Da quel giorno, ogni

domenica mattina, era lei che andava a trovarla e ogni volta, come ogni rito che si rispetti, la trovava indaffarata a prepararle il pranzo. Era la stessa scena da una vita. La cucina spaziosa con il camino acceso in ogni stagione, l’acquaio di pietra scavato dall’uso, un mettitutto di epoca incerta e il tavolo solidamente piantato al centro della stanza. Lo stesso tavolo, con il marmo sopra, dove sua madre ogni volta, preparava da mangiare. Mentre stava attraversando il vialetto del cimitero, in una grigia giornata di Novembre, rifletté che non avrebbe potuto pensare a lei senza il suo grembio, come lo chiamava, e le mani sporche di farina. La pasta della mamma era la più buona che avesse mai assaggiato e come non potrebbe essere così, si ripeteva

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spesso. La trovava sempre con quelle dita secche e nodose come rami d’autunno infilate dentro l’impasto e non smetteva di amalgamarlo neppure per andarla a salutare appena entrata in casa. Era lei che le si avvicinava per salutarla con un bacio sulla guancia prima di mettersi, a sua volta, il grembiule e aiutarla a preparare la tavola. Solo quella però, perché la pasta, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a farla. Eppure fin da bambina sua madre aveva provato a insegnarle tutti i suoi piccoli trucchi. Il segreto, le diceva, è che non ci sono segreti. Era da generazioni, infatti, che veniva fatta alla stesso modo e, probabilmente, anche sullo stesso tavolo. Ripensò a quante volte le aveva ripetuto le operazioni da compiere, prima di tutto una bel motincello di farina, esordiva. Un monticello, aveva scoperto poi, doveva essere all’incirca 500 gr., poi ci vogliono 4 uova, continuava, ma solo quelle del contadino però, un pizzico di sale e un filo d’olio di quello bono. A questo punto si doveva impastare e, solo dopo aver ottenuto un panetto elastico ed omogeneo, bisognava metterlo a riposare sotto un canovaccio di lino. Giusto qualche minuto e poi di nuovo con le dita dentro all’impasto per ammorbidirlo e poterlo stendere col mattarello. Il tavolo era idealmente diviso a metà. Da una parte la lavorazione e dall’altra il posto per mettere le strisce di pasta, rigorosamente tagliate con la coltella, a essiccare all’aria pulita di campagna.

Finita questa preparazione ci si dedicava al resto. L’acqua sul fuoco per farla bollire e una aggiustatina al sugo nella pentola. Questo era un altro piccolo miracolo che da sempre si ripeteva al bisogno. Gli ingredienti erano sempre gli stessi. Non c’era infatti il ragù, la matriciana o la boscaiola, ma solo e semplicemente il sugo, appunto. Tutta la preparazione iniziava con il rumore del coltello che, sminuzzando un po’ di cipolla, due gambi di sedano e un pezzetto di carota, tacchettava il grosso tagliere di legno, anche questo tramandato di generazione in generazione. Non troppo però, perché tanto gli odori si amalgamano bene lo stesso, le consigliava. Un attimo di tregua e poi lo sfrigolio,

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rapido e intenso, del battuto che si immerge nella pentola con l’olio che era già stato messo a scaldare. Non deve sfriggolare troppo, le diceva sua madre e poi mettici subito la carne, vitellone magro macinato piuttosto fine, come aveva imparato a chiedere al macellaio. Quando il tutto iniziava a prendere colore era la volta del passato di pomodoro. Nel mettitutto c’era sempre qualche barattolo preparato l’estate precedente che, appena aperto, riempiva l’aria di un profumo dolciastro. Appena aggiunta la passata si doveva abbassare il fuoco al minimo e qui non si trovavano mai d’accordo. lei impaziente che alzava la fiamma per far cuocere prima e sua madre che la riabbassava, perché il tempo va assaporato un istante alla volta, soprattutto in cucina, diceva. Era una donna paziente, poco incline alle emozioni e forse per questo si sentiva riempire di gioia nel vederla sorridere. Un sorriso largo e sincero che non riusciva mai a trattenere quando lei da bambina, dopo aver scorrazzato nei campi a primavera, le riportava a casa un mazzetto di fiori appena raccolti. I suoi preferiti erano quelli chiamati

le mani di Gesù, piccoli, frastagliati e colorati di rosa, ma per fare un bel mazzetto non disdegnava neppure di raccogliere le campanelle viola, i millefiori bianchi con qualche puntino nero e i piscialletto, per una nota di giallo in più. Glieli portava tutti avvolti in piccole felci che crescevano vicino alla fora, un rigagnolo d’acqua che scorreva dietro casa. Quando sua madre la vedeva arrivare, tutta fiera, con il suo mazzetto di fiori poteva perfino smettere di impastare e, scossandosi il grembio dalla farina, le andava incontro per ricevere quel piccolo, grande dono. In casa c’era un solo vaso per i fiori , un piccolo vasetto di vetro tutto lavorato appartenuto a chissà quale zia ormai lontana nel tempo, e, dopo averlo sciacquato e riempito d’acqua, ci sistemava i fiori e lo metteva al centro del tavolo dove stava spianando. Il rumore del vetro sul marmo la ridestò dai ricordi. Finì di sistemare le orchidee che aveva portato e poi, dopo un ultimo sguardo allo foto sulla tomba, salutò sua madre che continuava a rivolgere il suo splendido sorriso.

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Andrew Warhola jr.Serena Billeri

Non deve essere facile la vita di uno che nasce con l’anomalia ereditaria dell’albinismo, nel 1928, nei tempi della “Grande Depressione”, in una città-mostro come Pittsburgh dove il cielo malsano lo vedi solo offuscato dalla nebbia del fumo delle acciaierie e delle industrie siderurgiche da una finestra di una casa-topaia di un sobborgo per operai di infima categoria, figlio di immigrati dell’Est - slovacchi per la precisione - che parlano poco e male la lingua anglofona e che lavorano come muli quindici, diciotto ore al giorno. Un lavoro così sfiancante, un ambiente così malsano che vedere tuo padre che muore di peritonite tubercolare e tua madre che sbarca il

lunario confezionando fiori di carta può apparire ai tuoi occhi di ragazzo come qualcosa di irreale, di altro da sé, una scena di un film dove il personaggio principale non sei tu. E lo stesso morbo tubercolare ti accorgi invece che era proprio nel tuo di film, quando colpisce anche te, riducendoti quasi un vegetale tra la vita e la morte in un lettino, in casa per mesi. Tua madre che non sa come risollevarti il morale, perché niente può alleggerire quella situazione, insieme a quella carta raccolta ai bidoni o regalata da chi poteva permettersi di comprare riviste dei divi del cinema e giornali, metteva da parte i fumetti dei supereroi per leggerteli o farteli leggere da solo, sempre che tu ci fossi riuscito. Ti ritagliava figure che appena avevi un po’ di forza avresti potuto da solo incollare per creare storie tutte tue. Questo ti fece reagire: riuscisti a superare la malattia mortale e, forbici alla mano, come in preda ad un delirio tubercolotico, un giorno cominciasti a trasformare tutto quel materiale in collage colorati che presto invasero l’angusta casa di Pittsburgh. Serviva più spazio: New York poteva andar bene. Questa fu la tua guarigione. La forma grave di acne che ti affliggeva e che ti teneva lontano dai coetanei, non ti fece passare la voglia

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di creare e affidandosi al tuo slancio pittorico, partisti alla volta della Grande Mela. Negli anni ’50, usciti dalla Grande Depressione (anche se dentro te ne rimaneva una tutta tua, non avendo ancora capito quale fosse la tua vera sessualità, venendo discriminato anche per quella) i supermercati ora traboccavano di merci che attendevano solo una pubblicizzazione. Nascevano agenzie di pubblicità. E tu sembravi lì appositamente ad attendere di fare quello. Le icone pop più pop del momento, cioè Coca Cola, la zuppa Campbell e Marylin Monroe, aspettavano solo te per ricoprirti da ora in avanti di dollari a profusione e innalzarti il tempio dell’arte newyorkese: la Factory. Qui, appunto come in una fabbrica, tu e la tua Corte dei Miracoli producevate senza sovrastrutture e pretese culturali, l’arte diventava oggetto di consumo, comunicazione di massa, manifesto di una città multimediale. Ed ecco che ora eri l’uomo e l’artista fusi insieme: con i tuoi amori e in primis Truman Capote il tuo alter ego; i tuoi seguaci e in primis Basquiat e i suoi graffiti drogati; le tue mitomani con istinti omicidi e in primis Valerie Solanas e la sua pistola che ti segnò a vita; le tue muse e in primis Edie Sedgwick che ti sarà per sempre un peso sulla coscienza per il suo suicidio da barbiturici in seguito ad alterni e prolungati internamenti per anoressia, di cui molti ti

considerarono responsabile morale. Spaurito come un fantasma, con in tasca cento milioni di dollari in una busta di carta, eri ora ai vertici del Gotha dell’arte mondiale e guardavi tutti dall’alto ma non per alterigia ma per fare un’attenta analisi del mondo circostante e dei singoli soggetti. Senza cinismo né freddezza ma solo con tanta tua atavica timidezza e una complessa dose di complessi che ti limitavano nell’avere grandi rapporti umani eri capace di pensare, dire e scrivere cose sensate e bellissime, come dirà di te Capote, definendoti “una Sfinge senza segreti”. Ma comunque, malgrado tutto, finalmente per gli americani e per il mondo sentivi che eri diventato

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bello e sano come avevi sempre ambìto, pur abusando di eroina ed anfetamine. Attraverso la continua provocazione, scampando l’AIDS per un soffio, avevi aiutato l’America a fare un passo avanti per liberarsi del suo viscerale puritanesimo.

Pop poi il morire di un banale calcolo renale: la morte più consonamente assimilabile alle classi popolari e consumistiche dei divoratori di MacDonald, del folclore urbano e merceologico del Pop stesso.

La porcellina rosaAlessandra Paglicci

Nella mia borsa, da qualche mese, c’è una porcellina rosa che sorride, mettendo tra gli altri oggetti una nota di colore e di allegria.Si tratta di una borsina per fare la spesa, di quelle che si chiudono. Quando è chiusa resta infatti solo la testina, con il suo mezzo sorriso, il nasone e le orecchie appuntite.Anche lei , come l’ombrello pieghevole e gli occhiali da sole, ha il suo posto fisso in borsa e si è rivelata molto utile oltre che simpatica.Più di una volta mi ha strappato un sorriso quando, aprendo la borsa e non ricordandomi che il suo posto è lì, me la sono ritrovata davanti all’improvviso, con quell’aria che pare dirmi:

-Ciao Alessandra! Io sono ancora qui con te. Come va oggi? Che facciamo? Mi porti fuori? Sai che mi diverto ad uscire insieme a te, così vedo com’è il mondo fuori da qui. E quando piove mi diverto ancora di più, con tutte

quelle goccioline che s’infilano sotto l’ombrello e mi bagnano il nasino!Ci sono legata p a r t i c o l a r m e n t e perché l’ho comprata quando sono andata a stare in una nuova casa con mia figlia. In qualche modo è un piccolo simbolo di un nuovo capitolo della mia vita.E’ anche fortunata,

perché in questo momento di crisi, almeno lei il “posto fisso” ce l’ha.

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a sciupare il gelato di Angela. Angela rise e cominciarono a parlare come se si conoscessero da sempre.Marta si tolse gli occhiali, aveva sonno era mezzanotte. Chiuse il libro e dopo aver dato un bacio a suo marito, spense la luce per dormire. Prima di addormentarsi ritornò con la mente a quando era giovane, a quella gita a Pisa con le amiche del cuore, quando inciampò e il gelato andò sulla camicia di Franco. Già Franco era un po’ che non ci pensava. E non voleva pensarsi, voleva solo dormire. Quel giorno Alice aveva un cappello color arancio con la tesa molto larga, gli occhiali grandi e scuri, i capelli sciolti e come dettava la moda del momento, camicia a fiori e pantaloni a vita bassa e a zampa di elefante. Dopo diversi giorni che si erano sentiti per telefono adesso si incontravano. Angela era felice e lo era anche Gianni. Gianni capelli neri e arruffati, un po’ lunghi, portava la barba un po’ lunga e le basette allungate. L’aspetto di studente era evidente, ma in questa primavera del 68 tutti i ragazzi sembravano uguali. Pisa era piena di sole e Piazza dei Miracoli era un via vai di turisti e studenti. Le facoltà universitarie erano tutte occupate e le lezioni venivano tenute in autogestione, con i pochi docenti che condividevano la lotta degli studenti. Dopo i fatti di gennaio, l’occupazione della Facoltà di Chimica e Fisica, contro

Cominciò a leggere. La storia si svolgeva a Pisa e come tanti autori aveva cominciato con la descrizione di una giornata come tante. Non era sicura di aver incontrato subito il personaggio principale del libro, perché si parlava di un ragazzo, Gianni, che frequentava la Facoltà di Lingue a Pisa, lezioni la mattina e il pomeriggio, studiare la sera e qualche incontro con gli amici e ci compagni di studio. E poi arrivò lei. Era una ragazzina che da poco aveva terminato gli studi magistrali, ma non aveva continuato a studiare, anche se le sarebbe piaciuto. I genitori non si potevano permettere di avere un altro figlio all’Università ed era toccato al fratello maggiore continuare gli studi. Così Angela aveva trovato lavoro e così contribuiva anche all’economia della famiglia. Aveva conosciuto Gianni durante una gita a Pisa con le sue amiche. Era più grande di lei di qualche anno e il primo incontro non era stato dei migliori.Angela passeggiava fra le bancarelle lungo la strada che costeggia la Piazza dei Miracoli, e Gianni veniva dalla parte opposta a testa bassa leggendo un libro di chissà che cosa aveva detto Angela. E così mentre entrambi camminavano lei spiaccicò il suo gelato sul libro di Gianni e lui, dopo essersi ripreso dallo shock da scontro con un gelato, si accorse degli occhi verdi di Angela e non poté fare a meno di scusarsi, come se fosse stato lui

La donna di carta (seconda parte)Cinzia Giuntoli

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la riforma presentata dal ministro democristiano Gui, il movimento studentesco aveva poi occupato il palazzo della Sapienza. Lì i lavori di occupazione e di protesta avevano portato alla stesura della “Tesi della Sapienza” dove la nuova politica studentesca prendeva consistenza. Gli studenti sentivano la necessità di un sindacato che controllasse la formazione dello studente così come la definizione dello studente come forza lavoro nel processo di addestramento e quindi di essere meritevole di essere retribuito per il loro lavoro. La contestazione di era allargata, ma soprattutto viveva del momento internazionale.La Francia, gli Stati Uniti la Germania erano in fermento.Il 10 maggio a Parigi nelle strade del Quartiere Latino compaiono per la prima volta dalla fine della guerra le barricate innalzata dagli studenti della Sorbona per protesta contro la chiusura dell’Università una settimana prima Il 3 maggio. Dopo le barricate, il 13 maggio, lo sciopero generale aprì la protesta alle occupazioni delle fabbriche e a fine maggio anche i giornalisti dell’Office de la radio et tèlèvision francaeise entrarono in sciopero. Questi fatti avevano coinvolto Gianni, ma adesso aveva nella testa solo Angela, con quel cappello arancio e la camicia a fiori che non

lasciava niente all’immaginazione, non riusciva a pensare ad altro. Sulla Vespa presa in prestito, Angela si teneva il cappello con una mano e l’altra era ben stretta intorno alla vita di Domenico. Li aspettava una giornata di vacanza sulle spiagge di Tirrenia. La protesta, gli studi, il lavoro, i genitori per un giorno potevano aspettare.Marta leggeva velocemente. La mattina, aveva fatto presto le sue commissioni e aveva ripreso il libro per leggere alcune pagine. Si era fatto la sua caffettiera da 1 tazzina per potersi bere un caffè mentre leggeva. Ma il caffè era freddato e lei non se ne era nemmeno accorta.

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miei. Ci vediamo quando torni. Sai dove trovarmi.” Sbattè la porta e se ne andò. Angela credeva nella lotta degli studenti, ma viveva un momento diverso. Non respirava l’aria di rivolta e di protesta come Gianni, e molto spesso, anche se aveva partecipato a vari scioperi generali, sperava che tutto finisse per poter trovare una normalità che ancora non aveva assaporato.Gianni rimase nella sua stanza da studente, solo. Si buttò sul letto e poi decise sul dar farsi. Non importava mettersi in ghingheri, si infilò la felpa i jeans e l’eschimo. Alla Bussola di Focette quella sera cantava Fred Bongusto e Shirley Bassey. Si ritrovò con alcuni compagni e verso le 21 erano già di fronte alla Bussola. Insulti ed urla cominciarono subito a far salire la tensione, e le signore in vestiti da sera tutte scintillanti con i relativi accompagnatori si affrettavano ad entrare nel locale. In poco tempo i contestatori diventarono qualche centinaio e la situazione cominciò a degenerare. Le urla degli studenti coprivano la musica che veniva dalla Bussola. Poi la polizia, la carica contro gli studenti, le urla dei ragazzi nel buio della notte. A mezzanotte non si sentirono solo le botte delle bottiglie dello spumante, ma anche gli spari.Marta piangeva, si ricordava quella notte come se la stesse vivendo adesso. I suoi genitori stavano festeggiando l’ultimo dell’anno e lei era in casa assieme a loro. Dopo gli auguri di mezzanotte si erano messi a giocare a tombola, ma Marta non

Ad ogni rigo che leggeva sapeva benissimo cosa sarebbe successo al periodo successivo. All’inizio pensava che come tutte le storie relative ad un periodo già vissuto in qualche modo ci si riconosceva, ma questo era troppo. Si ricordò del cappello color arancio “Forse ce l’ho ancora” e andò a cercarlo in soffitta. Tutto polveroso lo trovò assieme ai pantaloni a vita bassa. “No! Non è possibile! Ma che mi stà succedendo!”.Tornò in cucina dove aveva lasciato il libro e continuò a leggere.“Ma cosa credi che io mi diverto a passare l’ultimo dell’anno a protestare. Certo che mi piacerebbe andare a ballare in qualche posto con te, ma questo è troppo importante!” Gianni era sconvolto, non aveva mai litigato con Angela e adesso farlo un uno stupido cenone di San Silvestro li sembrava veramente inutile. Il gruppo degli studenti universitari aveva organizzato per quella sera una dimostrazione davanti alla Bussola. Come a Milano, dove gli studenti avevano protestato, anche contro i loro genitori, davanti alla prima della Scala, anche loro volevano protestare contro un mondo falso e pieno di ipocrisia, che in un momento come questo pensava solo al divertimento. Angela avrebbe voluto partecipare con Gianni alla manifestazione, ma per i suoi genitori il cenone di San Silvestro era un momento per ritrovare vecchi e nuovi amici e festeggiare tutti insieme e lei avrebbe voluto anche Gianni a questa festa.“Bene fai come vuoi. Io resto a casa con i

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giocava. Erano le tre e ancora Franco non aveva chiamato e lei era in pena. “Testa calda! Accidenti a te. Scapperei e ti verrei a cercare, tanto mi manchi!” scriveva sul diario, quel diario che non aveva perso l’abitudine di riempire da quando aveva smesso di studiare. Alle 3 e ½ squillo il telefono. Lei corse a prendere la cornetta, non poteva essere che lui. “Marta, sono Franco” piangeva. “Franco che succede, dove sei?” un minuto di silenzio “Sono da amici a Viareggio.” Ancora silenzio. “Domani ci vediamo. Adesso vado a letto.” “Cosa è successo Franco?” Ancora silenzio, poi i singhiozzi ripresero, non riusciva a parlare. “Franco parla per favore. Stai bene?” “Ci hanno sparato addosso come se fossimo stati animali pericolosi. Hanno sparato non in aria, ma hanno sparato per colpirci – silenzio – hanno ferito un ragazzo alla schiena. Adesso è in ospedale. Marta ti saluto ci sentiamo domani.”Marta rimase con la cornetta in mano. Cosa era successo? Hanno sparato? Chi? A chi? La mattina del 1° gennaio i giornali non riportarono la notizia perché non uscirono, ma la televisione ne fece un gran parlare. Un ragazzo era rimasto gravemente ferito negli scontri fra la polizia e gli studenti universitari alla Bussola. I dimostranti erano stati dispersi e la serata era finita senza altri incidenti. Marta ricordava tutto benissimo, poteva non leggere più il libro, sapeva tutta la storia ormai.

“Perché devi partire?” Angela aveva il viso rigato dalla lacrime. Gianni era stato richiamato a casa dai suoi genitori. Dopo i fatti del 31 dicembre non avevano più intenzione di lasciarlo a Pisa. Erano dei grossi commercianti in prodotti agricoli e avevano la loro attività nelle campagne romane. Gianni aveva deciso di intraprendere la carriera universitaria anche per uscire dal giro della frutta e verdura ed avevano acconsentito. Ma adesso le cose stavano cambiando, e se Gianni non sapeva gestirsi gli studi da solo ci avrebbero pensato loro. Alice e Gianni erano nella stanzetta universitaria, e lui stava facendo la valigia. Si volse e vide che piangeva. Le accarezzò piano il viso e la baciò sulle labbra. “Dai piccolina non fare così. Roma è vicina. Appena i miei si sono calmati io torno. Ci sentiamo tutti i giorni e poi si può prendere un treno in qualsiasi momento.” Gianni riusciva sempre a vedere la parte migliore delle cose. Anche adesso, in un momento così duro per il loro rapporto, riusciva a trovare tutte le possibilità per continuare a vedersi.“Ricordati di scrivere sul tuo diario: io amo Gianni e Gianni ama Alice, questo conta, il resto del mondo può fottersi.” Rise Alice, e scrisse la frase a caratteri cubitali sul diario. Si abbracciarono e poi fecero l’amore dolcemente, senza furia per godersi ogni attimo di quei pochi minuti che rimanevano. La sera alle 20,00 Gianni prese il treno e tornò a Roma.Marta era sconvolta, ad ogni rigo che leggeva si rivedeva, lei e la sua storia con Franco. Il diario! Devo ritrovare

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il diario, queste cose erano tutte scritte lì. Andò in soffitta, ma niente, rovistò in tutti gli scaffali senza alcun risultato. Era l’ora di cenare. Ci avrebbe pensato dopo cena, adesso doveva tornare alla sua vita. La sera a tavola cercò di non far trapelare nulla da suo viso, ma il piccolo Andrea gli andò in collo e l’abbraccio “Nonna, se ti fa male la golina e non puoi parlare non importa. Quando vai a letto però bevi il latte con il miele!” ci fu un attimo di silenzio e poi una risata collettiva. Il suo piccolino si preoccupava di lei come lei aveva sempre fatto con tutti. Doveva porre fine al tormento che le dava il libro, sapeva benissimo la fine.La sera andò a letto presto. Accese la luce e lesse le ultime pagine del libro.Roma verso la fine del mese di febbraio si preparava alla visita del Presidente Nixon. Ma il momento non era dei migliori. Gli studenti si erano mobilitati in tutta Italia contra la nuova riforma dell’Università proposta dal Ministro Sullo e gruppi di neofascisti cercavano di contrastare l’attivismo dei movimenti di protesta.Alice era preoccupata. Il suo Gianni non si sarebbe tirato indietro e sicuramente lo vedeva già impegnato in questa nuova fase della protesta. Si sentivano ogni giorno alle 14,00, quando lei aveva finito il turno di lavoro ed era a casa. Qualche volta si erano anche incontrati. Gianni prendeva il treno delle 5 la domenica mattina e arrivava a Pisa alle 12,00. Stavano insieme tutto il giorno e poi

lui ripartiva per Roma la sera alle 20. Gianni li raccontava della nuova facoltà di Lingue e Letteratura straniera e dei nuovi compagni di corso e di protesta. Le lezioni non erano ancora regolari, ma lui tutte le mattine andava in facoltà, organizzava la protesta, il volantinaggio, seguiva qualche corso autogestito, partecipava alle assemblee. Ma Alice non era mai soddisfatta di quello che lui le raccontava. Gli chiedeva delle compagne di facoltà e cosa faceva quando non era all’Università. Gianni rideva. “Sei gelosa? Ma dai! I vedo soli i tuoi occhi verdi. Ricordati: Alice ama Gianni e Gianni ama Alice, questo conta, il resto del mondo può fottersi.” Era diventato il loro motto e si salutavano sempre così quando si lasciavano. Ma quell’inverno stava diventando caldissimo.Gruppi di estremisti provocarono incidenti davanti a Licei e Istituti tecnici della capitale, scontrandosi anche con gli studenti della Facoltà di Scienze Politiche, assalendo la libreria Feltrinelli e la sede Rai di via Teulada, arrivando ad azioni violente tra il 13 e il 19 febbraio.Il pomeriggio del 28 febbraio, Nixon stava arrivando a Roma, e con lui le manifestazioni dei neofascisti si fecero più violente.Gianni quel pomeriggio non riuscì a mettersi in contatto con Alice. Ma era una giornata importante. Roma era tutto in fermento e i movimenti studenteschi stavano preparando il corteo che avrebbe sfilato per le strade di Roma. Era una bella giornata di sole. Gianni sfilava nel corteo per le strade di Roma con alla

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testa un cordone di parlamentari del Pci e del Psiup.Cercavano di raggiungere l’ambasciata americana, ma le cariche della polizia e dei carabinieri impedirono al corteo di arrivarci. Gianni si trovò in mezzo agli scontri che durano fino a sera inoltrata.Marta chiuse gli occhi. Rivide le scene che aveva più volte letto sui giornali. Gruppi di neofascisti dettero assalto alla città universitaria al fianco delle forze di polizia.La sera del 29 febbraio un gruppo di estremisti si diressero verso il Magistero occupato dagli studenti. Tirano sassi e poi razzi usati per i fuochi d’artificio per forzare l’ingresso dell’edificio. Non riuscendo nel loro intento gli assalitori appiccarono fuoco alla porta e tutto questo senza nessun intervento da parte della polizia.Franco era nel palazzo insieme ad altri pochi studenti. Quando videro il fumo salire per le scale si diresse insieme agli altri al quarto piano, cercando una via di fuga. L’unica via di fuga era dalle finestre. Franco si arrampicò su un cornicione, ma la traversina di marmo che sorreggeva il ragazzo non resse, si sbriciolò e Franco cadde al piano terra. Fu trasportato, con ritardo, al Policlinico, ma non sopravvisse.Era l’una di notte, il libro fra le mani di Marta era chiuso. Lei piangeva piano. Era tornata indietro nel tempo e non capiva perché, perché tutto questo dolore che tornava. Il libro, chi

lo aveva scritto, chi era che conosceva così bene la sua vita. Prese il portatile e cominciò a cercare l’autrice del libro. Maria Colombari. Dai dati di google uscirono una serie di siti dove si parlava dell’autrice di “Donna di carta”. C’era anche un sito della stessa autrice, ma non c’era la possibilità di contattarla. Poi nelle news un articolo, su un’iniziativa che la scrittrice terrà alla Fiera del Libro a Torino. “Non posso mancare.” Pensò Marta.La fiera del Libro a Torino è sempre un’occasione unica per scrittori, lettori e case editrici. La casa editrice di Maria Colombari, non è molto famosa, ma nello stand presentava una serie di novità, fra cui saggi, romanzi e anche delle storie per ragazzi. Marta era titubante. Cosa le avrebbe chiesto? Alle 15,00 iniziava l’incontro con l’autore e il libro di cui si parlava era proprio “Donna di carta”. Sul palco c’erano due giornalisti dell’Espresso e Maria Colombari. L’argomento era il 68, le sue vicende e quello che rappresenta per le nuove generazioni. Ma Marta non riusciva a seguire. Guardava fissa la Colombari per ricordarsi se era qualche volta entrata nella sua vita, come faceva a sapere tutto delle sue vicende e perché, perché le aveva pubblicate. Mille domande nella testa di Marta e intanto il tempo passava e anche l’intervista giunse al suo termine. L’applauso finale fece scuotere Marta, che prima che tutti se

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ne fossero andati si alzò e si diresse verso la Colombari. “Mi scusi.” Disse avvicinandosi alla scrittrice che stava firmando i libri sulla copertina. “Si adesso le firmo il suo libro. Vuole una dedica?” disse la Colombari senza porre attenzione a chi aveva di fronte.“No grazie, io sono Alice!” La scrittrice rimase ferma, poi alzò lo sguardo e fissò gli occhi di Marta. “La stavo aspettando!”Uscirono insieme, né Maria e né Marta avevano detto nulla. Si fermarono ad un caffè e ordinarono.“Credo di doverle alcune spiegazioni, possiamo darci del tu Marta?”Marta annuì. “Dal momento in cui ho cominciato a scrivere ho vissuto tutte le sue passioni ed emozioni e aspettavo questo momento per ringraziarti.”Marta non capiva ancora cosa stava

succedendo. Era arrivata arrabbiata a quell’incontro e adesso era totalmente disarmata.“Ecco.” Disse Maria tirando fuori dalla borsa un diario “La soluzione è tutta qui. Il tuo diario è finito su una bancarella di libri usati, in mezzo ai libri di storia e geografia”Marta prese il suo diario fra le mani. “Non so’ cosa dire. Non so se sono arrabbiata per aver messo in piazza tutti i miei sentimenti o se sono contenta per averli rivissuti.” “Fai come credi. Io ho solo tratto dal tuo diario una storia troppo bella e mi sembrava giusto ridare vita a tutti quei ragazzi che la vita l’hanno persa per un ideale”Marta aprì il diario, una pagina a caso, la più importante. A caratteri cubitali c’era scritto: “Marta ama Franco e Franco ama Marta, questo conta, il resto del mondo può fottersi”.

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1. La Libreria Martin Eden e l’Agenzia Letteraria Martin Eden indicono il secondo concorso letterario “Max Aub”;2. il concorso è aperto a tutti i cittadini italiani e stranieri, senza limiti di età;3. il concorso è riservato a racconti in lingua italiana che non superino i 20.000 (ventimila) caratteri spazi inclusi;4. ogni scrittore può partecipare al concorso con un solo racconto;5. il tema del concorso è “What if…?” cioè “Cosa sarebbe successo se…?”. Gli autori dovranno immaginare una ucronia, un percorso alternativo della storia. Tanto per fare un esempio: cosa sarebbe successo se Hitler non avesse fatto la campagna di Russia o avesse vinto la guerra?;6. non c’è limitazione né al periodo storico (o al personaggio storico) cui si voglia fare riferimento né al genere letterario del racconto;7. gli elaborati dovranno essere redatti al computer e dovranno avere le seguenti caratteristiche: a. dimensione 11 pt. b. interlinea 1,5 c. allineamento Giustificato d. le pagine dovranno essere numerate e. tra il titolo e il testo del racconto dovrà essere lasciata una riga vuota f. il documento modello per la stesura del racconto lo potete trovare sul sito della libreria (www.libreriamartineden.it) nella sezione dedicata al concorso (modello A)8. i racconti dovranno essere spediti per posta elettronica all’indirizzo:[email protected]. Il messaggio dovrà avere come oggetto Concorso letterario “Max Aub” e nell’allegato, oltre al racconto, dovrà essere inserito, in due documenti a parte, una scheda con i dati anagrafici dell’autore del racconto (cfr. modello B) e la liberatoria che autorizzi la pubblicazione del titolo del racconto e del nome dell’autore sul sito della libreria (cfr. modello C); nel caso la liberatoria non venga inviata, il racconto sarà compreso sotto la dicitura “Altri racconti”;9. termine ultimo per l’invio dei racconti è sabato 29 settembre 2012 alle ore 12.00;10. la premiazione dei racconti vincitori si svolgerà domenica 11 novembre 2012 in ora e luogo da stabilire;11. la tassa di partecipazione al concorso è di Euro 10,00 (dieci/00). Il pagamento può essere fatto tramite bonifico bancario: IBAN IT29A0316501600000011700468 intestato a Libreria Martin Eden, nella causale del bonifico dovrà essere scritto il titolo del racconto e il nome dell’autore;12. l’autore del racconto che risulterà vincitore si aggiudicherà un abbonamento di un anno alla rivista INTERNAZIONALE; al secondo e al terzo classificato verranno regalati buoni acquisto alla Libreria Martin Eden;13. per qualsiasi chiarimento riguardo il concorso potete scrivere all’[email protected] o telefonare al numero 0571242893 tutti i giorni (tranne il lunedì mattina e la domenica) dalle ore 9.00 alle ore 13.00 e dalle 16.00 alle 20.00.