Odori pericolosi: trattamento del cadavere e simboli...

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1 PUSSETTI, Chiara, 2005, «Odori pericolosi: trattamento del cadavere e simboli olfattivi tra i Bijagó di Bubaque (Guinea Bissau)», em Remotti, Francesco (ed) Morte e trasformazione dei corpi, Torino, Edizioni Lindau Chiara Gemma Pussetti «Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamorfosi» (Convegno Nazionale 21-23 ottobre 2004) Odori pericolosi: trattamento del cadavere e simboli olfattivi tra i Bijagó di Bubaque (Guinea Bissau) In anni recenti l’antropologia ha messo in evidenza come la strutturazione dell’esperienza sensoriale possa variare da una cultura all’altra in sintonia con l’enfasi accordata e i significati attribuiti a ciascuna modalità percettiva. Diversi autori - appartenenti al filone teorico definito “antropologia dei sensi” - hanno rivolto una crescente attenzione ai modi di percezione non visuali: tra questi in ambito italiano voglio ricordare Alessandro Gusman che ha da poco pubblicato un libro dedicato all’antropologia dell’olfatto (Gusman 2004). Lo scopo di questo saggio è proprio stimolare una riflessione sull’efficacia simbolica dell’olfatto, utilizzando il caso del trattamento del cadavere tra i Bijagó della Guinea Bissau 1 . Come vedremo, l’odore della decomposizione è associato alla corruzione morale e al disordine sociale: è un miasma che contagia, indebolisce, attira gli stregoni iabané minacciando la comunità. È però anche un odore legato a sostanze potenti, in grado di nutrire, di generare vita, di assicurare la fertilità dei campi. Il concetto bijagó che prendo come punto di partenza è il verbo n’owán, che significa “puzzare, emanare cattivo odore”. Il termine si riferisce in particolare al fetore della decomposizione (tant’è che il termine bijagó per “decomposizione” è owín, letteralmente “la puzza”), ma è utilizzato anche per indicare il tanfo del pesce, l’odore acre della carne bruciata, dell’olio di palma rancido, degli escrementi e del sangue mestruale. Owán sono anche le esalazioni legate al parto: l’odore dei genitali femminili, della placenta e del neonato non ancora lavato. Sono cose maleodoranti secondo i miei informatori, in quanto umide, grezze e molli. Numerose pratiche post-partum hanno infatti la finalità di eliminare il cattivo odore emanato dalla madre e dal bambino e di rendere quest’ultimo duro e secco il più in fretta possibile. A questo scopo le puerpere e i neonati vengono lavati e massaggiati più volte al giorno con infusi aromatici, accanto a un fuoco sempre acceso alimentato con legno di sandalo. A entrambi 1 Questo contributo è frutto di una ricerca condotta a Bubaque, l’isola principale dell’arcipelago dei Bijagó (1994, 1997, 2000, 2001, 2002). Quest’isola, un tempo sede dell’amministrazione regionale portoghese, si situa nella regione sudorientale dell’arcipelago e ospita al momento una popolazione di circa duemila individui, distribuiti in dodici villaggi.

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PUSSETTI, Chiara, 2005, «Odori pericolosi: trattamento del cadavere e simboli olfattivi tra i Bijagó di

Bubaque (Guinea Bissau)», em Remotti, Francesco (ed) Morte e trasformazione dei corpi, Torino, Edizioni

Lindau

Chiara Gemma Pussetti

«Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamorfosi»

(Convegno Nazionale 21-23 ottobre 2004)

Odori pericolosi: trattamento del cadavere e simboli olfattivi tra i Bijagó di Bubaque

(Guinea Bissau)

In anni recenti l’antropologia ha messo in evidenza come la strutturazione dell’esperienza

sensoriale possa variare da una cultura all’altra in sintonia con l’enfasi accordata e i significati

attribuiti a ciascuna modalità percettiva. Diversi autori - appartenenti al filone teorico definito

“antropologia dei sensi” - hanno rivolto una crescente attenzione ai modi di percezione non

visuali: tra questi in ambito italiano voglio ricordare Alessandro Gusman che ha da poco

pubblicato un libro dedicato all’antropologia dell’olfatto (Gusman 2004). Lo scopo di questo

saggio è proprio stimolare una riflessione sull’efficacia simbolica dell’olfatto, utilizzando il caso

del trattamento del cadavere tra i Bijagó della Guinea Bissau1. Come vedremo, l’odore della

decomposizione è associato alla corruzione morale e al disordine sociale: è un miasma che

contagia, indebolisce, attira gli stregoni iabané minacciando la comunità. È però anche un odore

legato a sostanze potenti, in grado di nutrire, di generare vita, di assicurare la fertilità dei campi.

Il concetto bijagó che prendo come punto di partenza è il verbo n’owán, che significa

“puzzare, emanare cattivo odore”. Il termine si riferisce in particolare al fetore della

decomposizione (tant’è che il termine bijagó per “decomposizione” è owín, letteralmente “la

puzza”), ma è utilizzato anche per indicare il tanfo del pesce, l’odore acre della carne bruciata,

dell’olio di palma rancido, degli escrementi e del sangue mestruale. Owán sono anche le

esalazioni legate al parto: l’odore dei genitali femminili, della placenta e del neonato non ancora

lavato. Sono cose maleodoranti secondo i miei informatori, in quanto umide, grezze e molli.

Numerose pratiche post-partum hanno infatti la finalità di eliminare il cattivo odore emanato

dalla madre e dal bambino e di rendere quest’ultimo duro e secco il più in fretta possibile. A

questo scopo le puerpere e i neonati vengono lavati e massaggiati più volte al giorno con infusi

aromatici, accanto a un fuoco sempre acceso alimentato con legno di sandalo. A entrambi

1 Questo contributo è frutto di una ricerca condotta a Bubaque, l’isola principale dell’arcipelago dei Bijagó (1994, 1997, 2000, 2001, 2002). Quest’isola, un tempo sede dell’amministrazione regionale portoghese, si situa nella regione sudorientale dell’arcipelago e ospita al momento una popolazione di circa duemila individui, distribuiti in dodici villaggi.

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vengono legati in vita piccoli amuleti contenenti radici di liquirizia e foglie essiccate di yayi (una

pianta della famiglia delle Annonaceae, identificata come Uvaria Chamae), il cui odore gradevole

dovrebbe allontanare gli stregoni e le persone invidiose. La similarità olfattiva tra morte e

nascita non è accidentale, ma è legata al fatto che sono momenti di transizione paralleli, parte di

un unico processo piuttosto che fenomeni distinti. Alcuni antropologi che si sono occupati di

odori in altri contesti etnografici hanno osservato che spesso i momenti di crisi vitale, quali la

nascita, la morte, l’iniziazione, sono caratterizzati da una comunione olfattiva: è il caso per

esempio dei Sasak dell’isola di Lombok illustrato da Kari Telle (2003) e dei Buli dell’isola di

Halmahera (Indonesia Orientale) studiato da Nils Bubandt (1998).

Ci sono diversi termini olfattivi nella lingua bijagó che si riferiscono a odori cattivi e a odori

piacevoli. Ciò nonostante, nessuno di questi ha il significato simbolico del verbo n’owán. Il mio

interesse per ciò che viene considerato owán riguarda sia il modo in cui i Bijagó esprimono

giudizi morali attraverso metafore olfattive, sia le “pratiche” che vengono messe in atto per

contrastare, contenere e celare questo particolare odore. Sebbene la maggior parte delle persone

con cui ho parato sostenga che sarebbe preferibile non dover mai sentire owán - in quanto

indissolubilmente legato alla corruzione del corpo e inoltre contagioso e pericoloso come

fenomeno in sé - si tratta tuttavia di un’esperienza alla quale, come alla morte, non è possibile

sfuggire. Owán è infatti in primo luogo l’odore del cadavere, della putrefazione delle carni, che

in occasione di ogni decesso causa ansietà nell’intero villaggio.

Nonostante che nell’escatologia bijagó vita e morte siano considerati due poli di continuità,

nel senso che l’energia vitale orebok2 sopravvive alla corruzione del corpo per poi ritornare in

vita in occasione di una nuova nascita attraverso il ventre di una donna, i miei informatori

parlano della morte come di un evento terribile, dirompente, che colpisce a fondo sia

l’individuo, costringendolo a confrontarsi con la drammatica realtà della sua precarietà

esistenziale, sia la comunità, che subisce la perdita di uno dei suoi membri3. Se nelle cerimonie

funebri l’accento è posto non sulla fine dell’esistenza, sulla separazione e sulla frattura dei

2 La traduzione della nozione di orebok presenta diversi problemi. Nessuno degli autori che se ne sono occupati ne dà una definizione chiara e adeguata, limitandosi a riportare i termini con cui viene tradotto in kriol, la lingua veicolare della Guinea Bissau: alma o spiritu (anima, spirito), dufuntu (morto, defunto) e iran (tutte le “entità spirituali” come anche gli oggetti materiali che le presentificano nella quotidianità, come sculture e amuleti). Tradurre orebok come anima o spirito, rende solo parzialmente conto della plurivocità semantica di tale termine ed è importante sottolineare il rischio di fraintendimenti derivanti dall’applicazione di un lessico spiritualista a istanze che possono essere collocate in specifiche parti del corpo e avere una propria fisicità. Risulta invece più coerente con l’interpretazione indigena equiparare il concetto di orebok a quello di energia o forza vitale. L’orebok, più che il principio immateriale attivo che si manifesta come coscienza individuale, supporto delle più elevate facoltà umane, è infatti un’energia vitale, inizialmente priva di caratteristiche personali, immaginata come un’ombra bianca evanescente aggrappata al dorso del kugbí, il corpo. 3 Si veda Pussetti 2004.

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legami, quanto piuttosto sull’odá, la possibilità del ritorno, della rinascita, tuttavia l’odore

dell’ankataba (letteralmente il luogo del cadavere) contrasta fortemente, e in un modo

percepibile a livello sensoriale, con l’idea bijagó della continuità della vita. L’ankataba come

vedremo è inoltre considerato un luogo pericoloso, un focolaio di impurità in grado di

contagiare i superstiti. Per salvaguardare i singoli individui e l’intera collettività dalle minacce

insite nel cadavere, estrinsecate dal cattivo odore che emana, vengono messe in atto diverse

pratiche, che hanno lo scopo di contrastare i processi di trasformazione e decomposizione che

inevitabilmente occorrono.

Sono le donne che si occupano di tutte le attività che circondano la morte, dal trattamento

del cadavere alla metabolizzazione sociale del lutto 4 . Mentre gli uomini sarebbero infatti

maggiormente esposti alla contaminazione, le donne, in virtù della loro possibilità biologica di

procreare, hanno una relazione privilegiata con la morte5. Non solo le donne - come abbiamo

visto - riportano alla vita i morti permettendo loro letteralmente di rinascere, ma possono anche,

per usare un’espressione locale, «trasformare i morti in vivi». Prestando il loro corpo agli spiriti

inquieti dei ragazzi morti prima dell’iniziazione, le donne permettono infatti a questi defunti di

ritornare nel mondo dei vivi per terminare il cammino prematuramente interrotto6. Se la donna

è portatrice della vita, colei che dà alla luce i nuovi nati, è al contempo responsabile della

comparsa della morte nel mondo. Nella mitologia indigena la donna è sia genetrix mundi, che

genetrix mortis. La creazione dell’umanità, come l’origine della morte e della possibilità di

rinascere, risalgono infatti a un atto volontario della prima donna, Akapakama. Per questo si

crede che la donna abbia il potere sia di dare che di togliere la vita, in quanto, come sostiene un

proverbio locale «ciò che crea, può anche uccidere».

Proprio in quanto dispensatrice di vita e morte, la donna ha l’incarico di occuparsi del

defunto e di prepararne il corpo in vista della pubblica esposizione, che precede l’inumazione.

In primo luogo le donne portano il cadavere al mare per lavarlo: l’abluzione è una pratica

comune ai rituali relativi al parto, alla nascita, all’iniziazione maschile e al culto di possessione

femminile. Il corpo viene poi massaggiato con un infuso di piante odorose e olio di palma, di

modo da renderlo lucido e profumato. Come l’acqua, sostanza inodore e purificante, simbolo 4 Jean Guiart, curatore di una raccolta di saggi sui rituali funebri, ha osservato che in molte culture la donna ha l’incarico di occuparsi del defunto proprio in quanto donatrice di vita, simbolo di fertilità e generazione (1979: 8). 5 Secondo Aníbal J. Lamy, «per i Bijagó il mistero della vita passa attraverso l’utero femminile, a causa della sua forza generatrice: solo attraverso l’utero la vita emerge dalla morte» (Lamy 1985: 150). 6 Questo culto costituisce un singolare caso di possessione prescritta, collettiva e non patologica, in cui tutte le donne, investite dagli spiriti degli uomini morti prima dell’iniziazione, compiono un percorso iniziatico parallelo a quello maschile, consentendo a queste anime, potenzialmente pericolose, di completare il cammino che non hanno potuto percorrere da vivi e quindi di raggiungere serenamente il mondo dei morti, come antenati protettori del villaggio. Si vedano Pussetti 1999 e 2001.

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classico di transizione, anche questi bagni aromatici si ritrovano in tutti i momenti della vita nei

quali avviene un importante passaggio, come simbolo di separazione dall’identità precedente. In

seguito le donne rasano i capelli al defunto e ai suoi familiari in segno di lutto. Il cranio del

defunto viene infine ricoperto con un impasto di carbone, ocra rossa e olio di palma: ancora

una volta la rasatura e l’impasto si usano anche per i neonati, le puerpere e gli iniziandi. Ancora

una volta, la similarità tra gli interventi praticati sul cadavere e quelli che denotano i principali

momenti di transizione e trasformazione della vita illustra una concezione secondo la quale il

momento della morte non costituisce un termine ma piuttosto un ulteriore passaggio all’interno

del grande ciclo dell’esistenza.

In vista dell’esposizione del cadavere, le donne si occupano in seguito di adornarlo,

vestendolo con gli abiti più belli e rappresentativi della sua posizione sociale. Come abbiamo

detto, si pensa che lo spirito sopravviva al disfacimento del corpo: il fetore della

decomposizione tuttavia è un segno troppo forte della fine, della distruzione operata dalla

morte, certamente in grado di mettere in dubbio l’idea della continuità dell’esistenza. Bisogna

quindi contrastare i segni più evidenti della putrefazione e dare l’impressione di un corpo

ancora in vita. Il defunto viene seduto in veranda, legato alla sedia, ad accogliere gli ospiti, viene

fatto danzare a ritmo di musica e partecipare del banchetto in suo onore; gli viene offerto del

riso e del vino di palma; amici e parenti scattano fotografie di gruppo insieme al defunto in

atteggiamento conviviale. Per esperienza personale, quando si arriva all’ankataba non è semplice

capire al primo sguardo chi è il morto tra le persone sedute in veranda. Per dare un’apparenza

credibile di persona viva, è importante limitare - attraverso un’elaborata toilette funebre - la

fuoriuscita di escreti o sangue.

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Viene serrata con un foulard la mandibola

del defunto per impedire alla bocca di aprirsi,

si immobilizza la testa controllando che gli

occhi siano ben chiusi dietro a un paio di

occhiali da sole o da vista, i capelli vengono

impregnati di pomate e unguenti aromatici, e

infine tutti gli orifizi corporali vengono

riempiti di piccoli tamponi di stoffa intrisi di

profumi spesso costosi: il materiale che il

cadavere produce è infatti una sostanza

marginale estremamente pericolosa e

contaminante che potrebbe recare danno ai

vivi. Per lo stesso motivo è importante celare il

cattivo odore generato dalla decomposizione

attraverso l’uso di aromi e fumigazioni

profumate.

Esposizione del cadavere, isola di Bubaque.

Foto: Chiara G. Pussetti.

Vengono bruciate foglie odorose, sostanze balsamiche e legno di sandalo in grande quantità,

mentre il cadavere viene frizionato con foglie di yayi e con una soluzione ottenuta dalla bollitura

di radici di liquirizia, spalmato con talco, creme e profumi, per impedire che l’odore si spanda

incontrollabilmente per tutto il villaggio. Le persone con cui ho parlato sostengono infatti che

l’odore del cadavere non solo è rivoltante, ma anche pericoloso per i vivi. In primo luogo, come

elemento olfattivo in sè, in quanto asfissiante e contaminante, tant’è che si dice che i parenti del

morto non dovrebbero dormire nei pressi al cadavere per non respirarne le fetide esalazioni,

che potrebbero contagiarli, facendoli ammalare o addirittura morire. Il carattere aereo e

difficilmente circoscrivibile degli odori in generale, ne fanno infatti un supporto sensibile ideale

per idee relative alla contaminazione. In secondo luogo, in quanto il tanfo della decomposizione,

definito otrakajáake (rancido), owan’o (cattivo) e ogijón (che fa vomitare), attira fortemente gli

iabané, gli “stregoni”, le cui azioni immorali sono ritenute avere l’odore disgustoso della morte7.

Quest’associazione è sottolineata anche dal fatto che l’ankataba (il luogo del cadavere) e

7 La recente riflessione antropologica sulla politica delle rappresentazioni etnografiche ci invita a utilizzare con senso critico la categoria di “stregoneria”. Questo termine si riferisce infatti a un insieme di pratiche e significati eterogenei, che gli antropologi hanno delimitato adattandoli ai confini di una categoria culturale occidentale. Nella consapevolezza delle implicazioni ideologiche di questa categoria e della natura insoddisfacente di una definizione “etica” nella quale troppo s’avverte l’importanza della storia culturale europea e che riassume, uniformandole in un termine singolo, pratiche spesso irriducibili le une alle altre, ho preferito privilegiare le categorie e i termini indigeni.

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l’ankobané,, termine che indica sia il luogo in cui gli stregoni iabané si riuniscono in segreto per i

loro banchetti cannibalici, sia quello in cui verranno sepolti, sia in generale la foresta densa, fitta,

umida, non disboscata, condividono la stessa atmosfera olfattiva: fetore di putrefazione, di

corruzione, di morte. Non a caso l’ankataba è considerato uno dei contesti privilegiati

dell’azione degli stregoni iabané. La maggior parte degli interventi olfattivi che riguardano il

cadavere sono dedicati proprio a quest’inquietante relazione tra odore di morte e stregoneria.

L’ankataba è un luogo non adatto ai bambini, alle donne gravide e agli ubriachi, categorie di

persone per differenti ragioni particolarmente vulnerabili agli attacchi degli iabané. In ogni caso

chiunque partecipi a un funerale cercherà di tutelarsi con gli amuleti protettivi di cui abbiamo

parlato precedentemente o con lo speciale sortilegio vegetale koratrakó8, destinato a impedire

agli stregoni di rubare l’energia vitale alle loro vittime durante la sepoltura e il periodo delicato

del lutto. Lo stesso odore dolce e balsamico del legno di sandalo e delle foglie aromatiche che

pervade il villaggio, avvolto in una protettiva nube di fumo, serve ad allontanare gli stregoni:

attirati dall’odore nauseabondo della morte sono infatti disgustati dagli odori considerati

comunemente gradevoli.

Sempre per evitare di attrarre gli iabané con i miasmi della decomposizione, il defunto viene

seppellito il più rapidamente possibile 9 . In circostanze normali l’odore della putrefazione

diviene un problema solo dopo un certo lasso di tempo: ci sono però casi in cui il fetore è così

immediato e intenso che non si riesce a celarlo né con fumigazioni profumate né con una

rapida inumazione. È il caso in cui la morte sia stata causata da un atto di stregoneria o in cui lo

stesso defunto, in vita, sia stato uno stregone obané.

Nel primo caso l’obané ruba l’orebok o energia vitale della vittima, che in breve tempo si

ammala, fino a morire. Poiché l’orebok è destinato a dare energia e vitalità alla persona, la sua

perdita determina uno stato di letargia, nel quale l’ammalato non mangia, non si muove, è

incapace di intendere e di volere, e si indebolisce gradualmente fino alla morte. Il decesso non è

immediatamente consecutivo al furto dell’orebok: l’obané può conservare temporaneamente

quest’energia in foresta e possedere nel frattempo il corpo privo di spirito della sua vittima.

Durante questo periodo la vittima rimane in vita senza orebok, per quanto questa mancanza si 8 Il termine koratrakó (pl. n’aratrakó) significa letteralmente “segreto, sacro, proibito”, ma più generalmente viene utilizzato per indicare un sortilegio molto potente composto dall’unione di un intreccio di foglie di palma con un determinato spirito della foresta. Ogni combinazione ha un significato specifico, al punto che si può pensare ai n’aratrakó come a un linguaggio vegetale, che bisogna imparare a decodificare. Un altro modo per indicare il koratrakó è il termine manras, che in senso più generale significa “alleanza, patto, assemblea, iniziazione”. Questo perché il koratrakó è un accordo tra uomini e “spiriti” per agire in modo mistico sugli altri e questa unione avviene nella foresta, come il manras iniziatico. 9 Il termine n’annan (mettere nel ventre) col quale si indica l’inumazione rimanda sia al “ventre della casa” (annani) nel quale vengono seppelliti i morti, sia al ventre femminile (naa), attraverso il quale i morti tornano in vita. Per riferirsi alla sepoltura di qualunque altra cosa si utilizza il termine n’orun.

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traduca in vari sintomi: tra questi il più evidente è n’owan, l’odore della decomposizione. Né

morti né vivi, a metà tra questo e l’altro mondo questi esseri sono caratterizzati principalmente

dalla loro ambiguità, come le descrizioni che mi hanno proposto i miei informatori

testimoniano: “sembra vivo, ma il suo corpo si sta già imputridendo; parla ma la sua voce è

monocorde; i suoi occhi sono senza espressione e la sua carne sa di marcio”. Il decesso dovuto

a stregoneria è qualcosa di spaventoso proprio in quanto rovescia il normale processo della

morte: la vittima è morta ma il suo corpo continua a muoversi, appartiene apparentemente al

mondo dei vivi, ma il fetore che emana indica che la decomposizione è già avanzata.

La seconda circostanza nella quale, come abbiamo detto, è impossibile controllare l’odore

della morte è il caso in cui lo stesso defunto sia stato in vita uno stregone obané. Si dice che i

morti la cui condotta in vita non sia stata propriamente esemplare, puzzino in modo intenso

subito dopo il decesso: commentare l’odore tremendo di un cadavere è un modo di avanzare

velati sospetti di stregoneria nei confronti del defunto o comunque di fare allusioni sulla sua

moralità.

Generalmente si è obané per nascita, o meglio per “eredità” materna: succhiando il latte e

attraverso il contatto corporeo il bambino assorbirà infatti sia le perverse inclinazioni della

madre, sia i suoi poteri sovrannaturali, rendendoli per sempre parte di sé. Si diventa dunque

obané indipendentemente dalla propria volontà: per questa ragione l’obané inizialmente può

ignorare il male che porta in lui e che provoca al suo passaggio delle catastrofi. La figura

dell’obané condensa le caratteristiche di inversione dei valori sociali più volte riscontrate in casi e

contesti analoghi: voli notturni, cannibalismo, trasformazione in animali, nudità, furto

dell’energia vitale, appartenenza a una comunità della foresta, offerte in sacrificio di parenti.

Queste pratiche, che costituiscono agli occhi dei locali un totale sovvertimento della moralità,

suscitano reazioni di disgusto, al punto che vengono associate all’odore repellente della

decomposizione. Di queste azioni immorali infatti si dice che abbiano il fetore che si sente in

foresta, dove si riuniscono gli stregoni: Obané Onam Moo Mowan’o, “l’Obané Fa Cose Che hanno

un odore cattivo”, oppure Obané Onam Moo Mowan Komogói, “l’Obané Fa Cose Marce Che

Puzzano da Fare vomitare”. Obané Otrakajáake Ten Emua Ta Kunsaro, “l’Obané È rancido Di

Odore Nel Comportamento”, Kunsaro Kobané Owán Okataba “Il Comportamento dell’Obané Ha

Odore di Cadavere”, o Obané Owán Oporodók Ta Kunsaro, “l’Obané puzza di putrefazione nel

modo di fare”. Lo stesso termine obané appartiene alla famiglia semantica –bén, alla quale

appartengono verbi come:

- n’obén, che significa essere o fare qualcosa di spregevole, immorale

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- n’obénh che indica sia gli escrementi sia l’atto di defecare, ma significa anche contaminare,

infettare, pervertire, danneggiare;

- n’obénen, marcire, deteriorarsi, ma anche corrompere, logorare;

- n’obeney, che vuol dire ingannare, tradire, mentire

Si potrebbe al proposito pensare a un’analogia tra la morte, che è forse la situazione

prototipica in cui le relazioni sociali vengono distrutte e i legami fratturati, e l’azione della

“stregoneria” obané. Entrambe costituiscono infatti una seria minaccia di disgregazione della

società, scuotono e ristrutturano la comunità, alterano e indeboliscono i legami. Come la

decomposizione “decostruisce” i corpi così - sembra suggerirci l’immaginario olfattivo della

putrefazione - l’azione contaminante dell’obané distrugge i legami famigliari e minaccia l’armonia

del villaggio, rovesciando l’ordine sociale e morale.

Ma quest’odore disgustoso e minaccioso non appartiene solo agli stregoni iabané: è proprio

anche delle persone comuni del villaggio. Non c’è azione che sappia di owán più di quelle

compiute dai propri parenti: laddove non dovrebbero regnare che fiducia e solidarietà si

trovano i n’atribá notrakajáake “i sentimenti10 che sanno di marcio”. Azioni quali l’adulterio, il

furto, l’inganno e la menzogna o emozioni quali l’invidia (n’oniné, letteralmente avere gli occhi

appuntiti, taglienti, perforanti), la vendetta, (n’okoní, che significa anche “sputare addosso a

qualcuno”), la gelosia (korammó, termine con cui significativamente si indica l’altra moglie del

proprio marito, la co-sposa), o n’oróngbok, il cui significato si colloca tra rancore e antipatia, sono

dette avere l’odore della morte ed è impossibile mantenerle segrete perché ammorbano l'aria.

Sono azioni ed emozioni il cui odore nauseabondo viene esplicitamente avvicinato a quello

della decomposizione, simbolo di una corruzione che nasce da dentro, dall’interno del corpo,

sia fisico sia sociale. Quest’odore ammorbante segno di un male insidioso che “nasce da

dentro”, può essere interpretato come l’emanazione sensibile del “lato oscuro” della parentela:

la consapevolezza del fatto che le gelosie, i rancori e le invidie più intense e violente nascono

proprio all’interno della famiglia, dove non dovrebbero regnare che fiducia e solidarietà. Tutte

le relazioni umane, soprattutto quelle di grande prossimità sociale e affettiva, implicano delle

interdipendenze troppo strette per non essere intensamente caricate di sentimenti ambivalenti.

Questo discorso è soprattutto vero per le società di piccole dimensioni, le comunità dalle

interazioni “faccia a faccia”, e a maggior ragione per il più ristretto, intimo e coeso gruppo 10 Il termine n’atribá – che noi in questo caso abbiamo tradotto come “sentimenti” - si riferisce in realtà a tutti quelli che noi definiremmo come stati mentali, andando da ciò che consideriamo “pensiero” a ciò che chiamiamo “emozione”. Sebbene la lingua bijagó possieda diversi termini che indicano gli stati psichici che noi raggruppiamo sotto la categoria di “emozione”, questi fenomeni non vengono classificati separatamente rispetto ad altri che, nel pensiero occidentale, verrebbero definiti “mentali” o “cognitivi”.

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famigliare. «Quando si sente l’odore della putrefazione è segno che i sentimenti marci sono

nella tua stessa famiglia», sostiene Babù, una mia informatrice, e la sua vicina di casa, che

partecipa della conversazione conferma: «i sentimenti peggiori, quelli che possono anche

uccidere, nascono sempre all’interno della famiglia». «Non solo in famiglia è più facile che si

creino sentimenti marci, ma è proprio lì che devi cercare gli stregoni iabané (pl. di obané) -

continua Babú -. I tuoi parenti ti conoscono bene e da molto tempo, conoscono la tua casa,

sanno dove dormi, cosa mangi, possono facilmente raccogliere i tuoi capelli, toccare le tue

cose»11.

Se nella classificazione sensoriale Bijagó è indubbiamente l’udito il senso che riceve la

maggiore elaborazione simbolica, a cui viene associata la conoscenza, la costruzione della

persona, la trasmissione di pensieri ed emozioni12, è però l’olfatto che permette di cogliere ciò

che è inaccessibile agli altri sensi, ciò che è interno, nascosto. Qui coinvolta c’è una nozione

dell’odore come di una sostanza che appartiene e allo stesso tempo comunica l’identità

intrinseca della sua fonte d’origine. L’olfatto in altri termini è il senso che, laddove non arriva la

vista, percepisce in modo immediato e sensuale l’intima essenza dell’altro. Così per i bijagó i

miasmi della decomposizione rivelano immediatamente la corruzione morale: l’odore sarà tanto

asfissiante quanto più empia l’azione commessa.

Le esalazioni della putrefazione - doppio sensibile delle minacce all’ordine sociale – hanno

però una natura ambigua: se per un verso disgustano, fanno scuotere e tremare la struttura

normativa, per l’altro si dimostrano funzionali alla struttura nel suo complesso. Come l’ombra

rende più luminosa la luce, infatti, i cattivi odori, definendo e circoscrivendo comportamenti

socialmente stigmatizzati, riconfermano i principi etici dominanti. L’intera comunità s’impegna

con tutte le sue forze a contrastare n’owan e tutto ciò che quest’odore rappresenta. Ma questo

sforzo si rivela vano non solo perché owán destabilizza il sistema che allo stesso tempo aiuta a

supportare, ma anche perché quest’odore che disgusta e ripugna, fa intimamente parte

11 Tutti i discorsi locali sulla “stregoneria” obané, le congetture, le supposizioni, le ipotesi convergono su un punto: ogni male, sofferenza e sfortuna dipende dall’azione di una persona che ci è vicina. Il momento culminante dei festini notturni degli iabané, ossia il banchetto antropofago dove vengono mangiati i propri parenti, spesso addirittura i propri figli, mette simbolicamente in luce lo stretto legame tra la “stregoneria” obané e il gruppo parentale. Quest’idea della stregoneria come male che si trova all’interno della società si trova anche nel caso etnografico dei Lese della foresta dell’Ituri (Repubblica Democratica del Congo), di cui ci parla Remotti (2000). I Lese ritengono che il kunda, la sostanza cui si deve la morte degli individui, si trovi normalmente nei parenti patrilineari più stretti (per esempio i fratelli) con cui si condivide la residenza nel villaggio (Grinker 1994). 12 Secondo alcuni autori, le società senza scrittura accordano una maggiore importanza all’udito come senso sociale per eccellenza e più in generale alla dimensione acustica dell’esperienza: ascoltare diventa la modalità principale dell’apprendimento, della conoscenza, della socializzazione (Classen 1990; Howes 1991: 9, 271).

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dell’esistenza uman13. Secondo i miei informatori, owán è legato indissolubilmente al trascorrere

del tempo: alla nascita, alla morte, alla mutare e al decadere di tutte le cose. È l’odore che

accompagna i più importanti passaggi della vita di un individuo: la nascita e la morte, il flusso

mestruale e il parto per le donne, la reclusione iniziatica per gli uomini. Si dice infatti che gli

iniziandi nella fase limilare - in cui sono considerati simbolicamente morti alla vita precedente -

puzzino come cadaveri: vengono spesso unti con olio di palma e, come anche nel caso delle

donne possedute, è loro severamente vietato lavarsi col sapone. La capanna iniziatica si trova

inoltre nella foresta più densa, caratterizzata dall’odore owán. Al termine di questa reclusione,

prima di rientrare al villaggio, i ragazzi saranno a lungo lavati con acqua di mare e poi con infusi

profumati, a segnare pubblicamente l’avvenuta trasformazione e il loro ritorno alla vita.

Non dimentichiamo inoltre che il termine n’owan che abbiamo analizzato nel corso di questo

intervento condensa nel suo significato un ampio universo olfattivo: non è solo l’odore della

morte, ma anche del pesce andato a male, del sangue mestruale, dei genitali femminili, dei

neonati e della placenta, sostanze certamente pericolose e contaminanti, ma al contempo

potenti, legate all’origine, al termine e al perpetuarsi della vita. Significativamente, lo stesso

Orebok Okotò, il grande spirito simbolo della comunità - raffigurato nell’isola di Bubaque da una

scultura antropomorfa - racchiude nel ventre un composto di sangue, uova putride, peli, foglie

marce ed altri vegetali in fermentazione, che rappresenta l’energia che sostiene il movimento

degli spiriti dei morti tra l’al di là e il mondo dei vivi, garantendo il legame tra gli antenati e le

generazioni future. In tutte le altre isole dell’arcipelago, l’Orebok Okotò è addirittura

rappresentato solo da questo aggregato informe e maleodorante, racchiuso in una zucca o in

una pentola di alluminio, destinato a corrompersi e ad essere rinnovato periodicamente. Anche

questo amalgama sacro emana un odore che i locali percepiscono come owán: in questo caso le

esalazioni non sono però segno di una putrefazione che aggredisce e distrugge, quanto

piuttosto di una fermentazione creativa, un processo vitale di generazione della vita dalla

morte14.

È dalla putrefazione dei cadaveri inoltre che crescono i frutti della terra dai quali dipende il

sostentamento dei vivi: secondo il mito infatti, “prima che ci fossero gli uomini, dopo che

Nindo ebbe creato la terra ed ebbe deciso di inviarci il primo essere umano, la terra si lamentò: -

Gli uomini mi coltiveranno, lavoreranno su di me, ciò sarà doloroso, come mi ripagherai,

Nindo? - e Nindo rispose: - Gli uomini saranno seppelliti nel tuo ventre, i loro corpi ti 13 Un’interpretazione analoga, seppur in differenti contesti etnografici, viene fornita anche da Nils Bubandt nel suo lavoro tra i Buli dell’isola di Halmahera (1998) e da Kari Telle che ha condotto ricerca tra i Sasak dell’isola di Lombok (2003). 14 Si veda Remotti 2004.

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renderanno fertile e così regolerete i conti. Se con i loro cadaveri non pagheranno il debito ti

potrai vendicare non offrendo più loro le piante e i frutti dei quali si nutrono”.

La decomposizione e i miasmi che l’accompagnano non cessano di essere qualcosa di

repellente, ma sia l’amalgama in fermentazione che costituisce l’Orebok Okotó, sia il dialogo tra

Nindo e la Terra sembrano suggerirci che il perpetuarsi della vita umana come la fertilità

dell’isola non sarebbero possibili senza la morte, senza una putredine che si rivela essere anche

benefica e generativa. La decomposizione, in altre parole, sembra essere allo stesso tempo

qualcosa di atroce ed essenziale della creazione e owán è l’odore che appartiene a questo

continuo processo di degenerazione e rinnovamento. Owán è forse un odore particolarmente

inquietante - potremmo azzardare - proprio perché costringe le persone a confrontarsi con la

profonda ambiguità dell’esistenza: il legame indissolubile tra la vita e la morte, la generazione e

la corruzione, l’ordine e il disordine, la purezza e la contaminazione.

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