LA RIVISTA DEL GALILEI - liceogalileict.it N. 24 DEFINITIVA... · Odori e sapori dell7antico Natale...

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LA RIVISTA DEL GALILEI Direttore responsabile Direttore di redazione Leone Calambrogio Maria Laura Inzirillo Redazione Illustrazione di copertina Gabriella Chisari Fabio Manfrè Maria Grazia La Mastra Gabriella Congiu Marchese Loghi Gabriella Falcidia Pilade Mazzola Maria Laura Inzirillo Gloriana Orlando Direzione e redazione Liceo Scientifico “Galileo Galilei” Via Vescovo Maurizio - Catania www.liceoscientificogalilei.catania.it [email protected] Rivista semestrale Anno 11 - N. 24 - Dicembre 2013 Autorizzazione del Tribunale di Catania n.12 del 30/05/2002

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LA RIVISTA DEL GALILEI

Direttore responsabile Direttore di redazioneLeone Calambrogio Maria Laura Inzirillo

Redazione Illustrazione di copertinaGabriella Chisari Fabio Manfrè

Maria Grazia La Mastra

Gabriella Congiu Marchese LoghiGabriella Falcidia Pilade Mazzola

Maria Laura Inzirillo

Gloriana Orlando

Direzione e redazioneLiceo Scientifico “Galileo Galilei”

Via Vescovo Maurizio - Cataniawww.liceoscientificogalilei.catania.it

[email protected]

Rivista semestraleAnno 11 - N. 24 - Dicembre 2013

Autorizzazione del Tribunale di Catania n.12 del 30/05/2002

Indice

Editoriale 5(Gabriella Chisari)

Odori e sapori dell’antico Natale 11(Domenico Seminerio)

La mia Birmania tra passato e presente 15(Padre Adriano Cadei)

I gioielli e la cosmesi nell’antichità 21(Maria Clara Martinelli)

Quando vedete nespole 27(Francesco Giuffrida)

Lo sguardo della donna-guida 33(Gloriana Orlando)

Tamara De Lempicka e “l’affaire D’Annunzio” 39(Laura Lombardo)

Emmy Nöether: grande matematico e grande donna 47(Anna Maria Di Prima)

Secrets of Longevity 61(Angela Porto)

Sulla femminilizzazione del corpo docente 77(Graziella Priulla)

Senza re né regno 81(Gabriella Falcidia)

facebook ergo sum 85(Maria Laura Inzirillo)

A Taormina, d’inverno 87(Maria Laura Inzirillo)

L’idolatria del contesto 89(Francesco Diego Tosto)

Un mondo di fraternità e pace 95(Vincenza Maria Ignaccolo)

L’ombra della conoscenza 101(Fabio Manfré)

La scuola insegna anche che... 107(Kitty Amato)

I nostri “legali” alla RAI 109(Gloriana Orlando)

Le donne sulla scena criminale mafiosa 113(Mariangela Testa)

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Editoriale

Gabriella Chisari

Con la Direttiva del 27 dicembre 2012 e la successiva circolare n.8 del 6 marzo 2013 il MIUR ha dato indicazioni puntuali e specifichealle scuole per l’inclusione degli alunni con BES, ovvero con BisogniEducativi Speciali, un’ampia e variegata categoria di studenti che purnon essendo in possessodi una diagnosi medica opsicologica (la cosiddetta“certificazione”), presen-tano comunque delle diffi-coltà tali da richiedere unintervento individualizzato.

Nello specifico lanorma include le categoriedi alunni con:

- disabilità ai sensidella Legge n.104 del 1992 per i quali è generalmente previsto l’inse-gnante di sostegno;

- D.S.A. ovvero Disturbi specifici di apprendimento, quali la di-slessia, la disgrafia, la disortografia, la discalculia, oggi regolati dallaLegge n. 170 del 2010;

- altri disturbi evolutivi specifici, quali il deficit del linguaggio ver-bale, la disprassia, il deficit della coordinazione motoria, l’ADHDovvero il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, il funziona-mento intellettivo limite o borderline, ed infine il disturbo dello spet-tro autistico lieve (qualora non rientri nelle categorie previste dallaL.104).

La norma pone l’attenzione anche su tutta una serie di disturbi, dif-ficilmente catalogabili, che colpiscono oggi molti studenti in età evo-lutiva, quali i disturbi d’ansia, quelli dell’umore, i disturbi del com-portamento o della condotta, che portano l’alunno a violare le regolesociali fino ad arrivare anche a casi di reati.

Per ultimo viene inclusa tutta una categoria, non meno importantee diffusa, che comprende quegli studenti che vivono situazioni di svan-taggio linguistico-culturale (vedi gli immigrati), socio-culturale, eco-

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nomico, familiare, affettivo, psicologico, tutte condizioni che spessonon emergono subito e in maniera evidente, ma rimangono sottese ecompromettono la realizzazione di un sereno percorso di studi dell’a-lunno.

La scuola italiana, quindi, è chiamata a farsi carico di queste ampieproblematiche, che non fanno necessariamente riferimento ad unambito biomedico o clinico, ma che coinvolgono altre sfere e altriambiti tra cui quello familiare.

Se infatti dinanzi al problema della disabilità il Consiglio di classepuò essere coadiuvato dal docente di sostegno che sollecita l’appren-dimento dello studente attraverso un percorso curricolare individualiz-zato o differenziato nei casi più gravi, per gli alunni con DSA ilConsiglio di classe è chiamato ad attivare il piano didattico persona-lizzato (P.D.P.) utilizzando gli strumenti compensativi e dispensativiprevisti dalla legge per un più sereno apprendimento (mappe concet-tuali, tempi più lunghi per svolgere le verifiche, audiolibri etc.).

Il problema diventa più difficile da affrontare per quelle categorieche presentano svantaggio socio-culturale, familiare e psicologico,perché ostacoli fortemente condizionanti ma non facilmente risolvibi-li da parte della scuola, in quanto coinvolgono anche affetti, rapportiumani, contesti familiari difficili e talvolta impenetrabili. Penso allescuole che vivono fortemente il problema dell’immigrazione con itraumi conseguenti e delle diverse etnie con inadeguate conoscenzedella lingua italiana, ma anche alle difficoltà psicologiche di moltiragazzi con autostima bassa, stati d’ansia fortemente invalidanti, statidepressivi, tendenza all’aggressione che può sfociare in forme diffusedi bullismo.

Come si può notare, esiste una complessità di situazioni che posso-no essere catalogate come BES e, di conseguenza, una enorme diffi-coltà del corpo docente, non sempre “formato” in tema di competenzepsicologiche e psicopedagogiche per affrontare tale complessità. Lanorma del MIUR dà indicazioni dei percorsi da affrontare, quali lacostituzione del Gruppo di lavoro per l’inclusione (GLI) e la predispo-sizione del Piano Annuale per l’Inclusione (PAI). Ma, a prescinderedalle difficoltà di trovare la strada giusta per ognuno, appare chiaro ilmessaggio dettato dal MIUR: la scuola deve diventare una vera comu-nità di apprendimento “per tutti e di tutti” e questo è possibile se innan-zitutto si condivide il problema tra tutto il personale e si diffonde lasensibilizzazione alla “diversità”; occorre cominciare a guardare aduna organizzazione scolastica generale flessibile e aperta: per “inclu-

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dere” può essere necessario rivedere tempi e spazi (classi aperte, con-tinuità, laboratori), utilizzare strategie didattiche volte ad un apprendi-mento sistemico più immediato, quali il cooperative learning, i giochidi ruolo, le attività laboratoriali, il tutoring.

Ma è soprattutto l’alleanza con le famiglie che gioca un ruolo stra-tegico a tutto vantaggio degli alunni “più difficili”: sono le famiglieche devono collaborare con la scuola per costruire quel “progetto divita” strutturato per il futuro dei propri figli.

Solo così mettendo insieme i numerosi attori in una logica sinergi-ca di rete educativa la scuola potrà diventare “inclusiva” per ognuno eper tutti.

Odori e sapori dell’antico Natale

La mia Birmania tra passato e presente

I gioielli e la cosmesi nell’antichità

Quando vedete nespole

Lo sguardo della donna-guida

Tamara De Lempicka e “l’affaire D’Annunzio”

Emmy Nöether: grande matematico e grande donna

Secrets of Longevity

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Odori e sapori dell’antico Natale

Domenico Seminerio*

Natale era preannunciato dalla variazione degli odori. Odori difumo, di legna e di carbonella, quello solito dell’inverno, con l’ag-giunta di vaniglia e di cannella: odore di dolci e poi di fritture. Odoredi cibo, che solleticava le narici e stimolava la fame. Ma quella nonc’era bisogno di stimolarla, c’era sempre. Per molti. L’odore era dap-prima una scia sottile, che cresceva di intensità e ti avvolgeva nelle suespire invisibili quando arrivavi alla fonte, alle cucine popolate di donneaccaldate e sbracciate sino al gomito. In tutte le case, in tutti i carrug-gi del paese, i vicoli e i vicoletti, così chiamati con parola genevose,retaggio d’una fugace dominazione doriana intorno all’anno mille. Gliodori sembravano prendere consistenza mescolandosi con la nebbia,affettuosamente detta la paesana perché elemento fisso del clima inogni stagione, ma soprattutto d’inverno. E gli odori diventavano bian-chi, come la nebbia, e trasparenti e ti si attaccavano addosso a uno auno, ciascuno con la propria specificità, e poi tuttti insieme, persistenti.

Iniziavano la prima settimana di dicembre, il mese delle feste: “Ilsei Nicola, l’otto Maria, il tredici Lucia, il venticinque il Messia”.Feste di Chiesa e di devozione esibita e di cibi rigorosamente tradizio-nali e di tavole imbandite. A cominciare dal pane, le muffulétte, paninicroccanti impastati col seme di finocchio, da mangiare schitti, senzaalcun accompagnamento d’altri cibi, che rompeva la consuetudine deigrandi pani di semola che duravano anche dieci giorni, custoditi nellecassapanche di legno, dove prendevano consistenza e si arricchivanodi afrori legnosi. Il pane, cibo di elezione, compagno e giustificazionedella quotidiana fatica, a volte da solo o con un po’ di companatico:pecorino stagionato, acciughe sotto sale, olive, pomodori secchi sot-t’olio. Per tanti era il solo nutrimento dei giorni feriali. La domenica onelle feste si indulgeva al peccato di gola con la pasta detta asciutta,per distinguerla dalle semplici minestre brodose dei giorni feriali, dilegumi o tutti i tipi di erbe coltivate o spontanee; la pasta asciutta eracondita col ragù di carne fatto con l’estratto di pomodoro, asciugato al

*Docente di Lettere al Liceo classico di Caltagirone (CT) e scrittore.

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sole dell’estate nei fangòtti, i grossi piatti di ceramica colorata colgallo o altri simboli nel centro. La carne di vaccino o di suino, rara-mente di ovino, comprata dal macellaio, solo di domenica; nelle altrefeste si attingeva agli onnipresenti allevamenti domestici di polli econigli.

Non si comprava niente, se non in casi eccezionali. Non c’erano ifrigoriferi e non c’erano i fornelli a gas. Si consumava tutto fresco, digiornata e in giornata, tranne la frutta, le verdure e la carne di maialeche potevano durare coi sistemi antichi, la confettura, la salatura e lacottura. Forni e fornelli andavano a legna o a carbone, accesi la matti-na e sapientemente governati per mantenere la brace. Carbone dilegna, anzi carbonella, più facile da accendere, anche per i primitivistrumenti di riscaldamento, gli scaldini di rame, individuali, e le con-che, bacili di rame di varia grandezza, attorno alle quali ci si sedeva acerchio per mangiucchiare frutta secca, i passulùni, i fichi essiccati inestate sui graticci di canna, la mostarda di mosto cotto, fatta asciugareentro formelle di terracotta, mentre si intessevano discorsi e pettego-lezzi, con l’avvertenza misteriosa - ci sunu filìnie (ci sono filamentileggeri) - di non toccare argomenti scabrosi che non potevano esseresentiti dalle caste orecchie di ragazze e bambini. Talvolta nella cenerecalda dei bordi si ponevano delle olive e delle uova, da fare alla coquee riservati di solito ai più piccoli. Le olive, solo quelle nere sotto sale,sprigionavano un odore amarognolo e pungente, anche perché spessovenivano bagnate con qualche goccia di aceto.

Ma a dicembre le cose cambiavano, gli odori cambiavano. Dopo lemuffulétte dell’otto, c’era la cuccìa del tredici: grano bollito, che primadella cottura veniva inumidito e poi stricato, passato energicamente suuna superficie ruvida, in genere una tegola, per fargli perdere un po’ dicrusca. Insieme al grano venivano cotti anche un po’ di ceci, che spic-cavano gialli tra i chicchi, ingenui simboli degli occhi, posti sotto laprotezione della Santa. Chi poteva, condiva la cuccìa con ricotta dolce,frutta e bucce d’arance candite, pezzetti di cioccolato; ma la cuccìaverace doveva essere condita solo con un filo d’olio. Tra l’otto e il tre-dici un nuovo odore invadeva le case, tutte le case, anche le più mise-re, quelle dei catòi, i bassi, dove abitavano i poveri. Il nuovo odore eraquello dei rami di cipresso utilizzati per fare la volta dei presepi. Eralavoro di uomini e di bambini sistemare i rami, collocare il tavolo e ipezzi di sughero a formare la grotta e le rocce, disporre gli specchiettiper dare l’impressione dei laghetti, collocare le statuine di terracottacolorata. Il prato era reso col lippo, il muschio, la cui raccolta era com-

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pito esclusivo dei bambini, che andavano a staccarlo da alberi e pietre,con nelle orecchie il suono stridulo e dolce delle ciaramelle, le zam-pogne che erano portate per le strade dagli zampognari vestiti di pelli.Ai rami di cipresso venivano appesi mandarini e arance e il tutto erailluminato sobriamente, con un paio di lampadine collocate strategica-mente. L’odore del cipresso e dei mandarini si mischiava con quellodei dolci, la cui preparazione cominciava dopo la festa di Santa Lucia.

I dolci della tradizione: i cuddureddi, le collorelle. Ogni famigliaaveva la sua ricetta segreta, ogni donna dava il tocco personale nelsapore e nella forma. Dolci raffinati, di fragranza tutta mediterranea,impreziosita da cannella e un sospetto di vaniglia. Una preparazionelunga, che richiedeva l’intervento di tutte le donne di casa e coinvol-geva anche i bambini. Si cominciava dalla pasta, farina di semolarimacinata, setacciata coi crivelli più fini, impastata con poca acqua esugna e zucchero parsimonioso. Lavorata, anzi scanàta, dalle piùrobuste braccia di casa, veniva fatta riposare per una notte e poi tirataa sfoglie sottili, da cui si ricavavano strisce larghe due dita. All’internosi poneva il pastone, di miele o mosto cotto, impastato con semola egranella di mandorla abbrustolita e buccia d’arancia essiccata, e postosul fuoco a prendere consistenza, continuamente ed energicamenterigirato con una paletta di legno. Il mosto cotto era preparato subitodopo la vendemmia, facendo bollire il succo d’uva fino a ridurlo a unterzo. Quando il pastone di miele o vino cotto aveva la giusta consi-stenza, veniva ridotto a bastoncini spessi poco meno di un dito, chevenivano avvolti nelle strisce di pasta predisposte e chiusi, a bordiaccostati ma non sovrapposti, a formare un cerchio. Le forme, oltre aquella classica a cerchio, potevano essere le più diverse: numeri, lette-re, fiori, ramoscelli. Data la forma voluta, si passava alla decorazione,ottenuta col pizzicaturi, una molletta di rame con cui si dava un pizzi-co alla pasta per farla sollevare. I pizzichi erano fitti e richiedevanodelicatezza: la pasta doveva sollevarasi, ma non rompersi. Era lavorodi bambini, di fanciulle delicate, di diafane vecchine avvolte nellesciallette di lana. Le collorelle, così ricamate, passavano in forno, ulte-riormente decorate con la diavolina, palline di zucchero colorato, pas-savano in forno, a calore leggero, in modo da cuocersi ma non piglia-re colore, né sotto né tantomeno sopra: dovevano restare bianche edessere croccanti. Davano, a vederle, l’aspetto etereo di una trina, di unricamo; al gusto, il dolce ineguagliabile del miele era temperato dallemandorle e dalla buccia di arancia e dalla cannella. Con la pasta avan-zata si facevano biscotti da offrire alle persone in visita insieme con il

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rosolio fatto in casa, perché a Natale si ricevevano e si facevano visitead amici e parenti per gli auguri.

E poi la cena della vigilia, rigorosamente di magro, con moderato esapiente sfrigolio d’olio nelle padelle, dove si friggevano le sfingi, cri-spelle di pasta condite con zucchero o farcite d’acciuga salata, brocco-li e altre verdure selvatiche. Nei tegami sobbolliva il baccalà con olivenere, o, nelle case più ricche, lo stocco, più raffinato e delicato. Nelfuoco cuocevano intanto i piruni, le impanate di spinaci o broccoli opatate. Dopo cena tutti a Messa, a cantare le lodi del Bambinello pro-digo di pace e di serenità almeno per una notte e a scambiarsi abbrac-ci augurali.

A conclusione il pranzo del venticinque, con grandi teglie di pastaal forno, polpette, costolette impanate e fritte, carne al sugo, cotta nellasalsa di pomodoro, e i dolci e la frutta secca, senza problemi di dieta oconteggio di calorie. C’era una volta il Natale, il Natale della miainfanzia, il Natale dei primi anni cinquanta ancora uguale a tutti iNatali dei secoli precedenti. Poi sono arrivati gli alberi di plastica, lelucette, i panettoni, i luccichii degli addobbi di carta, le coloratissimepalline di plastica, i cibi cellofanati degli ipermercati, le canzoncine ininglese, jingle bell, jingle bell, la moda dei regalini spesso inutili dacollocare sotto l’albero. Altra cosa. Meglio o peggio, chissà, non hovoglia di dirlo. Voglio solo ricordare a me stesso e ai più giovanicom’era una volta il Natale in Sicilia, in una cittadina posta a presepein alto sui monti.

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La mia Birmania tra passato e presente

Padre Adriano Cadei*

Sono molto grato al Signore, ma anche a tanti cari amici, di esseredi nuovo qui con voi per la proiezione del nostro reportage dallaBirmania, riprendendo una tradizione molto bella che però si era fer-mata una decina di anni fa dopo tanti viaggi intorno al mondo.

Lo scorso dicembre, in occa-sione del Centenario dellaMissione di Kengtung (nel NordEst della Birmania), con il dottorSebastiano, la moglie ConcettaPercolla, Mary Gorge (una carasignora della Birmania) e un pic-colo gruppo di persone di AgrateBrianza (paese del BeatoClemente Vismara), abbiamopotuto rivisitare quel paese chemi è molto caro.

Avevo sentito parlare della Birmania per la prima volta nella miavita nel 1951 quando, da poco entrato in seminario, avevo potutoincontrare un leggendario missionario del PIME il P. FrancescoPortalupi di Milano, che era stato uno dei fondatori della Missione di

Kengtung. Lasua testimonian-za della fami-glia apostolicadei missionaridel PIME chia-mati ad andare

ad annunciare il Vangelo in tutto il modo nelle zone più difficili e lasua descrizione della Birmania, paese molto pittoresco ma anche moltotravagliato del Sud Est asiatico, mi affascinò fino al punto da deside-rare di far parte dei missionari del PIME e di andare in Birmania.

*Missionario del P.I.M.E di Mascalucia (CT).

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Dovettero passare sette anni ma finalmente ilmio sogno si realizzò nel 1958, centenario delleApparizioni di Lourdes. Vi giunsi dopo esserestato alcuni mesi a praticare il mio inglese edopo aver visitato i nostri missionari del PIMEin Giappone e in America. La Birmania avevaottenuto l’indipendenza da soli 10 anni e si pre-sentava ancora così fedele al suo passato bud-dista che subito mi colpì per le tante pagodedorate e tanti monaci che facevano la questuanelle strade. Andando al Nord, dove ero statodestinato, incontrai diversi gruppi etnici cheallora vestivano ancora i loro bellissimi costu-mi. Mi impegnai subito a studiare le lingue, prima quella dell’etniaKachin e poi quella birmana, molto più difficile avendo un proprio

alfabeto. La mia missione era molto vasta e lestrade erano poche e spesso accidentate. LaLand-Rover e la moto mi permettevano di arri-vare soltanto in alcuni centri più popolati. Perarrivare nei villaggi bisognava fare lunghi viag-gi a cavallo e a piedi. Grazie a Dio le missionierano molto fiorenti con scuole, ospedali e leb-brosari anche se lo stile di vita era molto sobrio.Non c’era il telefono e per molti anni neppure ilgabinetto e si mangiava solo il cibo locale a basedi riso, un po’ di verdura e peperoncini e qualchegallina. I viaggi erano lunghi e a volte faticosiper le piogge dei monsoni, per il caldo ma ancheper le malattie tropicali e la guerriglia (che non è

mai terminata) e per i conflitti delleminoranze con il governo. Tuttaviala Chiesa cresceva e anche la miasimpatia per quelle popolazioni cheavevano tanti valori, specialmentenella condivisione, nei canti, nelledanze e nelle celebrazioni moltosentite delle loro feste.

Purtroppo nel 1962 i militarifecero un colpo di stato e il paesecadde in una dittatura che non è

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ancora terminata. Nel 1966tutti i missionari che eranoentrati dopo l’indipenden-za furono costretti a lascia-re il paese… ricordo diaver avuto due scoppi dipianto convulso. A RomaPaoloVI mi accolse in unaudienza privata e mi inco-raggiò a continuare ad amare i nostri avversari perché solo così si sareb-bero convertiti. Le notizie più recenti che provengono da giornali, inter-net e raramente anche dalla televisione non sono confortanti: scontriinterreligiosi ai confini, lotte intestine tra gruppi etnici differenti, conti-nue discriminazioni tra la minoranza musulmana; risale al marzo 2013l’ultimo violentissimo attacco da parte della maggioranza buddista allacomunità musulmana di Meiktila, che ha portato a conseguenze deva-stanti: 40 morti, 20.000 sfollati, migliaia di case e negozi bruciati edistrutti. La Birmania non è nuova a questo tipo di scontri, ma certa-mente la situazione politica degli ultimi decenni non ha facilitato lo spe-gnersi della violenza, semmai al contrario. Prima dell’avvento della dit-tatura, la Birmania era la culla asiatica della cultura e della letteraturama dal 1988, in seguito alla repressione violenta delle proteste in tuttoil paese, le università sono diventate teatro di scontri e sono state erettea simbolo della ribellione.

In seguito tutti i centri del sapere e della cultura sono stati smem-brati, dislocati e rivalorizzati, un sistema che con il tempo ha favorito

quanto sperato dalla dittatura: addor-mentare la cultura e danneggiare l’i-struzione, per evitare che i giovanipotessero pensare ed essere nuova-mente i protagonisti della rivolta. Èinteressante assistere allo scontroodierno tra tradizione e modernità.Soprattutto nei grandi centri urbanicome Yangon, Mandalay e Taunggyi,l’attaccamento alle tradizioni antichedelle passate generazioni si scontra

con elementi della modernità, che inevitabilmente si diffonde, grazieanche al fenomeno della globalizzazione di questi ultimi decenni.

Solo oggi la Birmania si sta aprendo agli stimoli esterni, sia da un

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punto di vista economico, sia da un punto di vista culturale, e nei gio-vani questa apertura rappresenta un’occasione di poter accedere ad unmondo che in passato vedevano solamente in televisione.

A livello politico, la Birmania sta mostrando da un lato l’intenzio-ne di volersi aprire al dialogo e ad un maggiore rispetto dei dirittiumani: la liberazione di Aung SanSuu Kyi, storica leader politicaarrestata dopo aver vinto le lezionie detenuta agli arresti domiciliarifino al Novembre 2010, ne è unesempio; oppure la recente libera-zione di molti prigionieri politiciche per molti anni hanno riempitole carceri di tutto il paese senzaaver commesso alcun reato, se nonaver espresso un’opinione diffe-rente dalla dottrina del regime.D’altro canto sono ancora molti iconflitti, spesso nelle zone di confine, di cui non si hanno molte infor-mazioni, dettati soprattutto da interessi economici. I primi passi si

sono fatti, ma la strada è lungae faticosa, e la Birmania è unpaese a luci e ombre! Con ilprogresso e l’apertura agli sti-moli economici e culturali cheprovengono dall’esterno, spe-riamo che la storia, la cultura ele tradizioni birmane non ven-gano completamente stravolte,perché si perderebbe una ric-chezza inestimabile.

La celebrazione delCentenario della Missione di Kengtung a cui ho avuto la gioia di par-tecipare, mi ha dato la possibilità di vedere il grande progresso fattodalla Chiesa cattolica nel paese che è passata dai 140.000 cattolici diquando vi andai ai quasi 800.000 odierni. Oltre al numero va segnala-ta la qualità della giovane cristianità per i molti vescovi, sacerdoti, reli-giose e tanti laici impegnati nell’evangelizzazione e nella promozioneumana, con l’appoggio anche di progetti sociali sostenuti dall’estero.Noi missionari del PIME siamo tornati diverse volte per dare una

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mano, anche se il governo concede visti solo per un mese. Quest’annoaddirittura il PIME ha deciso di mandare dei missionari sperando chepossano entrare attraverso la Tailandia: si tratta degli italiani padre IvoLavagna, un missionario che era già stato in Tailandia, e padreGianluca Cappello, ordinato proprio il 15 Giugno a Torino, e dell’in-diano padre Barnaba.

Il 15 giugno è anchela festa del Beato padreClemente Vismara e ilXXV della sua morte.Andando a Kengtungabbiamo potuto anchefare il pellegrinaggioalla sua tomba a MongPing con un lungoviaggio su strade acci-dentate. Mi hanno par-ticolarmente toccato lesue parole riguardo aitanti bambini accolti nei nostri orfanotrofi: essi sono come gli uccelli-ni caduti dal cielo che noi abbiamo accolto, nutrito e fatto crescerefino a farli volare più alto del sole.

Vaso a figure rosse (IV sec. a.C.) con raffigurato un viso di donna ornata di diadema.

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I gioielli e la cosmesi nell’antichità Collezioni del Museo “Luigi Bernabò Brea” di Lipari

Maria Clara Martinelli*

L’uomo ha sempre cercato, fin dai tempi più remoti, di adornarsicon oggetti la cui rarità o la difficile reperibilità conferivano persona-lità, importanza e prestigio nell’ambito della comunità. Sembra strano,ma l’uomo probabilmente pensò dapprima ad adornarsi e poi a vestir-si. Nella preistoria, l’attenzione degli ornamenti era rivolta ad oggettidi difficile reperibilità costituiti da conchiglie, denti di animali, le cuiorigini risalgono a circa 40.000 anni fa. Gli ornamenti spesso conser-vano un valore di amuleto, per proteggere da malattie e dalle forze delmale. Conchiglie marine, anche fossili, denti di mammiferi, avorio,osso, steatite, pietre forate e scolpite e talvolta denti umani, venivanoadoperati per formare collane o bracciali. Le forme più comuni eranodischetti, cilindri, piccole sfere. L’uso di oggetti di ornamento era bendiffuso, tanto che si può pensare che fossero adoperati per comunicarel’appartenenza ad un gruppo, ad uno stato sociale ed economico oppu-re potevano avere un significato magico e rituale. Il caso della sepol-tura paleolitica (20.000 anni fa) del “giovane principe della grotta delleArene Candide” in Liguria, dove il defunto era stato adornato da unacuffia fatta di conchiglie, indica come l’oggetto ornamentale potevasegnare il singolo individuo.

A partire dall’età del Bronzo (4000 anni fa) vengono introdottinuovi modelli e nuovi materiali: ampi bracciali a spirale (armille),catenelle, cilindri a spirale “ferma trecce”, spilloni, anelli, spille (fibu-le) tutti realizzati in bronzo.

Con l’ambra, la corniola, la pasta vitrea - faïence - e altre pietre durevengono montate le collane e modellati elementi per creare collane ebracciali e poi per abbellire i manufatti di metallo. Le perle di pastavitrea sono molto diffuse in Grecia, come parte dei corredi o dell’ab-bigliamento di alcuni defunti sepolti nelle necropoli micenee. La loro

*Archeologa del Museo Archeologico “Luigi Bernabò Brea” di Lipari (IsoleEolie).

presenza nelle Isole Eolie attesta l’importazione di questi manufatti diprestigio come lussuosa merce di scambio. L’ornamento più antico tro-vato nelle Isole Eolie è stato rinvenu-to nel villaggio dell’età del Bronzomedio di Portella (XV-XIII sec. a.C.)nell’isola di Salina. La collana eraprobabilmente composta da dueparti, la prima formata da 54 perle dicorniola irregolari di forma sferoida-le e discoidale, con l’elemento cen-trale di maggiori dimensioni e con lasuperficie sfaccettata; la seconda èinvece composta da circa 160 perlebianche di pasta vitrea e faïence, dipiccole dimensioni fra cui le piùsignificative sono quelle a cilindrosegmentato.

Alla fine dell’età del Bronzo risa-le lo straordinario corredo dellatomba 31 della necropoli Ausonia di Lipari (XII-X sec. a.C.), che con-servava numerosi ornamenti personali e di prestigio di accurata mani-fattura. La sepoltura in posizione rannicchiata entro un grande dolio,apparteneva ad un personaggio femminile importante. Al bracciodestro era un bracciale (armilla) di filo d’oro e tre anelli di bronzo. Alla

cintura del fianco doveva essere appeso unpugnaletto di bronzo, mentre sul fianco sinistrosei fermagli di un cinturone di bronzo e unafibula ad arco che doveva chiudere il mantello.Le diciannove perle di ambra che dovevano farparte di una lunga collana, sono state trovatesfilate sulla parte destra del corpo a partiredalla spalla fino al bacino. Sul bacino, anchedue spilloni in bronzo. Il polso della mano sini-stra conservava un altro bracciale di filo d’oro.Numerose perline di pasta vitrea e tre in cri-stallo di rocca erano sparse nella sepoltura.Furono trovati vicino allo scheletro, anche unaspirale ed un orecchino in bronzo.

L’ambra è una resina emessa dalle conifere,che si solidifica imprigionando insetti morti e

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poi con il passare del tempo si fossilizza. Essa è traslucida, di un colo-re che può variare dal giallo al rossiccio al bruno fino ad arrivare alverde. L’ambra è molto diffusa nell’Europa settentrionale nei paesi cheaffacciano sul mar Baltico. Il suo valore come materiale prezioso,comincia nell’età del Bronzo, quando i popoli dell’Europa centrale ini-ziarono le relazioni commerciali con i micenei che praticavano scam-bi in tutto il Mediterraneo. La sua esportazione aumentò vistosamentesulla via dell’ambra che metteva in comunicazione il mar Baltico conil mar Adriatico

L’oreficeria si raffina nel tempo e dall’VIII al V secolo a.C. in pienaformazione delle colonie greche in Sicilia e Magna Grecia, la fabbri-cazione di gioielli era legata alla Grecia, ovvero alla madre patria, doveera già consolidata la tradizione orafa.

La raffinata arte greca compare negli eleganti gioielli trovati nellesepolture dei coloni. Nel periodo arcaico e classico, rari esempi di ore-ficeria sono attestati a Megara Hyblea, Cuma e Taranto. Uno dei cen-tri di maggiore importanza per la produzione di monili in oro nel Vsecolo a.C. è Spina in Italia centrale, nel mondo Etrusco.

A partire dal IV e III secolo a.C. la quantità rilevante di oreficerieche si trovano in Italia meridionale lascia intuire la presenza di botte-ghe orafe italiote nate anche per un aumento della ricchezza e quindi

maggiore richiesta di simboli di prestigio. Visono diademi, orecchini, collane, fibule, brac-cialetti, anelli, spilloni in oro e argento secon-do modelli in voga contemporaneamente intutto il bacino del Mediterraneo.

I materiali usati sono l’oro, l’argento,l’ambra, le pietresemipreziose (agata,corniola, cornalina)e le paste vitree. Laloro preziosità favo-risce sicuramente

l’importazione di “oggetti speciali” che allu-dono al potere e alla ricchezza, o destinatiagli usi cerimoniali. Erano deposti nellasepoltura come ornamenti personali masoprattutto come simboli sociali. Ostentanoil prestigio familiare esaltando al tempo stes-so il valore carismatico dell’orafo-artigiano, il demiurgo che manipola

Anello sigillo in pietra dura (quarzo)a forma di scarabeo ( IV sec. a.C.).

Orecchino a spirale IV sec. a.C.

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materiali che simboleggiano l’eternità in rapportoalla ciclicità e caducità della vita umana, secondolinguaggi e valori di carattere universale.

La necropoli greca e romana presente nellacontrada Diana a Lipari mostra soprattutto nelIV e nella prima metà del III secolo a.C., unlivello economico elevato di cui è attestazione laqualità degli oggetti che costituiscono i corredi

delle quasi 3000 tombemesse in luce dagli scavidell’ultimo sessanten-nio. Le raffinate produ-zioni locali di ceramicadipinta figurata del IIIsecolo a.C. e la presenzadi ornamenti personali inoro costituiscono le principali dimostrazioni diuna ricercata agiatezza. Anelli, orecchini, col-lane abbelliti anche con pietre dure preziose,sono patrimonio delle collezioni del Museo diLipari. Si distingue un pregiato anello concastone incorniciato con la tecnica della fili-

grana. Al centro una figura a rilievo, di giovanedonna che incede a passo di danza reclinandoil capo e con le braccia sollevate. Orecchini adanello finemente decorato con testa di anima-le (leone, antilope) o con figure mitologichecome Eros o Nike, divinità protettrici dell’a-more e della morte. Tanti sono gli anelli a fediimpiegate per la prima volta durante l’etàromana come segno di fidanzamento oltre checome sigillo e talismano.

Il diadema di oro èuno dei modelli piùantichi degli orna-menti femminili e sidistingue dalla corona realizzata con finifoglie d’oro perché quest’ultima simboleggiala vittoria sulla morte ed era destinata in ori-gine ad un uso cultuale e funerario.

Orecchini con Eros (II-I sec. a.C.).

Orecchino IV sec. a.C.

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Con l’aiuto delle raffigurazioni di donnesulle pitture dei vasi in ceramica e nelle sta-tuette di terracotta, i gioielli, oggi ordinati nellevetrine, riacquistano la loro originaria posizio-ne nel complesso della acconciatura femminiledi quell’epoca lontana.

I corredi delle sepolture in cui erano depostianche utensili per la cosmesi, come gli specchi,i piccoli vasi in argilla, alabastro o in pastavitrea, contenitori di balsami profumati, per-mettono di immaginare i gesti della vestizionedi queste donne antiche, reali. Queste donne siabbigliavano con particolare cura del corpo,sfoggiando vesti preziose e gioielli, per partecipare alle cerimonieimportanti della loro vita. Lo splendore e l’eleganza del singolo con-

tribuivano a rappresentare il benes-sere e la potenza della comunitàdella quale erano parte. Gli specchiche sono comuni a Lipari nel IV sec.a.C., esclusivamente delle sepolturefemminili, hanno un manico decora-to in modo molto elaborato. Il piùprezioso raffigura Eracle che lottacontro un’amazzone a simboleggiarela vittoria della vita sulla morte. Inetà greca si afferma l’arte dellacosmesi, la kommotikè techne, rivol-ta soprattutto al mondo femminilecome ancora la conosce la donna dioggi. Famosi medici del tempo comeIppocrate, Celso e Galeno ne fecero

argomento di trattati scientifici. Imparate, o donne, quali cure abbelli-scano il volto, e in quale modo preservare la vostra bellezza(Medicamina faciei femineae vv. 1-2, Ovidio, 43 a.C. - 18 d.C.).

Diffusa era l’abitudine di applicare sul viso un belletto bianco,composto da carbonato di piombo mescolato a sostanze grasse per tra-sformarlo in crema. Per il trucco si usava il rosso del minio (derivatodal carbonato di piombo), delle radici rosse dell’ancusa o del fuco(un’alga), che si spalmavano sulle labbra e sulle guance con un appo-sito pennello, mentre si ombreggiavano le ciglia e le sopracciglia con

Pisside del Pittore di Lipari con raffigu-razioni femminili (IV-III sec. a.C.).

Orecchino con testa di antilope(II-I sec. a.C.).

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un leggero velo di tintura nera di antimonioo di nerofumo. Dopo il bagno, il corpo veni-va spalmato di lozioni e unguenti profuma-ti, che erano necessari poiché l’uso perlavarsi con la soda naturale, la lisciva dicenere lignea o la polvere argillosa, rendevala pelle molto secca. Il profumo, era costi-tuito da essenze floreali ottenute per spre-mitura e macerazione e fissate da sostanzegrasse come l’olio. In epoca romana,soprattutto in età imperiale, le donne fre-quentavano le terme dove bagni caldi,saune e massaggi erano appuntamenti quo-tidiani.

Specchio in bronzo (IV - IIIsec. a.C.).

Alabastron in pasta vitrea per creme profumate (V sec. a.C.).

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Quando vedete nespole

Francesco Giuffrida

Spesso nei nostri canti popolari troviamo espressioni, vocaboli,modi di dire che sono difficili da comprendere; e alcune volte la com-prensione ha bisogno di vere e proprie indagini. Cerchiamo di fare unpaio di esempi.

In alcune ottave siciliane possiamo trovare questo distico:

Quando vedete nespole piangete/ questo è l’ultimo frutto dell’estate.Versi abbastanza misteriosi, se consideriamo che sulle nostre tavo-

le le nespole sono tra le prime ad arrivare dopo la pausa invernale; giàad aprile si possono trovare in vendita e, in attesa delle ciliegie, dellealbicocche, delle pesche, tutti frutti tardo primaverili o addirittura esti-vi, sono veramente benvenute, specie se polpose e zuccherine. Perchéallora i nostri versi - diventati anche un modo di dire - parlano dell’e-state che finisce? E che senso ha il proverbio Ccu lu tempu e ccu lapagghia maturanu li nespuli (Con il tempo e con la paglia maturano lenespole)? Lasciare le nostre nespole anche per pochi giorni, con osenza paglia, non porta ad altro che a un repentino deperimento delfrutto, presto immangiabile. Spieghiamo l’arcano: i nostri canti, cosìcome i nostri proverbi, spesso arrivano da molto lontano nel tempo. Equelli citati ci giungonoalmeno dal Settecentoperché, prima del XIXsecolo sulle tavole deisiciliani non si poteva tro-vare la gialla nespola cheoggi tutti consumiamo;l’unica nespola conosciutaera la nespula di ’nvernu,il frutto del nespolo comu-ne, Mespilus germanica, che non solo compare appunto alla fine del-

Quannu viditi nespuli chianciti

chistu è l’urtimu fruttu di la stati.

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l’estate, ma deve completare la maturazione in casa, appeso da qual-che parte o mantenuto in ceste in mezzo alla paglia - così come avvie-ne per le sorbe - e consumato mano a mano che la colorazione, pas-sando dal beige al marrone scuro, denuncia l’avvenuta maturazione.Ecco allora spiegati i misteriosi versi ed ecco spiegato perché il cantoci invita a piangere: si piange perché è arrivato l’autunno e arriva, peri nostri progenitori legati e dipendenti dalla campagna, una stagione difreddo con meno lavoro e più difficoltà a procurarsi il necessario peril sostentamento.

La nespola così come la conosciamo oggi arriva dall’Oriente allafine del Settecento; prima a Parigi e poi a Londra, per diffondersi in

seguito in tutta l’Europa. Inbotanica il nespolo delGiappone è noto comeEriobotrya japonica, appartienealle Rosacee così come ilMespilus germanica. Il termineeriobotrya viene dal greco esignifica “grappolo peloso”;questo perché i fiori sono rac-colti in una infiorescenza agrappolo pelosa, come pure

pelose sono le strutture accessorie floreali (piccioli, calici) e pelosi sonoperaltro anche i frutti immaturi. Ovviamente questa pelosità è una dife-sa contro il freddo, vista la precocità del frutto e quindi della fioritura;fioritura di particolare persistenza nel tempo per consentire agli insettiincaricati dell’impollinazione - ridotti di numero a causa della stagioneanche per loro non ideale - di portare a termine il loro compito.

Il nespolo giapponese ha soppiantato dappertutto l’antico nespolocomune; si è perfettamente adattato alle nostre campagne - che hannoanche fornito dei cultivar legati al nostro territorio, per esempio ilPrecoce di Palermo e il Nespolone di Trabia - non richiede molte curee nemmeno molta acqua; e poi il suo frutto è più ricco, più dolce, piùappetitoso. La vecchia nespula di ’nvernu con la sua buccia coriacea ela poca polpa che offre ha perso la battaglia: resiste in qualche campa-gna senza mai arrivare nei nostri mercati facendo felice qualche anzia-no nostalgico di antichi sapori. Una curiosità: alla voce nespula nelNuovo Dizionario Siciliano-Italiano di Vincenzo Mortillaro, ancoranella terza edizione corretta e accresciuta, non c’è traccia della nespo-la giapponese; il frutto del nespolo comune la fa ancora da padrone e

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siamo già nel 1876! Mentre nel Nuovovocabolario Siciliano-Italiano di AntoninoTraina, edito anch’esso a Palermo ma nel1868, la nespola giapponese ha già trova-to il suo posto.

Ma passiamo a un altro esempio: nelvolume Mandre rosse dove l’autoreFrancesco Pastura raccoglie, tra l’altro,una serie di canti intonati dai mietitoriprovenienti da varie parti della Siciliaorientale, ma operanti nelle campagne diLibertinia negli anni Trenta delNovecento, troviamo questa ottava “allun-gata” (dieci endecasillabi invece degli ottodella norma):

Ho visto la mia bella salita su una palma/ mentre coglieva la coronadella palma;/ ne aveva raccolto un grembiule di tela d’Olanda/ e anco-ra dentro il petto ne metteva./ A me lì sotto si scioglieva l’anima/ e nonvedevo l’ora che scendesse./ In quel frattempo arriva sua mamma/ enon ho potuto fare quello che volevo./ Lei mi disse: “Vieni dall’altraparte,/ ti do lo spasso della mia vita”.

Non ci soffermiamo sulla scena descritta con lo spasimante in spa-smodica attesa piuttosto chiediamoci: ma cosa sta raccogliendo la bellasulla palma? Coglie la corona della palma, cioè - è un’ipotesi abba-stanza sensata - le foglie nuove della palma, nate in circolo (da cui ‘lacruna’) sulla sommità della palma. Diciamo che l’ipotesi è sensata per-

Visti la bedda acchianata a la parma

ca di la parma la cruna cugghìa;

n’avìa cotu ’n fadali d’Alanna

e ancora d’intra ’u pettu ni mintìa.

A mia dda sutta mi squagghiava l’arma

l’ura non mi vidìa ca scinnìa.

’Nta ’stu frattempo va veni so mamma

fari non potti chiddu ca vulìa.

Idda mi dissi: “Ca veni dda banna,

spassu ti dugnu di la vita mia”.

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ché in momenti di grande difficoltà i nostriprogenitori riuscivano a rendere commesti-bili i vegetali più coriacei: si mangiavano leparti tenere (se così si possono chiamare)dell’Eryngium campestre, un’apiacea dal-l’aspetto di un cardo, coriaceo e spinoso; ilCrithmum maritimum (finocchio di mare)un’ombrellifera che cresce spontanea lungole nostre coste, anche in assenza quasi tota-le di terra; e si consumavano anche le foglieappena nate della palma nana (giummara insiciliano), la Chamaerops humilis. Per cui

possiamo supporre che la bella fosse salita su una palma nana a cuistava asportando proprio la corona di foglie nuove. E in ogni caso lanostra palma - l’unica che cresca spontanea fuori dall’Africa - è abi-tuata ad essere sfruttata: se ne sono consumate le radici già al tempodei Romani, si consumavano i poveri frutti - in siciliano i dummi - perquel minimo contenuto in zuccheri che potevano fornire, si recidevaspesso la palma per ricavarne la parte interna, il midollo, in sicilianonoto come ciafagghiuni, per ottenerne una, pare, vera prelibatezza. Netroviamo traccia in uno scritto di Raffaele Poidomani Moncada,Origini di Vittoria; in un documento del 1617 riportante le percentua-li dovute al Vice Miraglio delle merci trasportate figura pure il nostrociafagghiuni, con la dicitura “Item delli cianfagliuni due per cento”.

Ma la canzone sopra riportata ha una serie di varianti che ci pon-gono altri problemi; vediamo per esempio l’ottava n. 317, raccolta aPartinico, riportata da Salomone-Marino:

Ho visto l’amore mio sopra una palma,/ con le mani raccoglieva datte-ri;/ io stavo sotto con l’anima in pena,/ dicendole: - Scendi giù, anima

Vitti l’amanti mia supra ’na parma

cu li manuzzi dattuli cugghìa;

eu stava sutta e m’arraggiava l’arma,

dicennu: - Cala jusu, armuzza mia!

Pri mala sorti arrivau ddà la mamma,

nun potti aviri chiddu ch’eu vulìa.

Curuzzu, jamuninni a chista banna,

fa’ cuntenti ’na vota l’arma mia.

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mia!/ Per mala sorte è arrivata sua madre,/ e non ho potuto avere quel-lo che desideravo./ Cuoricino mio, andiamo da un’altra parte,/ per unavolta fai contenta la mia anima.

Come si vede i punti essenziali della storia amorosa non cambiano;cambia però l’oggetto della raccolta: la bella è lì a raccogliere datteri!Non siamo allora in presenza della Chamaerops humilis, ma di fronte(o meglio… sopra) a una Phoenix dactilifera, una palma da datteri. Chegli Arabi abbiano portato dalle loro terre la palma da datteri è cosa notae certa; più difficile accertare se queste palme abbiano mai portato amaturazione i loro frutti in Sicilia. Ma i nostri canti ci fanno propen-dere per questa possibilità. In un’altra ottava (la n. 316, raccolta aTermini ancora da Salomone-Marino) non solo abbiamo una conferma,ma anche la non casualità della maturazione, vista la presenza addirit-tura di un guardiano posto a salvaguardia del raccolto:

Ho visto una donna salita su una palma/ che sulla palma raccoglievadatteri;/ ne aveva raccolti una grossa quantità,/ e ancora ne mettevadentro il petto./ Arriva il guardiano della palma/ e le dice: - Dai sollie-vo alla mia anima;/ tu stai vedendo come smanio,/ come bramo emuoio per te.

E ancora da Termini, nell’ottava n. 39, dove si descrivono le bel-lezze di una donna, si dice:

Vitti ’na donna acchianata a ’na parma

ca ’nta la parma dattuli cugghìa;

nn’avìa cugghiutu ’na manata tanta,

ancora ’nta lu pettu ni mintìa.

Cci va lu guardianu di la parma

E ci dici: - Arrifrisca l’arma mia;

tu sta’ vidennu ca mi nesci l’arma,

ca staju bramannu e murennu pri tia.

Siti cchiù bianca assai di la quacina,

chi si metti ’nta l’acqua e allura adduma;

siti comu ’na parma grattulina

la vostra facci è lu suli e la luna;

[…].

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Siete molto più bianca della calce,/ che si mette nell’acqua e allora siaccende;/ siete come una palma che fa datteri/ il vostro viso è il sole ela luna; […].

Qui la palma da datteri è diventata simbolo di bellezza, una sorta didispensatrice di bontà. Ma perCorrado Avolio, studioso deldialetto di Noto e raccoglitoredi canti nella seconda metàdell’Ottocento, i richiami allapalma non sono altro che unlegame mai sciolto col nostropassato arabo: in Sicilia,sostiene, le palme da datterinon sono comuni e non frutti-ficano. Resta allora questacontraddizione: da un lato icanti che ci parlano di datterioggetto di raccolta (e a quan-to pare anche di furto); dal-l’altro il fatto che non si tro-vano in commercio datteri di

provenienza siciliana, a testimoniare la validità dei versi delle nostreantiche ottave. Veramente antiche se pensiamo che il primo accennoall’uso di raccogliere i datteri lo troviamo nella piccola raccolta diGiuseppe Leopardi Cilìa (Comiso 1792 - 1864), raccolta, conclusa nel1817, di canti che arrivano al giovane comisano direttamente dalSettecento.

Lasciamo ai botanici lo soluzione di questo arcano; noi non ce lasentiamo di dare torto ai nostri anonimi compositori e cantori. Possiamosolo avanzare l’ipotesi che in qualche parte della nostra Isola si possa-no creare delle oasi, delle zone microclimatiche favorevoli alla matura-zione dei datteri. E che la gioia di trovare (in tempi veramente grami)una sorta di dono del cielo dispensatore di dolcezza e di energie abbiagenerato l’esigenza di glorificare il dattero nelle nostre canzuni.

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Lo sguardo della donna-guida

Gloriana Orlando

Tutta la lirica montaliana, fin dai primi versi della raccolta, Ossi diseppia, è tesa verso un evento “sote-rico”, verso il miracolo che rechi lasalvezza: “cerca una maglia rottanella rete/ che ci stringe, tu balzafuori, fuggi!” (In limine). Strumentodi salvezza, è un essere evanescente,indeterminato, il “fantasma che tisalva” ma nella prima opera non vi èancora una figura femminile conpalesi caratteristiche salvifiche,semmai, essa è solo presentita,“Assente, come manchi in questaplaga/ che ti presente e senza te con-suma” (Il canneto rispunta i suoicimelli). Il tema di questa liricaquindi, è quello dell’assenza, delladonna che è assimilata all’idea dell’acqua, della linfa rigeneratrice edha già un preciso ruolo di guida perché senza di lei il poeta non pos-siede le coordinate per muoversi nella realtà e tutto intorno a lui crol-la, come l’albero di nuvole sul mare, e viene avvolto nella nebbia.

Il dialogo con la donna assente è, da unlato, espressione del senso di isolamentoesistenziale che tormenta il poeta ma, dal-l’altro, può anche rimandare all’isolamen-to culturale e politico in cui vive l’intellet-tuale negli anni della dittatura fascista.

Senza una figura guida è difficile dis-tricarsi in una realtà che si rivela uninganno, impossibile trovare “il varco”,la “via di fuga”. La donna è semplice-mente “un muto transfert dell’angosciadel poeta” come la definisce AngeloMarchese. La seconda raccolta, Le occa-sioni, è dominata, invece, da un essere

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umano e angelicale al tempo stesso, che non ha ancora un nome, (ilsenhal Clizia comparirà soltanto nella Bufera) ma che il poeta invocacome unica luce, spirituale, in un mondo dominato dall’irrazionalità edall’insensatezza. In questa figura femminile di chiara derivazione stil-novistica l’elemento fondamentale è costituito dallo sguardo (temachiave della lirica già a partire dai poeti della Scuola siciliana). Cliziaci è presentata con fattezze stilnovistiche: dispensa segni potenzial-mente salvifici, talora è assimilata ad un angelo talaltra ad un uccellovenuto da lontano, con sofferenza, per dare alla vita del poeta quelpoco di significato che le rimane. Questa caratterizzazione, derivatadall’influenza di Dante e di Eliot, ha un valo-re metaforico ed esistenziale che acquistaperò espliciti significati metafisici ne Labufera e altro quando il poeta comincia a farricorso ad una simbologia cristiana che sosti-tuisce quella umanistica ma non presupponeuna precisa fede religiosa, perché Montaleresta un uomo di cultura laica e liberale, e vaintesa semmai come una possibilità di reden-zione “per tutti”. Nella sua visione la donnaangelo incarna i valori della cultura e con gli“occhi d’acciaio” è in grado di opporsi allabarbarie e alla incultura del fascismo.

Ciò si nota chiaramente analizzando gliultimi versi della lirica Nuove stanze. Il poeta immagina di giocare ascacchi con la sua donna, Clizia, al chiuso, al riparo da ciò che fuori sista preparando. Infatti mentre negli Ossi di seppia sono rappresentatigeneralmente spazi aperti, nelle Occasioni prevalgono interni protetti-vi e discreti da contrapporre alla minaccia esterna. Allegoricamente lepedine della scacchiera rappresentano gli eserciti che si preparano adaffrontare una ben più pericolosa partita, la guerra. Egli si sente asse-diato e questo tema è molto diffuso tra gli intellettuali degli anniTrenta, ma per lui l’opposizione alla dittatura è possibile solo con losplendido isolamento nella “cittadella delle lettere” e grazie alla guidasalvifica, che permette di superare le difficili condizioni storico-politi-che del tempo. Clizia donna-angelo diviene così portatrice di signifi-cato e di autenticità in un ambiente fortemente ostile. Solo chi è unitoa lei, e protetto dal suo sguardo, può sconfiggere lo “specchio ustorio”che rappresenta le armi degli avversari che la donna è in grado didistruggere.

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Tuttavia, dopo gli entusiasmi dell’immediato dopoguerra, l’ipotesidell’incarnazione del valorenella vicenda storica si rivelaillusoria e Clizia, come leGrazie foscoliane, si rifugiain una sorta di oltrecielo.

La realtà si presenta alpoeta come regolata da unalegge necessaria in cui il casoirrompe, a volte, spezzando lacatena di cause e di effetti, gliuomini sono costretti in uninsieme finito di possibilità,d’altronde essi percepiscono solo frammenti di fenomeni, senzacoglierne il senso, da ciò l’incessante ricerca di coordinate per muo-versi in un mondo ostile ed enigmatico. La sofferenza investe non sologli esseri coscienti ma anche le cose inanimate, da questa situazionenasce allora la speranza di un evento d’eccezione, di una probabilitàimprevista, non calcolata, che dia l’illusione di una possibile fuga.

Tra l’attesa incerta di un evento d’eccezione che possa rappresen-tare per il poeta la salvezza indicandogli la via d’uscita “L’anello chenon tiene” (La casa dei doganieri) e la speranza che la presenza di unafigura angelicale possa proteggerlo dall’insensatezza del reale si dibat-te la lirica montaliana fino all’inizio degli anni Cinquanta. Ma dopo undecennio di silenzio egli giunge ad un nuovo approdo. La poesia nonè più preziosa ed esclusiva ma grazie ad una profonda deminutio tema-tica e formale si avvicina alla prosa: è il modo montaliano di adeguar-si ai tempi ed insieme di continuare ad esserne testimone inflessibile.La donna-guida non è più un angelo ma una figura estremamente ter-rena, la moglie Drusilla Tanzi, Mosca per gli amici e per il poeta.Questa è caratterizzata non dagli occhi d’acciaio, dallo sguardo di cri-stallo o dalla sacralità del personaggio di Clizia, ma dalle pupille offu-scate e dalla vita di tutti i giorni.

Nella lirica Ho sceso dandoti il braccio milioni di scale, che è unpo’ l’emblema di questa figura femminile, si ha l’impressione, almenonei primi versi, che sia Montale a guidare la moglie quasi cieca, men-tre nella seconda strofa riemerge chiara la funzione di guida che ha ladonna. Tale funzione è definita dallo scendere le scale, che potrebbeessere interpretato come una banale azione quotidiana, mentre ha unpreciso significato allegorico, Mosca infatti ha guidato il poeta nelle

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difficili condizioni storiche in cui idue hanno vissuto, lo ha guidatoanche nel passaggio da un registrolirico alto al registro più basso dellanuova poetica che inizia con la rac-colta Satura. Il riferimento allepupille offuscate rimanda alla con-cezione che Montale ha della realtà,intesa come inganno, per cui se larealtà non è quella che si vede, gliocchi di Mosca sono avvantaggiatiin quanto vedono dietro le apparen-ze e quindi riescono a scorgere laverità delle cose.

Anche in questo senso l’umileinsetto espleta l’importante funzio-ne di guida come tutte le altre figu-re femminili che hanno caratterizzato la vita poetica di Montale. Conla morte della moglie si chiude il cerchio e si ritorna all’assenza dellaguida ed al disorientamento del poeta come nel Canneto rispunta i suoicimelli.

Si ritorna, quindi, circolarmente alla poesia dell’assenza dellaprima raccolta anche perché egli scrive i versi degli Xenia dopo lamorte della donna, ma il vuoto esistenziale è colmato dalla sua costan-te presenza nel ricordo. Da semplici episodi di vita quotidiana emer-gono i temi sempre presenti nell’anima del poeta.

“Pregava?” chiede un sacerdote nello Xenion I, 10, “Sì, pregavaSant’Antonio perché fa ritrovare gli oggetti” perché Mosca possedevauna fede quotidiana, fatta di piccole cose, lontana dai dogmi e dallemanifestazioni esteriori “Per questo solo?” insiste il prete, portavoce diuna Chiesa che non si può accontentare di questa fede semplice e unpo’ utilitaristica, “Anche per i suoi morti” risponde il poeta. A questopunto la fede di Mosca sembra amplificarsi perché si apre agli altri,anche se sono solo i suoi morti, e mette da parte se stessa. Ma un ele-mento getta una luce particolare sul rapporto tra Mosca e il poeta. I tremonosillabi che concludono la frase “e per me” da soli ci fanno capi-re che Mosca pregava anche per il marito e questa lapidaria afferma-zione, isolata in un emistichio a inizio verso, assume un duplice signi-ficato. Pregava anche al posto suo perché lui non aveva fede, ma puòarricchirsi di un senso ancora più profondo se lo interpretiamo come:

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pregava affinché lui trovasse alfine quella fede a lungo ricercata. Unascena di vita quotidiana si dischiude dinanzi ai nostri occhi, una donnasemplice ma profondamente credente spera di poter guidare il marito

nell’impervio cammino che lo conduca finalmente alla conquista dellafede. Ma la fragile Mosca non è riuscita ad essere per Montale quelloche Enrichetta Blondel fu per Manzoni.

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Tamara De Lempicka e “l’affaire D’Annunzio”

Laura Lombardo

Artista cosmopolita e poliglotta, apprezzata in Europa ed inAmerica, Tamara de Lempicka si definiva “una donna senza naziona-lità” avendo legato il suo destino esistenziale ed artistico a vari stati.La sua vita è una leggenda a volte misteriosa ed ambigua. La sua datadi nascita e le sue origini non hanno nulla di certo. Tamara ha sempredichiarato di essere polacca, nata a Varsavia nel 1902, ma da recentiricerche apprendiamo che era nata a Mosca nel 1898. La madreMalvina Decler era polacca di origine francese, il padre Boris Gurwik-Gorski un ricco ebreo russo, scomparso per suicidio o, secondo ledichiarazioni della pittrice, per divorzio quando Tamara aveva solocinque anni. Saranno i nonni materni ad avere cura di Malvina e deisuoi figli e la nonna Clementine inculcherà nella mente della nipote ilculto della nobiltà e la incoraggerà sempre a coltivare le sue doti per-sonali da lei definite straordinarie.

Abituata a viaggiare sin da piccola, visiterà l’Italia ed il sud dellaFrancia, in particolare Montecarlo dove la nonna andava per giocare alCasino. Nel 1912 la troviamo a San Pietroburgo dove durante un balloin maschera incontra TadeuszLempicki un brillante avvocatopolacco e suo futuro marito nel1916. Un anno dopo la Rivo-luzione di Ottobre, nel 1918,Tamara si trasferisce a Parigi contutta la sua famiglia. Durante glianni trascorsi nella città imperia-le, la sua cultura artistica si con-cretizza: familiarizza con l’arteantica e nello stesso tempo siavvicina ai gruppi cubo-futuristi.La sua sensibilità si nutre di uncurioso intreccio di estremomodernismo e di classica purezza.Mentre il marito vive la sua con-dizione da esule con difficoltà, lei

condivide di buon grado la sorte di numerosi esuli russi che costituiva-no “un’isola russa nella città”. Fino alla fine della sua vita rimase legataa molti personaggi della nobiltà russa, come il principe FeliceIoussoupoff, responsabile dell’uccisione di Rasputin, il Gran DucaGabriele Costantinovic Romanoff e il Principe Eristoff, lo scrittore PavelBarchau, autore di dueintensi ritratti fotograficidella Lempicka. Il sog-giorno parigino è altresìun’occasione di affranca-mento e di indipendenzaper mezzo dell’arte colti-vando un talento che giàsi era rivelato nell’adole-scenza.

Fu la sorella Adriana,studentessa in architettu-ra, a suggerirle di dedi-carsi alla pittura. Tamara

iniziò frequentando le lezionidi Maurice Denis e poi quel-le di Andrè Lhote, che la pit-trice considerò suo incompa-rabile maestro. La creazionedi un personale ed originalestile continuò grazie alle sueecclettiche ricerche: la sco-perta di Ingres, lo studio diPontormo, Botticelli edHayez, un misto d’influenzeche ritroviamo nella maggiorparte dei suoi quadri, caratte-rizzati da una gelida calma,da una scultorea esecuzionedelle facce, dall’uso di pochicolori sulla tela. Uno dei fon-damentali elementi delle suepitture è il famoso blu, “Il bluLempicka”, un ricordo di

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San Pietroburgo e unatinta cara al cuore delpittore russo AlessandroN. Benois, conosciuto inRussia nel 1910 precisa-mente come il “bluBenois”.

In pochi anni, Tamarade Lempicka ebbe unenorme successo e lasciòil segno in quella decadeche Maurice Sachs defi-nì come “la decade del-l’illusione”: anni vitali di reazione alla tragedia della guerra che avevaridotto l’intero continente alla rovina. Fu durante questo periodo che ilmovimento dell’Art Deco si sviluppò dimostrandosi internazionale,moderno e innovativo.

La fama della pittrice si diffuse oltre Parigi, in breve tempo nel1923 la stampa inglese, spagnola e polacca parlò di lei. Nel 1925 il suonome fu conosciuto in America ed in Italia e nel 1927 anche la

Germania, il Belgio ed i paesicoloniali in Africa apprezzaronoil suo stile così originale. Fuconsiderata moderna interpretedi un’arte che guardava allesfide del futuro, riuscendo a tra-sferire nella sua immagine l’at-mosfera del periodo: le difficol-tà dei rifugiati, la forza dell’uo-mo moderno, consacrato allesfide scientifiche, la gioia divivere dei sopravvissuti, tutto ilteatro della vita che aveva comepalcoscenico Parigi. Tamara deLempicka divenne “decorativa”perché adottò ed interpretò l’im-magine di una donna moderna,emancipata, ma sempre fedelealle esigenze di stile, secondo icriteri di eleganza e di lusso.

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Donna seducente, fatale,mondana, fece della sua stessavita un manifesto d’indipendenzae di trasgressione. Non nascosemai la sua bisessualità e laespresse esplicitamente in quellaserie di visioni amorose dedicatead alcune delle sue innamorate:Ira Perrot e la bella Rafaela. Irache era una delle sue modelle dal1922, era la protagonista di uno

dei più intensi dipinti della sua inte-ra produzione: “La sua malinconia”del 1923. La bella Rafaela si pre-sentò nel suo atelier nel 1927.Questi quadri di nudi femminili,con i corpi levigati come porcella-na, sono considerati dei capolavori.

La sua prima mostra personaleebbe luogo a Milano nel 1925, nellagalleria “Bottega di Poesia” fondatadal conte Emanuele Castelbarcovicino ai Futuristi, a Gabriele D’Annunzio, ad Arturo Toscanini. Ilpubblico apprezzò molto la sua opera, un pubblico raffinato e disponi-bile alle novità, un mondo cosmopolita di aristocratici, di ricchi uomi-ni d’affari, di eleganti e sofisticate donne, insomma i veri protagonisti

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della “decennale illusione”.Gabriele D’Annunzio, ospited’onore, in quella occasione fecela conoscenza della Lempicka ene fu fatalmente attratto. Tra idue nacque un reciproco interes-se su due ben precise direzioni:D’Annunzio voleva sedurre lagiovane ed avvenente pittrice,lei, a sua volta, conoscendo lafama dell’uomo che avevaimprontato di sé un’epoca, vole-va fare il ritratto a D’Annunzioper diventare ancora più famosa.Un duello amoroso a volte grot-tesco, a volte passionale ebbe ini-zio sullo sfondo del Vittoriale,dove Tatiana si recò per ben trevolte, in un breve arco di tempo,tra l’Agosto del 1926 e ilGennaio del 1927. Dei primi due fugaci incontri a Gardone non abbia-mo che notizie frammentarie, invece della permanenza al Vittoriale nelgennaio del 1927 abbiamo un dettagliato resoconto grazie agli appun-ti quotidiani scritti su un diario da Aélis Mazoyer, donna di fiducia diD’Annunzio.

Figura di primo piano, Aélis era stata assunta come cameriera a soliventiquattro anni, divenendo ben presto donna di fiducia, confidente,amante, mezzana. Francese, distinta, colta, seguì Gabriele D’Annunzioovunque e lo assistette fino alla morte. Fine osservatrice, appuntavasul suo diario tutti gli avvenimenti della casa e si soffermava a com-mentarli con un giudizio personale non scevro di buon senso e di equi-librio. I suoi racconti ci aprono le porte segrete del Vittoriale dovetante altre figure femminili animavano la quotidianità della casa: LuisaBaccara, “la padrona di casa”, la ballerina belga Charlotte Bara dispo-nibile al Vate in cambio di un buon ingaggio, la Duchessa Maria diGallese, che pur separata da D’Annunzio gli concedeva brevi visite,Emilia una cameriera-amante, Letizia De Felici una prostituta da chia-mare al bisogno. Insomma un mondo femminile eterogeneo pronto asoddisfare i desideri del padrone.

Il diario è una fonte preziosa di puntuali notizie e ci fa conoscere

gli aspetti più intimi di un D’Annunzio inedito e sconosciuto. In parti-colare le pagine dove Aélis racconta il soggiorno di Tamara diLempicka sono molto interessanti fondamentalmente per due motivi:primo perché godeva delle più intime confidenze del “Comandante” e

poi perché sapendo parlare in fran-cese era l’unica a dialogare conTamara. La cronaca dei giorni cheTamara trascorse al Vittoriale è ilracconto mozzafiato di una tentataseduzione. D’Annunzio usò tuttigli espedienti possibili ed immagi-nabili: una corte serrata, regalicostosi, l’uso di cocaina… ma nonottenne quello che tante altredonne gli avevano volentieri con-cesso. Il Vate offeso nel suo amorproprio, amareggiato ed umiliato,fu costretto a mandar via la bella egiovane polacca. Aélis annotò sulsuo diario le confidenze che “ilComandante” le fece dopo quel-l’ultimo sfortunato tentativo: laLempicka si era rifiutata perchétemeva di contrarre la sifilide o dirimanere incinta. Tamara lasciòGardone senza aver raggiunto loscopo del suo soggiorno: fare il

ritratto a D’Annunzio, che avrebbe potuto rappresentare per lei un’oc-casione di pubblicità. D’Annunzio, da parte sua subì la sconfitta di nonaver potuto avere la seducente pittrice polacca, che lo aveva tentatocon il suo charme parigino. I due non si incontrarono mai più. I bio-grafi di D’Annunzio a lungo hanno affrontato la questione e si sonochiesti come mai Tamara, che ben conosceva il mondo e la fama diseduttore del poeta, si era a lui rifiutata? Dopo tanti anni, nel 1951, leistessa raccontò ad un giornale di Napoli la sua verità su quel lontanoepisodio al Vittoriale. Confessò di aver intuito che GabrieleD’Annunzio non era sincero nelle sue dichiarazioni d’amore e che difronte al suo rifiuto si sentì umiliato ed era fuggito piangendo, perchéaveva capito che una bella, giovane trentenne mai avrebbe ceduto adun vecchio come lui. Alla fine dell’intervista, riflettendo un po’,

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Tamara concluse dicendo: “Forse ho fatto male quella notte… Nonavrei dovuto rifiutarmi”. Noi non sapremo mai come andarono vera-mente le cose nel gennaio del 1927 al Vittoriale, se credere alla ver-sione di Aélis Mazoyer o alle parole di Tamara. Una cosa è certa: dalduello amoroso iniziato tanti anni prima, Tamara ne uscì fuori comun-que vincitrice perché riuscì a legare il suo nome a quello di GabrieleD’Annunzio.

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Emmy Nöether: grande matematico e grande donna

Anna Maria Di Prima

Domenica 5 maggio 1935 il “New York Times” pubblica nellarubrica “Lettere al Direttore” la seguente missiva inviata da AlbertEinstein col titolo: Il Professore Einstein scrive in apprezzamento di uncollega matematico.

“Gli sforzi della maggior parte degli esseri umani si consumanonella lotta per il pane quotidiano, eppure la maggior parte di quelli chesono, per caso o per qualche dono speciale, sollevati da questa lottasono largamente assorbiti dal tentativo di aumentare ulteriormente ipropri possedimenti terreni… ma c’è, fortunatamente, una minoranzacomposta da coloro che comprendono presto nelle proprie vite che leesperienze più belle e soddisfacenti che l’umanità può vivere non deri-vano dall’esterno, ma sono legate allo sviluppo del proprio individua-le sentire, pensare ed agire. I veri artisti, ricercatori e pensatori sonosempre state persone di questo tipo. Per quanto la loro vita trascorra insordina, pur tuttavia i frutti dei loro sforzi sono i più fondamentali con-tributi che una generazione possa lasciare alla successiva. Pochi gior-ni fa una insigne matematica, la professoressa Emmy Nöether, primaafferente all’Università di Göttingen e negli ultimi due anni al CollegeBryn Mawr, è morta a 53 anni. Secondo il giudizio dei più competen-ti matematici viventi, Fräulein Nöether era il più significativo e creati-vo genio matematico apparso finora da quando è iniziata l’educazioneuniversitaria delle donne. Nel campo dell’algebra, in cui i matematicipiù quotati si sono impegnati per secoli, ha scoperto metodi che si sonorivelati di enorme importanza per lo sviluppo dell’attuale generazionedi giovani matematici [...]. Nata in una famiglia ebrea distintasi per l’a-more per l’apprendimento, Emmy Nöether che - nonostante gli sforzidel grande matematico di Göttingen, Hilbert - non ha mai raggiunto laposizione accademica a lei dovuta nel suo paese, si è tuttavia circon-data di un gruppo di studenti e ricercatori a Göttingen che si sono giàdistinti come insegnanti e ricercatori. Il suo altruistico e significativolavoro di un lungo periodo è stato premiato dai nuovi governanti dellaGermania con un licenziamento, che le ha impedito di mantenere lasua vita semplice e la possibilità di portare avanti i suoi studi matema-tici. Ma lungimiranti amici della scienza in questo paese sono stati for-

tunatamente in grado di prendere accordi col Brin Mawr College e laPrinceton cosicché lei ha trovato in America, fino al giorno della suamorte, non solo colleghi che avevano in grande considerazione la suaamicizia, ma anche allievi riconoscenti il cui entusiasmo ha reso i suoiultimi anni il periodo più felice e forse il più fecondo della sua interacarriera”.

Questa lettera è la testimonianza dell’affetto e della stima che lega-va Einstein alla Nöether. Chi è Emmy Nöether? Amalia EmmyNöether nasce a Erlangen, cittadina della Baviera, il 23 marzo 1882.

Emmy, come oggi è universalmente ricordata, è la prima dei quat-tro figli di Max Nöether e Ida Amalia Kaufmann, gli altri sono Alfred(1883-1918), Fritz (1884-1941) e Robert (1889-1928).

Max è uno dei più autorevoli professori di Geometria algebrica nonsolo presso la locale Università ma anche in campo internazionale, Idainvece appartiene ad una ricca famiglia ebrea di Colonia. Anche perEmmy, così come per altre scienziate come Sof’ja Kovalavskaja, l’in-fanzia e l’adolescenza seguono i rigidi canoni dell’educazione deltempo riservata alle fanciulle della medio-alta borghesia: studio dellamusica, delle arti e delle lingue; Emmy studia pianoforte, frequentaregolarmente la Höhen Töchter Schule dal 1889 al 1897 (l’istruzioneformale delle ragazze finiva a 14 anni) e nel 1900 supera l’esame perl’insegnamento di francese e inglese nelle scuole femminili bavaresi,pur se non si dedicherà mai all’insegnamento delle lingue.

È una ragazza estroversa, brillante, ama la musica e soprattutto ilballo, ma di sicuro non è particolarmente affascinante: fortementemiope porta delle lenti molto spesse, è anche alquanto trasandata e non

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cura eccessivamente il suo aspetto fisi-co, e si dice che i colleghi del padre,nelle cui case spesso andava a ballare,raccomandassero vivamente ai figli dinon dimenticare di invitarla a ballare.

Come dicevo, non ha alcuna inten-zione di insegnare francese o inglese;il suo interesse per la matematica rap-presenta una forza difficilmente argi-nabile, ma siamo nel 1900 ed alleragazze non è consentito iscriversiall’Università; nel 1898 addirittura il

Senato accademico dell’Università di Erlangen (la stessa dove inse-gnava il padre Max) aveva dichiarato che l’ammissione di studenti disesso femminile “avrebbe sovvertito l’ordine accademico” e vi eranoprofessori che rifiutavano di fare lezione se erano presenti donne nel-l’aula! Nel 1900 finalmente viene concesso alle donne di parteciparealle lezioni e di accedere al colloquio finale per la certificazione pur-ché autorizzate dai professori, quindi tutto è sempre subordinato allesimpatie dei docenti. Emmy ed un’altra ragazza saranno le sole donneiscritte fra circa 1000 studenti; frequenta le lezioni di Matematica e diStoria e contemporaneamente studia per l’esame di maturità chesostiene, da privatista, nel 1903 a Norimberga. Nell’autunno dello stes-so anno va a Göttingen dove frequenta, sempre come uditrice, le lezio-ni di Klein (1849-1925), Hilbert (1862-1943),

Minkowski (1864-1909) e Blumenthal(1876-1944). In que-gli anni Göttingenrappresenta l’eccel-lenza nel campodella Matematica,tanto che a tutti glistudenti della mate-ria era dato il consi-glio “fai le valigie evai a Göttingen”.

La fama di Klein è tale da attirare stu-denti da tutto il mondo, anche dagli StatiUniti e tale interesse è ben ripagato dalla

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meticolosità con la quale egli prepara le sue lezioni e con cui segue gliallievi: aveva anche dato disposizione affinché gli alunni potesseroaccedere liberamente alla biblioteca ed ai libri messi tutti in scaffaliaperti!

A Göttingen Emmy si ferma due anni sia per motivi di salute siaperché nel frattempo il governo bavarese ha modificato le leggi diaccesso all’Università e nel 1904 si può regolarmente iscrivere adErlangen dove si laurea, “summa cum laude”, nel 1907 discutendo latesi Sui sistemi completi di invarianti per le forme biquadratiche ter-narie (Über die bildung des formensystems der ternaeren biquadrati-schen form) sotto la guida di Paul Gordan, considerato “il padre degliinvarianti”.

Gordan (1837-1912) sarà una figura importante nella sua vita, quasiquanto quella del padre, di cui era grandeamico; verso di lui Emmy ha semprenutrito un profondo rispetto anche quan-do, da un punto di vista matematico, si èdistaccata da lui, ed un suo ritratto cam-peggiava nelle pareti del suo studio aGöttingen. Gordan amava camminare eparlare e sono rimaste famose le sue pas-seggiate con soste in birrerie o café doveimprovvisamente e con grandi gesticominciava a parlare di problemi mate-matici, così come sono memorabili i suoi

lavori infarciti ininterrottamente (anche per 20pagine intere!) di formule, dove si dice che lepoche e rare spiegazioni fossero aggiunte dagliamici.

Dopo la laurea ad Emmy non è concesso diinsegnare, ma lei non se ne cura più di tanto erimane a lavorare per sette anni all’Universitàdi Erlangen al Dipartimento di Matematicasenza alcuna retribuzione; collabora attivamen-te sia col padre, la cui salute era molto precariaper gli esiti di una poliomielite avuta da ragaz-zo, sostituendolo talvolta nelle lezioni, sia coni due successori di Gordan, in particolare conErnst Fischer (1875-1954). La frequentazionecon Fischer è praticamente quotidiana, ma esi-

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ste una grande quantità di let-tere e cartoline che i due siscambiarono (accuratamenteconservate da Fischer): infattiEmmy appena arrivata a casasi affrettava a scrivergli sia pernon dimenticare gli argomentitrattati sia per stimolare lacontinuazione della discussio-ne. Sotto la sua guida, si avvi-cina allo stile astratto e teoricodi Hilbert, abbandonandoquello formale della sua tesiche lei stessa definirà “unagiungla di formule” e una pura“faccenda di conti”.

La fama di Emmy, grazie alle sue pubblicazioni, comincia ben pre-sto ad uscire fuori dall’ambito di Erlangen: nel 1908 entra nel circolomatematico di Palermo, nel 1909 è invitata a far parte della DeutscheMathematiker Vereinigung; sempre nel 1909, prima donna a farlo,tiene una conferenza alla riunione annuale della Società MatematicaTedesca a Strasburgo. A quel tempo le uniche donne che si vedevanoai convegni erano… le mogli dei partecipanti! Nel 1913 la riunione sitiene a Vienna e così verrà raccontata dal nipote di uno dei soci, ilmatematico Franz Mertens, che in quell’occasione la conobbe:“Ricordo chiaramente una persona in visita che, sebbene una donna,mi sembrò simile ad un cappellano cattolico di una parrocchia di mon-tagna. Vestita con un indescrivibile pastrano nero che le sfiorava lacaviglia, un cappello da uomo da cui spuntavano capelli corti (ancorauna rarità all’epoca) e con una borsa a tracolla sistemata di traversosimile a quella dei ferrovieri all’epoca dell’impero. Era una ben stranafigura. Avrà avuto circa trent’anni allora. L’avrei facilmente scambia-ta per un prete di qualche villaggio dei dintorni”. In questa descrizio-ne è racchiuso quello che verrà chiamato “lo stile alla Nöether”.

Negli anni tra il 1913 e il 1914 intensifica la collaborazione conHilbert e Klein; essi si stavano entrambi interessando alla teoria dellarelatività generale di Einstein che nel 1915 (dal 29 giugno al 6 luglio)tiene a Göttingen dei seminari su relatività e gravitazione; i due scien-ziati, impressionati dall’intuito di Emmy, dalla sua capacità di astrarree generalizzare i problemi, la invitano a trasferirsi a Göttingen. Lei

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accetta l’invito con l’entusiasmo che caratterizza il suo lavoro: nell’a-prile del 1915 si stabilisce a Göttingen città che non lascerà, se nonsolo per brevi periodi e per motivi di studio, fino al 1933.

La presenza di Klein e di Hilbert ne aveva fatto il centro più impor-tante di Matematica, qui si radunarono attorno a loro, per periodi più

o meno lunghi, le menti piùbrillanti sia nel campo dellamatematica sia in quello dellafisica, da Hermann Weyl aCostantin Carathéodory, daAndré Weil a Claude Chevalley,da Max Born a Wolfang Pauli eWerner Heisenberg. Hilbert fudefinito da Hermann Weyl “unpifferaio magico che lo attiravanel profondo fiume della

Matematica”; egli dopo i seminari riuniva i suoi “ragazzi prodigio” amangiare in una trattoria dove continuava a parlare ininterrottamentedi matematica.

Hilbert cercò di far assegnare alla Nöether un incarico ufficiale daparte dell’Università, ma per ottenerlo occorreva l’Habilitation.L’Università di Göttingen era stata la prima a concedere la laurea aduna donna, ma l’abilitazione all’insegnamento era tutta un’altra cosa.Molti professori, in particolare quelli di filologia, di filosofia e di sto-ria, si opponevano in maniera decisa. Il 20 luglio 1915 Emmy presen-ta la richiesta per l’abilitazione all’insegnamento, sempre sostenuta daHilbert che in una lettera al Ministero sostiene: “La nostra istanza nonha l’obiettivo di andare contro il decreto ma chiede di prendere in con-siderazione una dispensa per questo caso particolare, più unico cheraro”; la risposta da parte del Ministero arriva dopo due anni: “Non sipossono concedere eccezioni, anche in un caso così particolare in cuil’eccezione è innegabile”.

Hilbert protestò vivamente contro questo diniego, obiettando chenon capiva per quale motivo il sesso della candidata dovesse esserediscriminatorio per la sua ammissione come professore, continuandocon una frase divenuta famosa “dopotutto questa è una Università enon uno stabilimento balneare”, facendo riferimento al fatto che allo-ra ai bagni a mare o al lago uomini e donne erano separati. Non aven-do ottenuto alcun risultato con le sue proteste Hilbert risolse il proble-ma a modo suo: nel semestre invernale 1916-1917 la Nöether tenne

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lezioni sulla teoria degli invarianti, annunciate con il nome del prof.Hilbert.

Anche Einstein resta impressionato dalle capacità di Emmy e, a pro-posito di un articolo da lei pubblicato in gennaio (Invarianten beliebi-ger Differentialausdrücke) così scrive a Hilbert il 24 maggio 1918:“Ieri ho ricevuto dalla signorina Nöether un lavoro molto interessantesugli invarianti. Mi impressiona molto il fatto che qualcuno riesca acomprendere questioni di questo tipo da un punto di vista così genera-le. Non sarebbe stato male mandare la vecchia guardia di Göttingen ascuola da Fräulein Nöether. Di sicuro conosce bene il suo mestiere”.

Alla fine del 1918 Einstein, anche lui contrariato per il modo in cuiveniva trattata dai responsabili dell’Università, scrive a Klein: “Nelricevere il nuovo lavoro della Nöether ho riflettuto di nuovo sulla gros-sa ingiustizia che le viene fatta negandole la venia legendi. Io sarei del-l’avviso di intraprendere un energico passo verso il Ministero. Se leinon lo ritiene possibile, allora me ne incaricherò io stesso”.

Finalmente nel 1919 il Ministero concede l’autorizzazione all’abi-litazione all’insegnamento delle donne, come tesi di abilitazioneEmmy presenta il lavoro Invariante Variationsproblem, nel qualedimostra il famoso risultato, ora noto come Teorema di Nöether, chestabilisce il legame tra simmetrie in fisica e leggi di conservazione. AGöttingen lavora in modo quasi fre-netico, pubblica moltissimi ed impor-tanti lavori che le procurano notorie-tà internazionale, tanto che numerosimatematici stranieri vengono dallaCina, dal Giappone, dagli Stati Unitioltre che da vari paesi europei perlavorare con lei, tra i tanti possiamocitare Bertel van der Waerden, EmilArtin e Pavel Alexandrof.

Nel 1923 ottiene finalmente un incarico di insegnamento retribuito“um schweren wirtschaftliche Schädigungen das Frl. Nöether zu ver-hueten” (per evitare pesanti danni economici alla Frl. Nöether), inca-rico importante perché il padre Max era morto e a causa dell’inflazio-ne seguita alla prima guerra mondiale, la rendita familiare della qualeEmmy godeva non era più sufficiente per le sue necessità.

Nel 1928 viene invitata a Mosca, rientrata l’anno successivo, con-tinua la collaborazione con i suoi studenti e molti suoi risultati scien-tifici sono pubblicati nei lavori dei suoi allievi.

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Nel 1930 van der Waerden, rientrato ad Amsterdam, pubblica laprima edizione del testo Moderne Algebra, in due volumi, ritenuto ilpiù importante libro di Algebra del secolo e il cui secondo volume èinteramente ispirato alle teorie ed alle lezioni di Emmy. La posizionedi quest’ultima fra i matematici di Göttingen è sicuramente preminen-te mentre non lo è la sua situazioneaccademica; Hermann Weyl che nel1930 aveva rilevato la cattedra diHilbert affermò: “Quando ebbi un inca-rico stabile a Göttingen nel 1930, cer-cai in tutti i modi di ottenere dalMinistero una migliore posizione perlei, perché mi vergognavo di occupareuna posizione tanto privilegiata rispet-to a lei, che ritenevo superiore a mecome matematico sotto molti punti divista. Non ci riuscii, così come fallì untentativo di sostenere la sua elezionecome membro dell’Accademia delle Scienze di Göttingen. Tradizione,pregiudizio, considerazioni esterne, fecero pendere la bilancia contro isuoi meriti scientifici e la sua statura scientifica, che all’epoca non eranegata ad alcuno”.

Tuttavia qualche riconoscimento comincia ad esserle dato: nel 1930è chiamata a sostituire il prof. Carl Ludwig Siegel all’Università diFrancoforte, nel 1932 assieme ad Emil Artin le viene assegnato il pre-mio Alfred Ackermann-Teubner per The Advancement of Mathematicalknowledge, nel settembre dello stesso anno al congresso mondiale deiMatematici a Zurigo (247 delegati ufficiali e 420 partecipanti) è laprima donna a tenere una delle plenary lectures su Le algebre e le loroapplicazioni all’algebra commutativa e alla teoria dei numeri.

Se il 1932 è l’anno in cui riscuote notevoli successi scientifici ericeve i maggiori riconoscimenti, il 1933 è l’anno del dramma: Emmyè ebrea, è pacifista, è di idee socialiste.

Il 30 gennaio Hitler era stato nominato Cancelliere del terzo Reich,il 7 aprile cominciano ad essere promulgate le leggi razziali: alleUniversità viene dato l’ordine di allontanare dall’insegnamento tutticoloro che avevano sangue ebraico nelle vene. Anche Emmy, comemolti altri colleghi, riceve la lettera del ministero per le“Wissenschaften, Kunst und Volksbildung” (scienza, arte e istruzione)con cui viene licenziata.

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L’università verrà tanto falcidiata da queste disposizioni che quan-do il nuovo ministro per l’educazione, nel corso di un ricevimentochiede a Hilbert “Come va la Matematica a Göttingen ora che l’abbia-mo liberata dall’influenza ebraica?”, Hilbert, ormai settantenne, masempre indomito rispose seccamente: “La Matematica a Göttingen?Non esiste più”. Weyl che dirigeva il Dipartimento di Matematicaaveva scritto numerose lettere al ministro per l’educazione per perora-re la causa di Emmy, lettere che avevanotutte come primo firmatario lo stessoHilbert, ma inutilmente: Emmy è costretta apartire e lo stesso Weyl, la cui moglie eraebrea, decide di andare negli Stati Uniti.Così nell’ottobre del 1933 si imbarca sulpiroscafo Bremen alla volta degli StatiUniti; tornerà brevemente nell’agosto 1934per organizzare la spedizione dei suoi benima, soprattutto, per vedere Fritz, l’unicofratello ancora in vita, anche lui eminentematematico, prima della sua partenza perl’Università di Tomsk, in Russia, dove peròavrà un destino tragico: accusato di spio-naggio a favore della Germania, sarà pro-cessato e fucilato per tradimento nel 1941.

La fama della quale Emmy godeva negli Stati Uniti, l’interessa-mento di personaggi come Einstein, Weyl, Lefschetz (“come guidadella scuola di Algebra moderna, ha di recente sviluppato in Germaniala sola scuola degna di nota, nel senso non solo di un lavoro isolato madi un gruppo di lavoro scientifico di alta qualità. Non è esagerato direche, senza eccezione, tutti i migliori giovani matematici tedeschi sonosuoi allievi. Non fosse stato per la sua razza, il suo sesso e le sue opi-nioni politiche, peraltro moderate, sarebbe divenuta un professore d’al-to rango in Germania”) non furono sufficienti a farle avere una catte-dra in una università prestigiosa e degna delle sue qualità, ma grazieall’Institute for Advanced Studies ed alla Fondazione Rockfeller, chepagò per un anno intero il suo stipendio, le fu creato un posto ad hoccome visiting professor al College Femminile di Bryn Mawr, vicinoPrinceton, dove ancora una volta Emmy seppe adattarsi e lavorò senzarisparmiarsi. Anche negli Stati Uniti attirò una folta schiera di allievi,ma non ebbe tempo di creare una vera e propria scuola perché il 10aprile 1935, quattro giorni dopo essere stata operata per un tumore

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all’utero, morì improvvisamente e inaspettatamente per una infezione. Lesue ceneri furono sepolte vicino alla biblioteca del college di Bryn Mawr.

Dopo la seconda guerra mondiale l’Università di Erlangen ha cer-cato di onorare la memoria della Nöether: una conferenza fu organiz-zata nel 1958 per commemorare il 50° anniversario del suo dottorato,nel 1982 venne posta una targa commemorativa nell’Istituto diMatematica, mentre una scuola porta ora il suo nome.

Oltre Einstein (la cui testimonianza è stata riportata all’inizio diquesto contributo), anche Weyl al funerale la ricordò con commozio-ne, Alexandrov la commemorò a Mosca, mentre Van der Waerdenscrisse un articolo che fu pubblicato sulla rivista “MathematischeAnnalen” (nel 1935, in pieno regime nazista, fece l’elogio di una mate-matica ebrea!).

La sua carriera non è stata facile ma lei, incurante di tutti gli osta-coli che le venivano frapposti, ha sempre continuato a lavorare alacre-mente. In una biografia i suoi nipoti, Emiliana e Gottfried, figli del fra-tello Fritz, che Weyl era riuscito a far venire negli Stati Uniti dopo lamorte del padre, riferiscono: “Hermann Weyl ha sottolineato comeEmmy non fosse mai stata una ribelle durante la sua vita. Ma chi cono-sce i suoi pensieri più intimi nei primi anni del 1900? Non lo sapremoprobabilmente mai e possiamo solo fare supposizioni. Ciò che impor-ta è che ha affrontato le difficoltà, ha perseverato, malgrado tutte lesciocchezze sulle donne, ed è divenuta uno dei matematici più signifi-cativi del suo secolo”.

Anche se tardi Emmy vinse la sua battaglia per diventare professo-re; ma quello che era il motivo principale per cui fu ostacolata, esserecioè una donna, era in effetti quello che meno veniva considerato dachi le stava accanto.

Non era dotata di una particolare bellezza ma i giudizi sul suoaspetto sono decisamente impietosi. Weyl che la conosceva bene e la

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stimava moltissimo disse: “Nessuno potrebbe sostenere che le Grazieabbiano presieduto alla sua nascita”, e ancora: “Ci sono state solo duedonne matematiche nella storia: Sof’ja Kovalevskaya ed EmmyNöether: la prima non era una matematica, la seconda non era unadonna”, mentre un altro matematico di Göttingen, Edmund Landau,preso un po’ alla sprovvista da un giornalista affermò: “Non c’è dub-bio che sia stata una grande matematica, ma che fosse una donna nonposso giurarlo”. Solitamente quando si parlava di Emmy veniva indi-cata come “der Nöether”; il primo a chiamarla così fu Alexandrov, unodei suoi allievi più famosi, il quale poi specificò “la sua femminilità simanifestava in quel gentile e sottile liricismo che era al cuore degliassai diffusi ma mai superficiali interessi nei confronti delle persone,della sua professione e dell’intera umanità”. Le persone che ebbero lafortuna di conoscerla dicevano di lei che aveva “una voce forte e sgra-devole”, che “il suo abbigliamento faceva borse da tutte le parti”, peròtutti ne esaltavano le qualità umane; fu ancora una volta Weyl a direche “era piena di calore umano quanto una pagnotta di pane”.

Emmy era sempre circondata da una folta schiera di devoti e affe-zionati discepoli che lei stessa chiamava “trabanten” (seguaci) o, comefurono soprannominati i “Nöether boys”; a detta di Norbert Wiener(1894-1964), matematico statunitense che era stato a Göttingen)“Sembrava una robusta lavandaia molto miope i cui studenti si affol-lavano intorno a lei come una nidiata di anatroccoli intorno a unachioccia materna ed affettuosa”.

Ho cominciato questo articolo col necrologio scritto da Einstein,

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finisco questa carrellata con una parte del discorso letto al funerale daHermann Weyl:

“È venuta l’ora, Emmy Nöether, in cuinoi dobbiamo per sempre separarci da te.Molti sono profondamente commossi perla tua scomparsa, nessuno più del tuoamato fratello Fritz che, separato da te damezzo mondo, è stato impossibilitato adessere qua. Il suo saluto a te avverrà tra-mite le mie parole. Suoi sono i fiori che iolascio sul tuo feretro. Noi chiniamo ilcapo in manifestazione del suo dolore,che non possiamo esprimere a parole... Iltuo riposo finale sarà in suolo straniero,nella terra di questo grande paese ospitaleche ti ha offerto un posto in cui portare avanti il tuo lavoro dopo che iltuo paese ti ha chiuso le porte. Sentiamo il bisogno in questo momen-to di ringraziare l’America per quello che ha fatto negli ultimi due annidi difficoltà per le scienze tedesche e di ringraziare soprattutto il BrynMawr, dove erano tutti felici e orgogliosi di includere te tra i loro inse-gnanti. Giustamente orgogliosi, perché tu eri una grande donna mate-matico - non riserve nel definirti la più grande che la storia abbia maiconosciuto. Il tuo lavoro ha cambiato il modo in cui noi guardiamoall’algebra, e con le tue molte lettere gotiche hai lasciato il tuo nomescritto in modo indelebile attraverso le sue pagine. Nessuno, forse, hacontribuito tanto quanto te a rimodellare l’approccio assiomatico in unpotente strumento di ricerca, invece di un semplice aiuto nella deluci-dazione logica dei fondamenti della matematica, come era stato in pre-cedenza. Tra i tuoi predecessori in algebra e teoria dei numeri quelloche ti si è avvicinato di più è stato probabilmente Dedekind.

Quando, in questo momento, penso a ciò che faceva di te quello cheeri, due cose mi vengono subito alla mente. La prima è l’originale eproduttiva forza del tuo pensiero matematico. Come un frutto troppomaturo, sembrava dovesse esplodere attraverso l’involucro della tuaumanità. Eri ad un tempo strumento e ricettacolo la forza intellettualeche veniva da te e avanzava con te. Non eri di argilla, armoniosamen-te modellata dalla mano artistica di Dio, ma un pezzo di primordialeroccia in cui Lui aveva soffiato genio creativo.

La forza della tua genialità sembrava trascendere i confini del tuosesso - abbiamo scherzosamente, ma in modo reverenziale, parlato di

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te al maschile, come “der Nöether”. Ma tu eri una donna, materna, econ un candido cuore d’oro. Non solo hai donato molto ai tuoi studentiintellettualmente - completamente e senza riserve - ma essi si racco-glievano tutti intorno a te come pulcini sotto le ali di una mammachioccia; li hai amati, te ne sei presa cura e hai vissuto con loro in stret-ta comunità.

La seconda cosa che mi viene in mente è che il tuo cuore non cono-sceva malizia; non credevi nel male, infatti non hai mai creduto cheesso potesse giocare un ruolo nelle vicende dell’uomo. Questo non miè mai stato più chiaro che nell’ultima estate che abbiamo passato insie-me a Göttingen, l’estate tempestosa del 1933. Nel bel mezzo della lottaterribile, della distruzione e degli sconvolgimenti che accadevanointorno a noi tra tutte le fazioni, in un mare di odio e violenza, di paura,tu sei andata avanti per la tua strada meditando sulle sfide della mate-matica con la stessa laboriosità di sempre.

Quando non ti è stato consentito di usare le sale di letturadell’Istituto tu hai raccolto i tuoi studenti in casa tua. Persino quelli incamicie brune erano i benvenuti, neppure per un secondo hai dubitatodella loro integrità. Senza riguardo per il tuo personale destino, a cuoreaperto e senza paura, sempre conciliante, sei andata avanti per la tuastrada. Molti di noi ritenevano che fosse stata scatenata una inimiciziain cui non ci sarebbe potuto essere perdono; ma tu sei rimasta estraneaa tutto questo. Tu eri felice di tornare a Göttingen la scorsa estate, incui, come se nulla fosse accaduto, hai vissuto e lavorato conMatematici tedeschi che lottano per gli stessi obiettivi. Avevi anchepianificato di fare lo stesso questa estate.

Tu meriti veramente la corona che i matematici di Göttingen mihanno chiesto di deporre sulla tua tomba.

Non sappiamo cosa sia la morte. Ma non è confortante pensare chele anime si incontreranno di nuovo dopo questa vita sulla terra, e che

l’anima di tuo padre ti accoglierà? Ha un padre trovato nella figlia unsuccessore più degno, grande di per sé?

Tu ci sei stata strappata nel fiore della tua creatività; la tua improv-visa scomparsa, l’eco di un tuono, è ancora scritta sui nostri volti. Mail tuo lavoro e la tua indole manterranno a lungo viva la tua memoria,nella scienza e tra i tuoi studenti, amici e colleghi.

Addio quindi, Emmy Nöether, grande matematico e grande donna.Se decadranno le tue spoglie mortali, noi avremo sempre a cuore l’e-redità che ci hai lasciato”.

Due scuole che portano il nome di Emmy Nöether, la prima a Erlangen laseconda a Berlino

Bibliografia

Brigaglia Aldo, Emmy Nöether. La mamma dell’algebra, in ViteMatematiche, Springer, Milano 2007.Bonolis Luisa, Genio matematico e trasandato, in “Galileo giornale discienza”, Gennaio 2002 (www.galileone.it).Roquette Peter, Emmy Nöether and Hermann Weyl, Relazione presen-tata alla conferenza su Hermann Weyl, Bielefeld (Germania) 10-09-2006.Mezzetti E. - Ughi M., Emmy Nöether, (www.enciclopedia delledonne.it).

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Secrets of Longevity

Angela Porto

La possibilità di non invec-chiare, di trovare la fonte dell’e-terna giovinezza che ha il poteredi resuscitare o di ringiovanire,simbolo d’immortalità e di eter-na gioventù, appare nella mito-logia medievale e classica dimolte culture e ha sempre desta-to curiosità e interesse nell’uo-mo. La ricerca del luogo dellamitica fonte è stata oggetto didiscussioni sin dai tempi più antichi: nelle sue Storie, Erodoto collocatale luogo magico tra i fertili altipiani dell’Etiopia e descrive le acquedella fonte come miracolose, capaci di guarire qualsiasi malattia; nellamitologia mesopotamica Gilgamesh, mitico re dei Sumeri, sconvoltodalla morte del valoroso Enkidu, parte alla ricerca dell’unico uomo checonosce il segreto dell’immortalità Utnapisht, antico re di Shuruppak,sopravvissuto al diluvio universale; nel Romanzo di Alessandro, raccol-ta di racconti leggendari sulla vita del condottiero macedone, si narra

che egli, accompagnato dal suopiù fidato servitore, si inoltravanella Terra delle Tenebre per tro-vare la fonte miracolosa.

Ma fu soprattutto la versionearaba, curata dal misterioso sag-gio Al-Khidr, portata in Spagnadalle truppe del califfo Al-Walid(668-715), che affascinò lanobiltà cristiana e, insieme allasuccessiva riscoperta rinasci-mentale delle fonti greche origi-nali, spinse molti hidalgos aritenere veritiero il mito dellaFonte, contribuendo alla loro

Al - Khidr e Alessandro Magno mettono un pescedentro la fonte per ridargli la vita.

La fonte della giovinezza dipinta da LucasCranach il vecchio.

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massiccia partecipazione alla conquista delle Americhe nei primidecenni del XVI secolo mossi sia dal sogno dell’Eldorado che dallasperanza dell’immortalità.

Dopo la scoperta delle Americhe si è credutoche essa potesse trovarsi in Florida terra che erastata scoperta all’inizio del XVI secolo dallo spa-gnolo Juan Ponce de Leòn in occasione di unadelle tante esplorazioni a nord di Cuba proprio allaricerca della mitica fonte. L’esplorazione dellamisteriosa regione, ricca di foreste ed acquitrini,durò oltre quattro mesi, segnati dall’incontro del-l’esploratore con sconosciute popolazioni indigenee strane specie animali.

Nella mente di Juan Ponce de Leòn, affasci-nata dalla mitologia e dall’epica cavalleresca, ilvasto territorio finì dunque per essere identifica-to con la Terra delle Tenebre, cercata da Ales-sandro molti secoli prima, e l’ulteriore scoperta di alcune acque termalinei dintorni di Pensacola rafforzò definitivamente questa sua convin-zione. Cinquant’anni dopo la sua morte, un marinaio di nomeHernando de Escalante Fontaneda, che in seguito ad una naufragio eravissuto quasi vent’anni tra gli indiani della Florida, scrisse nelle suememorie che la “Fonte dell’Eterna Giovinezza” si trovava proprio inquelle foreste. Il mistero però rimase per sempre insoluto.

Oggi il sogno dell’eterna giovinezza è affidato alla ricerca scientificae la nona edizione della Conferenza Mondiale “The Future of Science”promossa dalla Fondazione Umberto Veronesi, che ha riunito sull’Isoladi San Giorgio a Venezia, dal 19 al 21 Settembre, alcuni dei maggioriesperti mondiali, è stata dedicata ai Segreti della Longevità. Ventisetterelatori, tra ricercatori biomolecolari, biologi, psicologi, neuroscienziati,antropologi, evoluzionisti, nutrizionisti, sociologi, demografi, economi-sti, hanno spiegato i meccanismi legati all’invecchiamento e come rag-giungere l’ambizioso obiettivo di ritardarlo il più possibile.

La longevità è uno dei fenomeni più importanti della nostra epoca,che comporta profondi mutamenti dal punto di vista sociale, culturalee medico-scientifico. Si trasformano i ruoli e i tempi di ogni età dellavita, con conseguenze demografiche, economiche e biologiche.

Oggi si può affermare che sono diversi fattori che, interagendo fraloro, giocano un ruolo fondamentale nel processo dell’invecchiamen-to: i geni, l’alimentazione e la psiche.

Ritratto in un dipinto anoni-mo del 1513.

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Dopo l’apertura dei lavori affidata a Giovanni Bazoli, presidentedella Fondazione Cini, a Marco Tronchetti Provera, presidente dellaFondazione Silvio Tronchetti Provera, a Kathleen Kennedy Townsend,vicepresidente di The Future of Science,e a Chiara Tonelli, professore diGenetica dell’Università degli studi diMilano, il primo relatore è stato ilprof. Howard Friedman, psicologodell’Università della California aRiverside e anche autore, assieme aLeslie Martin, professore di psicolo-gia alla La Sierra University, del libroThe Longevity project.

Unico grande assente il prof.Umberto Veronesi, a causa di unalieve indisposizione, da sempre esempio di splendida longevità e soste-nitore della dieta vegetariana. Lo scienziato in una recente intervista alquotidiano “Il Messaggero” ha dichiarato: “Il decadimento del corpo èinevitabile, ma quello della mente no; pensiamo a Chagall, a Picasso ea Montale. Le scoperte più recenti dimostrano che se alleniamo lanostra mente possiamo mantenerla in forma più a lungo del nostrocorpo e se da un lato perderemo alcune facoltà, per esempio la memo-ria, dall’altro possiamo acquisirne nuove come la creatività e la logica”.

Il prof. Friedman, ha studiato i dati raccolti sulle persone inserite inuno studio epidemiologico nel 1922, il“Terman Life Cycle Study”, che reclutò 1.500bambini, seguiti lungo la loro vita dal dottorLewis Terman, e dai suoi collaboratori dopoche lui morì nel 1956. Esaminando i soprav-vissuti e le cause di morte di quelli che nel frat-tempo erano già deceduti, ha potuto correlarela personalità, i comportamenti di vita assuntigià nell’infanzia e la longevità.

Dai risultati delle sue ricerche si evinceche, a meno di incidenti inaspettati, se e quan-

to una persona vivrà a lungo e in buona salute può in gran parte esse-re previsto da variabili correlate alla vita personale e lavorativa. “Èemerso che essere sempre allegri e amanti del divertimento non è ilvero segreto, afferma Friedman, piuttosto coloro che sopravvivono eche prosperano sono le persone più coscienziose, prudenti, perseve-

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ranti, con molti progetti e che sono coinvolte e immerse in attività divalore, non sono, invece, i pensionati e quelli che si rilassano o gioca-no a golf a restare in salute e vivere a lungo”.

Essere sposati, avere una fede religiosa, amicizie, affetti, successoe soddisfazione sul lavoro, sono tutti elementi collegati positivamenteallo stato di salute e alla longevità. Lo stress sociale causa ipertensio-ne, immunosoppressione, infiammazione e si è visto che gli uominivedovi o divorziati hanno minori aspettative di vita.

Il prof. Mark Cropley, professore di psicologia della salute pressol’University of Surrey, aggiunge a quanto detto dalprof. Friedman che “è stato dimostrato che il lavoroapporta vantaggi non solo economici, ma anche allasalute e al benessere e chi lavora è più sano e felice dichi non lavora; ma è stato anche dimostrato che unlavoratore anziano ha più possibilità di soffrire di affa-ticamento e necessita di maggiore riposo e tempi direcupero più lunghi”.

Possiamo quindi concludere che avere interessi,obiettivi, affetti, svolgere un lavoro gratificante, avendo sempre anchecura di non esporsi ad un eccessivo affaticamento, favorisce lo stato dibenessere e allunga la vita. Parlare di longevità impone di chiarire ilconcetto di invecchiamento dal punto di vista biologico: cosa accadealle cellule del nostro corpo quando invecchiamo? L’invecchiamento èla perdita progressiva dell’integrità cellulare e le malattie la cui inci-denza e le cui manifestazioni sono legate all’avanzare dell’età sono ilcancro, l’aterosclerosi, le malattie vascolari e una complessa serie di“sintomi” legati al progressivo decadimento delle funzioni cellulari.

Le ricerche del prof. Giuseppe Pellicci, docentedi Patologia Generale presso l’Università degli Studidi Milano e Direttore del Dipartimento di OncologiaSperimentale dell’Istituto Europeo di Milano, sonorivolte alla genetica molecolare della longevità e sibasano sull’identificazione di centinaia di geni1

mutanti che influenzano la durata della vita in orga-nismi quali nematodi, lieviti, moscerino della fruttae topi. La maggior parte di questi geni opera attra-verso pathway (vie metaboliche), conservati nel corso dell’evoluzione(via di segnalazione dell’insulina, TOR pathway, catena mitocondria-le2 di trasporto di elettroni), che regolano le richieste nutrizionali, ilmetabolismo energetico, la crescita e la riproduzione.

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Nel 1988 studi statunitensi scoprirono un gene (age-1), nel DNAdel verme Caenorhabditis elegans, la cui eliminazione provoca l’allun-gamento della sua vita di circa il 65% e undici anni dopo si scoprì neltopo un gene analogo il p 66. Negli ultimi venti anni sono stati scopertialtri geni, con medesime funzio-ni, nei nematodi, nei lieviti, neitopi e la cui presenza anche nel-l’uomo porta a pensare che pos-sano svolgere lo stesso ruolo.

Queste scoperte cambiano ilmodo di affrontare il problemadell’invecchiamento e mentreprima si pensava di prolungare lavita sconfiggendo le malattie,oggi si può intravedere uno stru-mento nella modulazione chimi-ca della funzione dei “geni dell’invecchiamento”, con mezzi farmaco-logici, per prolungare la durata della vita e ridurre l’incidenza e/o lagravità di malattie associate all’età avanzata.

Per trattare questo argomento bisogna chiarire i meccanismi mole-colari dell’invecchiamento e il ruolo e la funzione che svolgono questigeni. Le cellule invecchiano perché si accumulano, nel tempo, danninel DNA, alterazioni nei mitocondri e nel metabolismo energetico,riduzione dell’integrità dei telomeri e alterazioni nel ricambio delleproteine. Le nostre cellule devono dividersi continuamente per mante-nere la funzionalità dei tessuti, ma la conseguenza di queste ripetutedivisioni comporta la possibilità di danni nel DNA e la formazione dicellule tumorali; per questo la natura ha selezionato una serie di geni“oncosoppressori “(es. p53, p21) che, nel caso in cui la cellula abbiaun danno irreparabile, ne determinano l’autodistruzione mediante unmeccanismo intrinseco detto “apoptosi”. Questi geni ci difendono dal-l’insorgenza dei tumori, ma sono anche responsabili dell’invecchia-mento perché riducono, nel tempo, le cellule nei vari tessuti, limitandole loro funzioni.

Un altro fattore importante, nel processo dell’invecchiamento, è lapresenza dei radicali liberi che sono specie chimiche con un elettronespaiato in un orbitale esterno e quindi estremamente instabili e alta-mente reattive. I ROS (Reactive Oxygen Specie), sono radicali liberidell’ossigeno, che attraverso lo stress ossidativo causano danni allastruttura della membrana cellulare, alla struttura del DNA e alla strut-

Struttura del cromosoma

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tura delle proteine alterandone la funzionalità. I ROS si formano nellecellule sia in seguito alle loro reazioni metaboliche sia in seguito a sti-moli esterni e la loro azione negativa fu descritta per la prima volta dalpremio Nobel 1995 Denham Barman.

La produzione di radicali liberi avviene nelle reazioni di ossidori-duzione nel normale metabolismo biochimico della cellula, nel meta-bolismo di sostanze chimiche esogene (alcool-farmaci-fumo), nell’in-fiammazione (i leucociti attivati producono ROS per uccidere virus ebatteri) e con l’esposizione alle radiazioni ionizzanti. Un organismosano è in grado di contrastare la produzione di ROS attraverso antios-sidanti endogeni (scavangers) o introdotti con la dieta; ma se il rap-porto fra la produzione (proossidanti) e la distruzione (antiossidanti),espresso dal concetto di bilancia perossidativa del sistema, è sbilancia-to verso i processi proossidanti si produce lo stress ossidativo. Per fareun esempio: una lamina di ferro se adeguatamente protetta non vieneintaccata dall’ossigeno contenuto nell’aria. Se però la protezione vienemeno, l’ossigeno interagisce con gli atomi di ferro e la lamina, coltempo, arrugginisce fino a disintegrarsi. Qualcosa del genere avvieneanche nel nostro organismo.

Tra i meccanismi antiossidanti endogeni di difesa ricordiamo le vieenzimatiche della catalasi, xantinossidasi, superossidismutasi e traquelli esogeni, che vengono a sostegno delle prime quando questesiano esaurite, introdotti con l’alimentazione, le vitamine A, C, E e i

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minerali che servono a queste da substrato come il magnesio.Lo stress ossidativo nel tempo provoca l’invecchiamento ed è stato

dimostrato che, disattivando l’azione dei geni coinvolti nella produ-zione dei radicali liberi, si prolunga la vita negli animali di laboratorio;invece l’aumento dell’attività di uno di questi geni, indotta artificial-mente, causa l’invecchiamento precoce. Utilizzando topi p66Shc-/-(privi della proteina p66Shc), si è notato che la mancanza di tale pro-teina induce resistenza all’obesità, all’aterosclerosi, al danno ischemi-co, al diabete e si verifica una riduzione dello stress ossidativo con unaumento della durata della vita. Questa proteina regola, quindi, l’equi-librio ossido-riduttivo intracellulare e i processi ad esso correlati qualila crescita cellulare e l’apoptosi e la sua presenza aumenta i livelliintracellulari di ROS incrementandone la produzione sia dai mitocon-dri che dalle ossidasi della membrana plasmatica e inibendo, nellostesso tempo, l’azione degli enzimi scavanger dei ROS.

Tutto ciò potrebbe far pensare che l’invecchiamento è la conse-guenza negativa di geni che svolgono fun-zioni utili. Ma, con recenti scoperte, si èvisto che l’azione di questi geni è correlataalla produzione di insulina, ormone essen-ziale nella regolazione del metabolismoenergetico, che individua la quantità dinutrienti, l’energia disponibile e ne dirigel’utilizzo. È possibile dedurre che l’assun-zione di nutrienti, l’utilizzo dell’energia el’invecchiamento siano tra loro legati; infat-ti in animali, quali la scimmia e il topo, una dieta a basso contenutocalorico prolunga la vita, riduce l’incidenza di numerose malattiecome il cancro, le malattie autoimmuni e degenerative, favorisce ilmiglioramento dei sistemi di riparazione dei danni al DNA e alle pro-teine e aumenta la protezione dai radicali liberi. A questi vantaggimirati al prolungamento della vita si aggiunge però una riduzione dellafertilità.

Oltre ai “geni dell’invecchiamento” nel 1999 sono stati scopertigeni per le sirtuine con funzione opposta, infatti rallentano il processodell’invecchiamento nei vermi, nella mosca e sono attivati da una dietaipocalorica. Le sirtuine sono una famiglia di proteine coinvolte in mol-teplici processi cellulari e nei mammiferi esistono sette sirtuine (da 1a 7) che regolano molti aspetti del metabolismo energetico e, soprat-tutto, modulano lo stato di acetilazione della cromatina e la sua tra-

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scrivibilità. La dieta ipocalorica aumenta l’attività di questi “genidella longevità” come anche il resveratrolo presente nell’uva, ma ibenefici della dieta vengono annullati in animali in cui si attua unainattivazione artificiale dei geni.

L’insieme di queste scoperte porta ad una conclusione: l’evoluzio-ne ha elaborato un programma genetico atto a ottimizzare le risorseenergetiche. Nei momenti di scarsità di cibo vengono attivati i “genidella longevità” in modo da investire tutte le risorse nel mantenimen-to dell’integrità dell’organismo rinviando le attività energeticamentedispendiose quali la riproduzione. Al contrario alla disponibilità dicibo si accoppia l’attivazione dei “geni dell’invecchiamento” che favo-riscono i processi riproduttivi, ma non privilegiano l’integrità delcorpo.

Questa ipotesi è avvalorata da studi condotti utilizzando due grup-pi di topi privi del gene dell’invecchiamento p66 dei quali uno è statomantenuto in uno stabulario (laboratorio dove vengono tenuti gli ani-mali) in condizioni favorevoli e disponibilità di cibo, l’altro è stato tra-sferito in Siberia nell’unico stabulario all’aperto del mondo. I topinello stabulario al chiuso, con cibo abbondante e al caldo, senza il p66sono vissuti più a lungo dei topi normali (circa del 30%); invece i topisenza il p66 esposti al freddo siberiano, dove topi normali sopravvivo-no, non hanno superato l’inverno. I risultati ottenuti fanno pensare chela proteina p66Shc svolga un ruolo fondamentale nell’adattamentodell’organismo al freddo e alla scarsità di cibo, favorendo l’accumulodel tessuto adiposo e garantendo la sopravvivenza e la riproduzione. Incaso contrario l’accumulo di grasso diventa dannoso favorendo l’in-sorgenza di malattie quali il diabete, il cancro, le sindromi cardiova-scolari e incrementando il processo di invecchiamento.

Ma perché invecchiamo?Il prof. Thomas Kirkwood, della Newcastle

University, ha elaborato già fin dagli anniSettanta la teoria del disposable soma cioè del“corpo usa e getta”. “La ragione dell’invecchia-mento sta nel fatto che le nostre energie per lariparazione dell’organismo sono state program-mate per farci sopravvivere in salute per uncerto periodo di tempo e poi si esauriscono. Ese i danni non sono più riparati si va incontroalla senescenza e alla morte. Kirkwood ipotiz-

za che “una delle ragioni per cui, nella maggior parte degli animali,

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non si sono evoluti sistemi di mantenimento in grado di assicurarel’immortalità è che, così facendo, si sarebbe sprecata dell’energia chepuò essere sfruttata per la riproduzione”.

La risposta alla domanda “perché invecchiamo” potrebbe quindiessere: “l’invecchiamento è il prezzo che paghiamo per l’immortalitàdella specie”. Oggi la ricerca è finalizzata a stabilire la validità del-l’intervento nutrizionale nell’uomo.

Il prof. Luigi Fontana, docente presso il diparti-mento di Medicina dell’Università di Salerno e laWashington University Medical School, esperto innutrizione e invecchiamento, spiega come, in unadieta, siano importanti sia il numero di calorie, siala qualità degli alimenti. Restrizione calorica nonsignifica malnutrizione, basta seguire una dietamoderatamente ipocalorica povera in proteine maricca di buoni nutrienti per favorire uno stato dibuona salute. La ricerca sui benefici di una dieta a ridotto numero dicalorie è iniziata negli Stati Uniti dodici anni fa e i risultati raccoltidimostrano benefici quali: riduzione dei fattori di rischio cardiovasco-lare e di insorgenza di cancro. Studi in numerose specie (lieviti, elmin-ti, mammiferi) hanno evidenziato che la CR (restrizione calorica) puòridurre e rallentare l’insorgenza di diverse patologie, migliorare la resi-stenza allo stress e rallentare il declino funzionale. A conferma diquanto detto la popolazione di Okinawa è nota per la longevità chepare sia da collegare ad una alimentazione ipocalorica e a una vitaricca di affetti e rapporti sociali con amici e familiari.

Una ricerca condotta nel 1978 ha mostrato che l’intake energeticotra gli adulti di Okinawa era circa pari all’80% della media dei giap-ponesi e molti ipotizzano che alla dieta frugale, ricca di fitonutrienti(alto contenuto di antiossidanti) e con scarse quantità di carne e pesce,è associata a una riduzione di patologie quali malattie cardiovascolarie tumori ormone-dipendenti. Il prof. Fontana spiega che “i rischi mag-giori provengono da una alimentazione ricca di proteine responsabilidella produzione di diversi fattori di crescita implicati nello sviluppodei tumori. In persone magre con un’alimentazione ricca di proteine simisurano alti livelli di IGF-1, fattore di crescita connesso al cancrodella mammella, della prostata e del colon ed è perciò possibile cheuna dieta ipocalorica ma iperproteica non protegga dai tumori. La dif-fusione di questo tipo di neoplasie nel mondo occidentale potrebbeessere spiegata con un’alimentazione troppo proteica: le raccomanda-

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zioni nutrizionali indicano di introdurre ogni giorno 0.8 grammi diproteine per chilo di peso corporeo ma nel nostro Paese si arriva quasial doppio. Se per giunta queste proteine sono soprattutto animali anzi-ché vegetali, e quindi più “dannose” in termini pro-tumorali, l’effettonegativo può essere consistente”.

Il prof. Samuel Klein, Direttore del Center for Human Nutrition,del Center for Applied Research Sciences, e delWeight Management Program at WashingtonUniversity School of Medicine in St. Louis,Missouri, ha studiato i meccanismi che causano lemalattie legate all’aumento di peso e obesità e lafisiopatologia della steatosi epatica non alcolica.“L’invecchiamento, afferma, va inteso come dueprocessi correlati e sovrapposti, ovvero l’invecchia-mento primario e secondario. Il primo dovuto alprogressivo deterioramento della struttura fisica edelle funzioni biologiche che si verifica con l’avan-

zare del tempo; il secondo è invece il deterioramento precoce dellastruttura e del funzionamento degli organi dovuto a malattie quali iper-tensione, diabete e stili di vita sbagliati come un’eccessiva esposizio-ne al sole e il fumo. L’obesità è una causa di invecchiamento precocee negli anziani è spesso associata ad anomalie cardio-metabolichelegate all’età come resistenza all’insulina, diabete, dislipidemia, iper-tensione e stati infiammatori non infettivi”.

Possiamo quindi concludere che il processo dell’invecchiamentopuò essere in parte rallentato utilizzando una dieta ricca di sostanzeantiossidanti e che ci faccia alzare dalla tavola non completamente saziricordando il famoso detto degli abitanti dell’isola giapponese diOkinawa: “hara Hachi bu”, che significa letteralmente “pancia 80%piena”. Ma quali sono i cibi chedobbiamo inserire nella nostradieta? La frutta, gli ortaggi, leverdure contengono sostanzeantiossidanti quali le vitamine A,C, E, Licopene, Bioflavonoidi,Tocoferoli, Clorofilla, Polifenoli.

La vitamina A, i suoi precur-sori (beta-carotene) e formediverse della molecola esercitano nell’organismo numerose e impor-tanti funzioni quali il funzionamento della retina (molecola attiva il

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retinale), il differenziamento dei tessuti epiteliali (acido retinoico), lariduzione delle conseguenze delle malattie infettive. Inoltre si è vistoche ha un’azione protettiva nei confronti dello sviluppo di alcuneforme tumorali, in special modo a carico della gola, stomaco e collodell’utero. Lo studio “physician’s health study” ha riscontrato beneficianche in pazienti con angina pectoris.

Il beta-carotene è presente nei frutti e nelle verdure gialle, rosse earancioni. La vitamina C (acidoascorbico), con il suo elevato potereriducente, agisce nel processo dellarespirazione cellulare, ha capacitàdisintossicanti nelle intossicazioni dasali di oro, piombo, mercurio, stron-zio e cadmio. Molti studi hanno con-fermato la sua azione protettiva neiconfronti di patologie tumorali, dege-nerative e deficit immunitari. A livel-

lo tissutale è legata alla sintesi del collagene, dei proteoglicani e di altricostituenti organici della matrice intercellulare. Alimenti ricchi di vita-mina C sono le arance e i kiwi.

La vitamina E (alfa-tocaferolo) e i tocoferoli sono i principaliantiossidanti della membrana cellulare e hanno lo scopo di proteggerei lipidi polinsaturi di questa dalla degradazione perossidativa. La suaazione risulta particolarmente protettiva nei confronti del cuore ed èpresente soprattutto nell’olio extravergine di oliva. Insieme a vitaminaC, bioflavonoidi, polifenoli, stabilizza i carotenoidi nel lume intestina-le e inibisce la formazione di sostanze cancerogene: le nitrosamine.

Bioflavonoidi, Clorofilla, Polifenoli sono elementi antiossidanti chepotenziano le azioni vitaminiche, hanno proprietà anticancerogena esono presenti in frutta fresca gialla come pesche, albicocche e melonee in verdure ricche di clorofilla.

Non solo la dieta, anche la psiche è importantee un esempio, tra i tanti, emerge dalla relazionedella prof. Elisabeth Blackburn, premio Nobel2009 per aver scoperto la natura molecolare deitelomeri e della telomerasi. La scienziata sottoli-nea come una gestante stressata (per esempio unlutto o una perdita di lavoro legata alla maternità)mette al mondo un figlio con un’aspettativa di vitapiù bassa. I telomeri dei cromosomi del nascituro,

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patrimonio genetico che si trasmette nella replicazione cellulare, sonopiù corti e oggi è noto che la lunghezza di questa componente cellula-re è sinonimo di una vita più o meno lunga.

I telomeri sono complessi DNA-proteine che proteggono le estre-mità dei cromosomi eucariotici e sono costituiti da sequenze ripetutedi DNA che nella specie umana sono circa 2500. Ad ogni divisione cel-lulare il DNA telomerico si accorcia e perde da 50 a 200 coppie di basicausando nel tempo la senescenza e la morte della cellula. La maggiorparte delle cellule normali del corpo di un mammifero non si riprodu-ce all’infinito: le cellule coltivate di fibroblasti3 di un feto umano siriproducono circa 50 volte, la proliferazione poi rallenta e infine siferma; cellule prelevate da una persona di 40 anni smettono di divi-dersi dopo circa 30 volte. Con il susseguirsi delle divisioni cellulari itelomeri si accorciano e aumenta il rischio di malattie legate all’invec-chiamento. Ma vi sono cellule che, grazie all’enzima telomerasi, checatalizza l’inserimento delle sequenze telomeriche perse, mantengonola capacità di riprodursi come le cellule produttrici dei gameti e le cel-lule tumorali. L’attività della telomerasi, per permettere un regolarefunzionamento delle cellule, deve mantenersi all’interno di valori idea-li perché minime alterazioni possono causare l’insorgenza di tumori.Nel 90-95% dei tumori, infatti, questo enzima viene riattivato impe-dendo alle cellule di accorciare i telomeri e quindi di degradarsi pro-gressivamente fino a morire conferendo loro vita eterna.

Gli studi sulla telomerasi, che è presente nel 90% delle celluletumorali e assente nella maggior parte delle cellule normali, possonoessere molto utili sia nella lotta contro i tumori sia nella ricerca deimeccanismi di mantenimento dei telomeri per rallentare il processo disenescenza. Si mira così a contrastare l’insorgenza del cancro iniben-do l’attività smisurata della telomerasi (in modo da non favorire la cre-scita delle cellule cancerose) e allo stesso tempo si punta a incentivarel’attività della telomerasi per ostacolare la comparsa di alcune malattietipiche dell’invecchiamento. “Dal 2009 ad oggi sono stati fatti impor-tanti progressi - chiarisce la scienziata - ora siamo certi che molte dellepiù comuni patologie dell’età avanzata (come quelle cardiovascolari,respiratorie, cancro e diabete) hanno un minimo comune denominato-re alla loro origine: l’insufficiente manutenzione dei telomeri, chevanno via via riducendosi col passare degli anni. Altra notizia rilevan-te è che sappiamo pure che un prolungato e grave stress psicologicopeggiora la riduzione dei telomeri, quindi potrebbe accelerare l’invec-chiamento e favorire lo sviluppo di malattie”.

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Quale dovrebbe essere la ricetta ideale per allungare la vita e peraffrontare la vecchiaia in buona salute permettendoci di morire di vec-chiaia e non di malattia? Avere sempre degli obiettivi, credere in quel-lo che si fa, mantenere rapporti sociali e affettivi, ridurre lo stressnegativo e ricordare che i 120 anni di vita media “scritti” nei geni siraggiungono se non si odia (e si ama), se si vive in stress positivo (peresempio facendo un lavoro che piace o che gratifica, con vacanze rego-lari e senza vivere sempre connessi ai gadget tecnologici) e se si prati-ca una religione con convinzione.

Il prof. Giovanni Scapagnini, Università del Molise e ricercatore incampo neurologico, afferma: “Non c’è nulla di più miste-rioso, e anche di più affascinante, di ciò che il cervello e lesue espressioni non misurabili (stress positivi, amore, inte-ressi cognitivi, ira e odio in negativo) riesce a fare sulcorpo”. E, inotre, non dimentichiamo che la regolazionedell’espressione genica può essere influenzata dalla nostraalimentazione che deve essere ricca di sostanze antiossi-danti e povera di proteine animali per ridurre l’incidenza ditumori e di quelle patologie tipiche dell’età avanzata.

Note

1. Tratto di DNA caratterizzato da una specifica sequenza di nucleotidi checodifica per una informazione ereditabile.2. I mitocondri sono organuli cellulari delle cellule eucariotiche e rappresen-tano la centrale energetica della cellula dove viene prodotto l’ATP dove vieneimmagazzinata l’energia che poi sarà utilizzata nelle reazioni endoergonichedella cellula.3. I fibroblasti sono cellule tipiche (e più numerose) del tessuto connettivo ingrado di produrre le componenti della matrice extracellulare come il collagene.

Bibliografia

Conference book: Ninth world Conference The Future of Science,Siamo programmati per esistere, non per morire, “Corriere della sera”15 settembre 2013 e Geni e longevità periodico “Le Scienze”, settem-bre 2013. A. De Francesco e E. Severini, Diagnosi e prevenzione cardiovascola-re, Società editrice Universo, Roma 1999.B. Alberts - D. Bray - J. Lewis - M. Raff - K. Roberts - J. Watson,Biologia molecolare della cellula, Zanichelli, Milano 2000.

Sulla femminilizzazione del corpo docente

Senza re né regno

facebook ergo sum

A Taormina, d’inverno

L’idolatria del contesto

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Sulla femminilizzazione del corpo docente

Graziella Priulla*

Tra tutte le variabili che intervengono nella spiegazione dei risulta-ti conseguiti dagli studenti, il profilo degli insegnanti è quella checonta di più: le conoscenze prodotte dalle indagini scientifiche svoltesu quest’argomento sono tutte concordi. Abbiamo in mano un grandepotere.

I/le docenti italiani sono un esercito: poco meno di 700.000 perso-ne. Un esercito di persone che forma le menti di intere generazioni, equindi è in grado di plasmare un Paese.

È donna più dell’81% degli insegnanti: la seconda quota più alta deiPaesi europei, dopo l’Ungheria. La percentuale è del 99,6% nella scuo-la dell’infanzia, del 95,4% nella primaria, del 75,6% nella secondariadi I grado, del 59,4% nella secondaria di II grado. All’università le per-centuali sono assai più ridotte, e diminuiscono sensibilmente col pro-gredire nella carriera. Anche tra i dirigenti scolastici le donne sono inminoranza: 39,7%. Si tratta, com’è evidente, di dati inversamente pro-porzionali alle retribuzioni.

I laureati maschi in Scienze della Formazione sono costantementecalati nell’ultimo decennio, fino a toccare nel 2009 quota 12%. È uncalo che, seppur in misura inferiore, si registra in tutte le facoltà uma-nistiche.

Va detto anche che spesso per molti uomini la scuola è una sorta disecondo lavoro: ci sono insegnanti-ingegneri, insegnanti-architetti,insegnanti giornalisti-scrittori, ecc. Insegnare per le donne è invece ingenere il primo lavoro, e nella scuola realizzano la loro identità pub-blica.

Quali sono le ragioni di questa lontananza, fisica o psicologica, deimaschi dall’educazione?

C’è chi ha parlato della persistenza storica di modelli ottocenteschi,

*Professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicatividell’Università di Catania.

quando nacque la figura della maestra per consentire alla donna chenon poteva o voleva essere solo madre di istruirsi e svolgere una pro-fessione di cura, adatta a lei, lontana dagli interessi forti e dalle posi-zioni elevate riservate agli uomini. C’è chi ha parlato di persistenza diun maschilismo che ritiene antitetico alla virilità tutto ciò che ha a chefare con l’infanzia - regno della fantasia, dell’indeterminatezza, dellafragilità per antonomasia.

È possibile abbozzare anche un’altra spiegazione: nel nostro Paeseil ruolo dei docenti è sempre stato retribuito male, nonostante la reto-rica connessa alla delicatezza del loro compito (e va sempre peggio).Questo ha sempre scoraggiato l’accesso maschile, in un Paese dovepermane l’idea che l’uomo sia il breadwinner, che debba guadagnareil pane per la famiglia, mentre la donna svolge, al limite, un lavoro disupporto, cui è possibile rinunciare in caso di necessità familiare.

In tempi più recenti va aggiunta e correlata la perdita di prestigiosociale del ruolo docente (e della cultura nel suo complesso), che èregistrata da molti indicatori: non ultimo l’atteggiamento complessivodelle classi dirigenti, talora al limite dello scherno.

Eppure la presenza di figure educative di entrambi i generi e deidue codici in tutti i livelli di educazione scolastica e prescolastica offri-rebbe a bambini e bambine la possibilità di acquisire una maggiorecomplessità di visione del mondo, per stili di vita, emotività, fisicità,comunicazione. La dualità dell’esperienza umana è un dato ineludibi-le con cui misurarsi: componenti biologiche, componenti sociali, edu-cative e culturali e componenti soggettive (anche inconsce) vi siintrecciano. La perdurante assenza o marginalità del maschile nell’e-ducazione familiare e scolare non è priva di conseguenze.

Uno stereotipo che colpisce le insegnanti (e che spesso esse stessehanno introiettato) è quello che le donne abbiano un certo tipo di“natura” che le porta a essere più dolci, comprensive, portate a scusa-re gli alunni, perché questo vuol dire essere “femminili”. Nel mammi-smo mieloso agisce lo stereotipo della “grande mamma mediterranea”,che si trasforma in professionista ma è tenuta a comportarsi da mammaanche dietro la cattedra.

Non è vero per tutte, ma in parte coglie nel segno: l’indebolimentodella relazione insegnamento-apprendimento ha fatto sì che spesso ilcanone pedagogico della comprensione degradasse in forme di bene-volenza a buon mercato, che non aiutano né la crescita intellettuale néla maturazione psicologica delle ragazze e dei ragazzi.

Ci si poteva aspettare, per converso, che una presenza così massic-

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cia di donne introducesse nelle discipline una nuova epistemologia,non più a carattere androcentrico; che portasse ad un approfondimentodegli studi di genere; che inducesse nella cultura diffusa un supera-mento degli stereotipi di genere.

Né l’una né l’altra strada sono ancora così praticate da diventarefenomeni di massa: eppure è noto che l’identità di genere si costruisce,non è un dato “naturale”. Gli stereotipi di mascolinità e di femminili-tà, facili categorizzazioni, semplificazioni antiche con cui la societàcondivide e stabilisce comportamenti appropriati per l’uomo e ladonna, sono radicati nella cultura diffusa e vengono ancora trasmessiquasi per inerzia dalle agenzie di socializzazione, scuola compresa. Èuna lacuna grave.

Noi donne, che siamo la maggioranza degli insegnanti, che siamole protagoniste di questo processo che plasma l’identità di un popolo,forse per prime non siamo abbastanza consapevoli e abbastanza orgo-gliose del nostro ruolo. Non dobbiamo permettere che la stima socialenei confronti della donna nella scuola scenda a livelli che non rendanosufficiente giustizia al nostro impegno e all’importanza del nostrolavoro. Dobbiamo reagire non con le recriminazioni, ma introducendosguardi nuovi, approcci visibili a un modo diverso di declinare i sape-ri e le relazioni.

Sarebbe necessario denaturalizzare lo storico, dubitare dell’ovvio,mettere in discussione sia le nostre azioni che il modo col quale ci rela-zioniamo con la tradizione dei nostri saperi e con le gerarchie di gene-re che essi comportano: per essere produttrici e non prodotti di cultu-ra. Una lettura gender sensitive, attenta agli aspetti di genere, è appli-cabile a qualunque branca delle scienze sociali, storiche, giuridiche,psicologiche e letterarie, ed è attualmente praticata anche in altri setto-ri: perfino la medicina.

L’istruzione costituisce la prima palestra di democrazia. Si tratta diun’autentica matrice dei comportamenti dell’essere umano, del tessutorelazionale che forma la società. È nella scuola che s’incontrano imaschi e le femmine, che si incrocia per la prima volta il corpo deldiverso. Qui giochiamo una grande scommessa: l’educazione alla dif-ferenza.

A partire da queste riflessioni si possono suggerire interventi nonoccasionali ma sistematici a scuola, lungo dimensioni finalizzate a pro-muovere una cultura dell’uguaglianza nella differenza e a prevenire laviolenza di genere:

- costruire epistemologie anche al femminile, attraverso la declina-

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zione delle discipline in un’ottica di genere; - conoscere le culture riferite al genere e sviluppare una consape-

volezza su di esse, sulle criticità e sulle linee di sviluppo endogenedelle culture stesse;

- intervenire per mettere in discussione e destrutturare stereotipisessisti, presenti soprattutto nei mass media ma non assenti nemmenonei testi scolastici;

- offrire la possibilità di confrontarsi con ogni identità.Disponiamo di una ricca bibliografia in materia; dei riferimenti nor-

mativi appropriati in campo europeo; di percorsi didattici articolati; deiriferimenti alle tante esperienze e ai progetti di gruppi di insegnanti chein tutta Italia si dedicano da tempo con entusiasmo a questo cambia-mento di prospettiva.

È tempo di condividere tutto questo, di mettere in rete le compe-tenze di ciascuna al servizio di tutte.

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Senza re né regno*

Gabriella Falcidia

Il Nord. Un paesino dell’Appennino tosco-emiliano in provincia diBologna. Freddo e nebbioso. Contadini la più parte. Poveri come icontadini delle mie parti. Come i contadini di tutto il mondo. I conta-dini erano tutti poveri allo stesso modo… Il libro Senza re né regno ini-zia così, dandoci delle semplici coordinate spazio-temporali per collo-care il protagonista, narratore interno in termini narratologici, Stefano’u posfuro, ragazzo ’sperto, poco più che ventenne, in esilio, diciamovolontario, in un paesino dell’Emilia, ritratto nel difficile periodo deldopoguerra quando in Sicilia si giocò una partita importante, quella delseparatismo, e tanti giovani credettero che fosse l’ora propizia per libe-rarsi da una schiavitù atavica in un momento in cui il caos era totale,appunto senza re né regno…

Il romanzo prende quindi l’avvio da una storia vera vissuta dalpopolo siciliano, il sogno del separatismo di cui l’autore ci forniscedati reali come la battaglia di San Mauro del 29 dicembre 1945 o lenotizie sull’EVIS e sul MIS il cui capo, tale Antonio Canepa, morì permano dei carabinieri nel ’45, mettendo fine al sogno utopico dei sepa-ratisti. A causa del suo coinvolgimento, Stefano viene allontanato dallaSicilia e la piccola storia, quella personale del protagonista, prende aquel punto il sopravvento.

Non è difficile, e l’autore non ne fa affatto un mistero, rintracciareil percorso letterario, che da Verga arriva fino a Sciascia con un espli-cito richiamo alla codifica dei tre ordini umani, corruttibili, ricattabilied i pochi onesti a tutti i costi, e d’altra parte la sicilianità o siciliani-tudine, per dirla con Sciascia, è presente dalla prima all’ultima pagina,permeata da quel cinismo gattopardiano da cui nessun isolano puòessere esente.

*Presentazione al seminario dedicato allo scrittore Domenico Seminerio svol-tosi il 15 dicembre 2013 a Santa Venerina.

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La materia narrativa si articola su due piani, strutturali e tematici,strettamente connessi l’un l’altro: quello intrigante e misterioso chericalca la struttura del romanzo noir e la storia di Stefano, sviluppatasecondo i dettami del bildungsroman, cioè del romanzo di formazionee la bravura dell’autore è proprio nella capacità di muovere e coordi-nare contemporaneamente i due piani che si sviluppano uno in funzio-ne dell’altro.

La peculiarità del noir sta proprio, a differenza del poliziesco tradi-zionale, nella possibilità di riflettere sulla realtà descritta con un fina-le che non ha nulla di consolatorio ed in questo il romanzo è perfetta-mente aderente al genere a cominciare dall’articolata rappresentazionedei rapporti tra mafia e politica, incarnati da Don Giacomo e dall’ono-revole Vituso, tematica in cui è facile ravvisare il punto di vista del-l’autore che è sì pessimistico ma piuttosto sicilianamente realistico, adesempio quando spiega la sottile dicotomia, sempre tutta siciliana, trail concetto di lavoro e di posto: Ora ci voleva il posto. Da noi non sichiama lavoro. Lavoro è una parola riservata all’occupazione fisica,manuale, propria dei contadini. Parola che si porta appresso comecaratteristica ineliminabile la precarietà, la sottomissione, l’incertez-za dei guadagni. Parola che indica, anche, un futuro oscuro, soggettoa tutte le variazioni della sorte. Il posto no. È la sistemazione definiti-va. È la certezza. È il futuro garantito, contro cui la sorte niente può.Inamovibile. È anche, la libertà, l’autonomia, la possibilità di nonavvertire come un peso la scala gerarchica. Lavori, certo, ma lo faicome e quando vuoi. Basta sapersi arruffianare. Le protezioni giuste.Chi ha il posto è sistemato, bene, per sempre. Pian piano che il noir siinfittisce, l’aspetto colluso tra mafia e politica diviene più evidente,cresce, ingrossa, ingoiando lo stesso protagonista in un gioco più gran-de di lui in cui l’ostentazione di ricchezza e potere del suo protettore,l’onorevole Vituso, hanno il sopravvento spingendo il protagonista nelbaratro.

Contemporaneamente al noir procede il romanzo di formazione delprotagonista - eroe ed antieroe insieme - in cui caos esteriore ed inte-riore sono due facce della stessa medaglia.

Stefano è un personaggio a tutto tondo, buono e onesto inizialmen-te, che persegue ideali politici, quelli del separatismo, entusiasmi pro-pri della sua età, alimentati dal suo professore di storia e filosofia, cheper colpa del caso, della sorte, si avvicina al male per poi scegliere ilmale e divenire egli stesso artefice del suo destino.

Un aspetto notevole nel romanzo è l’attenzione posta dall’autore

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all’analisi dell’educazione sentimentale del protagonista, quanto mairicca e vivace perché Stefano è ’sperto, beddu, “lo splendore” lo chia-merà l’unica ragazza da lui amata, Giulia, e le donne lo cercano, lo“sconcicano”…

Come negli altri libri di Seminerio l’aspetto erotico-sentimentale èmolto presente e fa parte di una sicilianità - freqente in altri autori con-temporanei come la Torregrossa, per non voler scomodare Brancati,che vede giustamente nel sesso un collante fondamentale nella vitadell’uomo, forza dirompente capace di creare e distruggere intere vite.L’autore ci gioca parecchio ma in fondo ci porta a riflettere, a provareindulgenza nei confronti di uomini e donne fragili, ad esempio la capadelle maestre, Adele, donna sposata e madre di famiglia irreprensibileche circuirà Stefano alla ricerca di quella passione che non aveva maiconosciuto per poi tornare di nuovo nei suoi ranghi. Bellissima e pro-fonda la sottile distinzione che fa l’autore tra “passione” ed “emozio-ne”: Ma Adele non era innamorata di me, veramente, di quell’amoreche scavalca le montagne e annulla tutti gli altri affetti. Di quell’amo-re, passione indomabile, che cancella ogni ragione. In lei non c’era lapassione, la passione. Piuttosto l’emozione, un’emozione. C’è diffe-renza tra passione ed emozione. La passione mette radici profonde, siabbarbica nelle viscere, sconvolge tutti i sensi, perenne. L’emozione,pur intensa, anche più intensa della passione, a volte, è destinata adurare poco, a essere sormontata da altre emozioni, magari di segnoopposto. Per lei ero l’emozione, la scoperta d’un corpo giovane e fre-sco e pulsante di vita. Ma nel variopinto mondo femminile c’è spazioanche per la pura e semplice esaltazione dei sensi, della naturalità del-l’amore, come Boccaccio c’insegna, attraverso la signora Eleonora,appunto “l’ornitologa” (o ’ntoroca, com’è conosciuta in paese). E poiancora la depravazione, quella di onorevoli, conti, dove l’atto omoses-suale è visto in termini assolutamente negativi perché frutto di paura esottomissione ai potenti e solo in quanto tale, condannato.

E così la faccia dell’eroe, dell’uomo in fondo onesto e buono, per-seguitato da una sorte cattiva, cede il posto all’antieroe, all’uomo chepotrebbe rimanere innocente ma non lo fa e si consegna al male,lasciandosi ubriacare da soldi e potere: senza regole non si poteva vive-re, non c’era società. Si era senza re né regno. Io lo ero, mi convinsi.

Da qui la parabola discendente del protagonista in un crescendo dimostruosità che esplode negli atti e nelle parole, violente e sconnesseanch’esse, fino a giungere alla follia sperimentando l’orrore del potereocculto della mafia che gli strapperà l’unica donna amata, Giulia.

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Le ultime dieci pagine (il 19° capitolo), sono un po’ il sugo dellastoria di manzoniano ricordo ma senza alcuna aura consolatoria, e rap-presentano a mio avviso la chiave di volta di tutto il romanzo, a comin-ciare dall’inaspettato cambio di narratore, attraverso l’espediente dellasorella-narratrice, e quelle poche parole che ritornano e realizzano unaperfetta struttura narrativa circolare: Il Nord. Un paesinodell’Appennino tosco-emiliano in provincia di Bologna. Freddo e neb-bioso.

Poche pagine per scoprire un retroscena inaspettato, una rilettura aposteriori di tutta la storia, da fare con occhi nuovi, in quel passaggioda gloria a miseria per cui l’antieroe Stefano si trasforma ancora, nonin eroe ma in un uomo che attraverso la scrittura, la letteratura piran-dellianamente parlando, cerca di recuperare se stesso negli ultimiistanti della sua vita: quel che è certo è che la storia l’ha scrittaStefano, se l’è scritta Stefano per sé, per recuperare se stesso, la suavita, i suoi affetti. Non ritengo che ci sia altro da aggiungere, se nonl’ultima parola. Fine.

Dice Gesualdo Bufalino: capire la Sicilia significa per un sicilianocapire se stesso, assolversi o condannarsi. Mi piace pensare che attra-verso questo finale il cinismo dell’autore, che non si abbassa mai allasemplicistica riabilitazione del protagonista, condannato per aver scel-to e perseguito il male, si allenti un po’ dando alla pazzia di Stefano unvalore catartico, facendo della “scrittura”, della letteratura, una formadi assoluzione post mortem.

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Maria Laura Inzirillo

Se “la vita è adesso” perché sprecare occasioni preziose per farsiconoscere e condividere con donne e uomini di buona lettura sogni nelcassetto che finalmente hanno preso il volo? Con facebook si può…quel tanto che pizzica la tua curiosità, poi ti cattura per ritrovare lalibertà dei sentimenti, delle emozioni, delle scelte e ripercorrere i sen-tieri della tua esistenza.

Si capiscono al volo Gloriana e Beatrice. Basta un cenno, unosguardo e non ci sono più segreti, entrambe si scrutano l’anima anchesenza parlare. La loro è un’amici-zia di lunga data fatta di affettuo-sità, condivisione di esperienze ericordi, cui si alternano ferociinvettive e ripicche impietose.Tanto diverse quanto “comple-mentari”.

L’una, la protagonista di face-book ergo sum, il nuovo romanzodi Gloriana Orlando, apparente-mente sicura di sé, in realtà è sem-pre in conflitto con se stessa e conil mondo. Riversa sugli altri la dif-ficoltà ad accettarsi quanto bastaper sapersi valorizzare ed apprez-zare. È una talentuosa, indaffarata,impegnata in tante iniziative cheaffronta in modo risoluto e semprecon successo. Ma si ostina a sotto-valutarsi e a compiangersi.

L’altra, Beatrice, comprima-ria, al contrario si vuole bene, hanumerosi amici di cui va fiera,

Gloriana Orlando, facebook ergo sum,

il mio libro.it

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non teme le avventure, vive con lievità, tanto se si sbaglia si può sem-pre rimediare. Anzi fa delle sue gaffe ricorrenti un’occasione di salu-tare risata. Il suo punto di forza è attaccare bottone sapendo seleziona-re abilmente il suo interlocutore specie se “bono” e promettente. Èintraprendente, si cimenta anche nelle cose più difficili con ostinazio-ne e riesce a superare l’amica che ha avuto l’ardire di alfabetizzarlainformaticamente. Insomma un tipo tosto, che si presta al gioco disembrare costruito ad arte in una felice finzione introspettiva. Inveceno, è vera, concreta, ma invadente e soprattutto rivale. Riesce a sor-prendere sempre: non conosce facebook, ma con poche “dritte” diven-ta una provetta navigatrice virtuale e con sorprendente abilità lo tra-sforma nella piattaforma del suo successo anche se dice di farlo per lasua amica del cuore. Vera amicizia? O piuttosto un espediente perapparire ad ogni costo, sfruttando le doti letterarie di Gloriana, che haal suo attivo romanzi di tutto rispetto, ahimè, non resi “visibili” daun’opportuna pubblicità? Alla discrezione, savoir faire della protago-nista fa da contrappeso la spregiudicatezza di Beatrice che piombacome un siluro nella casa di villeggiatura a Vulcano, ospite attesa egradita almeno fino a quando non diventa una presenza ingombrante epetulante.

Che dire poi delle sue frequentazioni intellettuali(!)? Assidua fre-quentatrice della libreria Feltrinelli, sa approfittare di questo ambienteaccogliente, che invita alla lettura e alla convivialità impegnata, ancheper allargare la cerchia delle sue “conquiste” fugaci e spregiudicate.

Un riuscito sodalizio tra donne “navigate” e “naviganti”, costruitocon stile elegante, suadente e coinvolgente dall’autrice, tra l’altroappassionata conoscitrice dei tesori architettonici e culturali dellanostra sorprendente città, Catania, che non perde occasione di descri-vere nelle sue opere, abilissima nel riservare sorprese… che certo nonè il caso di rivelare.

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Maria Laura Inzirillo

Senza dubbio una vicenda scabrosa, un delitto eccellente, tanti isospettati. Riuscirà Giacomo Cassisi, giornalista d’assalto, a districarela matassa ingarbugliata chesi va ingrossando man manoche emergono elementinuovi? Questo lo scoprirà illettore se vorrà. Qualche indi-zio: la vittima è una giovanedonna, appartenente ad unafamiglia “bene” di imprendi-tori della ceramica, trovatamorta nella strada principaledi Taormina il sei gennaio.Ambiente dunque elegante,mondano, disinvolto e soprat-tutto anticonformista. Pochifreni inibitori, vita vissutaall’insegna del “carpe diem”.I tradimenti, coniugali e non,sono un optional a cui siricorre volentieri con noncha-lance e labilità di sentimentitipiche delle personalità spre-giudicate. Purtroppo è cosìquando si naviga nell’oro e si perde il senso dell’autentico vivere.

Ne scaturisce il ritratto saliente di un certo ceto sociale autorefe-renziale a cui si contrappone, per fortuna, la quotidianità dei comunimortali, che conducono un’esistenza ordinata, scandita da impegni,responsabilità personali e sociali, sacrifici e soprattutto rispetto deivalori che danno senso alla vita. Insomma due mondi paralleli che non

Antonello Carbone, A Taormina, d’inverno,

Manni, Roma 2013

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possono incontrarsi perché caratterizzati da stili comportamentali con-trapposti.

Personaggi poliedrici tutti interessanti descritti con tatto, discrezio-ne e rispetto delle personalità individuali, anche se traspare chiara-mente la preferenza per la vita sobria e per la dedizione appassionataal lavoro non esente dalle inevitabili rivalità, soprattutto, in certiambienti professionali.

Fanno da sfondo luoghi a noi cari, Taormina, Castelmola, Catania,descritti con l’affetto e l’ammirazione di chi vi è cresciuto e li custodi-sce nel cuore come parte della sua esistenza.

Opera prima di Antonello Carbone, un giovane giornalista profes-sionista, il romanzo A Taormina, d’inverno è costruito con particolareattenzione alla psicologia femminile per cercare di carpirne i segretisenza mai cadere nella trappola dei giudizi impietosamente maschili-sti, piuttosto mostrando una particolare sensibilità e delicatezza di sen-timenti con le quali viene filtrata una possibile interpretazione.

Elena, Eylis, Angela, Simona, Rosalia, Irina sono presenze gradite,e perché no, gratificanti che assecondano il protagonista con lusinghee misteriosi retroscena...

Il lato “oscuro” della vita viene narrato con stile snello, scorrevolee toni soft, non per banalizzarli, ma per mantenere quella sottile lineadi distacco che consente di essere indulgenti e di evitare di infieriresulle umane debolezze con impietosi scoop a tutti i costi. Il beneficiodel dubbio deve concedersi a tutti.

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L’idolatria del contesto

Francesco Diego Tosto

Più testi meno contesti! Una frase ad effetto, uno slogan? No, soloun’accorata esortazione. Comincia l’anno scolastico e anche quelloaccademico, e in materia lette-raria vedremo presto, benarroccati nei loro percorsi, anti-quati sistemi di insegnamento.Quali? Quelli che mirano adingabbiare scrittori, artisti, filo-sofi, all’interno di movimenti,correnti, mappe concettuali e,appunto, contesti! Per qualefine? “Per comodità di studio” -si dice solitamente - o “per dareordine e sistematicità”, si ridicearzigogolando. Che idea pere-grina. Essa anziché semplifica-re, complica; anziché ordinare,disordina. E che dire delle formulette del tipo: Foscolo neoclassico-romantico; Pascoli e D’Annunzio, testimoni di un decadentismo“bifronte”; Ungaretti e Montale, ermetici ma non troppo. Per non par-lare degli scrittori classificati con un -pre (preumanisti), o quelli dota-ti di un -post (postromantici) o di un -neo (neoavanguardisti). Poveriscrittori, a cui si vuole dare una casa spogliandoli però dell’anima. Mivengono in mente i personaggi pirandelliani in cerca d’autore, ma poetie scrittori sono già autori, forzati prigionieri, in cerca di autenticità e

libertà. Hanno scrittopagine di vita e le hannoaffidate al tempo; spettaa noi il dovere di con-servarle genuine e noncorredarle di gabbie sto-riche, economiche, poli-tiche, sociali, religiose,spesso disposte come

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cornice inadeguata diquadri non corrispon-denti.

Rispettiamo gli scrit-tori e anche i nostri alun-ni; siamo noi a guidarli;lasciamo che essi ricavi-no soprattutto dai nuditesti intuizioni, incanti,“lacrime intellettuali”,diceva Pasolini; lascia-mo il pensiero “ignoran-te”, non contaminato,nato cioè dall’anima che“ignora” un camminonon suo, poiché il pen-siero nell’anima intendesostare.

Sono allora inutili i contesti? Non ho detto questo. Sono il più dellevolte rigidi contenitori, spesso assoluti. Si appropriano di uno scritto-re, lo racchiudono nei loro binari interpretativi e semmai lo vedonocrescere, trasformarsi, diventare altro da sé. Forse i critici hanno volu-to solo proteggerlo, affidandolo ai “Pilastri della cultura”: la Società, ilPotere, l’Etica, ma come i “lanternoni” di letteraria memoria, essirisulteranno spesso illusori e inattendibili. Poveri autori e anche pove-ri critici. Hanno creduto di ridurre le risorse di un testo ad un paradig-ma, compiacendosi del riuscito incastro. Ma la letteratura non è néenigmistica né matemati-ca, non è un esercizioalgebrico con il risultatoannesso, non farà mai gri-dare al ricercatore: “ècosì!”. La letteratura nonconduce ad un esito, nonvuole corrispondere; essaè un’attitudine, un’emo-zione, sorprende, incorag-gia il possibile, offre un’e-sperienza interiore, con-tiene una vertigine, un abisso, se no diventa mestiere. La letteratura

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rifugge dalle logiche della Scuola o dell’Ateneo, si divincola dai legac-ci accademici, superando ogni categoria che ne tarpi le ali; è la criticache invece soffre spesso di militanza e con protervia copre l’essenziale.

Tra testo e contesto - in ultimo - non sempre c’è una linea di conti-nuità; se così fosse la letteratura sarebbe scontata e prevedibile. Se iltesto è figlio del contesto, non è detto che ne indossi sempre la genito-rialtà anzi, direbbe Seneca, esso “rivendica se stesso”. Ahimé, pense-rete, se le cose stanno così, il critico e il professore hanno perso il lavo-ro? In un’epoca di crisi non sarebbe meraviglia. Ma il rimedio c’è.Tornino in fretta alla loro professione originaria: essere soprattutto“lettori”, prima che interpreti! Facciano in modo che emerga dalla “let-tura” prima di ogni cosa la bellezza e non - diceva Borges - le circo-stanze, spesso incollate, della stessa.

La scuola insegna anche che…

I nostri “legali” alla RAI

Le donne sulla scena criminale mafiosa

Un mondo di fraternità e pace

L’ombra della conoscenza

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Un mondo di fraternità e pace

Vincenza Maria Ignaccolo

All’inizio dello scorso anno scolastico, grazie al progetto“Costruiamo un mondo di Fraternità e Pace”, si è potuto realizzare unviaggio con 45 studenti, accompagnati da me e dalla prof. Rita DiStefano, a Loppiano (Incisa Valdarno - Firenze), una cittadella delMovimento dei Focolari, per vivere una “giornata dei giovani” ilprimo maggio 2013 dal titolo “Crossin’ the Bridge”, manifestazioneche ha ospitato circa 3.000 giovani. Come sempre protagonista lamusica, con una decina di band e diversi cantautori ma, per la primavolta, anche una Expo delle azioni di fraternità avviate in diversi ambi-ti: politica, legalità, solidarietà, sport, intercultura. “Crossin’ the brid-ge” cioè “attraversare il ponte”, è lo slogan scelto. Durante la giornatasi è anche attuato un collegamentoin diretta in tante città d’Italia econ i giovani di Gerusalemme(Israele), Mumbai (India) eBudapest (Ungheria). I giovani deicinque continenti partecipanti allamanifestazione hanno lanciato a tutti i giovani del mondo la sfida acostruire ponti di pace, solidarietà, aiuto concreto ed il progetto mon-diale, “United World Project”, che raccoglie iniziative di fraternità supiccola o vasta scala: dall’impegno nel proprio quartiere, all’aiuto peruna catastrofe naturale, dalle opere sociali, ai piccoli interventi cheognuno può attuare sul proprio territorio. Il viaggio a Loppiano per glialunni è risultato un’esperienza indimenticabile, non si aspettavanoinfatti, di trovare un’atmosfera così bella e famigliare. Tutti hanno sot-tolineato di aver potuto toccare con mano la fratellanza universale(tema del progetto della nostra scuola), e di aver sperimentato qualco-sa di straordinario, unico e sorprendente, ed inoltre hanno vissuto que-sto evento non solo da spettatori ma soprattutto da protagonisti, inquanto hanno presentato uno stand di attività svolte a scuola all’inse-gna della solidarietà.

A completamento del Progetto dal 6 all’8 settembre scorso si è rea-lizzato il viaggio, a Castel Gandolfo (Roma) con la partecipazione di12 alunni di alcune classi del Liceo, accompagnate dalle stesse docen-

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ti, per aderire al Meeting Internazionale “Learning Fraternity”, orga-nizzato dal Movimento dei Focolari, un laboratorio educativo a livellomondiale che ha offerto nuovi itinerari formativi nella società in cam-biamento. La partecipazione a questo meeting è risultata un’esperien-za proficua e formativa non solo per i ragazzi, ma anche per gli edu-catori.

I tre giorni del convegno-laboratorio sono stati vissuti dai parteci-panti all’insegna dell’educazione alla fraternità in una prospettiva pla-netaria in cui studiosi e testimoni, adulti e giovani, famiglie e inse-gnanti provenienti da 35 nazioni, si sono confrontati. L’obiettivo di

“Learning Fraternity”, è stato quello di condividere buone prassi e ini-ziative varie in contesti culturali assai diversi, per farne emergere lineepedagogiche condivise improntate alla fraternità e alla pace.

“Educazione e Globalizzazione” e “Educazione e Relazione” sonostate le due tematiche sviluppate, nei vari seminari della manifestazio-ne, non solo con contributi teorici ma soprattutto con buone pratiche emetodologie applicate.

Spunti salienti sono stati:- educare oggi le nuove generazioni nelle nostre società sempre più

eterogenee, aprendole ad una visione globale della realtà, che aiuti acomprendere la complessità e l’interdipendenza dei fenomeni cheaccadono sotto i nostri occhi;

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- le sfide urgenti e talvolta drammatiche quali la crisi antropologi-ca, movimenti migratori, disagio giovanile, frantumazione della fami-glia e divario generazionale, vanno comprese nei loro aspetti cultura-li e messe in rapporto con il tema della persona umana, della sua cre-scita integrale e capacità di relazione.

A parlare di “Educazione e Globalizzazione” e delle caratteristicheche essa assume in America Latina, Africa ed Europa sono stati treesperti: la dottoressa Nieves Tapia, di Buenos Aires, coordinatrice delProgramma Nazionale di Educazione solidale del Ministero diEducazione, Scienza e Tecnologia dell’Argentina, il professor JustusMbae Gitari, docente di Pedagogia alla Catholic University of EasternAfrica di Nairobi ed il professor Giuseppe Milan, docente ordinario diPedagogia interculturale e sociale all’Università di Padova.

Il tema “Educazione e Relazione” è stato analizzato dalla dottores-sa Paula Luengo Kanacri, cilena, ricercatrice al CIRMPA, UniversitàLa Sapienza di Roma e dalla professoressa Teresa Boi, italiana, inse-gnante e pedagogista.

Tematiche trasversali sono state affrontate e presentate in una varie-tà di 20 stand nazionali e locali e 34 workshop di diverse categorie (daisocial media allo sviluppo sostenibile, dalla cultura della legalità alrapporto genitori-figli, dalla prevenzione del bullismo alla comunica-zione coi new media, dall’integrazione sociale all’apertura della scuo-la alla città, dallo sport alla danza).

Gli stand hanno esposto buone prassi nei diversi contesti culturali,hanno offerto un ricco spaccato di quanto il principio della fraternità atutte le latitudini attraversi le più diverse esperienze educative, fra cuiEgitto, Pakistan, Congo e Colombia.

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Alcuni esempi: cominciando sotto un albero in un quartiere tra i piùpoveri della città di Santo Domingo, nasce la scuola “Café con Leche”,(trad. caffè con latte) con attualmente 500 bambini e un percorso discoperta di se stessi e degli altri, nella diversità e ricchezza di etnie. Ocome la scuola di Dalwal nel Punjab in Pakistan. Dopo varie vicende,la scuola conta oggi 209 studenti di cui solo quattro sono cristiani.L’impegno educativo - racconta la direttrice Valentina Gomes - è quel-lo di formare, senza irenismi, “coscienze aperte a valori universalicome il rispetto per la libertà religiosa, il perdono e la condivisione”.

In Egitto, è iniziato il progetto “la Pace incomincia da me” che oggicoinvolge più di 1500 ragazzi, professori e direttori di 82 scuole in altri40 Paesi, i quali promuovono il Festival Internazionale per la Pace. Trai partecipanti, proveniente dall’Egitto vi è Elhamy Naguib, un artista,che ha condotto un workshop sull’arte dei murales, fa parte dellaFondazione “Koz Kazah” (arcobaleno) e ha raccontato di aver usatoquesta forma di espressione artistica anche il 7 febbraio scorso duran-te le manifestazioni in piazza Tahrir. “Sono andato in piazza ed hocominciato a disegnare riproponendo le grandi aspirazioni del popoloegiziano”. È così che la giustizia sociale ha preso la forma di una bilan-cia e la libertà di un uccello. “Non smettiamo di sperare in un futuro didemocrazia per il nostro Paese”, confida Naguib, “dove tutti sianouguali”.

In Italia il “Progetto Pace”porta avanti iniziative da 23anni, interessando 100.000 gio-vani in più di 400 scuole, inrete con coetanei di alcuniPaesi dell’Europa dell’Est,attraverso annuali viaggi uma-nitari, solidarietà a Paesi deva-stati da guerre o catastrofi, inte-

razione con gli stranieri e con i diversamente abili. Nella varietà e soprattutto nella ricchezza dei 20 stand, anche i

nostri studenti hanno avuto la possibilità di presentare il loro stand,mostrando l’azione di un’attività che hanno realizzato nella nostrascuola (Let’s bridge, per costruire ponti con i ragazzi del Burundi, vediil n. 22 de La rivista Galilei). Dalle impressioni dei nostri studenti edal loro entusiasmo per l’evento vissuto, si intuisce la validità delCongresso Internazionale, congresso che essi hanno vissuto con l’e-mozione tipica di uno spirito giovane di trovarsi immersi nella rela-

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zione tra “educatore ed educando” e allo stesso tempo conoscere cultu-re diverse e con l’emozione di sperimentare la fratellanza universale.Insieme abbiamo vissuto anche momenti ricreativi e divertenti. Cosìanche per noi docenti accompagnatori, partecipare a questo MeetingInternazionale è risultato un momento gratificante e sorprendente cheresterà sicuramente in ognuno come un’esperienza memorabile.

Il programma è risultato molto intenso ma interessantissimo e halasciato nel cuore di ciascuno un’impronta straordinaria, soprattuttoquando, Sabato 7 settembre vi è stata la trasmissione in diretta strea-ming con diverse nazioni, un’occasione formativa e positiva, non soloper i nostri giovani, ma per tutti. Un’esperienza magnifica e un’oppor-tunità fantastica offerta dalla scuola agli alunni i quali hanno aderitocon tanto entusiasmo, ma ci auguriamo che il percorso non terminidunque con “Learning Fraternity”, ma possa ancora continuare nellaprassi educativa sperimentata a tutte le latitudini, per formare personecapaci di relazionarsi con gli altri nell’era sempre più complessa in cuiviviamo. Alla conclusione dei lavori del meeting, è stato letto e sotto-scritto da tutti i partecipanti un “manifesto”, un patto educativo in 10punti, consegnato a Papa Francesco, sull’impegno e testimonianza diautentica fraternità: “educare con la vita”, “imparare insieme per poterinsegnare insieme”, “creare reti di relazioni”, “aiutare a realizzare ilproprio cammino”, “accogliere il limite, per farne un’occasione di cre-scita e dialogo, ricominciando sempre”, sono una sintesi della sfidaintrapresa.

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L’ombra della conoscenza

Fabio Manfré

Lo scorso 6 Giugno 2013, alle ore 11, abbiamo varcato l’ingressodi Palazzo Montecitorio a Roma. L’occasione, la premiazione del con-corso riservato a tutti gli Istituti superiori di secondo grado, promossodal MIUR, dalla Fondazione Benetton e dal MIBAC: “Articolo 9 dellaCostituzione” e per il quale una classe del nostro Liceo (la 3ª I) ha rice-vuto una preziosa “Menzione Speciale” alla presenza della Presidentedella Camera Boldrini e del Ministro dell’Istruzione Carrozza presso laSala della Regina.

“Il Progetto e Concorso nazionale Articolo 9 della Costituzione.Cittadinanza attiva per la cultura, la ricerca, il paesaggio e il patri-monio storico e artistico, [...] sicolloca nell’ambito delle attivi-tà del Ministero dell’Istruzione,dell’Università e della Ricerca-Direzione Ordinamenti a sup-porto delle scuole per l’inse-gnamento di “Cittadinanza eCostituzione” [...] e propone unpercorso educativo e di istru-zione multidisciplinare, in piùfasi, con l’intento di far incon-trare due risorse, ugualmentericche di potenzialità, su cuioggi investire: da una parte ilvasto patrimonio culturalenazionale, che la Costituzioneci ricorda di promuovere e tute-lare, e dall’altra i giovani, dellacui partecipazione attiva eresponsabile il Paese ha biso-gno. Con questa finalità sivuole contribuire allo sviluppo di un pensiero critico e consapevole deivalori della Costituzione italiana, con particolare riferimento ai princi-pi contenuti nell’articolo 9: La Repubblica promuove lo sviluppo della

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cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patri-monio storico e artistico della Nazione, e a sensibilizzare i giovani allaconoscenza e salvaguardia del patrimonio storico, culturale, artistico,paesaggistico e scientifico italiano, e ai principi dell’impegno e dellaresponsabilità personale nei confronti del bene comune”.

Nel nostro Liceo due classi hanno aderito all’iniziativa: la 3ª Q, conreferente la prof. Rachele Longo e la 3ª I, con referente il sottoscritto.Tutti hanno partecipato con entusiasmo, interesse e motivazione, al di làdel risultato finale che ha “premiato” l’una piuttosto che l’altra classe.

Il progetto prevedeva due fasi; la prima finalizzata all’approfondi-mento dei temi legati all’articolo 9 attraverso diciotto incontri concadenza settimanale da fruire in presenza, presso varie prestigiose sedidislocate in altrettante città storiche della penisola, oppure in videoconferenza (come nel nostro caso) con la possibilità di interagire for-mulando domande ai relatori, tra i quali cito: Giovanni Maria Flick, giàPresidente della Corte Costituzionale; Gustavo Zagrebelsky, professo-re emerito, Università degli Studi di Torino; Giuseppe Galasso, stori-co, già Sottosegr. Min. dei Beni Culturali; Alessandro Gassman, diret-tore Teatro Stabile del Veneto; Francesco Sabatini, linguista,Presidente Onorario Accademia della Crusca; Francesco Profumo, giàMinistro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca; LorenzoOrnaghi Ministro per i Beni e le Attività Culturali; Massimo Rossi,geografo storico, Fondazione Benetton Studi Ricerche; Marco Tamaro,direttore della Fondazione Benetton Studi Ricerca.

I nostri studenti sono stati divisi in gruppi di lavoro e per ambitispecifici: storico, economico, scientifico, artistico. Hanno relazionatosui contenuti di ogni singola conferenza, raccogliendo così il materia-le indispensabile per la stesura del-l’idea di base.

Nella seconda fase, le classi par-tecipanti avrebbero dovuto infattirealizzare un prodotto multimedialesul tema “Articolo 9”; poteva trattar-si di un reportage, un cortometrag-gio, un documentario, il tutto delladurata massima di cinque minuti.Noi abbiamo optato per il corto.

Anche in questo caso ad ognuno èstato dato un compito diverso in basealle proprie attitudini e competenze.

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Il soggetto del cortometraggio è stato sviluppato sulla base deidocumenti raccolti e delle proposte pervenute dagli studenti e poi riela-borate più volte fino ad ottenere “il canovaccio” utile a svilupparestoryboard e sceneggiatura. Nella seconda fase del lavoro, solo ungruppo ristretto si è occupato della messa a punto del progetto; dallatrascrizione dei dialoghi (Chiara Torrisi) alla stesura della sceneggia-tura (Alessia Mazzarino, Benedetto Santoro, Chiara Torrisi, EnricoFarinelli, Sara Oliveri) alla composizione della colonna sonora(Salvatore Gargiulo) degli effetti audio (Benedetto Santoro) del logofinale (Mazzarino, Oliveri) e, soprattutto, alla regia ed effetti speciali(Enrico Farinelli) che caratterizzano particolarmente il prodotto finale,sia per l’originalità dell’idea, sia per la delicata poesia che trasmette ilmontaggio delle singole scene.

Altri allievi sono stati coinvolti come comparse (AntonioSpadaccini, Davide Arcidiacono, Giorgio Buzzanca, GiovanniSciortino) e fondamentale è stato il contributo degli interpreti “esterni”(Federica Mangiù, Francesco Aguglia, Paola Caruso, Paolo EnricoVetrano) parenti di allievi che si sono prestati simpaticamente nel ruolodi attori. Nel complesso, l’obiettivo di coinvolgere l’intera classe èstato a nostro avviso raggiunto. Il titolo del cortometraggio scelto dagliallievi è L’ombra della conoscenza.

Ecco una breve sinossi.Lungo un tratto di spiaggia, all’alba, fa la sua apparizione una

ragazzina, o meglio, la sua ombra. Dopo un’occhiata fugace in unadirezione indefinita, la sua immagine si dissolve.

La ritroviamo dietro i vetri di un una porta finestra che dà in uninterno, una camera da letto, appena rischiarata dalle prime luci delmattino. L’ombra bussa ai vetri destando dal sonno un’altra ragazzache, sorpresa, la osserva introdursi magicamente nella camera mentregesticolando la invita ad alzarsi e a seguirla.

La protagonista segue istintivamente l’ombra e si ritrova dentro labiblioteca del nonno. L’ombra è già lì, davanti ad uno scaffale colmodi libri, indica un volume poggiato su una mensola per poi sparire. Labambina si avvicina e prende il libro tra le mani quando dalla portaentra il nonno in vestaglia incuriosito nel vedere la nipote già svegliadi prima mattina.

La fanciulla ha aperto il libro e lo mostra al nonno il quale, consorpresa, scopre che si tratta del testo della Costituzione aperto allapagina dell’articolo 9. La nipote gli domanda di che si tratta e lui,accomodandosi in poltrona con lei al fianco, soddisfa la sua richiesta

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iniziando a spiegare. Parte così un monologo che è anche un raccon-to mentre, sulla parete di fronte, riappare la sagoma dell’ombra(intuiamo che trattasi di una sorta di alter ego) che invita ancora unavolta la ragazza a seguirla in un viaggio virtuale e “fantastico”…

Ed ecco il monologo del simpatico e colto nonnino mentre scorro-no le immagini di monumenti e paesaggi del Bel Paese chel’ombra/cicerone ci mostra:

[…] Ormai sono poche le persone che si interessano a questo arti-colo, il nostro patrimonio, purtroppo, sta andando perduto.

(la nipote chiede che cos’è il patrimonio)Il patrimonio? Non è complica-

to; il patrimonio è ovunque posi losguardo…

(la nipote chiede come fare ariconoscerlo)

…basta guardarsi attorno, cosache non siamo più abituati a fare,presi come siamo dai nostri impe-gni mondani; c’è sempre un qual-cosa che ci chiama a osservare eapprezzare la bellezza di quello che

ci circonda ma, sta a noi scegliere se ascoltarla e seguirla o meno. Sescegli di assecondarla avrai la possibilità di vedere cose meraviglio-se. Perché ogni luogo racchiude in sé una storia da narrare, un’anti-ca bellezza; e vale la pena di fermarci un attimo ad osservare e ascol-tare la voce silenziosa di ciò che ci circonda.

Artisti del passato hanno creato grandi opere, dalla più maestosastruttura architettonica al più umile dei dipinti; con ingegno e mae-stria si sono impegnati a costruire un grande patrimonio e l’hannoconservato con cura per generazioni. Così, con il passare degli annisono pervenuti sino a noi i resti di affascinanti civiltà antiche; in alcu-ni casi addirittura, se ci sediamo ad osservarli immersi nel silenzio,possiamo rievocare nella nostra mente ogni singolo dettaglio ormaiperduto; questo significa custodire il patrimonio, la testimonianza, l’a-more per il passato e il desiderio di tramandare.

Vedi, tutto quello che abbiamo va conservato con cura, ogni cosa èdegna di essere rispettata e ammirata, come se fosse la persona a tepiù cara… ma, ahimé, diventa sempre più difficile avere cura e rispet-to per quello che ci sta attorno.

Ci siamo evoluti, favorendo la scienza e la tecnologia ma questo ci

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ha fatto dimenticare la bellezza delle piccole cose, ci ha reso ciechi esordi di fronte a quelle stesse realtà che un tempo ci riempivano ilcuore di meraviglia e di cui ci prendevamo cura ma che ora, invece,sono trattate con la più totale indifferenza. Grazie al cielo però, c’èsempre qualcuno che ha ancora cura e amore verso tutto questo, qual-cuno che lo protegge e lo tutela dall’indifferenza e l’ignoranza altrui.Queste persone sono la speranza e il futuro del nostro patrimonio edella nostra storia. Sono coloro che hanno ascoltato colei che li chia-mava, quella parte interiore che ci invoglia a scoprire e osservare ciòche ci circonda, con gli occhi di un bambino colmo di curiosità. Questiuomini hanno il compito di chiamare gli altri…

Adesso il finale.Il viaggio virtuale si è concluso e torniamo nella biblioteca.

Qualcosa però è cambiato. La ragazzina è diventata madre e parla conil giovane figlio completando il discorso di suo nonno…

…di svegliare tutti noi, di farci aprire gli occhi e le orecchie; difarci riscoprire vecchie leggende, monumenti, paesaggi; questo è quel-lo che mi disse mio nonno quando avevo la tua età e… spero che farailo stesso anche tu, quando sarà il momento.

Quando la madre lascia la stanza, sulla parete si ripresenta l’om-bra… e la storia continua…

In conclusione, si è trattato di un’esperienza e un’iniziativa impor-tante e altamente formativa sul piano didattico ma, soprattutto, fonda-mentale per risvegliare l’interesse dei giovani nei confronti del patri-monio artistico, culturale e ambientale della nostra nazione e non solo:indispensabile a mantenere viva la “fiammella” della coscienza e con-sapevolezza del “bello” in tutte le sue manifestazioni.

Il video L’ombra della conoscenza è stato trasmesso da RAIEducational negli scorsi mesi ed è visibile (al minuto 17,28) sul sito:http://www.raiscuola.rai.it/ondemand-articolo/gap-articolo-9/22569/default.aspx

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La scuola insegna anche…

Kitty Amato

A scuola, da alunni, abbiamo imparato tante cose che poi ci sonostate più o meno utili. Di alcune abbiamo un ricordo ancora vivo, altrele conserviamo nascoste nei meandri della memoria per poi magarivederle riemergere inaspettatamente in situazioni particolari della vita.A scuola abbiamo anche conosciuto i sentimenti, il rispetto, l’amiciziaa volte pure l’amore. Dobbiamo riconoscerlo, sia che l’abbiamo amata,sopportata o addirittura odiata, la scuola ci ha aiutati a crescere comeadulti che agiscono in un contesto sociale.

L’art.1 dello Statuto delle studentesse e degli studenti recita: “Lascuola è luogo di formazione e di educazione mediante lo studio, l’ac-quisizione delle conoscenze e sviluppo della coscienza critica”.

Si pone cioè l’attenzione su un’azione educativa che mira ad unacrescita integrale dell’individuo attraverso la cura non solo della suaformazione culturale ma anche della sua formazione sociale.

Proprio per questo motivo è estremamente importante che la scuo-la educhi a quei valori che rendono ciascun uomo individuo inseritopositivamente nel territorio in cui vive, cittadino partecipe e propositi-vo del mondo, degno abitante della Terra.

Con una tale visione delle finalità affidate alle istituzioni educativenel nostro liceo si è sempre stati attenti a promuovere quei valori disolidarietà, di promozione umana, di impegno civile che ci auspichia-mo caratterizzino le generazioni future.

Da sempre è stata promossa la “Cultura della donazione”, ospitan-do annualmente l’Autoemoteca della Fratres S. Maria di Ognina per ladonazione del sangue.

Si è potuto constatare che i giovani si mostrano molto sensibili alproblema della carenza di sangue ed hanno risposto in modo positivoalla richiesta di donazione, molti di loro infatti dopo la prima donazio-ne effettuata a scuola, rimangono donatori periodici.

Da quest’anno, oltre ad incentivare attraverso l’attività curricularela conoscenza delle malattie del sangue e della prevenzione di malat-tie trasmissibili per via ematica, sono stati coinvolti anche i genitori inquesta campagna di sensibilizzazione e di promozione della donazionedel sangue.

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Giorno 24 ottobre, in occasione delle elezioni dei rappresentanti deigenitori negli Organi Collegiali è stato allestito un banchetto promo-zionale organizzato dai “Giovani Fratres”, rappresentanti dell’associa-zione donatori volontari di sangue, che hanno fornito informazioni aigenitori e li hanno invitati a colloborare con i propri figli in questaazione di civiltà e di impegno sociale.

Alunni del liceo hanno allestito un grande striscione che ha richia-mato l’attenzione dei genitori ed hanno distribuito una lettera che laDirigente prof. Gabriella Chisari ha loro indirizzato per sollecitarli apartecipare più attivamente all’iniziativa.

Ci auguriamo di vedere in futuro alunni maggiorenni accompagna-ti dagli adulti, genitori e docenti frequentare le autoemoteche o i cen-tri di raccolta fissi in modo spontaneo e periodico per far sì che lanecessità di sangue non sia una continua emergenza.

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I nostri “legali” alla RAI

Gloriana Orlando

La mafia si sconfiggecon la conoscenza, il silen-zio e l’ignoranza, sono glistrumenti che le consentonodi proliferare indisturbata.Questo il messaggio che ildott. Roberto Di Palma,Sostituto Procuratore pressola Procura della Repubblicadi Reggio Calabria ha con-segnato ai protagonisti delProgetto “I legali delGalilei” in quel tempio della“conoscenza”, le Biblioteche Riunite Civica e Ursino Recupero chel’insipienza degli amministratori rischia di far chiudere, nonostante ladedizione, la cura e l’impegno incessante della direttrice, dott. RitaCarbonaro, che si è sempre prodigata a tenere in vita la Biblioteca coniniziative di grande spessore culturale rendendola visibile e dandolustro alla città.

Due pomeriggi di riflessione in compagnia di due giovani magistrati,la dott. Antonella Barrera della DDA della Procura della Repubblica di

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Catania e il dott. Di Palma appunto, grazie all’opportunità offertaci dallaDirezione Generale per lo Studente, l’Integrazione, la Partecipazione e laComunicazione (MIUR) e dalla dott. Agata Maria Costanzo di Rai edu-cational che ha voluto registrare delle puntate di “Lezioni di mafia 2” conquaranta nostri studenti dando loro la grande opportunità di confrontarsicon chi la mafia la combatte sul campo da anni.

Seduti nella splendida sala Vaccarini tra le volte affrescate e i gran-di scaffali di legno intagliato che da secoli conservano in preziosi volu-mi la “conoscenza”, i ragazzi hanno tempestato di domande i magi-

strati che hanno presentato tematiche diverse ma tutte di alto impattoemotivo. La dott. Barrera ha messo adisposizione la sua esperienza sulnarcotraffico spaziando dal contestointernazionale al microcosmo dellanostra città, mentre il dott. Di Palmaha descritto la vita delle donne neicontesti mafiosi.

Il lavoro preparatorio è statoorganizzato dalla prof. MariangelaTesta e da me in alcuni pomeriggi diriflessione durante i quali si sonoapprofonditi gli aspetti che sarebberopoi stati affrontati con i magistrati. I

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ragazzi hanno partecipato con ricerche personali, letture su documentida noi proposti e momenti di confronto tra loro arrivando poi agliincontri ricchi di informazioni e soprattutto di curiosità che i magistra-ti hanno provveduto a soddisfare non solo nel corso della lezione verae propria ma anche fuori dal “set televisivo” sia prima della registra-zione (la dott. Barrera ci ha ospitato con affettuosa disponibilità nelsuo ufficio del Palazzo di Giustizia dedicandoci un intero pomeriggio)sia dopo (il dott. Di Palma si è lungamente trattenuto per risponderealle domande dei giovani che lo attorniavano e non volevano lasciarloandare via). Spente le luci della “ribalta”, ognuno ha portato con sé laricchezza di un’esperienza importante e altamente formativa che com-pleta il tradizionale fare scuola con inedite modalità comunicative disignificativo valore umano e sociale.

L’organizzazione che ha fatto da cornice agli incontri si può sinte-tizzare nell’intervista della prof. Testa al dott. Di Palma sugli argo-menti della della sua lezione.

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Le donne sulla scena criminale mafiosa*

Mariangela Testa

M. - Non è da molti anni che si sente parlare di “donne d’onore”.Donne di mafia in generale ha voluto sempre dire donne vittime dellamafia o che ad essa si sono ribellate. Puoi spiegare questa nuova pro-spettiva ed esaminare l’effettivo ruolo che le donne ricoprono nellediverse organizzazioni mafiose?

R. - La legge non le ha, per lungo tempo, ritenute pienamente compli-ci ma al massimo colpevoli di favoreggiamento; di fatto ha prevalso lostereotipo che le percepiva come donne sottomesse e succubi, sempli-ci trasmettitrici dei valori legati alla famiglia, quindi “passivamentemafiose”. Nel corso degli anni questa visione del problema è statafinalmente agganciata e superata, anche grazie alle stesse donne,madri, figlie, mogli silenziose che hanno iniziato a parlare.Le donne sono da sempre presenti nelle dinamiche di potere delle orga-nizzazioni mafiose, identificandosi con i disvalori che, pur passiva-mente, traggono nelle relazioni familiari e nella comunità mafiosa,monosessuale e rigidamente maschilista com’è. Oggi, sebbene esplici-tamente continuino a non far parte dell’organizzazione, sono molto piùcoinvolte in affari di mafia, anche se non formalmente affiliate e senzache partecipino ai riti di iniziazione. Principalmente ricoprono ruoli digregarie o supplenti del boss, ma ci sono anche riscontri di rari casi incui la donna ha assunto la posizione di vera e propria leader.Secondo un vecchio luogo comune sulla mafia poi, i mafiosi non siconfiderebbero con le loro donne perché esse sono incapaci di tacere.Ma le collaborazioni di giustizia, sia maschili che femminili, testimo-niano il contrario: le donne sanno tutto e spesso condividono tutto,sono a conoscenza delle attività illecite dei loro conviventi ed anzi ilfenomeno del cosiddetto “pentitismo” ha messo in luce che sono piùcoriacee rispetto al top secret! Molte si dimostrano strenuamente fede-li ai valori mafiosi anche dopo l’arresto dei propri figli o compagni,

*Intervista al dott. Roberto Di Palma della Procura della Repubblica di R. C.

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prendono quindi le distanze dai familiari “infami” che hanno scelto lavia del pentimento o della collaborazione. In questo ambito, a volte sifanno vedere, intervistare, parlano, si asserragliano attorno all’arresta-to per difenderlo, lanciano minacce e screditano i pentiti, presenzianoalle udienze per insultare i magistrati, facendosi così notare dall’opi-nione pubblica per una forma di accreditamento plateale.

M. - Ma io, da donna, come posso capire ed accettare questo perversoruolo?

R. - Intanto è l’ambiente familiare che dà l’imprinting fondamentale.Secondo il format della famiglia mafiosa la donna è associata al suoruolo casalingo: non c’è da meravigliarsi se appoggia fortemente, anche senon sempre in modo esplicito, il modello trasmesso dal padre; a lei toccafare figli e occuparsi della casa. Ah, le compete anche la gestione dellasfera del sacro e la partecipazione alle cerimonie religiose...

M. - In che senso?

R. - La religione è nel mondo mafioso un fondamentale elemento distabilizzazione e giustificazione dei valori e di Cosa Nostra in partico-lare: infatti gli uomini di mafia credono (meglio immaginano di crede-re) a una giustizia divina e si appellano a essa in quanto superiore allagiustizia terrena, non certo per reale consapevolezza di tale realtà, cri-stianamente accettata e condivisa, ma al solo scopo di screditare edelegittimare quella esercitata dagli organi statali. E le donne garanti-scono che i figli crescano nel rispetto dei rituali e dei valori religiosi!

M. - La mafia, e specificatamente la ’ndrangheta, manifesta qualcheforma di ancestralità?

R. - Senza dubbio: anche la donna ne è protagonista. Pensiamo innan-zitutto che la memoria del sangue passa attraverso loro: spesso sonovedove, orfane, sorelle di ammazzati... è chiaro che la trasmissione delcodice culturale mafioso e l’incitamento alla vendetta passa ancheattraverso la morte!Non sono quasi mai le donne a esercitare direttamente la violenza, maesse bruciano per onore e vergogna... Da loro si impara che non ven-dicare l’onore offeso vuol dire essere vigliacchi, deboli e portarsi die-tro un forte senso di vergogna e a loro si deve protezione da qualsiasi

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corteggiamento esterno: chi osa corteggiare una donna sposata, fidan-zata o promessa a un boss va incontro alla morte.L’essere “cornuti” è una vergogna troppo grande!

M. - Anche qua in Sicilia, infatti...

R. - Vuoi sentire una storia calabrese?

M. - Sìsìsìsì!

R. - In aprile e maggio, lo Stretto di Messina viene investito da un flus-so migratorio di rapaci, i falchi Pecchiaioli, localmente chiamati ador-ni. Negli anni ’70 era consentito dare la caccia a questo volatile (oggispecie protetta) e i cacciatori costruivano, sulle alture, diverse posta-zioni che tutt’oggi esistono come ruderi o ne vengono costruite dinuove in maniera del tutto illecita, per i medesimi fini illeciti.Di questo tipo di attività venatoria sono rimaste alcune leggende, frut-to di tradizione popolare. Quella che fa al caso nostro è questa: all’uc-cisione dell’adorno si attribuiva un potere magico contro l’infedeltàdella moglie, la cui spiegazione può essere ricercata nelle circostanzestoriche dovute alla particolare posizione geografica delle coste traScilla e Cariddi, per secoli terre di razzie di pirati ed invasioni di bri-ganti e saraceni che arrivavano dal mare, come gli adorni.Quello che oggi sembra un rito scaramantico contro il tradimentoconiugale, era, probabilmente, in passato una forma di esorcismo con-tro le scorrerie piratesche, che portavano con sé violenze ed offese alproprio “onore” familiare, al pari dell’infedeltà: l’uccisione di questorapace assumeva, quindi, il significato di una vittoria contro un “inva-sore” venuto dal mare.

M. - Perché è così importante che la donna sia fedele?

R. - Perché il totale possesso della propria donna facilita la traduzionein signoria sul territorio; solo l’uomo d’onore che si dimostra capacedi un totale comando sulla propria famiglia di sangue, e che possiedesui suoi membri il diritto di vita e di morte, potrà essere in grado diimporre in modo efficace il proprio potere sul territorio.Devi sapere che la donna, anche dopo l’arresto o la morte del compa-gno, continua a dipendere economicamente dall’organizzazione mafio-sa, che ha l’obbligo di mantenerla, di provvedere a lei con iniziative di

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assistenzialismo para-statale e di controllare la sua onestà e i suoicostumi di vita.

M. - Com’è una famiglia ’ndranghetista?

R. - La ’ndrangheta mente su tutto: dal suo stesso nome (che potrebbederivare dal greco e stare a significare uomo di valore), al concetto dirispetto, di amicizia, di valore, di onestà, di mascolinità, di religiosità.Laddove, la storia dimostra inequivocabilmente come sia esattamentel’opposto di tutto questo.Cinicamente sono solo ideali che vengono sventolati per acquisire emantenere consenso nella popolazione sub-acculturata.E l’immagine della famiglia che vuole proiettare all’esterno non faeccezione: è una bella facciata con cui apparire. Essa deve essere quan-to più stabile e solida possibile, basarsi su legami ben controllati dalboss e allargarsi in modo da rafforzare il suo potere.Come nella società feudale, la donna può essere annoverata tra lemerci di scambio, esistendo la necessità di portare avanti certe politi-che matrimoniali.Così, i sodalizi di tal fatta con altri clan basati sullo “scambio di cuori”possono servire anche come freno ai conflitti o come prevenzione allefaide. In più, le alleanze matrimoniali permettono anche l’espansioneinternazionale dell’organizzazione mafiosa attraverso legami da unaparte all’altra del globo: sono infatti funzionali agli scambi transnazio-nali e alla presenza di persone di fiducia o di basi logistiche anche inluoghi molto lontani dal clan.

M. - Ma la donna, come si presenta rispetto al comando, oggi? Si puòparlare di un completo passaggio dalla situazione tradizionale a quellaattuale o ci sono ancora collegamenti e persistenze della situazioneprecedente?

R. - La condizione della donna di mafia è ancora ambigua. Negli ulti-mi trenta anni ci sono stati forti mutamenti: le donne mafiose si sonoevolute e hanno cominciato ad assumere man mano ruoli più attivi ecompiti più determinanti, scacciando certi stereotipi.Ovviamente esse sono fedeli compagne, lodano le virtù dei loro mari-ti mafiosi e anche quando questi finiscono in carcere si prodigano apresentare il proprio compagno come ottimo padre di famiglia e uomoreligiosissimo.

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Le carte processuali dimostrano che esse gestiscono varie attività:favoreggiamento e assistenza dei latitanti, mediazione tra carcerati emondo esterno, compiti importanti nel traffico di droga, eccetera.Specificatamente nei reati contro il patrimonio, esse favoriscono leattività delittuose dei loro congiunti diventando prestanome, proprieta-rie di quote o intestatarie di società e imprese usate soprattutto per ilriciclaggio del denaro sporco, proprietarie di immobili acquistati condenaro illecito, proprietarie di esercizi commerciali al posto dei mafio-si che non possono comparire.Ma non dimentichiamo che si inizia a riconoscere la loro piena puni-bilità solo nel 1982, in base all’articolo 416 bis (Legge Rognoni-LaTorre). L’anno di svolta fu il 1995: ottantanove donne furono denun-ciate per il 416 bis, cioè per associazione mafiosa.

M. - Le associazioni hanno dei vantaggi, arruolando le donne? La’ndrangheta come si muove in relazione all’assunzione di ruoli daparte della donna?

R. - Per anni le organizzazioni mafiose sono riuscite a sfruttare a lorofavore il pregiudizio della donna buona e non capace di commettereattività criminali, usandola ad esempio come prestanome, in modo chele società a loro intestate non fossero toccate dalle indagini. È anchevero che alla donna come vittima e incapace di assumere funzioni deci-sive all’interno delle organizzazioni criminali non crede più nessuno...In ogni caso, nonostante l’emergere della figura femminile come fun-zionale, il potere mafioso rimane un potere maschile e solo in casieccezionali può essere delegato alla donna, seppure restando semprenell’ambito della famiglia, in quanto di solito anche le compagne deiboss provengono da ambienti mafiosi: sono mogli, sorelle, figlie degliuomini d’onore. Le situazioni di potere delegato sono più contenute inSicilia rispetto a quelle che avvengono per la Camorra e per la ’ndran-gheta, anche per la minore flessibilità del codice d’onore di CosaNostra.Per quanto riguarda la ’ndrangheta non si può parlare di un matriarca-to ma anche qui le donne sono diventate “donne in carriera” ed è sem-pre più evidente l’appoggio che esse danno ai boss.Anche in questo caso buona parte della gestione dell’attività economi-ca spetta a loro mediante il controllo dei conti correnti, delle operazio-ni finanziarie, la creazione di imprese, eccetera.Nel campo della logistica poi, i loro compiti variano dal trasporto del

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parente mafioso, alla mediazione mediante il recapito dei pizzini, allastaffetta di armi fino alla scorta degli uomini quando escono.Poi c’è differenza tra donne cresciute in una criminalità mafiosa piùurbana rispetto a quelle cresciute in una ancora più rurale e legata alterritorio.Con l’espandersi del traffico di droga a livello internazionale, le donnesi sono mostrate soggetti ideali a rivestire il ruolo di corriere, sia per-ché potevano nascondere con facilità gli stupefacenti, sfruttando a lorofavore le forme del corpo o simulando delle finte gravidanze, sia per-ché, sempre a causa del pregiudizio sull’incapacità criminale dellafemmina, sfuggivano sicuramente più facilmente ai controlli. Già neglianni ’80 facevano da tramite tra New York e il sud Italia.Un altro vantaggio innegabile consiste nello sfruttamento dell’ambien-te domestico per quanto riguarda le attività legate al narcotraffico (iltaglio della droga, la preparazione delle dosi e il confezionamento).

M. - Ma allora, sono donne che vivono appartate? Che relazione hannocon la società civile?

R. - Intanto diciamo che soprattutto nei quartieri più popolari e degra-dati e in situazioni di marginalizzazione sociale, la mafia è l’unica adare una risposta ai bisogni di questi abitanti. Le madri di famiglia, chehanno spesso un alto numero di figli e faticano ad arrivare a fine mese,per disperazione spesso si fanno assoldare dai gruppi criminali persvolgere questi compiti poco remunerativi e pericolosi, arrivandoanche a utilizzare i propri figli. E quindi si tratta di donne che, obtortocollo, non devono scoprirsi eccessivamente… Poi ci sono donne che,da semplici gregarie delle organizzazioni mafiose, possono arrivare adiventare le vere supplenti del boss. Questo può accadere quando ilcapo mafioso viene incarcerato o si dà alla latitanza, perché esso habisogno di una persona fidata che dall’esterno continui a dirigere leattività del clan e in questo ruolo calzano bene le figure femminilispesso della moglie o della sorella.In questi casi, sempre più numerosi, la gerarchia del clan è portataavanti proprio dalla figura femminile. Perché? Mi chiederai tu…

M. - Appunto, perché?

R. - Perché la moglie o la sorella, oltre a essere unite da un legameforte di parentela, hanno il vantaggio di essere meno sospettabili e

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meno controllate dalla polizia e poi hanno una straordinaria capacità ditenere separate la vita sociale dalle attività del marito.Si rimane stupiti: fanno attenzione a come si mostrano in pubblico espesso occupano uno spazio apparentemente dignitoso nella societàcivile. Con mariti condannati per aver commesso gravissimi fatti dimafia e di sangue...!Per l’organizzazione mafiosa calabrese, la surroga della donna all’uo-mo si presentò per la prima volta come necessità: a causa dell’ende-mica instabilità prodotta dalle frequenti faide tra ’ndrine, i capo clanerano spesso assenti, e così...Per Cosa Nostra, invece, i problemi sono stati causati soprattutto inseguito all’inasprimento dell’azione di contrasto dello Stato. Da qui siè aperto un varco per l’apertura dei livelli dirigenziali alle donne.

M. - Ma quale chance hanno le donne per evitare questo turpe imprin-ting?

R. - Il desiderio di riscatto potrebbe essere un movente intrinsecoimportante ma la paura di una vendetta diretta o trasversale molto spes-so prevale: la loro prima preoccupazione è infatti la vita dei figli.Poi occorre considerare che le donne, che normalmente faticano adacquisire ruoli nell’organizzazione, una volta che riescono ad ottenerequello che vogliono, molto difficilmente lo rinnegheranno.Rinnegare da un momento all’altro i valori che sono stati alla base diun’intera vita, provoca sofferenza e perdita d’identità. La collabora-zione con la Giustizia causa perdita di riferimenti e disgregazione del-l’io. Questo vale anche per gli uomini, ma per le donne ancora di piùa causa del ruolo stabilito che occupano nella Famiglia. Sono le donnea dover mantenere la famiglia unita, sono loro a rappresentare l’amorefamiliare. Anche nei confronti dell’esterno e delle apparenze si sento-no in dovere di far passare l’idea di una famiglia per bene. Dal momen-to che si pentono, devono portarsi dietro i figli nel programma di pro-tezione dei collaboratori di giustizia, il pentimento è molto più doloro-so per loro a causa dell’attaccamento e dell’amore per la famiglia. Cosìnasce la paura che i figli non riescano a sopportare il trauma e il lace-ramento interiore che seguono la collaborazione di giustizia; le madritengono più di ogni altra cosa a preservare quello che pensano sia ilfuturo dei propri figli e il loro benessere.

M. - Alla luce dell’ampiezza del problema, quali consigli ti senti di

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indirizzare in sintesi ai ragazzi per prepararli all’incontro di domani?

R. - Che le donne sono sempre state presenti nelle dinamiche internealle organizzazioni, e che ora stanno acquistando un potere reale eimportante, ma che non si deve dimenticare che il presupposto affin-ché ciò accada è la detenzione o la latitanza dell’uomo. La loro scala-ta al potere non si apre spontaneamente, ma rimane sempre legata aldestino del boss: finché l’uomo ha la possibilità di comandare, ledonne non ne hanno.Gli studenti dovranno notare che nei confronti del processo di emanci-pazione la mafia è stata capace di avvantaggiarsi degli aspetti piùcomodi, negando però quelli più scomodi: se ci pensiamo, la donnaemancipata fa paura perché la sua “disobbedienza” può mettere in crisile organizzazioni mafiose, che non sottovalutano questo pericolo.La nuova generazione di donne, istruite e libere di muoversi, costitui-sce un vantaggio per le organizzazioni mafiose in quanto mostrano diconoscere perfettamente gli assetti mafiosi; tuttavia, nello stesso tempoqueste ultime devono essere tenute a freno così come va contenuta laloro più istintiva indipendenza psicologica ed emotiva.È un fatto oggettivo: la vera e propria emancipazione della donna nonpuò avvenire in una società che rimane patriarcale. La condizione delledonne di mafia rimane ambigua in quanto possono aspirare al ruolo diboss, ma non possono realizzare un’emancipazione piena ed effettivaintesa come liberazione dalla famiglia mafiosa.Poiché l’ambiente mafioso, in modo totalizzante, è sottoposto ai detta-mi di un’organizzazione segreta, autoritaria e monosessuale, la veraemancipazione si verifica solo quando decidono di rompere ogni lega-me con il mondo mafioso e scelgono di collaborare con la giustizia.Certamente questo percorso provoca sofferenza e lacerazioni interne,ma è l’unico modo che permette di riscattarsi, di affermare pienamen-te la propria individualità e di garantire un futuro migliore ai proprifigli.

Adesso permettimi di farla io, una domanda... cosa si aspettano questivostri ragazzi da me?

M. - Mmmmh... che tu li colpisca al cuore, credo... Sono sicura cheandrà bene!