Nuovi scenari in America Latina - Difesa

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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA CENTRO MILITARE di STUDI STRATEGICI Direttore della Ricerca: dott. Lorenzo Tordelli in collaborazione con: dott.sa Flora Hyeraci Novembre, 2008 Nuovi Scenari in America Latina: Bolivia, Ecuador, Venezuela e il pensiero Castrista

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CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA CENTRO MILITARE di STUDI STRATEGICI

Direttore della Ricerca:

dott. Lorenzo Tordelli

in collaborazione con:

dott.sa Flora Hyeraci

Novembre, 2008

Nuovi Scenari in America Latina: Bolivia, Ecuador, Venezuela

e il pensiero Castrista

2  

Ringraziamo la Dr.sa Chiara Gabbrielli per il suo valido 

contributo alla ricerca.

3  

SOMMARIO 5

EXECUTIVE SUMMARY ERRORE. IL SEGNALIBRO NON È DEFINITO.

INTRODUZIONE 16

NUOVI SCENARI IN AMERICA LATINA 19 DALLA RIVOLUZIONE CUBANA AL CASTRISMO DEL XXI SECOLO 22 LA DIPLOMAZIA DEGLI IDROCARBURI 25

1. VENEZUELA, BOLIVIA, ECUADOR: L’ASSE BOLIVARIANO? 27

1.2 VENEZUELA 27

1.2.1 IL SISTEMA POLITICO VENEZUELANO E LE PREMESSE PER L’ASCESA AL POTERE DI CHÁVEZ 27 1.2.2 CHÁVEZ E LA SUA FORMAZIONE IDEOLOGICA 29 1.2.3 L’ASCESA AL POTERE DI CHÁVEZ 30 1.2.4 IL REFERENDUM PER LA RIFORMA COSTITUZIONALE 34

1.3.BOLIVIA 36

1.3.1 ETNIA E GLOBALIZZAZIONE 36 1.3.2 LE BATTAGLIE DI MORALES 39 1.3.3 LA POLITICA ESTERA BOLIVIANA 44

1.4. ECUADOR 46

1.4.1 VERSO LA COSTRUZIONE DI UNO STATO DI DIRITTO 46 1.4.2 LA RIFORMA COSTITUZIONALE DI RAFAEL CORREA 49

2.RELAZIONI INTERNAZIONALI 54

2.1 NUOVI RAPPORTI ALL’INTERNO DELL’“EMISFERO OCCIDENTALE” 54 2.2 LA FINE DEL “CORTILE DI CASA” STATUNITENSE 55 2.3 IL PETROLIO COME STRUMENTO DI POLITICA ESTERA E LA RICERCA DI ALTERNATIVE 58 2.4 INTESE E CONTRASTI ALL’INTERNO DEL CONTINENTE SUDAMERICANO 62 2.5 RAPPORTI STRATEGICI AL DI FUORI DEI CONFINI CONTINENTALI 66 2.6 L’AMICIZIA CON LA RUSSIA 67 2.7 LA CINA AVANZA NEL CONTINENTE SUDAMERICANO 71 2.8 I RAPPORTI TRA UNIONE EUROPEA E AMERICA LATINA 73

3.CONCLUSIONI 78

ALLEGATI 88

4  

1. ANALISI MACROECONOMICA 88

FIGURA 1: TABELLA SINTETICA DATI MACROECONOMICI GENERALI 88 FIGURA 2 : CONFRONTO TRA PIL DEI TRE PAESI LATINOAMERICANI 89 FIGURA 3 : DIPENDENZE COMMERCIALI 89 FIGURA 4 : INDICATORI ECONOMICI A CONFRONTO 91

2. PETROLIO 92

FIGURA 5: RISERVE DI PETROLIO 92 FIGURA 6: RISERVE DI PETROLIO 93 FIGURA 7: ESPORTAZIONI DI PETROLIO 94 FIGURA 8: ESPORTAZIONI DI PETROLIO AMERICHE 95

3. GAS NATURALE 96

FIGURA 9: PAESI PRODUTTORI GAS AMERICHE 96 FIGURA 10: RISERVE DI GAS NATURALE - AMERICHE 97

4. BIOCOMBUSTIBILI 98

FIGURA 11: ANDAMENTO PRODUZIONE BIOCARBURANTI 98 FIGURA 12: PRIMI DIECI PRODUTTORI MONDIALI DI BIOGASOLINE 99

5. LE MAPPE PAESE 101

FIGURA 13: VENEZUELA 101 FIGURA 14: BOLIVIA 102 FIGURA 15: ECUADOR 103 FIGURA 16: AMERICA LATINA 104

104

BIBLIOGRAFIA 105

5  

SOMMARIO

Oggi l’America Latina di oggi è molto diversa da come appariva alcuni anni fa.

Si è registrato un miglioramento delle performance macroeconomiche: tasso

di inflazione a livelli moderati; bilance fiscale ed estera positive; riduzione, anche se

modesta, della disoccupazione e della povertà. La maggior parte dei grandi paesi

dell’America Latina si può considerare come economie semi-industriali, in ascesa tra

i mercati emergenti. I loro indicatori di modernizzazione sono al di sopra dei paesi

africani e della maggior parte delle nazioni dell’Asia. Dal punto di vista della politica

interna, si sono rafforzate le procedure democratiche, le elezioni sono libere, i partiti

di opposizione sono forti e possono avere buone chances di alternarsi al governo.

Anche la società è cambiata nel modo di percepire il proprio ruolo all’interno dei

rispettivi paesi.

Rimangono tuttavia ancora molti spettri del passato. Le forti disuguaglianze, la

miseria diffusa, la crisi e la corruzione dei partiti politici tradizionali, nonché il

fallimento di politiche liberiste imposte dall’alto e le rivendicazioni indie hanno portato

l’America Latina a cercare di tornare ad essere padrona del proprio destino. Essa è

oggi alla ricerca di una nuova identità. La sinistra si riaffaccia sulla scena politica con

un volto nuovo. Leader carismatici proiettano il continente sudamericano verso

l’assunzione di un ruolo internazionale più incisivo e assertivo dei propri reali

interessi, tale da renderlo autonomo da qualsiasi condizionamento geopolitico, come

la tradizionale dipendenza dalla leadership statunitense: abbandonate le prospettive

di integrazione a guida USA, l’America Latina riprende a parlare di nazione come

fattore identitario di base.

Nonostante sia chiara una linea comune sudamericana che chiede più Stato e

meno mercato, il controllo delle risorse energetiche, il recupero dei diritti delle

comunità indigene e un’accentuata indipendenza dagli USA, è possibile individuare

diversi schieramenti all’interno del continente. Da una parte, i paesi fondatori del

Mercosur – Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay – che, sebbene si rifacciano a

programmi progressisti, volti a mitigare le difficoltà delle grandi masse povere dei loro

paesi, hanno adottato uno stile moderato, convinti della necessità di cercare il

progresso, la stabilità e la libertà attraverso la cooperazione internazionale e la

collaborazione anche con gli Stati Uniti. Dall’altra, vi sono governi definiti

socialdemocratici – Cile, Perù, Panama e Costa Rica – e governi di destra –

6  

Colombia, Guatemala, Messico ed El Salvador, che intrattengono buoni rapporti con

gli USA, di cui ospitano basi militari in punti strategici del loro territorio e con cui

hanno firmato accordi di libero scambio. Infine, il filone socialista dei paesi andini:

Venezuela, Bolivia ed Ecuador, definiti da alcuni studiosi l’“Asse bolivariano”,

prendendo spunto dalle dichiarazioni del personaggio di punta di tale schieramento, il

presidente venezuelano Chávez. Tale filone, strenuo oppositore di ogni ingerenza

statunitense e del capitalismo senza freni, ha raccolto il testimone, solo ideologico,

della Cuba di Fidel Castro. Esso presenta diverse sfaccettature al suo interno e per

la sua peculiarità attira l’interesse e le perplessità dell’intero concerto internazionale.

Bolivia, Ecuador e Venezuela, oggi guidati da leader populisti, pensano a una

nuova forma di socialismo, che faccia presa anche sulle masse indigene,

numerosissime nei rispettivi paesi. I tre sono, inoltre, tra gli Stati più ricchi di risorse

energetiche di tutta l’America Latina. Scopo della ricerca è di analizzare questi Stati

dal punto di vista economico e geopolitico, indagando sul loro ruolo nel mutato

contesto internazionale del primo decennio del XXI secolo.

Nel primo capitolo, partendo da una breve analisi dell’esperienza cubana, si

studiano quindi singolarmente i tre paesi andini. L’attenzione si focalizza sulle

motivazioni sociali, economiche e ideologiche, che hanno favorito l’ascesa dei loro

presidenti, con programmi innovativi di governo. Si passa poi ad analizzare i punti di

forza e debolezza della loro alleanza.

Ciò che emerge è che, per quanto sia innegabile la reciproca “simpatia” tra i

tre leader, gli interessi degli stessi sono a volte in conflitto. Certamente, Venezuela,

Bolivia ed Ecuador condividono un’impostazione di fondo: la volontà, cioè, di

costruire sistemi di governo concentrati sul sociale e su forme di assistenzialismo.

Tuttavia, sia Morales che Correa si sono detti più volte non in sintonia con le scelte,

specialmente di politica estera, di Chávez.

Il Venezuela è il paese di punta della “rivoluzione bolivariana”. Grazie ai

proventi petroliferi derivanti dalle enormi quantità di gas e petrolio che detiene,

Chávez, con forniture di petrolio a prezzi agevolati, cerca di attrarre nella sua sfera di

influenza paesi poverissimi come Bolivia, Ecuador, Nicaragua, e non solo. Sulla scia

di una retorica antiamericanista, l’energico presidente venezuelano ha lanciato e

sostenuto una serie di iniziative, volte all’integrazione dell’America Latina e alla sua

indipendenza dagli USA. Nonostante ciò, finora Chávez non è riuscito veramente nel

suo intento. La sua figura è probabilmente troppo controversa e quindi rischia di

7  

pesare eccessivamente sui destini dei suoi alleati. Inoltre, i crescenti impegni

finanziari oltre confine e il calo della rendita petrolifera stanno limitando le risorse

venezuelane: la diplomazia degli idrocarburi non basterà a tenere insieme l’Asse.

La Bolivia rimane uno dei paesi più poveri dell’America Latina. Il presidente

indio Morales, si trova ad affrontare gravi dissensi interni, che provengono dalle

regioni maggiormente industrializzate e sviluppate del paese. Spinte secessionistiche

sono sempre più forti. Il Paese ha estremamente bisogno degli aiuti di Chávez, ma

certo non può rinunciare alle sue alleanze strategiche e compromettere la sua fragile

economia con mosse azzardate, che possano andare contro, ad esempio, al Brasile,

dal quale l’economia boliviana dipende per oltre il 50% e verso il quale esporta la

maggior parte del suo gas. Morales deve stare attento alle scelte, che gli si chiede di

fare riguardo progetti importanti, quali il Gasdotto del Sud o la guerra contro l’“Asse

dell’etanolo” dichiarata da Chávez.

L’Ecuador è diverso dagli altri due paesi andini. Alla sua guida c’è Rafael

Correa, presidente intelligente, estremamente preparato che, conscio degli errori dei

suoi alleati, sta applicando nuove riforme nel paese. Correa è un pragmatico: sa di

non poter essere un accanito antiamericanista, dal momento che nel suo paese il

dollaro è la moneta di scambio e la sua economia dipende, in gran parte, dai rapporti

con gli USA. Sta adottando una politica economica nuova, orientata all’eliminazione

della corruzione dilagante e a sostenere una crescita qualitativa, puntando sulla

riduzione delle disuguaglianze, lo sviluppo delle PMI e dei settori da cui traggono

sostentamento la maggior parte dei poveri ecuadoriani: agricoltura e pesca.

L’Ecuador sa di essere il quarto esportatore di petrolio dell’America Latina e di avere

riserve per almeno 25 anni. Correa dovrà pertanto giocare bene questa carta, senza

compromettersi troppo con il compagno Chávez. Il 28 settembre 2008, è stata

approvata la nuova Costituzione ecuadoriana: un mix di statalismo, libertà civili e

richiami alla tradizione andina. Essa non rompe drasticamente con i princìpi del

mercato, ma esprime la volontà di un profondo cambiamento. Se Correa continuerà

ad applicare politiche moderate, senza farsi trascinare nel progetto del “socialismo

del XXI secolo”, così come teorizzato da Chávez, probabilmente non dovrà affrontare

i problemi interni, che sta vivendo la Bolivia di Morales.

Nel secondo capitolo si analizzano le relazioni internazionali dei tre paesi

andini. Da quest’analisi si ricava l’immagine del ruolo innovativo che questi Stati si

stanno ritagliando nello scenario internazionale.

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La maggiore autonomia dei paesi latinoamericani, dovuta anche alla crisi degli

Stati Uniti come potenza unipolare, si è tradotta in una più intensa apertura all’estero.

I tre Stati andini hanno iniziato a stringere rapporti con le grandi potenze mondiali:

Ue, Russia e Cina. Nel capitolo si analizzano tali relazioni e si accenna alle varie

ipotesi sostenute dagli studiosi. In determinate intese si intravede una visione

terzomondista di opposizione agli USA e all’Occidente in generale, che fa ripensare

alle dinamiche della guerra fredda. Si ipotizzano gli effetti che l’amicizia con la

Russia può avere sugli interessi statunitensi e sul loro ruolo di potenza regionale.

Allo stesso modo, si fanno ipotesi sulla minaccia insita nell’affacciarsi della Cina nel

subcontinente. Ci si sofferma, inoltre, sulle implicazioni che può avere oggi una

politica di aperta e continua opposizione agli Stati Uniti, alla luce della lotta al

terrorismo e considerata l’amicizia dichiarata di Chávez nei confronti di Iran, Corea

del Nord e Bielorussia.

Per quanto riguarda i rapporti con l’Europa, finora l’UE e in particolar modo

l’Italia hanno saputo sfruttare solo parzialmente le opportunità di quest’area. Manca

una strategia comune. I progetti con il continente latinoamericano sono molti ma non

danno ancora i risultati sperati. Si concentra l’attenzione sui grandi Stati

sudamericani, tralasciando importanti opportunità per le PMI europee in alcuni settori

di “piccoli” paesi che nascondono grandi risorse. Il litio boliviano è solo un esempio.

Gli europei avrebbero molto da dare all’America Latina, mostrando come gas e

petrolio potrebbero rappresentare quello che l’acciaio e il carbone, nella seconda

metà del Novecento, sono stati per l’Europa!

Quale sfida aspetta i nostri tre paesi? Nel capitolo conclusivo si osserva che

gli scenari ipotizzati a proposito del ruolo che Venezuela, Bolivia ed Ecuador

possono avere nel contesto internazionale non si esauriscono nelle rivisitazioni della

guerra fredda o nelle ipotesi del conflitto mediorientale trasportato in America Latina.

Dal punto di vista della politica interna, invece, nonostante le riforme adottate,

Venezuela, Bolivia ed Ecuador devono affrontare ancora profonde contraddizioni,

che non permettono conclusioni affrettate. A dispetto di quanto venga riportato dalla

maggior parte della stampa estera, gli stessi presidenti Chávez, Morales e Correa

sono cauti nelle loro scelte nazionalisitiche. Essi sanno di essere fortemente

dipendenti dagli investimenti di paesi e compagnie straniere. Chávez è consapevole

di non poter commettere lo stesso errore di Castro: farsi trascinare dalla rivoluzione

oltre il giusto limite dell’opportunità politica.

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I tre paesi andini devono certamente portare a termine il percorso di

definizione della propria identità nazionale, superando l’attuale ibrido di pluralismo

formale e caudillismo sostanziale che li caratterizza. Partendo da qui, devono poi

completare il processo di riequilibrio dei rapporti con le grandi potenze mondiali,

conditio sine qua non per diventare attori significativi nel nuovo ordine internazionale.

Dal punto di vista economico, devono emanciparsi dalla dipendenza dalle risorse

energetiche e dal loro utilizzo a fini strettamente ideologici. I tre Stati andini devono

anche puntare a una migliore distribuzione della ricchezza.

La vittoria di Obama, nelle presidenziali statunitensi, lascia spazio a ipotesi

ottimistiche di riorganizzazione dei rapporti nell’area andina e fra questa e il resto del

continente. La ricerca di una distensione delle relazioni con gli USA potrebbe aprire

scenari nuovi di collaborazione strategica, nonché profilare nuove intese e alleanze.

Ciò sarebbe tanto più plausibile, se Chávez decidesse di diminuire la violenza della

sua retorica antiamericanista. Tuttavia bisogna considerare che gli USA, per far

fronte alla crisi economica, cercheranno di garantirsi la maggiore autonomia possibile

anche e soprattutto dal petrolio venezuelano.

Infine, si è scelto di allegare al lavoro documenti ritenuti un valido aiuto per

un’analisi attenta dei limiti e delle potenzialità dei paesi oggetto di studio.

In questi documenti, si troverà, ad esempio, un’analisi del rapporto tra l’indice

di vita delle riserve energetiche e la produzione delle stesse, dalla quale emerge

come la Bolivia sia un paese che può puntare a rafforzare il ruolo strategico del suo

gas, più di quanto non possa fare il Venezuela con il suo petrolio, soprattutto se si

considera la capacità di esportazione della Bolivia, che in questo campo è

nettamente superiore a quella del Venezuela. L’Ecuador, che si attesta al quarto

posto per l’esportazione di petrolio, deve fare i conti con una tipologia di greggio

super pesante, che necessita quindi di elevati investimenti per la sua raffinazione.

Ciò rende Quito ancora più dipendente dagli Stati Uniti. Oltre il 40% delle

esportazioni ecuadoriane e venezuelane sono dirette verso gli USA. La Bolivia è

invece più indipendente e dinamica nelle sue relazioni commerciali e guarda

soprattutto al continente sudamericano e, al suo interno, al Brasile. Non è azzardato

ipotizzare, alla luce di tali considerazioni, che sia proprio questo piccolo paese a

svolgere, in futuro, un ruolo decisivo per i destini del continente sudamericano;

magari a fianco del Brasile, che oggi è indubbiamente lo Stato chiave degli equilibri

sudamericani, lo Stato che può dare profondità strategica e continuità all’“area

chavista” oppure isolarla. Questo gruppo di paesi, assieme al Brasile, per la

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ricchezza di risorse energetiche e la densità demografica, potrebbe avere un peso

geopolitico davvero rilevante sia nel continente che fuori.

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Executive Summary

Today’s Latin America is quite different from what it was in the past.

An improvement in the field of macroeconomic performance has been shown

– moderate inflation, positive fiscal rate in and outside the countries, reduction,

although not too impressive, of unemployment and poverty. Most of the largest Latin

American countries can be considered as semi-industrial economies that are surely

in a higher position among the emerging markets. The path to modernization seems

to be more credible than we find in most Asian countries. From a strictly political point

of view, democratic procedures have been strengthened; there are free elections and

opposition is strong enough to succeed in leading the country. Even society has

changed in the way of perceiving its own role within the countries.

Ghosts from the past are still present. The impressive gaps among social

classes, the spread of poverty, the traditional political parties’ crisis and corruption,

the failure of neo-liberal politics, wanted by high figures, the autochthonous peoples’

demanding, have all brought Latin America to pave the way to become master of its

own destiny.

South America wants to try a new international role that is free from past

geopolitical influence, like the traditional dependence on the US leadership. Leaving

behind integration under the guidance of the US, South American countries have

started to conceive a strong national identity. New leaders and new left-wing

politicians have made their appearance on the political scene.

Although it is clear that South American countries’ aim is a political attempt

towards common perspectives, which asks for a more present state and a less

market control over energy resources, reappropriation of native communities’ rights,

and an even more distant relationship with US, it is possible to trace different

positions within the continental countries. On one hand, those that have founded

Mercosur – Argentina, Brazil, Uruguay and Paraguay – have adopted a moderate

style, whose aim is to seek progress, stability and liberty and to improve the

miserable conditions of the poor through an international cooperation, which includes

the US. On the other hand, there are social democratics states – Chile, Peru,

Panama and Costa Rica – and right-wing governments – Colombia, Guatemala,

Mexico and El Salvador – which have established good relations with the US, in

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which they host military strategic bases and with which they have signed free trade

agreements. Finally, there are the socialist Andean countries – Venezuela, Bolivia

and Ecuador – the so-called “Bolivarian Axis”, whose main charismatic leader is well

identified in the Venezuelan president Hugo Chávez. These latter countries, which

instill fear of US interference and capitalism, have inherited the ideology of Fidel

Castro and have many features in common, attract much international interest and

curiosity.

Bolivia, Ecuador and Venezuela, led by charismatic and populist leaders who

believe in a new formula of socialism and which may have a great appeal on the

native masses, are among the richest countries in energy resources in all of Latin

America. The aim of this research is the analysis of these countries from the

economic and geopolitical point of view and, in particular, the role they have

assumed in the already changed international arena.

Starting with a brief analysis of Cuban experience in the first Chapter, the

three Andean countries are analyzed, focusing on the social, economic and

ideological reasons that have favored the leaders’ popularity and their innovative

programs of government. Then follows an analysis of what is good and what is wrong

in their alliances. What emerges is that their interests are sometimes in conflict,

although an obvious “sympathy” links the three leaders. Of course, Venezuela,

Bolivia and Ecuador share the same policy, which is the will of building up systems of

governments centered on the social and on welfare. But both Morales and Correa

are not always in agreement with Chávez’s strategy, especially regarding foreign

policy.

Venezuela is a leader in applying the “Bolivarian revolution”. Thanks to the

enormous wealth from natural energy resources, Chávez tries to attract very poor

countries, such as Bolivia, Ecuador and Nicaragua, into his sphere of influence

providing medical aid and low cost oil. Moreover, the active Venezuelan president

has launched and supported a series of initiatives towards the integration of Latin

America and its independence from the US. Until now, however, Chávez has not

actually succeeded in his goal. He is perhaps too controversial a figure and may

been seen as to compromise other allies’ destiny. Both Bolivia and Ecuador, which

are closer to Chávez’s policy, have not always agreed with him. The ever demanding

financial commitments abroad and the loss in the oil income are limiting the

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Venezuelan resources. The diplomacy of hydro-carburates will not be sufficient to

bind the Axis.

Bolivia still remains one of the poorest countries in Latin America. After his

election as president, Morales has had to face enormous problems coming from the

most industrialized and developed regions in the country, that ask for more

autonomy. Actually, Bolivia needs Chávez’s aid on one side but, on the other, it is not

able to give up its other alliances that could compromise its fragile economy. It

cannot go against Brazil, upon which 50% of the Bolivian economy is dependent on,

and towards which it exports most of its gas. Morales is often left having to make

hard choices, being asked to either support important projects such as the Gran

Gasoducto del Sur or to fight the “Association of ethanol” declared by Chávez.

Ecuador is different from the other two Andean countries. It is lead by Rafael

Correa, an intelligent and thoughtful president who, being aware of his allies’

mistakes, is favoring new reforms in the country. Correa is a pragmatist. He knows

he is not able to get rid of America – the American dollar is the monetary exchange

system and the economy of the country depends on its relations with the US. He is

adopting a new economic policy with the aim of fighting corruption to keep it from

spreading nationwide, and supporting qualitative growth through the reduction of

social unrest.

Besides that, he believes in the development of SMEs (Small and Medium

Enterprises) and the sectors – agricultural and fishing – which provide the necessities

of life for the majority of the Ecuadorian poor. Ecuador is aware of the fact it is the

fourth-leading Latin American exporter of oil and that it has reserves that can last for

at least 25 more years.

Therefore, Correa should try not to follow Chávez’s policy completely. The

Ecuadorian Constitution, approved on September 28, 2008, is a mixture of

”Stateism”, civil rights and a restoration of traditions. It doesn’t break with market

principles, but it expresses the will of a radical change. If Correa continues to apply

moderate politics, without being completely engaged in the project of the “XXI

century socialism” theorized by Chávez, he will probably not have to face the

domestic problems seen in Bolivia those that are facing Morales.

In the second chapter, an analysis of how the Andean countries are working

abroad in the international panorama is presented.

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The ever-growing autonomy of Latin American countries, also due to the crisis

of the US as a leading power, has convinced the three countries to start new

relationships with other powerful world entities, such as the EU, Russia and China. In

this chapter such relations, together with some of the various hypotheses supported

by technicians, have been analyzed. In some agreements a certain Third-world

attitude of opposition to the US, and Western countries in general, has been

observed. This seems to have much in common with the past Cold War policy.

Moreover, the results that an Axis friendship with Russia may have on US

interests and on the role of regional power is debated. Seemingly, it is conjectured

that a menace is coming from the presence of China in Latin America. Finally, we

examined the implications that today’s clear and everlasting opposition to the US

may have in respect to the fight against terrorism and the declared friendship of

Chávez with Iran, North Korea and Belarus.

As to the relations with Europe, the EU and Italy have been able to only

partially take advantage of the opportunities that this area offers. A common strategy

is needed. There are many projects with Latin America; however, they are often not

very useful. Attention is focused only on the big South American States, neglecting

important opportunities European SMEs may be offered by small countries with great

resources. Europeans could give a lot of advices to Latin American Countries. They

could tell, for example, how gas and oil could be what coal and steel represented in

the second half of Nineteenth century in Europe!

What are the challenges facing these countries? The last chapter highlights

the supposed scenarios about the role that Venezuela, Bolivia and Ecuador may

have on the global stage and how it may not have an end if we consider the

possibility of a new Cold War or a Latin American conflict similar to that of Middle

Eastern countries.

Concerning the domestic political situation, besides the already approved

reforms, Venezuela, Bolivia and Ecuador have to face huge home contradictions that

cannot give way to hasty conclusions. Despite some foreign press, Presidents

Chávez, Morales and Correa themselves have failed in their nationalistic choices.

They know they depend on foreign countries’ and companies’ investments. Chávez is

firmly convinced that it is necessary to avoid the mistake Castro made: that is to be

involved in a revolution that went beyond the acceptable limit of a political

convenience.

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The three Andean countries should undoubtedly continue with their own

visions of national identity, overwhelming the present hybrid of a formal pluralism and

a substantial caudillismo that characterizes them. Starting from here, in the future

they have to reach a new equilibrium with the great world powers, conditio sine qua

non to become qualified actors in the new international order. From the economic

point of view, they have to become emancipated from energy resource dependencies

and from the use of them for only strictly ideological purposes. The three Andean

countries should also provide for a better distribution of wealth.

The election of Obama as president of the US give us hope in the

reassessment of the relations in the Andean area and in the rest of the continent. A

more relaxed atmosphere in the relationship with the US may bring a new strategic

collaboration and the start of new alliances. Obviously, Chávez has to definitively

moderate the force of his anti-American rhetoric. However, it is also important to

consider that the US, in order to face nowadays economic crisis, have to become

independent as much as possible from energetic resources, first of all from

Venezuela’s oil.

The present work is supplied by documents which can help in the analysis of

the limits and possibilities of our countries.

Studying the relationship between the possible energy resources and their

production, it is clear how Bolivia may strengthen the strategic role of its gas more

than Venezuela can with its oil. Bolivian capability of exporting in this field is

considerably superior to that of Venezuela’s. Ecuador, which is the fourth country in

exporting oil, has to refine it because it is too heavy. Obviously, that requires high

costs. That is the reason why Quito is still more dependent on the US. More than

40% of Ecuadorian and Venezuelan exports are directed to the US. Bolivia, on the

contrary, seems to be more independent and dynamic in its commercial relations. It

looks more interested in exporting inland, especially to Brazil. It is not so unrealistic

to think that it will be this small country, maybe together with Brazil which is

considered the key country in South American balance, to have decisive control over

other southern countries’ destiny. Brazil is the only country that can give stability and

continuity to the area linked to Chávez. The geopolitical importance of this group of

countries would rise in terms of energetic resources and population density, with

Brazil becoming a part of it.

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INTRODUZIONE

Nel 1956 l’ungherese Tibor Mende, studioso di sviluppo economico, scriveva:

«Para la mayor parte de la gente, la América Latina es todavía... un concepto

bastante vago y confuso...»1; è la terra dei colpi di stato, in cui indigeni con sombrero

suonano la chitarra; la terra da cui abbiamo importato il tango, la samba e il caffè e

dove uomini facoltosi possono trascorrere vacanze esotiche. L’America Latina non si

risolve in questa definizione. La realtà contemporanea è ben diversa. Con queste

parole Mende intendeva mostrare la forza con cui il continente sudamericano

“entrava in scena”, nel contesto internazionale. Dopo solo un secolo di indipendenza,

le Repubbliche latinoamericane si catapultavano verso la conquista di quella

«maturità» che le avrebbe rese grandi potenze al pari degli Stati Uniti. Le vicende

successive, le diverse congiunture economiche e i terremoti politici, ci mostrano oggi

paesi, che non è possibile considerare come grandi potenze, ma di cui non si può

certamente ignorare il peso nell’ordine globale.

Secondo le indagini dell’Inter-American Development Bank il 2007 è stato un

anno di crescita economica, il quarto consecutivo, per l’intera regione. La Cepal, la

Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite, ha

dichiarato una crescita complessiva del Prodotto interno lordo (PIL) del 5,6%. È stato

registrato un miglioramento delle performance macroeconomiche: tasso di inflazione

a livelli moderati; bilance fiscale ed estera positive; riduzione, anche se modesta,

della disoccupazione e della povertà2. Tale trend fa parlare di soddisfazione del

primo Obiettivo di Sviluppo del Millennio per il 2015 – ridurre la povertà estrema –

per molti dei paesi latinoamericani3. Nelle statistiche sul grado di sviluppo umano,

elaborate dal UNDP, gli Stati sudamericani sono collocati tra quelli ad alto

(Argentina, Cile, Uruguay, Costa Rica, Cuba, Messico, Trinidad e Tobago, Brasile) e

medio livello di sviluppo4. Ciò non toglie, che debbano essere ancora fatti molti sforzi

                                                            1 Tibor Mende, América Latina entra en escena, Editorial del Pacifico, Santiago de Chile 19563, p. 7. 2 Si veda: Inter-American Development Bank, Latin America and the Caribbean in 2007, Rapporto Annuale, http://www.iadb.org/exr/ar2007/Region_LAC.cfm?language=English . 3 Rimane tuttavia elevata la povertà relativa a causa delle forti disuguaglianze e gli indici di Gini molto alti. Si veda: Lorenzo Tordelli, Crescita e povertà: un’analisi empirica per i paesi latinoamericani, tesi di laurea, Luiss Guido Carli, Roma, 2004, http://www.tesionline.it/consult/pdfpublicview.asp?url=../__PDF/10860/10860p.pdf . 4 Si veda: United Nations Development Programme, Human Development Reports. 2007/2008 Human Development Index rankings, http://hdr.undp.org/en/statistics . Tali statistiche sono redatte in base all’Indice di sviluppo umano, che tiene conto di tre aspetti importanti: la possibilità di vivere una vita lunga e sana (misurata tramite l’aspettativa di vita), la possibilità di ricevere un’istruzione (misurata tramite il tasso di alfabetizzazione della popolazione adulta e il tasso di scolarità relativo alle scuole di livello primario, secondario e terziario) e la possibilità di avere uno standard di vita dignitoso (misurato tramite il reddito a parità di potere d’acquisto). Questo indice non rappresenta, evidentemente, una misurazione globale dello sviluppo umano, dal momento che non comprende indicatori fondamentali quali il rispetto per i diritti umani, la democrazia e la disuguaglianza.

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e cambiamenti al fine di assicurare una crescita maggiore e sostenibile. Il docente

universitario e diplomatico Alain Rouquié definisce le nazioni latinoamericane «una

sorta di “classe media”, vale a dire che si trovano in una situazione intermedia»

nell’ambito della stratificazione internazionale. «La maggior parte dei grandi paesi

dell’America latina ha economie semi-industriali… e i tre maggiori, Brasile, Messico,

Argentina sono in ascesa tra i nuovi paesi industrializzati e i mercati emergenti. Gli

indicatori di modernizzazione pongono Brasile, Messico, Cile, Colombia, Cuba e

Venezuela al di sopra dei paesi africani e della maggior parte delle nazioni dell’Asia

(a eccezione delle città-stato). L’Argentina e l’Uruguay, da questo punto di vista,

sono tra i paesi più avanzati»5. Probabilmente, come sostiene Rouquié, il «carattere

europeo» delle nazioni sudamericane, la prossimità all’Occidente, facilitando gli

scambi culturali e tecnici, ha inciso sul loro sviluppo socio-economico.

Produttori di materie prime e prodotti alimentari, i paesi dell’America Latina si

sono lanciati verso l’industrializzazione a ritmi elevati, tanto da offrire all’Europa, negli

anni in cui essa tentava di risollevarsi dal secondo conflitto mondiale, l’immagine di

un continente promettente, diventando meta privilegiata delle migrazioni europee e

italiane in particolare. Una bella illusione che è scaturita, però, nella crisi del debito,

durante gli anni ’80, il cosiddetto “decennio perduto”. Per superare la recessione di

quegli anni, i paesi latinoamericani hanno scelto, nell’ultimo decennio del secolo

scorso, di seguire politiche neoliberiste, riorganizzando completamente le proprie

economie, aprendosi al commercio e agli investimenti stranieri. Tuttavia, le forti

diseguaglianze economiche, gli squilibri sociali, l’instabilità politica dei governi, oltre

ai vincoli esterni6, minacciano, oggi come in passato, la crescita delle loro economie.

D’altronde è comprensibile, in un continente in cui lo sviluppo economico è sempre

stato strettamente connesso alle fortune di oligarchie formatesi in Europa o negli

Stati Uniti; uno sviluppo condizionato dalle multinazionali e dai loro interessi specifici,

in Stati spesso militarizzati o accentratori. Il politologo francese Jacques Lambert

aveva definito il sistema latinoamericano, «la terza via tra la via democratica dei

paesi pienamente sviluppati e la via autocratica dei paesi sottosviluppati, un forte

presidenzialismo con un seguito di massa»7. Tale sistema mostra invece di essere in

crisi. Il fallimento del comunismo nel mondo e la globalizzazione incoraggiano la

maggior parte degli Stati latini a scegliere la democrazia quale forma di governo. Ma

                                                            5 Alain Rouquié, L’America latina. Introduzione all’estremo Occidente, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 22. 6 Un esempio potrebbero essere le politiche agricole protezionistiche occidentali. 7 Jacques Lambert, Amérique Latine. Structures sociales et Institutions politiques, 1963, in Ludovico Incisa di Camerana, America Latina dopo il Novecento, «Politica Internazionale», 5, Ipalmo, Roma 2001, p. 9.

18  

come una “inerzia storica”, anche in questa transizione i paesi sudamericani

ripropongono una cultura del potere, che lascia immutati privilegi ed emarginazione.

Democrazie formali, industrializzate, in generale definite da elezioni per la

prima volta libere e competitive, ma che di fatto non risolvono i problemi sociali, né

mettono limiti alla corruzione imperante. È questo dunque il volto dell’America Latina

all’inizio del nuovo millennio; un’immagine che ha portato molti a pensare che,

nonostante le sue potenzialità, questo sia “il continente che non si svilupperà mai”8.

Molto ci sarebbe da dire e ancora da studiare riguardo le potenzialità di questo

continente in divenire. Non è obiettivo di questa ricerca tentare una definizione

dell’America Latina o una sua classificazione in base ai classici schemi dottrinari, sia

di politica che di economia. Si è ritenuto, piuttosto, di doversi soffermare su un dato

che, a nostro avviso, meglio di altri mostra i segni di una nuova fase di cambiamento

per la società latinoamericana, una nuova “transizione dopo guerriglie e rivoluzioni”.

L’America Latina, ancora una volta nella sua storia, è oggi alla ricerca di una identità.

La sinistra torna al potere in quasi tutti i paesi della regione con un volto nuovo. Nomi

nuovi si impongono nello scenario socio-politico regionale, facendo parlare di sé

anche nel resto del mondo, e vecchi leader cedono, lentamente, il posto a una

trasformazione inevitabile.

In tale contesto, il Venezuela di Chávez, la Bolivia di Morales e l’Ecuador di

Correa stanno attirando l’interesse di studiosi, analisti e della stampa di tutto il

mondo. Sono tre Stati dell’America andina che si sono sempre distinti per la loro

storia e la particolarità del contesto socio-politico ed economico. Sono, inoltre, paesi

dalle grandi ricchezze energetiche. Essi tentano oggi di proporre una nuova via per

la crescita e lo sviluppo, coerentemente con le richieste della società che si affaccia

al XXI secolo, desiderosa di lasciarsi alle spalle un passato di estrema povertà,

soprusi, corruzione e mal governo. Questa ricerca si propone di analizzare i tre Stati

andini, sia nella loro individualità che nel contesto regionale e internazionale.

                                                            8 Alain Rouquié, op.cit., p. 274.

19  

Nuovi scenari in America Latina

Dopo la caduta del Muro di Berlino e sotto la spinta della globalizzazione,

l’America Latina ha scelto di condividere il sentimento democratico, che ha pervaso il

mondo. Una scelta realistica, certamente non dettata da convinzioni ideologiche, ma

che l’ha spinta anche a convertirsi al neoliberismo. Tali esperimenti non hanno, però,

soddisfatto la società latina, soffocata dai vincoli imposti dal Consenso di

Washington9 e dal Fondo Monetario Internazionale. Essa ha reagito mostrando di

voler tornare a essere padrona del proprio destino: abbandona le prospettive di

integrazione a guida USA e riprende a parlare di nazione come fattore identitario di

base. «Priva della tutela degli Stati Uniti, la politica dei paesi latinoamericani ha

potuto liberarsi dalle costrizioni che la tenevano inchiodata entro la contrapposizione

binaria: “dittatura” o “rivoluzione”. La realtà … è più articolata e corrisponde a un

sentire proprio dei singoli paesi, del grado di maturità della loro cultura politica e

istituzionale»10. Il cosiddetto “giro a la izquierda” delle elezioni politiche del 2005-

2008 va letto come una scelta di cambiamento anche rispetto alle tradizionali forze

politiche, incapaci di rinnovarsi. Partendo da tali considerazioni è possibile

individuare una linea d’azione comune, che chiede più Stato e meno mercato, il

controllo delle risorse energetiche, il recupero dei diritti delle comunità indigene e

un’accentuata indipendenza dagli USA. La sinistra vincitrice in quest’ultima tornata

elettorale, tuttavia, presenta sfaccettature diverse, in relazione ai diversi contesti

locali: si sono delineate posizioni che vanno dalle più radicali del Venezuela di

Chávez alle più moderate, compresa quella del brasiliano Lula.

I paesi del Cono Sud si mostrano progressisti e riformatori. Essi cercano una

mediazione tra la necessità di accettazione delle regole del mercato e di riforme in

grado di attrarre investimenti esteri e la volontà di rafforzare il ruolo regolatore dello

Stato. Si presta maggiore attenzione alle politiche sociali e si promuove uno sviluppo

basato sulle piccole e medie imprese. Negli ultimi anni, le economie di Argentina,

Brasile e Uruguay hanno fatto registrare risultati notevoli; il Cile è ormai considerato

allo stesso livello delle “tigri asiatiche”, vantando anche un sistema politico tra i più

                                                            9 Il Consenso di Washigton non è un trattato internazionale né tantomeno un accordo multilaterale, quanto piuttosto l’espressione della condotta che Washington sperava che le economie in via di sviluppo, soprattutto quelle latinoamericane, tenessero negli anni ’80, al fine di ricevere poi il suo aiuto finanziario. Regole, condivise anche dagli organi finanziari istituzionali, come il FMI e la Banca Mondiale, però, difficili da applicare specialmente in quegli anni di forte crisi economica e peggioramento delle condizioni di distribuzione del reddito e quindi di gravi problemi sociali. Si veda: José Angel Gurria, ¿Porqué no ha funcionado el Consenso de Washington?, «Politica internazionale», 1-2, Ipalmo, Roma 2003, p. 35. 10 Gilberto Bonalumi, L’America cambia pelle, «Politica internazionale», 1/2-3, Ipalmo, Roma 2006, p. 96.

20  

stabili nel continente, equilibrato e ben amministrato. Questa sinistra «ha punti in

contatto con l’esperienza europea o degli Stati Uniti, in cui i partiti sono uno

strumento centrale per rappresentare gli interessi e veicolare il consenso, in cui vige

la divisione dei poteri e il Presidente ha un contrappeso istituzionale nel Parlamento

e nel potere giudiziario»11.

Diversa è invece la sinistra affermatasi nella regione andina. Qui si sono

prodotti cambiamenti e si sono individuati orientamenti, che stanno ridefinendo,

secondo schemi particolari, il futuro delle relazioni non solo interamericane, ma

anche con gli altri attori internazionali. La componente etnica è una delle chiavi di

lettura di questi nuovi scenari. Per la prima volta, assistiamo all’emergere di

movimenti comunitari a cui nuovi leader popolari danno voce. Si tratta di un

socialismo identitario, di cui si sono fatte interpreti personalità carismatiche che

hanno formulato i propri programmi di governo sulla base dei valori culturali propri

delle masse, soprattutto di quelle indigene, rimaste sempre ai margini della vita

politica dei rispettivi Stati. Si parla di un ritorno al modello populista, per lo stretto

rapporto stabilito tra i leader e le masse; per le proposte più impegnate sul fronte

delle politiche sociali, della redistribuzione delle risorse e della lotta al latifondismo.

Rispetto alle esperienze del passato, questi modelli hanno come interlocutori non più

«il nuovo proletariato urbano, emigrato dall’Europa come in Argentina e in Brasile

negli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso, ma le masse indigene dei discendenti degli

Inca e degli Aymara e il crogiuolo etnico del “meticciato” che oggi chiedono un

riscatto e quindi di contare di più in quanto sono maggioranza nei rispettivi paesi»12.

L’America andina si sta così differenziando profondamente dal Cono Sud, «a

maggioranza bianca, di discendenza e cultura politica europea», ricordandoci dopo

tutto che, «non c’è una sola America Latina, che le Americhe latine sono tante quanti

sono i paesi che la compongono»13.

Le trasformazioni in atto nella regione andina, i nuovi scenari, che brevemente

abbiamo delineato sopra, sembrano trovare la loro espressione più compiuta e

sicuramente più “vistosa” nel Venezuela di Hugo Rafael Chávez Frías. Presidente                                                             11 Ibidem, pp. 93-94. 12 Ibidem, p. 95. Il termine populismo è sempre stato piuttosto equivoco, specialmente se applicato al contesto latinoamericano. In generale, ma in maniera insoddisfacente, è associato a una immagine negativa, per cui i regimi populisti sarebbero una sorta di «dittature demagogiche», come spiega Alain Rouquié, op.cit., pp. 219-225, concentrate attorno alla figura di capi carismatici, «caudillos urbani adulati dalle masse». Tali regimi si caratterizzano per il tentativo «di integrare le classi popolari nell’ordine politico e sociale esistente mediante un’azione volontaria dello stato», garantendo così, però, il «mantenimento del modello di dominio». 13 Gilberto Bonalumi, L’America cambia pelle, cit., p. 92. Non si può, a questo proposito, non ricordare Marcel Niedergang – giornalista, esperto di fama mondiale dell’America Latina per il quotidiano francese Le Monde, che, in Le venti Americhe, sottolineava già nel 1964 la complessità dello scenario storico, politico, sociale ed economico dell’America Latina.

21  

energico, rieletto nel 2006. Parla direttamente alle masse; non senza retorica, si rifà

al pensiero del Libertador Simón Bolívar14, spingendo all’unità del continente sulla

base di un discorso nazionalistico e antimperialista. Chávez parla di una nuova forma

di socialismo, che coniughi, attraverso un programma di nazionalizzazioni, la

componente sociale della redistribuzione del reddito e l’offerta di servizi del

capitalismo. La “rivoluzione bolivarista” e il “socialismo del XXI secolo” sono, nei suoi

proclami, il giusto epilogo delle lotte e rivendicazioni, che le masse, la “vera” nazione,

portano avanti da secoli. Chávez non è solo in questa “crociata”. Ha intessuto stretti

rapporti e intese politiche ed economiche in particolare con Evo Morales, presidente

boliviano e con l’ecuadoriano Rafael Correa; insieme costituiscono quello che lui

stesso ha definito l’“asse rivoluzionario bolivarista”. Morales e Correa, presidenti

indigeni, contribuiscono alla definizione della nuova forma di socialismo con l’apporto

della componente etnica. Tutti e tre i paesi, con le particolarità proprie dei rispettivi

contesti nazionali, hanno saputo legare il concetto di nazione a quello di “utopia” –

che specialmente in America Latina acquista il significato di profondo cambiamento

sociale15, coniugando, lungo questa traiettoria, il discorso nazionalista con la

rivoluzione cubana. Come in una sorta di continuità storica, Chávez ha rilevato da

Fidel Castro il testimone ideologico della lotta per la rivalsa delle masse emarginate.

Sotto questo aspetto, il castrismo continua a sopravvivere nei dibattiti internazionali,

non solo dottrinari, in un’epoca in cui, dopo la fine della Guerra fredda e superato lo

spauracchio della diffusione del comunismo, Cuba non costituisce più una minaccia

per le democrazie occidentali. Di Cuba e del castrismo si continua quindi a parlare,

non per il fascino ideologico che ancora, anche se debolmente, la lega in particolare

a giovani di tutto il mondo desiderosi di cambiamento; né per il posto conquistato nel

Pantheon della storia dal suo leader. La rivoluzione cubana va oggi letta proprio alla

luce della sua evoluzione politica in Venezuela e, tramite questo, in Bolivia ed

Ecuador.

L’esperienza cubana costituisce un insegnamento importante per la sinistra

latinoamericana e indubbiamente per i tre paesi andini, che ne stanno seguendo                                                             14 Simón Bolívar nacque a Caracas (Venezuela), nel 1783, da una famiglia aristocratica. L’educazione che gli venne impartita, in patria e in Spagna, lo influenzò notevolmente in termini di ideali e di stile. Nel 1813 guidò l'invasione del Venezuela e fu proclamato El Libertador ("il liberatore"). Al comando di una formazione nazionalista, la "Armada Nacional de Colombia" nel 1819, Bolívar liberò la Colombia dal dominio spagnolo e, in dicembre, creò la Gran Colombia (una federazione che si estendeva sulla maggior parte degli attuali territori di Venezuela, Colombia, Panamá ed Ecuador) e se ne proclamò il presidente. Nel 1822 conquistò il Perù, che era stato in parte liberato dalla Spagna dal generale argentino José de San Martín. Bolívar fu nominato presidente. Nel 1827, divisioni interne provocarono dei conflitti e la fragile coalizione Sud Americana si ruppe. Bolívar si dimise dalla presidenza e morì nel1830. 15 Jan E. C. Gustafsson, Lo nacional y lo utópico como recursos identitarios, «Diálogos Latinoamericanos», 13, Latin American Center, University of Aarhus-LACUA, Aarhus 2008, pp. 44-61.

22  

l’impostazione socialista, prendendo spunto dalle politiche assistenziali, ma anche

dalla tenace resistenza a ogni tentativo di ingerenza negli affari interni. Per questo

motivo, appare opportuno dedicare un piccolo spazio, all’interno della ricerca,

all’evoluzione del castrismo fino ai nostri giorni.

Dalla rivoluzione cubana al castrismo del XXI secolo  

Dal momento della rivoluzione cubana, l’attenzione di studiosi e analisti,

politici e stratega delle relazioni internazionali si è concentrata su Cuba e sull’uomo

che la rappresenta, Fidel Castro. Egli, per la prima volta nel continente

sudamericano, ha fatto riferimento al discorso marxista-leninista, delineando una

forma di socialismo, rispetto alla quale «le altre varietà del socialismo creolo o dei

movimenti rivoluzionari si situano»16. La rivoluzione cubana è stata inizialmente una

«rivoluzione popolare», che prima di ricondursi all’ideologia marxista, aveva come

modello l’«humanismo democrático» di José Martí, simbolo dell’indipendenza

nazionale. È stata una rivoluzione «prima di tutto agraria e antimperialista, vale a dire

antiamericana»17; una rivoluzione contro generazioni di governi corrotti e immobili,

contro la miseria dei contadini, contro il potere e la ricchezza degli yankee. Cuba era

diventata il simbolo della possibilità di cambiamento nell’America Latina delle

dittature militari, sostenute e sponsorizzate dalle democrazie occidentali.

Castro aveva fatto rinascere la speranza di benessere e di libertà nel

continente. La sua azione non ha mai seguito una dottrina: lui stesso è sempre stato

la sua dottrina. Nel 1972, Angelo Tondini scriveva: «Forse c’è del vero

nell’affermazione di Draper che il Castrismo, storicamente, è un leader in cerca di un

movimento, un movimento in cerca di un potere e un potere in cerca di

un’ideologia»18. Castro è un “pragmatico”; il suo merito è stato quello di intuire la

debolezza dei partiti comunisti latini, della loro tattica attendista, e di proporre una

strategia profondamente innovativa, basata «sulla lotta armata di un’avanguardia

rivoluzionaria e non sulla lotta delle masse contadine organizzate»19.

Nel contesto internazionale, il suo pragmatismo ha consentito a Castro di

ritagliarsi uno spazio esclusivo di azione e di intessere legami, che hanno garantito il

                                                            16 Alain Rouquié, op.cit., p. 228. 17 Ibidem. 18 Angelo Tondini, Cuba: Fine di un mito. Ideologia e formazione del castrismo, S.T.E.M. Mucchi, Modena 1972, p. 51. 19 Alain Rouquié, op.cit., pp. 229-230.

23  

sostentamento e la sopravvivenza ideologica della sua rivoluzione. Dichiarando il suo

paese socialista, Castro ha ottenuto dall’URSS, inizialmente reticente, gli aiuti

economici e le forniture petrolifere, che hanno permesso a Cuba di superare la “crisi

dello zucchero” e le sanzioni degli Stati Uniti. Alleata dell’Unione Sovietica, Cuba non

si è fatta però ingabbiare nello schema del confronto tra i due blocchi: la rivoluzione

cubana ha superato i confini continentali e l’idea di sola opposizione al gigante USA.

Castro ha proposto al mondo intero Cuba come modello di emancipazione dalle

potenze neocoloniali. La rivoluzione cubana è diventata da quel momento la lotta dei

poveri e degli oppressi. Fidel è riuscito così ad ancorare la sua esperienza a quella

dei Paesi non allineati, in una prospettiva terzomondista20 ancora attuale, in un

mondo nuovamente diviso nella lotta al terrorismo e dove l’antiamericanismo è di

moda quasi ovunque. «Se la dittatura castrista non è finita come una delle tante

tessere del domino comunista sovietico, il motivo è semplice: non è mai stata solo

comunista, né tantomeno sovietica»21.

Castro ha dunque legato il suo modello di socialismo e di rivoluzione alla

storia del mondo, e ciò gli ha permesso di sopravvivere nell’immaginario collettivo di

tutte le generazioni. Ma non si tratta solo di questo. Il líder maximo ha individuato nei

privilegi della vecchia borghesia e dei militari i due principali ostacoli a una

trasformazione radicale nel suo paese e li ha combattuti con tutte le sue forze22.

Nessun altro paese latino, a quel tempo, era riuscito a fare lo stesso. La rivoluzione

cubana è stata quindi un caso eccezionale, impossibile da riprodurre. Lo stesso

Castro non è riuscito a esportare la sua rivoluzione a tutto il resto del continente

latino, nonostante gli aiuti e l’addestramento offerto a gruppi armati rivoluzionari.

Richiamandosi all’idea di “grande patria” di Simón Bolívar, di unità continentale,

focolai di guerriglia rurale di tipo castrista si sono accesi in Argentina, Brasile,

Colombia, Guatemala, Perù e Venezuela, ma senza successo. L’unione dei paesi

latinoamericani non si è mai realizzata.

Che la battaglia di Castro sia stata un successo ideologico è innegabile. Essa

si è, però, presto trasformata in una rivoluzione autoritaria e anti-democratica. Il

socialismo reale si è concretizzato in una struttura gerarchica e burocratica dello

Stato. Castro ha concentrato le risorse disponibili nel settore dei servizi, educazione                                                             20 Nel 1966, si tenne a La Habana la riunione della Tricontinentale, in occasione della quale nacque un nuovo asse rivoluzionario terzomondista e non allineato, che ha visto uniti Vietnam del Nord, Corea del Nord e Cuba. Si veda: Alain Rouquié, op.cit., pp. 228-229. 21 Editoriale Non di sola patria in AA.VV., Cuba dopo Cuba, «Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 4, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2004, p. 14. 22 Antonio Moscato, Il dopo Castro e le fantasie dei cubanologi, 31 marzo 2008, http://limes.espresso.repubblica.it/2008/03/31/il-dopo-castro-e-le-fantasie-dei-cubanologi/?p=548 .

24  

e medicina soprattutto, piuttosto che nell’industria. Ma le “conquiste sociali” della

rivoluzione sono ormai a livelli bassissimi e lo stesso vale per l’accumulazione di

capitale e gli investimenti stranieri.

Oggi, Cuba rifiuta ancora il pluripartitismo e ogni apertura alla democrazia,

così come una piena liberalizzazione economica. Fonti di sussistenza dell’economia

cubana sono il turismo e le rimesse degli emigrati; gli aiuti consistenti che,

principalmente per motivi politici e ideologici, il Venezuela garantisce all’isola, sotto

forma di rifornimenti energetici. Anche il Brasile di Lula si sta muovendo a sostegno

dell’economia dell’isola caraibica. La debole apertura agli investimenti stranieri degli

ultimi anni ha attirato la Cina, che ha comprato tutto il nickel estratto nell’isola e a

prezzi di mercato. Questo insieme di fattori ha fatto registrare, nel 2007, una crescita

del 7,5% dell’economia cubana, anche se in netto ribasso rispetto al 200623.

Dopo la malattia e la lunga convalescenza, nei primi mesi del 2008 Fidel

Castro ha reso pubblica la sua volontà di ritirarsi dalla scena politica e di affidare al

fratello la guida del paese. Raúl Castro non ha mai goduto di molte simpatie fra i

cubani. Il passaggio del testimone è avvenuto in maniera lenta, probabilmente in

modo tale da far abituare la popolazione alla nuova presenza. Ancora una volta, con

la sua decisione, Castro gestisce le sorti della sua isola, proiettandola verso il futuro,

verso un inevitabile adattamento ai nuovi scenari regionali e internazionali e in un

momento delicato, legato alle elezioni presidenziali statunitensi24. È emblematica la

circostanza per cui proprio Raúl, che da sempre ha rappresentato la parte più

conservatrice dell’apparato governativo, abbia mostrato di saper assecondare le

timide aperture del regime ai problemi reali del paese. Oggi Cuba non può più

ritenersi isolata, come in passato. Essa ha iniziato un dialogo importante con molti

paesi latinoamericani. Si sta aprendo ai prodotti statunitensi, all’uso del dollaro,

anche se accessibile solo a una minoranza25. La dirigenza cubana è consapevole del

pericolo di immobilismo, in un paese dove la maggioranza della popolazione,

nonostante i miglioramenti della situazione macroeconomica degli ultimi anni, vive in

gravi ristrettezze economiche.

                                                            23 ICE, Rapporto-Paese Congiunto ICE/MAE, 2^ sem. 2007, http://www.ice.it/estero2/cuba/ . 24 Sul sito internet ufficiale Cubadebate.cu si trova un articolo del mese di ottobre 2008, nel quale Fidel Castro sostiene la candidatura di Obama alle presidenziali statunitensi. Si legge: «Obama supera McCain in intelligenza e serenità»; «È un vero miracolo che non sia stato assassinato come Martin Luther King»; «In America c’è un profondo razzismo e milioni di bianchi non accettano l’eventualità che una persona di colore con moglie e figli occupi la Casa Bianca, che non a caso si chiama Bianca». Si veda: Alessandrea Farkas, Il fan che Obama non voleva: Castro, «Corriere della Sera», 12 ottobre 2008. 25 Antonio Moscato, Il dopo Castro e le fantasie dei cubanologi, 31 marzo 2008, http://limes.espresso.repubblica.it/2008/03/31/il-dopo-castro-e-le-fantasie-dei-cubanologi/?p=548 .

25  

La diplomazia degli idrocarburi  

I fermenti nazionalistici ed emancipatori degli ultimi anni nel subcontinente

possono contare sulla ricchezza di risorse energetiche dell’America Latina. Questa

detiene il 10% delle riserve mondiali26. Gli idrocarburi sono usati come fattori di

politica estera e interna, ovviamente con un valore diverso a seconda che si tratti di

paesi importatori o esportatori. Se consideriamo che in Sudamerica si registra un

livello di produzione di risorse energetiche nettamente superiore al suo consumo,

non è difficile immaginare il peso che gli Stati latini stanno acquisendo sulla scena

politica internazionale, in un momento storico in cui si iniziano guerre rovinose per il

possesso e il controllo dell’energia.

Tra i principali produttori di petrolio al mondo c’è il Venezuela. Chávez non ha

esitato nel fare di questa ricchezza la sua moneta di scambio, nella rete di accordi

politici ed economici che sta intessendo con gli altri Stati latini. Il suo fine ultimo è

quello di creare un grande blocco comune latinoamericano, che si mostri compatto e

unito anche nei rapporti con le grandi potenze mondiali. Nella regione andina, la più

ricca di risorse energetiche del continente, anche la Bolivia gioca un importante ruolo

strategico, quale possessore delle più ampie riserve di gas. Produttore di queste fonti

di energia è anche l’Ecuador. Nei capitoli che seguono, si parlerà in maniera più

approfondita del peso che le risorse energetiche hanno nelle scelte politiche dei tre

presidenti andini. Possiamo qui anticipare che, nonostante la comunione ideologica e

la condivisione dell’impostazione social-populista, il pragmatismo delle relazioni

interstatali ha spesso portato questi tre paesi ad allontanarsi l’uno dall’altro. Così, il

Venezuela non potrà a lungo “comprare” l’alleanza degli Stati latini, neanche di quelli

a esso più vicini, solo attraverso le più o meno ingenti sovvenzioni petrolifere che ora

garantisce loro. La diplomazia del petrolio è troppo legata a fattori variabili, quali il

livello di produzione, il tasso di investimenti pubblici e privati, i problemi di

raffinazione del greggio. A parte ciò, abbiamo già detto che i paesi latini possiedono

ingenti risorse energetiche, tali da non imporre la totale dipendenza dal Venezuela.

Sono, inoltre, in atto programmi per la creazione e sfruttamento di energie

alternative, come nel caso del progetto che coinvolge il Brasile di Lula, insieme agli

USA. Tale progetto, che prevede l’utilizzo dei biocarburanti, attrae particolarmente il

presidente boliviano Morales. In tutto il mondo si inizia a guardare anche alle risorse                                                             26 Arriagada Gennaro, La petropolitica tra sogno e realtà, in AA.VV., Chávez-Castro: L’antiamerica, «Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 2, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2007, pp. 147-158. Si veda anche: Edgardo Ricciuti, Il petrolio di Chávez non ha futuro, in AA.VV., Il clima dell’energia, «Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 6, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2007, pp. 233-238.

26  

idroelettriche, come una possibile fonte di energia, alternativa al petrolio; e il

Sudamerica possiede i più grandi bacini di acqua dolce del globo.

Le vicende della politica internazionale della fine del Novecento e di questo

inizio del secondo millennio girano inequivocabilmente attorno a questioni

energetiche. I paesi latini sono consapevoli dell’importanza di essere un continente

ricco di tali risorse; e già operano nel senso di sfruttare questa possibilità, per

conquistarsi un ruolo importante nel gioco degli equilibri internazionali, ma soprattutto

per superare lo stato di sottosviluppo in cui si trovano ormai da troppo tempo. I

grandi protagonisti della scena mondiale, a loro volta, non possono ignorare tale

circostanza e anzi, mostrano di stare ridefinendo la traiettoria delle loro relazioni con

il continente sudamericano.

27  

1. VENEZUELA, BOLIVIA, ECUADOR: L’ASSE BOLIVARIANO?

1.2 VENEZUELA

1.2.1 Il sistema politico venezuelano e le premesse per l’ascesa al potere di Chávez

Fino ai primi anni novanta il Venezuela ha rappresentato un esempio concreto

di stabilità. Il suo sistema politico, per quaranta anni, è stato estraneo a interventi

militari o a dittature, come invece è accaduto nel resto dell’America Latina. La Quarta

Repubblica nata nel 1957, in seguito alla caduta della dittatura di Pérez Jimenéz, ha

rappresentato un modello da emulare per numerosi paesi dell’area. Una delle ragioni

di tale successo è stato il bipartitismo perfetto, basato sull’alternanza al potere dei

due principali partiti, l’Alleanza democratica (AD, di orientamento socialdemocratico)

e il COPEI (socialcristiano). Tale bipartitismo era fondato, su alcune disposizioni della

Costituzione del 1961, sulla legge elettorale e soprattutto su un patto istituzionale

sottoscritto nel 1958 tra le due formazioni politiche. Tale patto, denominato Punto

Fijo, era costituito da una rete di accordi corporativi e clientelari che permetteva ai

due partititi il controllo sul Congresso ed escludeva allo stesso tempo altre formazioni

politiche. Il bipartitismo elitario e consociativo, che ha caratterizzato questi anni, è

riuscito a governare un paese che, in poco tempo, è diventato il quinto maggior

esportatore di petrolio del mondo27.

Dopo 30 anni di successi elettorali, nel corso degli anni Ottanta, il bipartitismo

venezuelano è entrato in crisi, degenerando in partitocrazia. I due maggiori partiti

proponevano ormai programmi del tutto simili, rinunciando a una propria ideologia e

a valori specifici. Mancava una vera alternanza di governo e la corruzione

amministrativa era arrivata a un punto tale da provocare, nel 1993, la destituzione del

presidente di AD, Carlos Andrés Pérez. Alla delegittimazione del sistema politico si

affiancava la grave crisi economica, derivata dal fallimento del modello basato sulla

rendita petrolifera, il cosiddetto sistema “rentista”.

Fino a quel momento, il Venezuela, economia petrolifera, aveva creato un

sistema di redistribuzione dei profitti, derivanti dall’esportazione di greggio, su cui si

basava il funzionamento dello Stato. Tale sistema, tuttavia, non era servito a ridurre i

forti squilibri sociali, territoriali e intersettoriali, che limitavano il mercato interno e la

                                                            27 Nel 1978 AD e COPEI ottenevano il consenso del 70% del corpo elettorale, mentre nel 1988 raggiungevano il 92% dell’elettorato. Giancarlo Pasquini, Venezuela: ascesa di un leader populista, «Politica internazionale», 1/ 2-3, Ipalmo, Roma 2006, p. 127.

28  

crescita. La rendita petrolifera, anziché essere indirizzata a favore della

differenziazione dell’economia e del sostegno all’agricoltura e ai settori industriali

alternativi, era stata rivolta essenzialmente al finanziamento di opere pubbliche e al

sostenimento dei prezzi dei generi di consumo di prima necessità, tenuti

artificialmente bassi. Dalla mancanza di un rapporto simmetrico tra Stato e società si

sono sviluppate quindi tendenze all’inefficienza, alla discrezionalità e alla corruzione.

Tale sistema ha funzionato finché, negli anni Ottanta, il decremento del prezzo del

petrolio non ha provocato il collasso delle entrate pubbliche, l’aumento del debito

estero, la fine di una politica della spesa facile e l’aumento dell’inflazione. Lo spettro

della recessione economica ha determinato, inoltre, fughe di capitale28. In un tale

contesto di crisi e incertezza, un’ampia fascia della popolazione ha cominciato a

manifestare un rifiuto per la politica.

Cavalcando l’ondata di malessere popolare, il 4 febbraio 1992, un gruppo di

ufficiali si è sollevato con lo scopo di assumere il potere. La rivolta, tuttavia, è fallita

nel giro di poche ore. Pérez ha inviato l’aviazione per bombardare le guarnigioni

ribelli, che non volevano arrendersi. Tra i militari che avevano tentato il golpe c’era il

Tenente Colonnello Hugo Rafael Chávez Frías. Questi si è distinto subito tra gli altri,

acquistando una notevole popolarità, che il presidente Rafael Caldera29, succeduto a

Pérez, ha riconosciuto subito come pericolosa, se non sfruttata per aumentare i

consensi al proprio governo. Dopo essere stati arrestati e messi in prigione per circa

un anno e mezzo, i protagonisti del golpe sono stati liberati con un indulto.

Consapevole dell’usura del vecchio sistema bipartitico, che aveva ormai perso il

sostegno popolare, Caldera ha deciso di cooptare i militari ribelli nel discorso politico,

ampliando così le opzioni a disposizione degli elettori.

Fin dal primo ingresso in politica, Chávez ha usato la sua abilità oratoria per

denunciare il vecchio sistema di potere, logoro e non più trasparente. Il suo primo

obiettivo è stato quello di distruggere i due partiti che, per quarant’anni, si erano

alternati al potere. Vari leader della sinistra radicale, dopo il fallito golpe del 1992, si

sono stretti intorno a lui, intuendone il carisma e il potenziale, e lo hanno aiutato a

realizzare il suo proposito di rinnovamento. Quando, nel 1998 è stata presentata la

sua candidatura per le elezioni presidenziali del dicembre dello stesso anno, a capo

del Movimento V Repubblica (MVR), aleggiavano ancora dei dubbi su quale sarebbe

                                                            28 Ibidem, p. 128. 29 Leader storico del COPEI, già presidente della Repubblica negli anni Settanta e autore del Punto Fijo.

29  

stato il suo orientamento una volta alla guida del paese30. Attorno a lui si erano

raccolti diversi consensi. Da un lato la sinistra radicale, parte dei ceti medi e alcuni

intellettuali; ma soprattutto le masse dei lavoratori precari, marginali e disoccupati,

che intravedevano in lui, in mancanza d’alternative, la loro unica possibilità di

riscatto. Chávez era sostenuto, inoltre, da quanti auspicavano una guida autoritaria a

stampo militare, in grado di porre fine al caos e all’indisciplina che ormai regnavano

incontrastati nel paese. Per un’altra parte dei ceti possidenti e dei ceti medi Chávez

costituiva invece una concreta minaccia al loro status sociale, ai loro interessi, alle

garanzie costituzionali e alle libertà civili e politiche di cui avevano goduto.

1.2.2 Chávez e la sua formazione ideologica  

Hugo Chávez è nato in una piccola località rurale del Venezuela, da una

famiglia umile e in ristrettezze economiche.

All'età di diciassette anni si è arruolato nell'Accademia Venezuelana di Arti

Militari. Dopo la laurea in Scienza e Arti Militari, si è dedicato allo studio delle

Scienze politiche all'Università Simón Bolívar di Caracas, che tuttavia ha lasciato

prima di conseguire la laurea.

Durante gli anni di studio, Chávez e i suoi compagni hanno sviluppato una

dottrina, che hanno definito “bolivariana”. Di stampo nazionalista e di sinistra, tale

dottrina si ispirava alla filosofia panamericanista del rivoluzionario venezuelano

dell'800 Simón Bolívar, ma risentiva anche dell’influenza del pensiero di ideologi

comunisti e socialisti, tra cui Marx e Lenin31.

Inizialmente, il bolivarismo si è sviluppato all'interno delle Forze Armate e ha

trovato, a partire già dal 1983, una sua puntuale attuazione nel “Movimiento

Bolivariano MBR-200”.

E’ stato l’inizio della carriera politica di Chávez. Da quel momento, nelle sue

dichiarazioni non sono mai mancati i riferimenti al Libertador, padre della patria. Per

la cultura di massa venezuelana e dei paesi limitrofi, Simón Bolívar rappresenta

                                                            30 Chávez è sempre stato di sinistra. Fin da giovane venne a contatto con l’ideologia socialista attraverso l’influenza del fratello Adan. Il periodo passato in carcere fu sufficiente per leggere una quantità non indifferente di libri di natura politica. 31 In Accademia, Chávez dice di aver letto Mao e von Clausewitz, entrambi nel programma di studio per i giovani ufficiali. Cita anche Marx e Guevara. Dice di essere stato affascinato dagli studi sul potere costituzionale di Toni Negri. È interessante sottolineare che i riferimenti che Chávez fa alle sue letture politiche sono, in realtà, sempre molto vaghi. In alcuni casi sembra che si sia limitato a interpretazioni semplicistiche di opere dal contenuto, invece, molto complesso. Si veda: Antonio Moscato, Il risveglio dell’America Latina: Storia e presente di un continente in movimento, Edizioni Alegre, Roma 2008, pp. 100-101.

30  

tuttora l’eroe nazionale, il sogno dell’unità latinoamericana e della lotta per la giustizia

sociale contro i privilegi delle oligarchie. Di Simón Bolívar, Chávez ha fatto proprio

soprattutto il concetto di integrazione e costruzione della sognata e mai realizzata

“Gran Colombia”. Il culto della tradizione in Chávez si è manifestato nei continui

riferimenti alla storia del suo paese e del continente, fino all’esaltazione militare delle

battaglie del passato, messe sempre in relazione col presente. Più che dalle letture

politiche, Chávez ha tratto ispirazione, per le sue scelte, dall’esperienza di

personaggi della storia latinoamericana, anche recente. Chávez è stato

particolarmente colpito dalle vicende che hanno coinvolto il panamense Omar

Torrijos e il peruviano Velasco Alvarado, entrambi presidenti progressisti degli anni

Settanta. Certamente, il punto di riferimento più vicino e costante, per Chávez, è

stato Fidel Castro, rispetto al quale, però, il leader venezuelano ha saputo evitare

quelle posizioni che lo avrebbero portato a commettere gravi errori e quindi perdere

consensi, ad esempio con riguardo ai rapporti con l’opposizione e alla scelta di

elezioni pluripartitiche32.

Sfruttando la sua abilità oratoria, Chávez è riuscito ben presto a organizzare

un ampio consenso attorno alla sua persona e ad accreditarsi come il protettore delle

masse rurali più diseredate. Utilizzando una retorica belligerante, dalla televisione o

nel suo programma radiofonico “Alò Presidente”, ha tuonato contro l’imperialismo

statunitense e contro le disuguaglianze, mirando a smuovere le coscienze dei

venezuelani e di tutti i popoli latini.

Presidente forte e carismatico, abituato a parlare direttamente al suo popolo,

senza mediatori, incarna perfettamente la figura del leader populista, che combatte

contro le ingiustizie sociali. Per le sue connotazioni radicali, che lo distinguono dal

populismo di Morales e Correa e dai modelli del passato, il regime chavista è stato

definito da alcuni una vera e propria dittatura post-moderna, non pienamente

democratica né pienamente totalitaria, un ibrido di sinistra che sfrutta quella

legittimità, mai completamente conseguita dalla Cuba di Castro e dall’Urss33.

1.2.3 L’ascesa al potere di Chávez

Chávez è stato eletto presidente della Repubblica del Venezuela nel 1998,

con una maggioranza non schiacciante. Nel suo messaggio di “rifondazione della

Repubblica”, ha spiegato di voler cambiare la fisionomia istituzionale del paese. Al                                                             32 Ibidem, pp. 101-102. 33 Miranda, Rossana/Mastrantonio Luca, Hugo Chávez: il caudillo pop, Marsilio, Venezia 2007.

31  

momento del suo insediamento, il 2 febbraio 1999, ha annunciato la convocazione di

un referendum, per eleggere un’Assemblea costituente. Il referendum, che ha avuto

luogo il 25 aprile 1999, ha assicurato una vittoria netta del “sì”; ma si è registrato un

livello molto alto di astensioni (si è calcolata una partecipazione alle urne pari al 38%

degli aventi diritto, di cui i favorevoli furono il 92% contro l’8% dei contrari), a indicare

la mancanza di fiducia verso la politica, che ancora connotava il sentire popolare. I

lavori per redigere la nuova Costituzione sono stati brevi. Ne è risultato un testo, che

attribuisce al presidente poteri molto ampi, senza gli opportuni contrappesi. In

particolare, a Chávez spetta il diritto di sciogliere, a suo insindacabile giudizio, il

Congresso e governare per decreto; la nomina ad personam dei membri del

Tribunale Supremo, del Consiglio nazionale elettorale e di altri organi giurisdizionali.

La nuova Costituzione, sottoposta a referendum, si è rivelata più funzionale

alle esigenze del nuovo potere, che al proposito di ricostruire la Repubblica e

superare il deficit di democrazia del sistema politico venezuelano. I provvedimenti

presi dal presidente Chávez, nei primi anni di governo, sono stati essenzialmente

diretti all’eliminazione di tutti quei residui di potere politico, che ancora non erano

sotto il suo controllo – a eccezione del potere economico e spirituale della Chiesa.

Nel 2001, attraverso la Ley Habilitante, ha ottenuto dall’Asamblea Nacional un

permesso speciale per legiferare in via direttissima e ha approvato 49 disposizioni,

tra nuove leggi e riforme. Tra i nuovi normativi, di particolare importanza sono state la

legge sulle terre e lo sviluppo agricolo, che ha autorizzato gli espropri delle terre

ritenute improduttive e quella sugli idrocarburi, che ha riservato alla Holding di Stato,

Petroleos de Venezuela SA (PDVSA), la partecipazione maggioritaria nelle società

miste con le imprese concessionarie private, aumentando nel contempo le imposte

per le compagnie straniere fino al 30% in più. Chávez ha, inoltre, destituito i vertici

della PDVSA, per mettervi uomini a lui vicini. In questo modo ha voluto rimediare alla

gestione precedente ritenuta fallimentare impossessandosi, però, allo stesso tempo,

della principale leva di potere del paese.

Questi provvedimenti hanno avuto ripercussioni negative sulla popolarità di

Chávez. La società li ha interpretati come un vero e proprio golpe. I vertici della

PDVSA si sono rifiutati di dimettersi, forti dell’appoggio dei dipendenti e dei sindacati

che li rappresentavano. Intanto, si era diffuso un vero e proprio movimento di

protesta, che è culminato nella proclamazione, nel gennaio del 2002, di uno sciopero

nazionale a oltranza, che ha bloccato per 6 settimane la produzione e l’esportazione

di petrolio. Nell’aprile dello stesso anno, un ampio movimento, formato da militari,

32  

imprenditori e politici dei partiti che Chávez aveva estromesso, ha deciso di destituire

Chávez.

Il governo provvisorio, affidato al presidente di Federcámeras (la Confindustria

venezuelana), Pedro Carmona Estanga, ha cercato subito di annullare le disposizioni

volute da Chávez. Carmona non è riuscito, però, nel suo intento. Il suo governo ha

avuto vita breve. La scelta di Carmona come presidente non aveva soddisfatto le

masse: le agitazioni popolari sono riprese e i militari, non sapendo come gestire la

situazione, hanno chiesto a Chávez di riprendere il comando34.

Volendo fare un bilancio del primo mandato del leader venezuelano, ciò che

emerge è la mancanza di riforme che si possano definire propriamente socialiste35,

nonostante l’orientamento innegabilmente di sinistra del governo. La sua politica ha

portato, nei primi 3 anni, alla polarizzazione estrema della società venezuelana:

«Chávez ha spaccato in due la società venezuelana secondo una linea che una volta

si sarebbe detta di classe, ma che oggi è meglio definire, “etnica” e “sociale”»36.

Dopo il tentativo di estromissione dal potere, Chávez è tornato alla ribalta sulla

scena politica col proposito di accelerare il processo di riforma dello Stato

venezuelano verso il “bolivarismo del XXI secolo”. La fortuna più grande del leader

venezuelano è stata quella di essere a capo del quinto paese esportatore di petrolio

del mondo. Questa preziosa risorsa energetica è diventata lo strumento di eccellenza

nel proposito di realizzazione della “Patria Grande” di Bolívar e nella lotta per

l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale multipolare in grado di frenare le spinte

imperialiste statunitensi37. L’aumento dei profitti derivanti dai proventi del settore

energetico ha permesso a Chávez di riformare la politica economica venezuelana in

direzione della costruzione del “socialismo del XXI secolo”. Questa nuova fase si è

caratterizzata per un massiccio intervento dello Stato, non solo come regolatore ma

anche in qualità di produttore di beni e servizi38.

Con i proventi derivanti dalla rendita petrolifera Chávez ha inaugurato una

nuova politica sociale, caratterizzata da campagne sanitarie, distribuzione di alimenti,

alfabetizzazione, formazione professionale, finanziamenti alle microimprese, alle

cooperative e lotta al latifondo. Grazie alla nascita di nuove entità statali di

                                                            34 Clodovaldo Hernández, Hugo Chávez o il sogno del potere eterno, in AA.VV., L’Italia presa sul serio, «Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 2, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2006, p. 265. 35 Giancarlo Pasquini, Venezuela: ascesa di un leader populista, cit. 36 Gilberto Bonalumi, L’America Latina cambia pelle, «Politica internazionale», 1/2-3, Ipalmo, Roma 2006, p. 94. 37 Alberto Garrido, Con l’asse dell’etanolo Bush e Lula accerchiano Chávez, AA.VV., Brasile la stella del Sud, «I Quaderni speciali di Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 1, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2007. 38 Valerio Castronovo, Piazze e caserme: I dilemmi dell’America latina dal 900 ad oggi, Laterza, Bari 2007.

33  

produzione, ha rafforzato il capitalismo di Stato; sono nate associazioni cooperative e

imprese di produzione sociale (Ips); l’economia privata in ogni sua manifestazione è

stata indebolita. Un ruolo importante ha rivestito anche la collaborazione con Cuba:

medici dell’isola sono stati trasferiti nei quartieri poveri delle grandi città e nei centri

rurali più remoti del Venezuela. Questi provvedimenti hanno esaudito le istanze delle

masse rurali e del sottoproletariato urbano e, al contempo, hanno permesso a

Chávez di riacquistare la popolarità persa dopo le vicende del gennaio 200239. In

realtà, questo insieme di misure non è servito a garantire un reale miglioramento

della qualità della vita. Gli investimenti promossi a favore delle politiche sociali si

sono rilevati solo dei palliativi per una società con tassi di povertà, disoccupazione e

analfabetismo molto alti. Le riforme economiche e sociali del leader venezuelano,

tuttavia, gli hanno permesso di creare consenso e sconfiggere l’opposizione in

occasione del referendum del 200440 .

Il Venezuela è l’unico paese al mondo a prevedere che l’opposizione, ogni tre

anni, se raccolto un certo numero di firme, possa chiedere di indire un referendum

revocatorio del mandato presidenziale41. Con l’obiettivo di destituire il Presidente, la

Coordinadora démocratica, ovvero una coalizione eterogenea di sindacati,

associazioni imprenditoriali e partiti di centro-destra, ha raccolto due milioni e mezzo

di firme e ha potuto così indire il referendum. Il suo esito ha consacrato la vittoria

schiacciante di Chávez. Forte di questo trionfo elettorale, il Presidente non ha esitato

a mettere in atto una politica dichiaratamente socialista in chiave anti-americana42.

La realizzazione del progetto del “socialismo del XXI secolo”, doveva passare

attraverso la costruzione di una rete di alleanze regionali, che di fatto dovevano

ostacolare i tentativi delle “potenze imperialiste e capitaliste” di controllare le

economie dei paesi del continente. Alla proposta statunitense di un’Area di Libero

Commercio fra le due Americhe, l’ALCA, Chávez ha contrapposto l’Alternativa

                                                            39 I massicci interventi in campo sociale, chiamati misiones, erano stati pensati allo scopo di rispondere ai bisogni più urgenti. La misión Robinson, ad esempio, mirava a consentire l’accesso all’istruzione primaria a oltre un milione di analfabeti; le misiones Ribas e Sucre hanno permesso ad adulti di ottenere il diploma e così frequentare l’università; la misión Barrio Adentro e la misión Milagro, sulla base di un accordo tra Venezuela e Cuba, hanno permesso la partecipazione intensa di medici e personale infermieristico cubano ai complessi problemi medici della popolazione più povera del Venezuela; la misión Mercal, con la quale lo Stato si impegnava ad aprire spacci di paragone a prezzi ridotti del 40%, ha consentito l’apertura di comedores populares e di casas de alimentación, per aiutare le famiglie più povere che avevano problemi nell’acquistare i beni di prima necessità. Si veda: Daniel Pompejano, L’America Latina contemporanea: Tra democrazia e mercato, Carocci, Roma 2006. 40 Miranda, Rossana/Mastrantonio Luca, op.cit. 41Eliana Loza Schiano, a cura di, Pro e contro il “nuovo Bolívar”, conversazione con Carlos Escarrá Malavé (vice presidente della commissione Relazioni Esterne dell’Assemblea Nazionale venezuelano e membro del Consiglio presidenziale per la riforma della costituzione, in AA.VV., Chávez-Castro: L’antiamerica, «Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 2, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2007. 42 Clodovaldo Hernandez, Hugo Chávez o il sogno del potere eterno, cit.

34  

Bolivariana per l’America Latina e i Caraibi, l’ALBA. Altre iniziative volte

all’integrazione regionale sono state Telesur (Tv del Sud), Gasur (Gasdotto del Sud),

Petrosur (Petrolio del Sud), Opegasur (Organizzazione dei paesi produttori ed

esportatori di gas del Sud) e Bansur (Banca del Sud).

I petrodollari del caudillo venezuelano sono serviti finora a finanziare tutti

questi progetti. Ciò nonostante, interessi di parte e la diffidenza verso alcuni piani

attuati da Chávez in Venezuela, come la nazionalizzazione delle risorse, hanno

portato alcuni paesi del continente a non aderire a questi accordi. È il caso, ad

esempio, del Brasile di Lula. Le generose forniture di petrolio e altri prodotti sono lo

strumento attraverso cui Chávez tenta di comprare l’amicizia dei paesi latini. In

cambio dell’assistenza di tecnici e medici cubani, le sovvenzioni venezuelane hanno

contribuito a mantenere in vita il regime castrista, ormai sull’orlo del collasso

economico. L’oro nero venezuelano è servito anche a favorire la vittoria al governo di

alcuni esponenti della sinistra populista, come in Bolivia, che vende al Venezuela

tutta la produzione industrializzata di coca. L’obiettivo della Grande Patria si regge,

quindi, su interessi di carattere economico e strategico. Ma, a parte Cuba, finora non

sembra che gli altri paesi latinoamericani siano convinti, nonostante i petrodollari,

delle strategie di Chávez.

1.2.4 Il referendum per la riforma costituzionale

Nel 2006, con la sconfitta del leader dell’opposizione Manuel Rosales,

candidato alle presidenziali dal cartello anti-chávista, il leader venezuelano è stato

riconfermato nella sua carica di presidente43. Dal 1998 Chávez mantiene saldamente

le redini del potere e non sembra avere intenzione di abbandonare la guida del

paese, se non dopo averne portato a termine la progressiva trasformazione in chiave

socialista. Coerente con tale proposito è stata quindi la decisione di promuovere un

nuovo referendum, per ottenere la possibilità di un terzo mandato per il presidente in

carica, possibilità non prevista dalla Costituzione Venezuelana1.

Questo referendum si è tenuto lo scorso dicembre e chiedeva, più in generale,

il parere popolare su un progetto di riforma costituzionale, in cui 69 articoli della

Costituzione del 1999 sarebbero stati emendati. Le modifiche principali avrebbero

riguardato l’ampliamento dei poteri del presidente della Repubblica, la durata del cui

                                                            43 Chávez ha ottenuto il 61% dei voti contro il 38% a favore del suo avversario.

35  

mandato passava da 6 a 7 anni e senza limiti per la rielezione; la perdita di

indipendenza della Banca Centrale, che sarebbe stata controllata direttamente dal

Presidente44 .

I risultati del referendum hanno sancito la prevalenza dei “no” con il 50,7% di

voti, comportando la cancellazione del progetto di riforma costituzionale.

È possibile che l’essersi spinto troppo oltre, con una potenziale modifica

strutturale dello Stato verso un modello che ricordava quello della pianificazione

comunista, abbia contribuito alla sconfitta del leader venezuelano45. Per ciò che

concerne la proposta di rinnovo indefinito del mandato presidenziale, essa ha

suscitato molte polemiche anche a livello internazionale. Chávez ha specificato che

la sua proposta non mirava a istituire la figura di un presidente a vita, ma a introdurre

in Venezuela una normativa simile a quella vigente nei paesi a regime parlamentare,

permettendo cioè al capo di governo di ripresentarsi alle elezioni tutte le volte avesse

ritenuto necessario, chiedendo però il consenso del popolo.

All’inizio del secondo mandato presidenziale di Chávez, il Venezuela si mostra

come un paese con un’economia in crescita. Tra il 2003 e il 2006 si è registrato un

miglioramento soprattutto nel settore delle esportazioni; ma l’aumento della spesa

pubblica, determinato dalle politiche volute da Chávez, ha portato al deficit,

nonostante gli alti prezzi del petrolio abbiano fatto registrare le entrate più alte degli

ultimi 30 anni. Oggi, il Venezuela è evidentemente più dipendente dal petrolio

rispetto a vent’anni fa, quando si era tentato di diversificare l’economia del paese46.

Di conseguenza, l’economia venezuelana è sempre più vulnerabile e le intese

politiche del presidente, le sue strategie diplomatiche, non sembrano una garanzia di

miglioramento.

                                                            44 Altre importanti riforme erano attinenti all’eliminazione dei monopoli privati e del latifondo; alla promozione di forme di economia comunale statale e mista; alla riorganizzazione dell’apparato amministrativo statale, delle Forze armate e della legislazione in materia di referendum; alla modifica dei fondamenti socioeconomici in senso socialista, antimperialista e di cooperazione; alla promozione dell’integrazione latino americana; alla riduzione della giornata lavorativa e al riconoscimento costituzionale delle misiones. Locatelli Niccolò, Focus: anche il Venezuela a volte dice no, 12 marzo 2007, http://limes.espresso.repubblica.it/2007/12/03/focus-anche-il-venezuela-a-volte-dice-no/?p=380 45 Edgardo Ricciuti , La sconfitta di Chávez, 4 dicembre 2007, http://limes.espresso.repubblica.it/2007/12/04/la-sconfitta-di-chavez/?p=385 46 José Guerra, Capitalismo in salsa socialista, in AA.VV., Chávez-Castro: L’antiamerica, p. 164.

36  

1.3.BOLIVIA

1.3.1 Etnia e globalizzazione

Il paese che porta il nome del Libertador, è uno degli Stati più interessanti del

continente sudamericano, per la sua varietà geografica, l’alta percentuale di

popolazione indigena e la ricchezza di risorse naturali. La sua particolarità ne ha fatto

un paese sempre al centro delle vicende latinoamericane.

Secondo stime recenti, la popolazione boliviana raggiunge quasi i 9 milioni di

abitanti; la maggioranza è costituita da indios che vivono sugli altipiani, in condizioni

economiche estremamente povere47. Problemi etnici, culturali sono scaturiti da

questa particolarità e si sono uniti a quelli di tipo geografico, rendendo il paese, dopo

l’indipendenza dagli spagnoli nel 1825, continuamente instabile. La Bolivia è anche

uno Stato estremamente ricco di risorse naturali48, distribuite su una superficie totale

pari a 1,098,580 km2. Questa ricchezza ha contribuito alla sua instabilità. Guerre per

questioni di confine e per il controllo di giacimenti minerari o delle risorse forestali49

hanno segnato la storia di questo paese. La Bolivia, per lungo tempo, è stata

governata da oligarchie legate agli USA, in un sistema di tipo feudale, nel quale la

maggioranza della popolazione soffriva di grave discriminazione rispetto alla parte

bianca, proprietaria terriera e delle maggiori risorse naturali. Uno scenario tipico in

America Latina ma che sembrava essere destinato a cambiare già nel 1952, in

seguito alla cosiddetta Rivoluzione Nazionale50. Si inaugurava una fase

caratterizzata dal consolidamento di idee nazionaliste, che si sono tradotte nella

riforma agraria del ’53, che ha dato finalmente «la terra a chi la lavora»;

                                                            47 La Bolivia è uno dei paesi con la maggiore densità di popolazione indigena in tutta l’America Latina. Si stima che la percentuale di indios quechua sia del 30%, aymara 25%, mentre i meticci costituiscano un altro 30%. I bianchi sono solo il 15% dell’intera popolazione. Questi dati, aggiornati al 2008, sono forniti dalla CIA, Central Intelligence Agency, degli Stati Uniti d’America: https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/bl.html 48 Si trovano giacimenti di stagno, zinco, tungsteno, antimonio, argento, ferro, piombo, oro, oltre a quelli più importanti di gas e di petrolio. La Bolivia, come altri paesi latinoamericani, è anche ricca di legname e fonti di energia idroelettrica. 49 I più importanti di questi conflitti sono la cosiddetta guerra del Pacifico (1879-1884), contro il Cile e in conseguenza della quale la Bolivia perde il suo accesso all’Oceano, e la guerra del Chaco (1932-1935), contro il Paraguay. 50 Iniziata come una sommossa, l’8 aprile 1952, ad opera di militanti del MNR, Movimento Nacionalista Revolucionario, e di alcuni reparti della polizia, e destinata al fallimento, la Rivoluzione Nazionale deve la sua vittoria alla partecipazione di milizie operaie. Il tentato colpo di stato diventa una vera e propria insurrezione di massa, che mette fine al lungo periodo di regimi oligarchici, iniziato con la sconfitta nella guerra del Chaco contro il Paraguay. In questa occasione il governo boliviano si era dimostrato non solo incapace di proteggere il proprio paese dal nemico esterno, ma aveva trasformato la Bolivia in una «ricca enclave mineraria circondata da miseria e arretratezza, nelle mani dei famosi “baroni dello stagno”»: Pablo Stefanoni; Hervé Do Alto, Evo Morales: Il riscatto degli indigeni in Bolivia, Sperling & Kupfer, Milano 2007, p. 10. Sulla guerra del Chaco si veda: Augusto Céspedes, Sangre de mestizos: Relatos de la Guerra del Chaco, La Paz, Juventud, 19692.

37  

nell’approvazione del diritto di voto universale e nella nazionalizzazione delle grandi

miniere.

Negli anni Ottanta, la scelta del neoliberismo come soluzione per superare la

grave crisi economica e finanziaria, che aveva colpito tutta l’America Latina, ha

prodotto effetti economici e sociali disastrosi, specialmente in Bolivia, dove i

programmi di liberalizzazione sono stati tra i più radicali del continente. Da questo

momento in poi, la globalizzazione, se da una parte ha introdotto nei paesi latini

tendenze omogeneizzanti, dall’altra ha favorito il riemergere della questione etnica51.

L’essere state indirettamente catapultate nel mercato globale, ha risvegliato, nelle

«maggioranze di sangue indio e africano dell’America Latina, incolte, devastate dalle

malattie, disperatamente povere ma numericamente consistenti», «nuovi e

contraddittori desideri materialistici e consumistici»52. E’ proprio questa sollecitazione

di carattere emotivo ad aver spinto le comunità socialmente marginalizzate a

costituirsi in comparti economici e contestualmente in potenziale politico53. È il caso

degli aymara in Bolivia, uno dei popoli indoamericani che ha conservato meglio le

sue tradizioni e pratiche culturali, protette dai quattromila metri di altitudine a cui si

trova l’altipiano dove risiedono, che rendono difficile l’adattamento di altri gruppi,

bianchi, asiatici o neri.

Le riforme liberiste, in Bolivia, hanno prodotto una diminuzione di forza delle

classi operaie e minerarie e favorito le masse contadine, composte prevalentemente

da indios54. Oggi sono queste ultime, che costituiscono la maggioranza del popolo

boliviano, da sempre ai margini della vita pubblica, a ricercare una nuova immagine

di sé, a volere una nuova forma di Stato. La Rivoluzione del 1952 aveva tentato di

creare una nazione basata sull’elemento meticcio, favorendo la classe media urbana

e quella contadina ispanofone55. Nei decenni successivi, l’irrompere della

globalizzazione e il neoliberismo hanno creato il contesto più adeguato e funzionale

                                                            51 Pablo Cristoffanini, Globalización y etnicidad en América Latina: El caso boliviano, «Diálogos Latinoamericanos», 13, LACUA – Latin American Center, University of Aarhus, Aarhus 2008, p. 85. Della questione dei diritti dei popoli indigeni si è occupata anche l’Onu, che, il 13 settembre 2007, ha approvato la Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni. La Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, firmata a Ginevra nel 1989 ed entrata in vigore nel 1991, “sui popoli indigeni e tribù in Stati indipendenti”, riconosce loro il diritto di disporre di un territorio e di autoamministrarne lo sviluppo, al fine di mantenere e rafforzare la propria identità culturale. La Convenzione stabilisce anche l’uso dell’espressione “popoli” indigeni, in sostituzione di “popolazioni” indigene, perché connoterebbe meglio l’identità e la percezione che questi hanno di se stessi, mentre il termine “popolazione” può essere più semplicemente legato alla sola idea di gruppo di individui. 52 Amy Chua, L’ètà dell’odio, p. 90, in Riccardo Campa, América Latina y la modernidad, Universidad Nacional Autónoma de México, México 2006, p. 105. 53 Riccardo Campa, op. cit., p. 105. 54 Pablo Cristoffanini, op. cit., p. 88. 55 Ibidem, p. 89.

38  

alla proposta dell’allora presidente Gonzalo Sánchez de Lozada56 di una nazione

«multiculturale», basata sul riconoscimento della diversità e formalizzata con la

riforma costituzionale del 1994, in cui si definiva il carattere multietnico e

pluriculturale del paese. In realtà, le misure prese contestualmente a tale riforma

tendevano all’omologazione: «la tolleranza per l’altro, l’indigeno, esisteva solo nella

misura in cui non fosse realmente altro», volendo in questo modo impedire agli indios

di «pensare la politica come confronto»57. Il sistema di potere coloniale, concentrato

nelle mani di pochi, non mostrava segni di cambiamento e la maggioranza della

popolazione boliviana rimaneva ancora esclusa dalla vita pubblica.

Da questo momento in poi, le richieste di giustizia sociale e di equità si sono

fatte sempre più insistenti e incisive. Si chiedeva uno Stato che tenesse

maggiormente in conto le problematiche sociali e culturali specifiche del contesto

boliviano; uno Stato non più nelle mani delle élite bianche, né condizionato dagli

interessi delle multinazionali. Sollevazioni popolari, blocchi stradali, insieme ad altre

forme di protesta, sono stati l’espressione tipica in questo paese andino di movimenti

sociali, che, a differenza che negli altri paesi, qui sono riusciti a raggiungere il campo

della politica. Le rivendicazioni delle masse andavano dalla richiesta della terra,

sottratta dai bianchi, alla difesa dei beni più preziosi dell’economia boliviana, l’acqua

e il gas; e si caratterizzavano per la stretta connessione con la lotta per

l’emancipazione degli indios. Dopotutto, queste rivendicazioni portavano in sé i segni

della cultura tradizionale, secondo la quale le risorse della terra e la terra stessa

appartengono solo al popolo autoctono58. Cavalcando queste proteste, Evo Morales,

indio di etnia aymara, ha saputo farsi interprete delle richieste del suo popolo,

trasformando il concetto stesso di etnia in capitale politico.

Amy Chua scrive: «… in tutta l’America Latina – dove spesso si sostiene che

non sussistono “divisioni etniche” dal momento che tutti sono di “sangue misto” –

vaste masse di boliviani, cileni e peruviani impoveriti vengono da un momento

all’altro definiti aymara, incas, o più semplicemente indios, ogni volta che questa

identità risulti opportuna ai fini della propaganda e della mobilitazione popolari. Tali

movimenti di indigenizzazione non sono necessariamente positivi o negativi, ma la

                                                            56 Gonzalo Sánchez de Lozada ha governato il Paese in due differenti mandati (1993-1997; 2002-2003), ed è stato anche collaboratore e ministro dell’ex-presidente Victor Paz Estenssoro. Appartiene al Movimento Nazionalista Rivoluzionario (MNR), partito dalle molte correnti politiche interne ed autore della rivoluzione nazionalista del 1952. 57 Pablo Stefanoni; Hervé Do Alto, op. cit., p. 58. 58 Gilberto Bonalumi, L’America Latina cambia pelle, «Politica Internazionale», 1/2-3, Ipalmo, Roma 2006, p. 93.

39  

loro potenza è enorme e contagiosa»59. La consapevolezza delle potenzialità insite

nel riemergere della questione etnica è ormai un dato acquisito dalle stesse masse,

che prima si definivano come minerarie o contadine, e che oggi si autodefiniscono

come membri di un gruppo etnico o in generale come indigeni. Morales ha fatto

proprio questo assunto, essendo, però, lui stesso parte di quella massa. La

cerimonia della sua investitura presidenziale, negli abiti tipici aymara, è

esemplificativa della sua intenzione di risvegliare il patrimonio culturale boliviano.

Questo intento rappresenta la cornice all’interno della quale Morales ha definito il suo

progetto di “rifondazione dello Stato boliviano”, coinvolgendo questa volta coloro che

erano stati esclusi al tempo della prima fondazione della Bolivia, nel 1825, ma anche

in seguito.

1.3.2 Le battaglie di Morales

La carriera politica di Evo Morales ha inizio all’interno del mondo sindacale.

Da semplice cocalero, arriva a dirigere, nel 1996, la principale federazione dei

coltivatori di coca del tropico di Cochabamba60. È l’inizio di un percorso che lo

avrebbe portato prima a ottenere un posto in Parlamento e poi alla presidenza della

Repubblica, tra l’incredulità e la diffidenza dei rappresentanti della sinistra

tradizionale e della popolazione bianca e meticcia della parte orientale del paese e

nonostante le accuse da parte degli Stati Uniti di essere un “narcotrafficante” e

“nemico della democrazia”.

La sua denuncia delle repressioni ad opera di polizia e soldati ai danni dei

coltivatori di coca, arrivando «anche a invocare il diritto dei campesinos alla

“resistenza armata”»61, conquista e convince le masse boliviane. Il peso politico di

Morales cresce gradualmente, soprattutto dal momento in cui decide di strutturare la

                                                            59 Amy Chua, L’ètà dell’odio, pp. 27-28, in Riccardo Campa, op. cit., p. 100. 60 Negli anni Ottanta, la famiglia Morales, come molte altre, si sposta nel dipartimento di Chochabamba, dove si stava affermando la coltivazione della coca quale principale risorsa del paese. Le misure adottate dai governi all’indomani della Rivoluzione Nazionale avevano portato a una riduzione del peso dell’industria estrattiva, a una profonda crisi dell’agricoltura tradizionale, sia per la scarsa produttività degli appezzamenti di terreno dati dalla riforma agraria del ’52 ai contadini, senza la previsione di aiuti statali, sia per ragioni climatiche. Queste circostanze avevano favorito la diffusione della coltivazione della coca, che veniva destinata in larga parte alla produzione di cocaina e all’esportazione, illegale, sotto tale forma. Si veda: Antonio Moscato, Il risveglio dell’America Latina: Storia e presente di un continente in movimento, Edizioni Alegre, Roma 2008, p. 125. 61 Pablo Stefanoni; Hervé Do Alto, op. cit., p. 41. La parola d’ordine dei cocaleros era “la coca non è cocaina”. Essenzialmente, essi chiedevano che la produzione di coca non venisse distrutta, ma mantenuta sotto controllo. Si veda: Antonio Moscato, op. cit., p. 126.

40  

sua battaglia sul terreno dello scontro politico, creando un partito, il MAS62

(Movimiento al Socialismo), lo «strumento politico» dei sindacati, come è stato

definito. Da quel momento, Morales, «quella sorta di “Lenin indio”, come amava

raffigurarsi, che evocava nei suoi programmi Marx e “Che” Guevara, mischiava nei

suoi proclami indigenismo e marxismo, l’emancipazione del proletariato e la

legalizzazione della coca»63, diventa interprete del nuovo nazionalismo, delle

richieste di cambiamento che provengono dalle masse.

Il MAS si rifà al marxismo, nella misura in cui intende affermare il rifiuto della

dottrina neoliberista e proclamare la volontà di superare definitivamente quelle forme

di colonialismo interno, che avevano costretto la popolazione indigena in un contesto

di emarginazione. La sua base ideologica, e quindi la linea lungo la quale si muove

Morales, è, tuttavia, il nazionalismo indigeno. Morales sostiene di voler andare oltre il

«socialismo tradizionale, di stampo marxista, che predicava l’uguaglianza e la

giustizia», e di ricercare non «solo la solidarietà, ma soprattutto l’armonia con madre

natura». «Gli esseri umani» – continua Morales, in un’intervista a L’Espresso –

«dipendono dalla salute della terra che ci ha dato la vita … Il compito che ci

proponiamo è quello di salvare l’umanità con il socialismo comunitario che implica in

primo luogo il rispetto per l’ambiente. Un esempio: i servizi basici, non solo l’acqua

ma anche la luce e il gas, debbono rientrare nella sfera dei diritti umani, garantiti ai

cittadini dallo Stato e non più strumenti di profitto privato»64.

In quest’ottica, segue le vicende legate alla guerra dell’acqua a Cochabamba

e i blocchi stradali degli aymara sull’altipiano, entrambi del 2000. Nel settembre

2003, attraverso il MAS, guida una rivolta popolare contro il progetto del presidente

Sánchez de Lozada di esportare negli USA il gas boliviano, attraverso i porti del Cile,

il paese che, nella guerra del Pacifico del 1879-84, aveva strappato alla Bolivia

l’accesso all’Oceano. In questa occasione, l’esercito usa le armi contro i dimostranti

– coltivatori di coca e militanti dei partiti di sinistra, provocando morti e feriti. La

guerra del gas del 2003, come è stata definita, rafforza il consenso intorno a

Morales. Dal Parlamento, egli osteggia il progetto di legge sugli idrocarburi, che il

presidente Carlos Mesa, che aveva preso il posto di Sánchez de Lozada, scappato

negli Stati Uniti, tentava di far passare e che riguardava una ridefinizione dei rapporti                                                             62 Il MAS è una formazione politica molto eterogenea, aperta ai gruppi contadini e indigeni, ma anche, in generale, ai rappresentanti delle classi medie urbane. Tale eterogeneità comporta necessariamente tensioni interne e divisioni, ricucite solo dalla leadership indiscussa di Morales. 63 Valerio Castronovo, Piazze e caserme: I dilemmi dell’America Latina dal Novecento a oggi, Editori Laterza, Bari 2007, p. 329. 64 Gianni Perrelli, Questione Morales, «L’Espresso», 26 ottobre 2007, http://espresso.repubblica.it/dettaglio//1844867/&print=true .

41  

tra lo Stato e le compagnia petrolifere. Morales spinge per una completa

nazionalizzazione degli idrocarburi, all’unisono con le posizioni dei movimenti sociali,

inclusa la base campesina del MAS.

Carlos Mesa si dimette. Vengono indette elezioni anticipate. Contro ogni

pronostico, il 18 dicembre 2005, Morales ottiene la maggioranza assoluta dei voti

(attorno al 54%), diventando il primo presidente indio della Bolivia. Il modo in cui è

stata gestita la crisi, che ha portato alle elezioni anticipate, è sintomatico dei

cambiamenti già in atto all’interno della società boliviana. Dalla richiesta di nuove

elezioni è emersa, infatti, la volontà di agire all’interno delle regole istituzionali, quelle

di una democrazia rappresentativa, rompendo con la tradizione dei colpi di Stato

militari65.

L’obiettivo dichiarato del governo di Morales, come è stato già detto, è la

ricostruzione dello Stato boliviano, coinvolgendo quegli strati della popolazione, da

sempre ai margini della vita pubblica. Fondamentale per il successo di questo

progetto è il recupero della sovranità statale delle risorse naturali e dei servizi

pubblici, nonché dell’autonomia decisionale nei confronti dell’imperialismo

statunitense – specialmente in riferimento al tema dello sradicamento della coca.

Morales chiama a far parte del suo governo esponenti del mondo indigeno,

contadino, sindacale e intellettuale66. Per tracciare una linea netta di demarcazione

con il passato neoliberista e neocoloniale, e così anche con i partiti tradizionali che

ne erano i fautori, fissa il suo orario di lavoro in base a quello dei contadini, arrivando

in ufficio alle cinque del mattino; apre «le porte del Palazzo Quemado ai poncho, ai

sandali e alle polleras indigeni»; dimezza i salari del potere esecutivo, compreso il

suo, e di quello legislativo67. In rispetto delle promesse fatte in campagna elettorale,

Morales promuove una riforma agraria, che riconosca il dominio ancestrale dei popoli

indigeni sui territori da loro abitati: una riforma, che prevede la confisca di tutti gli

appezzamenti di terreno, che non adempiano a «“una funzione sociale” e il cui titolo

di proprietà fosse stato acquistato “in modo fraudolento”, per redistribuirli ai

campesinos»68. Mette in cantiere una vasta riforma dell’apparato statale, la

convocazione di un’Assemblea costituente e di un referendum sulle autonomie.

                                                            65 Pablo Stefanoni; Hervé Do Alto, op.cit., p. 76. 66 Nelle elezioni del 2006, Morales propone come suo vice presidente l’intellettuale ed ex guerrigliero Álvaro García Linera. Ormai arroccato su posizioni molto più moderate, egli gode della stima dei settori della classe media urbana, che lo considerano il supporto ai presunti limiti intellettuali di Morales – indio non acculturato, nonché moderatore di alcune posizioni ritenute eccessivamente radicali del presidente (implicito qui è il riferimento ai rapporti con Chávez). 67 Pablo Stefanoni; Hervé Do Alto, op.cit., p. 96. 68 Valerio Castronovo, op. cit., p. 333.

42  

Nell’attuazione delle riforme sociali a favore delle fasce più povere della

popolazione, Morales non manca mai di fare riferimento alla cultura tradizionale del

suo popolo. Tale programma prevede prima di tutto il rinnovamento delle lingue

naturali. Nel 2006 viene approvato un progetto di legge, che conferisce lo status di

lingua ufficiale, a fianco del castigliano, a circa 36 lingue indigene, tra cui il quechua,

l’aymara e il guaranì. Il riconoscimento delle «lingue etniche» implica l’affermazione

dei diritti politici e sociali degli indios, permettendo così il loro inserimento nella vita

pubblica e quindi nella contemporaneità, senza rompere i legami col passato. Le

principali misure nel settore pubblico sono, allo stesso modo, orientate a portare la

modernità nelle campagne: ospedali, buoni contro la disserzione scolastica, piani di

alfabetizzazione, strade, trattori, riduzione delle tariffe di luce e telefono, documenti di

identità. Nelle intenzioni di Morales è la definizione di un percorso che dovrebbe

portare, mediante l’uso delle lingue naturali, dalla coesione etnica all’emancipazione

sociale69.

La realizzazione degli obiettivi di governo necessita di risorse, che il

presidente Morales è riuscito a recuperare per mezzo di una rigorosa disciplina

fiscale, ma soprattutto realizzando un altro dei punti fondamentali del suo

programma: la nazionalizzazione delle riserve di idrocarburi e di gas, le principali

risorse naturali della Bolivia. In nome della “volontà popolare”, il primo maggio 2006,

Morales emana un Decreto (Decreto Supremo 28701), poi diventato legge, in base al

quale la compagnia petrolifera di Stato Ypfb (Yacimientos Petroliferos Fiscales

Bolivianos) diventa proprietaria dei giacimenti di gas e di petrolio del paese, mentre

aumenta la tassazione per le imprese straniere del settore70. I proventi di queste

imposte si vanno ad aggiungere all’aumento degli investimenti diretti esteri nel

paese, registrato già nel 2006. Gli importanti accordi siglati con la multinazionale

indiana Jindal Steel per lo sfruttamento dei giacimenti di ferro e con la russa

Gazprom per progetti energetici hanno dato ossigeno alle casse statali e migliorato

l’immagine della Bolivia agli occhi degli investitori esteri71; una Bolivia che sta

cercando di liberarsi dalla condizione di mero esportatore di materie prime.

Le strategie di governo del presidente Morales non godono, però, del pieno

consenso nazionale, intaccato anche dagli scandali che hanno coinvolto alcuni

membri del suo entourage e dalla propaganda in senso contrario, fatta

                                                            69 Riccardo Campa, op. cit., pp. 102-103. 70 Niccolò Locatelli, Ideologia, gas e politica di Evo Morales, 26 gennaio 2008, http://limes.espresso.repubblica.it/2008/01/26/ideologia-gas-e-politica-di-evo-morales/?p=421 . 71 Si veda: ICE, Rapporto-Paese Congiunto ICE/MAE, 2^ sem. 2007, http://www.ice.it/estero2/bolivia/ .

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dall’opposizione, che dipinge Morales come un burattino mosso da Chávez. Il

problema più urgente che Morales deve affrontare è il crescendo delle tensioni

etniche ed economiche tra la popolazione indigena delle Ande occidentali e le

comunità non-indigene dell’est. La parte occidentale del paese, quella concentrata

nella cosiddetta “mezzaluna verde” – attorno alle quattro province di Beni, Pando,

Tarija e Santa Cruz, la più ricca di risorse naturali e industrializzata, osteggia

soprattutto le misure riguardanti il ruolo dello Stato nell’economia: essa chiede che le

spetti una fetta più consistente dei guadagni delle attività concentrate in quell’area,

prevalentemente legate all’estrazione di idrocarburi. In gioco è anche la questione

della ridefinizione dei rapporti tra amministrazione centrale e locale: gli enti locali

chiedono una maggiore autonomia, soprattutto in materia fiscale e di gestione delle

forze di polizia. Queste rivendicazioni sono sfociate, nel settembre 2008, in violenti

scontri, culminati nel “massacro di Pando”, regione vicino al Brasile, dove è stato

ucciso un numero imprecisato di contadini sostenitori di Morales e del Mas. A

capeggiare le rivolte delle province della “mezzaluna verde” contro il governo è Santa

Cruz, senza dubbio la regione più ricca e dinamica del paese, alla parola d’ordine di

«sì all’autonomia, no ai cocaleros».

Il 10 agosto 2008 si è tenuto un duplice referendum revocatorio, nei confronti

di Morales, nonché di otto dei nove governatori dipartimentali. Il referendum ha

confermato la fiducia al presidente indio, con una percentuale di consensi superiore

a quella ottenuta nelle elezioni del 2005. Anche la maggior parte dei governatori, tra

cui tutti quelli della “mezzaluna verde”, sono stati riconfermati. Rafforzate dai risultati

del referendum, entrambe le parti hanno ritenuto di dover continuare sulla stessa

linea di azione finora adottata. Morales annuncia, quindi, di voler indire un altro

referendum, questa volta sulla nuova Costituzione (ipotesi già caldeggiata nei mesi

precedenti). Tale decisione è alla base delle violenze di settembre. Il nuovo

documento costituzionale, il cui progetto è stato approvato dall’Assemblea

costituente nel dicembre 200772, dovrebbe garantire l’integrità della Bolivia e

sancirne il carattere di Stato unitario e plurinazionale, organizzato attorno alle

strutture comunitarie tipicamente indigene, all’interno delle quali il popolo ha il diritto

                                                            72 Va precisato che l’approvazione del progetto di Costituzione non è avvenuto nel rispetto completo delle norme in materia. È prevista infatti, per l’approvazione, la maggioranza dei 2/3 dei membri dell’Assemblea costituente, mentre in questo caso, si è raggiunta solo la maggioranza dei 2/3 dei presenti e votanti, dal momento che l’opposizione aveva deciso di non partecipare alla seduta, ritenendo illegale il cambio di sede da Sucre a Oruro, roccaforte del Mas. Si veda; Niccolò Locatelli, La Bolivia al collasso cerca il dialogo, 17 settembre 2008, http://temi.repubblica.it/limes/la-bolivia%20al%20collasso%20cerca%20il%20dialogo/ . Tra le questioni emerse durante i lavori della costituente, c’è anche quella della capitale dello Stato. Da maggio 2007, la città di Sucre, attuale capitale costituzionale, rivendica il rango di capitale a tutti gli effetti.

44  

e il dovere di provvedere alla sostenibilità delle proprie terre e delle loro risorse.

Secondo l’opposizione, invece, il testo tenderebbe a creare una Bolivia «interamente

india» e non darebbe ai vari dipartimenti sufficiente autonomia, tanto da spingerli a

indire referendum illegali per l’approvazione di statuti, che prevedono un aumento dei

loro poteri73.

Gli accordi firmati dalle parti, dopo le vicende di settembre, hanno imposto un

rallentamento nel processo di convocazione del referendum sulla nuova Carta

Magna. Il risultato più importante, però, è la ripresa del dialogo fra governo e

province all’opposizione.

1.3.3 La politica estera boliviana

Rispetto ai cambiamenti nella politica interna, che proseguono lungo una

strada ancora molto accidentata, in politica estera Morales è riuscito a raggiungere

un livello considerevole di autonomia, soprattutto nei confronti della tradizionale

ingerenza degli Stati Uniti. L’opposizione all’imperialismo yankee, alle regole del

Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, l’ha visto a fianco a Cuba e

Venezuela in un’alleanza strategica all’interno dell’Alternativa Bolivariana para las

Américas (ALBA).

Di fronte ai paesi membri dell’Assemblea generale dell’ONU, Morales ha

chiesto il trasferimento della sede delle Nazioni Unite dagli Stati Uniti a un altro

paese, neutrale, per evitare episodi di «intimidazione da parte delle autorità di New

York», dei quali si è detto già testimone74. Queste dichiarazioni mostrano come i

rapporti tra Bolivia e USA siano definitivamente e inevitabilmente cambiati rispetto al

passato, nonostante Morales affermi di avere interesse a coltivare buone relazioni

con la grande potenza. Nel settembre 2007, però, a La Paz, sono stati firmati con il

presidente iraniano Ahmadinejad gli accordi sull’uso del nucleare pacifico. Su tale

argomento, la posizione di Morales è che tutti rinuncino all’uso militare del nucleare,

ma che non possono essere certamente gli USA, o altri paesi europei, che

possiedono essi stessi l’atomica, a imporre le regole.

                                                            73 Il 4 maggio 2008, Santa Cruz è stata la prima provincia a tenere un referendum sulla propria autonomia amministrativa e fiscale, preambolo alla costituzione di uno Stato federale. Tale misura non è stata riconosciuta dal governo legittimo, che ha denunciato gli Stati Uniti di controllare i fili del movimento secessionista di Santa Cruz, né dall’Organizzazione degli Stati Americani, che auspicano una soluzione pacifica del conflitto interno boliviano. 74 Gianni Perrelli, Questione Morales, «L’Espresso», 26 ottobre 2007, http://espresso.repubblica.it/dettaglio//1844867/&print=true .

45  

Con riguardo ai rapporti con gli altri paesi del continente sudamericano,

Morales afferma con forza l’autonomia della Bolivia. Dichiara di aver superato la

retorica antiamericanistica di Chávez, e di non condividere completamente il suo

progetto del “socialismo del XXI secolo”, ma solo il discorso intorno ai «temi

dell’uguaglianza, della giustizia, dell’orgoglio e della dignità nazionali, del rispetto per

la sovranità»75. Il presidente boliviano vuole portare il suo paese al centro della

politica del continente sudamericano: ha firmato accordi con gli Stati vicini, come il

Cile e il Brasile76, che ha promesso anche nuovi investimenti petroliferi, tramite la

Petrobras, la sua azienda di Stato.

Una Bolivia pienamente sovrana deve superare i confini regionali e

catapultarsi all’interno dell’arena internazionale. Per fare ciò, il presidente cocalero

non può che adottare un atteggiamento pragmatico, che lo porti anche a interessarsi

a progetti di spessore internazionale che coinvolgano gli Stati Uniti, come quello

promosso da Lula di sfruttamento di forme alternative di energia rispetto al petrolio e

gas, come l’idroelettrico e i biocombustibili.

                                                            75 Ibidem. 76 È stata prevista, ad esempio, la costruzione di un’autostrada interoceanica che collegherà, probabilmente nel 2009, il Brasile al Cile, attraverso la Bolivia.

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1.4. ECUADOR

1.4.1 Verso la costruzione di uno Stato di diritto

La Repubblica dell’Ecuador nasce, nel 1830, dalle ceneri dell’antico Impero

Inca e dalle spartizioni territoriali che sono seguite alla conquista spagnola77. È uno

Stato il cui territorio è tra i più piccoli del continente (283.560 km2), ma che racchiude

una straorinaria varietà di specie animali e vegetali; ricchezze artistiche; risorse

primarie, come l’acqua, in quantità sufficienti da garantire il sostentamento di tutta la

popolazione. L’Ecuador è uno Stato, che può vantare anche, primo paese della

regione, il passaggio a un regime democratico, alla fine degli anni Settanta del

secolo scorso, attraverso un accordo tra forze civili e militari, secondo un modello di

transizione pacifica, seguito poi da altri paesi latini78. L’Ecuador non può però

considerarsi un paese sviluppato, né la sua popolazione gode delle migliori

condizioni di vita a causa dell’instabilità politica che lo caratterizza, risultato di conflitti

cronici e irrisolti di varia natura, tra cui guerre con gli Stati limitrofi per questioni

territoriali79. Tra i problemi più urgenti derivanti da questa situazione, c’è quello legato

alla presenza, al confine con la Colombia, dei narcotrafficanti e dei guerriglieri delle

Farc80. Fin qui, lo scenario è quello tipico dei paesi sudamericani; ma questo piccolo

Stato, assieme alla Bolivia, si sta mostrando capace di proporre una soluzione ai

problemi della società latinoamericana del XXI secolo e, in particolare, al problema

dell’effettività di Stati plurietnici. In Ecuador, infatti, su una popolazione di quasi

quattordicimilioni di abitanti, la maggioranza sono meticci (65%); gli indigeni

costituiscono il 25% del totale; i neri il 3%, mentre gli spagnoli e altri gruppi il 7%81.

Presenti sul territorio ecuadoriano in percentuali inferiori rispetto al rapporto esistente

in Bolivia, i popoli indigeni hanno comunque avuto un peso considerevole nella storia

repubblicana dell’Ecuador e oggi ne stanno indirizzando i cambiamenti in atto. Essi si

                                                            77 Prima parte dell’Impero Inca, nel 1563 diventa governatorato della Spagna e, nel 1717, parte del Vicereame di Nuova Granada (costituito da Nuova Granada – cioè Colombia – Venezuela e Quito), trasformatosi poi, acquistata l’indipendenza tra il 1819 e il 1822, in una federazione chiamata Gran Colombia. Nel 1830, Quito si stacca dagli altri territori della federazione e prende il nome di Repubblica dell’Ecuador. 78 Osvaldo Hurtado, Os problemas de governabilidade da democracia equatoriana, «DEP: Diplomacia, Estratégia e Política», 3, Projeto Raúl Prebisch, Brasília 2005 pp. 81-82. Osvaldo Hurtado è stato presidente della Repubblica dell’Ecuador dal 1981 al 1984, dopo la morte accidentale del presidente Jaime Roldós Aguilera, ed è uno dei fondatori di Democracia Popular, oggi Unión Demócrata Cristiana. 79 Tra il 1904 e il 1942, l’Ecuador ha perso territori in una serie di conflitti con gli Stati vicini, l’ultimo dei quali con il Perù, nel 1995, si è risolto solo nel 1999, anche se permangono dubbi su possibili ulteriori rivendicazioni da parte del Perù ai danni dell’Ecuador, come sta facendo con il Cile. Si veda: León Roldós, Ecuador: Sus temas fundamentales, «DEP: Diplomacia, Estratégia, Política», 8, 2007, pp. 128-129. 80 Milizie guerrigliere, che da anni minacciano il governo colombiano con attentati e gravi episodi di sangue. 81 La maggior parte dei popoli indigeni abitano sulle montagne, con un ottimo livello di integrazione nei confronti del resto della popolazione, a differenza di quelli che abitano nell’est o nella foresta. Dati forniti dalla CIA, Central Intelligence Angency, statunitense: https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/print/ec.html .

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sono organizzati in movimenti, che hanno dato vita alla Conaie82, una

confederazione capace di creare alleanze e rovesciare ben tre governi in otto anni

(quello di Abdalan Bucaran nel 1997, Jamil Mahuad nel 2000, Lucio Gutiérrez nel

2005), ma non abbastanza forte per esprimere proposte concrete di governo.

L’azione politica dei movimenti indigeni ecuadoriani si è evoluta dalle rivendicazioni

dell’identità culturale e dell’importanza del recupero e del mantenimento della lingua

e della cultura autoctona, alle lotte per la terra e per l’acqua, fino alla formazione,

negli anni Sessanta, di una classe dirigente indigena. Questa, però, finora ha

delegato le soluzioni politiche e la costruzione del post-neoliberismo a forze estranee

ai movimenti, che in seguito ne hanno tradito gli ideali e infine indebolito. Oggi, questi

movimenti, facendo da traino anche per altre fasce della società, per la maggior

parte provenienti dai ceti medi, hanno trovato nuovo slancio e nuova forza. Hanno

deciso di farsi sentire e protestare contro la grave crisi economica e le politiche

neoliberiste; contro la crisi di legittimità di tutte le istituzioni, la corruzione dilagante e

il nepotismo governativo.

All’inizio del nuovo secolo, l’Ecuador si presenta come un paese, dove le

strategie concepite per la crescita economica e l’apertura ai mercati internazionali

hanno indebolito il potere dello Stato come garante di diritti, produttore di beni

pubblici di qualità e come promotore efficiente di uno sviluppo umano stabile e

sovrano. Si è scelto di puntare sulle esportazioni e quindi sono stati individuati pochi

settori di punta, come quello dell’estrazione del greggio (l’Ecuador è il quinto

produttore di petrolio in America Latina), causando la semplificazione della

produzione nazionale e generando gravi disequilibri sociali. La scelta di puntare sul

settore energetico, ha legato troppo le sorti dell’economia ecuadoriana alle

oscillazioni del prezzo internazionale del petrolio. Inoltre, questo settore richiede

tecnologie avanzate e soprattutto mano d’opera altamente qualificata, mentre la

maggior parte della popolazione ecuadoriana ha un basso livello di specializzazione.

Riguardo le importazioni, la scelta è ricaduta su beni di consumo non accessibili

all’intera popolazione. Questo insieme di fattori ha frenato le possibilità reali di

sviluppo del paese: solo la classe dominante ha beneficiato dei profitti della debole

crescita economica. La situazione non è molto migliorata in seguito alla decisione,

presa nel 2000, di adottare il dollaro quale moneta d’uso corrente, per favorire le

                                                            82 La Conaie (Confederación de las Nacionalidades Indígenas del Ecuador), è il più vecchio e organizzato movimento indigeno, nato nel 1986, al fine di garantire l’unione delle diverse organizzazioni indigene e quindi la rappresentanza di tutti i popoli, le etnie, le culture, le nazionalità che abitano l’Ecuador, portando avanti la lotta per i loro diritti.

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esportazioni e così migliorare la bilancia estera. Fino a oggi si registra un

peggioramento del livello di povertà esistente. Attualmente, sono le rimesse degli

emigrati a costituire una voce importante delle risorse pubbliche.

Di fronte a una classe politica incapace di delineare un progetto compiuto di

sviluppo del paese, che andasse ben al di là della sola accumulazione di ricchezze e

privilegi personali; di fronte ad una classe politica fortemente condizionata da forze

esterne; i movimenti indigeni e sociali hanno scelto di scendere in piazza. Nell’aprile

2005, con un crescendo di mobilitazioni, la cosiddetta “rebelión de los forajidos”, essi

hanno costretto alla fuga il presidente Lucio Gutiérrez: uno di quei politici che proprio

le lotte dei movimenti popolari per l’acqua e il gas, nel 2000, avevano portato al

potere83. Le rivendicazioni delle forze sociali si sono concentrate sulla richiesta di

cambiamento, ricercato per mezzo delle istituzioni democratiche a loro disposizione:

si è chiesta la convocazione di un’Assemblea costituente, che redigesse una nuova

Carta Magna e formalizzasse così tale cambiamento. Nell’idea di chiudere col

passato e inaugurare una nuova epoca di giustizia e uguaglianza sociali, le proteste

si sono dirette anche contro la firma del Trattato di libero commercio con gli Stati

Uniti, contro il coinvolgimento dell’Ecuador nel Plan Colombia84 e contro la

permanenza nel paese della compagnia petrolifera nordamericana Occidental,

accusata di non aver rispettato il contratto sottoscritto col governo. La società

ecuadoriana chiede di essere libera e sovrana. Tali rivendicazioni non sono state

accolte con serenità dal successore di Gutiérrez, Alfredo Palacio. Il carattere debole

del suo governo, ha favorito i vecchi partiti, che hanno avuto lo spazio di azione

sufficiente per riacquistare potere. Siamo di fronte al sofisma del potere secondo cui

il popolo è teoricamente sovrano, ma dal momento che il dettato costituzionale

stabilisce che esso manifesti la sua volontà attraverso i partiti politici, devono essere

gli stessi partiti a decidere in ultima istanza ciò che il popolo vuole85. Si ritorna a un

sistema partitocratico, corrotto e diretto dagli interessi economici: un sistema, che

Rafel Correa, ottavo presidente della Repubblica dell’Ecuador, ha promesso di

cambiare.

                                                            83 Gutiérrez vince le elezioni del 2002, presentandosi a capo di un congiunto di forze progressiste, tra le quali figurava anche la Conaie. Le scelte di liberismo estremo compiute durante il suo mandato presidenziale, ne hanno fatto, però, un nemico dei movimenti indigeni e sociali, che lo avevano sostenuto, tanto da arrivare a combattere per la sua destituzione. 84 Il Plan Colombia è un progetto definito nel 1999 dai governi colombiano e statunitense, allo scopo di arginare il problema del narcotraffico e risolvere il conflitto armato tra governo e guerriglia nel paese sudamericano. 85 Roberto Bugliani; Jaime Pilatuña; Eduardo Delgado, Ecuador: La lunga marcia indigena, in America Latina: L’arretramento de los de arriba, a cura di Aldo Zanchetta, Massari editore; Fondazione Neno Zanchetta, Lucca 2006, p. 263.

49  

1.4.2 La riforma costituzionale di Rafael Correa

Economista e già ministro delle Finanze nel governo di Palacio, formatosi in

Belgio e negli Stati Uniti86, vicino alla sinistra cristiana e a capo di un nuovo partito

(Alianza País) dalle connotazioni populiste e nazionaliste, Rafael Correa vince le

elezioni presidenziali del novembre 2006. Egli batte il suo rivale, l’imprenditore Álvaro

Noboa, magnate delle banane, con un largo margine, rispecchiando la frattura che si

è creata nel continente sudamericano tra la «corrente socialista in ascesa e gli alleati

di Washington»87. La sua vittoria simboleggia e allo stesso tempo si nutre della voglia

di cambiamento della società ecuadoriana. Lo stesso Correa ha affermato che con la

sua elezione è stata sconfitta «la politica dei miliardari e della mafia» e che sarebbe

iniziata un’era di «giustizia sociale, istruzione, salute, lavoro, casa e dignità per tutte

e tutti». Egli ha delineato un programma di riforma del paese, dove trova posto anche

la richiesta dei movimenti indigeni di essere trattati come “nazione” e quindi di

riconoscimento dello Stato ecuadoriano come “plurinazionale” e non solo multietnico.

Già in campagna elettorale – una campagna dai toni fortemente nazionalisti e

moralizzatori, che fa pensare allo stile di Chávez e Morales, il nuovo presidente

aveva ripreso il discorso relativo alla riunione di un’Assemblea Costituente per

riscrivere la Carta Magna. Tale decisione è stata sottoposta alla volontà popolare,

che si è espressa nel referendum del 30 settembre 2007 in senso positivo. Sono stati

nominati membri dell’Assemblea per la maggioranza uomini tra le fila del partito

governativo. Ciò ha, senza dubbio, favorito i progetti di Correa, il quale ha potuto

lavorare indisturbato alla riforma costituzionale. È stato deciso che la Carta

costituzionale, che sarebbe scaturita dai lavori dell’Assemblea, sarebbe stata a sua

volta sottoposta a referendum per l’approvazione: il 28 settembre 2008, il referendum

popolare ha detto sì alla nuova Costituzione, con una maggioranza del 65%. I no

hanno prevalso a Guayaquil, centro economico del paese, ma con un margine

esiguo. I consensi sono arrivati, quindi, da tutte le province dello Stato, il che fa

presumere che l’Ecuador non dovrà affrontare gli stessi problemi interni, che

affliggono invece la Bolivia di Morales. Guayaquil88, a differenza delle province

                                                            86 Correa ha conseguito un PhD in Economics alla George Mason University in Virginia, USA. 87 Sulle elezioni di novembre 2006 si vedano: Ecuador, Correa vince le elezioni. Si allarga il fronte anti-Bush, «La Repubblica», 26 novembre 2006; Correa, il Chávez dell’Ecuador in lotta per la presidenza, «La Repubblica», 27 novembre 2006. 88 Rispetto al caso di Santa Cruz in Bolivia, Guayaquil ha potuto attuare, negli ultimi anni, misure dirette alla più ampia liberalizzazione economica, favorendo un aumento degli investimenti e lo sviluppo delle sue attitudini commerciale e imprenditoriale, senza troppe interferenze da parte del governo centrale. Si veda: Niccolò Locatelli, Una nuova Costituzione per l’Ecuador, 04 ottobre 2008, http://temi.repubblica.it/limes/una-nuova-costituzione-per-lecuador/.

50  

orientali boliviane, ha riconosciuto la vittoria del sì nel referendum costituzionale e,

nelle sue rivendicazioni autonomiste, si muove all’interno dei canali istituzionali.

Correa ha saputo proporsi al suo popolo, non negandogli l’esercizio di quella

sovranità, che è propria delle società democratiche. Si apre, ora, una fase di

transizione, premessa alla costruzione del “socialismo del XXI secolo”.

«La nuova Costituzione è un mix originale di statalismo, libertà civili e richiami

alla tradizione andina»89. Nei 444 articoli che la compongono, si trovano disposizioni

riguardo il riconoscimento delle unioni omosessuali, anche se l’istituto del matrimonio

e l’adozione sono riservati alle coppie eterosessuali; si trova un articolo che potrebbe

aprire la strada alla legalizzazione dell’aborto; si attribuisce la titolarità dei diritti non

solo alle singole persone, ma anche a gruppi, comunità, popoli. Non manca il

riferimento alla Pachamama degli Inca; si definiscono le lingue etniche quechua e

shuar come lingue di relazione interculturale, da affiancare allo spagnolo, lingua

ufficiale; è previsto il delitto di etnocidio, la violazione, cioè, dei diritti dei popoli

indigeni, che hanno deciso di vivere in isolamento. Accanto agli istituti di democrazia

rappresentativa, si prevedono anche quelli della democrazia diretta e comunitaria e

quindi l’iniziativa di legge popolare, nonché la possibilità di revocare il mandato

presidenziale. È creato il consiglio di partecipazione cittadina e controllo sociale.

La nuova Costituzione prevede la possibilità di rielezione del presidente della

Repubblica, una sola volta; a questi sono assegnati importanti poteri in materia di

controllo della politica monetaria e della riduzione dei poteri degli enti locali, nonché il

potere di sciogliere l’Assemblea Nazionale, previa approvazione della Corte

Costituzionale, provvedimento a cui seguono nuove elezioni legislative e

presidenziali.

La Carta Magna non rompe drasticamente con i princìpi del mercato e della

proprietà privata, ma mostra i segni di una profonda volontà di cambiamento. Allo

Stato viene restituito un ruolo centrale: a questo spetta di garantire il sumak kawsay,

un’espressione quechua che indica il benessere, e quindi di provvedere alla

produzione di beni e servizi per tutti. Correa ha escluso nazionalizzazioni nel settore

energetico, ma ha annunciato anche di voler obbligare le multinazionali straniere a

mantenere i livelli di investimento e di voler aumentare di molto le royalties che

vanno allo Stato. Il ricavato andrebbe a finanziare le politiche sociali, sperando in

                                                            89 Rocco Cotroneo, Plebiscito per la nuova Carta: La via ecuadoriana al socialismo, «Corriere della Sera», 30 settembre 2008. Sulle misure introdotte dalla nuova Costituzione a cui si fa riferimento, si veda anche: Niccolò Locatelli, Una nuova Costituzione per l’Ecuador, 04 ottobre 2008, http://temi.repubblica.it/limes/una-nuova-costituzione-per-lecuador/ .

51  

questo modo di arginare anche il problema dello spopolamento del paese. Nuovo

slancio si vuole dare all’agricoltura e alla pesca nazionale; e si vuole sostenere le

piccole e medie imprese. Sul debito estero Correa ha confermato che l’Ecuador

manterrà i propri impegni, finché gli sarà possibile, pur non ritenendo veramente

legittime le misure imposte al suo paese. Riguardo la dollarizzazione, ritiene troppo

rischioso abbandonarla in questo momento. Non intende invece cedere alle pressioni

statunitensi sulla firma del Trattato di libero scambio, pur consapevole di rischiare

una pesante diminuzione degli investimenti USA, finora una delle voci più consistenti

del flusso di capitali verso l’Ecuador. Perù e Colombia che hanno sottoscritto accordi

di questo genere e che possono accedere al mercato statunitense a tasso zero

stanno acquistando competitività rispetto al Paese. Nella nuova Costituzione sono

formalizzati i princìpi della sovranità statale, dell’uguaglianza giuridica degli Stati,

della non-ingerenza e dell’anti-imperialismo. Si rifiuta l’apertura di qualsiasi base

militare straniera in Ecuador e quindi anche la sopravvivenza della base statunitense

a Manta, concessa nel 199990.

La riforma costituzionale è stata concepita da Correa, secondo le sue

dichiarazioni, con lo scopo principale di garantire un sistema di democrazia

veramente partecipativa, abbandonando il passato di corruzione, malgoverno,

partitocrazia e di imposizioni economiche esterne. Il presidente crede nella possibilità

di assicurare al suo paese uno sviluppo sostenibile, che non emargini la

maggioranza della popolazione e che le permetta di vivere in pace e armonia con la

natura, nel rispetto della cultura e delle relazioni che i diversi gruppi, popoli e

nazionalità, che abitano il paese, hanno da sempre instaurato con essa. Ricerca una

crescita che garantisca un miglioramento nelle condizioni generali di salute e

l’accesso per tutti alla conoscenza e all’acquisizione di particolari competenze, che

permettano al cittadino di vivere in maniera soddisfacente del proprio lavoro e di

realizzare ciò che considera come obiettivo di vita desiderabile, superando l’idea di

garanzia di un semplice livello di sussistenza. Il presidente Correa ha delineato un

piano nazionale di sviluppo, che si concentri sul valore “qualitativo” della crescita

economica e non solo “quantitativo”, pensando di offrire con esso anche un modello

valido a livello globale, che riconosca l’esistenza di beni che non siano

                                                            90 Nei giorni in cui l’Assemblea costituente stava per insediarsi, Rafael Correa ha intrapreso un viaggio in Cina, il cui risultato è stato un accordo con questo paese in cui si offre la concessione della base di Manta al momento del ritiro degli Stati Uniti nel 2009. La base verrebbe gestita da Cina e probabilmente anche Brasile, che avrebbero così uno scalo intermedio sicuro in un paese amico, cioè non troppo legato agli USA. Si veda: Antonio Moscato, Il risveglio dell’America Latina: Storia e presente di un continente in movimento, Edizioni Alegre, Roma 2008, p. 135.

52  

necessariamente legati alle dinamiche di mercato e quindi non per questo privi di

valore91.

L’abilità politica del presidente è stata riconosciuta anche dai suoi avversari.

Ciò nonostante, non sono mancate le critiche, sia dalla destra che dalla sinistra. La

stampa ecuadoriana, interamente in mano alle élites bianche e privilegiate, lo accusa

di ogni possibile crimine, anche a costo di cadere in imbarazzanti contraddizioni. La

destra sostiene che la nuova Costituzione sia solo un passo ulteriore sulla strada del

«totalitarismo in versione “socialismo del XXI secolo”», come sostenuto da Jaime

Nebot, sindaco di Guayaquil e già candidato alla presidenza col partito Social

Cristiano. A sinistra, invece, i movimenti sociali ed indigeni ed i sindacati rivendicano

la paternità della spinta al cambiamento che, a loro parere, il presidente Correa si

sarebbe arrogato. Un cambiamento che, comunque, ai loro occhi non è ancora

abbastanza radicale92. Il suo pragmatismo ha garantito a Correa il sostegno della

sinistra progressista e socialdemocratica latinoamericana (quella ad esempio di

Brasile, Cile, Argentina e Uruguay), lavorando secondo una linea moderata rispetto a

quella del venezuelano Chávez, nei confronti del quale sostiene una certa autonomia

decisionale, pur non negando la simpatia nei suoi riguardi. «Obiettivo strategico» è

definita l’integrazione con gli altri paesi del continente sudamericano. La “ragion di

Stato” ha, però, portato Correa a rifiutare, per il momento, di entrare nell’Alba; mentre

ha ottenuto dagli Stati Uniti, quale riconoscimento dell’operato del governo

ecuadoriano contro la produzione e commercializzazione di stupefacenti, il rinnovo

del trattato commerciale, che permette all’Ecuador di esportare negli Stati Uniti senza

l’imposizione di tasse doganali93. Proprio sul tema del narcotraffico e della guerriglia

colombiana, rimangono delicati i rapporti con Medellín. Nel marzo 2008, una crisi

diplomatica, subito risoltasi e senza gravi conseguenze sullo stato delle relazioni

interstatali, ha coinvolto Ecuador, Colombia e Venezuela. Il motivo scatenante è

stata l’incursione armata dell’esercito colombiano in territorio ecuadoriano, allo scopo

di eliminare un leader delle Farc, Raul Reyes. L’incursione è stata denunciata da

Quito e si è raggiunto un accordo in sede OEA (Organización de los Estados

Americanos), per una risoluzione che ammetta, senza però condannare, la

                                                            91 Fander Falconí Benítez, La economía del Ecuador: Un balance y una nueva noción de desarrollo, «DEP: Diplomacia, Estratégia, Política», Brasília, Projeto Raúl Prebisch, 7, 2007, p. 128. Fander Falconí Benítez è Segretario nazionale della pianificazione della Repubblica dell’Ecuador. 92 Niccolò Locatelli, Una nuova Costituzione per l’Ecuador, 04 ottobre 2008, http://temi.repubblica.it/limes/una-nuova-costituzione-per-lecuador/ . 93 Ibidem.

53  

violazione della sovranità territoriale ecuadoriana effettuata dalla Colombia94. Ciò che

lascia perplessi in questa vicenda è, però, l’atteggiamento titubante e contraddittorio

di Correa; la sua mancanza di risoluzione se paragonata, invece, all’intervento

chiassoso e alle azioni eclatanti da parte di Chávez a sostegno di Quito, anche se

non direttamente coinvolto nella questione95. Correa non ha saputo fornire

spiegazioni precise riguardo la presenza di guerriglieri colombiani sul suolo

nazionale, e ciò ha insinuato inevitabilmente dubbi sui rapporti intrattenuti con le

Farc, soprattutto se si pensa alla vicinanza ideologica tra Ecuador e Venezuela e agli

sforzi di Chávez perché venga riconosciuto alla guerriglia colombiana lo status di

forza belligerante. Correa si è limitato a sostenere l’impegno del suo paese nella

risoluzione del grave problema che affligge il suo vicino; e lo ha promesso anche ai

suoi cittadini, garantendo sicurezza su tutto il territorio, specialmente nelle zone di

confine. Il presidente ecuadoriano ha garantito protezione per le migliaia di rifugiati

colombiani nel suo paese96, che scappano dalla violenza e dall’incertezza sul proprio

futuro, facendo appello ai legami di fratellanza tra i due popoli e alla loro comune

origine. Il suo obiettivo, secondo le sue dichiarazioni, sarebbe quello di realizzare un

processo di pace, sviluppo e sicurezza, che abbia quale priorità il rispetto dei diritti

umani97.

                                                            94 Niccolò Locatelli, L’impossibile guerra fra Colombia e Venezuela, 7 marzo 2008: http://limes.espresso.repubblica.it/pop_stampa_articolo.php?artID=515 . 95 Nelle dichiarazioni del presidente venezuelano alcuni hanno intravisto l’intenzione di ravvivare la retorica anti-americanista o comunque di imporre la sua presenza nelle vicende sudamericane, in un momento in cui, sul piano della politica interna, la sua forza e credibilità sono minacciate dalle difficoltà economiche e dalla sconfitta nel referendum del 2 dicembre 2007. 96 Secondo i rapporti dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, nel 2007 circa 250.000 colombiani hanno cercato asilo in Ecuador, molti dei quali non hanno voluto essere registrati come rifugiati, per paura di deportazioni. 97 Rafael Correa Delgado, A plan for Ecuador, «DEP: Diplomacia, Estratégia, Política», 6, Projeto Raúl Prebisch, Brasília 2007.

54  

2.RELAZIONI INTERNAZIONALI

2.1 Nuovi rapporti all’interno dell’“emisfero occidentale”

La letteratura relativa all’appartenenza dell’America Latina al mondo

occidentale – inteso nel senso culturale e politico del termine e quindi non

geograficamente limitato alla sola Europa e ai legami storici con il vecchio continente

– è vastissima. Si parla di un «mondo dedotto», di «un’invenzione dell’Europa»98. La

prossimità alla “civiltà” occidentale, per usare un’espressione cara a Samuel

Huntington, ha indubbiamente influenzato lo sviluppo socio-economico dei paesi

latinoamericani. Gli scambi culturali, tecnici, le migrazioni hanno creato una forma di

appartenenza, che non si giustifica, però, solo per la storia e la cultura del Sud

America, ma anche per una sua adesione volontaria al mondo occidentale, che non

ha riscontro nelle altre aree dell’Africa, Medio Oriente e Asia99.

I cambiamenti a cui si assiste, negli ultimi decenni, in America Latina, e che

testimoniano della sua definitiva entrata nelle forme politiche occidentali – la scelta di

regimi democratici, la diversa forma di partecipazione dei cittadini alla politica

nazionale, l’apertura ai mercati internazionali, sono stati accompagnati dalla

costruzione di nuove forme di cooperazione emisferica e dalla ridefinizione della

collaborazione con Stati Uniti ed Europa100. Per molto tempo, si è sostenuto –

riferisce Alain Rouquié – che gli Stati dell’America Latina, a causa del predominio di

elementi esterni, non fossero attori internazionali autonomi, ma «soggetti passivi, che

potevano avere una politica estera, ma non una politica internazionale»101. Oggi, al

contrario, sembra che alcuni di essi incomincino a svolgere un ruolo extraregionale

se non mondiale, che modifica profondamente la realtà delle relazioni internazionali

e, in primo luogo, interamericane. Il Brasile è certamente uno di questi paesi. Anche i

tre Stati andini, Venezuela, Bolivia ed Ecuador, stanno mostrando di possedere forza

                                                            98 Alain Rouquié ricorda Valéry quando parla di un mondo “dedotto”, riferendosi al mondo di cui farebbe parte il continente sudamericano: «un’“invenzione” dell’Europa» – continua Rouquié – «che la conquista ha introdotto nella sfera culturale occidentale … Da questo punto di vista l’America latina è stata percepita per molto tempo come il Terzo Mondo dell’Occidente o l’Occidente del Terzo Mondo. Ruolo quanto mai ambiguo, all’interno del quale il colonizzato si identifica con il colonizzatore». Si veda: Alain Rouquié, L’America latina. Introduzione all’Estremo Occidente, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 21. 99 Ludovico Incisa di Camerana, Il Terzo Occidente, in AA.VV., Panamerica Latina, «Limes», 4, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2003. Hegel parlava di continente del futuro, considerando il modo in cui l’America Latina sperimentava l’apporto del mondo occidentale e che faceva immaginare la realizzazione della raza cosmica di Vasconcelos, la costituzione, cioè, di un continente pacificato dalla vocazione all’armonia, alla multiculturalità e al plurilinguismo, come risultato spaziale e temporale di quel concerto di fattori umani e razionali che è l’Occidente. Si veda: Riccardo Campa, América Latina y la modernidad, Universidad Nacional Autónoma de México, México 2006, p. 34. 100 Marcello Carmagnani, L’altro Occidente: L’America Latina dall’invasione europea al nuovo millennio, Einaudi, Torino 2003, pp. 405-406. 101 Alain Rouquié, op. cit., p. 327.

55  

politica, ideologica e potenzialità di sviluppo economico e sociale. Essi sono

soprattutto tra i paesi con le maggiori risorse energetiche al mondo. Se tali

potenzialità si tradurranno in realtà è ancora presto per dirlo.

Scopo di questa seconda parte del lavoro è analizzare il modo in cui questi

Stati sfruttano le loro risorse politiche, economiche e ideologiche, per costruirsi un

ruolo di rilievo dentro e fuori il continente sudamericano. Il Venezuela, per la

particolarità delle scelte strategiche del suo leader e per l’ammontare delle sue

riserve energetiche, è il paese che attira maggiormente la curiosità di studiosi, politici

ed economisti, della stampa, nel tentativo di delineare possibili scenari futuri, in un

mondo in continua evoluzione.

2.2 La fine del “cortile di casa” statunitense

L’appartenenza del continente sudamericano all’“emisfero occidentale” si

esplica soprattutto nei legami esistenti con gli Stati Uniti. Il destino del Sud America è

sempre stato, infatti, dipendente dall’andamento dei rapporti economici con

Washington e dagli orientamenti della politica estera del potente vicino. Già a partire

dalla fine del secolo scorso, mutato il contesto internazionale dopo la caduta del

muro di Berlino, ma soprattutto dopo l’11 settembre, si è sentita con maggiore

urgenza la necessità di ridefinire i rapporti tra America Latina e Stati Uniti.

Washington ha progressivamente perso interesse per l’America Latina. Il suo

coinvolgimento negli affari sudamericani si è limitato a situazioni particolarmente

problematiche o urgenti. L’impressione generale che si è insinuata nella maggior

parte dei paesi latini è che gli Stati Uniti si siano occupati del Sud solo per il

terrorismo e il narcotraffico, attraverso una politica basata sullo sfoggio della forza e

sull’arroganza di una grande potenza mondiale. Così, aprendosi all’Europa e all’Asia

e avviando, in parallelo, un processo di collaborazione politica e di costruzione di

blocchi commerciali latinoamericani, essi hanno manifestato la loro intenzione di

ridimensionare il potere e l’influenza degli USA. La strategia di fondo è quella di

diversificare i loro interlocutori. Tale obiettivo, però, gli impone di non abbandonare

completamente le relazioni con Washington: gli Stati Uniti rimangono, infatti, il

principale partner economico dei paesi latinoamericani. Questi ultimi cercano, in

definitiva, un nuovo rapporto, che risulti il più conveniente possibile per se stessi.

Per molto tempo le amministrazioni americane da Kennedy a Reagan e a

Clinton si sono preoccupate di contenere la minaccia al proprio dominio nella

56  

regione, rappresentata da Cuba: un simbolo, più che un problema reale, rinforzato,

però, dall’influenza della comunità degli esuli cubano-americani in Florida. Oggi, i

punti focali delle relazioni USA-America Latina riguardano sempre meno la

sicurezza, la geopolitica, almeno come sono state intese finora, tantomeno

l’ideologia. Si trattano temi più pratici, come commercio, finanza, energia e altre

risorse naturali, ma anche la gestione di problemi comuni che non possono essere

risolti dai singoli paesi. Un dato importante da rilevare è il modo in cui vengono

formulate e affrontate queste tematiche; e cioè, attraverso la ricerca di intese

bilaterali, abbandonando quell’impostazione regionale, che ha sempre caratterizzato

l’approccio statunitense al subcontinente. In tale rinnovato contesto, per gli USA

sono prioritari il Messico102, il Centro America e i Caraibi. Diversa è, invece,

l’attenzione rivolta all’area andina, dove Washington deve affrontare governi ostili,

non orientati verso il mercato e con istituzioni democratiche per certi versi ancora

deboli. Non è più nelle intenzioni statunitensi escludere la sinistra al potere in

America Latina: dopotutto, sarebbe velleitario, soprattutto alla luce del cosiddetto

“giro a la izquierda” delle ultime tornate elettorali. Il modo in cui è stata condotta la

guerra in Iraq e Afghanistan ha costretto le truppe statunitensi in un impasse, che

rende difficile immaginare un intervento militare degli Stati Uniti in alcuni particolari

paesi latinoamericani. Washington manifesta una tendenza alla prudenza o

addirittura sembra ignorare personaggi scomodi, come Chávez. Pur non mostrandosi

esattamente “accomodante” nei loro confronti, tenta di orientare le vicende interne ai

loro Stati per mezzo di finanziamenti ai gruppi di opposizione103.

Una delle prime iniziative di Bush, appena eletto alla presidenza del suo

grande paese, è stata la promozione del progetto per la creazione di una grande

area di libero scambio nelle Americhe: l’ALCA, secondo l’acronimo spagnolo, Área

de Libre Comércio da las Américas. Di tale progetto si era iniziato a discutere già in

occasione del vertice delle Americhe di Miami del 1994. Esso prevedeva

l’eliminazione o riduzione delle barriere commerciali tra tutte le nazioni americane

dall’Alaska a Capo Horn, a eccezione di Cuba, e avrebbe dovuto sostituire il Nafta.

Bush ha rilanciato tale progetto, in occasione del summit di Mar del Plata del 2005.

Ma, come ha ampiamente dato risalto la stampa dell’epoca, interessata forse più alla                                                             102 I 2/3 del mercato statunitense in Sud America è oggi destinato al Messico. Si pensi anche che la prospera popolazione ispanica negli USA sta già stringendo nuovi e importanti vincoli con paesi di tutta l’America Latina; anche se il loro apporto potenziale è ostacolato dalle confuse e complesse normative di Washington in materia d’immigrazione. Si veda: Peter Hakin, Washington sta perdendo l’America Latina?, «Politica Internazionale», 1/2-3, Ipalmo, Roma 2006, p. 120. 103 Abraham F. Lowenthal, Gli Stati Uniti e l’America Latina in un’era nuova, «Politica Internazionale», 1/2-3, Ipalmo, Roma 2006, p. 106.

57  

performance di Chávez, tale tentativo è stato un fallimento. L’esito negativo di

quell’appuntamento ha convinto Bush che la strada migliore da seguire fosse quella

dei negoziati bilaterali, tesi a sollecitare l’adesione all’ALCA avvicinando i singoli

governi o gruppi sub-regionali104.

Anche in questo caso non sono mancate mobilitazioni di piazza, allo scopo di

manifestare un dissenso esteso verso gli effetti di accordi fortemente asimmetrici,

che avrebbero finito per aggravare le già precarie condizioni delle economie

sudamericane. Il subcontinente non è più il «cortile di casa» degli Stati Uniti; uno dei

pilastri della dottrina Monroe sembra ormai perduto. L’America Latina non può più

essere quel «serbatoio pressoché esclusivo di materie prime e mercato sussidiario di

sbocco a Sud del Rio Grande così come era stata per lunghi decenni in passato»105.

Ciò a causa delle scelte di politica estera degli Usa, ma anche per la sempre

maggiore autonomia dimostrata dai paesi latini nei loro confronti, che, dopotutto, ne è

anche una conseguenza. Il 12 settembre 2008, il presidente Chávez ha dichiarato

“persona non grata” l’ambasciatore degli Stati Uniti nel suo paese, Patrick Duddy, e

lo ha espulso dal Venezuela106. Tale episodio seguiva l’analoga decisione, presa il

giorno prima dal presidente Morales, di espellere l’ambasciatore americano a La

Paz. Chávez ha voluto esprimere, così, la sua solidarietà al presidente boliviano, che

aveva accusato l’ambasciatore statunitense Goldberg di sostenere, attraverso i fondi

della cooperazione Usa per combattere la droga (programma USAID), i

rappresentanti delle quattro province, che da mesi minacciano di separarsi dal resto

del Paese.

Già in occasione della crisi andina del marzo 2008 tra Colombia, Ecuador e

Venezuela, era apparsa evidente la volontà dei paesi latini di non fare ricorso, come

in passato, alla mediazione degli Stati Uniti. La crisi è stata risolta, infatti, nell’ambito

dell’OSA. In quest’occasione, però, si sono rese evidenti le intese strategiche che il

nuovo corso della politica internazionale ha determinato. La Colombia è, insieme al

Messico, il principale alleato degli Stati Uniti in America Latina, oltre ad essere l’unico

governo di destra in Sud America. Essa ha beneficiato negli ultimi dieci anni degli

aiuti di Washington, concentrati nel settore militare, per un ammontare inferiore solo

                                                            104 Nel dicembre 2005, il Perù di Toledo ha manifestato la sua adesione all’Alca e nel marzo 2006 è stato il turno della Colombia di Uribe. Quanto ai gruppi regionali, ancora a marzo 2006 prendeva il via il Cafta (Central American Free Trade Agreement) centroamericano, già siglato nell’agosto 2004. Si veda: Daniele Pompejano, L’America Latina contemporanea: Tra democrazia e mercato, Carocci, Roma 2006, pp. 10-11. 105 Valerio Castronovo, op. cit., p. 372. 106 Un episodio analogo era già accaduto nel 2007, quando lo stesso Patrick Duddy aveva sostituito William Brownfield, il precedente ambasciatore a Caracas, dichiarato persona non grata perché accusato di azioni destabilizzanti verso l’esecutivo venezuelano.

58  

a quelli destinati a Israele e Iraq e che rappresentano i 2/3 dell’aiuto militare globale

destinato alla regione. Si è già detto che la priorità degli Usa nei paesi andini sia la

lotta alla produzione di stupefacenti, di cui i cittadini statunitensi sono i principali

consumatori mondiali. Dalla Colombia proviene il 90% della cocaina che entra negli

Stati Uniti. In questo Stato si combatte anche, ormai da anni, la guerriglia marxista-

leninista e Venezuela ed Ecuador, come è noto, sono in parte accusati di rapporti

poco chiari con essa. A partire dalla lotta al narcotraffico e al terrorismo, la Colombia

è diventata, quindi, per gli Usa uno Stato strategico per il controllo dell’arco

petrolifero andino, costituito da Venezuela, Bolivia ed Ecuador107.

2.3 Il petrolio come strumento di politica estera e la ricerca di alternative

La ricchezza di risorse energetiche ha catapultato i paesi andini nella partita

che si gioca nel Sudamerica per il controllo e sfruttamento dei giacimenti di

idrocarburi. Rispetto agli altri paesi, il Venezuela occupa una posizione preminente in

tale contesto: membro dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting

Countries), è il quinto esportatore mondiale di petrolio e il nono paese produttore di

idrocarburi. Secondo stime, il Venezuela può contare su quasi 87 miliardi di barili di

petrolio greggio, che rappresentano il 6,8% delle riserve mondiali esistenti108. In tale

ambito è al sesto posto nel mondo dopo Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait e Abu

Dhabi109. Anche Bolivia ed Ecuador possono vantare giacimenti estremamente ricchi

di idrocarburi: le riserve boliviane di gas naturale, accertate, ammontano a 817                                                             107 In Colombia si contano più di 2.500 ufficiali e soldati statunitensi, inseriti direttamente nella gerarchia militare che controlla l’esercito colombiano. Anche il Mossad svolge un ruolo importante in Colombia: gli è stato, infatti, affidato il compito di addestrare corpi speciali. Si veda: Antonio Moscato, Il risveglio dell’America Latina: Storia e presente di un continente in movimento, Edizioni Alegre, Roma 2008, p. 178. Gli Stati Uniti hanno anche costruito in Colombia due basi militari, in posizioni strategiche: quella di Arauca, al confine con il Venezuela e vicino alle immense riserve del bacino dell’Orinoco. Altre basi sono state create di recente nelle province di Putumayo e Caqueta, cioè direttamente sull’arco petrolifero. Ciò non è bastato agli Stati Uniti, che non hanno smesso di costruire basi militari nel resto dell’arco petrolifero andino. Alle foci dell’Orinoco e sui suoi delta ricchi di gas, l’accordo del 2007 tra Usa e Trinidad e Tobago ha previsto la costruzione di una base aero-navale, che dovrebbe stringere la presa sul Venezuela, sfruttando la base di Aruba, vicino allo stato venezuelano del Zulia – posizionato in prossimità della più importante massa idrica latinoamericana, il lago di Maracaibo, possiede anche importanti risorse di idro-carburanti, oltre ad essere un’importante zona agricola, che dal 2000 chiede l’autonomia – e al più grande complesso di raffinerie petrolchimiche al mondo, Punta Cardon. Una spiegazione geopolitica esiste anche con riguardo alla costruzione della base navale di Manta, in Ecuador, il cui controllo statunitense il presidente Correa non vuole rinnovare. Essa servirebbe ad assicurare agli Stati Uniti il controllo sul dipartimento colombiano di Putumayo, così come sul Golfo ecuadoriano di Guayaquil. Al fine di esercitare pressioni sulle province secessioniste boliviane, infine, gli Usa hanno iniziato la costruzione della base di Borsical, che si prevede potrà ospitare 16 mila uomini e piste per i B-52. Si veda: Alexis Troude, South America’s Kosovos, September 12, 2008, www.kosovocompromise.com . 108 ENI, World Oil and gas review 2008, http://www.eni.it/wogr_2008/ita/default.htm . 109 i dati sulle quantità di greggio in Venezuela non si possono ritenere totalmente affidabili, dal momento che la Petroleos de Venezuela SA (PDVSA), l’azienda petrolifera di Stato, non fornisce rapporti annuali dettagliati. Si veda: Genaro Arriagada, La petropolitica tra sogno e realtà, in AA.VV., Chávez-Castro: L’antiamerica, «Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 2, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2007, p. 147.

59  

miliardi di metri cubi – secondo stime rilevate in data 1 gennaio 2008 – e sono

seconde solo a quelle venezuelane (5.565 miliardi di metri cubi, alla stessa data).

Per l’Ecuador si calcolano quantità di greggio pari a 4,727 miliardi di barili (al 1

gennaio 2007) e di gas pari a 9,369 miliardi di metri cubi (al 1 gennaio 2008)110.

La particolarità dell’esperienza dei caudillos di Venezuela, Bolivia ed Ecuador

non sta solo nelle potenzialità derivanti dalle ricchezze energetiche a disposizione

delle loro politiche. Dal momento dell’elezione nei rispettivi paesi, essi hanno

sfoggiato altre armi, di carattere politico: la prima è la persistente forza di attrazione

del nazional-populismo, dalle più marcate caricature politiche di sinistra; la seconda è

un dirompente revival indio, che ha cominciato ad acquisire vere e proprie

connotazioni politiche e a tradursi tanto in programmi di governo che in specifiche

iniziative di conversione culturale. Rispetto a Morales e Correa, Chávez ha

dimostrato di volersi avvalere del vantaggio derivante dal potere contrattuale degli

idrocarburi, per acquisire, insieme a un ruolo di punta sul versante economico, anche

un’analoga leadership sul versante politico. A tale scopo, egli ha fatto un grande uso

di una terza arma: l’antiamericanismo. È soprattutto di quest’ultimo argomento che

Chávez si è servito quale punto di forza delle sue dichiarazioni pubbliche, dal

momento che nella contrapposizione agli USA si potevano accomunare, oltre alla

tradizionale retorica contro l’imperialismo yankee, l’avversione al capitalismo e

all’economia di mercato, l’insofferenza nei riguardi delle multinazionali occidentali e

le istanze statal-dirigistiche di vecchio e nuovo conio delle nomenclature locali111.

Chávez ha potuto trarre vantaggio dall’aumento dei prezzi del petrolio, seguito

alla guerra in Iraq, ma anche determinato dall’impegno del Venezuela all’interno

dell’Opec e si è lanciato in una politica estera che alcuni hanno definito «coraggiosa»

e in alcuni casi «temeraria». Oltre alle forniture a Cuba e ad altri paesi

latinoamericani, a “prezzi politici”, Chávez è volato oltre oceano, concludendo un

accordo con il sindaco di Londra Livingston, in base al quale il Venezuela fornirà

petrolio a prezzi molto bassi alla metropolitana della capitale britannica. Ciò

permetterà di far viaggiare i più poveri a metà prezzo. In cambio, Londra fornirà

consulenza per riorganizzare il caotico sistema dei trasporti pubblici di Caracas112.

                                                            110 Si veda The World Factbook della CIA – Central Intelligence Agency, relativo a Venezuela, Bolivia ed Ecuador: https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/print/ve.html ; https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/print/bl.html ; https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/print/ec.html . 111 Valerio, Castronovo, Piazze e caserme: I dilemmi dell’America Latina dal Novecento a oggi, Laterza, Bari 2007, pp. 368-369. 112 Antonio Moscato, Il risveglio dell’America Latina: Storia e presente di un continente in movimento, Edizioni Alegre, Roma 2008, p. 112.

60  

Chávez è arrivato, col suo petrolio, anche in Russia, Cina e Iran.

Sembrerebbe una politica estera ardita, per alcuni lungimirante, ma che non

nasconde una importante componente propagandistica, ideologica, nonché una

debolezza derivante dalla dipendenza dalle risorse petrolifere. Pare, infatti, che il

Venezuela abbia già spremuto al massimo i suoi vecchi giacimenti, tant’è che ha

iniziato a concludere accordi con altri paesi, per lo sfruttamento delle sabbie

bituminose del bacino dell’Orinoco, ancora non intaccato113. Ma c’è anche dell’altro.

La maggior parte del greggio venezuelano estratto è particolarmente pesante e

impuro e richiede pertanto elaborati e costosi processi di raffinazione. Al momento,

gli Usa sono la garanzia più conveniente per tale servizio. Nonostante i crescenti

sforzi del leader venezuelano nel dotare il paese di un alternativo apparato di

raffinazione, questo ancora non esiste. E qualora venisse creato, in Cina o in Brasile,

sarebbe difficile riprodurre l’ineguagliabile mix di ampi volumi produttivi e distanze

esigue che caratterizza la relazione energetica tra Usa e Venezuela. Interrompere

questo sodalizio avrebbe effetti negativi per Caracas: il ritiro completo del petrolio

venezuelano sul mercato mondiale, anche per un limitato periodo di tempo, avrebbe,

infatti, un impatto molto forte sulle finanze venezuelane, mentre il connesso

innalzamento delle quotazioni del greggio e dei prodotti raffinati inciderebbe sul Pil

statunitense per una cifra non inferiore ai 23 miliardi di dollari. Il Venezuela rimane il

quarto fornitore di petrolio e prodotti derivati agli Stati Uniti114, superato solo da

Canada, Arabia Saudita e Messico. Il risultato è che nessuno dei due paesi è nella

posizione di poter interrompere improvvisamente la partnership energetica.

Alla luce di tali considerazioni, si spiegano anche le dichiarazioni dei due

candidati alle elezioni statunitensi, Obama e McCain, in campagna elettorale, di voler

«eliminare del tutto» le importazioni energetiche «dal Medio Oriente e dal

Venezuela». Secondo Obama lo si può fare in dieci anni, secondo McCain in «sette,

otto o dieci». Si spera che le energie alternative riescano a soddisfare una

percentuale sempre maggiore delle necessità americane. Ma oggi, la base del

sistema energetico rimane il petrolio e quindi sembra difficile che Washington possa

fare a meno di Medio Oriente e Venezuela. Obama e McCain vorrebbero puntare su

Canada (primo paese esportatore verso gli Usa) e Messico (terzo paese

                                                            113 Articolo di Sabina Morandi, pubblicato su «Liberazione», 23 agosto 2007, in Antonio Moscato, op. cit., p. 112. 114 È opportuno precisare che il presidente venezuelano gode di un accordo de facto di libero commercio con gli Usa, dal momento che il principale bene di esportazione del paese, il petrolio, varca le frontiere statunitensi in regime di completa esenzione doganale.

61  

esportatore). Affidarsi a un ventaglio ampio di fornitori energetici sembra rimanere,

comunque, un vantaggio strategico115.

Già Bush, nel suo secondo mandato, aveva iniziato a pensare a opportunità

alternative di rifornimento energetico, derivanti, ad esempio, dalla produzione di

bioetanolo116. Tale idea è stata maturata a Washington, nel 2004, quando la classe

politica statunitense si è resa conto che la situazione irakena non offriva garanzie per

l’approvvigionamento energetico in Medio Oriente. Alla luce anche delle vicende

legate al Venezuela, Washington ha quindi deciso di incentivare la produzione di

etanolo. Il suo uso, come forma di energia pulita e rinnovabile e producibile in

territorio nazionale, appare come una buona risposta al costante crescere del prezzo

del greggio e all’endemica instabilità del Medio-Oriente. Permette altresì di

soddisfare la domanda, da parte di stati popolosi come la California, di un nuovo

additivo per la benzina, in sostituzione del Mtbe117. Nonché la necessità della

presidenza americana di articolare un’agenda internazionale positiva, in modo da

compensare la perdita d’influenza e di prestigio degli Stati Uniti nel mondo.

Il progetto sul bioetanolo coinvolge anche il Brasile. I due paesi producono

oltre il 70% dell’etanolo mondiale: gli Usa lo ricavano dal mais, il Brasile si serve,

invece, principalmente della canna da zucchero. Il documento di intenzioni tra i due

paesi, firmato a San Paolo, prevede un programma di cooperazione bilaterale nella

ricerca e nello sviluppo di biocombustibili, la promozione dell’etanolo in mercati terzi

e la sua trasformazione in una commodity. Questa partnership strategica tra

Washington e Brasilia permette a quest’ultima di puntare su un’attività economica

nella quale è più forte tecnicamente e ha maggiore esperienza. Lo sviluppo di questa

forma alternativa di energia permetterebbe al Brasile di sostituire i derivati del

petrolio con l’etanolo nelle economie centroamericane e caraibiche, estendendo di

fatto anche la sua influenza regionale. La cooperazione con gli Usa in questo

                                                            115 Stefano Casertano, Obama, McCain e la chimera dell’indipendenza energetica, «AffarInternazionali», 28/10/2008, http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=972 . 116 Tre sono le categorie in cui suddividono i combustibili ecologici: bioetanolo, biodiesel e biogas, che derivano dal trattamento differenziato di sostanze vegetali ed organiche. Il bioetanolo, ad esempio, si ottiene dalla fermentazione di varie tipologie di biomasse ricche di zuccheri o amidi: i cereali (mais, frumento, orzo ecc..), le culture zuccherine (canna da zucchero, barbabietola, sorgo zuccherino ecc..), la frutta, le patate, le vinacce ed è inoltre possibile ricavarlo da residui delle coltivazioni agricole e forestali, dai materiali lignocellulosici, dai residui delle industrie agroalimentari oltre che dalla componente organica dei rifiuti urbani. Il biodiesel è invece ricavato dalle piante oleaginose (soia, ricino, palma, girasole, canola, colza, jatropha ecc..), attraverso la spremitura dei semi ed il successivo trattamento dell’olio derivato con un processo chimico di raffinazione, chiamato transesterificazione, o dal trattamento dei grassi animali. Il biogas, infine, è prodotto dalla fermentazione dei residui organici presenti nei rifiuti urbani, nei scarichi fognari, nei liquami zootecnici. 117 Metil-t-butil etere, composto organico di sintesi, che viene impiegato come additivo per la benzina, in sostituzione del piombo tetraetile e del benzene.

62  

progetto costituisce un’interessante opportunità geopolitica di proiezione della

leadership brasiliana non solo su scala regionale, ma anche mondiale.

La constatazione della convergenza di interessi tra Brasile e Usa, molto più

che con il Venezuela, riconosciuta anche da parte americana, ha fatto sì che il

Dipartimento di Stato e la Casa Bianca abbiano accettato il rango del Brasile in

quanto potenza regionale, partner strategico e interlocutore privilegiato su temi

globali. Un riconoscimento che gli Usa hanno rifiutato per molto tempo, finché i

rispettivi presidenti, alla fine degli anni Novanta, hanno deciso di abbandonare la

reciproca sfiducia sostituendola con una rinnovata disponibilità a identificare possibili

aree di cooperazione.

Chávez non poteva rimanere fermo davanti alle dimostrazioni di vicinanza e

comunione d’intenti tra Lula e Bush; così ha iniziato subito una campagna contro

l’etanolo. Il progetto, infatti, secondo il leader venezuelano, non sarebbe stato privo

di rischi e l’America Latina avrebbe dovuto continuare a dipendere dal petrolio e dal

gas. Questa visione è stata condivisa da Fidel Castro, ma da nessun altro dei

presidenti latinoamericani. Morales ha persino firmato con il Brasile un accordo

economico che, in cambio di prezzi più bassi per la fornitura di gas a Brasilia,

prevede la partecipazione della Bolivia al progetto sui biocarburanti.

2.4 Intese e contrasti all’interno del continente sudamericano

Tra i paesi governati dalle nuove sinistre latinoamericane si sta costruendo

una fitta rete di collaborazioni, che merita certamente grande attenzione. A tal

proposito, è innegabile il ruolo svolto da Chávez e dal suo petrolio. Alcuni dicono che

Chávez sia riuscito a realizzare ciò che Castro aveva voluto, ma non potuto fare118.

Oltre ai legami stretti con i leader a lui più affini, come Morales e Correa, Chávez si è

avvicinato, fino a dove gli è stato permesso, anche a Brasile e Argentina. Non ha

allontanato nemmeno il Cile, che pure ha votato contro di lui per la candidatura al

Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Chávez ha scelto occasioni particolari per promuovere, più o meno

apertamente, il suo progetto di creare un’ampia coalizione anti-statunitense,

esportando la “rivoluzione bolivariana” e il suo disegno di “socialismo del XXI secolo”.

In occasione del Quarto Vertice delle Americhe, nel novembre 2005, a Mar del Plata,

                                                            118 Antonio Moscato, op. cit., p. 113.

63  

Chávez lancia l’Alternativa Bolivariana per l’America Latina e i Caraibi (ALBA), un

obiettivo ambizioso, di dimensione continentale, come alternativa al progetto

statunitense dell’ALCA. Secondo il presidente venezuelano l’Area di Libero

Commercio, promossa da Bush, avrebbe consentito agli USA di rafforzare la loro

influenza nel continente sudamericano e di allargare il proprio potere economico,

giocando sulla dipendenza dei paesi dell’area latina119. Già nel novembre del 2003,

alla quinta Assemblea parlamentare delle Americhe, Chávez aveva iniziato a parlare

dell’ALBA, formalizzata nel gennaio 2006 con Castro.

L’ALBA si propone di realizzare la completa integrazione regionale, in

funzione antiyankee e antiliberista, per mezzo dell’arma del cooperativismo,

riducendo le differenze tra i paesi attraverso alleanze strategiche. L’idea di base è

quella di affrancare l’America Latina dall’influenza degli USA e diminuire il divario tra i

paesi sviluppati e quelli meno sviluppati. L’ALBA si propone inoltre di eliminare la

povertà e l’esclusione sociale, considerati i maggiori ostacoli all’unione del

continente, e realizzare così il progetto bolivariano di grande nazione

latinoamericana120.

Al fine di aumentare la propria influenza nella regione, Chávez ha lanciato altri

progetti come Petrocaribe, un’alleanza energetica pensata per fornire petrolio

proveniente dal Venezuela ai piccoli Stati dei Caraibi; ha iniziato a finanziare Telesur,

una televisione pubblica, concepita al fine di contrastare la Cnn in spagnolo, offrendo

una prospettiva latinoamericana per bilanciare quella euro-americana121. Chávez si è

anche proposto di creare Petrosur, una confederazione di società petrolifere di

proprietà statale della regione, suggerendo la formazione di un consorzio per

l’energia nucleare con Brasile e Argentina e di una Banca sudamericana per lo

sviluppo122. Nel 2006, il Venezuela è entrato a far parte del MERCOSUR (la zona di

libero commercio più importante dell’America Latina, che comprende anche

Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, mentre Bolivia, Cile, Perù, Colombia ed

Ecuador sono membri associati).

Il progetto più ambizioso proposto da Chávez resta, però, la creazione di un

gasdotto lungo oltre 9 mila chilometri, che collegherebbe Puerto la Cruz nel nord del

Venezuela con Rio de la Plata nel nord dell’Argentina, passando per Brasile,

Uruguay, Paraguay e probabilmente Bolivia. Nella visione di Chávez, questo

                                                            119 Rossana Miranda; Luca Mastrantonio, op.cit., p. 209. 120 Ibidem. 121 Ibidem, p. 210. 122 Peter Hakin, op. cit., p. 121.

64  

gasdotto gli permetterebbe di controllare le scelte energetiche di oltre metà del

Sudamerica e quindi orientare le politiche degli altri governi. Il Gran Gasoducto del

Sur, oltre ad essere un’opera di ingegneria delle infrastrutture senza precedenti,

sarebbe anche il più grande progetto d’ingegneria energetica del continente. Se dal

punto di vista geografico e ambientale l’impatto di questo progetto non è del tutto

positivo, tuttavia, si prevede che genererà un milione di posti di lavoro in tutte le

comunità che attraverserà. Del Gran Gasoducto si era già iniziato a parlare nel

maggio 2005, quando è stato messo a punto un trattato di integrazione energetica tra

Venezuela, Brasile e Argentina. In quest’alleanza sono stati chiamati a far parte

anche il presidente dell’Uruguay e quello della Bolivia. L’entrata in scena di Morales

ha provocato particolari difficoltà nella realizzazione del progetto. Il problema è che

se il gas della Bolivia venisse distribuito attraverso alcune diramazioni dell’opera

principale, che senso avrebbe per l’Argentina e il Brasile acquistare dal Venezuela

un prodotto che percorre migliaia di chilometri prima di arrivare agli impianti industriali

e alle famiglie? Esistono già le condutture tra Bolivia e Argentina e tra Bolivia e

Brasile e i prezzi sono abbastanza economici. Le quantità potrebbero essere poi

assicurate da nuove scoperte, rendendo il gas venezuelano meno appetibile. Da qui

sorgono i problemi legati al finanziamento di quest’opera e le perplessità sul prezzo

del gas. Dai primi studi di fattibilità è emerso che per portare a termine il Gran

Gasoducto serviranno tra i 17 e i 20 miliardi di dollari, e l’opera non sarebbe pronta

prima del 2012123.

Chávez ha fatto proposte che potevano interessare tutti, essendo i suoi

interlocutori esponenti di quelle sinistre che hanno vinto perché alternative ai vecchi

governanti, vincolati alle politiche liberiste e alle imposizioni esterne. Nonostante ciò,

finora Chávez non è riuscito veramente nel suo intento. La sua figura è

probabilmente troppo controversa e quindi rischia di pesare eccessivamente sui

destini dei suoi alleati. Bolivia ed Ecuador, ad esempio, gli Stati più vicini alle sue

posizioni, tanto da essere considerati parte dell’“asse rivoluzionario bolivarista”, non

si sono dichiarati sempre in sintonia con Chávez. Addirittura, non hanno esitato a

fare dichiarazioni pubbliche, con l’intenzione di distinguersi da Chávez e di mostrare

un profilo diverso nei momenti in cui l’associazione con il caudillo venezuelano

sarebbe potuta essere controproducente124. La maggioranza dei governi latini non

approvano il presidente venezuelano e le sue politiche. Molti di loro non hanno                                                             123 Genaro Arriagada, op. cit., pp. 150-151. 124 Soprattutto Correa, durante la sua campagna elettorale, ha ricordato gli effetti negativi dell’accostamento a Chávez sull’esito delle elezioni presidenziali per i candidati messicano, López Obrador, e peruviano, Humala.

65  

neanche veramente bisogno del suo petrolio, potendo provvedere da soli al proprio

sostentamento e rifornimento energetico. I paesi di centro-sinistra, fondatori del

Mercosur e che gravitano attorno alla figura carismatica del presidente brasiliano

Lula, sono quelli che si mostrano, rispetto agli altri e senza considerare Cuba, Bolivia

ed Ecuador, più disposti a intrattenere rapporti cordiali con il Venezuela125. Ciò

nonostante, ragioni di strategia politica impongono loro, da una parte, di non mettere

in pericolo tali rapporti commerciali e finanziari, né di pagare i costi politici interni che

comporterebbe uno scontro diretto col Venezuela; ma dall’altra non sono neanche

disposti a seguire cecamente la strada intrapresa dal leader venezuelano, soprattutto

per quanto concerne i rapporti con gli Stati Uniti.

Non sono solo motivazioni di visibilità a tenere lontani da Caracas i paesi

latinoamericani più vicini al Venezuela, ma anche l’incertezza del petrolio quale

strumento politico. Per avere successo, una buona politica energetica richiede prezzi

elevati, un’industria nazionale in buona salute con possibilità di espansione, alti livelli

di efficienza e di investimenti. Nonostante la vastità delle sue riserve, invece, i livelli

di produzione in Venezuela non sono aumentati, tanto da far registrare, nel 2007,

una contrazione del 4,2% del comparto petrolifero ai fini del calcolo del Pil, causata

principalmente dai disinvestimenti della compagnia statale PDVSA126. I risultati

modesti ottenuti dall’azienda venezuelana di Stato sono la conseguenza di una serie

di inefficienze127. Chávez ha assunto il controllo diretto dei proventi della PDVSA: i

capitali necessari per la manutenzione e gli investimenti sono stati utilizzati in larga

parte per finanziare la fitta agenda sociale programmata e aggirando le normali

procedure di bilancio imposte dalla legge. Il risultato della politica petrolifera adottata

dal presidente a favore di nazioni considerate ideologicamente allineate ha

determinato, infine, un andamento negativo della compagnia, concretizzatosi nella

perdita di capacità produttiva e nella conseguente diminuzione dei proventi. Dal 1

febbraio 2007, con l’approvazione della Ley habilitante, lo Stato si è riservato, inoltre,                                                             125 Questo gruppo di paesi, ad esempio, ha votato per il Venezuela quando si è candidato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e si è sempre opposto alle richieste di condanna di Cuba all’Onu per violazioni dei diritti umani. Si veda: Maurizio Stefanini, Le quattro Americhe, in AA.VV., Chávez-Castro: L’antiamerica, «Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 2, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2007, p. 85. 126 Il settore petrolifero si colloca come l’unico comparto dell’economia nazionale in costante e sostenuta discesa dal primo trimestre del 2005. Si veda: ICE, Rapporto Paese congiunto ICE-MAE, II semestre 2007. 127 Si è già detto di come Chávez abbia proceduto alla destituzione dei vertici dell’azienda, mettendo al loro posto uomini che godevano della sua personale fiducia. Assumendo il controllo totale della PDVSA, ha licenziato più di 20 mila dipendenti (tecnici e dirigenti), che avevano assicurato il successo della compagnia in campo internazionale negli anni precedenti; e, scegliendo come Presidente dell’azienda il Ministro dell’Energia, ha soppresso l’autonomia di cui essa aveva sempre goduto, rendendola di conseguenza non più un’impresa dedita alla massimizzazione del profitto, ma un’azienda al servizio personale di un leader politico. È stata, ad esempio, soppressa la produzione e la vendita di Orimulsion, un carburante a costo relativamente basso che faceva concorrenza al carbone sui mercati internazionale. Ciò ha senza dubbio accresciuto la dipendenza dal petrolio del paese.

66  

il diritto di modificare le condizioni degli accordi societari tra la PDVSA e le

multinazionali che lavorano nel paese. In questo modo ha voluto assumere il

controllo di tutte le operazioni, modificando, se necessario, le regole stabilite e

intervenendo nelle attività che riguardano tutte le fasi della filiera produttiva, in modo

da poter in futuro giustificare atteggiamenti poco corretti, come l’abbandono di

accordi già stipulati con le multinazionali straniere128. Secondo gli esperti del petrolio,

l’incertezza determinata da politiche di questo genere pone pesanti barriere agli

investimenti129. Le previsioni effettuate dalle principali agenzie di rating internazionali,

indicano, per i prossimi cinque anni, un rallentamento in termini del grado di

attrazione di investitori stranieri da parte del Venezuela. Secondo i dati pubblicati dal

SIEX (Superintendencia de Inversiones Extranjeras), la posizione del paese è scesa

dal 69° all’81° posto.

2.5 Rapporti strategici al di fuori dei confini continentali

Di fronte al disinteresse nei confronti del subcontinente, mostrato in maniera

più marcata dall’amministrazione Bush impegnata in Afghanistan e Medio Oriente,

l’America Latina ha iniziato a guardare altrove per rispondere alle sfide della

globalizzazione. Ha così stretto nuovi rapporti con Unione Europea, Cina e Russia.

Questi paesi, a loro volta, approfittano del vuoto lasciato da Washington nel

Sudamerica per espandere i propri interessi, nell’intento di creare un sistema

multipolare di relazioni internazionali. Grazie ai legami quasi personali tra il

presidente venezuelano e quello iraniano, anche l’Iran sta entrando nel gioco

sudamericano.

È d’obbligo una precisazione. L’interesse che lega l’Europa al Sudamerica non

può essere completamente assimilato a quello degli altri paesi citati. I legami storici e

                                                            128 La reazione delle aziende associate è stata diversa a seconda degli interessi di ciascuna in terra venezuelana. La Total e l’Eni hanno fatto causa al governo di Caracas per ottenere un risarcimento in denaro per l’esproprio delle zone operative loro assegnate. Chrevon Texano, Statoil e British Petroleum sono state costrette, viste le ingenti somme investite nei progetti della fascia, a firmare un protocollo d’intesa in base al quale il governo controlla l’80% del pacchetto. Non sarebbe stato economicamente vantaggioso per queste multinazionali discutere con il leader venezuelano in quanto la disputa sarebbe stata onerosa e pericolosa. Si veda: Edgardo Ricciuti, Il petrolio di Chávez non ha futuro,in AA.VV., Il clima dell’energia, «Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 6, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2007. 129 Dati calcolati in base al All-inclusive Composite Index. Secondo quest’indice, Colorado, Tailandia, Qatar, Romania e Gran Bretagna sono considerati i luoghi che attraggono il maggior numero di investitori. Al contrario, Bolivia, Venezuela, Ecuador, Russia e Iran sono considerati paesi a rischio per gli investimenti, seguiti da Argentina, Cuba, Angola, Nigeria e Newfoundland e Labrador (una provincia canadese). Si veda: The Fraser Institute, Global petroleum survey ranks Colorado, Thailand as best for investment; gives thumbs down to Bolivia, Venezuela, Ecuador, December 10, 2007, http://www.reuters.com/article/pressRelease/idUS100499+10-Dec-2007+PRN20071210 .

67  

culturali tra i due continenti, nonché lo scambio demografico che, con modalità

diverse rispetto al passato, continua a creare un ponte tra le due sponde

dell’Oceano, rendono l’approccio dei nostri paesi al continente latinoamericano

carico di implicazioni, che travalicano le sole considerazioni di carattere economico o

strategico. Certamente, rispetto alle altre potenze mondiali, da parte dell’Europa non

esiste poi alcuna retorica antiamericanista.

2.6 L’amicizia con la Russia

In occasione della crisi diplomatica tra Venezuela, Bolivia e Stati Uniti, Chávez

e Morales hanno ostentato una certa tranquillità e sicurezza nonostante il pericolo di

perdita di svariati milioni di dollari l’anno in aiuti, traffici commerciali e forniture

petrolifere, in caso di irrigidimento delle relazioni con gli Stati Uniti. I due paesi sanno

di poter contare sull’aiuto della Russia di Putin e ora del suo successore Medvedev.

Morales ha, ad esempio, fatto intendere che tagli Usa dei fondi contro il narcotraffico

potrebbero essere compensati da Mosca; e Chávez ha annunciato, per novembre,

un’esercitazione militare congiunta Russia-Venezuela nel Mar dei Caraibi, mentre

alcuni caccia russi sono già stazionati in territorio venezuelano130.

Anche Correa si è mostrato aperto all’amicizia con Mosca, spingendosi quasi

fino al punto di invitare le navi russe, che arriveranno per l’esercitazione comune

sulle coste venezuelane, a portarsi anche lungo le coste dell’Ecuador.

Per il Cremlino, come sostengono gli analisti russi, le relazioni con l’America

Latina potrebbero essere la risposta all’accerchiamento della Nato e ai progetti Usa

in Polonia e Repubblica Ceca nell’ambito dello scudo spaziale. È un altro passo

lungo la strada che Mosca percorre da quando, finita l’era sovietica, ha dovuto

pensare alla ridefinizione del proprio ruolo sia interno che internazionale. La Russia

ha scelto di proseguire lungo la direzione di una politica di potenza e affermazione

militare, che la caratterizza fin dai tempi degli zar, ma anche, oggi, puntando sulla

volontà di affermarsi come global player energetico. Per i paesi dell’America Latina è,

invece, un modo per riaffermare la propria indipendenza. Non sono solo i paesi

andini, infatti, a guardare a Mosca o comunque a preferire il dialogo alla chiusura con

la Russia. Non esistono ormai motivazioni ideologiche, ma solo considerazioni di

carattere strategico, geopolitico. Christina Kirchner, presidente argentina, sarà in

                                                            130 Gian Luca Gardini, Verso una nuova guerra fredda?, 24 settembre 2008,www.affarinternazionali.it/stampa.asp?ID=955 .

68  

visita a Mosca all’inizio di dicembre 2008; il Brasile di Lula ha in cantiere una

riorganizzazione delle sue forze armate, nella quale importanti saranno le forniture

russe. A tale proposito Lula ha anche delineato un programma spaziale bilaterale e,

ovviamente, una joint venture tra la russa Gazprom – compagnia di Stato, colosso

mondiale nell’estrazione del gas – e Petrobras; anche la Colombia di Uribe non ha

smesso di comprare armi dalla Russia, come fa da quarant’anni131, e come fanno

anche Cile e Uruguay.

I temi sui quali si stanno definendo le nuove alleanze russo-latinoamericane

sono quindi le risorse energetiche e gli armamenti. Nel settore energetico, la Russia,

attraverso Gazprom vuole entrare nel gioco sudamericano, rispondendo anche, così,

alle mosse delle sorelle statunitensi nel Caucaso e in Asia Centrale.

In America Latina, Gazprom ha stabilito intese per progetti, che riguardano

soprattutto le infrastrutture di trasporto e le relative tecnologie e attrezzature132.

Tuttavia, l’attenzione principale è il gas venezuelano, finora destinato al solo mercato

interno e quindi non ancora sfruttato pienamente nelle sue potenzialità. Al fine di

garantire finalmente il giusto sviluppo dei grandi giacimenti di gas venezuelani e

destinare gran parte di quella produzione all’export, Gazprom si è accordata con la

compagnia venezuelana Pdvsa per progetti di cooperazione riguardanti

l’esplorazione di nuovi giacimenti di gas, soprattutto nel Golfo del Venezuela, lo

sviluppo delle infrastrutture per il trasporto di gas e petrolio, la rigassificazione, il

trattamento del gas naturale, l’introduzione di nuove tecnologie, la preparazione dei

quadri locali. Nell’ottobre 2005, Gazprom ha ottenuto una licenza trentennale per

esplorare e sfruttare due grandi giacimenti di gas, contenenti, si calcola, riserve pari

a 100 miliardi di metri cubi (Urumaco 1 e Urumaco 2). Per tale scopo, sono state

create due nuove società miste russo-venezuelane (Urdaneta-Gazprom 1 e 2), che

hanno già iniziato la prima fase di esplorazione e perforazione133. Gazprom, potendo

vantare una vasta esperienza nel campo delle infrastrutture, è stata addirittura

invitata a partecipare all’imponente disegno strategico di Chávez per la costruzione

del Gran Gasoducto del Sur, attraverso la fornitura di tubi, la costruzione di stazioni

di compressione, depositi in superficie e sotterranei.

                                                            131 Stefano Grazioli, Mosca nel cortile di casa degli Usa, 03 ottobre 2008, http://temi.repubblica.it/limes/mosca-nel-cortile-di-casa-degli-usa/ . 132 Esistono già importanti intese tra Gazprom e le maggiori compagnie sudamericane del settore energetico: la brasiliana Petrobras, la boliviana Ypfb e l’argentina Tgs (Trasportadora del gas del Sur). 133 Piero Sinatti, L’amico Putin, in AA.VV., Chávez-Castro: L’antiamerica, «Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 2, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2007, pp. 166-167.

69  

Analogamente agli accordi per lo sviluppo del gas venezuelano, Mosca e

Caracas collaborano anche allo sfruttamento di importanti giacimenti di greggio, in

particolare nella Fascia petrolifera dell’Orinoco. La principale compagnia petrolifera

russa, Lukoil, ha firmato, nell’ottobre del 2005, accordi con una sussidiaria della

PDVSA per l’esplorazione e la perforazione di uno dei key-blocs, chiamato Junin 3,

nell’area petrolifera dell’Orinoco Oil Belt. La presenza russa nella cintura dell’Orinoco

si giustifica anche per la tipologia di greggio, che vi si trova, per circa tre quarti del

tipo pesante e super pesante. Il petrolio russo è per una buona parte di questo tipo.

Mosca dispone della tecnologia adeguata a trattare questa tipologia di greggio,

mettendola a disposizione di Caracas a prezzi inferiori rispetto a quelli statunitensi ed

inoltre senza le condizioni politiche poste dagli Usa. Tuttavia, come è stato già detto,

gli Usa continuano a dominare nelle forniture e nei servizi destinati al settore

energetico venezuelano: per quanto Mosca possa costituire una valida alternativa

agli Stati Uniti, l’oil engineering russo non è ancora tanto tecnologicamente avanzato

quanto quello americano e occidentale in generale134.

La Russia ha anche mostrato un certo interesse nel condividere la sua

tecnologia nucleare con il continente latinoamericano135. Mosca ritiene che la

produzione sudamericana di greggio raggiungerà, nei prossimi decenni, il suo livello

massimo e già si registra un interesse crescente verso fonti energetiche alternative. Il

Cremlino si è impegnato così nella costruzione di una grande centrale idroelettrica

nel Venezuela sud occidentale.

Per quanto riguarda il settore degli armamenti, in generale, l’America Latina è

per Mosca il terzo più grande mercato di armi. Solo il Venezuela, dal 2005, ha speso

più di 4 miliardi di dollari in armamenti russi, tra cui 50 elicotteri militari, 24 Su-30 jet

fighters e 100 mila kalashnikov AK-103, nuovo modello. Durante il suo viaggio dello

scorso settembre a Mosca, Chávez ha assicurato al Cremlino un miliardo di dollari da

spendere in sistemi di difesa aerea, sottomarini, veicoli blindati, e aerei da

ricognizione136. Di fronte a un simile arsenale, gli Usa hanno manifestato la loro

                                                            134 Ibidem, pp. 169-170. 135 Chávez ha annunciato di recente che inizierà a lavorare a un proprio programma di energia nucleare. Putin ha garantito il suo sostegno. Entrambi hanno sottolineato che tale progetto sarà condotto a fini rigorosamente pacifici. Robert Munks, analista del Jane’s Information Group, sostiene che, intanto, tale annuncio non è stato ancora seguito da azioni concrete e che certamente la Russia non incoraggerà mai il Venezuela verso alcun tipo di scenario stile iraniano. 136 Daisy Sindelar, Feeling expansive, Moscow looks to U.S. “backyard”: Latin America, October 09, 2008, http://www.rferl.org/articleprintview/1328455.html .

70  

contrarietà, ritenendo gli ordinativi di Caracas superiori alle sole necessità di difesa,

e, anzi, definendoli una minaccia alla stabilità della regione137.

Anche la Bolivia ha recentemente concluso un accordo per acquistare da

Mosca elicotteri militari.

Ai primi di ottobre 2008, Chávez ha incontrato Medvedev a Orenburg, sugli

Urali. Qui hanno ripreso a parlare di cooperazione a livello militare ed energetico,

proseguendo la tendenza a incontri e visite ufficiali, iniziata con Putin nel maggio

2001, quando Chávez è arrivato per la prima volta a Mosca138. «Caracas ha

necessità di modernizzare il proprio arsenale e il sistema di difesa aerea, Mosca

vuole aumentare la quota di esportazioni e spingere l’industria degli armamenti. La

recente trasvolata dei bombardieri russi per esercitazioni in Venezuela e l’idea di un

comune programma atomico si inseriscono nella medesima strategia del Cremlino,

quella di lanciare dei segnali inequivocabili nei confronti di Washington»139. Anche

Chávez ha urgenza di mandare un segnale chiaro agli Stati Uniti, tra gli altri; e cioè

dichiararsi forte e ben equipaggiato, tanto da bilanciare le loro mosse militari nei

Caraibi, come la riattivazione della Quarta flotta, un evento che non si verificava dalla

fine della guerra fredda140.

Nelle intenzioni di Mosca e Caracas c’è il tentativo di promuovere una visione

multipolare degli equilibri globali, dove gli Stati Uniti non si impongano più come

unico interlocutore obbligatorio. Russia e Venezuela sono quindi accomunate da

questa visione del mondo, oltre che da interessi coincidenti nei settori energetico e

degli armamenti. Interessi che li portano a cercare alleanze più o meno dichiarate

anche con alcuni tra i cosiddetti Rogue States, in particolare l’Iran e la Siria141.

All’indomani della crisi georgiana, Chávez non ha esitato un istante nell’esprimere la                                                             137 Il Dipartimento di Stato americano aveva già decretato sanzioni contro Caracas, vietandogli, ad esempio, l’acquisto di nuovi aerei F16 statunitensi e i componenti degli stessi, da destinare a quel modello in forza all’aeronautica militare venezuelana. Si voleva così impedire l’acquisizione dell’high-tech dei modelli americani di ultima generazione. Si veda: Piero Sinatti, op. cit., p. 172. 138 Nel 2001, Putin e Chávez hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta, in base alla quale i due leader si sarebbero impegnati a intensificare la collaborazione nella sfera delle industrie petrolifera, petrolchimica e del gas; a coordinare gli sforzi per assicurare la stabilità del mercato energetico mondiale; a formare un nuovo ordine mondiale multipolare e non coercitivo, basato sui princìpi di non ingerenza negli affari interni; a condannare l’embargo economico, commerciale e finanziario su Cuba, chiedendone l’immediata abrogazione. L’intesa tra i due paesi ha subito una battuta d’arresto, dopo l’attentato alle torri gemelle, in seguito al quale la Russia si è mostrata vicina agli Stati Uniti nella lotta al terrorismo internazionale. Nel 2004, Putin e Chávez si sono incontrati di nuovo e, nel 2007, hanno visto la loro attuazione gli accordi presi nel corso degli anni precedenti. 139 Stefano Grazioli, Mosca nel cortile di casa degli Usa, 3 ottobre 2008, http://temi.repubblica.it/limes/mosca-nel-cortile-di-casa-degli-usa/ . 140 Pier Francesco Galgani, La crisi tra Venezuela, Bolivia e Stati Uniti d’America, 15 settembre 2008, http://www.paginedidifesa.it/2008/galgani_080915.html . 141 Mosca e Caracas si sono opposte alle sanzioni contro l’Iran, uno dei principali alleati di Chávez, ma anche un partner di Mosca in tema di energia nucleare e di armamenti. Riguardo la Siria, il presidente venezuelano le fornisce petrolio a prezzi scontati e quello russo le fornisce invece armamenti. Si veda: Sinatti, Piero, L’amico Putin, in AA.VV., Chávez-Castro: L’antiamerica, «Limes: Rivista Italiana di Geopolitica», 2, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2007, p. 173.

71  

propria solidarietà per la scelta di Mosca di rispondere all’offensiva lanciata in

Ossezia del Sud dal presidente georgiano Mikhail Saakashvili; e ha anche

appoggiato il riconoscimento russo della piena sovranità delle regioni georgiane di

Ossezia del sud e Abkazia.

Alcuni hanno rivisto, nel rafforzamento delle intese per la fornitura di armi e

mezzi militari russi all’America Latina, nella presenza dell’aviazione russa in territorio

venezuelano e nelle esercitazioni congiunte che si preparano nel Mar dei Caraibi,

delle analogie con la crisi dei missili del 1962 e quindi hanno ripensato al clima di

confronto-scontro che ha caratterizzato gli anni della guerra fredda. In realtà, la

Russia, pur ricercando da Washington il riconoscimento dello status di superpotenza

e pur approfittando del vuoto da questa lasciato in America Latina, cogliendone le

opportunità che ne derivano, non si mostra intenzionata a rompere i legami

soprattutto commerciali che ha con gli Usa, dal momento che Mosca continua a

necessitare di investimenti e di scambi con l’Occidente142.

2.7 La Cina avanza nel continente sudamericano

L’avanzata della Cina nel sistema delle relazioni internazionali, sia a livello

politico-diplomatico che economico, è motivo di paure da parte delle grandi potenze.

Il suo affacciarsi nel continente sudamericano non può che allarmare prima di tutto

gli Usa: alcuni legislatori statunitensi, infatti, vedono in questo grande paese la sola

vera minaccia ai propri interessi regionali, per le enormi risorse finanziarie che la

Cina promette all’America Latina, i crescenti rapporti fra gli eserciti delle due regioni

e le chiare ambizioni politiche cinesi143.

L’America Latina è, per la Cina, fonte di materie prime e prodotti alimentari.

Secondo dati che si riferiscono al 2006, la quota di importazioni dal subcontinente

corrisponde al 4,30% del totale144. Pechino, con visite ufficiali in diversi paesi della

regione, che si sono susseguite negli ultimi anni, si è detta disposta a investimenti in

strade, porti e altre infrastrutture. L’intesa con l’America Latina è importante, per

Pechino, anche per questioni politiche: lo status di Taiwan. Tra i paesi che

riconoscono l’indipendenza dell’isola, la metà sono latinoamericani. Scambi

diplomatici e commerciali, aiuti e investimenti sono quindi l’arma usata dalla Cina per                                                             142 Pier Francesco Galgani, La crisi tra Venezuela, Bolivia e Stati Uniti d’America, 15 settembre 2008, http://www.paginedidifesa.it/2008/galgani_080915.html . 143 Peter Hakin, op. cit., p. 122. 144 Si veda: ICE, Cina. Statistiche, http://sirio.ice.it:7080/nuove_pagine_paese/T4_720.htm .

72  

ridurre il numero di paesi che non riconoscono Formosa come parte della Repubblica

cinese145.

Tra gli interlocutori privilegiati di Pechino in America Latina vi sono la Bolivia,

che ha chiesto alla Cina già nel 2006, la promessa di forti investimenti finanziari e

tecnologici; l’Ecuador ha profilato la possibilità di offrire a Pechino la concessione

della base di Manta, al momento del ritiro degli Stati Uniti nel 2009. Infine, in

occasione dell’incontro del 24 settembre 2008 con il premier Hu Jintao, Chávez ha

discusso l’aumento dell’attuale esportazione di greggio a favore della Cina, dagli

attuali 250 mila barili quotidiani a 500 mila, per il prossimo anno. Inoltre, si è studiata

la possibilità di costruire un’altra raffineria in Venezuela e tre sul suolo cinese, con lo

scopo di giungere fino alla cifra di un milione di barili nel 2012: un investimento che

farebbe del Venezuela il principale esportatore di petrolio nel paese capital-socialista,

superando addirittura l'Arabia Saudita. Una delle possibili nuove decisioni è

l’attivazione di un fondo comune di seimila milioni di dollari per progetti di sviluppo

socio-economico in Venezuela, con quattromila milioni di dollari portati dalla parte

cinese. Infine, Chávez ha dichiarato di essere in procinto di comprare una fornitura di

aerei militari dalla Cina. Un accordo che, tuttavia, non è stato ancora confermato dal

Governo cinese, ma che, se lo fosse, condurrebbe certamente a un ulteriore

inasprimento dei rapporti con gli Usa, sempre più pressati dal nuovo asse geopolitico

creato tra alcuni paesi Latinoamericani, Venezuela in testa, Russia, Iran e, appunto,

Cina146.

In occasione della sua visita in Cina, Chávez non ha trascurato di dichiarare il

comune intento dei due paesi nella costruzione di un mondo multipolare. Citando un

pensiero di Simón Bolívar, ha affermato: «Questa sarà la sola maniera per

equilibrare il mondo e per avere la pace»147.

Come si è sottolineato per la Russia, non sembra verosimile che la

penetrazione cinese in America Latina possa costituire una vera minaccia per

l’influenza statunitense nella regione, nonostante, da parte dei paesi latini, Pechino

rappresenti un’alternativa politica ed economica all’egemonia Usa, in linea anche con

la tendenza attuale da loro mostrata al multilateralismo. Dopotutto, la stessa Cina

                                                            145 Peter Hakin, op. cit., p. 122. 146 Chávez a Pechino stringe accordi economici e consolida l'asse con la Cina, 25 settembre 2008, http://www.dazebao.org/news/index.ph...ica&Itemid=200 . 147 “Venezuela e Cina costruiscono un mondo pluripolare”, ha detto Chávez, La Habana, 24 settembre 2008, http://granma.cu/italiano/2008/septiembre/mier24/chavez.html .

73  

non ha intenzione di rovinare i rapporti di collaborazione che sta costruendo con gli

Stati Uniti.

2.8 I rapporti tra Unione Europea e America Latina

Legati dalla storia, Europa e America Latina hanno iniziato a intensificare i loro

rapporti politici ed economici a partire dagli anni ’60. Da questo momento,

l’attenzione verso il Sud America è aumentata, prima in ragione dell’accresciuta

stabilità politica della regione, più recentemente anche in virtù del suo dinamismo

economico. Non sono pochi coloro i quali vedono una forte complementarietà fra le

economie dei due continenti, forse facilitata dai legami culturali esistenti. L’Europa è

una potenza mondiale per quanto riguarda il know-how, la tecnologia, i servizi e i

prodotti complessi. L’America Latina è ricca di risorse naturali – fra le quali energia

rinnovabile e non – ed è sempre più importante come fonte di prodotti agricoli a

livello globale, potendo contare inoltre su una popolazione giovane e dinamica. Nel

tempo, l’Europa è diventata un partner molto importante per l’America Latina:

sommando le risorse destinate alla regione dai singoli paesi e dalla Commissione

Europea, il vecchio continente emerge come la principale fonte di investimenti esteri

e aiuti allo sviluppo in America Latina e Caraibi ed è il secondo più importante

partner commerciale, dopo gli Stati Uniti148.

Dalla seconda metà degli anni ’90, l’Unione Europea si è aperta a una serie di

negoziati con raggruppamenti regionali di paesi, ritenendo che l’integrazione su base

regionale nel lungo periodo facilitasse anche l’apertura multilaterale degli scambi. I

principali partner economici dell’Ue in America Latina sono diventati la Comunità

Andina, il Mercato Comune Centro Americano e, ovviamente, il Mercosur149. Gli

attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e lo sforzo richiesto per preparare

l’allargamento hanno distolto, per un periodo, interesse e risorse dell’Ue dal progetto

di associazione con l’America Latina. Ciò nonostante, sono continuati rapporti anche

con i singoli paesi latinoamericani, in particolare col Brasile. In un summit tenutosi a

                                                            148 Negli ultimi quindici anni, la Spagna è stata il principale investitore europeo in America Latina e il Brasile il principale destinatario. Si veda: Antonella Mori, Il modello europeo di relazione bi-regionale: l’associazione strategica con l’America Latina, «Politica Internazionale», 1/2-3, Ipalmo, Roma 2006, p. 109. 149 Il Mercosur rappresenta quasi il 50 per cento dei flussi commerciali tra la UE-15 e i paesi dell’America latina. All’interno di questo gruppo di paesi risalta il primato del Brasile, che da solo conta per il 72 per cento delle importazioni della UE-15 dal Mercosur e il 67 per cento delle esportazioni. Riguardo al Can (Comunità Andina), i difficili rapporti tra gli Stati che ne fanno parte stanno creando difficoltà: il 22 aprile 2006, il Venezuela ha deciso di ritirarsi dall’accordo, non approvando la scelta di Perù e Colombia di sottoscrivere accordi bilaterali con gli Stati Uniti. Anche la Bolivia mostra dubbi sul futuro della Comunità.

74  

Lisbona nel 2007 è stata lanciata la proposta di un partenariato strategico tra Brasile

e Unione Europea. Certamente, al centro degli interessi europei è il tema energetico.

A tal proposito, destano preoccupazione le decisioni, prese dai paesi andini in qualità

di maggiori fornitori, di nazionalizzazione delle risorse energetiche o di

rinegoziazione dei contratti e delle concessioni con le imprese private.

Nell’agenda europea per l’America Latina, oltre alla creazione di aree di libero

scambio e alla delineazione di intese energetiche, è considerata prioritaria la ricerca

di un comune impegno nel campo della coesione sociale, quale strumento di lotta

alla povertà e alla disuguaglianza, nel campo della cooperazione accademica,

soprattutto l’istruzione universitaria, dell’integrazione regionale e dello sviluppo

sostenibile. Nella Relazione generale sull’attività dell’Unione europea 2007, si legge

degli sforzi del Meccanismo di coordinamento e di cooperazione in materia di droga

tra l’Unione europea, l’America Latina e i Caraibi, al fine di realizzare iniziative

interregionali, finanziate dalla Commissione. Tali iniziative riguardano in particolare la

condivisione di informazioni, il trattamento della tossicodipendenza e la riduzione

degli effetti nocivi degli stupefacenti. Nel 2007, la Commissione ha avviato nuovi

progetti in materia, per un importo complessivo di 19,5 milioni di euro. Questo è solo

un esempio di aiuti allo sviluppo destinati al Sud America. Negli ultimi anni si sta

discutendo anche la possibilità di creare un nuovo Meccanismo per l’America Latina,

con un aumento significativo dei fondi assegnati nel quadro del mandato della Banca

Europea per gli Investimenti. Questa si propone di contribuire alla realizzazione degli

obiettivi della politica generale dell’Unione europea, tramite il finanziamento di

investimenti fattibili, diretti principalmente alla coesione economica e sociale e la

convergenza; il sostegno all’innovazione; lo sviluppo delle reti trans-europee; la

tutela e il miglioramento dell’ambiente; il sostegno alle PMI (piccole e medie

imprese); la promozione di un’energia sicura, competitiva e sostenibile. Nel 2007, la

Banca europea per gli investimenti ha concesso finanziamenti per un totale di 47,8

miliardi di euro150.

Già in passato, molti hanno ritenuto, però, che l’agenda europea per l’America

Latina fosse costruita secondo un modello eccessivamente articolato, complesso.

Era inevitabile il paragone con la semplicità dell’obiettivo delle aree di libero scambio,

come quella che proponeva Washington con il progetto ALCA, che nel 1999-2000

sembrava ancora realizzabile. Ancora oggi, il modello europeo per l’America Latina

appare pretenzioso: l’Ue continua a promuovere una lista di obiettivi troppo lunga,                                                             150 Commissione Europea, Relazione generale sull’attività dell’Unione europea 2007, Bruxelles, 2008.

75  

rispetto alle risorse disponibili, e che, quindi, ne riduce l’efficacia. Dal punto di vista

strettamente economico, bisogna poi precisare che l’entità degli scambi tra i due

continenti, negli ultimi dieci anni, ha perso rilevanza. L’America Latina ha perso

precedenza come area di interesse per gli investimenti europei. I nostri paesi sono

oggi proiettati maggiormente verso i mercati asiatici e dell’est Europa. Per

comprendere le relazioni tra l’UE e l’America Latina non ci si può fermare ad

analizzare i dati senza confrontarli con ciò che accade nel resto del mondo.

Dal 1995 si è registrata una dinamica vivace nel commercio tra l’Unione

Europea e i paesi dell’America Latina. Le importazioni dell’Unione a 15151 dal Sud

America, costituite per il 60 % da prodotti agricoli, sono quasi triplicate nel 2007

passando da 32 miliardi di euro a 88. Le esportazioni verso quegli stessi paesi,

costituite invece essenzialmente da macchinari, autoveicoli e altri mezzi di trasporto,

sono poco più che raddoppiate passando da 34 miliardi di euro a oltre 70. Come

risultato delle dinamiche appena descritte, la UE-15, che nel 1995 registrava un

avanzo di oltre due miliardi di euro nei confronti dei paesi latinoamericani, nel 2007

riportava un deficit di quasi 16 miliardi. I dati sembrano incoraggianti ma in realtà gli

scambi dell’UE con gli altri principali paesi emergenti, tra cui Russia, Cina e India,

hanno mostrato una vivacità maggiore rispetto a quelli con gli Stati sudamericani: le

importazioni da questi paesi sono aumentate di un fattore pari a sei, mentre le

esportazioni sono più che quadruplicate.

In generale, si registra una mancanza di coordinamento nei rapporti tra i

singoli paesi europei e l’America Latina, se non per alcuni settori specifici.

Analizzando nel dettaglio i rapporti commerciali tra Italia e Bolivia in base a dati

ISTAT si può notare che oltre il 64% delle esportazioni riguardano macchinari

meccanici ed elettrici, generalmente prodotti dalle PMI, per la lavorazione del cuoio e

del legno. Un altro 14% è rappresentato dall’esportazione di autoveicoli. Per quanto

riguarda le importazioni il 34% è rappresentato dal cuoio, il 10% dal legname, ed un

altro 40% da prodotti alimentari.

La situazione in Ecuador non è molto diversa. Le esportazioni italiane in

Ecuador riguardano per oltre il 56% macchinari meccanici e di precisione. Le

importazioni riguardano per il 98% beni alimentari, in maggioranza frutta.

                                                            151 Si considera l’aggregato UE-15, rappresentato da quei paesi che costituivano l’Unione prima del penultimo allargamento del maggio 2004, poiché consente una più facile retrospettiva storica. Come metro di confronto si consideri che nel 2007 l’aggregato più ampio della EU-27 registrava 75 miliardi di euro di esportazioni verso i paesi dell’America Latina e 92 miliardi di importazioni. L’apporto dei dodici paesi nuovi membri è dunque limitato. La UE-15 rappresenta oltre il 95 per cento dei flussi commerciali tra l’Unione Europea e l’America Latina.

76  

Negli ultimi anni, l’Italia ha ampliato i propri interessi in Venezuela, puntando

anche qui sul comparto delle macchine e apparecchi meccanici, ma anche dei

prodotti chimici, fibre sintetiche e autoveicoli, per quanto attiene alle esportazioni.

Riguardo le importazioni, le voci maggiormente significative sono rappresentate dai

prodotti petroliferi, che equivalgono al 26% delle importazioni e i metalli, bauxite,

alluminio ed acciaio, che rappresentano il 37%.

Una nuova ondata di investimenti europei sarebbe oggi auspicabile e

dovrebbe concentrarsi sulle esportazioni e le nuove tecnologie ed essere gestita per

la maggior parte da piccole e medie imprese, che finora sono state assenti dalla

regione. Ovviamente, ciò comporta che i governi si impegnino a migliorare la

normativa relativa all’iniziativa privata e utilizzino al meglio gli strumenti a

disposizione per favorire i collegamenti diretti tra PMI europee e latinoamericane.

Un altro fattore, che offre importanti opportunità di crescita e occupazione

dell’area, è quello del capitale che gli immigrati in Europa inviano in America Latina. Il

BID (Banco Inter Americano de Desarrollo) ha calcolato che, sul totale di 55.000

milioni di dollari ricevuto nel 2005 da America Latina e Caraibi in rimesse, più del

15%, ovvero circa 10.000 milioni di dollari, proviene dall’Europa. Questi flussi di

capitale sono diventati una fonte significativa di reddito per milioni di latinoamericani

indigenti e, in taluni paesi centroamericani e Caraibici, che si trovano a dover

affrontare problemi legati alla bilancia dei pagamenti per l’aumento del prezzo del

petrolio, sono un fattore di sempre crescente stabilità. Si spera, infatti, che questo

denaro entri in percentuale maggiore nel sistema finanziario e consenta ai suoi

beneficiari di risparmiare in modo più efficiente, contraendo piccoli prestiti per

acquistare un’abitazione, micro-imprese o per soddisfare altre necessità. Si tratta di

un mercato in crescita e in grado di offrire molteplici opportunità per imprese creative

che, oltre a sfruttare questi flussi e il loro effetto positivo, potrebbero contribuire ad

ampliare le possibilità di risparmio, consumo e investimento per soggetti

tradizionalmente esclusi dal processo economico152. A tal riguardo il sistema

bancario europeo e soprattutto italiano è il grande assente in America Latina. A parte

qualche iniziativa sporadica, non ha saputo integrarsi nel sistema latinoamericano,

cogliendo le enormi occasioni che gli derivano dal suo know-how sugli strumenti

finanziari a favore delle PMI153.

                                                            152 Luís Alberto Moreno, America Latina ed Europa: prospettive future, «Politica Internazionale», 1/2-3, Ipalmo, Roma 2006, pp. 115-117. 153 Istituto Italo-Latino Americano-IILA; Red Italia América Latina-RIAL, Il futuro oltre i distretti: Nuovi strumenti finanziari per le PMI latinoamericane, Milano, Camera di Commercio di Milano; Regione Lombardia, 2005.

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Non da ultimo, è importante che entrambi i continenti approfondiscano un

dialogo produttivo sul tema dell’immigrazione. Tale tema coinvolge anche l’Italia,

dove i recenti cambiamenti delle leggi sull’immigrazione hanno provocato reazioni e

una certa diffidenza da parte di molti paesi latinoamericani.

78  

3.CONCLUSIONI

La crisi profonda dei regimi neoliberali in America Latina ha messo in moto

importanti trasformazioni. Le masse hanno espresso col voto, e prima con imponenti

manifestazioni, la loro voglia di cambiamento. Hanno affidato a leader carismatici

l’impegno di condurre i rispettivi paesi verso il progresso, verso il miglioramento delle

condizioni di vita, verso sistemi pienamente democratici.

Nella regione andina, Venezuela, Bolivia ed Ecuador hanno avviato un

processo di riforme, nel quale molti studiosi, analisti, conoscitori del mondo

latinoamericano hanno ritenuto di vedere un esempio e un indirizzo per altri regimi di

sinistra. In realtà, questi Stati devono risolvere ancora profonde contraddizioni

interne, che non permettono conclusioni affrettate. Gli stessi presidenti Chávez,

Morales e Correa sono cauti nelle loro mosse, nonostante quanto venga invece

riportato dalla maggior parte della stampa estera. L’impresa petrolifera venezuelana,

ad esempio, si muove con molta prudenza nei confronti delle imprese straniere del

settore, sapendo di avere bisogno di loro per la ricerca di nuovi giacimenti e per il

loro sfruttamento. L’aumento delle imposte alle compagnie straniere dal 34% al 50%

e così anche quello sulle commissioni dal 17% al 35% non hanno inciso in maniera

determinante sui profitti delle imprese straniere, che possono ancora godere di ampi

margini di guadagno154. Il processo di nazionalizzazione delle telecomunicazioni, in

Venezuela come in Bolivia, ha subito un rallentamento, a causa delle proteste degli

azionisti straneri155.

Chávez è consapevole di non poter commettere lo stesso errore di Castro:

farsi trascinare dalla rivoluzione oltre il giusto limite dell’opportunità politica. Il leader

venezuelano deve affrontare gravi problemi interni al suo paese, che la sconfitta del

referendum sulla riforma costituzionale ha evidenziato156. La popolazione protesta

contro un apparato che si sta mostrando sempre più corrotto e inefficiente, mentre

scarseggiano i generi di prima necessità. I crescenti impegni finanziari oltre confine e

il calo della rendita petrolifera stanno ulteriormente limitando le risorse venezuelane.                                                             154 Antonio Moscato, Il risveglio dell’America Latina: Storia e presente di un continente in movimento, Edizioni Alegre, Roma 2008, p. 144. 155 Telecom Italia, ad esempio, ha chiesto 350 milioni di dollari alla Bolivia, in caso di nazionalizzazione delle telecomunicazioni. 156 Il 15 febbraio 2009 (successivamente alla prima stesura di questa ricerca) Chávez ha vinto il referendum sulla riforma costituzionale che gli permetterà di ricandidarsi, senza vincoli di mandato. Viene così superato uno dei bastioni della Rivoluzione messicana: il limite che il movimento di Cordoba, nel 1810, ha imposto sul tema della rieleggibilità. A Caracas, il sì ha vinto con il 54% dei voti: una maggioranza esigua, quindi, che dovrebbe ridimensionare le paure, espresse già in passato, di una deriva eccessivamente autoritaria, di uno strapotere nelle mani del caudillo di Caracas sul destino del suo paese. L’opposizione rimane forte e, comunque, la sua rielezione è sempre soggetta al voto popolare.

79  

Il leader di Caracas ha bisogno di ritrovare consensi e quindi si affida a campagne

propagandistiche, senza adottare nessun provvedimento concreto; cerca maggiore

visibilità nel continente e all’estero. Molti hanno spiegato, sulla base di tali

considerazioni, le reazioni eccessive di Chávez durante la crisi andina dello scorso

marzo tra Colombia ed Ecuador; una crisi che non lo vedeva direttamente coinvolto,

ma nella quale Chávez si è esposto molto, mettendo in pericolo i già delicati rapporti

con la Colombia, dei cui generi alimentari il Venezuela ha bisogno più di quanto

Bogotà non abbia bisogno del petrolio venezuelano.

Problemi interni stanno minacciando anche la presidenza di Morales, il quale è

arrivato ad ammettere di non possedere veramente il potere di governare il suo

Stato. Correa ha saputo, invece, provvedere prima che fosse troppo tardi: durante la

crisi di marzo, di fronte alle manifestazioni popolari in difesa della sovranità nazionale

minacciata, ha effettuato un ricambio di vertici dell’esercito, che si pensa fossero

collusi con Stati Uniti e Colombia.

Il Venezuela è il paese di punta della “rivoluzione bolivariana”: Chávez ha

concepito e sostenuto questa idea, anche fuori dai confini nazionali. Egli si dice parte

di un progetto comune, condiviso da altri Stati, Bolivia ed Ecuador essenzialmente,

oltre a Cuba; si dice parte di un “asse rivoluzionario bolivarista”. Ma esiste veramente

tale asse? Le differenze tra le esperienze singole dei tre paesi fanno ipotizzare che

quella sia una dichiarazione dal valore prevalentemente ideologico. Eppure sono in

molti ormai a parlare dei tre Stati andini come dell’America bolivariana o chavista.

Certamente, Venezuela, Bolivia ed Ecuador condividono un’impostazione di fondo: la

volontà, cioè, di costruire sistemi di governo concentrati sul sociale e su forme di

assistenzialismo. Tuttavia, sia Morales che Correa si sono detti più volte non in

sintonia con le scelte, specialmente di politica estera, di Chávez. Anche gli altri Stati,

che si sono mostrati meno duri nei confronti del Venezuela, come Brasile, Argentina,

Uruguay e Paraguay, non hanno mostrato alcuna intenzione di farsi trascinare da

Chávez e dai suoi programmi basati sulla ricchezza derivante dal petrolio. Diversi

sono gli interessi particolari e troppo forte il sentimento di indipendenza, di non

ingerenza esterna, provato da tutti questi paesi, che non si rivolge solo contro gli

Stati Uniti. Quando il Venezuela si è candidato per il seggio temporaneo al Consiglio

di Sicurezza dell’Onu, Chávez era convinto di essere sulla strada giusta per fare del

suo paese una grande potenza energetica e politica a livello internazionale. Grazie

alla vendita di petrolio a prezzi politici, sia nei Caraibi e in Sudamerica, che in Africa

80  

e Asia, sperava di ricevere i 128 voti, necessari per ottenere il seggio. Il Presidente

però non aveva considerato la candidatura del Guatemala, che era stata

contrapposta al Venezuela dagli USA e che aveva ottenuto il voto favorevole di Perù,

Costa Rica e Panama e l’astensione del Cile157. Questi paesi rappresentano uno

schieramento di sinistra, definita socialdemocratica, fortemente contraria al

Venezuela. A questi Stati si aggiungono, volendo con questa specificazione

delineare lo scenario scaturito dalle ultime elezioni nel subcontinente, i paesi di

destra, Messico, Colombia, Guatemala ed El Salvador, filoamericani158.

In un mondo nel quale si affacciano nuove potenze economiche, mentre gli

Stati Uniti d’America hanno perso consenso dall’inizio della guerra in Medio Oriente e

oggi attraversano una grave crisi economica, paragonata a quella del ’29, l’emergere

dei paesi andini nel contesto internazionale ha dato spunto a una miriade di analisi,

prevalentemente legate al futuro degli equilibri globali. La maggiore autonomia dei

paesi latinoamericani si è tradotta in una maggiore apertura all’estero. I tre Stati

andini hanno iniziato a stringere rapporti con le grandi potenze mondiali: Ue, Russia

e Cina. Alcuni hanno visto in determinate intese, raggiunte a livello internazionale,

una visione terzomondista di opposizione agli USA e all’Occidente in generale e

dibattono sulle finalità strategiche e ideologiche di tali scelte, che hanno fatto

ripensare alle dinamiche della guerra fredda. Si analizza, ad esempio, l’effetto che

l’amicizia con la Russia può avere sugli interessi statunitensi e sul loro ruolo di

potenza regionale. Allo stesso modo, si fanno ipotesi sulla minaccia insita

nell’affacciarsi della Cina nel subcontinente. È anche vero che la maggior parte degli

analisti americani dubita che qualsiasi iniziativa cinese o russa in America Latina

possa provocare uno scontro con Washington, sottolineando la cautela generale nei

rapporti con gli Usa e la prevalenza accordata ad altri temi di collaborazione con

essi. Altri, invece, si soffermano sulle implicazioni, che una politica di aperta e

continua opposizione agli Stati Uniti può avere oggi, alla luce della lotta al terrorismo

e considerata l’amicizia dichiarata di Chávez nei confronti di Iran, Corea del Nord e

Bielorussia. A tal proposito, sembra utile soffermarsi ad analizzare il legame che si è

                                                            157 Panama è stato scelto quale candidato di compromesso tra Venezuela e Guatemala e oggi occupa uno dei seggi per l’America Latina nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. 158 Si veda: Maurizio Stefanini, Le quattro Americhe, in AA.VV., Chávez-Castro: L’antiamerica, «Limes. Rivista italiana di geopolitica», 2, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2007, pp. 79-89.

81  

creato tra Venezuela e Iran. Tale argomento, infatti, è motivo di profonde

preoccupazioni non solo per gli Stati Uniti159.

Venezuela e Iran sono riusciti a stabilire un’alleanza strategica, che si è

rafforzata nel tempo, specialmente dall’elezione di Mahmud Ahmadinejad, e che è

diventata geopoliticamente molto interessante. Sarebbe un azzardo rintracciare

similarità nell’esperienza dei due Stati, al fine di giustificare tale intesa: i due regimi,

anche se definiti populisti, pur di diverso orientamento, non possono essere solo per

questo paragonati l’uno all’altro; né ci si può soffermare a sottolineare il sostegno e il

finanziamento a gruppi politici, dichiarati terroristici, dei quali sono più o meno

velatamente accusati. Molte sono le differenze: dai processi di creazione dei rispettivi

governi – costituzionale quello venezuelano, seguito a una rivolta popolare quello

iraniano – ai rapporti con i rispettivi credi religiosi. Entrambi, però, si dichiarano a

favore di un mondo multipolare e partecipano al rilancio del movimento dei paesi non

allineati, anche se per finalità differenti. L’Iran vorrebbe imporre all’interno, ed

esportare poi, una visione islamica sciita fondamentalista. Il Venezuela intende

diffondere il “socialismo del XXI secolo” nel proprio territorio e favorirne l’eventuale

espansione al di fuori dei confini nazionali. Le due visioni della società, che stanno

dietro i due progetti, sono ovviamente molto diverse.

Tra i due Stati è prevalso il pragmatismo. Caracas e Teheran hanno

consolidato la loro alleanza strategica soprattutto sui seguenti fronti: nel settore

petrolifero, i due paesi sono orientati verso il taglio della produzione per difendere i

prezzi; nel contenzioso sulla questione nucleare, il Venezuela non solo si è schierato

dalla parte dell’Iran, ma ha anche votato contro qualsiasi tentativo di condanna di

Teheran160, tanto più che entrambi rivendicano il diritto di armarsi adeguatamente, a

fini, certamente, di difesa.

La comunione su tali argomenti è ciò che ha suscitato diffidenza e paura in

generale tra le democrazie del mondo, ma anche, per motivi diversi, tra gi Stati arabi

e all’interno della comunità scientifica e negli ambienti politici ed economici

                                                            159 Sull’argomento si veda: Adolfo P. Salgueiro, L’asse Caracas-Teheran, in AA.VV., Chávez-Castro: L’antiamerica, «Limes. Rivista italiana di geopolitica», 2, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2007, pp. 175-181. 160 Il Venezuela, membro del Consiglio direttivo dell’Agenzia Internazionale per l’energia atomica dell’Onu, insieme a Cuba e alla Siria, è stato l’unico Stato a votare contro l’eventualità di sottoporre la questione del programma nucleare iraniano al Consiglio di Sicurezza. Il Venezuela ha anche vivamente protestato contro la risoluzione 1737 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, approvata all’unanimità, con la quale sono state imposte sanzioni all’Iran. Chávez, insieme a Iran e Indonesia, si è fatto sentire anche contro la risoluzione A/RES/61/253 dell’Assemblea Generale dell’Onu, del 27 gennaio 2007, che ha condannato la negazione dell’olocausto del popolo ebraico, dedicando tale data alla celebrazione annuale di una giornata in ricordo di quella tragedia mondiale. Infine, nel maggio 2006, quando l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato la creazione della Commissione per i Diritti Umani, Venezuela, Iran e Bielorussia si sono astenuti dalla votazione (USA, Israele, Isole Palau e Isole Marshall hanno votato contro).

82  

venezuelani. Il timore principale riguarda il programma iraniano di arricchimento

dell’uranio. Sono in molti a chiedersi se, una volta decise sanzioni più rigide nei

confronti dell’Iran, il Venezuela possa, dichiarandosi solidale con Teheran, provocare

l’esportazione nel continente latinoamericano del conflitto mediorientale, con i rischi e

le conseguenze che ne deriverebbero.

Gli scenari ipotizzati a proposito del ruolo che Venezuela, Bolivia ed Ecuador

possono avere nel contesto internazionale non si esauriscono nelle rivisitazioni della

guerra fredda o nelle ipotesi del conflitto mediorientale trasportato in America Latina.

Particolarmente interessante è un articolo di Alexis Troude, nel quale si sottolineano

le similarità esistenti tra la vicenda kosovara e quella dei «paesi dell’arco petrolifero

andino»161. Troude pone l’accento sull’esistenza in Venezuela, Bolivia ed Ecuador di

regioni separatiste, che sono anche le più ricche e nelle quali si concentrano le più

maggiori risorse naturali dei rispettivi Stati. La provincia del Zulia, in Venezuela, zona

agricola di grande interesse, si trova in prossimità della più importante massa idrica

latinoamericana, il lago di Maracaibo, e possiede anche giacimenti notevoli di idro-

carburi. Il dipartimento di Santa Cruz, in Bolivia, ricco di riserve di gas, detiene anche

l’80% della produzione agricola del paese e la sua capitale, Santa Cruz de la Sierra,

da sola rappresenta il 35% del Pil boliviano. La provincia di Guayas, in Ecuador, è la

più ricca del paese e la sua capitale ospita il 40% delle imprese ecuadoriane.

Uno scenario simile a quello del Kosovo, ricco di giacimenti di carbone, zinco,

piombo e lignite e perciò strategicamente importante. In queste regioni, gli Stati Uniti,

con le stesse organizzazioni per lo sviluppo con le quali sono stati presenti in Kosovo

e anche con gli stessi diplomatici (Philip Goldberg, l’ambasciatore dichiarato persona

non grata da La Paz), attraverso l’elargizione di fondi, finanziano i gruppi di

opposizione. Attraverso l’Iniziativa Andina o il Plan Colombia e la costruzione di basi

militari, gli Stati Uniti hanno, infine, fatto della Colombia un punto di riferimento

strategico, per il controllo dell’arco petrolifero andino.

Il 4 novembre 2008, si sono tenute le elezioni presidenziali statunitensi. Un

appuntamento atteso da tutto il mondo, per il valore potenziale, oltre che simbolico,

che la vittoria del candidato Obama ricopre. Su di lui sono riposte molte speranze di

cambiamento della politica di questo grande paese, che, nonostante le crisi

economica e di legittimità, rimane una pedina fondamentale dello scacchiere                                                             161 Alexis Troude, South America’s Kosovos, September 12, 2008, www.kosovocompromise.com .

83  

internazionale. Ancora prima dell’esito delle elezioni, già si discuteva sulle possibilità

di cambiamento della politica estera americana rispetto alla linea seguita da Bush.

Un cambiamento che è considerato inevitabile, ma che, almeno da quanto emerso in

campagna elettorale, sembra effettivamente difficile da compiere. Le scelte

dell’amministrazione Bush non mostrano di concedere ampi margini di movimento al

nuovo presidente. Per quanto riguarda i rapporti con l’America Latina, gli Stati Uniti

non possono continuare a ignorare di avere bisogno del sostegno del Sud, per

rafforzarsi all’interno, ma anche a livello internazionale. Una delle ultime misure

importanti prese da Argentina e Brasile è la rinuncia al dollaro quale moneta d’uso

corrente. Gli Stati Uniti non possono ignorare il significato di tale evento. Essi devono

anche affrontare il problema migratorio, non però con la chiusura dei loro confini. E’

necessario un approccio diverso rispetto alla militarizzazione dei territori dei paesi

produttori di coca, per affrontare la questione del narcotraffico e del consumo di

droga in patria. Non per ultimo, c’è il problema del fabbisogno di risorse energetiche:

gli Stati Uniti non possono continuare a gestire tale questione, ricorrendo quasi

esclusivamente ad azioni di destabilizzazione più o meno camuffate. La vittoria di

Obama lascia spazio a ipotesi ottimistiche di riorganizzazione dei rapporti con i paesi

dell’area andina. La ricerca di una distensione di tali relazioni potrebbe aprire scenari

nuovi di collaborazione strategica, nonché profilare nuove intese e alleanze anche

all’interno del continente sudamericano. Chávez dovrà decidere di diminuire la

violenza della sua retorica antiamericanista; ma bisognerà fare i conti anche con la

necessità di autonomia che gli Usa, in questo momento di grave crisi economica, si

devono garantire dal punto di vista del fabbisogno energetico162.

Quale sfida aspetta i nostri tre paesi? Essi devono portare prima di tutto a

termine il percorso di definizione della propria identità nazionale, superando «l’attuale

ibrido di pluralismo formale e caudillismo sostanziale»163 che li caratterizza. Partendo

da qui, devono poi completare il processo di riequilibrio dei rapporti con le grandi

potenze mondiali, conditio sine qua non per diventare attori significativi nel nuovo

ordine internazionale. Dal punto di vista economico, devono emanciparsi dalla

dipendenza dalle risorse energetiche e dal loro utilizzo a fini strettamente ideologici.

Solo così gas e petrolio potranno rappresentare quello che l’acciaio e il carbone sono

                                                            162 Tra le prime misure adottate da Obama per far fronte alla crisi economica c’è il sostegno all’industria automobilistica, con un’attenzione particolare alle possibilità di impianti alternativi al motore alimentato con benzina e gasolio. 163 Antonio Moscato, op.cit., p. 173.

84  

stati per l’Europa della seconda metà del Novecento: uno strumento di unione. I tre

Stati andini devono anche puntare a una migliore distribuzione della ricchezza: i

benefici della crescita economica degli ultimi anni non sono stati ripartiti in modo

uniforme. Si giustificano così gli altissimi tassi di povertà assoluta in tutti e tre i paesi.

Da un’analisi del rapporto tra l’indice di vita delle riserve energetiche e la

produzione delle stesse emerge che la Bolivia sia un paese che può puntare a

rafforzare il ruolo strategico del suo gas, più di quanto non possa fare il Venezuela

con il suo petrolio, soprattutto se si considera la capacità di esportazione della

Bolivia, che nel settore del gas è nettamente superiore a quella del Venezuela.

L’Ecuador, che si attesta al secondo posto per l’esportazione di petrolio, dopo

Caracas, deve fare i conti con una tipologia di greggio super pesante, che necessita

quindi di elevati investimenti per la sua raffinazione. Ciò rende Quito ancora più

dipendente dagli Stati Uniti. Oltre il 40% delle esportazioni ecuadoriane, ma anche

venezuelane sono dirette verso gli USA. La Bolivia è invece più indipendente e

dinamica nelle sue relazioni commerciali e guarda soprattutto al continente

sudamericano e, al suo interno, al Brasile.

Altro punto di forza per la Bolivia è il ruolo strategico che il litio potrebbe

ricoprire nell’industria automobilistica164. Usato già per le batterie dei telefonini e dei

computer portatili, potrebbe essere determinante per il futuro del mercato delle auto

elettriche, sempre più in crescita, anche perché meno nocive per l’ambiente. Il 50%

delle riserve conosciute sfruttabili di litio si trova proprio in Bolivia, nei laghi salati

prosciugati (salar) delle Ande e in particolare nel Salar de Uyuni, la più grande

distesa salata del mondo a 3.650 metri di quota, un'area ad alta protezione

ambientale. Si stima che la domanda mondiale di litio, nei prossimi dieci anni, sarà

cinque volte quella attuale, con il rischio, se non si troveranno nuovi giacimenti, di un

vertiginoso aumento del costo delle batterie e quindi delle auto elettriche. La paura,

che serpeggia tra i colossi della produzione automobilistica, è che la politica

nazionalista di Morales, applicata al destino delle riserve naturali boliviane, non

permetta facilmente lo sfruttamento del litio. D’altro canto, esperti dell'industria

mineraria mettono in evidenza che, anche se si dovesse riuscire a superare la

reticenza di Morales ad aprire le proprie ricchezze alle compagnie straniere, i tempi

di produzione saranno più lunghi di quanto richiesto dall'industria automobilistica. Il

governo boliviano non vuole dare carta bianca allo sfruttamento del litio, dubitando

                                                            164 Si veda: Paolo Virtuani, Il litio condiziona il futuro delle auto elettriche e la riduzione dei gas serra, «Corriere della Sera», 8 novembre 2008.

85  

anche del suo impatto veramente positivo sull’ambiente: «gli impianti di litio

producono grandi quantità di biossido di zolfo», avverte Eschazu, ministro delle

Miniere della Bolivia, «un'industria altamente inquinante. Quindi non so se questa sia

la soluzione migliore». Non si tratta poi di una sola questione di governo, i boliviani

stessi sono stanchi di non poter usufruire appieno delle ricchezze della propria terra.

Parlando dei propri antenati, hanno detto: «Sono arrivati qui con le carovane di lama,

ma il mercato li ha obbligati a partire. Noi vogliamo ritornare a vivere con il salar e

migliorare le nostre condizioni di vita con il progetto pilota sul litio». Tale progetto

punta a produrre 1.200 tonnellate di litio all'anno, per salire a 30 mila nel 2012, se

sarà installato un impianto industriale.

La Bolivia, uno dei più piccoli paesi del continente, nonché poverissimo, ha

risorse di un tale valore, da poter competere con i grandi paesi. Non è azzardato

ipotizzare, alla luce di tali considerazioni, che sia proprio questo Stato a svolgere, in

futuro, un ruolo decisivo per i destini del continente sudamericano; magari a fianco

del Brasile, che oggi è indubbiamente il paese chiave degli equilibri sudamericani; il

paese che può dare profondità strategica e continuità all’“area chavista” oppure

isolarla.

Il Brasile, assieme all’Argentina, sta tentando un esperimento di mediazione

tra socialismo reale di stampo chavista, che prevede programmi assistenziali per

disoccupati e indigeni, e capitalismo. La Petrobras (statale solo per il 40%), per fare

un esempio, è ormai una delle maggiori compagnie petrolifere al mondo. Per questo

esperimento, il Brasile è diventato un grande punto di riferimento. Assieme agli Stati

Uniti si è lanciato all’inseguimento di obiettivi ormai diventati irrinunciabili quali

l’indipendenza, la sicurezza energetica e la lotta al surriscaldamento del pianeta,

mostrandosi all’avanguardia nello sfruttamento di biocarburanti. L’“asse dell’etanolo”,

come è stato definito, permette certamente a Lula di differenziarsi rispetto a Chávez

e ai suoi alleati e mostrarsi, così, come un’alternativa molto più interessante e

affidabile. La produzione e offerta di biocarburanti non riscontra, però, la totalità dei

consensi. Ciò che si teme sono gli squilibri che possono derivare dall’aumento,

peraltro già verificatosi, del prezzo dei cereali, un bene fondamentale nella catena

alimentare latinoamericana, nonché dall’introduzione di nuove forme di monocoltura.

Certamente, i successi di Lula sono una minaccia alla visibilità di Chávez e il

progetto dell’etanolo, l’offerta di biocarburanti, costituisce un reale pericolo per il

petrolio venezuelano, perché potrebbe comportare la caduta dei prezzi del greggio.

86  

La visibilità di Chávez è compromessa anche da una dura campagna denigratoria,

che la maggior parte dei quotidiani esteri fa e che lui, dal canto suo, con le sue

dichiarazioni e azioni eclatanti, non contribuisce a smentire del tutto. Da un’altra

parte, egli è invece al centro delle analisi ottimistiche, delle speranze di importanti

cambiamenti nel continente. Sembra che Chávez sia subentrato a Castro nel ruolo,

allo stesso tempo, di bersaglio e riferimento per settori diversi delle società di tutto il

mondo. Chávez è stato anche accusato, assieme a Morales, da un autore di fama

mondiale come Vargas Llosa, di razzismo: «Un razzismo di ritorno contro i bianchi e i

creoli». Al di là di tali dichiarazioni, in generale, molti studiosi o uomini addentro alle

questioni politiche ed economiche latinoamericani denunciano la riduzione di una

realtà vibrante e complessa qual è l’America Latina all’interno di analisi

eccessivamente lineari, semplicistiche e ideologiche.

Per terminare, sembra d’obbligo qualche breve riflessione su Cuba, il paese al

quale, per molto tempo, si è guardato nella speranza di individuare segnali di

cambiamento e la cui esperienza è un insegnamento prezioso certamente per quegli

Stati, Venezuela, Bolivia ed Ecuador in testa, che hanno intrapreso la strada della

costruzione di forme socialiste di governo. Cuba continua a dividere: il progetto del

“socialismo del XXI secolo” certamente trae ispirazione dall’accento posto dalla

rivoluzione cubana sulla necessità di garantire i fabbisogni primari della popolazione,

combattendo il passato di corruzione e assoggettamento alle imposizioni esterne.

Esso però, per come è stato concepito da Chávez in particolare, non può risolversi

nella chiusura. Castro ha ammesso il suo errore.

Molti dei paesi latinoamericani, anche di grande spessore, come Brasile e

Argentina, mantengono oggi rapporti cordiali con Cuba, pur non rinunciando a

criticarne gli errori e proseguendo nella ricerca di una propria strada di crescita e

sviluppo. Persino negli Stati Uniti qualcosa è cambiato: gli Stati agricoli si dicono

interessati a sviluppare gli scambi con l’isola caraibica e in Florida, dove risiede la

comunità più numerosa di esuli cubani, i sentimenti di questi verso la madrepatria

sono cambiati tanto da scendere in piazza contro le restrizioni ai viaggi e alle rimesse

alle famiglie, volute dall’amministrazione Bush.

Cuba è dunque molto meno sola oggi che in passato; ma la rigidità mostrata

dal gruppo dirigente, ancora oggi, nei confronti di qualsiasi forma di opposizione, non

è certamente salutare per questo paese, che sta soffrendo una gravissima crisi

economica e di consensi interni. La popolazione è allo stremo, tra la paura per le

87  

difficoltà economiche e la delusione per la continua oscillazione tra aperture e divieti.

In tale contesto, si è registrato un aumento della microcriminalità.

Cresce tra gli intellettuali cubani un dissenso che non ha nulla di ideologico,

quanto piuttosto basato su osservazioni concrete, su un’analisi lucida della

situazione nell’isola e sulla richiesta di un maggiore pluralismo all’interno della

cerchia di coloro i quali prendono le decisioni.

Rispetto all’esperienza cubana, quelle di Venezuela, Bolivia ed Ecuador

insegnano che per vincere, non è necessario combattere l’opposizione, negare il

pluralismo e ogni forma di dialogo. Gli esperimenti di governo di questi tre Stati

andini sono, però, indubbiamente ancora troppo acerbi, deboli e soffrono di

contraddizioni interne. Questi Stati non si sono completamente liberati dei vecchi

equilibri di potere, dei sistemi clientelari e parassitari. I loro leader sembrano cedere

alle tentazioni della ricerca di un potere virtualmente illimitato, allo stesso tempo

contenuto, però, dal sistema pluralista che essi stessi hanno favorito e voluto per i

propri paesi. In tale contesto, ciò che merita di essere rilevato è la forza mostrata

dalle masse: con il voto, hanno fatto sentire la loro voce, forti della consapevolezza di

ciò di cui hanno bisogno e della volontà di lottare per raggiungerlo. Esse sono la

speranza che i cambiamenti in America Latina non si esauriscano nella ventata di

novità registrata in questo nuovo millennio, ma raggiungano un più stabile e duraturo

compimento.

88  

ALLEGATI NUOVI SCENARI IN AMERICA LATINA:

Bolivia, Ecuador, Venezuela ed il Pensiero Castrista

1. ANALISI MACROECONOMICA

Figura 1: Tabella sintetica dati macroeconomici generali

Fonte: rielaborazione su dati CIA e World Bank

La Tabella esprime i principali dati economici dei tre Paesi Latinoamericani

considerati. Il Prodotto interno Lordo, PIL, del Venezuela è oltre tre volte maggiore di

quello dell’Ecuador e oltre nove di quello della Bolivia. Negli ultimi 4 anni tutti i Paesi

hanno sperimentato elevati tassi di crescita delle loro economie, ma il Venezuela si

distingue in modo particolare per una crescita media di oltre l’11% dovuta, in gran

parte, agli alti prezzi petroliferi degli ultimi anni. Come la maggior parte delle

economie latinoamericane la distribuzione della ricchezza è assai iniqua, in Europa

l’indice di Gini non supera il 33%.

Ciò significa che la ricchezza non è distribuita uniformemente all’interno della

popolazione e che i benefici della crescita economica non sono uniformi. Le alte

disuguaglianze giustificano così gli altissimi tassi di povertà assoluta in tutti e tre i

paesi. La Bolivia con il 60% di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno

resta uno dei Paesi più poveri di tutta l’America Latina. L’inflazione è elevata

soprattutto in Venezuela. L’Ecuador si differenzia poiché grazie alla dollarizzazione

Valori in dollari Bolivia Ecuador Venezuela

PIL (parità dei poteri d’acquisto): 39.750.000 98.710.000 334.300.000

PIL – tasso di crescita reale, media 2004/07 4,49% 5,18% 11,84%

PIL- pro capite (PPP): 4.400,00 7.200,00 12.800,00

Distribuzione del Reddito - Gini index 59,02 46,00 48,20

Tasso d’inflazione 8,7% 2,3% 18,7%

Percentuale di Debito Pubblico sul PIL 46,30% 33,10% 19,30%

Popolazione sotto la soglia di povertà assoluta 60% 38.3% 37.9%

89  

dell’economia, è riuscito a tenere un’inflazione molto più bassa rispetto ai colleghi

latinoamericani.

Figura 2 : Confronto tra PIL dei tre paesi latinoamericani

Fonte: CIA e World Bank. I dati sono espressi in dollari prendendo in considerazione la parità dei poteri d’acquisto.

Figura 3 : Dipendenze Commerciali Percentuale del PIL Principali Partners

Bolivia/Esportazioni 35,44% Brasile 45.2%, Argentina 9.2%, US 8.6%, Colombia 6.7%, Giappone 6.6%,

Corea Sud 4.3% , UE 2,9%, Italia 0,6%

Bolivia/Importazioni 30,64% Brasile 30%, Argentina 16.4%, Cile 10.4%, US 9.7%, Perù 8.1%,UE27 9,27%, di

cui Italia 0,87%

Ecuador/Esportazioni 33,59% US 41.6%, Perù 8.4%, Colombia 6.2%, Chile 4.8%, Ue 9%, di cui Italia 3%

Ecuador/Importazioni 34,10% US 21.4%, Colombia 12.3%, Cina 6.9%, Brasile 6.8%, UE 10%, di cui Italia

1,41% Venezuela/Esportazioni

29,29% US 42.4%, Antille Olandesi 7.9%, Cina 3.1%, UE 7,7% di cui Italia 0,3%

Venezuela/Importazioni 18,71% US 26.6%, Colombia 13.5%, Brasile 9.5%, China 6.7%, Messico 5.2%, Panama

5%, UE 10,51, di cui Italia 1,92

Fonte: CIA e World Bank

In primo luogo, l’apertura esterna, somma di importazioni più esportazioni/Pil,

di Bolivia ed Ecuador è maggiore rispetto a quella del Venezuela. Inoltre dalla tabella

risulta evidente che l’economie di Venezuela ed Ecuador sono fortemente dipendenti

dagli Stati Uniti, oltre il 40% delle loro esportazioni sono dirette verso gli USA. Il

commercio estero della Bolivia risulta maggiormente diversificato e diretto verso i

Paesi latinoamericani. Il Brasile resta il primo partner commerciale della Bolivia per

cui è difficile immaginare politiche non volte a rafforzare questa alleanza strategica.

Il ruolo dell’Europa, ed in particolare dell’Italia, è minimo a denotare una

mancanza di strategia comune verso questi paesi se non per alcuni settori specifici.

90  

Analizzando nel dettaglio i rapporti commerciali tra Italia e Bolivia in base a dati

ISTAT si può notare che oltre il 64% delle esportazioni riguardano macchinari

meccanici ed elettrici, generalmente prodotti dalle PMI, per la lavorazione del cuoio e

del legno. Un altro 14% è rappresentato dall’esportazione di autoveicoli. Per quanto

riguarda le importazioni il 34% è rappresentato dal cuoio, il 10% dal legname, ed un

altro 40% da prodotti alimentari.

La situazione in Ecuador non è molto diversa. Le esportazioni italiane in

Ecuador riguardano per oltre il 56% macchinari meccanici e di precisione. Le

importazioni riguardano per il 98% beni alimentari, in maggioranza frutta. Anche per

quanto riguarda il Venezuela la parte maggiore delle esportazioni italiane riguarda i

macchinari, le importazioni sono maggiormente diversificate. Le voci maggiormente

significative sono rappresentate dai prodotti petroliferi che equivalgono al 26% delle

importazioni ed i metalli, bauxite, alluminio ed acciaio, che rappresentano il 37%.

Gli indicatori che seguono sono particolarmente utili per un’analisi comparativa

tra i vari paesi latinoamericani. Emerge come i paesi andini abbiano PIL tra i più

bassi della regione. Se si prende però in considerazione la popolazione, e quindi il

PIL/pro capite, mentre Ecuador e Bolivia permangono nelle medesime posizioni, il

Venezuela sale al secondo posto dopo il Cile. Ciò indica che se si attuassero

politiche per ridurre le elevate disuguaglianze il paese di Chávez potrebbe

raggiungere i livelli dei più sviluppati dell’America Latina.

91  

Figura 4 : Indicatori economici a confronto

92  

2. PETROLIO

Figura 5: Riserve di Petrolio

Fonte: World Oil and Gas Review 2008, ENI

Il Venezuela detiene 87 miliardi di barili di petrolio ed è al sesto posto su scala

mondiale.

I consumi di petrolio sono costantemente aumentati nel corso del tempo, ma

le riserve sono cresciute e non diminuite. Dall’anno 2000 a oggi, sono salite a 1.166

miliardi di barili da 1.026 miliardi di barili, mentre nello stesso periodo si sono estratti

circa 236 miliardi di greggio. Questo significa che ogni anno si è scoperto più petrolio

di quanto se ne sia consumato.

Considerato che ogni anno si consumano in totale poco più di 30 miliardi di

petrolio, le riserve di greggio sono ancora abbondanti. Dunque, è difficile dire che

siamo prossimi alla “fine del petrolio”, anche perché le riserve non sono una variabile

statica e conosciuta, ma dinamica e incerta. Infatti, il loro valore può accrescersi a

fronte di nuove scoperte o della decisione di mettere in produzione giacimenti

considerati in passato tecnologicamente difficili o non economici.

Il problema delle riserve di petrolio resta però l’elevata concentrazione in pochi

paesi: i primi 10 detengono l’83,7% del totale.

Gran parte del petrolio, dunque, si trova in paesi in cui il crescente

nazionalismo delle risorse rende difficile alle grandi compagnie petrolifere occidentali

entrare ed operare e il loro utilizzo è affidato a compagnie nazionali che spesso

seguono politiche estrattive indicate dai rispettivi Governi.

Particolarmente significativo è poi l’indice che mette in relazione produzione e

riserve. Infatti tra i maggiori produttori di petrolio che hanno un indice di vita delle

93  

riserve particolarmente elevato (tra 70 e 86 anni) vi sono gli Emirati Arabi Uniti, l’Iran,

il Venezuela (84 anni) e l’Arabia Saudita. Segue a notevole distanza la Russia, con

16 anni e gli Usa a 11 anni. Questo dato è assai significativo per intuire la

potenzialità del Paese Latinoamericano nei prossimi anni.

Figura 6: Riserve di Petrolio

Fonte: World Oil and Gas Review 2008, ENI

Il Grafico esprime gli anni residui di vita delle riserve mantenendo costanti gli attuali livelli di produzione. Il Venezuela è al 3 posto.

94  

Figura 7: Esportazioni di Petrolio

Fonte: World Oil and Gas Review 2008, ENI

Nel 2006, le esportazioni di petrolio sono state pari a 63,1 milioni di barili

giorno (mb/g), pari a circa il 74% dei consumi mondiali.

Il primo paese esportatore di petrolio del mondo è l’Arabia Saudita, con oltre 8

mb/g (circa il 10% dei consumi mondiali). Il valore è risultato in crescita negli ultimi

dieci anni.

Il secondo paese esportatore è la Russia che, partendo da un livello di circa 4 mb/g

nel 2000, in questi ultimi anni si è avvicinata molto alla prima posizione, superando i

6 milioni di barili/giorno.

Il Venezuela è il quinto paese con 2,44 mb/g di cui il 35% di petrolio pesante

ed il 65% di super pesante.

Negli ultimi anni, tranne la Norvegia e il Venezuela le cui esportazioni si sono ridotte

significativamente, tutti gli altri paesi appartenenti alla classifica dei primi dieci hanno

aumentato le quantità di greggio vendute all’estero.

I primi dieci paesi rappresentano circa il 54% delle esportazioni totali (e il 40%

dei consumi mondiali di petrolio). Il loro contributo, comunque, si è ridotto nel tempo

(nel 1996 rappresentavano circa il 58% del totale), in corrispondenza dell’emergere

di nuovi paesi esportatori nel mercato internazionale del petrolio.

95  

Figura 8: Esportazioni di Petrolio Americhe

Fonte: Rielaborazione su dati World Oil and Gas Review 2008, ENI

Anche l’Ecuador ha un ruolo di primo piano per quanto riguarda l’esportazione

di petrolio nelle Americhe. Infatti è il quarto esportatore di petrolio, dopo Venezuela,

Messico e Brasile, in America Latina. Inoltre è al secondo posto nell’indice

Produzione/Riserve. Questo indice mostra gli anni residui di possibile utilizzo delle

riserve petrolifere. L’Ecuador è al secondo posto con 25 anni dopo il Venezuela che

ne ha oltre 84. Sono indici molto elevati se confrontati con USA e Canada che hanno

un indice rispettivamente di 11 e 7 anni. L’Ecuador produce però solo petrolio super

pesante che necessita di elevati investimenti per la sua raffinazione.

Migliaia/barili giorno 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006Argentina 409 432 433 388 384 446 431 394 326 301 284Bolivia 0 0 0 0 0 0 2 3 12 12 12Brazil 42 46 89 79 139 255 400 420 446 466 575Canada 1531 1642 1765 1677 1814 1866 1994 2071 2168 2099 2277Chile 1 3 3 5 17 24 18 31 28 32 35Colombia 401 424 516 607 472 391 376 317 304 320 309Costa Rica 3 2 3 4 3 3 4 2 3 4 5Ecuador 286 297 288 285 294 298 288 309 428 437 447El Salvador 3 5 5 5 6 6 6 4 5 6 6Guatemala 14 19 24 21 21 21 25 27 27 24 22Mexico 1669 1879 1912 1795 1925 1940 2040 2185 2180 2076 2104Nicaragua 0 0 0 1 1 1 1 1 1 1 1Panama 28 25 28 27 24 13 10 4 4 4 4Paraguay 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0Peru 56 69 75 48 41 56 57 68 58 76 69United States 991 1071 1004 993 1105 1065 1080 1141 1169 1277 1454Uruguay 3 2 1 3 3 3 1 3 7 7 6Venezuela 2996 3309 3215 2873 3002 2815 2664 2276 2559 2644 2441

96  

3. GAS NATURALE

Discorso assai diverso deve essere fatto per il gas naturale. Nel 2006, le

esportazioni di gas sono state pari a circa 879 miliardi di metri cubi (bmc), circa il

30% dei consumi mondiali. La quota del gas esportato sulla produzione è limitata e

più bassa di quella del petrolio. Il motivo è dovuto alla difficoltà del trasporto del gas

su lunghe distanze, attività molto più complessa e costosa di quanto succeda per il

petrolio. Fino a pochi anni fa, il gas era prevalentemente consumato nei paesi di

estrazione, limitando le quantità esportate. L’evoluzione e diffusione della filiera del

Gas Naturale Liquefatto (GNL), consentendo il trasporto via nave (e non via

gasdotto) ha aumentato la flessibilità del trasporto e le opportunità di esportazione

anche da parte di quei paesi che in precedenza erano esclusi dal commercio

internazionale in quanto distanti dai principali mercati di consumo (ad esempio Medio

Oriente e Australia). La quota delle esportazioni di GNL sul totale della produzione

mondiale è in costante aumento: è passata dal 5,5 % del 2000 al 7,2% del 2006 e,

sulla base di stime preliminari, si ritiene che sia ulteriormente aumentata nel 2007.

Il primo paese esportatore di gas naturale del mondo è la Russia, con circa

197 bcm, pari a circa il 7% dei consumi mondiali e a circa il 22% del totale delle

esportazioni segue il Canada (circa 100 bcm, tutti verso gli Stati Uniti). Il terzo paese

è la Norvegia che, con circa 87 bcm nel 2006, è una delle principali fonti di

approvvigionamento europeo.

Figura 9: Paesi Produttori Gas Americhe 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Argentina 27,79 30,60 32,32 36,16 40,19 39,95 38,37 42,66 43,93 43,21 45,25Bolivia 3,68 3,57 3,48 2,85 3,71 5,25 6,24 5,48 9,97 11,91 13,18Brazil 5,54 6,15 6,45 6,86 7,13 7,36 9,44 10,20 10,78 11,01 11,18Chile 1,77 1,93 1,74 1,98 2,09 2,10 2,15 1,89 1,88 2,11 2,81Colombia 4,66 5,82 6,65 5,84 6,51 6,91 6,90 6,61 6,96 7,30 7,87Cuba 0,02 0,04 0,12 0,45 0,56 0,58 0,57 0,64 0,69 0,73 0,79Ecuador 0,35 0,32 0,33 0,31 0,34 0,34 0,34 0,57 0,50 0,54 0,87Mexico 32,68 33,70 36,39 36,85 37,39 37,68 38,64 40,50 42,33 44,01 49,56Peru 0,50 0,38 0,45 0,58 0,53 0,55 0,60 0,66 1,03 1,74 1,96Venezuela 33,55 34,22 35,30 30,95 32,29 30,17 29,04 27,01 26,63 27,67 28,16

Fonte: Rielaborazione su dati World Oil and Gas Review 2008, ENI

Il Gas prodotto dai paesi latinoamericani è quasi esclusivamente ad uso

interno. Gli unici paesi che esportano gas naturale sono Argentina, per una quota di

oltre 6 miliardi di metri cubi e Bolivia con oltre 10 miliardi.

97  

Paesi esportatori di gas hanno tipicamente un rapporto produzione su consumo

superiore a uno. Per i più grandi paesi produttori ed esportatori la produzione è un

multiplo del consumo del paese.

Tra i primi produttori di gas, la Norvegia, paese poco popolato ma con grandi

risorse, ha il rapporto produzione su consumo più elevato, pari a 14,5 volte (dato

2006). I paesi che seguono nella classifica hanno rapporti ben più bassi, pari o

inferiori a 3,9. L’unico che si distacca è la Bolivia con un rapporto di 6,6. Nell’Unione

Europea il rapporto è sceso a 0,41 nel 2006, proseguendo il trend negativo in atto da

molti anni (nel 1996 il valore di questo indicatore era pari a 0,57). La dinamica è

frutto dell’effetto combinato di un aumento costante dei consumi e del declino della

tradizionale base produttiva, ed è destinata a mantenersi anche nei prossimi anni. Il

Gas della Bolivia risulta quindi una risorsa assai strategica per il Paese che è uno dei

primi 15 esportatori di Gas nel Mondo. Con un rapporto riserve produzione di oltre 56

anni il Gas Boliviano sarà sempre più strategico.

Nel 2008 le riserve stimate di gas della Bolivia sono pari a 817 miliardi di m3

assestando il Paese al secondo posto in America Latina dopo Venezuela, ma con

una capacità d’esportazione molto maggiore dati i bassi consumi locali.

Figura 10: Riserve di gas naturale - Americhe (miliardi di metri cubi al 1° gennaio) 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 Argentina 619 688 684 687 729 778 764 664 612 542 439 446 416Bolivia 127 125 118 150 518 675 775 813 782 757 740 740 817Brazil 154 158 161 228 231 221 223 245 245 326 306 348 395Chile 103 101 98 96 95 94 93 45 45 45 43 42 42Colombia 340 214 221 195 188 129 128 120 114 119 113 123 134Cuba 18 18 18 18 18 18 18 18 17 17 17 17 17Ecuador 106 105 103 103 29 10 10 10 9 9 9 9 9Guatemala 0 0 0 3 3 3 3 3 3 3 3 0 0Mexico 1916 1810 1797 851 861 835 797 424 421 419 412 392 373Peru 201 200 199 255 246 245 247 247 247 325 338 335 458Venezuela 4063 4049 4121 4148 4155 4152 4180 4181 4219 4287 4315 5100 5565

Fonte: Rielaborazione su dati World Oil and Gas Review 2008, ENI

98  

4. BIOCOMBUSTIBILI

La produzione di biocarburanti ha avuto un incremento notevole negli ultimi 10

anni. In particolare è dal 2002, quando la situazione in Medio Oriente iniziò ad essere

sempre più instabile, che USA e Brasile iniziarono a puntare molto di più su questo

tipo di energia.

Figura 11: Andamento Produzione Biocarburanti

Fonte: World Oil and Gas Review 2008, ENI

Tre sono le categorie in cui suddividiamo i combustibili ecologici: bioetanolo,

biodiesel e biogas che derivano dal trattamento differenziato di sostanze vegetali ed

organiche. Il bioetanolo ad esempio si ottiene dalla fermentazione di varie tipologie di

biomasse ricche di zuccheri o amidi: i cereali (mais, frumento, orzo ecc..), le culture

zuccherine (canna da zucchero, barbabietola, sorgo zuccherino ecc..), la frutta, le

patate, le vinacce ed è inoltre possibile ricavarlo da residui delle coltivazioni agricole

e forestali, dai materiali lignocellulosici, dai residui delle industrie agroalimentari oltre

che dalla componente organica dei rifiuti urbani. Il biodiesel è invece ricavato dalle

piante oleaginose (soia, ricino, palma, girasole, canola, colza, jatropha ecc..)

attraverso la spremitura dei semi ed il successivo trattamento dell’olio derivato con

un processo chimico di raffinazione chiamato transesterificazione, o dal trattamento

dei grassi animali. Il biogas, infine, è prodotto dalla fermentazione dei residui organici

presenti nei rifiuti urbani, nei scarichi fognari, nei liquami zootecnici.

99  

Brasile e Stati Uniti producono il 70% dell’etanolo mondiale: gli Usa lo

realizzano dal mais, il Brasile si serve principalmente della canna da zucchero.

Figura 12: Primi dieci produttori mondiali di Biogasoline

Sulla base di queste premesse è nata la diplomazia dell’etanolo. Tale

partnership strategica ha come obiettivo quello di mettere in risalto un’attività

economica nella quale il Brasile, il partner meno sviluppato, ha più esperienza e

tecnica più avanzata. Questo fatto alimenta l’interesse brasiliano verso una strategia

che pretende di sostituire i derivati del petrolio con l’etanolo nelle economie

centroamericane e caraibiche estendendo di fatto anche la sua influenza regionale.

La partnership ha come obiettivo più ambizioso quello di trasformare l’etanolo in

commodity non solo per motivi economici ma anche per esaltare il ruolo brasiliano

nella produzione efficiente di combustibili rinnovabili. Il primato dell’industria

brasiliana dell’etanolo rende la cooperazione con gli Usa un’interessante opportunità

geopolitica di proiezione della leadership brasiliana su scala regionale e mondiale.

Fu il Brasile il paese precursore dei biocarburanti quando, negli anni Settanta,

la spesa energetica, causata dall’impennata dei prezzi del petrolio, salì alle stelle, i

politici cercarono una soluzione alternativa nella produzione di etanolo dalla canna

da zucchero.

L’etanolo sembra essere il cavallo vincente su cui sempre più paesi cercano di

scommettere per il loro futuro energetico. Brasile e Stati Uniti soprattutto si sono

100  

lanciati all’inseguimento di obiettivi ormai diventati irrinunciabili quali l’indipendenza,

la sicurezza energetica e la lotta al surriscaldamento del pianeta. L’etanolo come

energia pulita, rinnovabile e producibile in territorio nazionale appare come una

buona risposta al costante crescere del prezzo del greggio e all’endemica instabilità

del Medio-Oriente.

L’idea dell’ “era dell’etanolo” fu decisa a Washington nel 2004 quando la

classe politica si rese conto che la situazione irakena non offriva garanzie per

l’approvvigionamento energetico in Medio Oriente e si decise quindi di incentivare la

produzione di etanolo .

Condotta a termine senza pubblicizzarla, la revisione della politica emisferica

brasiliana fu motivata da 3 fattori principali:

(1) l’esaurimento della pazienza di Lula nei confronti delle numerose

iniziative prese da Venezuela e Bolivia contro gli interessi brasiliani;

(2) il desiderio di un presidente all’apice della popolarità di affermare la

leadership regionale del Brasile messa in dubbio da Chávez e rifiutata dai vicini

quando si trattava di decidere alcuni incarichi al vertice di organismi internazionali e

nel fallito processo di riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite;

(3) ed infine la constatazione, non da sottovalutare, del fatto che gli

interessi del Brasile sono più affini a quelli statunitensi di quanto lo siano a quelli

venezuelani. La coscienza di interessi convergenti tra i due paesi è stata riconosciuta

anche da parte americana che tramite il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca ha

accettato il rango del Brasile in quanto potenza regionale, partner strategico ed

interlocutore privilegiato su temi globali. Un’impostazione che gli Usa avevano

rifiutato per molto tempo fino a quando i rispettivi presidenti, alla fine degli anni

Novanta, hanno deciso di abbandonare la reciproca sfiducia sostituendola con una

rinnovata disponibilità ad identificare possibili aree di cooperazione. Con la guerra in

Iraq che spinse i prezzi del petrolio alle stelle risultò evidente il ruolo dell’etanolo

come protagonista principale del riavvicinamento tra Brasile e Usa.

Tuttavia La produzione e offerta di biocarburanti non riscontra la totalità dei

consensi, specialmente per il pericolo di aumento, già verificatosi, del prezzo dei

cereali.

Ciò che si teme sono gli squilibri che possono derivare su economie con

grossi problemi di sottonutrizione e i problemi derivanti dalla reintroduzione di forme

di monoculture nuove diverse da quelle ereditate dal passato coloniale.

101  

5. LE MAPPE PAESE

Figura 13: VENEZUELA

102  

Figura 14: BOLIVIA

103  

Figura 15: ECUADOR

104  

Figura 16: AMERICA LATINA

105  

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1

ALLEGATI NUOVI SCENARI IN AMERICA LATINA:

Bolivia, Ecuador, Venezuela ed il Pensiero Castrista

1. ANALISI MACROECONOMICA

Figura 1: Tabella sintetica dati macroeconomici generali

Fonte: rielaborazione su dati CIA e World Bank La Tabella esprime i principali dati economici dei tre Paesi Latinoamericani

considerati. Il Prodotto interno Lordo, PIL, del Venezuela è oltre tre volte maggiore di

quello dell’Ecuador e oltre nove di quello della Bolivia. Negli ultimi 4 anni tutti i Paesi

hanno sperimentato elevati tassi di crescita delle loro economie, ma il Venezuela si

distingue in modo particolare per una crescita media di oltre l’11% dovuta, in gran parte,

agli alti prezzi petroliferi degli ultimi anni. Come la maggior parte delle economie

latinoamericane la distribuzione della ricchezza è assai iniqua, in Europa l’indice di Gini

non supera il 33%.

Ciò significa che la ricchezza non è distribuita uniformemente all’interno della

popolazione e che i benefici della crescita economica non sono uniformi. Le alte

disuguaglianze giustificano così gli altissimi tassi di povertà assoluta in tutti e tre i paesi.

La Bolivia con il 60% di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno resta uno

dei Paesi più poveri di tutta l’America Latina. L’inflazione è elevata soprattutto in

Venezuela. L’Ecuador si differenzia poiché grazie alla dollarizzazione dell’economia, è

riuscito a tenere un’inflazione molto più bassa rispetto ai colleghi latinoamericani.

Valori in dollari Bolivia Ecuador Venezuela

PIL (parità dei poteri d’acquisto): 39.750.000 98.710.000 334.300.000

PIL – tasso di crescita reale, media 2004/07 4,49% 5,18% 11,84%

PIL- pro capite (PPP): 4.400,00 7.200,00 12.800,00

Distribuzione del Reddito - Gini index 59,02 46,00 48,20

Tasso d’inflazione 8,7% 2,3% 18,7%

Percentuale di Debito Pubblico sul PIL 46,30% 33,10% 19,30%

Popolazione sotto la soglia di povertà assoluta 60% 38.3% 37.9%

2

Figura 2 : Confronto tra PIL dei tre paesi latinoamericani

Fonte: CIA e World Bank. I dati sono espressi in dollari prendendo in considerazione la parità dei poteri d’acquisto.

Figura 3 : Dipendenze Commerciali Percentuale del PIL Principali Partners

Bolivia/Esportazioni 35,44% Brasile 45.2%, Argentina 9.2%, US 8.6%, Colombia 6.7%, Giappone 6.6%,

Corea Sud 4.3% , UE 2,9%, Italia 0,6%

Bolivia/Importazioni 30,64% Brasile 30%, Argentina 16.4%, Cile 10.4%, US 9.7%, Perù 8.1%,UE27 9,27%, di

cui Italia 0,87%

Ecuador/Esportazioni 33,59% US 41.6%, Perù 8.4%, Colombia 6.2%, Chile 4.8%, Ue 9%, di cui Italia 3%

Ecuador/Importazioni 34,10% US 21.4%, Colombia 12.3%, Cina 6.9%, Brasile 6.8%, UE 10%, di cui Italia

1,41% Venezuela/Esportazioni

29,29% US 42.4%, Antille Olandesi 7.9%, Cina 3.1%, UE 7,7% di cui Italia 0,3%

Venezuela/Importazioni 18,71% US 26.6%, Colombia 13.5%, Brasile 9.5%, China 6.7%, Messico 5.2%, Panama

5%, UE 10,51, di cui Italia 1,92

Fonte: CIA e World Bank

In primo luogo, l’apertura esterna, somma di importazioni più esportazioni/Pil, di

Bolivia ed Ecuador è maggiore rispetto a quella del Venezuela. Inoltre dalla tabella risulta

evidente che l’economie di Venezuela ed Ecuador sono fortemente dipendenti dagli Stati

Uniti, oltre il 40% delle loro esportazioni sono dirette verso gli USA. Il commercio estero

della Bolivia risulta maggiormente diversificato e diretto verso i Paesi latinoamericani. Il

Brasile resta il primo partner commerciale della Bolivia per cui è difficile immaginare

politiche non volte a rafforzare questa alleanza strategica.

Il ruolo dell’Europa, ed in particolare dell’Italia, è minimo a denotare una mancanza

di strategia comune verso questi paesi se non per alcuni settori specifici. Analizzando nel

dettaglio i rapporti commerciali tra Italia e Bolivia in base a dati ISTAT si può notare che

oltre il 64% delle esportazioni riguardano macchinari meccanici ed elettrici, generalmente

prodotti dalle PMI, per la lavorazione del cuoio e del legno. Un altro 14% è rappresentato

3

dall’esportazione di autoveicoli. Per quanto riguarda le importazioni il 34% è rappresentato

dal cuoio, il 10% dal legname, ed un altro 40% da prodotti alimentari.

La situazione in Ecuador non è molto diversa. Le esportazioni italiane in Ecuador

riguardano per oltre il 56% macchinari meccanici e di precisione. Le importazioni

riguardano per il 98% beni alimentari, in maggioranza frutta. Anche per quanto riguarda il

Venezuela la parte maggiore delle esportazioni italiane riguarda i macchinari, le

importazioni sono maggiormente diversificate. Le voci maggiormente significative sono

rappresentate dai prodotti petroliferi che equivalgono al 26% delle importazioni ed i metalli,

bauxite, alluminio ed acciaio, che rappresentano il 37%.

Gli indicatori che seguono sono particolarmente utili per un’analisi comparativa tra i

vari paesi latinoamericani. Emerge come i paesi andini abbiano PIL tra i più bassi della

regione. Se si prende però in considerazione la popolazione, e quindi il PIL/pro capite,

mentre Ecuador e Bolivia permangono nelle medesime posizioni, il Venezuela sale al

secondo posto dopo il Cile. Ciò indica che se si attuassero politiche per ridurre le elevate

disuguaglianze il paese di Chavez potrebbe raggiungere i livelli dei più sviluppati

dell’America Latina.

4

Figura 4 : Indicatori economici a confronto

5

2. PETROLIO

Figura 5: Riserve di Petrolio

Fonte: World Oil and Gas Review 2008, ENI

Il Venezuela detiene 87 miliardi di barili di petrolio ed è al sesto posto su scala

mondiale.

I consumi di petrolio sono costantemente aumentati nel corso del tempo, ma le

riserve sono cresciute e non diminuite. Dall’anno 2000 a oggi, sono salite a 1.166 miliardi

di barili da 1.026 miliardi di barili, mentre nello stesso periodo si sono estratti circa 236

miliardi di greggio. Questo significa che ogni anno si è scoperto più petrolio di quanto se

ne sia consumato.

Considerato che ogni anno si consumano in totale poco più di 30 miliardi di petrolio,

le riserve di greggio sono ancora abbondanti. Dunque, è difficile dire che siamo prossimi

alla “fine del petrolio”, anche perché le riserve non sono una variabile statica e conosciuta,

ma dinamica e incerta. Infatti, il loro valore può accrescersi a fronte di nuove scoperte o

della decisione di mettere in produzione giacimenti considerati in passato

tecnologicamente difficili o non economici.

Il problema delle riserve di petrolio resta però l’elevata concentrazione in pochi

paesi: i primi 10 detengono l’83,7% del totale.

Gran parte del petrolio, dunque, si trova in paesi in cui il crescente nazionalismo

delle risorse rende difficile alle grandi compagnie petrolifere occidentali entrare ed operare

e il loro utilizzo è affidato a compagnie nazionali che spesso seguono politiche estrattive

indicate dai rispettivi Governi.

6

Particolarmente significativo è poi l’indice che mette in relazione produzione e

riserve. Infatti tra i maggiori produttori di petrolio che hanno un indice di vita delle riserve

particolarmente elevato (tra 70 e 86 anni) vi sono gli Emirati Arabi Uniti, l’Iran, il Venezuela

(84 anni) e l’Arabia Saudita. Segue a notevole distanza la Russia, con 16 anni e gli Usa a

11 anni. Questo dato è assai significativo per intuire la potenzialità del Paese

Latinoamericano nei prossimi anni.

Figura 6: Riserve di Petrolio

Fonte: World Oil and Gas Review 2008, ENI

Il Grafico esprime gli anni residui di vita delle riserve mantenendo costanti gli attuali livelli di produzione. Il Venezuela è al 3 posto.

7

Figura 7: Esportazioni di Petrolio

Fonte: World Oil and Gas Review 2008, ENI

Nel 2006, le esportazioni di petrolio sono state pari a 63,1 milioni di barili giorno

(mb/g), pari a circa il 74% dei consumi mondiali.

Il primo paese esportatore di petrolio del mondo è l’Arabia Saudita, con oltre 8 mb/g

(circa il 10% dei consumi mondiali). Il valore è risultato in crescita negli ultimi dieci anni.

Il secondo paese esportatore è la Russia che, partendo da un livello di circa 4 mb/g nel

2000, in questi ultimi anni si è avvicinata molto alla prima posizione, superando i 6 milioni

di barili/giorno.

Il Venezuela è il quinto paese con 2,44 mb/g di cui il 35% di petrolio pesante ed il

65% di super pesante.

Negli ultimi anni, tranne la Norvegia e il Venezuela le cui esportazioni si sono ridotte

significativamente, tutti gli altri paesi appartenenti alla classifica dei primi dieci hanno

aumentato le quantità di greggio vendute all’estero.

I primi dieci paesi rappresentano circa il 54% delle esportazioni totali (e il 40% dei

consumi mondiali di petrolio). Il loro contributo, comunque, si è ridotto nel tempo (nel 1996

rappresentavano circa il 58% del totale), in corrispondenza dell’emergere di nuovi paesi

esportatori nel mercato internazionale del petrolio.

8

Figura 8: Esportazioni di Petrolio Americhe

Fonte: Rielaborazione su dati World Oil and Gas Review 2008, ENI

Anche l’Ecuador ha un ruolo di primo piano per quanto riguarda l’esportazione di

petrolio nelle Americhe. Infatti è il quarto esportatore di petrolio, dopo Venezuela, Messico

e Brasile, in America Latina. Inoltre è al secondo posto nell’indice Produzione/Riserve.

Questo indice mostra gli anni residui di possibile utilizzo delle riserve petrolifere. L’Ecuador

è al secondo posto con 25 anni dopo il Venezuela che ne ha oltre 84. Sono indici molto

elevati se confrontati con USA e Canada che hanno un indice rispettivamente di 11 e 7

anni. L’Ecuador produce però solo petrolio super pesante che necessita di elevati

investimenti per la sua raffinazione.

Migliaia/barili giorno 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 Argentina 409 432 433 388 384 446 431 394 326 301 284 Bolivia 0 0 0 0 0 0 2 3 12 12 12 Brazil 42 46 89 79 139 255 400 420 446 466 575 Canada 1531 1642 1765 1677 1814 1866 1994 2071 2168 2099 2277 Chile 1 3 3 5 17 24 18 31 28 32 35 Colombia 401 424 516 607 472 391 376 317 304 320 309 Costa Rica 3 2 3 4 3 3 4 2 3 4 5 Ecuador 286 297 288 285 294 298 288 309 428 437 447 El Salvador 3 5 5 5 6 6 6 4 5 6 6 Guatemala 14 19 24 21 21 21 25 27 27 24 22 Mexico 1669 1879 1912 1795 1925 1940 2040 2185 2180 2076 2104 Nicaragua 0 0 0 1 1 1 1 1 1 1 1 Panama 28 25 28 27 24 13 10 4 4 4 4 Paraguay 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 0 Peru 56 69 75 48 41 56 57 68 58 76 69 United States 991 1071 1004 993 1105 1065 1080 1141 1169 1277 1454 Uruguay 3 2 1 3 3 3 1 3 7 7 6 Venezuela 2996 3309 3215 2873 3002 2815 2664 2276 2559 2644 2441

9

3. GAS NATURALE

Discorso assai diverso deve essere fatto per il gas naturale. Nel 2006, le

esportazioni di gas sono state pari a circa 879 miliardi di metri cubi (bmc), circa il 30% dei

consumi mondiali. La quota del gas esportato sulla produzione è limitata e più bassa di

quella del petrolio. Il motivo è dovuto alla difficoltà del trasporto del gas su lunghe

distanze, attività molto più complessa e costosa di quanto succeda per il petrolio. Fino a

pochi anni fa, il gas era prevalentemente consumato nei paesi di estrazione, limitando le

quantità esportate. L’evoluzione e diffusione della filiera del Gas Naturale Liquefatto

(GNL), consentendo il trasporto via nave (e non via gasdotto) ha aumentato la flessibilità

del trasporto e le opportunità di esportazione anche da parte di quei paesi che in

precedenza erano esclusi dal commercio internazionale in quanto distanti dai principali

mercati di consumo (ad esempio Medio Oriente e Australia). La quota delle esportazioni di

GNL sul totale della produzione mondiale è in costante aumento: è passata dal 5,5 % del

2000 al 7,2% del 2006 e, sulla base di stime preliminari, si ritiene che sia ulteriormente

aumentata nel 2007.

Il primo paese esportatore di gas naturale del mondo è la Russia, con circa 197

bcm, pari a circa il 7% dei consumi mondiali e a circa il 22% del totale delle esportazioni

segue il Canada (circa 100 bcm, tutti verso gli Stati Uniti). Il terzo paese è la Norvegia che,

con circa 87 bcm nel 2006, è una delle principali fonti di approvvigionamento europeo.

Figura 9: Paesi Produttori Gas Americhe 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006Argentina 27,79 30,60 32,32 36,16 40,19 39,95 38,37 42,66 43,93 43,21 45,25Bolivia 3,68 3,57 3,48 2,85 3,71 5,25 6,24 5,48 9,97 11,91 13,18Brazil 5,54 6,15 6,45 6,86 7,13 7,36 9,44 10,20 10,78 11,01 11,18Chile 1,77 1,93 1,74 1,98 2,09 2,10 2,15 1,89 1,88 2,11 2,81Colombia 4,66 5,82 6,65 5,84 6,51 6,91 6,90 6,61 6,96 7,30 7,87Cuba 0,02 0,04 0,12 0,45 0,56 0,58 0,57 0,64 0,69 0,73 0,79Ecuador 0,35 0,32 0,33 0,31 0,34 0,34 0,34 0,57 0,50 0,54 0,87Mexico 32,68 33,70 36,39 36,85 37,39 37,68 38,64 40,50 42,33 44,01 49,56Peru 0,50 0,38 0,45 0,58 0,53 0,55 0,60 0,66 1,03 1,74 1,96Venezuela 33,55 34,22 35,30 30,95 32,29 30,17 29,04 27,01 26,63 27,67 28,16

Fonte: Rielaborazione su dati World Oil and Gas Review 2008, ENI

Il Gas prodotto dai paesi latinoamericani è quasi esclusivamente ad uso interno. Gli

unici paesi che esportano gas naturale sono Argentina, per una quota di oltre 6 miliardi di

metri cubi e Bolivia con oltre 10 miliardi.

10

Paesi esportatori di gas hanno tipicamente un rapporto produzione su consumo superiore

a uno. Per i più grandi paesi produttori ed esportatori la produzione è un multiplo del

consumo del paese.

Tra i primi produttori di gas, la Norvegia, paese poco popolato ma con grandi

risorse, ha il rapporto produzione su consumo più elevato, pari a 14,5 volte (dato 2006). I

paesi che seguono nella classifica hanno rapporti ben più bassi, pari o inferiori a 3,9.

L’unico che si distacca è la Bolivia con un rapporto di 6,6. Nell’Unione Europea il rapporto

è sceso a 0,41 nel 2006, proseguendo il trend negativo in atto da molti anni (nel 1996 il

valore di questo indicatore era pari a 0,57). La dinamica è frutto dell’effetto combinato di

un aumento costante dei consumi e del declino della tradizionale base produttiva, ed è

destinata a mantenersi anche nei prossimi anni. Il Gas della Bolivia risulta quindi una

risorsa assai strategica per il Paese che è uno dei primi 15 esportatori di Gas nel Mondo.

Con un rapporto riserve produzione di oltre 56 anni il Gas Boliviano sarà sempre più

strategico.

Nel 2008 le riserve stimate di gas della Bolivia sono pari a 817 miliardi di m3

assestando il Paese al secondo posto in America Latina dopo Venezuela, ma con una

capacità d’esportazione molto maggiore dati i bassi consumi locali.

Figura 10: Riserve di gas naturale - Americhe (miliardi di metri cubi al 1° gennaio) 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 Argentina 619 688 684 687 729 778 764 664 612 542 439 446 416Bolivia 127 125 118 150 518 675 775 813 782 757 740 740 817Brazil 154 158 161 228 231 221 223 245 245 326 306 348 395Chile 103 101 98 96 95 94 93 45 45 45 43 42 42Colombia 340 214 221 195 188 129 128 120 114 119 113 123 134Cuba 18 18 18 18 18 18 18 18 17 17 17 17 17Ecuador 106 105 103 103 29 10 10 10 9 9 9 9 9Guatemala 0 0 0 3 3 3 3 3 3 3 3 0 0Mexico 1916 1810 1797 851 861 835 797 424 421 419 412 392 373Peru 201 200 199 255 246 245 247 247 247 325 338 335 458Venezuela 4063 4049 4121 4148 4155 4152 4180 4181 4219 4287 4315 5100 5565

Fonte: Rielaborazione su dati World Oil and Gas Review 2008, ENI

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4. BIOCOMBUSTIBILI

La produzione di biocarburanti ha avuto un incremento notevole negli ultimi 10 anni.

In particolare è dal 2002, quando la situazione in Medio Oriente iniziò ad essere sempre

più instabile, che USA e Brasile iniziarono a puntare molto di più su questo tipo di energia.

Figura 11: Andamento Produzione Biocarburanti

Fonte: World Oil and Gas Review 2008, ENI

Tre sono le categorie in cui suddividiamo i combustibili ecologici: bioetanolo,

biodiesel e biogas che derivano dal trattamento differenziato di sostanze vegetali ed

organiche. Il bioetanolo ad esempio si ottiene dalla fermentazione di varie tipologie di

biomasse ricche di zuccheri o amidi: i cereali (mais, frumento, orzo ecc..), le culture

zuccherine (canna da zucchero, barbabietola, sorgo zuccherino ecc..), la frutta, le patate,

le vinacce ed è inoltre possibile ricavarlo da residui delle coltivazioni agricole e forestali,

dai materiali lignocellulosici, dai residui delle industrie agroalimentari oltre che dalla

componente organica dei rifiuti urbani. Il biodiesel è invece ricavato dalle piante

oleaginose (soia, ricino, palma, girasole, canola, colza, jatropha ecc..) attraverso la

spremitura dei semi ed il successivo trattamento dell’olio derivato con un processo chimico

di raffinazione chiamato transesterificazione, o dal trattamento dei grassi animali. Il biogas,

infine, è prodotto dalla fermentazione dei residui organici presenti nei rifiuti urbani, nei

scarichi fognari, nei liquami zootecnici.

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Brasile e Stati Uniti producono il 90% dell’etanolo mondiale: gli Usa lo realizzano

dal mais, il Brasile si serve principalmente della canna da zucchero.

Figura 12: Primi dieci produttori mondiali di Biogasoline

Sulla base di queste premesse è nata la diplomazia dell’etanolo. Tale partnership

strategica ha come obiettivo quello di mettere in risalto un’attività economica nella quale il

Brasile, il partner meno sviluppato, ha più esperienza e tecnica più avanzata. Questo fatto

alimenta l’interesse brasiliano verso una strategia che pretende di sostituire i derivati del

petrolio con l’etanolo nelle economie centroamericane e caraibiche estendendo di fatto

anche la sua influenza regionale. La partnership ha come obiettivo più ambizioso quello di

trasformare l’etanolo in commodity non solo per motivi economici ma anche per esaltare il

ruolo brasiliano nella produzione efficiente di combustibili rinnovabili. Il primato

dell’industria brasiliana dell’etanolo rende la cooperazione con gli Usa un’interessante

opportunità geopolitica di proiezione della leadership brasiliana su scala regionale e

mondiale.

Fu il Brasile il paese precursore dei biocarburanti quando, negli anni Settanta, la

spesa energetica, causata dall’impennata dei prezzi del petrolio, salì alle stelle, i politici

cercarono una soluzione alternativa nella produzione di etanolo dalla canna da zucchero.

L’etanolo sembra essere il cavallo vincente su cui sempre più paesi cercano di

scommettere per il loro futuro energetico. Brasile e Stati Uniti soprattutto si sono lanciati

all’inseguimento di obiettivi ormai diventati irrinunciabili quali l’indipendenza, la sicurezza

energetica e la lotta al surriscaldamento del pianeta. L’etanolo come energia pulita,

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rinnovabile e producibile in territorio nazionale appare come una buona risposta al

costante crescere del prezzo del greggio e all’endemica instabilità del Medio-Oriente.

L’idea dell’ “era dell’etanolo” fu decisa a Washington nel 2004 quando la classe

politica si rese conto che la situazione irakena non offriva garanzie per

l’approvvigionamento energetico in Medio Oriente e si decise quindi di incentivare la

produzione di etanolo .

Condotta a termine senza pubblicizzarla, la revisione della politica emisferica

brasiliana fu motivata da 3 fattori principali:

(1) l’esaurimento della pazienza di Lula nei confronti delle numerose iniziative

prese da Venezuela e Bolivia contro gli interessi brasiliani;

(2) il desiderio di un presidente all’apice della popolarità di affermare la

leadership regionale del Brasile messa in dubbio da Chávez e rifiutata dai vicini quando si

trattava di decidere alcuni incarichi al vertice di organismi internazionali e nel fallito

processo di riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite;

(3) ed infine la constatazione, non da sottovalutare, del fatto che gli interessi del

Brasile sono più affini a quelli statunitensi di quanto lo siano a quelli venezuelani. La

coscienza di interessi convergenti tra i due paesi è stata riconosciuta anche da parte

americana che tramite il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca ha accettato il rango del

Brasile in quanto potenza regionale, partner strategico ed interlocutore privilegiato su temi

globali. Un’impostazione che gli Usa avevano rifiutato per molto tempo fino a quando i

rispettivi presidenti, alla fine degli anni Novanta, hanno deciso di abbandonare la reciproca

sfiducia sostituendola con una rinnovata disponibilità ad identificare possibili aree di

cooperazione. Con la guerra in Iraq che spinse i prezzi del petrolio alle stelle risultò

evidente il ruolo dell’etanolo come protagonista principale del riavvicinamento tra Brasile e

Usa.

Tuttavia La produzione e offerta di biocarburanti non riscontra la totalità dei

consensi, specialmente per il pericolo di aumento, già verificatosi, del prezzo dei cereali.

Ciò che si teme sono gli squilibri che possono derivare su economie con grossi

problemi di sottonutrizione e i problemi derivanti dalla reintroduzione di forme di

monoculture nuove diverse da quelle ereditate dal passato coloniale.

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5. LE MAPPE PAESE

Figura 13: VENEZUELA

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Figura 14: BOLIVIA

16

Figura 15: ECUADOR

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Figura 16: AMERICA LATINA