Nuovi reperti fossili provenienti dal giacimento...

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1 UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA Facoltà di Scienze MM. FF. NN. Corso di Laurea in Scienze Naturali Elaborato di Laurea Nuovi reperti fossili provenienti dal giacimento villafranchiano di Steggio, Possagno - TV (Italy) New fossil data from the Villafranchian of Steggio, Possagno -TV (Italy) Tutor: Prof. Laura Guidolin Dipartimento di Biologia Co-tutor: Prof. Marco Tonon Dipartimento di Biologia Laureando: Thomas Marchiorato Anno Accademico 2010/2011

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA

Facoltà di Scienze MM. FF. NN.

Corso di Laurea in Scienze Naturali

Elaborato di Laurea

Nuovi reperti fossili provenienti dal giacimento

villafranchiano di Steggio, Possagno - TV (Italy)

New fossil data from the Villafranchian of Steggio, Possagno -TV (Italy)

Tutor: Prof. Laura Guidolin

Dipartimento di Biologia

Co-tutor: Prof. Marco Tonon

Dipartimento di Biologia

Laureando: Thomas Marchiorato

Anno Accademico 2010/2011

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INDICE

PREMESSA

OBIETTIVI

CAPITOLO 1

1.1 ILVILLAFRANCHIANO

Inquadramento geologico

Stratigrafia

Paleoclimatologia

Fauna a micromammiferi

Flora

CAPITOLO 2: TAFONOMIA NEI VERTEBRATI

2.1 COMPOSIZIONE DEI VERTEBRATI

2.2 MORTE DEI VERTEBRATI

2.3 PROCESSI BIOSTRATINOMICI

2.4 SEPPELLIMENTO

2.5 PROCESSI DI FOSSILIZZAZIONE

CAPITOLO 3: IL GIACIMENTO VILLAFRANCHIANO DI STEGGIO

(TV)

3.1 INQUADRAMENTO GEOGRAFICO/ GEOLOGICO DEL

SITO DI STEGGIO (TV)

3.2 BREVE STORIA DEGLI SCAVI

CAPITOLO 4.

METODI E MATERIALI

4.1 PROCEDIMENTO

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Preparazione e determinazione

Studio dei processi tafonomici

CAPITOLO 5

RISULTATI E DISCUSSIONE

5.1 RISULTATI DELLA PREPARAZIONE E DELLA

DETERMINAZIONE DEI REPERTI

Tavola I: reperto n° 144/B

Tavola II: reperto n° 269

Tavola III: reperto n° 235

Tavola IV: reperto n° A/30

Tavola V: reperto n° A/19

Tavola VI: reperto n° 238

Tavola VII: reperto n°147(II)

Tavola VIII: reperto n° 194

Tavola IX: reperto n°300

Tavola X: reperto n° 145

Tavola XI: reperto n° 261

5.2 RISULTATI DELLO STUDIO TAFONOMICO

CAPITOLO 6

CONCLUSIONE

BIBLIOGRAFIA

WEB

ALLEGATI

ALLEGATO I: I CERVIDI

ALLEGATO II: I BOVIDI

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ALLEGATO III: I RINOCERONTI

ALLEGATO IV: MAMMUTHUS MERIDIONALIS

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PREMESSA

Negli ultimi trent‟anni si è verificato un incremento insospettato delle

scoperte e degli scavi di carattere geopaleontologico, così come nell‟interesse

sia da parte del mondo scientifico, sia nell‟opignone pubblica. Cio nonostante,

però, non sempre il lavoro generato dagli scavi viene portato a termine in tempi

brevi, ma richiede anni, a volte decenni, cosa dovuta a varie cause.

Ho quindi rivolto il mio interesse verso una serie di scavi paleontologici, eseguiti

tra le estati 1991, 1992 e 1993, nella località Steggio (TV); cercando di capire

come si è agito, quali risultati si sono prodotti, ma anche cosa è rimasto in

sospeso.

OBIETTIVI

Come attività di tirocinio, ho deciso di continuare la trattazione di alcuni

reperti paleozoologici scavati nei primi anni novanta a Steggio, ma per varie

ragioni non ancora esaminati. L‟attività prevedeva due parti: una prima fase,

volta alla preparzione, al restauro e allo studio dei fossili di Steggio, seguita da

una seconda parte, più breve, volta allo studio tafonomico dei medesimi.

Preventivamente è stato necessario procedere a trattamenti di restauro di gran

parte dei reperti, trattandoli chimicamente e meccanicamente, in modo da

rimuovere il sedimento che ancora inglobava i reperti, quelli più riconoscibili

sono stati determinati osteologicamente e tassonomicamente. Si sono così

identificate ossa fossili riconducibili a rinoceronti, cervidi, bovidi, a un

perissodattilo e al proboscidato Mammuthus meridionalis; sono stati rinvenuti

anche due gusci di gasteropodi.

L‟esame allo stereomicroscopio delle ossa fossili, oltre che all‟esecuzione di

alcune semplici prove fisiche, ha permesso di studiarne la tafonomia.

Scopo del seguente elaborato di tesi è quello di studiare dodici nuovi campioni

paleozoologici, riguardanti il giacimento fossilifero di Steggio (TV) attraverso la

preparazione, il restauro, la determinazione e lo studio dei processi tafonomici

di tali reperti, effettuati durante il tirocinio formativo. Tutto questo permetterà,

oltre che l‟avviamento dello studente alla pratica del restauro paleontologico,

anche l‟aggiunta di nuovi dati per futuri studi faunistici e paleoambientali

riguardanti il paleolago della località Steggio.

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CAPITOLO 1: INTRODUZIONE

1.1 IL VILLAFRANCHIANO

Il Villafranchiano è un piano geologico continentale, costituito nel 1865

da Pareto, con riferimento a depositi lacustri e alluvionali contenenti resti di

vertebrati, dell‟area di Villafranca d‟Asti. Oggi è utilizzato per indicare un

intervallo di tempo geologico compreso da 3,3 milioni di anni fa fino a 900000

anni fa, ovvero tra il Pliocene medio e il Pleistocene inferiore e comprendente 7

Unità Faunistiche (GLIOZZI et al., 1997). Nella Global Stratigraphic Chart

corrisponde ai piani marini Piacenziano, Galesiano e Calabriano. Il

Villafranchiano è studiato in particolare da alcuni giacimenti continentali quali

bacini lacustri, loess e raramente ambienti marini quali mari costieri, rinvenuti in

molte località europee, tra cui Francia, Germania, Regno Unito e Spagna.

Per l‟Italia sono segnalati l‟Altopiano di Poirino in Piemonte, la Val d‟Arno in

Toscana, Pietrafitta in Umbria, Leffe nel bergamasco e Steggio in Veneto. Il

giacimento di Villafranca d‟Asti, in Piemonte, per molto tempo considerata la

sezione tipo del Villafranchiano, si è recentemente dimostrato essere più antico.

Il Villafranchiano è caratterizzato da cambiamenti climatici globali, che hanno

influenzato in modo significativo anche le faune a mammiferi, sia marine che

continentali.

Inquadramento geologico

Durante il Villafranchiano, le migrazioni e le scomparse di grandi e

piccoli mammiferi nella penisola italiana, sono fortemente condizionati da due

grandi eventi geologici: il sollevamento della catena appenninica e la

successione di vari periodi freddi, alternati a periodi interglaciali.

Il moto della placca Africana verso nord, che ormai aveva colliso con quella

eurasiatica, formando le Alpi e gli Appennini, porta alla creazione nel

Villafranchiano inferiore, di tutta una serie di faglie con andamento NO-SE,

depressioni e, successivamente, nel Villafranchiano medio, al vulcanismo

tosco-laziale (esempio il Lago di Albano).

Per l‟effetto dell‟abbassamento termico iniziato nel Villafranchiano medio e

sviluppatesi con fasi alterne nel Quaternario, i ghiacciai polari si espansero ed è

documentato, sulle Alpi, un abbassamento delle nevi perenni di 1400 m, oltre

che un abbassamento della linea di costa di 100-130 m rispetto all‟attuale, con

conseguente estensione della Pianura Padana di 300 Km verso Sud- Est, che

si congiunge con l‟Istria e con la Dalmazia (LANDINI e PETRONIO, 2005) I

ghiacciai, nella loro espansione, hanno profondamente eroso suoli e rocce con

la formazione di archi morenici fino al margine dell‟attuale Pianura Padana.

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Stratigrafia

La cronostratigrafia del Plio-Pleistocene è basata su dati biostratigrafici,

isotopici e magnetostratigrafici marini (GLIOZZI e MALATESTA, 1993.)

Il limite Plio-Pleistocene, attualmente ancora in fase di assestamento, non è

basato su estinzioni, ma su migrazioni da N verso il Mediterraneo di bivalvi e

foraminiferi, dovute ad un raffreddamento climatico. Da notare che la

cronostratigrafia plio-pleistocenica marina è molto dettagliata, complice il facile

reperimento di sezioni geologiche ben documentate e estese sia temporalmente,

che topograficamente (LANDRINI e PETRONIO, 2005), mentre per il

continentale le difficoltà sono molte, poiché le sezioni tipo sono distribuite in

modo puntiforme e presentano un record fossile molto frammentario; per lo più è

difficile correlare fra loro i vari giacimenti. La correlazione, viene quindi eseguita

in base alla comparazione del contenuto fossile dei vari giacimenti, anche se

questi dati vanno comunque associati a datazione assoluta, dati

magnetostratigrafici e studi isotopici sui reperti e/o su rocce/sedimento inglobanti

i resti organici.

Tuttavia, il metodo ha solo una valenza regionale, in quanto, come gia

accennato, i giacimenti continentali non restituiscono mai un buon record

geologico (LANDRINI e PETRONIO, 2005); per questo è difficile correlare i dati

biocronologici di giacimenti continentali villafranchiani presenti in Italia con quelli

esteri. L‟unico modo per riuscirci è quello di utilizzare una datazione assoluta

integrata con la magnetostratigrafia, anche se non va tralasciato un dato

essenziale: l‟unità faunistica.

L‟unità faunistica (UF) è rappresentata da una fauna locale in cui sono presenti

molti taxa particolari di quella zona e in cui vi siano documentati uno o più eventi

biologici importanti. La composizione delle faune villafranchiane e il grado di

evoluzione degli organismi in esse presenti ha permesso di definire ben 7 UF,

con le quali è stato possibile suddividere tale piano geologico in tre sottopiani,

sulla base delle diverse successioni faunistiche. Tali sottopiani sono mostrati

nella Tabella I.

8 Fig 1.1: primo molare inferiore di varie

specie di Mimomys (Arvicolidae, Rodentia.)

(Da: www.nature.com).

Tabella I: i sottopiani con cui è suddiviso il Villafranchiano.

Recenti studi (GLIOZZI et al., 1997) hanno dimostrato l‟esistenza di una quarta

unità faunistica nel Villafranchiano superiore: quella di Pirro Nord.

Paleoclimatologia

L‟inizio del Villafranchiano è posto in concomitanza con un primo debole

deterioramento climatico che interessò l‟area mediterranea, circa 3,3 milioni di

anni fa. Nel bacino del Mediterraneo, quindi, si passa dal “Pliocene periglaciale”

al “Pliocene glaciale”. Durante il Pliocene inferiore, si erano mantenute condizioni

climatiche stabili per lo più di clima caldo- umido, come indicato sia dalle faune,

che dai pollini fossili. Ma gia 3,2 milioni di anni fa, tuttavia, la flora fossile indica

un improvviso abbassamento della temperatura, che comporta un rinnovo della

fauna, gia simile a quella moderna, anche se si riscontra la sopravvivenza di

alcune forme terziarie (LANDRINI e PETRONIO, 2005). Alla fine del

Villafranchiano superiore si assiste ad un nuovo e più marcato raffreddamento,

che comporta la scomparsa della flora e della fauna terziaria o al loro

relegamento a relitti e ad una decisiva affermazione dell‟associazione faunistica

e floristica moderna.

Fauna a micromammiferi

La fauna a micromammiferi del villafranchiano riveste

notevole importanza biostratigrafica, paleoclimatica e

paleoambientale, in modo quasi analogo ai foraminiferi

per l‟ambiente marino. E‟ proprio in questo periodo che

compare il primo arvicolide, Promimomys, cui

discenderà il significativo genere Mimomys (Fig 1.1):

per il solo Villafranchiano ne sono documentate ben 6

specie, con le quali si sono ricostruite autentiche scale

SOTTOPIANO UNITA‟FAUNISTICA (UF) FAUNA

Villafranchiano inferiore

(Pliocene medio)

Triversa

(Fiumi Triversa e Triversola)

Anancus arvenensis, Tapirus

arvernensis, Leptobos

stenometopon, Stephanorhinus

etruscus, Homotherium

crenatides

Villafranchiano medio

Montopoli (Valdarno) Stephanorhinus etruscus,

Leptobos stenometopon, Equus

cfr livenzovensis, Archidiskodon

gromovi

Villafranchiano superiore

(Pleistocene inferiore)

Olivola (Val di Magra)

Tasso (Valdarno superiore)

Farneta (Val di Chiara)

Mammuthus meridionalis,

Equus stenonis, Canis

etruscus, Leptobos etruscus.

Mammuthus meridionalis,

Microtus ( Allophoiomys)

pliocaenicus

Mammuthus meridionalis

vestinus

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biocronologiche molto precise (CHALINE e LAURIN, 1986).

Flora

La flora risalente al Villafranchiano europeo è stata dedotta osservando materiale

fossile quale detrito vegetale, diatomiti e pollini provenienti da ligniti, sabbie e

loess di giacimenti dei Bacini del Reno e di Parigi, del Massiccio Centrale, del

Sud dei Pirenei francesi, e di alcune località italiane. I resti vegetali da essi

estratti rivelano la presenza di Gimnosperme e Angiosperme: nel primo caso si

segnalano specie attualmente ancora presenti in Europa, quali Pinus, Taxodium,

Sequoia, Abies, Picea. Per le Angiosperme si segnalano Fagus, Quercus,

Carpinus, Salix, Alnus, Corylus, Ulmus, Asteraceae, Ericaceae, Poaceae e

Umbellipherae. Altri generi sono attualmente scomparsi in Europa allo stato

naturale, quali Tsuga (Fig. 1.2) e Carya.

Anche la flora, così come la fauna, documenta le

variazioni climatiche villafranchiane. Durante il

Pliocene medio, si estendevano, nelle zone nord-

occidentali del bacino del Mediterraneo, folte

foreste di Taxodiaceae, a segnalare un clima caldo-

umido, mente nella parte sud, gia si era affermata una

vegetazione di tipo mediterraneo, ad indicare un clima

con una certa escursione stagionale di temperatura e di

piovosità. Intorno ai 3,2 milioni di anni fa, un ulteriore

abbassamento della temperatura comporta una

sostituzione del genere Alnus con il genere Quercus, più

adatto a queste nuove condizioni climatiche.

Inizia così una lenta ma costante sostituzione delle

associazioni vegetali di foresta con quelle di prateria, che

poi caratterizzeranno il Pleistocene medio e superiore.

Figura 1.2: Tsuga attuale

(da: http://t2.gstatic.com).

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CAPITOLO II

TAFONOMIA NEI VERTEBRATI

La tafonomia è la branca della Paleontologia che si occupa dello studio dei

processi fisici, chimici e biologici cui i resti degli organismi vanno in contro, dalla

loro morte fino al loro rinvenimento come fossili.

Nel linguaggio della Geologia, la tafonomia studia il trasferimento di materia dalla

biosfera alla litosfera (RAFFI e SERPAGLI, 2004). Lo studio tafonomico

costituisce una premessa per le analisi paleoecologiche.

La tafonomia studia, quindi, quattro fasi che si susseguono nel tempo: la morte

degli organismi, i processi biostratinomici, il seppellimento definitivo e la

fossilizzazione. Questi possono richiedere poco tempo (anche solo pochi anni) o

milioni di anni.

In anni recenti, la tafonomia nei vertebrati continentali è stata discussa

ampiamente (BEHRENSMEYER e HILL, 1980; FRANZEN, 1985) e si può notare

come l‟apparato scheletrico fossile dei vertebrati, spesso risulta incompleto

(Fig.2.1), poiché le ossa sono molto suscettibili ai processi tafonomici.

2.1 COMPOSIZIONE DEI VERTEBRATI

La conservazione degli esseri viventi come fossili, è un evento molto

improbabile, in quanto, subito dopo la morte, intervengono tutta una serie di

fattori chimici, meccanici e biologici che tendono a disgregare le spoglie di un

organismo: basti pensare che secondo NICOL (1977), solo l‟8% delle specie

animali attuali avrà la possibilità di fossilizzarsi.

Nei vertebrati continentali, tale evento è ancora più infrequente, in quanto essi

sono dotati di uno scheletro massicciamente articolato, in cui i singoli articoli,

cioè le ossa, hanno buona probabilità di venire separati e dispersi. A questo

bisogna aggiungere che nell‟ambiente continentale prevale l‟erosione sulla

deposizione e, quindi, sulla conservazione.

Figura 2.1 Evidenza

dell’incompletezza degli

scheletri dei vertebrati fossili.

Dall’alto: Baynyx walkeri,

Suchomimus tenerensis e

Spinosaurus aegyptiacus.

HARTMAN 2010, da DAL SASSO

(2005)

Figura 2.1 Evidenza

dell’incompletezza degli

scheletri dei vertebrati fossili.

Dall’alto: Baynyx walkeri,

Suchomimus tenerensis e

Spinosaurus aegyptiacus.

HARTMAN 2010, da DAL

SASSO (2005)

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Una premessa indispensabile per la fossilizzazione risiede nell‟organismo stesso,

cioè la presenza di parti dure, le quali hanno una maggior possibilità di

conservarsi rispetto alle parti molli (RAFFI e SERPAGLI, 2004).

Nei vertebrati, le parti molli rappresentano i tessuti muscolari, gli epiteli, i tessuti

adiposi e molti tessuti connettivi; tutti formati da vari composti organici del

carbonio quali proteine, acidi nucleici, lipidi, carboidrati. Le parti dure dei

vertebrati sono rappresentate dallo scheletro, che pur contenendo una certa

quantità di materia organica, è costituito da un‟alta percentuale di cristalli di

idrossiapatite Ca5 (PO4)3OH. I denti hanno una struttura simile alle ossa, ma

sono molto poveri di materia organica, soprattutto nello strato di smalto, il quale è

costituito per il 98% da fluoroapatite Ca5(PO4)3F. Anche le scaglie ossee di molti

pesci hanno una composizione simile a quella dei denti.

Di conseguenza, potenzialmente, nei vertebrati, si possono conservare più

facilmente ossa, denti e scaglie ossee. Le parti molli scompaiono precocemente

e possono fossilizzarsi solo in rarissime occasioni.

Nel presente elaborato di tesi, si discuterà soprattutto della fossilizzazione delle

parti dure dei vertebrati.

2.2 MORTE DEI VERTEBRATI

E‟ statisticamente improbabile che un vertebrato giunga alla fine del suo

ciclo biologico: molto spesso varie cause naturali, quali la predazione, il

soffocamento, l‟avvelenamento, l‟azione dei parassiti, le ferite, le repentine

variazioni dei parametri ambientali portano ad una morte precoce di un

vertebrato. Raramente è possibile risalire alle cause di morte: ritrovamenti di

segni di morsi sulle ossa fossili indicano predazioni, mentre lesioni e ossa

fratturate indicano eventi traumatici come cadute rovinose in burroni o crepacci.

La morte di un vertebrato rappresenta comunque l‟inizio della sua storia come

potenziale fossile.

2.3 PROCESSI BIOSTRATINOMICI

La biostratinomia è un ramo della tafonomia che studia tutta una serie di

processi meccanici, chimici e biologici che tendono a modificare e spesso a

rovinare i resti degli organismi. Essi sono detti processi biostratinomici, e tanto

più la loro azione è spinta, tanto più diminuisce la possibilità per i resti di

conservarsi. Questi processi sono influenzati da fattori intrinsici agli organismi,

quali il grado di articolazione e la resistenza delle parti scheletriche, ma anche da

fattori ambientali quali pH, temperatura, pressione, umidità, geomorfologia e molti

altri.

Necrolisi

Il primo processo cui un vertebrato morto va in contro è la necrolisi, cioè la

disgregazione biologica delle parti molli. Può avvenire in anaerobiosi (detta

perciò putrefazione) o in aerobiosi (decomposizione). Questi due processi

necrolitici sono dovuti ai batteri presenti nell‟ambiente o nell‟intestino dell‟animale

stesso.

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Un terzo tipo di necrolisi avviene spontaneamente nel vertebrato morto ed è per

questo detta autolisi: si verifica per rottura dei lisosomi delle cellule a seguito di

un accumulo di anidride carbonica (ora non più smaltita dal sangue), che libera

nell‟ambiente cellulare una gran quantità di enzimi proteolitici che in breve tempo

degradano i tessuti.

I prodotti finali della necrolisi sono molecole semplici come CO2, H2O e, nel caso

della putrefazione, anche, gas (come l‟H2S), alcoli e altre piccole molecole

organiche.

Disarticolazione

Se la necrolisi procede in modo massiccio, per lo più prima del seppellimento,

inizia la disarticolazione, processo che porta all‟allontanamento delle ossa dalla

loro posizione di vita, mediante l‟azione di correnti, vento, ghiacciai, necrofagi.

Nei vertebrati, questo processo è particolarmente evidente, in quanto il loro

scheletro è fortemente articolato (Fig 2.2).

Figura 2.2: massiccia disarticolazione nei vertebrati fossili. Nella foto: giacimento di

Scontrone (Abruzzo). Da: http://paleoitalia.org

WEIGELT (1989) suggerisce vi sia una sequenza definita nella disarticolazione.

Alle stesse conclusioni è arrivato anche TOOTS (1965), studiando la

disarticolazione nelle antilopi, nella pecora domestica (genere Ovis) e nel coyote

(Canis latrans). Entrambi gli studiosi suggeriscono che gli stadi della

disarticolazione variano a seconda del taxon, della resistenza dei tessuti

connettivi che legano le ossa e dal grado di incastro tra essi (si rimanda anche a

HILL, 1980.) Ad esemio, nei grandi mammiferi erbivori, la mandibola si disarticola

dal resto del cranio con difficoltà, mentre il distacco di quest ultimo dall‟atlante è

facilitato dalla sua elevata mobilità.

Trasporto

Spesso, in un vertebrato, il luogo della fossilizzazione non coincide con il luogo

della sua morte, in quanto, spesso i resti dei vertebrati subiscono un trasporto.

Esso può essere effettuato mediante azione di carnivori o necrofagi, correnti,

vento, ghiacciai, sebbene i primi due rivestano un‟importanza maggiore.

I predatori e/o i necrofagi possono trasportare le carcasse in grotte o caverne,

dove vi si possono formare anche notevoli accumuli di ossa. Ancora più diffuso è

il trasporto post-mortem mediante correnti fluviali o marine: spesso il cadavere di

un vertebrato sviluppa, in seguito alla putrefazione degli organi addominali, una

grande quantità di gas permettendo il galleggiamento e quindi, un marcato

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trasporto (ad esempio le carcasse di balena, possono viaggiare, spinte dalle

correnti oceaniche, anche per parecchi chilometri prima di depositarsi.) Un ottimo

esempio fossile di trasporto post-mortem, è offerto dai fossili di dinosauro della

formazione Lower Oxford Clay (Calloviano, Giurassico medio) del Regno Unito, i

quali risultano essere stati trasportati per 80 km prima di raggiungere il bacino

sedimentario (DONOVAN, 1991)

Molto spesso, il trasporto tende a danneggiare le ossa: per tale motivo, nei

giacimenti a vertebrati, gran parte delle ossa si presentano rotte in molti punti.

Tuttavia, non sempre le cause della rottura delle ossa sono imputabili al

trasporto, per questo HILL (1980) ha diviso le cause di danno nelle ossa in tre

categorie:

Causa patologico/traumatica: il danno è avvenuto durante la vita

dell‟animale; si tratta di fratture in seguito a traumi o cadute,

Danno post-mortem: sono danni imputabili a predatori, necrofagi,

trasporto o calpestìo di grandi animali (BEHRENSMEYER, 1979),

quando l‟animale non era più in vita,

Danno post-deposizionale: dovuto a dissoluzione diagenetica, nel

bacino sedimentario.

Tuttavia, i danni più notevoli sono dovuti al trasporto, i quali vanno sotto il nome

di logorio meccanico. Ad esso appartengono due processi: l‟abrasione, cioè

l‟asportazione di materiale dalla superficie ossea per attrito da sfregamento e la

frantumazione, ovvero la rottura di frammenti di osso per urto del medesimo con

oggetti o altre ossa (RAFFI e SERPAGLI, 2004). La resistenza delle ossa al

logorio meccanico è influenzata dallo spessore, dalla struttura, dalle dimensioni e

dalla forma complessiva di esse.

Gli effetti del trasporto non si limitano solo al logorio meccanico: esse possono

provocare anche selezione meccanica e deposizione orientata.

La selezione meccanica avviene quando un mezzo trasportatore, in particolare

una corrente fluviale, rimuove un insieme di ossa in modo selettivo, in base a

forma, peso e dimensioni delle ossa stesse. Sulla base a tale presupposto,

VOORHIES (1969) ha condotto una serie di esperimenti, osservando come il

trasporto agisca in modo diverso a seconda del tipo di ossa, suddividendole in tre

gruppi:

GRUPPO I: parti scheletriche rimosse immediatamente, spesso

trasportate per saltazione o flottazione. Esempio: vertebre, osso

sacro, sterno, costole, scapole, falangi, ulna.

GRUPPO II: parti scheletriche rimosse gradualmente, trasportate

per trazione. Esempio: femore, tibia, omero, metacarpi, metatarsi,

ileo, radio, scapola, falangi, ulna.

GRUPPO III: parti schetriche rimosse molto lentamente o non

rimosse. Esempio: cranio, mandibola e denti.

Si può dedurre quindi che ossa appartenenti al I gruppo, quali costole e vertebre,

vengono trasportate a maggior distanza rispetto ai crani e ai denti.

La deposizione orientata si basa su un concetto analogo e si verifica quando il

mezzo trasportatore, una volta persa competenza, inizia a depositare le ossa

lungo l‟asse maggiore parallelo alla stratificazione. Spesso la disposizione

dell‟osso indica la direzione delle paleocorrenti e le ossa lunghe si prestano

14

molto bene a tale fenomeno,infatti tali ossa (femore, tibia , osso cannone,…)

presentano due punti, situati alle loro estremità: il centro di spinta, ovvero il punto

in cui si concentrano tutte le forze che spingono un corpo, e, nell‟estremità

opposta il centro di resistenza, ovvero il punto in cui si concentrano tutte le forze

che si oppongono alla spinta. La deposizione comporta la sedimentazione

dell‟osso con il centro di spinta sempre sottocorrente rispetto alla direzione della

corrente d‟acqua.

Bioerosione

La bioerosione è provocata dall‟azione di alcuni organismi in grado di perforare o

rodere ossa o gusci, intenti a ricavarne nutrienti o tane.

Nel caso dei vertebrati va ricordato che il fosfato è un nutriente essenziale ed

essendo le ossa ricche di queste sostanze, rappresentano un‟importante risorsa

per altri organismi. Le ossa possono quindi venire bioerose da necrofgi,

predatori, micromammiferi, ma anche da insetti, gasteropodi, foraminiferi, alghe,

spugne, policheti e molti altri. Tutti questi organismi vengono chiamati “bone

feeders” e possono nutrirsi, oltre che della frazione minerale dell‟osso, anche

della parte organica residua.

Anche molti microrganismi possono bioerodere ossa e denti (GOUJET e

LOQUIN, 1979).

Spesso, l‟osso fossile conserva le tracce di bioerosione (Figura 2.3), come

impronte dentarie di mammiferi, o tane scavate all‟interno delle ossa da insetti.

Figura 2.3: costa di dinosauro bioerosa da paleomammiferi (MUZZIN, 2010)

Spesso, la bioerosione comporta un indeboilmento delle parti scheletriche,

rendendole più sensibili ad attacchi chimico-fisici, distruggendosi ben prima

dell‟inizio della fossilizzazione.

2.4 SEPPELLIMENTO

Un rapido seppellimento, costituisce una delle premesse indispensabili

per una buona fossilizzazione, a cui corrispondono un‟alta velocità di

sedimentazione e una bassa granulometria del sedimento. La situazione più

propizia è rappresentata da ambienti in cui avvengono sedimentazioni

catastrofiche, in grado di seppellire e soffocare intere comunità, cosa che

avvengono durante le frane di detrito di falda o di dune. In questi casi, quindi, il

seppellimento è anche causa di morte degli organismi.

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I sedimenti sono di vari tipi, ma nel presente elaborato, verranno trattati

soprattutto i sedimenti di tipo minerale.

Questo rappresenta il caso più comune, in quanto, gran parte dei sedimenti

naturali sono prodotto di erosione delle terre emerse, dando sabbie, ghiaie e

peliti, oppure di precipitati chimici o di erosione di gusci e parti scheletriche di

varia natura.

Spesso le ghiaie sono sfavorevoli alla conservazione dei resti organici, in quanto

la loro granulometria è troppo alta, mentre si prestano molto di più le sabbie e, in

particolare, le peliti (limi e argile). Queste ultime, presentano una granulometria

molto bassa e risultano essere impermeabili, cosa che impedisce l‟ingresso di

acqua, ossigeno e batteri, limitando la decomposinzione e la dissoluzione dei

resti ossei.

Il sedimento inglobante, assieme al fossile, costituisce un buon elemento per lo

studio paleoambientale del bacino sedimentario dove è avvenuta la

fossilizzazione.

2.5 PROCESSI DI FOSSILIZZAZIONE

I resti ossei sepolti si trovano in un ambiente formato, oltre che dal

sedimento, anche da acque interstiziali, che penetrano in esso; tali acque sono

delle soluzioni chimiche provenienti dall‟oceano, nel caso si parli di ambienti

marini, o di origine meteorica o fluvio-lacustre nel caso di ambienti continentali. Il

chimismo delle acque interstiziali è diverso da quello delle acque di deposizione,

a causa degli apporti di sostanze prodotte dai batteri o provenienti dal sedimento

stesso. Benchè siano ben separate, tra le acque deposizionali e i fluidi

interstiziali possono verificarsi degli scambi chimico-fisici, ma molto limitati,

cosicchè le acque interstiziali mantengono pressochè invariato il loro chimismo.

A questo va aggiunto che l‟aumento del carico litostatico provoca l‟espulsione

verso l‟alto delle acque interstiziali, le quali rilasciano gradualmente vari tipi di

minerali, provocarendo dissoluzioni, ricristallizzazioni e sostituzioni.

Se le ossa dei vertebrati sono a contatto con acque interstiziali acide e

con una buona percentuale di ferro, si può formare un minerale azzurro, la

vivianite Fe2+3(PO4)2x8H2O, anche se non è chiaro se il gruppo fosfato (PO43-)

che la caratterizza sia realmente derivato dalle ossa.

Si ricorda che la fossilizzazione è influenzata, oltre che dal chimismo delle

acque, anche dal tipo di sedimento, dalla pressione, dalla temperatura, dal pH,…

I processi di fossilizzazione sono molteplici e portano alla conservazione

delle parti dure e più raramente delle parti molli. Nel presente elaborato, ci si

concentrerà di più sulla fossilizzazione delle parti dure e, in particolare, di un solo

tipo di fossilizzazione: l‟impregnazione.

Impregnazione

E‟ il processo di fossilizzazione più comune cui i resti dei vertebrati vanno

incontro. Una volta che la frazione organica presente nelle ossa si è decomposta

in ambiente anaerobico, rimangono delle microcavità, quali i canali di Havers, i

canali di Volkmann e i canalicoli. La decomposinzione del midollo osseo,

localizzato all‟interno delle ossa, rivela lo strato spugnoso e una grande cavità

interna, la cavità midollare. Queste ultime due, sono le prime parti dell‟osso a

16

subire la fossilizzazione: per effetto del pH e di altri fattori ambientali, che si

registrano in ambiente asfittico, le acque possono depositare in esse varie fasi

mineralogiche criptocristalline, esempio pirite (FeS2), calcite (CaCO3), sfalerite

(ZnS), barite (BaSO4) e più raramente, celestina (SrSO4) e opale (SiO2). Essendo

la parte spugnosa connessa con la parte superficiale (parte compatta) tramite

canalicoli (in precedenza occupati dai vasi sanguigni), anche quest‟ultima viene

invasa dal minerale impregnante.

Questo tipo di fossilizzazione conserva quindi la matrice ossea principale, fatta

cioè di fosfato calcico, ma provoca il totale o parziale ostruimento delle cavità

interne dell‟osso, rendendolo più robusto e più pesante dell‟osso di partenza.

In conclusione, si può affermare che spesso, le cenosi a vertebrati fossili, non

sono autoctone, poiché sono composte da organismi sepolti insieme, cioè

tanatocenosi (RAFFI e SERPAGLI, 2004) e spesso gli scheletri risultano

incompleti e frammentati. Questi due aspetti, sono dovuti ad un trasporto netto e

a spinti processi biostratinomici cui le ossa sono soggette, in ambiente

continentale.

17

CAPITOLO 3

IL GIACIMENTO VILLAFRANCHIANO DI STEGGIO (TV)

3.1 INQUADRAMENTO GEOGRAFICO/GEOLOGICO DEL SITO DI

STEGGIO

Steggio è una piccola località collinare localizzata ad una latitudine di

45°50‟ 56‟‟ N di Greenwich, ad una longitudine di 11° 51‟ 45‟‟ E di Greenwich e

ad un‟altitudine di circa 312 m (Figg. 3.1 e 3.2).

Essa si trova a S-W del Comune di Possagno, a cui appartiene ed è

collocata ai piedi della Dorsale montuosa formata dal Massiccio del Grappa, dal

Monte Pallon e dal Monte Tomba.

Gli scavi geopaleontologici avvenuti negli anni tra il1991 e il 1993 hanno rivelato

che il sedimento che oggi forma la collina di Steggio rappresenta un nuovo

litotipo, indicato con il termine informale di “argille di Steggio”. Si tratta di una

serie di strati di argille verde-grigie, a volte sabbiose e/o ricche di frustoli

carboniosi, intercalate più o meno abbondantemente da ghiaie composte da

ciotoletti di rocce calcaree e selce di vari colori. L‟associazione mineralogica di

tali argille è composta principalmente da fillosilicati, quali

illite (K, H3O)(Al,Mg,Fe)2(Si,Al)4O10[(OH)2,(H2O)],

caolinite Al2 Si2O5(OH)4 e

montmorillonite (Na,Ca) 0,3(Al,Mg)2 Si4O10(OH)2 nH2O.

Abbondante anche un fosfato, la vivianite Fe2+3 (PO4)2 x8H2O.

Sono state rilevate anche delle faglie su argilla, le prime dell‟Italia settentrionale

(PANORUZZI e TONON, 1992).

18

Figura 3.2 Il sito di Steggio (TV) nel giugno 2010 (foto di T.Marchiorato)

3.2 BREVE STORIA SEGLI SCAVI

La storia dello scavo paleontologico di Steggio inizia nel 1986, quando un

movimento franoso sulla stessa collina, costringe un geologo della regione

Veneto, il dott. F. Toffoletto, a recarsi sul luogo, per realizzare alcune trincee per

il drenaggio dell‟acqua. In una di queste trincee, il dott. Toffoletto rinviene uno

strano frammento brunastro, che viene consegnato al Dott. M. Tonon, allora

N

Figura 3.1 Ubicazione del sito di Steggio (TV) (Foto: T. Marchiorato,

con modifiche)

19

direttore del Museo delle Scienze di Pordenone, il qule, identifica quel reperto

come frammento di tibia di Proboscidato (REGGIANI, 1994).

In seguito ad altri ritrovamenti e a vari sopraluoghi, il Dott. M.Tonon intuisce la

presenza di un giacimento paleontologico sotto la collina di Steggio; la cui

presunta importanza impone la continuazione dello scavo.

Nel 1991, con l‟autorizzazione del Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, ha

inizio la prima campagna di scavo, finanziata dalla Comunità del Grappa e dalla

ditta Ilca Cunial Coppo Possagno s.p.a. e diretta dal Dott. Tonon stesso.

Seguono altre campagne di scavo, nel 1992 e nel 1993, più approfondite (quella

del 1993 in particolare), con l‟uso di tecniche nuove e di strumenti innovativi.

Grazie a tutto ciò è stato possibile scavare in poco tempo ben 40000 m3 di argilla

(BON, 1994), riportando alla luce centinaia di reperti paleozoologici e

paleobotanici che verranno restaurati e catalogati al Museo Paleontologico di

Possagno, inaugurato per l‟occasione il 3 giugno del 1994.

Ogni reperto, una volta svelato dalle benne delle ruspe, è stato fotografato e

studiato, per capirne l‟orientazione, la giacitura e il contesto stratigrafico; e solo in

un secondo momento si è proceduto con la rimozione. Questa fase è stata

eseguita lasciando una camicia di sedimento intorno al fossile, per garantire una

certa protezione. Ad ogni reperto è stato applicato un cartellino riportante il

numero del reperto, l‟unità stratigrafica, la data e il luogo di ritrovamento, il tutto è

stato imballato con carta da cucina, nastro, nylon e pellicola “Domopack” per

evitare l‟asciugamento del sedimento e inviato al Museo per la successiva fase:

quella della preparazione e del restauro, attività che secondo gli auspici avrebbe

dovuto concludersi entro pochi anni, ma a causa di forza maggiore non è del

tutto conclusa.

Gli scavi, fino ad oggi, hanno portato alla scoperta di molti animali, in particolare

mammiferi, quali, lo Stephanorhinus etruscus, un rinoceronte dalle zampe più

lunghe rispetto alle specie attuali, un grosso elefante, il Mammuthus meridionalis

(all‟epoca conosciuto come Archidiskodon meridionalis), un bisonte noto come

Bison menneri, i cervidi Eucladoceros cfr senezensis e Pseudodama nesti e un

piccolo orso, l‟Ursus etruscus.

Tra i micromammiferi, il ghiro Glis minor, un criceto e un arvicolide del genere

Mimomys.

Lo scavo ha riportato alla luce anche animali invertebrati: numerosi i gasteropodi

dulcacquicoli, lunghi pochi micrometri e, eccezionalmente, un coleottero, di cui

restano le elitre carbonificate.

Numerosi poi i reperti paleobotanici, che includono fossili di rami, tronchi, strobili,

frutti, foglie e pollini di Quercus, Alnus, Abies, Carpinus, Picea, Tsuga e molti

altri.

Le indagini geologiche e paleontologiche dimostrano che l‟antico paleoambiente

di Steggio era un lago, ove vi confluivano vari canali, che, nei periodi di piena

trasportavano sedimenti e resti animali e vegetali e che potevano fossilizzarsi nei

periodi asfittici cui il lago andava periodicamente incontro. Tuttavia, l‟analisi

paleoambientale è ancora in corso.

La datazione del lago e quindi dei fossili rinvenuti rimane incerta: è da stimarsi

intorno a 1 milione di anni fa, durante il sottopiano geologico continentale noto

come Villafranchiano superiore (inizio Pleistocene inferiore). Sarebbe quindi, uno

20

dei pochi giacimenti villafranchiani dell‟Italia nordorientale: ad eccezione di

Steggio e di Leffe (BG) attualmente non se ne conoscono molti altri (REGGIANI,

1994).

Nonostante gli scavi siano conclusi da ben 18 anni, molte questioni rimangono in

sospeso: Allo stato attuale sono stati trattati e determinati circa 200 campioni, ma

si stima ne rimangano altri 50, il materiale faunistico e floristico già trattato va

riesaminato, l‟analisi paeoambientale va ripresa e non meno importante, la

datazione va precisata.

Recentemente è uscito, comunque, un approfondito lavoro paleobotanico

(GHIOTTO, 2009.) I ritrovamenti di Steggio e le successive campagne hanno

una piccola storia che comprende libri, filmati, una decina di tesi di laurea e molti

lavori di carattere paleontologico, museologico/didattico e opportunamente

divulgativo (TONON, 1989; PALMA e TONON,1990; REGGIANI e TONON,

2002).

Alcuni degli obbiettivi citati in precedenza, sono stati presi in considerazione da

me, durante l‟attività di tirocinio formativo svoltasi dal Giugno del 2009 fino a

Settembre 2009, in particolare quella di prendere in esame alcuni dei 50 reperti

lasciati in sospeso.

21

CAPITOLO 4

METODI E MATERIALI

4.1PREPARAZIONE E RESTAURO

L‟attività di tirocinio formativo, prevedeva una prima parte di preparazione

e restauro dei fossili steggiani, operazione che ha poi permesso uno studio

osteologico dei medesimi, attraverso alcune comparazioni delle ossa fossili con

calchi osteologici di confronto e con illustrazioni anatomiche. E‟ seguita poi una

seconda parte, blanda, volta allo studio dei processi tafonomici.

L‟attività di tirocinio si è svolta soprattutto presso il Dipartimento di Biologia

dell‟Università di Padova.

Gli strumenti utilizzati (Fig. 4.1) riguardano una serie di specilli da dentista, utili

per la rimozione del sedimento, a cui in seguito è stato affiancato anche un

trapano di precisione modello Dremel 300, oltre che a pennelli e spazzole varie

per la pulizia finale del reperto.

Figura. 4.1 strumenti e reattivi utilizzati durante il tirocinio (foto di T. Marchiorato.)

Per il restauro dei reperti si sono utilizzati dei reattivi, come il “New Des” e il

“Paraloid B/72”, in genere impiegati nel restauro artistico/ architettonico, ma che

possono essere utilizzati anche nel restauro paleontologico.

Il New des, il cui nome chimico è Benzalconio cloruro, è un solido poco tossico,

giallo se puro (Tabella II), trasparente se diluito, è un battericida e viene usato

nella pulizia delle tele pittoriche, ma può essere usato, in soluzione acquosa al

15%, per dissolvere gli strati di sedimento che

22

ricoprono parzialmente i reperti fossili. Il New des, infatti, è chimicamente un

tensioattivo anionico, composto da un anello benzenico legato ad una catena di

8-18 atomi di carbonio (fig 4.2). Tra i due è presente un atomo di azoto legato a

due metili e capace, grazie alla sua carica positiva, di interagire con anioni

presenti nei reticoli cristallini dei minerali dell‟argilla, disfando il sedimento.

Il secondo reattivo utilizzato è il Paraloid B/72, il cui nome chimico è etilato-

metacrilato, è una resina organica di sintesi, preparata in scaglie trasparenti

(figura 4.3), chimicamente inerte, stabile e solubile in chetoni e alcoli, ma

insolubile in acqua e acidi. Viene usato per il consolidamento delle opere

statuarie, ma per il medesimo scopo può essere usato anche sui fossili. Diluito in

acetone al 4% e applicato sulla superficie del fossile ha un‟azione consolidante,

in modo da impedire il disgregamento del reperto, mentre in concentrazione più

elevata, al 60% in acetone o più, può essere usato come un collante, reversibile

con l‟applicazione di acetone puro. Si fa presente che il Paraloid B/72 puro è

innocuo, ma quando esso viene usato in soluzione di acetone, è invece tossico,

irritante e infiammabile.

Figura 4.3 aspetto macroscopico del Paraloid B/72.(Foto da: http://upload.wikimedia.org)

Nome

tradizionale

Cloruro di benzalconio

Nome

IUPAC

Cloruro di alchil-benzil-

dimetilammonio

Aspetto Solido giallo (se puro)

Categoria Tensioattivo anionico

ρ (g/cm3) 0,9

Solubilità in

acqua

4000g/L a 20°C

T di

fusione

(°K)

302-306 (29°-34°C)

T di

ebollizione

(°K)

>413°K (>140°C)

Indicazioni

di

sicurezza

Figura 4.2

New Des, formula di

struttura.(http://farmacologiaoculare.file

s,wordpress.com)

Tabella II Scheda delle proprietà chimico-

fisiche del New Des

23

Fondamentali sono l‟uso della fotocamera digitale e di un comparatore metrico,

utili per documentare le varie fasi dei lavori; e di un quaderno in cui si annotano il

giorno, il luogo, gli operatori presenti, le principali attività svolte ed eventuali

osservazioni e schizzi. Tutti i dati vanno poi trasferiti su un computer, e con essi

le foto.

La determinazione dei reperti è stata effettuata al Museo Civico di Storia Naturale

di Venezia, presso il quale sono depositate una collezione di confronto e le tavole

illustrate tratte dal libro Atlas ostèologique des mammifères, di PALES (1971),

utili a tale scopo. Il principio del metodo utilizzato per la determinazione è quello

fondato da Cuvier (1769-1832) e che è attualmente uno dei pilastri della moderna

Paleontologia Sistematica, secondo la quale è possibile ricostruire l‟aspetto di un

organismo, partendo da singoli reperti osteologici.

4.2 PROCEDIMENTO

Preparazione e determinazione

L‟attività di preparazione è iniziata fotografando il reperto così come si

presentava prima dell‟intervento stesso e annotando su un quaderno tutte le

informazioni trascritte sul cartellino che accompagnava ogni singolo reperto

(Fig.4.4).

Sì è quindi osservato e descritto gli imballaggi che impacchettavano il reperto,

così da capire lo stato di conservazione del medesimo. Essi si presentavano

imballati, come già acennato, in carta da cucina, nylon e nastro adesivo.

Osservandoli, ci si è resi conto che non sempre le condizioni di conservazione

erano buone: in molti reperti, il cartellino e la carta con cui erano imballati

apparivano macerati dall‟umidità, o aderenti al fossile o perfino invasi da muffe

nerastre, mentre la colla del nastro aveva fatto adesione sugli imballaggi.

Una volta rimossi gli imballaggi, si è eseguito una seconda fotografia, utile per

mostrare il reperto disimballato, che va descritto quanto più dettagliatamente

possibile. Spesso, l‟osso fossile appariva semisepolto in una camicia di

sedimento argilloso-sabbioso di colore verde-grigio, a volte con patine rossastre,

probabilmente ossidi di ferro. In altri casi, il sedimento era ricco di ciotoletti di

rocce calcaree, come mudstones o packstones a nummuliti e di selci di vari

colori, a volte policromatici. In media, i ciotoletti avevano dimensioni che

andavano dai pochi mm fino ai 4 cm di diametro, eccezionalmente 7cm. Spesso

il sedimento si presentava particolarmente consolidato e ricco di frammenti di

detrito vegetale. Esso conteneva anche rari frammenti di cristalli di vivianite. Si

ricorda che va eseguita una foto anche del cartellino, per documentare il suo

stato di conservazione.

24

a) b)

c)

Figura 4.4 a) foto del reperto imballato, b) foto del cartellino, c) foto del

reperto disimballato con i vari componenti (foto di T. Marchiorato)

A questo punto sono iniziate le operazioni di preparazione vere e proprie,

consistenti in un preliminare trattamento di consolidamento: la parte visibile del

fossile è stata impregnata con una soluzione di Paraloid B/72 sciolto al 4% in

acetone. La soluzione è stata applicata goccia a goccia, permettendo ad essa di

penetrare in profondità nel campione, in modo da garantire un buon

consolidamento. Tale operazione va eseguita in cappa chimica, evitando così

l‟esposizione ai vapori di acetone.

Una volte terminata l‟operazione di consolidamento delle parti visibili del

campione, si è passati alla rimozione del sedimento; a tale scopo si è usato la

soluzione acquosa di New Des al 15%, applicando la soluzione goccia a goccia

su varie porzioni di esso e attendendo qualche secondo. Si è, quindi, rimosso il

sedimento agendo meccanicamente, utilizzando vari tipi di sondini da dentista o il

trapano di precisione modello Dremel 300 (Fig.4.5). Tale operazione, visto la

fragilità delle ossa fossili, ha richiesto molta attenzione e scrupolo: si è iniziato

tenendosi lontani dall‟osso; si è evitato di fare leva su di esso e spesso si è

ricorsi all‟ausilio di una lente da tavolo per i dettagli più minuti.

25

a) b)

Figura 4.5 rimozione meccanica del sedimento mediante: a) specilli da dentista,

b) trapano modello Dremel 300 (Foto di T.Marchiorato)

Due i rischi principali: la possibilità che le crepe, che si propagavano lungo il

sedimento, potessero danneggiare il reperto e la possibilità che, asportando il

sedimento, questo potesse portare via parte di superficie ossea. Per evitare

quest‟ultimo rischio, si è ricorsi ad una lente montata, a sondini ad uncino, a

pennelli e ad un trattamento chimico più marcato, così da aumentare la

precisione delle operazioni.

Eventuali danni sul campione sono stati riparati con soluzione di Paraloid B/72

sciolta al 60% in acetone o con semplice colla Uhu. Si sono scielti questi collanti

in quanto reversibili, permettendo così di correggere possibili errori di

riparazione.

La sequenza trattamento chimico - trattamento meccanico è proseguita fino a

completa asportazione del sedimento, là dove era possibile. In alcuni campioni,

infatti, sono stati mantenuti piccolissimi lembi di sedimento, poiché essi si

presentavano troppo rischiosi da rimuovere. Anche le concrezioni di ossidi di

ferro, presenti in alcuni campioni, non sono state rimosse.

Altri campioni sono stati sospesi, poiché troppo delicati.

La rimozione di polveri e scorie argillose è stata effettuata agendo con spazzole

e pennelli molto morbidi.

Si è, quindi, consolidato la rimanente parte delle ossa fossili, precedentemente

coperte dal sedimento, con una soluzione al 4% di Paraloid, applicato anche in

questo caso, goccia a goccia.

Spesso, il pacchetto conteneva più frammenti, appartenuti al medesimo osso. Si

è quindi tentato di ricostruire, là dove possibile, i singoli frammenti, così da

ottenere un unico pezzo. Una vota stabilito, dopo vari tentativi, come i singoli

pezzi potessero combaciare, questi sono stati riuniti con colla Uhu o una

soluzione concentrata di Paraloid B/72 in acetone.

Il sedimento, rimosso durante l‟attività è stato raccolto e posto in vari barattoli;

verrà esaminato successivamente da un altro collega e sarà argomento di

un‟altra tesi di laurea.

L‟attività terminava con un‟ultima foto, che ritraeva il campione alla fine degli

interventi di preparazione (Fig. 4.6), con una descrizione del reperto e il

riconoscimento delle varie parti anatomiche e con l‟elaborazione di un database

in cui, per ogni giorno di lavoro, venivano inserite le foto e una scheda tecnica,

elaborata in un foglio di Word, dove veniva riassunto quanto fatto quel giorno.

Tutti i campioni sono stati quindi schedati con un foglio di Excel 2003.

26

Terminato il lavoro di pulizia e schedatura del reperto, si è iniziato uno studio

morfologico del campione, attraverso l‟osservazione dei danni subiti dal reperto

in fase di scavo o dai processi biostratinomici, si sono osservati la morfologia e il

colore dell‟osso, lo si è misurato con righelli o calibri, si sono eseguite

osservazioni allo stereomicroscopio, si è cercato di individuare particolarità

morfologiche utili in una determinazione momentaneamente approssimativa del

tipo di osso, come cavità, malleoli, creste, tubercoli, troclee e molto altro.

Solo successivamente ci si è concentrati su una determinazione sia osteologica

che tassonomica più accurata, in particolare dei numeri 238, 235 e 300, in

quanto rappresentavano i reperti più riconoscibili. Tale attività è stata eseguita,

presso il Museo Civico di Storia Naturale di Venezia, mediante l‟uso delle tavole

osteologiche tratte dal libro Atlàs ostèologique des mammifères di PALES (1971)

e di una collezione osteologica di riferimento, depositata al museo stesso.

La prima fase della determinazione è stata quella di capire a quale osso fossile ci

si trovava di fronte, cosa non semplice in quanto, come avremo modo di

argomentarne al capitolo 5, tutti essi apparivano danneggiati. Si è proceduto per

confronto, dei reperti fossili di Steggio con le tavole e la collezione, al modo da

mettere in luce, attraverso la presenza o l‟assenza di caratteri macroscopici,

somiglianze quanto più vicine possibili, come la presenza di forami, malleoli,

diafisi, epifisi prossimali, epifisi distali e molto altro (Fig. 4.7). Anche la

determinazione tassonomica degli animali cui appartenevano le ossa fossili, è

stata eseguita in modo analogo.

Figura 4.7 Il reperto n°238 comparato con un bacino di Bos e con un‟illustrazone del

bacino di Ceratotherium (foto di T. Marchiorato)

Figura 4.6 Reperto n°238 alla fine della

preparazione. (Foto di T. Marchiorato.)

27

Altri reperti sono stati determinati con maggiore facilità, in quanto inconfondibili,

quali i palchi di cervide e le lamelle di molare di Mammuthus meridionalis.

Studio dei processi tafonomici

Lo studio dei processi tafonomici è utile per future analisi paleoambientali

e anche per un miglioramento delle tecniche di conservazione. Premetto che lo

studio tafonomico che ho affrontato è stato molto blando, poiché era volto

soprattutto a capire come agire nella conservazione dei repertidi Steggio.

Per uno studio tafonomico, è sufficiente osservare le ossa ad occhio nudo o

tramite stereomicroscopio per la rivelazione di rotture, abrasioni, tracce di

predazione e/o di bioerosione, mentre l‟osservazione del colore, dell‟aspetto e

l‟esecuzione di alcune prove fisiche, ha permesso di supporre quali fossero i

processi di fossilizzazione.

Uno studio approfondito della fossilizzazione può essere effettuato con il

diffrattometro, tuttavia non è stato possibile utilizzarlo. Si è così proceduti ad

un‟osservazione macroscopica per poi passare ad un‟osservazione allo

stereomicroscopio e all‟effettuazione di alcune prove fisiche.

Sono dunque stati osservati allo stereo microscopio i campioni numero 238, 194,

145 e 169.

Macroscopicamente, questi campioni presentavano una parte compatta di colore

ocra o marrone chiaro, con concrezioni nere, mentre la parte spugnosa poteva

essere di colore nero.

Si sono quindi osservati il colore, la lucentezza, l‟aspetto, mentre per la durezza

(secondo la scala di Mohs), si è preferito operare su un campione

indeterminabile, il n° 262, in quanto questa è una prova particolarmente

distruttiva.

Per tale prova, si sono scalfiti con l‟unghia i vari tipi di materiali componenti il

n°262; se resistevano alla penetrazione si scalfiva la loro superficie con una

moneta di rame, se anche in questo caso si rivelavano resistenti, venivano scalfiti

con uno specillo da dentista. La resistenza ai vari materiali penetranti dava la

durezza.

L‟insieme di tutte queste proprietà macroscopiche e fisiche, ha poi permesso di

effettuare una probabile determinazione del minerale o della classe mineralogica,

cui potrebbero appartenere, ed elaborare alcune supposizioni.

28

CAPITOLO 5

RISULTATI E DISCUSSIONE

5.1 RISULTATI DELLA PREPARAZIONE E DELLA DETERMINAZIONE DEI

REPERTI

Dopo la preparazione dei reperti di Steggio, sono emerse tutta una serie

di ossa fossili di vertebrati, la Tabella III e le tavole di Fig. 5.1, mostrano tutti i

reperti trattati durante l‟attività di tirocinio formativo:

Tabella III: risultati delle attività di preparazione e di determinazione sui reperti steggiani.

n° campione Determinazione osteologica Organismo Pezzi

N°144/B Lamelle di molare Mammuthus meridionalis 4

N°269 Tibia Famiglia Cervidae 9

N°235 Cfr VI vertebra cervicale Famiglia Bovidae 5

N°A/30 Strobilo Gimnosperma 1

N°A/19 Legno Da determinare 1

N°238 Ileo destro + due gasteropodi Ileo di Perissodattilo, cfr

Rhinocerotidae. Uno dei due

gasteropodi è un Helicidae

18

N°147 (II) Frammento di palco Famiglia Cervidae 5

N°194 Diafisi Famiglia Proboscidae 6

N°300 Epicondilo laterale di omero Famiglia Rhinocerotidae 22

N°145 Costa Da determinare 13

N°261 Frammento di palco Famiglia Cervidae 3

N°262 Indeterminabile Indeterminabile 9

29

Figura 5.1 tavole illustranti tutti i campioni esaminati durante il tirocinio

Tavola I: n° 144/B

7)

5)

7)

1) 2)

3) 4)

6)

8)

5)

7)

10) 9)

1)campione imballato, 2) cartellino, 3)-4)pezzo 1 prima e dopo la preparazione,

5)-6) pezzo 2 prima e dopo la praparazione, 7)-8) pezzo 3 prima e dopo la

preparazione, 9)-10) pezzo 4 prima e dopo la preparazione

30

Tavola II: reperto n° 269

1) 2)

3) 4)

7) 8)

6)

9) 10)

5)

31

11) 12)

13)

1)campione imballato, 2) cartellino, 3)-4) pezzo 1 prima e dopo il restauro, 5)- 6) pezzo 2 prima e

dopo il restauro, 7) pezzo 3, 8)pezzo 4, 9) pezzo 5, 10) pezzo 6, 11)pezzo 7, 12) pezzo 8, 13)

pezzo 9.

NOTE: i pezzi 3, 4 , 5, 6, 7, 8 e 9, al momento del restauro, si presentavano gia liberi dal

sedimento

32

Tavola III: reperto n° 235

1) 2)

3) 4)

5)

6) 7)

9) 10)

1)Reperto imballato, 2)cartellino, 3)-4) pezzo 1 prima e dopo il restauro, 5) pezzo 2, 6)-7)

pezzo 3 prima e dopo il restauro, 9)-10) pezzo 4 prima e dopo il restauro.

NOTE: il pezzo 5 non è stato considerato

33

Tavola IV: reperto n° A/30

Tavola V: reperto n° A/19

1) 2)

3) 4)

1) 2)

3)

Tavola IV: 1) reperto imballato, 2) cartellino, 3)-4) reperto prima e dopo il

restauro

Tavola V: 1) reperto imballato, 2) cartellino, 3) reperto prima dei restauri . Il n°

A/ 19 non è stato restaurato

34

Tavola VI: reperto n° 238

8)

1

1) 2)

4)

5) 6)

12)

10) 9)

11) 13)

14) 15)

3)

7)

35

16)

21)

17)

18) 19)

20)

1)reperto imballato, 2) cartellino, 3)-19) pezzo 1-17, 20)-21) pezzo 18 prima e dopo il

restauro.

NOTE: i reperti 1-17 non necessitavano di preparazione

36

Tavola VII reperto n° 147 (II)

1)

3) 4)

2)

7)

5)

10)

9)

6)

8)

37

Tavola VIII reperto n°194

1) 2)

3)

Tavola VI: 1) campione imballato, 2) cartellino, 3)-4) pezzo 1 prima e dopo la preparazione, 5)

pezzo 2, 6)-7) pezzo 3 prima e dopo la preparazione, 8)-9) pezzo 4 prima e dopo la

preparazione, 10) pezzo 5.

NOTE: il pezzo 2 non è stato preparato

Il pezzo 5 non necessitava preparazione

1) campione imballato, 2) cartellino, 3) pezzi 1, 2, 3,4,5,6 prima della preparazione

NOTE: il pezzo 1, 2 e 4 e 5 e 6 non necessitavano preparazione

Il pezzo 3 è stato sospeso

38

Tavola IX: reperto n° 300

1) 2)

3) 4)

7)

5)

6) 8)

9) 11) 10)

12) 13) 14)

15) 16)

39

17)

18)

21) 20)

19)

22)

23) 24)

25)

1) reperto imballato, 2) cartellino, 3)-4) pezzo 1 prima e dopo la preparazione, 4)-25) pezzi 2-22

NOTE: solo il pezzo 1 necessita di preparazione

40

Tavola X: reperto n° 145

3)

5)

1)

6)

4)

7) 8)

10) 9)

11) 12)

2)

41

14)

13)

14)

1)reperto imballato, 2) cartellino, 3)-14) pezzi 1-13

NOTE: solo il pezzo 1 necessitava di preparazione, anche se si è dimostrata blanda; poiché il sedimento

inglobava solo una piccola parte della parte spugnosa esposta.

42

Tavola XI: reperto n° 261

1)

4)

3)

5)

6)

2)

1)reperto imballato, 2)-3) pezzo 1 prima e dopo la preparazione, 4)-5) pezzo 2

prima e dopo la preparazione, 6) pezzo 3

NOTE: il pezzo 3 non necessitava di preparazione.

43

Dopo la preparazione, ci si è resi conto che la maggior parte dei fossili non era in

buono stato: benché, a priori, nessun osso sembrasse danneggiato dall‟umidità

che ha invece macerato la carta, le ossa si presentavano frammentate in più

punti, danni dovuti soprattutto ai processi biostratinomici e secondariamente alle

fasi di scavo. La maggior parte dei reperti apparteneva sia a mesomammiferi che

a macromammiferi, sebbene eccezionalmente siano emersi, dal campione

n°238, due gasteropodi fossili lunghi pochi mm.

I reperti ossei arrivavano a raggiungere dimensioni che variavano dai pochi

millimetri fino ai 21 cm. La parte superficiale spesso si presentava essere

incrostata da concrezioni, altri frammenti presentavano una parte compatta di

colore ocra o marrone mentre le trabecole apparivano di un nero lucente. Molte

ossa erano di forma cilindrica o erano piatte.

Reperto n° 194

Il n° 194 (vedi tavole fig. 5.1) era rappresentato da 6 frammenti allungati, dotati

di parte ossea compatta molto spessa e molti di essi erano incrostati da

concrezioni di idrossidi di ferro. La superficie ossea appare di colore giallo ocra e

i frammenti misurano fino ad un massimo di 13 cm di altezza.

Si tratta di frammenti di diafisi di macromammifero, probabilmente un

Proboscidato.

Reperto n°238

Il campione era composto da 18 pezzi di varie dimensioni. La superficie ossea si

presentava marrone scuro, le trabecole apparivano nere. Dei 18 pezzi, solo il

18°pezzo (Fig. 5.2) appariva più riconoscibile: esso, lungo 21 cm e alto 17 cm, si

presentava a forma di ascia, con una piccola apofisi terminale che emergeva

lungo una strozzatura dell‟osso. Presentava un lato concavo e uno convesso.

Esso, visto la particolare forma, si è rivelato essere un bacino, per esattezza un

frammento di ileo.

Dopo attento confronto del n° 238 con un bacino di Bos, ci si è resi conto che il

fossile di Steggio non apparteneva ad un Bovidae. Il confronto con un campione

di un bacino di un giovane cavallo attuale ( Equus caballus), dimostra che il

reperto n°238 è molto affine ad esso, benché sia più probabilmente simile al

bacino di un rinoceronte. La comparazione del reperto con la tavola osteologica

n°111 del libro Atlàs ostèologique des mammifères (PALES, 1971) e

rappresentante il bacino di un rinoceronte bianco (Ceratotherium simum),

conferma che il reperto è morfologicamente e dimensionalmente simile ad un

bacino di Rhinocerotidae. Presenta quindi caratteri in comune sia con gli equidi,

che con i rinoceronti, anche se la somiglianza è più prossima ai secondi. Gli altri

17 frammenti, più piccoli, sono di dubbia identità, ma potrebbero trattarsi di

frammenti persi dal 18° pezzo.

Si auspica, dunque, la riparazione dei vari frammenti.

Concludendo, si può ipotizzare che il reperto n° 238 rappresenta l‟ileo destro di

un Perissodattilo, affine ai Rhinocerotidae.

44

a) b)

c) d)

Figura 5.2 il n°238; a) lato ventrale, b) lato dorsale. (foto di T. Marchiorato.)

Reperto n° 300

Esso conteneva 22 frammenti ossei, tutti dotati di una parte compatta molto

spessa e di colore marrone scuro, le trabecole apparivano invece nere. Molti di

loro non necessitavano di pulizia, in quanto si presentavano già disinglobati dal

sedimento.

I frammenti presentavano varie lunghezze, dai 3 cm ai 6 cm, e gran parte di essi

aveva l‟aspetto di una diafisi, ad eccezione del n°300/20°pezzo (Fig. 5.3), che

invece si presentava arrotondato, tozzo, ma particolarmente spianato lungo uno

dei lati.

Tale fossile è stato riconosciuto, per comparazione con un omero di Bos, come

frammento di epicondilo laterale di omero.

Tuttavia, il campione mostrava delle differenze in quanto, il reperto di Steggio

mostrava dimensioni leggermente maggiori e una forma dell‟epicondilo più a

clessidra, tipica quindi dei Rhinocerotidae. Il confronto con le tavole osteologiche

n°64 e 65 dell‟atlante di PALES (1971), illustranti un omero di Ceratotherium

simum, ha confermato tale supposizione.

Gli altri frammenti del n°300 probabilmente rappresentano i resti della diafisi

omerale.

c)e d) ileo di Cerathotherium simum (PALES, 1971)

c) e d): tavola n°111 (PALES, 1971)

45

Figura 5.3 a) n° 300/20°pezzo (Foto di T. Marchiorato), b) estremità distale di omero di

Ceratotherium simum ( PALES 1971, con modifica)

a) b)

Reperto n° 235

Il reperto osseo era composto da 5 campioni, di colore giallo ocra, ma è stato il

n°235/1°pezzo (Fig. 5.4) a presentarsi, seppur fragilissimo e danneggiato, come

una vertebra fossile di macrovertebrato.

Altri frammenti, si sono presto rivelati come parti di questa vertebra, come il

condilo articolare, la spina vertebrale, e due prezigapofisi, alcuni dei quali sono

stati riconnessi, tramite colla Uhu, con il 1° pezzo.

Il confronto del reperto n°235 con lo scheletro assile del collo di Bos, suggeriva

che il reperto corrispondeva probabilmente alla VI vertebra cervicale, per via di

una riduzione dell‟ispessimento della cresta caudale dell‟ipocentro e una marcata

apofisi centrale nell‟ipocentro vertebrale. Il reperto è stato poi comparato anche

con vertebre cervicali di Bison e Equus caballus, per determinare la specie.

Appare molto simile sia a Bison, che a Bos, mentre non presentava affinità con

Equus. Si può quindi supporre che il n° 235 rappresenti probabilmente la VI

vertebra cervicale di un Bovidae.

a) b)

46

c) d)

Figura 5.4 reperto n°235; a) lato caudale, b) lato craniale c) lato ventrale, d) lato dorsale,

e) vista laterale, f) comparazione con vertebra cervicale di Bos (foto di T. Marchiorato.)

A priori, il n°244/B (fig. 5.5) rappresentava 4 lamelle del molare di Mammuthus

meridionalis, in quanto esso era probabilmente l‟unica specie di proboscidato

presente a Steggio durante il Villafranchiano superiore.

Le lamelle mostravano gli strati di smalto e dentina, divenuti azzurrognoli, mentre

le radici e la superficie masticatoria si presentavano danneggiati dai processi

tafonomici. Spesso una concrezione rossiccia di idrossidi di ferro li incrostava.

Misuravano un massimo di 7 cm di altezza e 5,5 cm di lunghezza e presentavano

un profilo lievemente curvo.

Figura 5.5 campione n° 244/B, rappresentante quattro lamelle di molare di

Mammuthus meridionalis (Proboscidea, Elephantidae.) Foto di T. Marchiorato.

e) f)

47

Reperto n°269,

Conteneva 9 pezzi di osso lungo, (vedi tavole di fig. 5.1) spesso rotti sia alle

estremità e sia longitudinalmente. Misuravano un massimo di 9,5 cm di

lunghezza.

La superficie ossea si presentava marrone in certi frammenti, in altri giallo-ocra.

Dopo parziale ricostruzione, è stato identificato come diafisi tibiale, in quanto

presentava sezione pseudotriangolare e la parte finale della cresta tibiale era

intatta. Si denotava un marcato allargamento dell‟osso verso la cresta tibiale e un

restringimento progressivo verso il lato distale.

Essendo molto lunga e di diametro limitato, probabilmente tale tibia apparteneva

ad un mammifero molto veloce, forse un piccolo cervide.

Reperto n°147 (II)

Era composto da 5 pezzi cilindrici (vedi tavole di fig.5.1), ma con profonde

scanalature, erano sfogliati longitudinalmente e lunghi fino a 9,5 cm: si tratta

probabilmente di frammenti di palco di cervide, ma essendo troppo frammentari,

non è stato possibile determinare la specie.

Reperto n° 261

Anche il n°261 rappresentava alcuni frammenti di palco di cervide, ma essendo

di forma pseudoconica e per lo più ricco di perle, potrebbe rappresentare parte

della rosetta del palco (vedi tavole Fig. 5.1). Tuttavia, anche in questo caso, la

specie rimane ignota.

Reperto n°145

Il reperto si presanva come un osso a bacchetta (vedi tavole di figura 5.1),

compresso dorso ventralmente, allungato e lievemente curvo, nel suo tratto

terminale tendente ad appiattirsi e a allargarsi sempre di più. Misurava circa 18,5

cm di lunghezza ed era rotto lateralmente. La parte compatta si presenta

robusta, mentre le trabecole sono state asportate dai processi tafonomici.

Si ritiene che esso rappresenti i resti di una costola di macromammifero, ma non

è stato possibile determinare la specie.

Reperto n° 262

Essendo rappresentato solo da minuscoli frammenti di osso lunghi pochi mm, si

è rivelato indeterminabile sia osteologicamente, sia tassonomicamente.

Reperti n° A/30 e il n° A/19

I reperti n° A/30 e n°A/19 (vedi tavole fig. 5.1) si sono rivelati essere reperti

vegetali fossili e quindi non sono stati presi in considerazione, in quanto gli studi

paleobotanici esulano dallo scopo della presente tesi.

Il Dott. Gatto, del Dipartimento di Geoscienze dell‟Università di Padova, si è

offerto di determinare e studiare i due gasteropodi fossili emersi insieme al

reperto n°238 (fig. 5.6). Dalle misurazioni fatte allo stereomicroscopio, si è

stabilito che i due molluschi, misurano rispettivamente 3,302 e 6,306 mm di

diametro. Un esemplare (A), di 3,302 mm di diametro, con un avvolgimento

trocospirale a spira bassa, grosso umbone e piccola apertura sifonostomica, è

stato determinato come appartenente alla famiglia Helicidae, il secondo

esemplare (B), alto 6,306 mm, con avvolgimento trocospirale a spira alta, con

una grossa apertura sifonostomica, si è invece dimostrato indeterminabile.

Nessuno dei due esemplari risulta avere ornamentazioni, se non poco evidenti.

48

I due esemplari erano comunque dulcacquicoli e vissero proprio nel lago di

Steggio, risalgono, quindi, al Pleistocene inferiore e non sembrano esserci

evidenze di time everenging.

Figura 5.6 microfotografia dei due gasteropodi emersi dal campione

n°238 (foto di T. Marchiorato, ingrandimento 50X)

5.2 RISULTATI DELLO STUDIO TAFONOMICO

Non essendo state trovate tracce di predazione, né di parassitismo o

malattie, è difficile stabilire quale sia stata la causa di morte dei vertebrati

rinvenuti a Steggio ed esaminati durante il tirocinio.

Le ossa fossili presentavano un alto grado di disarticolazione, poiché spesso nei

pacchetti si ritrovavano ossa singole. Spesso tali ossa risultano per lo più

frammentate e abrase in più punti: delle ossa lunghe rimaneva solo la diafisi,

spesso rotta lateralmente, e le trabecole potevano risultare asportate. Anche

ossa molto robuste, come quelle del n°194 e del n°244/B apparivano

danneggiate (Fig. 5.7), il che ci permette di pensare ad un trasporto fluviale con

una corrente molto forte.

Fig. 5.7 evidenze di frammentazione nel reperto n°194 (Foto di T. Marchiorato)

Tuttavia, alcune delle rotture e le abrasioni potrebbero anche essere imputabili

alle operazioni di scavo.

Non è stato possibile ossevare deposizione orientata o selezione meccanica.

Il seppellimento è avvenuto in detriti minerali, in prevalenza argillosi con

intercalazioni di ciotoletti di selce o rocce calcaree (per maggiori informazioni

riguardanti il sedimento si rimanda al capitolo 4).

Durante l‟esperienza di tirocinio, non sono state osservate tracce di bioerosione,

si cita però un‟ulna di Stephanorhinus etruscus, scoperta durante gli scavi, che

presentava tracce di bioerosione da micromammiferi (fig. 5.8).

49

Figura 5.8 bioerosione da micromammiferi su un‟ulna di Stephanorhinus etruscus

(Perissodactyla, Rhinocerotidae), scoperta a Steggio. (foto di M. Tonon, con modifiche)

Per lo studio della fossilizzazione, si sono da prima considerati i colori delle ossa,

a cominciare dal materiale giallo- ocra. Esso è presente nella parte compatta e

nei bordi esterni delle trabecole ossee, più raramente esso ostruisce, in tutto o in

parte, i bordi interni delle trabecole (Figura 5.9).

a) b)

Figura 5.9 microfotografie delle ossa dei vertebrati fossili di Steggio: a)parte spugnosa,

b)parte compatta. Si nota la presenza di ossidi di ferro, di vari colori, impregnanti sia la

parte compatta sia la parte spugnosa. L‟interno delle cavità delle trabecole è poco

ostruita, il che indica una fossilizzazione poco spinta. (Foto: T. Marchiorato;

ingrandimento: 50X)

Il materiale giallo ocra mostrava una forma terrosa o incrostante, presentava

lucentezza terrosa e non veniva scalfito con l‟unghia, ma da una moneta di rame

e/o da uno specillo in acciaio, rivelando così una durezza compresa tra 3 e 6.

Questa formazione mineralogica potrebbe rappresentare degli idrossidi di ferro,

tra i quali probabilmente la limonite, poiché molto comune.

Un secondo tipo di materiale presente nei fossili di Steggio è di colore nero o

marrone e si trova soprattutto nella parte spugnosa, ma essendo

morfologicamente e fisicamente molto simile al precedente, potrebbe trattarsi

anche in questo caso di idrossidi di ferro.

Si è notato tuttavia che la fossilizzazione dei resti ossei steggiani è molto blanda,

in quanto la parte spugnosa è solo in piccola parte invasa dal minerale

impregnante. Essendo costituito probabilmente da idrossidi di ferro, potrebbe

indicare un ambiente d‟acqua lotica, in continuo movimento e ben areata.

Questi idrossidi sono stati deposti dalle acque o forse derivano dall‟alterazione di

solfuri gia presenti nell‟osso. E‟ comune che i solfuri si formino in ambiente

anossico, con circolazione di acque e ossigenazione scarsi o nulli. Molti batteri

anaerobici, in ambiente asfittico, degradando le proteine di collagene presenti

50

nella componente organica delle ossa, possono dare origine all‟acido solfidrico

(H2S). Tale sostanza è fortemente reattiva con gli ioni Fe2+, presenti nelle acque

circolanti o liberati dalla decomposizione dei globuli rossi, provocando così la

precipitazione di minerali quali la pirite (FeS2) e altri solfuri nelle ossa

(CARPENTER, 2001).

E‟ quindi ragionevole supporre che, nei periodi asfittici, le ossa siano state

impregnate di pirite e altri solfuri, che hanno invaso le microcavità delle ossa,

fossilizzandole. In seguito, durante i periodi di acqua corrente, i solfuri si siano

alterati per azione dell‟acqua e dell‟ossigeno, originando gli idrossidi di ferro:

FeS2 + H2O FeO(OH).nH2O Pirite (ambiente anossico) Idrossido di ferro (ambiente con acqua corrente)

Questa potrebbe dunque essere l‟origine degli idrossidi presenti nei fossili di

Steggio, tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze, non si è in grado di stabilire

se vi siano tracce di criptocristalli di solfuri. Tale supposizione è quindi da

valutare e da supportare con dati petrografici, diffrattometrici, geochimici,

paleoambientali e litologici.

51

CAPITOLO 6

CONCLUSIONI

I reperti restaurati e studiati durante il tirocinio, appartenevano

probabilmente a cervidi, bovidi, rinoceronti e proboscidati. Questo tipo di fauna,

potrebbe indicare condizioni di clima temperato caldo con zone boschive

alternate a radure, nelle vicinanze del lago, (BON e GHIOTTO, 1994), anche se

tali dati richiedono analisi più approfondite.

Anche i reperti più compatti risultano frammentati e logorati, il che indica un

trasporto molto marcato in una corrente d‟acqua molto forte, come si denota

anche dal sedimento, che contiene intercalazioni ghiaiose. La fossilizzazione, a

cui è seguita forse un‟alterazione, potrebbe indicare un paleoambiente con

periodi di acqua stagnante con fondale asfittico, alternato a periodi di acqua

corrente; anche se tale supposizione va supportata da molte altre prove e dati.

Da questa esperienza ho capito che il lavoro sui fossili implica precisione,

costanza e anche pazienza.

Il lavoro da svolgere è ancora molto, perché restano vari reperti da preparare e

determinare; e, mentre restauro e determinazione proseguono, si avverte la

necessità di un lavoro di sintesi sul giacimento di Steggio, i cui dati danno un

significativo contributo alle scienze del settore, cui spero di aver dato un piccolo

contributo.

52

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ALLEGATI

Come gia menzionato al capitolo 6, i reperti restaurati e studiati durante il

tirocinio appartenevano probabilmente a cervidi, rinoceronti, bovidi e al

proboscidato Mammuthus meridionalis. Nei seguenti allegati, sono riportate le

informazioni più importanti riguardanti tali mammiferi, quali osteologia,

dentizione,storia geologica, tendenze evolutive, paleoecolgia e

paleobiogeografia; sulla base di LAVOCART (1966), per poi concludere con un

dibattito riguardante la denominazione del Mammuthus meridionalis.

A tal proposito, nel presente elaborato, si è deciso di seguire la nomenclatura di

MAGLIO (1973), in quanto la più accettata.

ALLEGATO I: I CERVIDI

(Miocene inferiore -Attuale)

Classificazione:

REGNO: Animalia

PHYLUM: Chordata

SUBPHYLUM: Vertebrata

CLASSE: Mammalia

ORDINE: Artiodactyla

SOTTORDINE: Ruminantia

FAMIGLIA: Cervidae, GOLDFUSS 1820

I Cervidae costituiscono una famiglia molto diffusa di mesomammiferi, anche nei

depositi geologici sono ampiamente rappresentati e diversificati. Sono

caratterizzati dalla presenza dei palchi, delle strutture ossee ramificate e

annualmente caduche, presenti soprattutto nei maschi. In una specie attuale,

l‟idropote (Hydropotes inermis), entrambi i sessi sono sprovvisti di palchi.

Le zampe sono dotate di quattro dita, di cui solo le due centrali poggiano al suolo

e solo queste sono dotate di unghia a zoccolo.

Osteologia

Il cranio dei cervidi si distingue, nelle varie specie, per la forma, la struttura e il

volume che esso può contenere. Ad esempio il cranio del cervo nobile (Cervus

elaphus) risulta più allungato di quello del camoscio alpino (Rupicapra rupicapra).

Il cranio dei cervidi presenta un premascellare non attaccato ai nasali ed è dotato

di un grande osso lacrimale.

Le orbite posseggono due orifizi nervosi, collocate in una depressione assai

profonda.

La mandibola è fortemente allungata, dotata di una grande fossa mesenterica

arrotondata e due processi condilari che fanno da articolazione con la mascella.

Caratteristica distintiva dei Cervidae sono i palchi.

I palchi sono strutture ossee caduche, per lo più ramificate e ricoperte

temporaneamente da uno strato di tessuto epiteliale riccamente vascolarizzato

ed innervato, detto velluto. Sono costituite da un asse principale, chimata asta,

da cui partono numerose ramificazioni, dette pugnali. L‟asta e i pugnali sono

percorse da profonde scanalature dette solchi, ove trovano alloggiamento i vasi

57

sanguigni del velluto. La base del palco è detta rosetta, una struttura cilindrica

ricca di tubercoli a forma di goccia, le perle.

Il palco si innesta nello stelo, un‟estroflessione conica dell‟osso frontale.

In genere, solo il maschio è dotato di palchi, nel quale essi iniziano a svilupparsi

all‟età di circa 1 anno, a questo stadio non presentano ramificazioni. Nel Cervus

elaphus i palchi in genere compaiono a fine estate e cadono all‟inizio della

primavera dell‟anno successivo. Ogni anno, compaiono due nuovi pugnali e i

palchi sono rivestiti dal velluto, che dopo poche settimane si distacca, lasciando il

palco scoperto. Si ritiene che anche in molte forme fossili di cervide avvenissero

medesimi fenomeni.

Il numero, la forma e la disposizione dei pugnali è utile nell‟identificazione dei

Cervidae attuali, mentre in quelli fossili risulta più difficile, poiché nei depositi

geologici, dei palchi spesso non restano che frammenti di pugnali o parte

dell‟asta. In un palco fossile, la presenza della rosetta indica un palco perduto

naturalmente dal cervide, quando esso era ancora in vita.

L‟omero, nel Cervus elaphus è dotato di una tuberosità esterna più voluminosa

della testa.

L‟ulna e il radio dei Cervidae sono molto simili a quella dei Bovidae, ovvero

appaiono fuse tra loro, con un‟ulna a bacchetta, che tende ad assottigliarsi e a

fondersi sempre di più con il radio, procedendo verso l‟apofisi stiloide.

L‟osso cannone anteriore dei cervidi è un lungo osso con faccia anteriore

convessa e faccia posteriore profondamente scavata, soprattutto in Cervus

elaphus. La diafisi dell‟osso cannone anteriore è molto assottigliata nei pressi

dell‟articolazione distale e si nota un forte appiattimento sia lungo le articolazioni

distali e prossimali. Il contorno delle pulegge articolari può essere a volte

smussato, a volte marcato.

L‟osso cannone posteriore è più lungo e più stretto di quello anteriore, e risulta

compresso lateralmente. Nei Cervidae, esso è formato dal III e dal IV metacarpo.

Esso è dotato di una grondaia posteriore molto marcata.

Il femore dei cervidi presenta una diafisi cilindrica e risulta lievemente incurvato.

Nella renna ( Rengifer tarandus), il grande trocantere appare più sviluppato di

quello del cervo nobile, quest‟ultimo, tuttavia, possiede fossette per i legamenti

più marcate.

Nella renna, la fossetta digitale è molto evidente, è poco pronunciata nel cervo

nobile, mentre è assente nel camoscio. Nei cervidi, la linea è spesso unita alla

fossa sovracondilare, la quale è situata al di sopra del condilo esterno.

Anteriormente, la parte distale del femore presenta troclee con grondaie nette. Il

femore del cervo nobile presenta una cresta sovra trocleare ben visibile, mentre

nella renna e nel camoscio sono poco pronunciate. Se visti di profilo, i due condili

distali del femore dei cervidi, appaiono molto prominenti, grandi e compressi

lateralmente.

La tibia dei cervidi è lievemente curva, ricorda una S allungata, con una diafisi

appiattita.

Tale appiattimento risulta più accentuato un po‟ al di sopra dell‟estremità distale.

La faccetta articolare esterna, la spina e la faccetta articolare interna sono

diverse nel cervo nobile, nella renna e nel camoscio.

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La cresta anteriore è molto prominente e compressa lateralmente, essa termina

molto dolcemente lungo la diafisi e, nel suo tratto finale, tende a puntare verso il

lato esterno della tibia.

Dentizione

La formula dentaria è la seguente:

I 0/3; C(1)/1; P3/3; M3/3 per un totale di 32 o 34 denti.

Gli incisivi hanno in genere una forma di paletta, anche se i due incisivi centrali

risultano più grossi. Essi, in oltre, sono molto simili nelle varie specie e si

distinguono solo per le dimensioni: esempio, gli incisivi di Cervus elaphus sono

più grossi di quelli di Rupicapra rupicapra .

Il canino superiore è impiantato ai lati dell‟osso mascellare, mentre il canino

inferiore è molto simile agli incisivi. Ad eccezione di Hydropotes inermis, i cervidi

attuali non sono più dotati di grandi canini a zanna.

Nel Cervo rosso attuale (Cervus elaphus) il III premolare ha il metacono e

l‟ipocono formanti un‟U aperta verso il lato linguare del dente, mentre nel IV

premolare, se presente, tale configurazione è formata da ipocono, parastiloide e

paracono.

I molari sono di tipo brachiodonti con cuspidi formanti delle mezzelune sulla

superficie masticatoria del molare stesso (molare selenodonte)

Le cuspidi linguari dei molari inferiori sono molto più sviluppate di quelle labiali.

Le renne fossili possedevano un III molare dotato di tre cuspidi, mentre

attualmente ne posseggono solo due.

Storia geologica

I parenti più prossimi ai cervidi comparvero circa 20 milioni di anni fa, durante

l‟Oligocene superiore, in Europa, Asia e Africa; essi appartenevano alla famiglia

dei Moschidae, di cui oggi sopravvive il solo mosco (genere Moschus).

Con il Miocene inferiore fecero la comparsa i primi veri cervidi, in particolare in

Asia e Europa, come i generi Lagomerix e Procervulus, i quali si presentavano

come piccoli mammiferi sprovvisti di palchi o con palchi piccoli e poco ramificati,

ma con mascelle munite di grosse zanne.

Cervidi con caratteri attuali, cioè quelli appartenenti alla sottofamiglia Cervinae,

comparvero nel Miocene superiore, tra i quali il genere Pliocervus, mentre un

genere attuale, Cervus, comparve nel Pliocene inferire, circa 5 milioni di anni fa.

Con questi ultimi, le dimensioni dei cervidi aumentarono ( 2 m o più, al garrese),

mentre i palchi aumentarono le loro ramificazioni e le loro dimensioni. Per contro,

le zanne iniziarono a regredire, fino a venire perdute o a lasciare un canino

vestigiale. Sempre nel Miocene superiore comparve la sottofamiglia

Capreolinae, comprendente gli attuali caprioli (genere Capreolus.)

Nello stesso periodo, il cervo americano attuale ( genere Odocoileus),

oltrepassò lo stretto di Bering, diffondendosi in America settentrionale.

I daini (genere Dama), compaiono invece nel Pleistocene inferiore, circa 1,8

milioni di anni fa.

Durante il piano geologico continentale del Villafranchiano, fece la sua comparsa

il genere Eucladoceros, così nominato per i molteplici pugnali di cui erano dotati i

propri palchi, ben 12. Lungo più di 2,80 m e alto al garrese ben 1,80 m, fu uno

dei più grandi cervidi mai esistiti.

59

Nel Pleistocene si ha una grande radiazione adattativa dei cervidi ed è proprio in

quest‟epoca che comparve un altro grande cervide: il Megaloceros giganteus, il

cui palco era lungo ben 3 m e l‟animale raggiungeva un‟altezza di 2 m al garrese.

Il megacero è superato solo dall‟alce attuale (Alces alces) e dal Cervalce che

possono accrescersi fino ad un‟altezza di 2,3 m al garrese.

Per contro, nel medesimo periodo, nelle isole del Mediterraneo, comparvero

forme di cervidi nane, quali Candiacervus, adattate ad una vita insulare, e quindi

con scarsità di cibo e spazio. Contemporaneamente, il genere Eucladoceros

scomparve del tutto.

In America settentrionale, nel Pleistocene, si documenta il più grande cervide mai

esistito: il Cervalce, o Cervalces scotti, parente stretto dell‟attuale alce, mentre,

sempre nello stesso periodo le renne ( genere Rangifer), comparvero in Asia, ma

si diffusero velocemente anche in America Settentrionale, attraversando lo stretto

di Bering.

Riformatosi l‟Istmo di Panama, i cervidi si diffusero, durante il Pleistocene, anche

in America meridionale: ancora oggi, in quelle zone, prolifera il genere

Blastocerus.

Il Megaloceros giganteus si estinse tra 9200 anni fa e 9400 anni fa, mentre fino a

pochi anni fa si riteneva si fosse estinto alla fine dell‟ultima glaciazione, circa

10000 anni fa. Circa 11000 anni fa scompare anche Cervalces assieme a molti

altri cervidi, mentre sopravvissero Cervus, Alces, Capreolus e altre forme che

costituiscono l‟associazione moderna.

Tendenze evolutive

Considerando le specie fossili, si può dedurre che l‟evoluzione della famiglia dei

Cervidae si è mossa lungo queste vie:

Aumento delle dimensioni,

Sviluppo dei palchi,

Aumento del numero dei pugnali,

Sviluppo della lunghezza della tibia, dell‟ulna e del radio,

Riduzione delle zanne, fino a completa scomparsa. Paleoecologia

Osservando i cervidi attuali e la dentizione nei reperti fossili, si può dedurre che i

cervidi estinti fossero erbivori, si nutrono soprattutto di piante erbacee, anche se

non disdegnano frutti, cortecce e gemme. Sono euritermi e riescono a vivere a

tutte le latitudini e in una vasta gamma di ambienti diversi, come i loro antenati

estinti.

Tracce di morsi e impronte dentarie su molte ossa fossili, suggeriscono che i

cervidi fossero preda di ursidi, felini, tra i quali i pericolosi Machairodontinae,

canidi e ienidi.

Paleogeografia

Nel passato geologico, i cervidi erano diffusi in Europa e in Asia.

Successivamente si sono affermati anche in America settentrionale e

meridionale.

Anche in una piccola zona dell‟Africa, a nord del Sahara, si sono rinvenuti resti

fossili attribuibili a cervidi.

Attualmente risultano estinti in Africa, mentre sono stati introdotti in Oceania

dall‟uomo.

60

I reperti suggeriscono che i cervidi vissero in zone boscose, nelle radure, nelle

paludi o in praterie, a tutte le latitudini e altitudini, dalle pianure alle alte

montagne, come i loro discendenti attuali.

ALLEGATO II: I BOVIDI

(Miocene inferiore-Attuale)

Classificazione:

REGNO: Animalia,

PHYLUM: Chordata,

SUBPHYLUM: Vertebrata,

CLASSE: Mammalia,

ORDINE: Artiodactyla,

SOTTORDINE: Ruminantia,

FAMIGLIA: Bovidae, GRAY 1821.

I Bovidae sono una famiglia di mammiferi piuttosto ubiquitaria sul nostro Pianeta

ed essi sono molto diversificati: le dimensioni vanno dai 25 cm di lunghezza, fino

ai 4,35 m di lunghezza. Anche i loro resti fossili sono molto abbondanti nei

depositi geologici; in particolare di due generi: Bos e Bison. Tutti i Bovidae sono

ruminanti e dotati di quattro dita, munite di zoccoli, di cui solo quelle centrali

toccano il suolo. Spesso i Bovidae sono dotati di corna molto diversificate.

Osteologia

Il seguente capitolo, tratterà soprattutto i generi Bos e Bison, in quanto

maggiormente studiati dalla Paleontologia dei vertebrati, a causa, come già

accennato, di una maggiore documentazione fossile relativa a questi due generi.

Le più evidenti differenze tra Bos e Bison stanno nelle corna e nelle vertebre

cervicali, che comunque difficilmente si rinvengono intatte nei giacimenti fossili.

Le corna di Bison presentano grandi scanalature, più marcate rispetto a Bos.

Il cranio di Bison mostra una protuberanza occipitale molto evidente, mentre in

Bos è piccola o assente.

Nel Bison, i processi vertebrali delle vertebre toraciche e della VII cervicale sono

molto più sviluppate rispetto a quelle di Bos.

Altre differenze sono riscontrabili nei metacarpi, che sono più sviluppati in Bison;

e nei molari, più squadrati in Bison.

In generale, lo scheletro fossile dei bovidi presenta somiglianze con quello dei

Perissodattili, in particolare dei rinoceronti e dei cavalli e addirittura con quello di

alcuni Carnivora, come gli orsi.

Il cranio è estremamente variabile: può essere allungato o appiattito, e il frontale

dispone di cuscinetti per le corna.

Esse sono sempre presenti in un paio, di varie dimensioni e forme. Sono

costituite da un nodulo osseo interno, ricoperto da un astuccio di cheratina. Le

corna possono essere dritte oppure arcuate e presentano scanalature più o

meno marcate, tanto longitudinali quanto trasversali.

L‟omero risulta grande e massiccio, la sua diafisi mostra una spessa cresta

deltopettorale con varie smussature. L‟epifisi distale porta dei grossi epicondili,

ma con strozzature meno evidenti rispetto a quanto accade nei rinoceronti.

61

L‟ulna è saldata al radio ed è dotata di un grande oleocranio piatto e di forma

ovale. Essa è per lo più fortemente a sezione triangolare e tede ad assottigliarsi

e appiattirsi molto lungo l‟epifisi distale e contemporaneamente, a fondersi con il

radio, così come accade nei Cervidae.

L‟osso cannone anteriore è massiccio, tozzo e compresso

dorsoventralmentelmente e si distingue da quello dei cervidi per una grondaia

posteriore poco marcata. L‟osso cannone posteriore risulta più allungato di quello

anteriore, anche se comunque robusto.

La tibia dei Bovidae è caratterizzata da una diafisi curva, con una cresta tibiale

molto lunga che non termina bruscamente lungo la diafisi e, nel suo tratto

terminale, punta verso il lato esterno dell‟osso. L‟epifisi prossimale è provvista di

faccetta articolare interna, spina bilobata grande e faccetta laterale esterna.

L‟epifisi distale, piuttosto larga se paragonata al diametro della diafisi, dispone

sia di malleolo interno che esterno, quest‟ultimo, sottile.

Dentizione

La dentizione dei bovidi attuali, che si è imposta gia dal Miocene superiore, può

essere definita tramite la seguente formula dentaria:

Gli 0/3 , C 0/1, P0-3/3; M3/3, per un totale di 32 denti.

Se non vi sono canini, esiste un lungo diastema tra gli incisivi e i premolari.

Si assiste ad un passaggio dal molare subbrachiodonte a quello ipsodonte,

dovuto ad una dieta più ricca di piante erbacee. Le cuspidi, sulla superficie

masticatoria, presentano una forma di mezzaluna: questo tipo di molare, simile

per lo più a quello dei cervidi, è definito selenodonte.

In genere, i molari sono larghi, a sezione pseudoquadrangolare e, sul lato

linguare, presentano una piccola estroflessione che li rende vagamente simili ad

un tozzo tridente.

Storia geologica

La famiglia Bovidae comparve nel Miocene inferiore, a circa 20 milioni di anni fa,

con il genere Eotragus, diffuso in Europa, Asia e Africa: si trattava di forme

piccole e adattate alla corsa, affini alle attuali antilopi, e abitavano soprattutto

habitat boscosi.

I bovidi esplosero già nel Miocene superiore, quando comparvero specie adattate

anche alle praterie, quali la sottofamiglia Bovinae, comprendente i generi Bos e

Bison.

Bison, è probabilmente comparso nel Pleistocene inferiore. Secondo alcuni

paleontologi, potrebbe essere strettamente imparentato con Leptobos eruscus,

vissuto in Europa nel Pleistocene, mentre Bos, secondo STEHLIN (1933), non

sembra avere antenati europei. Nel Pleistocene, Bison priscos attraversò lo

Stretto di Bering, stabilendosi in America settentrionale, riempiendo il vuoto

lasciato dai rinoceronti e dai proboscidati, in forte declino fin dal Pliocene.

Tendenze evolutive

L‟evoluzione dei Bovidae ha seguito queste direzioni:

In alcune specie, aumento delle dimensioni,

Comparsa delle corna,

Riduzione in dimensioni dei premascellari,

Aumento in dimensioni delle ossa mascellari,

62

Graduale perdita degli incisivi superiori,

Riduzione del numero dei premolari, fino a due,

Riduzione delle dimensioni dei canini,

Aumento del numero di specie dotate di molari ipsodonti, per

effetto dell‟espansione degli ambienti erbosi.

Come i Rhinocerotidae e i Proboscidae, anche i Bovidae passarono da un

ambiente di foresta a uno di prateria, cosa che ha richiesto una modificazione

profonda della dentizione.

Paleoecologia

La maggior parte dei bovidi è erbivora e ruminante, si nutrono soprattutto di

piante erbacee e di piccoli arbusti. Tuttavia, una particolare sottofamiglia, quella

dei Cephalophinae, è divenuta onnivora, predando insetti e addirittura piccoli

rettili e uccelli.

I Bovidi sono in genere euritermi, anche se sembra che Bison sia più resistente e

adattabile rispetto a Bos.

I bovidi sono predati facilmente da felini, canidi e ienidi, così come avveniva in

passato, tuttavia i grandi bovidi, come Bos e Bison potevano essere aggrediti

solo da grossi predatori, come i Macairodontinae e gli Ursidae.

Alcuni bovidi, come il genere Bison sono solitari, altri sono invece gregari, come il

genere Ovis e questo, sebbene con un certo margine d‟incertezza, è

documentabile anche con le forme fossili.

Paleobiogeografia

I resti fossili dei Bovidae sono stati scoperti in giacimenti paleontologici situati in

tutti i continenti, ad eccezione dell‟Antartide e dell‟Oceania, i quali provano che

essi vissero in una vasta gamma di habitat, dalle tundre al deserto, dalle praterie

alle aree boschive, e persino sulle isole. Anche ad oggi i bovidi sono assai diffusi,

ma alcuni di loro, come i bisonti (Genere Bison) sono divenuti rari in America

Settentrionale e in Europa, dove sopravvive una piccola mandria di Bison

bonasus nella foresta della Bialowieza, in Polonia.

I Bovidae sono stati introdotti dall‟uomo anche in Oceania.

ALLEGATO III: I RINOCERONTI

(Eocene medio- Attuale)

Classificazione:

REGNO: Animalia,

PHYLUM: Chordata,

SUBPHYLUM: Vertebrata,

CLASSE: Mammalia,

ORDINE: Perissodactyla,

FAMIGLIA: Rhinocerotidae, GRAY 1820

I rinoceronti sono dei macromammiferi ungulati appartenenti alla famiglia

Rhinocerotidae, molto diffusa e diversificata durante il Terziario. Oggi tale

famiglia è rappresentata solo da cinque specie, ed è in via di estinzione.

Le zampe dei Rhinocerotida sono dotate di tre dita, terminanti con un‟unghia a

zoccolo. Tutte e tre le dita poggiano al suolo

63

Osteologia

La maggior pare dei Rhinocerotidae dal Miocene all‟Attuale, presenta i seguenti

caratteri osteologici: un cranio allungato o piatto, a seconda della specie, dotato

di nasali molto robusti e parzialmente fusi, il nasale stesso e il frontale

presentano cuscinetti per l‟inserzione dei corni nasali. Questi ultimi possono

essere in numero da uno a due, con il corno rostrale più sviluppato. Per lo più,

essi difficilmente si preservano allo stato fossile, in quanto risultano composti da

fasci di cheratina cementati tra loro e sono sprovvisti di nodulo osseo interno. La

mandibola è incapace di compiere movimenti ortogonali rispetto alla mascella.

I corpi vertebrali appaiono più alti che larghi, nelle vertebre cervicali, per lo più

spesso circolari, le spine vertebrali delle vertebre dorsali risultano molto lunghe, i

processi trasversi delle lombari sono più robusti di quelli delle dorsali. Da notare

la presenza di 4 vertebre sacrali e 22 vertebre caudali.

Sono presenti 20 paia di coste, fortemente curve.

La scapola rivela una forma decisamente ovale, con spina simile a quella dei

Proboscidati, L‟omero dei Rhinocerotidae è caratterizzato da diafisi con forte

torsione, da una cresta deltopettorale molta piccola e con cavità oleocranica

profonda. Troclee distali e epicondili con evidente forma a clessidra.

L‟Ulna mostra una diafisi particolarmente triangolare, contrariamente ai Bovidae

e ai Cervidae, non risulta né fusa con il radio né assottigliata lungo la parte

distale. L‟apofisi stiloide è priva di prominenze.

Nei rinoceronti, poi, il bacino presenta un ileo simile a quello dei Proboscidati, in

quanto a forma di alabarda e privo di processi o apofisi, sia nel lato dorsale che

nel lato ventrale.

Il femore è corto, tozzo con collo corto ed evidente terzo trocantere.

La tibia è corta e tozza, ma robusta, con spina evidente, faccette articolari

pronunciate, malleolo esterno notevole, mentre il malleolo interno è poco

pronunciato. La diafisi tibiale presenta una cresta anteriore smussata e che punta

verso il malleolo interno.

Dentizione

La dentatura dei rinoceronti moderni si è affermata a partire dal Miocene, ed

essa risulta adattata ad una dieta erbivora consistente soprattutto in piante

erbacee.

La formula dentaria è la seguente:

I 0-2/2, C0/0, Pm3-4/3-4, M3/3

Gli incisivi sono conici e rudimentali; spesso quelli superiori scompaiono con l‟età

dell‟animale.

In genere, i canini sono assenti.

I premolari tendono ad assomigliare molto ai molari, che nelle specie più

moderne, sono di tipo ipsodonte, con molte cuspidi fuse ( molare lofodonte).

La corona dei molari risulta ricoperta di smalto, mentre la radice da cemento.

Nei molari superiori, il protocono e l‟ipocono sono ben distinguibili, mentre il

metacono e il paracono sono collegati da una depressione trasversale, l‟ectolofo.

Con l‟usura, si formano delle estroflessioni uncinate su protocono, ectolofo e

metacono.

Citando un esempio di studio dentario, nello Stephanorhinus etruscus i molari

sono brachiodonti, quelli superiori si distinguono da quelli di altre specie di

64

rinoceronti per le dimensioni contenute, per la brevità della corona e per la

lucentezza dello smalto, per la carenza di cemento e la presenza del cingolo, un

cuscinetto marcato che avvolge la base della corona dentaria. Il III molare

superiore si distingue facilmente per la sua forma pseudotriangolare. Nel II

molare superiore è visibile il lobo anteriore, mentre quest‟ultimo è scomparso nel

I molare superiore. Il parastilo del IV premolare è chiaramente visibile, mentre è

appena accennato nel II e nel III. Stephanorhinus etruscus è sprovvisto sia di

canini sia di incisivi.

Altro metodo che permette di determinare lo Stephanorhinus etruscus è quello di

ricavare il rapporto lunghezza totale dei tre molari inferiori/lunghezza degli ultimi

due premolari: esso deve dare un numero inferiore a 2.

Storia geologica

La famiglia Rhinocerotidae compare nell‟Eocene medio, con forme

probabilmente evolutesi dai Condilartri.

Queste prime forme, ancora molto piccole e più semplici, erano sprovviste di

corna nasali, avevano molari brachiodonti e vivevano in aree boschive; si citano i

generi Teletaceras e Uintaceras, scoperti nell‟America settentrionale.

Già nell‟Oligocene, tuttavia, è documentato un aumento delle dimensioni dei

Rinoceronti, con la comparsa del genere Trigonias, sprovvisto di corna. Nello

stesso periodo compaiono gli Aceratheriini, dotati di zampe lunghe, adattati

quindi alla corsa e alla vita nelle praterie. Con essi, compaiono le corna nasali e

questi tipi di rinoceronti sopravvissero fino a 4 milioni di anni, nel Pliocene.

Sempre nell‟Oligocene, fanno la loro apparizione sul Pianeta i Teleoceratini,

ovvero un tipo di rinoceronti con aspetto e abitudini simili a quelle degli

ippopotami.

Con l‟avvento del Miocene, inizia un deterioramento climatico che comporterà la

sostituzione delle foreste con le praterie. Ciò causò la comparsa degli

Elasmotherini, rinoceronti dotati di molari ipsodonti e lofodonti, cioè in grado di

masticare piante erbacee, notevolmente più coriacee, poiché ricche di silice. Si

ricorda il genere Elasmotherium, dotato di un impressionante corno nasale lungo

oltre 1 m.

Nel Plio-Pleistocene, gli Elasmotherini danno origine ai generi attuali, come

Ceratotherium e Diceros. Significativa è la comparsa del genere Stephanorhinus.

Il sottopiano geologico continentale del Villafranchiano superiore europeo è

rappresentato da Stephanorhinus jeanvireti, forma che viene rimpiazzato da

Stephanorhinus etruscus circa1,9 milioni di anni fa, il quale sopravvivrà fino alla

fine del Villafranchiano, a circa 900000 anni fa, alla fine del Pleistocene inferiore.

Dopo tale limite, Stephanorhinus etruscus si evolve nello Stephanorhinus

kirchbergensis, che sopravvivrà fino a quasi alla fine dell‟ultima glaciazione, circa

10000anni fa.

Alla fine del Pliocene, scompaiono i rinoceronti con molari brachiodonti, mentre si

afferma completamente la dentizione ipsodonte.

Nel Pleistocene, le glaciazioni provocheranno l‟estinzione di quasi tutti i

rinoceronti in America settentrionale, in Europa e in Asia, mentre compare

Coelodonta antiquitatis, il celebre rinoceronte lanoso.

65

Al termine dell‟ultima glaciazione, Coelodonta antiquitatis scompare,

probabilmente anche per effetto della diffusione del‟uomo, mentre si definisce

l‟areale attuale dei rinoceronti.

Tendenze evolutive

I Rhinocerotidae si sono evoluti secondo queste linee:

Aumento in dimensioni,

Comparsa delle corna nasali, molto diversificate nelle specie fossili,

Diminuzione delle dimensioni delle vertebre cervicali,

Ossa lunghe più tozze e robuste,

Piedi larghi con falangi ungueali più piatte,

Gabbia toracica con coste più massicce,

Comparsa dei molari ipsodonti a spese della brachiodontia, dentale più

sviluppato e cresta sagittale più sviluppata.

Tutte queste tendenze evolutive, sono state mosse dall‟aumento in dimensioni,

dal passaggio da un ambiente di foresta ad uno di prateria e dalla necessità di

mangiare di più, per mantenere un organismo più sviluppato e quindi più

dispendioso. Le corna nasali sono probabilmente una risposta alla comparsa di

predatori più efficienti, così come le grandi dimensioni.

Paleoecologia

L‟osservazione dei Rhinocerotidae attuali ci permette di ipotizzare quali ruoli e

quali nicchie ecologiche occupassero i Rhinocerotidae del passato geologico.

Attualmente i rinoceronti sono erbivori e si nutrono prevalentemente di piante

erbacee e piccoli arbusti, ma probabilmente i rinoceronti estinti si nutrivano

anche di fogliame, in quanto il loro cranio non risultava inclinato verso il basso,

ma si trovava ad essere parallelo con il piano frontale dell‟animale, come accade

in Stephanorhinus etruscus.

I rinoceronti vivevano in varie zone, dalle foreste alle praterie, alle zone montane

o pedemontane, alcuni di loro avevano abitudini più simili agli ippopotami e

quindi trascorrevano molto tempo in acqua.

Attualmente vivono solo nelle grandi pianure africane e nelle foreste tropicali, ma

senza allontanarsi troppo dall‟acqua.

I rinoceronti attuali sono stenotermi e stenoidrici, il clima caldo li costringe a

cercare riparo per molte ore nelle zone ombrose e a bere parecchi litri d‟acqua al

giorno. Spesso il caldo li rende irrequieti e aggressivi.

Probabilmente anche in passato i rinoceronti erano stenotermi, ma si ritiene che

sia esistita anche qualche specie euriterma.

Attualmente, i rinoceronti non sono socievoli e formano piccoli gruppi di

pochissimi esemplari, oppure vivono isolitari.

I radi fossili, per lo più di individui isolati, inducono i paleontologi a ipotizzare che

anche in passato i rinoceronti fossero solitari, tuttavia, in paleontologia è difficile

avanzare stime di questo tipo, a causa della scarsità di documentazioni fossili.

Un rinoceronte adulto è troppo pericoloso per essere aggredito dagli attacchi dei

carnivori: la loro pelle coriacea, le loro dimensioni e le corna nasali sono un buon

deterrente contro i predatori; e questo doveva avvenire anche in passato. Sono

vulnerabili in età precoce, e questo certamente accadeva anche ai loro antenati

fossili.

66

Paleobiogeografia

Adattati ad un clima caldo, tipico del Periodo Paleogene, i Rhinocerotidae

erano diffusi in tutti i continenti, ad eccezione di Antartide e Australia.

Come già accennato, un abbassamento della temperatura dell‟emisfero

nord, avuto luogo nel periodo Neogene, ha comportato l‟estinzione della famiglia

da tali regioni.

Oggi i Rhinocerotidae sopravvivono nell‟Africa sub sahariana, in particolare

in Kenia, Tanzania, Uganda e in Asia meridionale, in India e sull‟isola di Sumatra.

ALLEGATO IV: MAMMUTHUS MERIDIONALIS

Classificazione:

REGNO: Animalia,

PHYLUM: Chordata,

SUBPHYLUM: Vertebrata,

CLASSE: Mammalia,

ORDINE: Proboscidea,

FAMIGLIA: Elephantidae, GRAY, 1821

GENERE: Mammuthus,

SPECIE: M. meridionalis, NESTI, 1825

Sinonimi: Archidiskodon meridionalis, Elephas meridionalis

Il Mammuthus meridionalis fu uno dei più grandi proboscidati mai esistiti:

era alto 4,50 m, lungo 6 m e pesante 7 t. Morfologicamente, era molto simile

all‟elefante indiano attuale (Elephas maximus), soprattutto per il dorso meno

arcuato, rispetto a quello dell‟elefante africano ( Loxodonta africana. Le zanne

erano di dimensioni eccezionali per qualsiasi elefante attuale, se si pensa che

esse potevano raggiungere i 3,5 m di lunghezza.

Dentizione

La formula dentaria è la seguente: I 2/0, C0/0, M3/3

Gli incisivi superiori erano a zanna, mentre i molari risultavano composti da

singole lamelle, ricoperte da smalto e immerse in un tessuto osseo acellulare

simile allo smalto: il cemento. La loro inclinazione verso l‟interno della bocca, la

morfologia della superficie masticatoria e il rapporto lunghezza/ larghezza (L/l)

dei molari e la frequenza lamellare permettono di identificare la specie.

Mammuthus meridionalis appartiene ad una nuova linea di proboscidati comparsi

a partire dal Pliocene: con l‟estensione degli habitat a prateria, la dentizione dei

proboscidati passò da bunodonte a ipsodonte e quest‟ultima caratterizza ancora i

proboscidati moderni.

Storia geologica

Mammuthus meridionalis compare nel Villafranchiano superiore (1,6

milioni di anni fa) e sopravvisse per 1 milione di anni, estinguendosi alla fine di

tale sottopiano geologico (900000 anni fa): un intervallo stratigrafico

relativamente contenuto.

Anche se vi sono delle incertezze, probabilmente il Mammuthus meridionalis

discese da Mammuthus subplanifroms o da Archidiskodon gromovi (MAGLIO,

1973) del Pliocene inferiore, ed era a sua volta il probabile antenato di

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Mammuthus trogonterii, il quale diede origine al ben noto mammuth lanoso

(Mammuthus primigenius.)

Paleoecologia

Il Mammuthus meridionalis era erbivoro e si cibava soprattutto di dure piante

erbacee. Gli adulti di questa specie erano praticamente invulnerabili agli attacchi

dei predatori, mentre erano molto più esposti i piccoli.

Probabilmente Mammuthus meridionalis non era un mammifero particolarmente

specializzato e viveva quindi in molti tipi di ambienti, quali radure, savane e

foreste: per questo tale proboscidato non è da considerare come un buon

indicatore paleoambientale. Probabilmente era stenotermo e stenoidrico: gli

ambienti che ospitavano Mammuthus meridionalis non dovevano presentare

grandi escursoni termiche e dovevano fornire una buona e continua quantità

d‟acqua.

Paleobiogeografia

Resti fossili di Mammuthus meridionalis sono stati rinvenuti in tutta Europa, dalla

Spagna alla Romania, dall‟UK all‟Italia. Altri fossili provengono dall‟Asia e

dall‟America settentrionale: probabilmente il Mammuthus meridionalis l‟avrebbe

raggiunta attraverso lo Stretto di Bering.

Mammuthus meridionalis o Archidiskodon meridionalis?

Il genere Archidiskodon fu istituito nel 1885 da POHLING, sulla base di alcuni

fossili rinvenuti a nord dell‟Himalaya e su Archidiskodon meridionalis (NESTI,

1825).

Verso la seconda metà del „900, alcuni paleontologi, quali MAGLIO (1973), non

riconobbero la validità di Archidiskodon, considerandolo un sinonimo di

Mammuthus. Ciò comportò il decadimento di Archidiskodon meridionalis (ora

noto come Mammuthus meridionalis) e l‟anticipazione della linea evolutiva del

Mammuthus a 4,5 milioni di anni fa, documentata in alcuni siti africani dai fossili

di Mammuthus africanavus. Altri paleontologi quali GARUTT (1998)

confermarono invecie la validità tassomica di Archidiskodon.

Secondo MAGLIO (1973), comparando gli scheltri fossili di Mammuthus e di

Archidiskodon, si denotano alcune somiglianze nei caratteri morfologici di

entrambi i generi, soprattutto nel cranio, nella mandibola e nella superficie

masticatoria dei molari. Questi caratteri comuni, indussero Maglio a unificare i

due generi, rendendo valido solo il termine Mammuthus.

Dopo comparazione tra le caratteristiche osteologiche e dentarie di Mammuthus

e di Archidiskodon, GARUTT (1998) ha affermato che vi sono solo 10 caratteri in

comune tra i due e ben 23 differenze, soprattutto per quel che riguarda il cranio, il

III molare, la frequenza lamellare, la lunghezza delle lamelle, le vertebre cervicali,

le vertebre caudali e le falangi.

Allo stato attuale delle conoscenze, la maggior parte dei paleontologi accetta le

proposte di Maglio: gran parte delle pubblicazioni utilizza il termine Mammuthus

meridionalis, mentre solo Archidiskodon gromovi sarebbe da considerare valido.

E‟ certo, tuttavia, che il dibattito non può ancora considerarsi chiuso.