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1 Finestra per il Medioriente - numero 54 - aprile 2017 numero 54 - aprile 2017 SOMMARIO - il nostro Editoriale .................................................... 2 - Padre Janji racconta la Siria che soffre per «mancanza di tutto» ........................................... 4 - Appello ai cristiani dopo 6 anni di guerra: «Aleppo vi aspetta» .................................................. 6 - Gerusalemme, il Sepolcro ritrovato rilancia l'unità dei cristiani ................................................... 9 - Conclusi i lavori al Santo Sepolcro. Frate francescano: pellegrini, venite in Terra Santa .................................. 12 - Palestina: quando le comboniane decisero di “saltare” il muro....................................................... 15 - Parroco di Gaza: un popolo dimenticato spera nella guerra per ricevere aiuti............................................. 18 - Se questo è un bambino: Viaggio all'interno di un campo profughi siriano......................................... 21 - La spartizione del Medio Oriente................................ 26 - Gesù e il Corano........................................................ 31 - Il Sahara ha un nuovo vescovo.................................... 34 - Padre Ragheed Ganni................................................ 35 - La diocesi in preghiera per i missionari martiri............ 40 - Programma 2016 - 2017 ........................................... 43 Tariffa Regime Libero: Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale 70% - DCB - ROMA

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numero 54 - aprile 2017SOMMARIO

- il nostro Editoriale .................................................... 2- Padre Janji racconta la Siria che soffre

per «mancanza di tutto» ........................................... 4- Appello ai cristiani dopo 6 anni di guerra:

«Aleppo vi aspetta» .................................................. 6- Gerusalemme, il Sepolcro ritrovato rilancia

l'unità dei cristiani ................................................... 9- Conclusi i lavori al Santo Sepolcro. Frate francescano:

pellegrini, venite in Terra Santa .................................. 12- Palestina: quando le comboniane decisero di

“saltare” il muro....................................................... 15- Parroco di Gaza: un popolo dimenticato spera nella

guerra per ricevere aiuti.............................................18- Se questo è un bambino:Viaggio all'interno di

un campo profughi siriano......................................... 21- La spartizione del Medio Oriente................................ 26- Gesù e il Corano........................................................31- Il Sahara ha un nuovo vescovo.................................... 34- Padre Ragheed Ganni................................................ 35- La diocesi in preghiera per i missionari martiri............ 40- Programma 2016 - 2017 ........................................... 43

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Carissimi,ci fa piacere raggiungervi per questa Santa Pasqua con le parole chedon Andrea scrisse nel 2001 da Urfa:«Vengo agli auguri di Pasqua. Sono tanti ma essenzialmente uno: che cre-sca in voi la certezza che dove si cammina nel dolore e nella morte lì il Si-gnore ci conduce attraverso un sentiero di luce, ci innesta nell’albero divita di Gesù, ci fa vivere una fecondità misteriosa, ci prepara un’eternità digloria, ci fa abbracciare e salvare il mondo intero, come Gesù quandoallargò le braccia sulla croce. Non abbiate paura della croce: è come il ba-stone di Mosè che percuote la roccia (il nostro cuore a volte è una pietradura) e ne fa uscire acqua abbondante (Numeri 20,7-11)».

In questi tempi cosi travagliati che l’umanità sta vivendo, è semprepiù facile incontrare persone che percorrono sentieri di morte e didolore. Popoli dilaniati dalla guerra e dall’odio, famiglie distruttedall’incomprensione, uomini e donne schiacciati dalla mancanza didignità.Forse molte volte da qui, da questa sponda del Mediterraneo – che atanti uomini non sembrerà cosi lontano quando tentano di fuggiredalla guerra o dalla violenza dei loro Paesi – non riusciamo acomprendere pienamente il valore della speranza, che muove tantinostri fratelli. In primis, la speranza di trovare una vita nuova e degliuomini e donne disposti ad accoglierli, aldilà di tutto, e con cui po-ter condividere le gioia e le sofferenza della vita! Fratelli con cui po-ter guardare al futuro con occhi nuovi, rinnovati.Talvolta invece – è cronaca quotidiana purtroppo – molti si ritrova-no a fare i conti con muri, chiusure, divieti, respingimenti. Impatta-no, come scriveva don Andrea, con un cuore duro come pietra, conle nostre parole che dicono fatti che faticosamente mettiamo inpratica, con le nostre vite talvolta scandite solo dal passare deltempo ma vuote di quella Relazione che dà senso e direzione. E cosìcapita di cedere alla tentazione che il male, il disordine e la dispera-zione possano avere la meglio su ogni barlume di vita nuova.A noi è data la possibilità di scegliere se aprire le braccia per acco-gliere la sofferenza dell’altro (a partire dalla nostra!) o continuare atenerle conserte, nella difesa di un individualismo che non si apre

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2017all’altro. A noi la possibilità di andare incontro a Colui che per pri-mo ha aperto le braccia per accoglierci e risollevarci dalla polveredelle nostre fatiche, sofferenze e morti.Il nostro augurio quindi è che ciascuno si lasci convertire il cuore,perché solo un cuore rinnovato nel profondo, può diventare il “mo-torino di avviamento” di una vita nuova, unificata e portatrice diquella Pace che viene esclusivamente da Dio.

Lasciamoci guidare dal Signore. Lui ci conduce attraverso un sentierodi lucea quella Pace e serenità a cui tutti aneliamo.

Buona e Santa Pasqua di Resurrezione a tutti

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Padre Janji racconta la Siria chesoffre per «mancanza di tutto»

diVanessa Ricciardi

Il prete armeno cattolico ai vespri dei Camaldolesidel Celio. «Prima di ricostruire dobbiamo pensare acome vivere». L’obiettivo: tenere viva la speranza.

«I bombardamenti sono fi-niti, ma c’è un altro tipo di crisi,che adesso stiamo vivendo: lamancanza di tutto». Lo raccontapadre Elias Janji, prete armenocattolico di Aleppo, intervenutoieri sera, 28 febbraio, alla preghi-era dei vespri dei monaci Camal-dolesi nella chiesa di SanGregorio al Celio, dove ogni ul-timo martedì del mese si pregaper la pace in Siria. Padre Janji èin procinto di rientrare nella cittàsiriana. «Continuate a pregareper noi – ha detto - così si puòrealizzare la pace. Andrò via fe-lice, perché credo nelle vostrepreghiere». Dopo la preghiera,promossa insieme ai monaci ealle monache Camaldoelsidall’associazione “Aiutiamo laSiria!”, ha salutato chiunque glisi sia avvicinato con un sorriso.«Io sono qui dal 10 gennaio –racconta - prima della miapartenza la situazione era migli-orata ma manca l’acqua da duemesi, l’elettricità da due anni, il

gasolio non esiste, neanche labenzina. Tutte queste cose nonesistono». Aleppo oggi sembralibera ma Isis è a 10 chilometri didistanza. Da 50 giorni inoltre ilsedicente Stato islamico si è im-padronito della stazione dipompaggio di Al Khafsa e halasciato Aleppo senz’acqua:«Siamo più calmi, ma è terribilequando vedi una persona di 70anni costretta a prendere l’acquacon un bidone per portarla acasa».Padre Janji è critico verso i mezzidi informazione occidentali. «Imedia europei ci hanno tradito –afferma - non dicono sempre laverità. Ad Aleppo c’è la parte Este la parte Ovest ma si parlasempre della parte Est dovecolpiscono le forze governative.Ma noi stiamo nella parte Oveste viviamo nella paura dell’Isis. Èun problema molto grande egrave, che viene dal conflittoRussia e America per controllarela Siria». Il 40% della città è dis-trutta, ma per il sacerdote

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2017«prima ancora di ricostruiredobbiamo pensare a comevivere». La povertà è moltogrande, le persone non lavoranoda 5 anni. Chi aveva soldi li hafiniti: «Grazie alla Chiesa, allaCaritas siamo riusciti a soprav-vivere. È molto importante perònon basta. Anche a livello psico-logico, quello che manca è il la-voro, uscire di casa».Janji era il parroco della catted-rale distrutta due anni fa; adessopresta servizio nella chiesa diSanta Croce ad Aleppo, ma ilsuo raggio d’azione è più ampio:«I vescovi mi hanno nominatoresponsabile delle comu-nicazioni delle Chiese cattolichedi Aleppo. C’è un canalelibanese che si chiama Tele Lu-miere, come Tv2000, chetrasmette ogni sabato un pro-gramma che si intitola “La luce

di Aleppo”. È molto importanteper fare sapere che noi ci siamo».Dall’anno scorso il sacerdote

conduce il talk show, registratoad Aleppo e trasmesso dalLibano. Racconta storie quotidi-ane e ospita la gente che ancoravive in città, cerca di «dare sper-anza».

Per dare speranza, oltre alla tv, ilparroco usa Mozart, Beethoven eVivaldi. Già da diverso tempo,Janji dirige il coro “Neregatsi”:trenta cristiani di Aleppo chedopo il lavoro provano per dueore quattro volte alla settimana.«Come ha detto il grande maes-tro Riccardo Muti una volta, lamusica ci salva. Io credo che lamusica può darci la pace». Anovembre il coro sarà in tournéein Francia, a Parigi, Lione,Marsiglia e Tolosa: «Faremo ilrequiem di Mozart con un’or-chestra francese. Abbiamo vo-luto che l’orchestra fosse locale

per creareun’unione tra ilpopolo francese equello siriano».Tra le tappe chevorrebbe toccarec’è anche Roma:«Spero di poterlofare anche qui aRoma, se ci saràl’aiuto di qualchesponsor». Intanto

padre Elias continua a darsi dafare: «La pace è possibile».

Articolo pubblicato il 1° marzo 2017-04-07https://www.romasette.it/padre-janji-racconta-la-siria-che-soffre-per-mancanza-di-tutto/

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«A leppo ti aspetta».È l’appello che l’arcivescovo gre-co-cattolico della città martire si-riana, monsignor Jean-ClementJeanbart, lancia a tutti i fedeliper invitarli a fare ritorno nelleloro abitazioni abbandonate persfuggire agli orrori della guerrache ha visto, dal luglio 2012, lacittà divisa in due – la zona Ove-st, controllata dal governo, equella Est dai ribelli – fino allacompleta riconquista delle forzedel presidente Assad avvenutanel dicembre scorso. Anni in cuila popolazione di quella che era,prima del 2011, la capitale eco-nomica della Siria, ha dovutocontare migliaia di morti e feriti,patire stenti per la mancanza diacqua, luce, gas, cibo e medici-nali, e assistere allo scempio delsuo enorme patrimonio artisticoe culturale.Cala paura dell’Isis, ma mancala sicurezza.Oggi la situazione sul terreno valentamente migliorando, ma co-me rimarca il metropolita«manca ancora quella sicurezza

necessaria per pensare alla pacein modo duraturo. Nonostanteciò tra la popolazione sembradiminuire la paura di nuoveincursioni dell’Isis». Dopo mesidi black out, da qualche giornoviene fornita in alcuni quartieril’energia elettrica e presto do-vrebbe essere la volta dell’acqua.Acqua e luce: potrebbero essereil primo importante passo per fartornare in città tutti gli aleppiniche erano andati via per sfuggirealle bombe. «Per favorire questoritorno – rivela il presule –abbiamo lanciato l’appello“Aleppo vi aspetta”, con il qualevogliamo far conoscere il pro-getto denominato “Ritorno”. Sitratta di una iniziativa che si po-ne come obiettivo di frenarel’esodo dei cristiani dalla Siria,una vera tragedia per la nostraChiesa. Ad Aleppo, prima dellaguerra (2011), vivevano 185milacristiani, oggi stime delle Chieselocali parlano di poco menodella metà.Riportarli a casa tutti saràimpossibile – molti sono giàemigrati all’estero – ma monsi-

Appello ai cristiani dopo 6 anni diguerra:«Aleppo vi aspetta»

Monsignor Jean-Clement Jeanbart ha messo apunto il progetto “Ritorno”, che prevede anche bi-glietto per il viaggio e aiuti alle famiglie cheintendono rientrare in città.

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2017gnor Jeanbart confida nellabontà del progetto e «nella Divi-na Provvidenza». In questi annila sua diocesi greco-cattolica hapotuto sperimentare la generosi-tà di tanti benefattori che hannoreso possibile una serie di pro-grammi di aiuto a vari livelli.“Progetto Ritorno”.Sarà così anche per questo pro-getto “Ritorno”, lanciato da pocoe che si basa su una campagna disensibilizzazione tra i fedeli perdare loro la consapevolezza cheè possibile restare o tornare inSiria e vivervi in modo sereno.«Sono sempre di più coloro che,una volta fuggiti, dichiarano dinon trovarsi bene nei loro attualiluoghi di accoglienza, di nonavere mezzi sufficienti per vive-re, e per questo pensano arientrare soprattutto se dovesse-ro ricevere l’aiuto necessario»,rivela monsignor Jeanbart. Duele categorie di persone cui il pro-getto si rivolge: «I più fortunati,quelli cioè che hanno i mezzi pervivere e che non chiedono aiutoparticolare e, pertanto, sono ingrado di rientrare autonoma-mente ad Aleppo e coloro che,essendo poveri, hanno bisognodi aiuto materiale di incoraggia-mento a tornare. A questi ultimi– sottolinea il metropolita –verrà pagato il viaggio di ritornoa casa e offerto un aiuto per vi-vere dignitosamente in attesache trovino un lavoro. Aiuto chepotrebbe comprendere, laddove

necessario, anche la scuola el’assistenza sanitaria. Oltre aquesto, il progetto “Ritorno”prevede anche un sostegnotemporaneo (1 o 2 anni) per pa-gare l’affitto di una nuova casanel caso in cui la famiglia chetorna avesse venduto la propriaal momento di lasciare la Siria».In poche settimane sono 20 i nu-clei che hanno fatto ritorno emonsignor Jeanbart auspica che«questi siano un segno di spe-ranza per chi verrà dopo».«Costruire per restare».Ma il progetto “Ritorno” non èl’unico promosso dalla diocesigreco-cattolica di Aleppo che, sindai primi mesi di guerra, si èattivata per fare fronte ai bisognisempre più urgenti della popo-lazione, anche musulmana, no-nostante il conflitto ne abbiasegnato la vita riducendone lechiese da 12 (nel 2011) alleattuali 6 funzionanti grazie ai 15sacerdoti rimasti. Le 9 scuole ge-stite dalla diocesi proseguono lelezioni tenute da 250 insegnantistipendiati e da 60 volontari.Uno sforzo significativo cheporta il nome di “Costruire perrestare”, un piano – operativo daoltre due anni – che ingloba 22programmi di aiuto ripartiti in 4ambiti: pastorale, educativo, ca-ritativo e lavorativo. «Oggi la si-tuazione è disastrosa – dichiaral’arcivescovo – e come diocesi,insieme alle altre Chiese cristia-ne, abbiamo cominciato una se-

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rie di corsi di formazione profes-sionale in vista della ricostruzio-ne, organizzato finanziamentiper la ripresa delle attivitàcommerciali, prestiti di solida-rietà, incontri di sviluppo cultu-rale e umano e dei premi ai

nostri migliori alunni per stimo-larli a migliorarsi nel campo dellavoro e dello studio. Anche così– conclude monsignor Jeanbart –proviamo a ricostruire il nostroPaese, partendo dai suoi cittadi-ni». (Daniele Rocchi)

Articolo pubblicato il 17 marzo 2017https://www.romasette.it/appello-ai-cristiani-dopo-6-anni-di-guerra-aleppo-vi-aspetta/

FINESTRA PER IL MEDIO ORIENTE

TRIMESTRALE N. 54 ANNO XVII

Direttore responsabile: Andrea FugaroAutorizzazione del Tribunale di Roma n. 204 del 7.5.2004Stampa: Smail 2009 - Via Cupra, 25 - 00158 RomaSito Internet: www.finestramedioriente.itReferenti per le attività della Finestra per il Medioriente: Sede : Via Terni, 92 — 00182 Roma

Tel./Fax 06/70392141Piera Marras e Luciana Papi 339/1267052 Referenti per il giornalino: Fabrizio Panunzi 338/9351295

Guido Fraietta 348/9171561

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«M olti qui a Gerusalem-me non pensavano fosse possibi-le. Quando ne parlavamo ci chie-devano: “Quando?”.E aggiungevano: “Non arrivere-mo certo a vederlo”. Invece, co-me dice l'angelo a Marianell'Annunciazione: nulla èimpossibile a Dio...». Lo spieganel suo intervento l'ammini-stratore apostolico del patriar-cato latino, l'arcivescovoPierbattista Pizzaballa, perchénon è un giorno come gli altriquello di oggi per i cristiani diGerusalemme. Lo dice davanti alpatriarca ecumenico Bartolomeo,ai rappresentanti delle altreChiese cristiane, alle autorità, aidiplomatici, agli stessi architettie professori che hanno lavoratointorno al Sepolcro negli ultimidieci mesi. Ma soprattutto lo di-ce con alle spalle il marmo roseodell'edicola, che oggi parlerebbeanche da solo.

Erano due secoli - da quandoall'inizio dell'Ottocento assunseil volto attuale, in stile baroccoottomano - che il luogo veneratoda milioni di pellegrini come latomba vuota di Gesù, al centrodella rotonda della basilica, nonrifulgeva di questa luce. Oral'edicola è finalmente libera dallagabbia metallica realizzata dagliinglesi nel 1947 per tamponare idanni di un terremoto e rimastalì per tanti anni senza che leChiese riuscissero ad andareoltre la lettera di accordi secolariper affrontare i problemi staticidi quella struttura.

Spogliato (almeno per il mo-mento) anche dalle lampade vo-tive, oggi nel cuore dellaGerusalemme cristiana, è ilmarmo a tornare in primo piano.Pietra come la roccia preziosache l'edicola custodisce al suointerno; la stessa che fin dai pri-missimi anni i cristiani hanno

Gerusalemme,il Sepolcro ritrovato rilancia

l'unità dei cristiani

di Giorgio BernardelliCol patriarca Bartolomeo e il premier greco Tzi-pras la cerimonia al termine dei restauri dell'edi-cola venerata come il luogo della Resurrezione diGesù. La proposta degli armeni: «Anche anglicani eluterani possano celebrare qui»

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venerato come il luogo dove fudeposto il corpo di Gesù.

Entrano insieme nella tombavuota i capi delle comunità gre-co-ortodosse, latine e armene, letre confessioni cristiane a cuiuna storia complessa e spessoanche dolorosa ha consegnato lacustodia del luogo piùimportante della cristianità.Cantano ciascuno i propri innipasquali, ma pregano insieme ilPadre Nostro per dire - appunto -che «nulla è impossibile a Dio».Perché certo, le pietre restauraterisplendono; e tra quelli che nevanno fieri per l'occasione oggi aGerusalemme è arrivato anche ilpremier greco Alexis Tzipras, inprima fila a un rito che celebraun'operazione coordinata daun'équipe della National Techni-cal University di Atene. Mal'accordo tra le tre confessionicristiane che ha permesso questilavori ha un significato che vaben oltre il suo risultato materia-le: «Non abbiamo rinnovato solouna struttura - spiega il patriarcagreco-ortodosso di Gerusa-lemme, Teofilo III -. Abbiamorinnovato la nostra comune te-stimonianza del Vangelo del Cri-sto Risorto. Ed è un dono nonsolo per la Terra Santa, ma perl'umanità intera».

Dunque, un clima nuovo difraternità quello che si respiratra le Chiese a Gerusalemme.

Appena qualche anno fa aveva-no fatto scalpore le immagini diuna rissa tra religiosi armeni eortodossi proprio dentro la basi-lica, per una questione legata aorari e regole non rispettate nelpiù complesso condominio dellacristianità. Oggi, al contrario, sirespira aria di collaborazione:«In questi mesi la fiducia reci-proca ci ha permesso di trovarele soluzioni adatte per noninterrompere le celebrazioni e ipellegrinaggi durante i lavori»,osserva il Custode di Terra Santapadre Francesco Patton. E ri-corda anche che, per una «felicee provvidenziale coincidenza»,l'inaugurazione avviene a pochesettimane da una Pasqua chequest'anno le Chiese celebre-ranno nello stesso giorno.

Ma è il patriarca armeno di Ge-rusalemme, Nourian Manougiana spingersi più avanti di tutti inquesto giorno solenne per Geru-salemme, avanzando una pro-posta: «Noi siamo custodi diquesto luogo - spiega ri-volgendosi a greco-ortodossi elatini -. Ma vi sono altre treconfessioni cristiane (i siriaci, icopti e gli etiopi) cui la storia hagarantito solo alcune prerogativedentro questa basilica. E a Geru-salemme vi sono anche gli angli-cani e i luterani, finora del tuttoesclusi da questo posto. Perchénon considerare la possibilità digarantire a tutte e cinque queste

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2017confessioni di celebrare la loro li-turgia all'edicola del Santo Se-polcro almeno una voltaall'anno, nel tempo di Pasqua?».

Per ora è solo una proposta, masignificherebbe molto per l'unitàdei cristiani a Gerusalemme. Esarebbe un ulteriore segno disperanza per tutti i cristiani delMedio Oriente. Quegli stessi cri-stiani che - come ricorda il cardi-nale Leonardo Sandri, prefetto

della Congregazione per leChiese Orientali, nel messaggioinviato a nome del Papa e lettodurante la cerimonia al SantoSepolcro dal nunzio apostolicoGiuseppe Lazzarotto - oggi spe-rimentano tante ferite, ma daquesta tomba restaurata traggo-no «nuovo coraggio perchésanno che le tensioni e i conflittinon avranno mai la forza di spe-gnere la luce della Pasqua».

Articolo pubblicato il 22 marzo 2017http://www.lastampa.it/2017/03/22/vaticaninsider/ita/nel-mondo/gerusalemme-il-sepolcro-ritrovato-rilancia-lunit-dei-cristiani-hEJZCJm7X4LDu2iuICRKyO/pagina.html

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La riapertura del Santo Se-polcro dopo i lavori di restauro èun invito ai pellegrini di tutto ilmondo, ma soprattutto di Euro-pa e Occidente, perché “venganoa visitare la Terra Santa”. Essisono, assieme alla comunità lo-cale, le “pietre vive” che rendo-no “unica questa terra”. Èquanto afferma ad AsiaNews fraSinisa Srebenovic, francescano diorigini croate, membro delConsiglio del Custode di TerraSanta, dove vive da 11 anni,commentando la prossima inau-gurazione del Santo Sepolcro, aconclusione dei lavori di restau-ro, in programma il 22 marzo.“Sarà una funzione semplice -racconta - un momento comuneall’insegna dell’unità, al qualeparteciperà anche il patriarcaecumenico di CostantinopoliBartolomeo I”.I lavori di restauro della tomba

di Gesù sono iniziati poco menodi un anno fa, nel maggio 2016.A dieci mesi di distanza, l’edico-la è stata liberata dai ponteggi eriportata alla luce; sono tuttorain corso alcune opere di sistema-zione della parte non visibiledella tomba, che verranno ulti-mate in tempo utile per l’inau-gurazione. L’obiettivo dell’operaera il consolidamento dell’insie-me della struttura, per pre-servarla dai danni derivanti daeventuali movimenti sismici, co-me avvenuto in occasione delterremoto del 1927. I lavori sonofinanziati tanto da enti pubbliciche da privati.Interpellata dal Christian MediaCenter (Cmc) Antonia Mario-poulou, coordinatrice scientificadei lavori, ha ricordato i “mo-menti storici” che hanno caratte-rizzato i lavori, come “l’aperturadella tomba di Gesù” lo scorsoottobre. “La prima in 200 anni e

Conclusi i lavori al Santo Sepolcro.Frate francescano:

pellegrini,venite inTerra Santa

L’inaugurazione in programma il prossimo 22 marzocon una cerimonia comune. Fra Sinisa Srebenovic:una funzione “semplice”, all’insegna “dell’unità” fragreco-ortodossi, armeni e latini. I lavori hanno“avvicinato ancor di più” le tre grandi comunità. Peril futuro allo studio la sistemazione della pavi-mentazione della basilica

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2017la terza nella storia”. Il Santo Se-polcro, afferma, è “un monu-mento vivo, religioso, nel qualela gente prega incessantemente[…] visitato ogni anno da milio-ni di pellegrini. Preservarlo èuna sfida”. “Abbiamo potuto ve-dere - conclude - con il cuore econ la mente un sepolcro pienodi espressività”.La basilica del Santo Sepolcro èstata edificata dall’imperatoreromano Costantino nel 325 d.C.grazie ai ritrovamenti dei luoghiad opera di sua madre Elena.Nei secoli è stata semidistrutta eriedificata ed è una delle metepiù visitate e venerate dai pelle-grini di Terra Santa. Gli ultimilavori di consolidamento del-l'Anastasis risalgono al 1947, permano degli inglesi; i lavori nonsono mai stati portati a termineper il mancato accordo - all’epo-ca - fra ortodossi, armeni efrancescani.Al suo interno è situato il luogoin cui sono state deposte le spo-glie di Gesù dopo la morte incroce; per quasi un anno il teamdi ricercatori greci ha lavoratosenza sosta al luogo sacro, pursenza impedire l’accesso ai fede-li.Secondo fra Sinisa Srebenovic ilrestauro ha “avvicinato ancor dipiù” le tre grandi comunità dellaTerra Santa, i greco-ortodossi, ilatini e gli armeni all’insegna diun percorso “iniziato con i lavoria Betlemme e giunto qui ora, al

Santo Sepolcro”. “Un accordo -spiega adAsiaNews- frutto del la-voro degli anni precedenti,all’insegna dell’unità promossadal patriarcato greco-ortodosso,da quello armeno e dall’ex Cu-stode Pizzaballa, oggi ammini-stratore apostolico”. Per ilfuturo, aggiunge, si parla già diun progetto comune per la siste-mazione “della pavimentazionedella basilica”. Si è solo in unafase iniziale, sottolinea, ma “nelfuturo prossimo si farà anchequesto”. “Questi lavori - prose-gue fra Sinisa Srebenovic -hanno un valore spirituale pro-fondo, che rafforza l’unità e lacollaborazione a dispetto delledifficoltà. Oggi il Santo Sepolcrosi aprirà in tutto il suo splendoree il fatto che sarà pronto proprioper le celebrazioni della Pasqua,che quest’anno coincide per letre comunità cristiane, è anch’es-so un segno spirituale”.L’inaugurazione sarà un “mo-mento comune”, con uno “scopocomune”, all’insegna della“semplicità”. L’appuntamento èper le 10 del mattino del 22marzo, alla presenza dei rappre-sentanti della comunità france-scana, greco-ortodossa e armena.Vi saranno “tre canti per ciascu-na comunità”, aggiunge fra Sini-sa, qui seguiranno gli interventidel Custode di Terra Santa e deipatriarchi armeno e greco-orto-dosso. A conclusione “la recitadel Padre nostro in ciascuna

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lingua”.“Il restauro - conclude il france-scano - è un messaggio im-portante rivolto anche ai pelle-grini di tutto il mondo. Venitequi, non abbiate paura!. Non visono reali pericoli e la presenza

dei fedeli di tutto il mondo è es-senziale per mantenere viva lacomunità cristiana di TerraSanta, che non è composta damusei e reperti, ma da pietre vi-ve”.(DS)

Articolo pubblicato il 9 marzo 2017http://www.asianews.it/notizie-it/Conclusi-i-lavori-al-Santo-Sepolcro.-Frate-francescano:-pellegrini,-venite-in-Terra-Santa--40151.html

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Muri e “muslim ban” nonsono solo di Trump: «Da quandoè in carica il nuovo presidenteUsa, anche Israele ha rico-minciato» spiega suor Alicia. Tralo stato ebraico e la Palestina, sulconfine marcato da un muro chesi estende per 700 km, la situa-zione è precipitata. Missionariacomboniana, suor Alicia Vacasabita in Betania, non lontano daGerusalemme. Offre il suo aiutoalle comunità beduine Jahalinnel deserto della Giudea. La suastoria è arrivata giovedì sera aRoma grazie all’incontro orga-nizzato dalla Caritas diocesana,ultimo del ciclo Focus MedioOriente, con la moderazione diFrancesca Baldini, giornalista diRadiopiù, e Oliviero Bettinelli,responsabile Area pace emondialità della Caritas diocesa-na. «Stasera vi voglio raccontaretre cose – ha esordito la combo-niana – il muro, gli insediamentie i beduini».

Nel 2002, ha raccontato, Israeleha costruito un muro che do-vrebbe sovrapporsi alla linea diconfine israelo-palestinese, manon è così. Il tracciato viene co-stantemente ridisegnato perguadagnare terreno. La suora,arrivata nel 2008, lo ha visto coni suoi occhi: «A volte basta lospostamento di un check-pointper cambiare Stato. Il muroincombe sul nostro istituto. Finoal 2009 avevamo un cancello inarea palestinese, dopo c’è statoun piccolo spostamento, e ades-so facciamo parte di Israele». Lastoria, continua, «ridicola quantotragica. Il muro ha spaccato lefamiglie. Inoltre l’ospedale dizona è nella parte israeliana eper accedere servono il passa-porto e un permesso speciale.Per partorire in ospedale bisognachiedere il permesso tre giorniprima; un permesso che durasolo 24 ore».Le missionarie organizzavanoesercizi spirituali, incontri dipreghiera e insegnavano: «Face-

Palestina:quando le combonianedecisero di“saltare”ilmuro

diVanessa Ricciardi

A Focus Medio Oriente, suor Alicia racconta la suaesperienza in Betania: «In pochi giorni il nostroistituto si è ritrovato in territorio israeliano»

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vamo scuola ai bambini palesti-nesi. Quando siamo ricadutinella parte israeliana abbiamoiniziato a farli entrare con unpermesso e la guardia dei milita-ri da un foro nel muro». Il primoanno i genitori hanno continuatoad accompagnare i bambini, poisempre meno, finché la scuolaha smesso di funzionare. Le suo-re non si sono arrese: «A quelpunto abbiamo capito che dove-vamo passare dall’altra parte».

Insieme a una consorella, suorAlicia è andata ad abitare in unapalazzina proprio di fronteall’istituto principale, con inmezzo il muro. Anche oltre ilconfine però, gli israeliani nonlasciano vivere pacificamente ipalestinesi: «Nel deserto abita-vano i beduini. Piano piano sonosorti degli insediamenti israelia-ni. Gli ebrei ha occupato l’areacostruendo città sempre più

grandi, mentre i beduini sonoandati a vivere ai margini».Per questo le combonianehanno deciso di mettersi a loroservizio: «Mancava tutto, elettri-cità, acqua, ma quando gliabbiamo chiesto di cosa avesserobisogno ci hanno risposto chevolevano una scuola». Israeleperò, che reputa l’area strategica,ha vietato di costruire nuoviedifici: «È così che è nata lascuola di gomme». Nel 2009 la

Ong Vento di Terra ha ideato unescamotage, tirare su, senza ce-mento e fondamenta, unastruttura realizzata con i co-pertoni pieni di terra pressatadove permettere ai bambini be-duini della tribu Jahalin di stu-diare: «Siamo riusciti a entrare incontatto con loro – rimarca lacomboniana – grazie ai “Rabbiniper i diritti umani”, soprattuttograzie al rabbino Jeremy

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Offrendo mezz’ora di preghiera e di adorazione ognisettimana, e una piccola rinuncia un venerdì del mese.L’intenzione è: "la presenza della chiesa in mediooriente, il mondo ebraico, cristiano e musulmano, l’uni‐tà tra le chiese, il dono di vocazioni e di presenze ido‐nee”.

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Il nostro giornalino è a diffusione gratuita e ci fa piacerepoterne inviare copia a chiunque sia interessato a riceverlo. Ètuttavia gradita ogni partecipazione alle spese che ci possaaiutare a far fronte ai costi di stampa e spedizione dellostesso.

Milgrom».

La collaborazione con la comu-nità israeliana resta importante.Suor Alicia opera anche con l’as-sociazione israeliana Medici peri diritti umani e ricorda chemolti altri israeliani non accetta-no questa situazione. La scuola ènel mirino delle autorità, magrazie ai rabbini e all’attenzioneinternazionale, resiste. La costru-zione inoltre ha fatto da scudo atutto il villaggio Kahn Al Amer.

Di recente però le autorità hannocomunicato che avrebbero de-molito tutto il 12 marzo. Per ilmomento così non è stato: «Ciaspettiamo che accadaall’improvviso, alle 4 del matti-no, un giorno di festa, quando lesedi internazionali sono chiuse enon ci sono giornalisti» com-menta suor Alicia. I beduini perora restano lì: «Una volta unanziano Jahalin mi disse: che de-serto sarebbe senza beduini?».

Articolo pubblicato il 17 marzo 2017https://www.romasette.it/palestina-quando-le-comboniane-decisero-di-saltare-il-muro/

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La popolazione di Gaza “vivealla giornata”, nel contesto diuna situazione che “si fa semprepiù disperata”; le persone, anchefra i cristiani, in molti casi sono co-stretti “a indebitarsi” per acquistare“un po’ cibo o di elettricità”. Loracconta ad AsiaNews p. Marioda Silva, sacerdote di originibrasiliane e responsabile dellaparrocchia latina della Sacra Fa-miglia, l’unica della Striscia.Nell’area, devastata da guerreincessanti e sottoposta a unblocco totale imposto da Israele,vivono circa 350 famiglie cristia-ne. “Un'emergenza - spiega ilparroco - che riguarda sia i gio-vani, dove il tasso di disoccupa-zione tocca il 70% che glianziani, i quali dopo aver lavo-rato una vita non godono del be-neficio della pensione e nonsanno come sopravvivere”.Le conseguenze del conflitto a

Gaza dell’estate 2014 hanno resoancor più drammatiche le condi-zioni di vita nella Striscia, dovedue milioni di persone vivonosotto la soglia di sopravvivenza,la disoccupazione media è del60% e la povertà all’80%. E lostesso vale per le famiglie cri-stiane, circa 1300 persone in to-tale, un terzo delle quali senzafonte di reddito alcuna.Il tutto in un territorio vasto solo360 km quadrati, che finisconoper diventare una enorme pri-gione a cielo aperto.“La situazione a Gaza è difficile -racconta p. Mario - perché dopola guerra abbiamo ricevuto aiutiinternazionali. Tuttavia, dopo seimesi si sono dimenticati di noi,come se tutto fosse risolto. Inve-ce restano i problemi di sempre:la mancanza i lavoro, di gas, diacqua, di energia elettrica”.L’approvvigionamento di acquaed energia è uno dei problemi

Mario da Silva, sacerdote di origini brasiliane, è re-sponsabile della parrocchia latina della Sacra Fa-miglia, l’unica della Striscia. I giovani non hannolavoro, gli anziani non ricevono la pensione, il desi-derio comune è di fuggire. Le iniziative della Chiesaper rispondere ai bisogni. Il pericolo di infiltrazionijihadiste. I cristiani di Gaza sono “eroi della fede”.

Parroco di Gaza:un popolodimenticato spera nella guerra

per ricevere aiuti

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2017più gravi che la popolazione sitrova ad affrontare nell’ultimoperiodo. “Vi sono giornate - pro-segue il sacerdote - con solo treore di elettricità a disposizione.Qui fa freddo e la gente non sacome riscaldare le proprie case;non abbiamo acqua perchéquella che arriva è salata e perbere dobbiamo comprare quellain bottiglia”.Il blocco imposto da Israeleall’indomani dell’ascesa al pote-re di Hamas nella Striscia hacausato l’interruzione delleforniture di energia. “In mediaarrivava otto ore al giorno - spie-ga il parroco - ma di recente lecondizioni sono precipitate”. Perquesto la Chiesa locale haavviato un progetto che prevedel’installazione di pannelli solarisulle case, i lavori “stanno ini-ziando in queste settimane conle prime dieci case” ma è solouna goccia nell’oceano dei biso-gni.Per p. Mario la sensazione diffu-sa che si respira a Gaza è di“abbandono, indifferenza” daparte della comunità internazio-nale e la stessa comunità cristia-na chiede “maggiore attenzione”alle Chiese e ai cattolici “di tuttoil mondo”. E la chiusura, l’isola-mento rispetto al resto delmondo “non sono certo di aiutoper migliorare la condizione”.“La gente di qui comincia apensare seriamente - racconta ilsacerdote - che sarebbe meglio

piombare in un’altra guerra,perché in quel caso almeno arri-vano gli aiuti. È un pensiero tri-ste e terribile, ma che testimoniala drammaticità del momento. Ilmondo ci guarda solo quandoc’è una guerra in corso; perfortuna vi sono alcune realtà eistituzioni come Pontifical Mis-sion, Friends of Holy Land e po-che altre che ci aiutano”.La Chiesa locale cerca, perquanto possibile e con i pochifondi a disposizione, di creareposti di lavoro e offrire occasionidi riscatto per una popolazionedimenticata. Tramite istituzionicristiane sono stati creati 34 postidi lavoro per giovani cristianidella Striscia, ma il pensiero co-mune è diffuso è quello della fu-ga. “I giovani che hanno potutobeneficiare dei permessi per laPasqua lo scorso anno - raccontap. Mario - per visitare i luoghisanti come Gerusalemme e Be-tlemme, non hanno fatto ritorno.Sono rimasti nella città dove ènato Gesù e lì hanno trovato unlavoro, creando le premesse peruna vita nuova. Ecco perché, qui,vogliono andarsene”.“I cristiani di qui - prosegue ilsacerdote - vivono princi-palmente di debiti, acquistandoprodotti a credito al supermarkete promettendo di pagare in unsecondo momento. In lorosoccorso giungono poi istituzio-ni cristiane di carità che saldanoi debiti. Chi non ha lavoro è co-

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stretto a chiedere la carità econtare sulla generosità altrui”.Il lavoro della Chiesa è“conservare intatta la fede, di-fenderla, insegnare come restarecristiani nelle difficoltà e in uncontesto a maggioranza mu-sulmana”. La nostra, anche se simanifesta nelle opere, è prima ditutto “una opera spirituale econservare la fede cristiana è ilfondamento del nostro lavorosociale” avverte p. Mario.“Dobbiamo dare loro una vitadegna - aggiunge - e con questospirito ci accostiamo ai malati, alsofferenti, a quanti sono in diffi-coltà”.I cristiani di Gaza devonofronteggiare ogni giorno nuovesfide: l’ultima è rappresentata dauna possibile infiltrazione deimiliziani dello Stato islamico (SI)nella Striscia. Alcuni gruppi so-no attivi nella Penisola del Sinai[e nelle ultime settimane hannoucciso sette cristiani, provo-cando un esodo di massa, ndr],che dista solo poche decine di

chilometri dalla Striscia e non sipuò escludere il pericolo di unapresa interna del jihadismo. Ilgoverno di Gaza cerca di contra-starne l’ingresso, ma la situazio-ne è delicata e non vi è lapossibilità, come in Siria o Iraq,di fuggire a causa del muro.In questo contesto così difficile alivello sociale, politico, religiosola Quaresima rappresenta ancorpiù un momento di gioia easpettativa. “La speranza dimolti - sottolinea p. Mario - è dipoter visitare i luoghi santi. I fe-deli vivono con grande raccogli-mento questo momento cosìparticolare a livello religioso espirituale. Conservare valori cri-stiani come il perdono, la carità,l’amore fraterno è difficile, eccoperché qui i cristiani sono deglieroi: sanno conservare la fede inuna realtà ostile e rappresentanosempre più un esempio perquanti, anche in Occidente, vi-vono in maniera morbida e su-perficiale la fede cristiana”. (DS)

Articolo pubblicato il 28 febbraio 2017http://www.asianews.it/notizie-it/Parroco-di-Gaza:-un-popolo-dimenticato-spera-nella-guerra-per-ricevere-aiuti-40063.html

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Vivo in Libano da tre anni. Ilprimo l’ho passato in un campoa pochi chilometri da qua. Poi èbruciato. Un enorme fuoco haraso al suolo tutto: le nostre case,i nostri documenti, i nostri ri-cordi. Non sappiamo chi èstato… Forse, semplicemente,chi non ci voleva lì...». Safaa èuna donna di circa trent’anni,alta, vestita con un lungo abitoscuro. Un velo nero, finementedecorato, le copre i capelli, malascia il volto scoperto.Ci parla con uno dei suoi tre fi-gli, il più piccolo, in braccio. Die-tro di lei il sole che la illumina;davanti solo la luce dei suoiocchi lucidi. «Siamo scappati daHoms, la città era distrutta. Dellenostre case non è rimasto nulla»,ci racconta con la dignità di unaragazza che vive in un campo ri-fugiati a una manciata di chilo-metri dalla sua amata Siria, nellaperiferia di Jdita, un paese dellavalle della Bekaa.

Il campo è un piccolo appezza-mento di fango e alberi, rico-perto da tende dell’Unhcr, l’Altocommissariato delle NazioniUnite per i rifugiati. L’acqua po-tabile è poca e viene portatasettimanalmente da un’autoci-sterna del World Food Pro-gramme. L’elettricità è statale:poche ore al giorno e poi il buio.Le condizioni igieniche,purtroppo, carenti. Il terreno è diun privato e i siriani che ci vivo-no devono pagare circa 110.000lire libanesi (68 euro) al mese pertenda. A noi può sembrare poco,ma per chi vive senza un lavoroe con un sussidio di circa 260.000lire al mese, quando viene ero-gato, è un’enormità. Le chiedia-mo quanti bambini vivano lì,quanti vadano a scuola.Interviene un altro uomo, il re-sponsabile della tendopoli: ipiccoli sono circa 60 e di questi20 vanno a scuola. Cosa siintende per scuola? Sorride: «ilmassimo che possiamo

Se questo è un bambino:Viaggio all'interno

di un campo profughi siriano

di Fabrizio Anzolini

L’acqua e la luce scarseggiano, ma per l’affitto diuna tenda ci vogliono 68 euro al mese. E solo lametà dei ragazzi riesce a frequentare una scuola

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permetterci è una settimana diistruzione al mese. È in un pre-fabbricato di legno qua vicino; sitratta di una forma di educazio-ne primaria, non riconosciutadallo Stato». E gli altri 40 bambi-ni? «Non possono permettersiun’educazione. Le scuole sonolontane e in Libano i trasporti sipagano. Per ogni bambino sa-rebbero 35.000 lire (circa 21 euro)al mese. Noi non abbiamosoldi».Mentre continuiamo a cammina-re, attraverso le strette stradinedi terra che dividono le tendel’una dall’altra, una donna cichiede di seguirla. Hammad, cidice sorridendo, vuole parlarci.Hammad Mustafa Ibrahim è unuomo di novantadue anni. Èdisteso all’interno della suatenda, sui tappeti che fanno dapavimento. Una kefiah rossa ebianca sul capo, i piedi scalzi euna sigaretta tra le mani. Le ru-ghe dell’età, che trasudano espe-rienza e fatica, gli solcano il visoserio. In mezzo alla stanza solouna stufa a legna per riscaldarel’ambiente e bollire l’acqua per iltè. Mustafà viene da Aleppo, haraggiunto il campo solo 4 mesifa, dopo che i bombardamentirussi hanno raso al suolo la suafattoria. In patria era un contadi-no, ma la guerra gli ha toltotutto: la casa e il lavoro. «Chie-dete dei bambini? Raccontate co-me viviamo qua, come vivono imiei nipoti», ci dice con le lacri-

me agli occhi prima di portareuna mano sul viso per na-sconderle. «Mio figlio ha 6bambini: hanno fra i 4 e i 17anni. Nessuno di loro va a scuo-la. Non abbiamo soldi e nonabbiamo lavoro. Abbiamo solodue speranze: educare i nostrifigli e tornare in Siria».In Libano il lavoro non c’è: l’eco-nomia sta provando a ri-prendersi dopo un lungoperiodo di instabilità politica, mail tasso di disoccupazione èancora troppo alto. In un campoin cui energia elettrica e acquasono un bene raro, la scuola di-venta un privilegio. E questonon avviene solo qui, a pochichilometri dalla Siria, ma in tuttele zone rurali e periferiche. IlPaese è uscito nel 1990 da unacruenta guerra civile che percirca 15 anni ha messo controcristiani e musulmani. Fino al2005, inoltre, i siriani hanno fattoil bello e il cattivo tempo nellapolitica e nella vita sociale diquesto piccolo lembo di terramediorientale: entrati mili-tarmente nel 1978, come “forzadi dissuasione” della Lega araba,hanno abbandonato il terrenosolo nel 2005, dopo una enormemanifestazione di massa che haportato in piazza oltre un milio-ne di persone. La cosiddetta “ri-voluzione dei cedri”.Lo Stato è confessionale: a ognifede religiosa è riservato un po-sto negli uffici dell’apparato bu-

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2017rocratico, dall’esercito alle mas-sime cariche istituzionali. Ed èquesta suddivisione che, proba-bilmente, ha portato il Libano adavere un certo timore dei rifu-giati. Fino al 2011, l’anno in cui,per ironia della sorte, migliaia disiriani hanno cominciato a ri-versarsi qui per scappare dallaguerra che stava distruggendo le

loro case. Gli occupanti di primache tornano a chiedere aiutonello stesso Paese che hannocontrollato per decenni.Oggi il Libano conta oltre un mi-lione e mezzo di siriani. Chevanno sommati ai circa 300 milapalestinesi che vivono ancoraqua. Cifre che farebbero venire ilcapogiro a qualsiasi euroburo-crate. Una bomba a orologeria inuno stato di circa quattro milioni

e mezzo di abitanti. Una bombala cui miccia, probabilmente, sinasconde dietro un altro nume-ro: circa 500 mila siriani sonobambini e ragazzi in età scolaree, secondo le stime di HumanRights Watch, almeno 250 milanon vanno a scuola.I trasporti non sono l’unico veroproblema che divide i bambini

siriani dal loro diritto all’educa-zione. In un Paese in cui l’appa-rato statale era già di per sédebole, l’afflusso di milioni dirifugiati non ha certo semplifi-cato la situazione.La decisione più incisiva incampo educativo, la novitàintrodotta dal ministero perl’Educazione, è il cosiddetto se-condo turno e cioè l’aperturadelle scuole nel pomeriggio, con

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ore dedicate esclusivamente aglistudenti siriani. Una forma dighettizzazione? No, una formadi aiuto per tutti quei ragazziche parlano solo l’arabo. A spie-garcelo è Sonia El Khoury, di-rettore dell’unità del ministero acui è stato affidato il programmaRace. «Il curriculum scolastico li-banese prevede che alcune mate-rie scientifiche siano insegnate ininglese o francese. Era una dellebarriere che rendevano impossi-

bile l’accesso al sistema educati-vo nazionale dei siriani, abituatiad ascoltare lezioni solo in ara-bo. Per questo motivo, ai figli dirifugiati che conoscono l’ingleseo il francese è permesso di anda-re a scuola normalmente, lamattina, mentre tutti gli altrifanno il secondo turno».

Parlando con Sonia, però, lamente torna al campo rifugiatinella Bekaa «Stiamo cercando difare del nostro meglio, ma ilproblema più grande rimanequello dei trasporti. Le nostreinfrastrutture non erano prepa-rate ad un afflusso del genere».In tutto questo, nonostante ildifficile rapporto tra libanesi esiriani, la società civile come hareagito? Ahmad Einen, giovaneresponsabile dei programmi per

l’educazione di Amel, orga-nizzazione no profit che l’annoscorso è stata candidata al pre-mio Nobel per la pace, ciracconta quello che fannomentre ci rechiamo in uno deipiù grandi centri culturalidell’associazione. Un edificio apiù piani nel cuore della zona

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2017sud di Beirut, l’area della cittàsconsigliata agli stranieri perché,ufficiosamente, presidiata piùdalle milizie di Hezbollah chedall’esercito regolare. Un edifi-cio pieno di aule e sale ricreati-ve, dove a risuonare sono solo levoci dei bambini e delle loromaestre. «Da qualche anno stia-mo realizzando numerosi pro-getti in quasi tutte le regioni delLibano per lavorare attivamentein quell’ambito che viene deno-minato “educazione non forma-le” e cioè tutto quello che puòaiutare gli studenti nello studioma che non rientra nel percorsoche porta al diploma: supportonei compiti per casa, classi dilingua straniera per migliorareinglese e francese, classi di ripa-razione per chi non ha superatol’anno scolastico». Anche in que-sto caso, però, lo sforzo non èconcentrato esclusivamente suisiriani, ma su tutte le fasce piùvulnerabili della popolazione. Inumeri sono ancora troppo bas-si, ma l’impegno è evidente:Amel sta lavorando, a oggi, concirca 250 bambini a Beirut, 350nella regione del Monte Libano,800 nel Sud.

Ma quali sono i rischi concretiper tutti i ragazzi che non vannoa scuola? Alcune risposte le hagià date l’anno scorso una dellepiù prestigiose università dellacapitale, la Saint-Joseph Uni-versity of Beirut. In uno studiosul diritto all’educazione dei ri-fugiati siriani, Carole Alshara-bati, Carine Lahoud e JihadNammour parlano di un «circolovizioso che porta i bambini chenon possono andare a scuola adun’unica conseguenza: finire neltunnel dello sfruttamento mino-rile, dei matrimoni infantili, delpessimismo e del radicalismo».Sono questi i figli della guerra inSiria: migliaia di ragazzi sparsitra Libano, Giordania e Turchiache se non andranno a scuolanon potranno che continuare adistruggere il loro futuro. Chediverrà il nostro sporco passato.Perché se non penseremo noi aloro, chi mai ci potrà pensare? Èquesto il peso che deve portaresulle spalle chi nasce in Occi-dente e non ha la lucidità diguardare fuori dal suo giardino.Almeno fino a quando anch’essonon diventa pericoloso.

Articolo pubblicato il 16 marzo 2017http://espresso.repubblica.it/internaziona-le/2017/03/14/news/viaggio-all-interno-di-un-campo-profughi-si-riano-1.297115

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Nel novembre 1915 il diplomati-co parigino François Georges-Picoteil politico londinese Mark Sykes ini-ziarono le trattative per raggiungereun accordo sulla spartizione delleregioni arabe dell’Impero ottomano.Per molte popolazioni del MedioOriente l’intesa che raggiunserocinque mesi dopo costituisce ilsimbolo del tradimento dell’impe-rialismo europeo e la causa di moltedelle loro sofferenze. Il governoinglese intendeva stipularel'accordo per affermare un controllosu vaste regioni del Medio Oriente,passaggio terrestre e marittimoobbligato per l’India, perla del suoimpero. Quello francese, invece, allemanie di grandeur imperialeaggiungeva un interesse culturale ereligioso – prima ancora che econo-mico – per la regione siriana. Conessa vantava legami di secoli, du-rante i quali aveva svolto la «mis-sione storica» di proteggere leminoranze cattoliche. Gran Breta-gna e Francia vollero assicurarsiuna cospicua parte di bottino a spe-se del sultano dopo le concessionifatte alla Russia, loro alleata inguerra contro Germania, Austria eTurchia. Il governo dello zar erainfatti riuscito a strappare ad esse il

riconoscimento delle sue secolarimire su Costantinopoli e sugliStretti, per garantirsi libero accessoal Mediterraneo.Al tavolo delle trattative Sykes cercòdi ridimensionare le richieste diGeorges-Picot, il quale mirava a uncontrollo diretto sulla Grande Siria,compresa la regione palestinese equella di Mosul. La Gran Bretagnastava già trattando con lo sceriffodel Hagiaz – Hussein ibn Ali,guardiano delle città sante dellaMecca e di Medina – per sollevaregli arabi contro i turchi e contrastarela chiamata alla guerra santa,effettuata dal sultano ottomano inqualità di califfo.Per suscitare una ribellione generalecontro i turchi, Hussein rivendicaval’indipendenza di tutti i territoriarabi dell’impero turco sotto la suasovranità. Tuttavia i britannici, percercare di conciliare le sue rivendi-cazioni con quelle della Francia,contestarono il carattere arabo dellacosta siriana. Domandarono inoltrel’esclusione dal futuro Stato araboindipendente delle province di Bas-sora e Baghdad, sulle quali intende-vano riservarsi una sferad’influenza. Lo sceriffo non vollecedere sulla Siria occidentale, maquesta divergenza non gli impedì di

La spartizione delMedio Oriente

di Paolo Pieraccini

Poco più di cent’anni fa, il 16 maggio 1916, gliaccordi Sykes-Picot diedero avvio al nuovo assettodel Medio Oriente dopo la caduta dell’Imperoottomano

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2017stringere alleanza con gli inglesi.Gli accordi Sykes-Picot furonocondizionati dal tentativo britanni-co di tener conto delle ambizioni diHussein: all’amministrazione di-retta della Francia sarebberospettate due regioni contigue –quella turca di Cilicia e la Siria occi-dentale –, mentre a quella britanni-ca le province di Bassora e diBagdad. Per cercare di armonizzarequest’accordo con quello raggiuntocon lo sceriffo, fu stabilito che il ri-manente territorio sarebbe apparte-nuto a uno «Stato arabo» o a una«confederazione di Stati arabi».

Anche all’interno di questi Stati«indipendenti», però, le due po-tenze si riservavano delle sfered’influenza: la Francia sulla pro-

vincia di Mosul e sulla Siria interna;la Gran Bretagna sull’odiernaGiordania, sul Neghev e sul sud-estdella Siria. Sykes riuscì a ottenereanche l’internazionalizzazione dellaparte centro-occidentale della Pale-stina – quella compresa tra la Gali-lea e Hebron –, contenente i LuoghiSanti delle tre religioni monoteisti-che.A questa trama d’intese è indissolu-bilmente legata la DichiarazioneBalfour (2 novembre 1917), dellaquale gli inglesi si servirono perottenere il mandato sulla Palestina.Emanandola la Gran Bretagna pro-

metteva di fare«ogni sforzoper facilitare»la «costituzio-ne in Palestinadi un focolarenazionale per ilpopolo ebrai-co», violandoin tal modo gliaccordi Sykes-Picot e quellicon Hussein.Nel corso dellaguerra gliinglesi, nono-stante lo scarsocontributo mi-litare arabo,inflissero gravisconfitteall’Imperoottomano. LoHagiaz fu co-munque consi-

derato Stato belligerante, e cometale invitato alla conferenza di pacedi Parigi. La piccola delegazione,capeggiata dal terzo figlio dello sce-

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riffo Hussein (Feisal), non partecipòquindi in rappresentanza dell’interopopolo arabo. A Feisal, in ogni caso,gli inglesi permisero di insediare ungoverno a Damasco (ottobre 1918),con autorità sulle regioni che gliaccordi Sykes-Picot destinavano alloStato arabo «indipendente» sottol’influenza della Francia. Quest’ulti-ma, a sua volta, si affrettò a occupa-re la Cilicia e il litorale siro-libanese,preparandosi a contrastare le miredell’emiro su questi territori.Già durante gli ultimi mesi del

conflitto gli inglesi avevano matu-rato la convinzione che fosse neces-sario rimettere in discussione gliaccordi Sykes-Picot. Essi, oltre chedal saldo controllo militare che ave-vano affermato sull’Impero ottoma-no, furono agevolati dall’uscita discena della Russia dalla guerra. Leloro esigenze coloniali non

confliggevano solo con le promessecontraddittorie formulate agli arabi,ai francesi e ai sionisti, ma anche coiproclami anti-imperialisti di Woo-drow Wilson, presidente degli StatiUniti. Londra, in ogni caso, puntavaormai al controllo diretto dell’interaMesopotamia – regione ricca di pe-trolio – e della Palestina. Il valorestrategico di quest’ultima regionerisiedeva nel suo ruolo di cuscinettoa protezione del Canale di Suez e dicollegamento tra i territori mesopo-tamici e il protettorato egiziano.

Nel gennaio 1918 Wilson avevaemanato i cosiddetti «14 Punti», perfronteggiare l’offensiva diplomaticapacifista della Russia bolscevica.Essi sarebbero stati i pilastri su cuiricostruire il mondo dopo ilconflitto: dalla pace non avrebbedovuto scaturire un nuovo assettoterritoriale a vantaggio delle po-

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2017tenze coloniali, ma si sarebbe dovu-to tener conto dei diritti politicidelle popolazioni locali. Ciò co-strinse Gran Bretagna e Francia adaccettare il sistema dei mandatiinternazionali. In base a tale siste-ma, previsto dall’art. 22 del Pattodella Società delle Nazioni, alcunegrandi potenze avrebbero dovutocondurre alla completa indi-pendenza alcuni popoli non ancorain grado di autogovernarsi, eserci-tando su di essi una tutela tempora-nea in nome della comunitàinternazionale.La questione orientale fu affrontataalla conferenza di Sanremo (18-24aprile 1920). Gli alleati, per determi-nare il destino delle popolazioniarabe dell’Impero ottomano, purtraendo ispirazione dagli accordiSykes-Picot ne disattesero diverseclausole, per imporre un controlloancor più diretto sui territori pro-messi al grande Stato arabo. Laconferenza si aprì in un quadrointernazionale profondamente mu-tato: Parigi e Londra, grazie allapolitica isolazionista degli Stati Uni-ti (che non avevano ratificato iltrattato di pace), ebbero completa li-bertà nel perseguire i loro disegniimperialistici. La Francia, alcontempo, aveva maturato un debi-to di riconoscenza verso la GranBretagna, che alla conferenza diParigi aveva appoggiato le sue os-sessive richieste di pace punitivaverso la Germania.A Sanremo venne abbandonata ladistinzione tra i concetti di «ammi-nistrazione diretta» e «sferad’influenza» adottati da Sykes e Pi-cot, in favore della nozione unica di«mandato internazionale», svuotata

però del suo originale senso wilso-niano: la Francia avrebbe esercitatoun controllo diretto sulla Siria – ca-muffato sotto le spoglie delmandato –, amputata della regionepalestinese e di quella di Mosul.Alla Gran Bretagna venivano inveceassegnati due mandati: unosull’Iraq, che oltre alle provincearabe di Baghdad e di Bassoracomprendeva quella di Mosul; il se-condo sulla Palestina (compresol’Oltregiordano, il deserto del Ne-ghev e la Galilea del nord), con laraccomandazione di applicarvi laDichiarazione Balfour. Il movi-mento sionista otteneva in tal modouna sanzione internazionale alle suerivendicazioni.Il 10 agosto 1920 le potenze vincitri-ci firmarono a Sèvres il trattato dipace con l’Impero ottomano, delquale era previsto il completosmembramento: al sultano sarebbe-ro stati sottratti lo Stato indi-pendente del Hagiaz, la Traciaorientale e la regione di Smirne as-segnate alla Grecia, la Siria, la Pale-stina e l’Iraq provvisoriamentesoggetti a mandato. Interessi spe-ciali venivano riconosciuti allaFrancia in Cilicia e all’Italianell’Asia Minore sud-occidentale.Era inoltre prevista la formazione diuno Stato armeno indipendentenell’Anatolia nord-orientale e di unKurdistan autonomo ai suoi confinimeridionali.Il mandato della Francia sulla Siriapoté instaurarsi solo grazie allaforza delle armi. I francesi occupa-rono Damasco il 24 luglio 1920,sancendo la fine dell’indipendenzaproclamata nel marzo precedentedal Congresso generale siriano. Il

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primo settembre 1920, da una costo-la della Siria stessa, il governo diParigi trasse un secondo mandato,quello sul Libano, ritagliato in mo-do da mantenervi una maggioranzacristiana.Sulle iniziative adottate dalla GranBretagna pesò il rifiuto dei contri-buenti di farsi carico delle spese perl’occupazione del Medio Oriente. Ilgoverno di Londra ritenne quindipreferibile amministrare le sue re-gioni mediante notabili locali,inquadrati da suoi consiglieri politi-ci, economici e militari. Da unaparte decise la creazione di un terzomandato, quello sull’Oltregiordano,staccato dalla Palestina e affidato alsecondo figlio dello sceriffo Hus-sein, Abdallah. I sionisti, che vede-vano sottratti al loro focolarenazionale i due terzi della Palestina,non riuscirono a impedire l’appro-vazione di questo provvedimentoda parte della Società delle Nazioni.Fu inoltre deciso di affidare a Feisall’autorità sul mandato iracheno, percompensarlo della perdita del regnodi Siria. Il compito di assicurarel’ordine pubblico in Iraq e Trans-giordania fu affidato a una poliziareclutata localmente e addestrata daufficiali inglesi. In caso di necessitàsarebbe intervenuta l’aviazione bri-tannica. Il 23 agosto 1921 Feisalottenne il titolo di re dell’Iraq,firmando un trattato che lasciavaalla Gran Bretagna un controlloquasi assoluto sulla sua ammini-strazione (10 ottobre 1922). Il nuovoordine imposto da Gran Bretagna eFrancia creava una profonda rotturanelle regioni mediorientali,interrompendo flussi commerciali,relazioni tribali, etniche, religiose e

culturali molto antiche.L’unico movimento capace diopporsi alle grandi potenze in Me-dio Oriente fu quello nazionaleturco, che dai bolscevichi ottennebuona parte delle regioni anatolicheassegnate allo zar al tempo degliaccordi Sykes-Picot. I governi diParigi e Roma, da parte loro, co-scienti di non disporre delle risorseeconomiche e militari per mantene-re l’occupazione del Paese, deciserodi riconoscere il nuovo regime turcoe di evacuare i territori loro asse-gnati dal trattato di Sèvres. Sventatala minaccia militare greca(settembre 1922) il governo turco,con sede ad Ankara, firmò il trattatodi Losanna (24 luglio 1923), che ri-conobbe le sue rivendicazioni terri-toriali. Questo storico trattatosostituì quello di Sèvres, firmato dalgoverno del sultano: la nuova re-pubblica di Turchia recuperava laTracia Orientale e l’intera l’Anatolia,cancellando in tal modo le clausoleriguardanti il Kurdistan autonomo elo Stato armeno.Gli accordi Sykes-Picot costituironosolo il punto di partenza del pro-cesso di spartizione dell’imperoottomano. Essi furono largamenterinegoziati nel primo dopoguerra.Non menzionavano infatti né il fo-colare nazionale ebraico né il Liba-no, e nemmeno l’Iraq e laTransgiordania. Si limitavano aparlare di zone di influenza più omeno diretta a beneficio delle duegrandi potenze e di uno o più Statiarabi. Le differenze tra quanto pre-visto da Sykes e Picot e la sistema-zione territoriale concretizzatasi nelprimo dopoguerra non sono di pococonto: la Gran Bretagna riuscì ad

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Articolo pubblicato gennaio-febbraio 2017http://www.terrasanta.net/tsx/lang/it/p9816/La-spartizione-del-Medio-Oriente

appropriarsi della Palestina edell’importante regione petroliferadi Mosul a danno della Francia laquale, sull’onda dei trionfi del mo-vimento nazionale turco, perseanche la Cilicia. Inoltre Londra eParigi – grazie alla finzione deimandati e alla stipula di trattati chediedero vita agli Stati fantocciod’Iraq e di Transgiordania – finiro-no per affermare un reale controlloanche sui territori dello Stato araboprevisto nel maggio 1916. Delle

frontiere immaginate da Sykes e Pi-cot rimase solo la parte meridionaledel tracciato che continua tutt’oggi adividere la Siria dall’Iraq.Se le due potenze si astennerodall’allungare le mani anche sulHagiaz fu solo l’estrema povertà diallora e per il timore della reazionedel mondo musulmano all’occupa-zione della terra di gran lunga piùsacra per l’islam da parte di esercitiinfedeli.

Gesù e il Corano

di Giorgio Bernardelli

A 25 anni dall'uccisione, il Pime ricorda padreCarzedda, martire del dialogo. Padre SalvatoreCarzedda – ucciso a Mindanao nel 1992 – avevastudiato a fondo i testi musulmani su Gesù. Indi-cando in un libro alcune strade per un incontro re-ciproco.

M artire della quotidianità deldialogo tra cristiani e musulmani,attraverso il Silsilah, il movimentoin cui era impegnato insieme a pa-dre Sebastiano D’Ambra, nel diffici-le contesto di Zamboanga. Ma – aventicinque anni di distanza da queltragico 20 maggio 1992 che videl’uccisione di padre SalvatoreCarzedda, proprio mentre tornavada un incontro comune tra cristianie musulmani nella grande isola delSud delle Filippine – c’è ancheun’eredità specifica di questo mis-

sionario del Pime che vale la penadi ricordare: una serie di riflessioniche testimoniano come la sua vitadonata non sia stato il frutto di unatteggiamento ingenuo, ma il puntodi arrivo di un dialogo che padreCarzedda aveva preparato stu-diando con molta attenzione l’islam.Era successo soprattutto negli annitra 1986 e il 1989, quando i superiorilo avevano chiamato a svolgere unservizio per l’istituto nel seminariodel Pime negli Stati Uniti. PadreSalvatore – cheaccettò con fatica questo periodo di

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distacco temporaneo dalle Filippine– volle cogliere quel soggiorno pro-prio come un’occasione per unapprofondimento teologico sul te-ma del dialogo con l’islam: a Chica-go, dunque, si iscrisse alla facoltà diMissiologia della Catholic TheologicalUnion, oltre a frequentare dei corsianche presso la Lutheran School ofTheology. Ne nacque una tesi didottorato intitolata The Quranic Je-sus in the Light of the Gospel. Ex-ploring a Way to Diaologue (Il Gesùdel Corano alla luce del Vangelo.Alla ricerca di una via per il dialo-go) che fu proprio il Silsilah apubblicare in un libro, quando nel1990 Carzedda rientrò nelle Filippi-ne.Centocinquanta pagine in ingleseche rappresentano una testimo-nianza molto interessante su qualelivello di profondità padre Salvatoreavesse in mente come meta quandoviveva i suoi incontri con i mu-sulmani.Il suo libro, infatti, è una ricostru-zione rigorosa di quanto il Coranodice su «Gesù figlio di Maria»,anche alla luce delle interpretazionidei più autorevoli esegeti musulma-ni. Il missionario non si fermava pe-rò qui: studiando la visione islamicadella nascita di Gesù, i nomi con cuiè citato nelle diverse Sure, la figuradi Maria, i riferimenti alla croce,Carzedda si poneva un domandaimpegnativa. Vale a dire: appuratoche il Corano parla di un volto di-verso di Gesù rispetto a quello tra-mandato dai Vangeli, come deveporsi il cristiano di fronte a questafigura? «”Voi chi dite che io sia?” èla domanda intrigante di Gesù nelVangelo – annotava -. Ma chi è il

Gesù dell’islam?».L’ipotesi su cui nel libro il missio-nario ucciso venticinque anni fa aZamboanga fondava tutta la sua ri-flessione era molto forte: non pre-tendeva in alcun modo di annullarele differenze; però invitava cristianie musulmani a prendere sul serio il«Gesù dell’altro». E in questo modolasciarsi interrogare anche sul «pro-prio Gesù», per verificare se èdavvero fedele a quanto rivelato dalLibro che ciascuno dei due conside-ra come sacro. Proponeva espressa-mente che anche a questo temafosse applicata la dottrina dei «semidel Verbo» che il Concilio VaticanoII riprese dai Padri della Chiesa peraffermare la presenza di tracce dellaverità di Dio nelle religioni non cri-stiane. «I semi del Verbo – scrivevaCarzedda, con una frase che proba-bilmente oggi scandalizzerebbemolti – devono essere stati seminatianche attraverso Muhammad nella“casa dell’islam”». Lo stessodiscorso – aggiungeva però subito –vale anche per i musulmani inrapporto al loro sguardo sul NuovoTestamento. Tanto più che – spie-gava – il Profeta dell’islam «non co-nobbe il cristianesimo attraverso laposizione ortodossa della Chiesa»;quelle che rigettò furono «visioni diGesù ampiamente condizionate dadue eresie della Chiesa primitiva:l’adozionismo e il docetismo».Di qui, l’auspicio: «I musulmani sulNuovo Testamento e i cristiani sulCorano dovrebbero cominciare afare i conti con una nuovacomprensione di quanto i Libri Sacrirappresentano. Entrambi sbaglie-rebbero ad abbandonare la sfida deldialogo e l’esperienza dell’incontro

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2017a causa delle incongruenze tra ledue fedi. Il mio tentativo è invecequello di facilitare una nuovacomprensione e un nuovo ascoltoreciproco, senza livellare le diffe-renze tra le tradizioni religiose. E aguidarmi è la convinzione che ildialogo con l’islam è possibile e ne-cessario per porre fine alle doloroseincomprensioni che vanno avanti dasecoli».È con questo sguardo che – in ma-niera analitica – nelle pagine del li-bro sono affrontati nodi teologiciimpegnativi come il misterodell’incarnazione, la messianicità diGesù, lo scandalo della croce, la de-finizione di Gesù come Figlio diDio, il mistero della Trinità. In molticasi sono solo piste di riflessioneche il dialogo all’interno del Silsilahavrebbe poi probabilmente portatoa sviluppare ulteriormente.Ma è interessante notare anche il le-

game che padre Salvatore – neiringraziamenti all’inizio del libro –insieme ai tanti amici incontrati indieci anni di ministero nelle Filippi-ne, citasse anche padre Tullio Fava-li, il suo confratello missionario delPime che era già stato ucciso l’11aprile 1985 per il suo impegno infavore della giustizia. «Che il suosangue, versato per la pace aMindanao – scriveva Carzedda -,sfidi ogni cristiano a farsi carico delprocesso di pace attraverso il dialo-go nella situazione di conflitto nellaquale ci troviamo a vivere».È quanto lui per primo aveva sceltodi fare fino al punto di arrivare adonare la vita. Ed è la sfida cherende la sua domanda sul sensodella presenza del mistero di «Gesùfiglio di Maria» anche nelle paginedel Corano un tema quanto maiattuale per i cristiani di oggi.

Articolo pubblicato il 1° marzo 2017http://www.mondoemissione.it/asia/gesu-e-il-corano/

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La piccola comunità cattolicadell’Algeria ha un nuovo vesco-vo. Si tratta dell’inglese JohnGordon MacWilliam, 69 anni,missionario dei Padri Bianchi,che papa Francesco ha nominatooggi alla guida della diocesi diLaghouat, la diocesi che ha ilcompito della guida pastoraledelle comunità che vivononell’area del deserto del Sahara.MacWilliam raccoglie il testimo-ne da padre Claude Rault,francese, anche lui della congre-gazione dei Padri Bianchi, cheaveva presentato le dimissioniper raggiunti limiti di età.Il dato significativo è che per laprima volta l’Algeria avrà un ve-scovo che non è né arabo né diorigini francesi: MacWilliam èinfatti originario di Wimbledon,dove è nato nel 1948. Un piccolosegno dei tempi per una Chiesache oggi vive buona parte delsuo ministero con i migranti pro-venienti dall’Africa subsaharia-na, non tutti francofoni. Un’altracuriosità è il fatto che padre Ma-cWilliam, prima di diventaremissionario, ha svolto per 17

anni la carriera militare,raggiungendo il grado dimaggiore. E parlando di Algeriail pensiero non può non andareal precedente illustre di Charlesde Foucauld, di cui proprio ladiocesi di Laghouat custodisceTamanrasset, l’ultima dimoradove l’ex ufficiale della Legionestraniera divenuto il «fratellouniversale» tra i touareg venneucciso nel 1916. Entrato tra i Pa-dri Bianchi nel 1984 padre Mac-William è diventato sacerdotenel 1992 e dopo gli studi in isla-mologia al Pisai a Roma hasvolto il suo ministero prima inAlgeria poi in Tunisia.Attualmente era il superiore re-gionale dei Padri Bianchi perl’Africa del Nord.Quella che padre MacWilliam sitroverà a servire come vescovo èuna Chiesa fatta di minuscolecomunità, dispersenell’immensità del deserto alge-rino. Il suo predecessore, ClaudeRault, ama raccontarla come unacarovana. «Fare Chiesa qui neldeserto – raccontava due annifain questa intervista a Mondo eMissione-; significa aggrapparsi

Il Sahara ha un nuovo vescovo

John Gordon MacWilliam, missionario dei PadriBianchi, è il nuovo vescovo della diocesi di La-ghouat, la diocesi algerina che si estende nel de-serto del Sahara. Prende il posto del confratelloClaude Rault, che lascia per raggiunti limiti di età.

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2017all’essenziale della nostra fedeed essere uniti nella testimo-nianza, anche se viviamo negliangoli più remoti; testimoni diuna Chiesa al servizio del Re-gno».Con la nomina di padre Mc-William restano tre attualmente i

vescovi dell’Algeria: rimaneinfatti vacante la sede diConstantine (la diocesi dove sitrova Ippona) dopo la nominadel gesuita Paul Desfarges adarcivescovo di Algeri, mentredal 2012 è vescovo di Orano ildomenicano Jean Paul Vesco.

Articolo pubblicato il 6 marzo 2017http://www.mondoemissione.it/missione/sahara-un-vescovo/

Padre Ragheed ha vissuto alungo a Roma negli anni dellasua formazione sacerdotale (dal1996 al 2003), ospite del Pontifi-cio Collegio Irlandese ed ha se-guito i suoi studi presso laPontificia Università SanTommaso d’Aquino-Angelicum,dove ha conseguito la licenza inteologia ecumenica.Nel 2003, a conclusione dei suoistudi, decide di tornare in Iraqper prestare il suo servizio sa-

cerdotale, nonostante i rischi, nelsuo paese perché "quello è il postocui appartengo, quello è il mioposto".La sua è la testimonianza di unafede vissuta con entusiasmo:organizza corsi teologici per lagente di Mosul, lavora con i gio-vani, cura la pastorale per i po-veri e i malati; di lui ricordanoche “aveva un grande coraggio,unito a tanta calma e amorevolezza.Era una personalità spirituale,amata da tutti, cattolici e musulma-

Padre Ragheed Ganni

Padre Ragheed era un giovane sacerdote cattolicoiracheno di rito caldeo, nato il 20 gennaio 1972 eucciso a Mosul il 3 giugno 2007 all’uscita della suaparrocchia dopo la celebrazione domenicale PapaBenedetto XVI lo ha definito “uno dei testimoni divita cristiana più limpidi e coraggiosi, in un paese-tra i più martoriati”

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L’Eucarestia al centroRagheed sente la forza dell’Eu-carestia, a cui affida la sua co-munità: “senza domenica, senzal’Eucaristia i cristiani in Iraq nonpossono vivere”.E racconta così, in occasione delCongresso eucaristico di Bari del2005, la speranza della sua co-munità abituata ogni giorno avedere in faccia la morte:“I terroristi cercano di toglierci lavita, ma l'Eucarestia ce la ridona(…) Qualche volta io stesso misento fragile e pieno di paura.Quando, con in mano l'Eucarestia,dico le parole "Ecco l'Agnello diDio, che toglie i peccati del mondo",sento in me la Sua forza: io tengo inmano l'ostia, ma in realtà è Lui chetiene me e tutti noi, che sfida i terro-risti e ci tiene uniti nel suo amore

senza fine.In tempi tranquilli, si dà tutto perscontato e si dimentica il grandedono che ci è fatto. L'ironia è pro-prio questa: attraverso la violenzadel terrorismo, noi abbiamo scopertoin profondità che l'Eucarestia, ilCristo morto e risorto, ci dà la vita.E questo ci permette di resistere esperare.”

Vita donataDopo aver nutrito i suoi fedelicon il corpo e il sangue di Cristo,Ragheed ha donato anche il pro-prio sangue, la sua vita perl’unità dell’Iraq e per il futurodella sua Chiesa.Nei mesi precedenti la sua ucci-sione, la situazione era andatadiventando sempre più critica,con ripetute minacce e attentati.Dopo un attacco alla sua

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2017parrocchia il 1° aprile 2007, do-menica delle Palme, scrive: “Cisiamo sentiti simili a Gesù, cheentra in Gerusalemme con la pienaconsapevolezza che la conseguenzadel Suo amore per gli uomini sarà laCroce. Quindi, mentre i proiettilidistruggono le finestre della nostrachiesa, offriamo le nostre sofferenzecome segno di amore per Cristo”.E ancora, nel mese di maggio,racconta: “Attendiamo ogni giornol’attacco decisivo ma non smettere-mo di celebrare messa. Lo faremoanche sotto terra, dove siamo più alsicuro. In questa decisione sonoincoraggiato dalla forza deimiei parrocchiani. Si tratta diguerra, guerra vera, ma speriamo diportare questa Croce fino alla finecon l’aiuto della Grazia divina”.Il 27 maggio 2007, unabomba cade nella chiesadello Santo Spirito, propriodopo le celebrazioni delgiorno di Pentecoste.Dopo questi fatti Ragheedscrive: “I giovani organizzanola sorveglianza dopo i diversiattentati già subiti dallaparrocchia, i rapimenti e le mi-nacce ininterrotte ai religiosi. Isacerdoti dicono messa tra lerovine causate dalle bombe. Lemamme, preoccupate, vedono ifigli sfidare i pericoli e andareal catechismo con entusiasmo. Ivecchi vengono ad affidare aDio le famiglie in fugadall'Iraq, il paese che loro inve-ce non vogliono lasciare, salda-mente radicati nelle casecostruite con il sudore di anni.Impensabile abbandonarle”.

Domenica 3 giugno 2007, alla fi-ne della messa padre Ragheedlascia la chiesa insieme ai tresuddiaconi Basman YousefDaud, Gassan Isam Bidawed eWahid Hanna Isho, che negliultimi giorni lo accompagnanosempre per cercare di pro-teggerlo, sono “giovani pieni difede, che viaggiano con il loroparroco rischiando la vita credendoin Cristo”. All’improvviso la loromacchina viene fermata da uo-mini armati…

L’ultima testimonianza“Come posso chiudere la casadel Signore?” sono state questele ultime parole pronunciate inquesta vita da padre Ragheed;ha avuto il coraggio di dirle di

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Su proposta di don Massimiliano Testi (parrocodi S. Innocenzo Papa e S. Guido Vescovo) e incollaborazione con l’Ufficio Catechistico e ilCentro Missionario della Diocesi di Roma, econ l’Associazione Archè, la Finestra per il Me-dio Oriente sta partecipando all’organizzazionedi una serie di eventi dedicati al Medio Orienteed alle persone che hanno dato la vita per que-sta terra.

I primi incontri sono stati:

- il 9 Novembre: “l sangue dei martiri è seme dinuovi cristiani?” presso il Seminario Maggioredi Roma;- il 20 gennaio: “Le martiri italiane in Somalia eMartirio Cristiano in Medio Oriente”, pressola parrocchia di S. Bernardo da Chiaravalle;- il 23 marzo: “Preghiera per i MissionariMartiri” quest’anno per la prima volta informa di peregrinatio per le vie di Roma (e conun ricordo particolare di p. Ragheed Ganni).

Il prossimo appuntamento sarà il 3 Giugno2017 in ricordo del X anniversario della mortedi Padre Ragheed: Catechesi di don Fabio Ro-sini, presso la Chiesa di S. Marco.

fronte all’uomo armato e ma-scherato che gli puntava controun’arma automatica urlandogli“Ti avevo ordinato di chiuderela tua chiesa! Perché non lo haifatto? Perché sei ancora qui?”Nel 2012 gli anziani genitori di pa-dre Ragheed hanno donato alla Ba-silica di san Bartolomeo all’Isola la

stola indossata dal figlio in occasio-ne della sua ultima Messa; oggi èesposta alla venerazione dei fedelinella 1° cappella di destra dedicataalla memoria dei martiri dell’Asia,dell’Oceania e del Medio Oriente.

Fonte Asia News

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La diocesi in preghieraper imissionarimartiri

di Roberta Pumpo

Veglia itinerante, nei 10 anni del martirio di padreRagheed Ganni, iracheno, studente dell’AngelicumIl ricordo dei 28 operatori pastorali uccisi nel 2016.

“Non abbiate paura” è loslogan scelto dalla FondazioneMissio per la XXV Giornata dipreghiera e digiuno in memoriadei missionari martiri che si cele-bra il 24 marzo in ricordo delbeato Oscar Arnulfo Romero,arcivescovo di San Salvador,ucciso durante la Messa, il 24marzo 1980, mentre elevaval’ostia per la consacrazione. Ladiocesi di Roma quest’anno hadedicato la preghiera per i mis-sionari martiri a padre RagheedGanni, sacerdote cattolico ira-cheno di rito caldeo, ucciso a

Mosul, in Iraq, insieme a tre dia-coni, il 3 giugno 2007, al terminedella Messa da lui celebrata nellasua parrocchia dedicata allo Spi-rito Santo. Aveva solo 35 anni.Una veglia di preghiera itine-rante, articolata in tre momenti:il primo nel Pontificio Collegioirlandese dove padre Ragheedvisse dal 1996 al 2003 come stu-dente della Pontificia UniversitàSan Tommaso d’Aquino “Ange-licum” e dove la sua memoriacontinua a vivere nel mosaico alui dedicato realizzato, nellacappella, dal gesuita Marko IvanRupnik. Quindi i partecipanti

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2017hanno raggiunto la basilica deiSanti Quattro Coronati, per pre-gare i vespri con il vescovo Loju-dice; infine l’approdo a SanBartolomeo all’Isola, memorialedei martiri del nostro tempo, do-ve sono stati ricordati gli ope-

ratori pastorali uccisi nel 2016.Tra i presenti anche don Tho-mas Norris, direttore spiritualedel Collegio irlandese, e padreGlenn Morris, docente di Filoso-fia all’Angelicum. Entrambi co-noscevano Ragheed. «Ricordo lamattina in cui è partito per l’Iraq– racconta don Thomas -.Avvertivamo il pericolo checorreva e abbiamo pregato tantoper lui. Era un giovane sacerdotemolto coraggioso». «Tornaredalla sua gente era il suo unicodesiderio – aggiunge padre

Glenn -. Era cosciente del peri-colo ma ripeteva che bisognavasupportare la fede del suo popo-lo e che quello era il suo posto».Temendo che senza di lui, senzail pastore, il gregge si sarebbedisperso, con piena consapevo-

lezza questo giovane sacerdoteaveva scelto infatti di rimanereal fianco dei suoi fedeli: «Cristocon il suo amore senza fine sfidail male – ripeteva -, ci tiene uniti,e attraverso l’Eucaristia ci ridonala vita che i terroristi cercano ditoglierci». Dopo aver nutrito isuoi fedeli con il Corpo e ilSangue di Cristo, ha donatoanche il proprio sangue, la suavita, per l’unità dell’Iraq e per ilfuturo della sua Chiesa. «Possosbagliarmi – diceva – ma di unasola cosa ho certezza che sia ve-

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ra: che lo Spirito Santo continue-rà ad illuminare alcune personeperché lavorino per il benedell’umanità in questo mondocosì pieno di male».I partecipanti alla veglia hannopoi raggiunto la basilica deiSanti Quattro Coronati, dove so-no stati recitati i vespri animatidalle monache agostiniane e pre-sieduti dal vescovo Paolo Loju-dice, incaricato della

Cooperazione missionaria tra leChiese nella diocesi di Roma.«Uccidere un cristiano significauccidere Cristo e noi rispondia-mo in ginocchio e con la pre-ghiera» ha detto. Al terminedella preghiera poi Rezan Kader,rappresentante in Italia del go-verno regionale del Kurdistan,ha testimoniato la drammaticasituazione dei cristiani in Medio

Oriente. «Nel mio Paese i cristia-ni cacciati dall’Isis hanno trovatoaccoglienza – ha detto -. Nel re-sto dell’Iraq sono perseguitati eaggrediti solo per la loro fede».Al termine dei vespri, ancorauno spostamento fino alla basili-ca di San Bartolomeo all’IsolaTiberina, affidata, dal 1993, allaComunità di Sant’Egidio. Quisono stati ricordati i 28 operatoripastorali uccisi nel 2016: uomini

e donne che non hanno avutopaura di annunciare e testimo-niare il Vangelo di Cristo finoalla donazione totale. 14 sa-cerdoti, 9 religiose, un seminari-sta e 4 laici. Otto sono stati uccisiin Africa, 12 in America, 7 inAsia e uno in Europa. Que-st’ultimo è don Jacques Hamel, ilsacerdote di 84 anni uccisomentre stava celebrando la mes-

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Articolo pubblicato il 24 marzo 2017http://www.romasette.it/author/roberta-pumpo/

PROGRAMMA 2016-2017

Tema dell’anno:“La Pace”

OGNI SETTIMANA:si continua con Finestra di Preghiera presso:la parrocchia dei Santi Fabiano e Venanzio il lunedì dalle 19.30 alle20.30 ,la parrocchia di Gesù di Nazareth il mercoledì dalle 19.00 alle 20.00Si può scaricare la traccia della preghiera dal sito

MENSILMENTE i seguenti incontri:9 Ottobre 2016, ore 18,30,Vespro S. Abramo e condivisione pro-gramma (ss. Fabiano e Venanzio)

29-30 Ottobre 2016 Ritiro spirituale* presso il Centro Mater Eccle-siae, Centro di Preghiera – Via della Pineta Sacchetti 502 Roma(vicino fermata trenino Gemelli)

sa a Saint Etienne du Rouvrai, inNormandia, il 26 luglio 2016.Nella basilica è conservato il suobreviario. Per ognuno di questimartiri contemporanei è stataaccesa una candela. Per volontàdi San Giovani Paolo II la basili-ca è stata dedicata alla memoriadei martiri del XX e XXI secolo, ein una delle cappelle, dal 2012, èconservata la stola che padre Ra-

gheed indossava durante la suaultima Messa. «Padre Ragheed –ha detto il rettore della basilicadon Angelo Romano – era unsacerdote esemplare, semprepronto ad aiutare i poveri. Spes-so la sera, con i volontari dellacomunità Sant’Egidio, portavaun pasto caldo ai poveri a ColleOppio».

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27 Novembre 2016, presso la Basilica di S. Croce in Gerusalemme:ore 17,30,incontro sulla “Spiritualità Interconfessionale e Interreli-giosa di Don Andrea”, fidei donum della chiesa di Roma in Anato-lia. Relatori prof. Andrea Riccardi, mons. Enrico Feroci;ore 19,00 Concelebrazione Eucaristica presieduta dal cardinaleLeonardo Sandri.

23 Gennaio 2017,ore 19, all’interno della settimana di preghiera perl’unità dei Cristiani: Vespri con la comunità egiziana copta orto-dossa presso la parrocchia dei Santi Fabiano e Venanzio

3 Febbraio 2017, ore 21, Veglia di preghiera per l’XI° Anniversariodella morte di don Andrea Santoro, presso la parrocchia dei SantiFabiano e Venanzio

5 Febbraio 2017, ore 19, Celebrazione eucaristica diocesana per l’XIAnniversario della morte di don Andrea Santoro, presso la Basilicadi S. Croce in Gerusalemme

18-19 Marzo 2017 Ritiro spirituale* presso il Cento Mater Ecclesiae- Via della Pineta Sacchetti 502 Roma (vicino fermata trenino Ge-melli)

Maggio 2017 Giornata conclusiva di Fraternità* (data e luogo dadefinire)

* I ritiri e la giornata di fraternità sono guidati da Samira Sidarous, l’Eu-caristia è celebrata da fra Luca Bianchi ofm.Degli altri incontri non ancora definiti, sarà data tempestiva comunicazio-ne.