Numero - Maschietto Editore · si sono concluse non ascoltando il tempo del-la quattrocentesca...

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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo) Numero 246 313 20 gennaio 2018 “Quindi, dobbiamo fare delle scelte: decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società deve continuare a esistere o la nostra società deve essere cancellata: è una scelta.” Attilio Fontana Maschietto Editore (ancora)

Transcript of Numero - Maschietto Editore · si sono concluse non ascoltando il tempo del-la quattrocentesca...

Con la cultura

non si mangia

Giulio Tremonti

(apocrifo)

Numero

246 31320 gennaio 2018

“Quindi, dobbiamo fare delle scelte: decidere se la nostra etnia,

la nostra razza bianca, la nostra società

deve continuare a esistere o la nostra società

deve essere cancellata: è una scelta.”

Attilio Fontana

Maschietto Editore

(ancora)

dall’archivio di Maurizio Berlincioni

immagine

NY City, 1969

La prima

Central park, una

domenica mattina.

Il bel tempo e il

desiderio di un po’

di relax mi hanno

spinto tornare a

far due passi in

solitaria. Era presto

e non c’erano quegli

assembramenti di

folla che si trovano

abitualmente nei

giorni del week-end.

Atmosfera rilassata,

anche il poliziotto

non sembra un

robo-cop e viaggia

a bordo di una

tranquillizzante

“Vespa” che ho

notato con un certo

piacere patriottico.

Erano quasi tutte

persone over-fifty,

molte di origine

italiana, che

sceglievano sempre

la prima mattina o

il tardo pomeriggio

per la passeggiata

al parco. Il sole era

ancora sopportabile

e non si aveva

quella sensazione

sgradevole di essere

immersi in una

specie di melassa!

Direttore

Simone SilianiRedazione

Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Progetto Grafico

Emiliano Bacci

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Editore

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Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Numero

246 31320 gennaio 2018

In questo numeroITra architettura e ambiente storico

di Alessandro Gioli

Quei resti etruschi a Gonfienti

di Giuseppe Alberto Centauro

Le forme visibili dei pensieri invisibili

di Laura Monaldi

Da Pontormo a San Carlo

di M. Cristina François

Serra Yilmaz nei panni di Grisélidis, prostituta geniale

di Michele Morrocchi

Sorella arte

di Simonetta Zanuccoli

Viaggi straordinari

di Valerio Dehò

Il ridicolo simbolismo della Ruota delle meraviglie

di Francesco Cusa

Mappe di percezione: San Francisco

di Andrea Ponsi

Erika Stone fotografa sociale

di Danilo Cecchi

La trottola e il robot

di Cristina Pucci

Non devi perderti nelle cose

di Paolo Marini

Il Summer di Mimmo

di Monica Innocenti

Prima del Big Bang non c’era un prima

di Gianni Bechelli

e Remo Fattorini, Alessandro Michelucci, Burchiello 2000... Illustrazione di Lido Contemori, Massimo Cavezzali

Al Bano, il putiniano pugliese

Le Sorelle Marx 

Quando c’era lui

I Cugini Engels

Riunione di famiglia

420 GENNAIO 2018

Il 19 novembre scorso fu presentato nella

sala del Pegaso nel Palazzo della Regione di

via Cavour il libro Architettura contempora-

nea e Ambiente storico, a cura di Francesco

Gurrieri con scritti di Carlo Cresti, Giuseppe

Cruciani Fabozzi, Sergio Givone, Francesco

Gurrieri, Franco Purini, edito da Angelo Pon-

tecorboli Editore, Firenze 2017. Chi scrive fa-

ceva parte dei presentatori insieme a Cristina

Donati, lo stesso Gurrieri e Giuseppe Crucia-

ni Fabozzi..

In quella occasione cercai di circoscrivere gli

ampi e molto interessanti contenuti del libro

soffermandomi su quali criteri adottare per

progettare una nuova architettura in un am-

biente storico, come recita lo stesso titolo.

Progettare non è cosa da poco, specialmente

a Firenze, cosicché proposi una riflessione:

uno di noi si iscrive alla Facoltà di Architettu-

ra e, dopo molti anni di studio e di lavoro, ha

la ventura di diventare architetto di fama in-

ternazionale. E’ molto probabile che la fama

se la faccia all’estero piuttosto che in Italia

ma un giorno, dopo aver fatto grandi cose, è

chiamato a Firenze e qui gli si presenta una

curiosa realtà: dagli studiosi preposti alla

salvaguardia dell’Ambiente storico gli verrà

detto che il suo progetto dovrà salvaguarda-

re l’Ambiente storico; senza altro aggiungere.

Naturalmente quel famoso architetto sa bene

di essere stato invitato proprio per essersi di-

stinto nella soluzione di complessi problemi

attinenti l’inserimento di nuove architetture

in varie città d’arte e, ovviamente ringrazierà

e parlerà dei propri convincimenti, delle sue

visioni del mondo e dell’architettura. Imma-

gino anche che cercherà di tranquillizzare

tutti coloro che, preoccupati per l’eventuale

alterazione dell’immagine di Firenze, gli fa-

ranno notare, come ricorda Paola Grifoni in

“Il silenzio dell’architetto” (pubblicato dopo

la presentazione del suddetto libro in Cultu-

ra Commestibile n.240), che fra “notissimi

architetti sia italiani che stranieri nessuno di

loro è stato in grado di capire la realtà storica

con la quale si trovava a interagire. Un archi-

tetto, solo perché di fama, non è esperto nelle

diverse discipline e sovente non possiede la

capacità di valutare i suoi limiti e la consape-

volezza della diversità tra tipologie progettua-

li, in particolare l’approfondimento necessa-

rio per avvicinarsi al restauro architettonico

o, ancora più impegnativo, a un intervento di

progettazione in un ambito storicizzato”.

Abbandonando quel grande architetto al suo

destino cercherò dunque di individuare qua-

di Alessandro Gioli

li potrebbero essere i modi di intervento in

una città come Firenze. Faccio riferimento al

saggio di Sergio Givone dal significativo titolo

“Che fare?”. Ci sono, dice Givone, senza per

altro crederci troppo, tre possibili strade; cer-

cherò di seguire queste indicazioni e magari

di ampliarle.

1) Come era e dove eraLa prima possibilità consiste nel ricostruire

l’opera architettonica come era nel suo luogo

di origine. Qui a Firenze il convincimento

prese forza per la ricostruzione delle zone

distrutte intorno al Ponte Vecchio. Inutile ri-

cordare le discussioni fra gli uomini di cultura

dell’epoca sull’adozione o meno di tale crite-

rio, fra chi paventava il nuovo e chi lo invoca-

va come occasione di rinascita.

Ci sono molti modi per porgersi in ascolto

della storia ne indico tre sufficienti a far capi-

re la complessità dell’argomento.

1.a) La storia viene rispettata pienamente.Il Ponte a Santa Trìnita costruito nel 1567

dall’Ammannati, su suggerimento di Miche-

langelo, famosissimo per la bellezza e l’ar-

monia delle arcate disegnate con il metodo

della catenaria, fu distrutto più volte dalle

piene dell’Arno del 1252, 1333, 1557. Fat-

to saltare in aria dai tedeschi il 4 agosto del

1944, fu deciso di ricostruirlo come era e

dove era per l’impegno di molti uomini di

cultura dell’epoca con un progetto di Ric-

cardo Gizdulich che riuscì nella non facile

impresa di far riaprire la cava di pietraforte

nel giardino di Boboli. Già riaprire una cava

di pietra a Boboli, foss’anche per ricostruire

un’opera-immagine della città, sarebbe oggi

cosa impensabile.

Comunque in questo caso la storia è molto

chiara: è stato rifatto come era, pur con non

poche polemiche di chi lo avrebbe voluto

nuovo o magari più largo visto che oggi sop-

porta il passaggio di autobus, taxi , auto e bi-

ciclette con i turisti fermi a fotografare dalle

sue spallette il Ponte Vecchio.

1.b) La storia viene rispettata solo in parte.Givone fa l’esempio del teatro La Fenice a

Venezia del 1789, ricostruito dopo l’ incen-

dio del 1837 in un falso stile barocco e ri-

costruito nei primi anni 2000 dopo un altro

incendio; ovviamente “dove era e come era”

ma non come l’originale costruzione del 700

suggerita anche da Gae Aulenti, architetto

incaricato del progetto, bensì su quella falsa

ottocentesca. Perché? Probabilmente perché

l‘immagine più recente della Fenice prevalse

su altri intendimenti.

Qui a Firenze abbiamo un caso analogo: le

molte discussioni riguardanti il rifacimento

della pavimentazione di piazza della Signoria

si sono concluse non ascoltando il tempo del-

la quattrocentesca pavimentazione in cotto

e ricorsi in marmo a disegnare quella grande

superficie al tempo del Savonarola, ma si è

preferito riposizionare le stesse pietre, un po’

rettificate e lavorate, per non perdere la conti-

nuità visiva alla quale ormai si era abituati. In

tal caso è valso più il ricordo del recente color

grigio che non quello lontano del rosso matto-

ne. Nel caso, le manifatture del cotto del Fer-

rone avrebbero avuto una bella presentazione

e un promettente rilancio economico.

1.c) La storia non viene rispettata.Per il ponte a Santa Trinita abbiamo detto;

Tra architettura

520 GENNAIO 2018

ma ci comporteremmo nello stesso modo nel

caso del Ponte alle Grazie? La storia ci dice

che il ponte alle Grazie, in origine ponte di

Rubaconte, costruito nel 1227, era a 9 cam-

pate poi ridotte a 6 per far posto ai Lungarni

e all’attraversamento del tram; fu ricostruito

dopo la guerra nel 1957 a 5 campate con una

trave in cemento armato su progetto di Mi-

chelucci, Gizdulich e Santi, progetto in parte

modificato durante l’approvazione. La storia

ci dice anche come su quelle precedenti 6

campate, per ogni pigna era posizionata una

casetta; lì presero dimora alcune religiose che

dettero vita a due ordini monastici femminili,

quello delle Romite del Ponte e delle Murate.

Mi pongo la domanda: se per un malaugura-

to evento naturale fossimo nella necessità di

ricostruire di nuovo il ponte alle Grazie, a

quale momento storico dovremmo fare riferi-

mento? In sostanza il “come era e dove era”

dovrebbe rispettare l’antico ponte con le ca-

sette sulle pigne o quello attuale del gruppo

Michelucci? Optare per quest’ultimo vorreb-

be dire preferire la contemporaneità rispetto

a una testimonianza storica e allora perché

non proporre un progetto del tutto nuovo ma-

gari a firma di un grande architetto, per pura

ipotesi, Renzo Piano? Cosa sarebbe meglio

per Firenze, rivedere in piedi il ponte di ora

oppure una nuova opera di una grande firma?

2) Lo stilePotrebbe svolgere un ruolo di guida lo stile?

Che almeno – così si dice - si costruisca se-

guendo i canoni stilistici esistenti, quelli

tradizionali, quelli ormai divenuti nostra

identità. Lo stile dovrebbe fornire la solu-

zione usando un dettato di norme lessicali di

un tempo lontano. Quando si invoca lo stile

occorrerebbe avere presente il fatto che si fa

appello a una consuetudine linguistica, a un

manierismo sorto in origine da un fare archi-

tettura del tutto personale e innovativo. Il

Gotico, il Rinascimento a Firenze, il Barocco

a Napoli, il Liberty, l’Art nouveau, la Seces-

sione a Londra, Praga, Budapest, Vienna o

Parigi hanno avuto una origine, una data di

nascita, nel tempo mescolati e sostituiti da

tanti ubbidienti “neo”, il neo gotico, il neo-

classico e così via, a loro volta ispirazione di

tanti revival, mode e via dicendo. I sostenitori

del rapporto stile-identità, non potendo per

ovvi motivi allontanare del tutto la contem-

poraneità, consigliano di nasconderla dentro

l’involucro architettonico esistente. In piazza

della Signoria c’è l’edificio in stile rinascimen-

tale delle Assicurazioni Generali del 1871

dell’arch. Landi costruito sulle rovine della

Loggia dei Pisani e della chiesa di S. Cecilia

del 1300, in stile neo gotico sono le facciate

del Duomo del De Fabris del 1871 e quella

di Santa Croce di Niccolò Matas del 1863,

in seguito gli edifici del 1940 del Giovannoz-

zi in via Valfonda, in bugnato di pietraforte,

davanti alla Stazione del Gruppo Toscano di

qualche anno precedente, forse a compensa-

re il troppo razionalismo di quella. Per non

parlare della neogotica sede del Parlamento

Inglese a Londra e trasvolando l’oceano, la

Casa Bianca in stile palladiano.

Dopo l’ultima guerra qui a Firenze nacque lo

stile fiorentino; un vernacolare né vecchio né

nuovo fatto di cemento armato e pietra forte

di Por Santa Maria “che fa da facciata a case

borghesi e simula non si sa che”, dice Givone,

oppure setti di pietraforte e superfici vetrate

nelle ville sulle colline, infine quel vago sa-

pore di medioevale povero, fatto di intonaco

con aggiunte e affacci, volumi e volumetti che

si arroccano gli uni sugli altri e i terrazzini

raggiungibili da scale contorte e innumere-

voli finestre e finestrine che si affacciano

sull’Arno e sull’opera monumentale degli Uf-

fizi. In quest’ultimo caso è stato detto che era

il meglio che si poteva fare viste le condizioni

oggettive in cui si operava e c’è da crederci,

ma i risultati di quella occasionalità sono stati

congelati, quasi fossero anch’essi opera mo-

numentale da salvaguardare. In questo caso

lo stile non può essere invocato. Di quelle co-

struzioni nessuno che abbia detto: “vi piace?

Questo l’ho fatto io”.

3) La tradizione La storia ci insegna come la tradizione sia

uno di quei termini, insieme all’identità e

all’appartenenza, da maneggiare con cura

soprattutto sul piano culturale e politico. Mi

limito all’architettura e principalmente alle

tecniche costruttive e all’uso dei materiali. La

tradizione propone di fare come si è sempre

fatto e si fonda sul detto che chi lascia la stra-

da vecchia per la nuova non sa cosa si ritrova.

La tradizione è fonte ispiratrice dell’arte arti-

giana e dei mestieri svolti nelle antiche botte-

ghe; massima dunque giustissima che dimen-

tica tuttavia come lo scorrere inesorabile del

tempo porti con sé l’evoluzione complessiva

della realtà, da quella tecnologica a quella

culturale, fino a toccare tutte le particolarità

del vivere; tanto è vero che ricordiamo con

sagre, palii e feste in costume come eravamo.

La tradizione ci invita a far riemergere dalla

storia antichi reperti trasformandoli in miti.

In architettura rispettare le tecniche tradizio-

nali del passato è, per legge, semplicemente

impossibile. La tradizione rimane nell’ambito

del restauro e nell’uso dei materiali come la

pietra, il mattone, i manti di copertura dei

tetti, le malte degli intonaci, il legno degli in-

fissi esterni, le terre e gli ossidi per le colora-

zioni e così via.

4 ) La memoria C’è un altro termine molto usato dagli archi-

tetti in cerca di mediazioni con la storia ed è

la cosiddetta memoria. Anche per la memo-

ria, come con la storia, non c’è niente di certo.

Un dipinto di Salvator Dalì del 1931 intito-

lato “La persistenza della memoria” raffigura

alcuni orologi molli a indicare, dietro le spinte

della psicoanalisi di Freud e la teoria della re-

latività di Einstein, l’inconsistenza del tempo,

il suo fugace valore. L’architettura non è da

meno e se la storia è un difficile suggeritore

allentiamo, se possibile, qualche sua maglia e

lasciamo aperte le strade alla sensibilità inter-

pretativa dell’autore lasciando il tempo e le

date a loro stesse.

Con la memoria l’interpretazione assume

una grande importanza; essa libera chi pro-

getta dalle pastoie delle categorie referenziali

già indicate ma lo costringe a non distaccarsi

troppo dalla realtà storica del luogo. La paro-

la chiave è “riconoscimento”; se si riconosce

la città in un edificio e viceversa vuol dire che

quell’edificio diviene esempio di una felice

corrispondenza, di una affinità elettiva, quasi

di carattere parentale.

A volte la memoria si concretizza in valori

simbolici come per la ricostruzione del parla-

mento tedesco, il Bundestag, costruito nella

seconda metà dell’800 da Paul Wallot, famo-

so per la grande cupola di vetro e acciaio. Il

concorso vinto da Norman Foster ha lasciato

come era la facciata esterna con le colonne

ambiente storico

620 GENNAIO 2018

mentre la nuova grande cupola in vetro e ac-

ciaio ricorda molto da vicino quella originale.

Altre volte la memoria oscilla o nel totale ri-

spetto dell’opera (in questi casi lo strumento a

volte labile del ricordo si traduce negli statuti

disciplinari del restauro) oppure in libere cre-

azioni intese come superamento della stessa

storia, ovvero come semplice negazione della

presenza di un passato.

Ricorda a tal proposito Francesco Gurrieri

quanto sia grande l’importanza della cono-

scenza storica per arricchire e attualizzare

il proprio sapere, ma ricorda anche come l‘

applicazione teorico-pratica del restauro, pro-

muova differenti direzioni nelle stesse scuole

disciplinari; a volte favorendo l’interpretazio-

ne creativa secondo cui, in una visione post

moderna, il passato è già tutto compreso nel

presente, a volte come auspicio di un ritorno

alle identità originali, ripulendole e liberan-

dole da superfetazioni, aggiunte, sostituzioni,

abusi.

Scrive Franco Purini: “Se ci si rivolge alla sto-

ria si vede con gli occhi della mente il luogo

dell’origine di ogni forma, sul quale è necessa-

rio e bello meditare. Ma tale luogo contrasta

talmente tanto, nella sua energia generativa,

con l’infinita catena di possibilità che esso

possiede, da non poter convivere con la con-

templazione dell’inizio (germinazione di pos-

sibilità e di inneschi). Da tale incompatibilità,

che non si riesce mai a superare, scaturisce

l’immaginazione dell’architettura nella sua

realtà più viva. Ma anche l’ambiente storico

nasce da un consumo infinito dell’origine, dal

suo replicarsi incessantemente nell’abitare

umano”.

Cosa è successo, che non c’è più un luogo nel

nostro animo capace di vivere nelle nuove

opere, non c’è più in ciò che facciamo una

manifesta provenienza? Perché cimentarsi

sempre nel rapporto fra architettura contem-

poranea e ambiente storico come se fossero

cose diverse quando è proprio l’ambiente

storico ad aver prodotto “naturalmente” l’ar-

chitettura contemporanea? Detto questo, di-

viene importante porgere grande attenzione

alla qualità del progetto architettonico.

Carlo Cresti nel saggio “Architettura moder-

na e città storiche” ricorda l’edificio di Mi-

chelucci a Firenze fra via dello Sprone e via

Guicciardini del 1956, la Casa alle Zattere

a Venezia di Ignazio Gardella del 1957 e la

Torre Velasca a Milano del gruppo BBPR del

1958.

Tre edifici in tre anni, presi ad esempio dalla

trattazione teorico pratica della progettazio-

ne in tutte le Facoltà di Architettura d’Italia;

solo tre edifici per indicare la difficile interdi-

pendenza fra realtà e innovazione, fra storia e

modernità per chi ricercasse una “recondita

armonia di (fra) bellezze diverse”. Recondita

armonia come frutto di incerto e oscillante

sentire in chi progetta, in cui si riflette un

altrettanto incerto e oscillante criterio in chi

deve giudicare. Si può dire che sia riuscita

questa operazione di ricerca? No, non lo si

può dire, e non sappiamo se questo sia do-

vuto a chi non ha saputo interpretare - gli

architetti - o a coloro che non hanno saputo

valutare, le Sovrintendenze.

La cosiddetta “memoria” si offre anche a

un’altra importante considerazione e riguar-

da il valore che assume la permanenza nella

mente della medesima immagine. La persua-

sione avviene con meccanismi ormai noti che

condizionano i nostri comportamenti quoti-

diani e i nostri giudizi. Non tanto l’opera in

sé quanto la circolazione della sua immagine

è ormai divenuto il mezzo per veicolare valori

e consensi in modo del tutto simile ai messag-

gi pubblicitari. Non per niente viviamo nella

realtà virtuale. “Beh, se piace tanto alla gente

vuol dire che un valore artistico ci deve pur

essere … se piace non può essere brutto” ebbe

a dire con ironia Andy Warhol a proposito

della discutibilissima opera pittorica di Mar-

garet Keane che dipingeva sempre bimbi dai

grandi occhi.

Un’opera sarà riconosciuta e nel ripetersi

della sua immagine acquisterà un surplus di

valore che la renderà, più di altre, oggetto di

attrazione e di desiderio. Per i monumenti

ridotti a immagine di loro stessi avviene la

medesima cosa.

Certo, la persistenza del ricordo dipende dal-

la qualità della cosa ricordata nel senso che è

quest’ultima ad innescarlo ma a volte si ricor-

dano cose semplicemente antiche trasforma-

te in icone e miti. La Tour Eiffel doveva esse-

re smontata dopo l’esposizione universale del

1889 e invece è divenuta il simbolo di Parigi,

e il Ponte Vecchio a Firenze, ricostruito nel

1345 da Taddeo Gaddi dopo la grande piena

del 1333, a suo tempo innovativo in virtù dei

tre archi ribassati, era strada su cui si svolge-

vano funzioni di mercato e di macellazione

delle carni e su cui il Vasari costruì il suo Cor-

ridoio. Il mito ci porta a fermare il tempo e

a rendere eterna l’architettura la quale, come

tutto ciò che esiste, eterna non potrà essere.

Viene in mente a tale proposito il paradosso

della nave di Teseo. Il mito racconta che tor-

nato Teseo in patria dopo essere riuscito ad

uccidere il Minotauro, gli ateniesi decisero di

conservare la sua nave nel tempo. Tutte le vol-

te che qualcosa della nave si deteriorava quel

qualcosa veniva rifatto esattamente come era;

il giorno in cui tutte le parti della nave furono

sostituite qualcuno si domandò se la nave era

ancora quella originale di Teseo.

5) La copiaOltre allo strumento del ricordo si potrebbe

ricorrere alla copia. Mentre noi conserviamo

ciò che già abbiamo, in altre parti del mondo,

ad esempio in Cina, Russia ecc., alcuni ric-

chi personaggi di quei paesi, disdegnando il

contemporaneo, pensano all’architettura con

la testa tutta rivolta all’indietro, al passato

appunto e proprio a quello europeo; così co-

piano castelli e regge, palazzi e giardini come

quelli di Bruges, Oxford o della Loira. Anche

senza andare così lontano, la copia del “vec-

chio” pare fornire garanzie culturali maggiori

rispetto all’inedito nuovo anche se realizzato

dal famoso architetto e poi in tal caso non c’è

da scomodare alcuna capacità interpretativa,

si copia, come si faceva a scuola magari sba-

gliando i numeri finali del compito. Del resto

chi non ricorda i monumenti fiorentini come

la Loggia dei Lanzi, il Palazzo Pitti, lo Speda-

le degli Innocenti ricostruiti intorno al 1870

a Monaco di Baviera su volere di Ludovico I?

E quante volte abbiamo detto di fronte alle

molte banalità delle periferie che assediano i

centri storici: perché non le hanno fatte come

quelli?

Per concludere di quale memoria, di quale

storia, di quali pensieri dovrà avvalersi chi

progetta a Firenze?

Rimane forse la possibilità di un ritorno alle

origini? Sembra necessario ripensare ciò che

realmente siamo e ciò che vogliamo, ed è un

augurio che si conclude con una domanda:

non sarebbe meglio, anziché disperdersi in

critiche, dubbi e divieti affidarsi, come pa-

zienti di fronte alle collaudate e decantate

virtù di un primario di medicina, alle capaci-

tà dei grandi architetti per risolvere i propri

problemi come fanno già da tempo, in tutte le

città del mondo?

Diciamo la verità, a forza di ricordare e non

fare, siamo rimasti soli, magari inorgogliti dai

tanti forestieri venuti da fuori. Dimenticavo:

ci si lamenta anche di quelli.

Secondo Vittorio Gregotti ci potranno essere

solo due strade: il nuovo farà a meno del pas-

sato e quanto più vorrà essere nuovo tanto più

ne prenderà le distanze, in altre parole vorrà

camminare da solo, oppure il nuovo non po-

trà essere altro che la copia di un qualsiasi

occasionale passato preso in prestito. C’è da

crederci.

In altre parole, e ancora una volta come la sto-

ria ci insegna, l’architettura potrà presentarsi

figlia del proprio tempo oppure fedele imma-

gine del proprio passato

720 GENNAIO 2018

Anche questa volta a Firenze l’anno è comin-

ciato. Portato da una ventata di moda o di ridi-

colo, a seconda del gusto o del punto di vista.

In ogni caso Pitti ha depositato il suo strascico.

Quanto meno nelle figure di gangster che si

sono sparpagliate per il centro città, tra Luisa

Via Roma e la Fortezza da Basso. Il panciot-

to quest’anno è stato d’obbligo. Così come il

cappello in stile Borsalino, il sigaro in bocca e

il vestito lungo. Era chiaro che quest’anno gli

anni Venti dovevano fare da padroni, anche se

con una patina di eccentrico anacronismo che

fa sempre tanto italiano.

L’anno è cominciato e il Must italo-interna-

zionale della moda maschile è riapprodato a

Firenze, come sempre, col suo passo ondulato

da red carpet, e quel profumo dolciastro che

tradisce ogni volta il suo passato da Fonzie di

periferia. Pitti è tornato, con il suo look im-

pomatato e le sue abitudini indefesse. I locali

hanno tirato fuori le loro lavagnette per ag-

giungere la dicitura “Pitti” alle solite miscele

di cocktail fatti di zenzero e gin della Conad.

L’avevamo aspettato tutti anche quest’anno,

il Pitti, per poter raccontare che quella festa

era davvero troppo cool e insistere con la so-

lita gabola del moda misto arte che funziona

sempre e fa sentire tutti così dannatamente

internazionali, pure se poi la sera devi tornare

a Calenzano. Quando a Firenze c’è Pitti, sono

tutti quanti appena tornati da un workshop

a Berlino con Marina Abramovich. Lo stes-

so workshop di cui avevano parlato quei due

conosciuti nel viaggio on the road in Thailan-

dia...

Anche quest’anno però, il buon vecchio Pitti

ha portato qualcosa di insolito. Da qualche

parte, in un angolo un po’ meno trafficato, in

qualche strada poco battuta da tacchi e riflet-

tori, è accaduto qualcosa. Qualcuno è passato

col naso per aria, un po’ per caso, in sordina.

E si è fermato di fronte a una vetrina a pochi

passi dal Ponte alla Vittoria.

Dietro al vetro c’erano dei libri che parlano

della Moda con la M maiuscola. La moda

quando è nata, un po’ provocante un po’ pro-

vocatoria, la Moda ancora un po’ ingenua che

sculetta e ride, fuori dal canto e dalla retorica.

Il passante col naso per aria ha bussato al ve-

tro ed è entrato. Ha chiesto se poteva sfogliare

quei libri, e pagina dopo si è immerso nella

lettura. E poi è successo qualcosa di molto

strano. La sua voce, che era un bisbiglio soffo-

cato, mentre leggeva ha cominciato ad alzarsi

di tono. Di più, sempre di più, tanto da richia-

mare a sé tutte le persone che c’erano intorno

o che si trovavano per caso a passare di là. A

poco a poco, quella voce alta e intonata, ha

cominciato a staccarsi dalle pagine dei libri e

ha cominciato a raccontare storie sue, tutte le

storie che quelle pagine gli avevano fatto ve-

nire in mente. Insomma, a forza di raccontare

e scambiarsi racconti, dietro a quel vetro e a

quelle pagine di Moda è nata un’idea. Desti-

nare lo spazio della vetrina al racconto di sto-

rie. Detto così sembra banale. Ma la faccenda

è un po’ più articolata. L’idea è che chiunque

potrà estrarre i libri da una grande collezione

e disporli come vorrà dietro la vetrina. Impi-

landoli uno sopra all’altro, fino al soffitto, di-

sponendoli uno in fila all’altro, come i tasselli

di un domino. Chiudendoli come clutch da

borsetta, o aprendoli come ventaglio...

E’ soltanto un’idea di un passante venuto per

caso. E’ soltanto una storia. Ma domani o tra

un mese potrebbe diventare realtà, o un abito

o un paio di pantaloni tenuto su con le bre-

telle. Nel frattempo chiunque potrà visitare la

vetrina. Sta in via del Rosso Fiorentino. Non

è troppo illuminata, ma dietro si intravede un

culo stretto in un paio di shorts inguinali e

tante altre copertine di libri. Accanto, un po’

distante, sulla destra, c’è un campanello con

scritto Maschietto Editore. E si può sempre

suonare.

Maschietto Editore – Libri d’Arte

via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142

Firenze tel/fax +39 055 701111

Vetrine d’arte

Vetrine d’autore

di Vittoria Maschietto

820 GENNAIO 2018

Putin ha finito i rubli avendoli spesi tutti

per condizionare le elezioni presidenzia-

li USA, ottenendo peraltro un notevole

successo. Ora però non può più spendere

per aggiustare le elezioni italiane. Dove

è indeciso: usato sicuro (il vecchio amico

Silvio, compagno di tanti festini) o il nuovo

frizzante (l’sbarco-partenopeo Di Maio, con

il suo look Kgb)? Ma di sicuro ha messo a

punto la sua arma segreta: Albano Carrisi.

Pare che gli accordi per una nuova lista,

guidata dal cantante pugliese, siano stati

Le SorelleMarx

Al Bano, il putiniano puglieseconclusi durante il concerto per i 100

anni del Kgb, cui Al Bano ha partecipato

come unico cantante straniero. Al Bano ha

confessato al Corriere della Sera lo scorso 2

gennaio di essere un putiniano della prima

ora: “Lo sostengo da tempi non sospetti. È

un grande. Ha un senso religioso della vita.

Ha il pugno di ferro e non ci vedo nulla

di male. Ormai lo uso molti, a partire da

Trump ma anche da noi. Capisco che nei

casi di mors tua vita mea ci voglia anche

questo”. Allora, giù nella mischia: un lista

“Nostalgia canaglia”, in onore della Gran-

de Madre Russia e del suo Piccolo Padre,

che punta ad essere l’ago della bilancia

della politica italiana: se vince il Berlusca

allora governo di destra, se invece vince

Giggi avanti con un governo dell’altrove.

Unica certezza: Al Bano e le sue Nostalgi-

che Canaglie dentro. Un solo inno: Libertà!

C’è grande subbuglio nel Vecchio Palazzo

di Firenze fra i Giovani Leoni ( che, in

verità, assomigliano piuttosto a facoceri)

perché i consiglieri della sinistra minac-

ciano di uscire dalla maggioranza per le

incaute frasi del presidente del Quartiere

1, Maurizio Sguanci, sul Duce. Il sindaco

Nardella cerca di salvare capre (lo Sguan-

ci, in “sgarbese”) e cavoli (la sua maggio-

ranza).

“ Maurizio, mi hai combinato un bel casi-

no con il tuo post su Mussolini. Ora che si

fa?”

“ Casino? Oh Dario ma tu ci vivi fra la

gente? Pensa, ieri ero alla stazione e c’erano

tutti i treni in ritardo: ma ti rendi conto???

Quando c’era Lui queste cose non succede-

vano! E poi, cosa avrei detto mai?”

“Ah si? Tu hai detto che ha fatto più cose

Mussolini per questo paese in 4 lustri che

tutti gli altri in 20 anni!!!! Ti pare una cosa

da dire?”

“ Perché, non è vero? Scusa Dario, i Patti

Lateranensi, la riforma costituzionale…”

“Ma che sei scemo???? Non nominare la

riforma costituzionale qui che Matteo ha

lasciato le cimici e ci ascolta!! E poi che mi

frega delle riforme. Te devi chiedere scusa

per la cazzata che hai detto: 4 lustri sono

20 anni. È una ripetizione, scemo!”

“Ah, sì? Dici? A me la parola lustro mi

suonava così bene… Va bene, per questo

chiedo scusa”

“ Non a me, grullo; alla Collesei e al Rossi

che vogliono uscire dalla maggioranza!

Tieni, chiamali sul cellulare.”

“Pronto, Stefania? Volevo scusarmi per il

mio imperdonabile errore: 4 lustri equival-

gono a 20 anni….”

Dall’altra parte della cornetta arriva una

serie di improperi che letteralmente spetti-

nano lo Sguanci, il quale riattacca.

“Hai visto, Maurizio: era semplice. Bastava

chiarirsi.”

“ Veramente la Stefania mi ha detto dove

potevo ficcarmi le scuse. Poi ha parlato in

modo preciso su tua madre: la conosce? E

poi mi ha detto che il problema era Musso-

lini e il fascismo: non capisco… Mi sembra

strano… questi son dettagli…”

“Mah, non so che dirti Maurizio… Questi

comunisti sono così vecchi, rigidi… Aveva

ragione la buonanima di Matteo: rottamare

tutti li dovevamo! E ora che si fa?”

“ Ci penso io, Dario… basta che non mi fai

dimettere. Chiamo un mio amico, il mio

consigliere speciale per questo genere di

cose”

“E chi è?”

“Guarda, Dario, un genio. Uno storico di

qualità sopraffina. Anzi, te lo raccomando

per il CdA del Vieusseux. Si chiama Save-

rio Di Giulio. Eccolo qui in fotografia”

Ah rieccolo! Tu sei proprio scemo! Questa è

la foto che suscitò tante polemiche nell’a-

prile 2016”

“ Ma perché? Non capisco? Forse perché …

è di Casa Pound?”

“ No, idiota! Che me frega della casa di

questo Pound… basta che non sia occupata!

No, la polemica era perché questo indivi-

duo ha rovinato l’estetica della foto! Non lo

vedi qui? Come si fa a twittare o a postare

una simile schifezza?”

“ Si, Dario… hai ragione. Che dici, se

chiedo scusa lo possiamo mettere lo stesso

al Vieusseux”

A Firenze piove. Dario si esercita sul violi-

no. Quando furoreggia. I facoceri veicolano

cercando lombrichi. Tutto procede, nel

migliore dei mondi possibili. Come sempre.

I CuginiEngels

Quando c’era lui

920 GENNAIO 2018

disegno di Lido Contemori

didascalia di Aldo Frangioni

Nel miglioredei Lidipossibili

Dobbiamo decidere se la nostra razza di rinoceronti deve continuare a esistere o se deve essere cancellata

messe: pensione minima di mille euro per

tutti.

L’impressione è che si tratti una gara sterile

e inutile. Una sfida destinata a suscitare più

ilarità che passioni. Ad oggi non ho sentito

nessuno tra gli incerti e i disinteressati che

abbia cambiato idea, che sia rimasto folgora-

to in vista del 4 marzo, ritrovando motiva-

zioni e spinta per tornare alle urne. Leggo

invece sondaggi che confermano alti livelli

di incertezza destinati all’astensionismo,

soprattutto tra i giovani. E penso che non ci

sarà nessuna inversione di tendenza fino a

quando una metà del paese continuerà a far

finta che non esista l’altra metà.

Voglio dire che il tarlo che alimenta sfiducia

e disinteresse è nutrito dai crescenti livelli

di disuguaglianza. L’Italia non è un paese

solo rancoroso ma sempre più spaccato tra

ricchi e poveri. Tanto che ai primi segnali di

ripresa non si accompagnano né un ritorno

di fiducia, né un minimo di entusiasmo. Un

recente studio Eurostat ci dice che l’Italia è

in testa alla classifica delle persone in diffi-

coltà. Non si tratta di bruscolini ma di qual-

cosa come 10,5 milioni di italiani che vivo-

no in uno stato di “deprivazione materiale

e sociale”. Un modo per dire che non sono

più in grado di avere una vita dignitosa. E

l’Istat affonda ancora di più il coltello: sono

1,6 milioni le famiglie

in condizione di povertà, il 7,9% degli italia-

ni, che salgono al 10% tra i giovani tra 18 e

34 anni.

Dimenticanze. Mentre tutti i partiti dedi-

cano una costante attenzione ai sondaggi

pre-elettorali, nessuno, dico nessuno, sem-

bra prendere sul serio questa realtà; nessu-

no dice una parola chiara sulla necessità

di ridurre le disuguaglianze, tantomeno si

avanzano proposte per una più equa redi-

stribuzione della ricchezza. Di questo nes-

suno parla, come se si vivesse nel migliore

dei mondi possibili. Confermo: non voterò

per coloro che promettono una riduzione in-

discriminata di tasse.

Segnalidi fumo

Promesse e dimenticanze. Partiamo dal-

le prime. Si promette di tutto in vista del

voto del 4 marzo, sperando in questo modo

di aumentare i consensi. Tra voli pindarici

e fantasiose acrobazie, c’è chi promette l’a-

bolizione del canone Rai, chi del bollo auto

e chi delle tasse universitarie; oppure chi

promette il reddito garantito e chi la retribu-

zione minima di 10 euro; chi il superamento

del jobs act o la riduzione dell’aliquota sui

redditi al 15%. Fino alla promessa delle pro-

di Remo Fattorini

1020 GENNAIO 2018

Le forme visibilidei pensieri invisibili

L’Arte di Luca De Silva è un viaggio della men-

te e nella mente, teso a sondare i campi mistici

e misteriosi dell’armonia e dello spirito, in una

continua e incessante creazione capace di an-

nientare il tempo e fare dello spazio un connu-

bio di espressione ed emozione. In questo per-

corso intimo che perdura dagli anni Sessanta a

oggi, Luca De Silva ha aperto le porte della sua

personalissima carriera offrendo, negli spazi

espositivi della Biblioteca San Giorgio, un cam-

mino di conoscenza e di scoperta nonché una

sintesi cronologica e tematica delle tappe più

importanti della sua ricerca estetica. Libri d’ar-

tista, libri oggetto, installazioni e piccole opere

dialogano fra le vetrine e gli spazi della Biblio-

teca per offrire ai visitatori un corpus completo

e monografico di un artista che ha dedicato la

propria vita all’Arte e all’arduo tentativo di dare

un senso alla Vita e ai complessi legami comu-

nicativi della modernità. Un viaggio all’interno

di una filosofia estetica estremamente originale

ed inedita che l’artista ha diviso in vari periodi

della sua vita: nel “Corpo ideale” la ricerca «era

giocata su ritmi di colore nero lucido su nero

opaco per poi passare a una geometria accen-

nata e anche frantumata di colore», sulla scia di

«ritmo cosmico» capace di indagare gli elemen-

ti più spirituali e creativi dell’arte; nel “Corpo

antropologico” con la serie delle “Impronte” e

dell’ “Omaggio ai nostri padri” si riscopre «la

pelle delle cose», la traccia e l’oggetto dell’e-

sistenza umana come testimonianza di una

storia che dal primitivo torna al presente per

concretizzarsi in una memoria senza tempo;

nel “Corpo psicologico” l’attenzione artistica

si sposta verso la dimensione dell’inconscio e

dell’onirico, ossia laddove l’emotività fa da pa-

drona amalgamandosi nelle pulsioni collettive;

nel “Corpo assente o virtuale” l’opera d’arte

di Laura Monaldi

diviene un viaggio mentale nei regni sconfinati

dell’immaginario, dove il «corpo» si manifesta

nella sua assenza e nella sua presenza immagi-

naria; nel “Corpo d’arte” l’artista si riappropria

del corpo come elemento fagocitante e canni-

bale che diviene esso stesso opera d’arte in un

gioco di luci e apparizioni epifaniche; infine nel

“Corpo di sogno” si esplica una delicata sintesi

fra l’immagine e l’azione che concretizza l’ope-

ra nella sua genesi più performativa ed evocati-

va. La prassi che Luca De Silva offre nelle ve-

trine della Biblioteca San Giorgio una ricerca

dialettica, fatta di continue riflessioni e riman-

di estetici, capaci di cogliere l’essenza stessa e

il principio fondante del fare arte. Allo stesso

modo è l’eclettismo di base che rende l’artista

emotivamente partecipe al proprio presente,

come si percepisce sfogliando e contemplan-

do le pagine, i pensieri e gli aforismi custoditi

nel suo ultimo libro pubblicato recentemente

da Morgana Edizioni dal titolo paradigmati-

co “Utopie”, oppure ascoltando i testi poetici

cantati da Francesco Pinzani con le musiche di

Cristiano De Silva contenuti nel CD a tiratura

limitata “La mia eternità”. Tutto ciò perché per

Luca De Silva l’arte altro non è che un conti-

nuo sfuggire alle regole di un gioco troppo limi-

tante per un’anima così eternamente creatrice.

1120 GENNAIO 2018

di Sergio Favilli

Dentiere per tutti

Va bene che in Italia ci sono 11 milioni di

adulti creduloni che frequentano abitualmen-

te maghi, cartomanti e fattucchiere, va bene

che siamo in piena campagna elettorale dove

c’è chi promette “dentiere per tutti”, dove si

ipotizzano pensioni da mille euro anche per

chi non ha pagato mai i contributi, dove tutti

dicono che intendono abbassare le tasse, dove

non si prospettano maggiori posti di lavoro ma

rendite assistenziali a pioggia, dove nessuno osa

dire quali saranno le coperture finanziarie delle

sue promesse, va bene che i venditori di tappeti

nel nostro paese son sempre ascoltati, ma forse,

recentemente, si è superato il limite!! Quando

un leader politico sostiene con convinzione che

il suo partito o movimento riuscirà a triplicare,

ripeto TRIplicare il numero dei propri parla-

mentari, siamo al vero e proprio delirio delle

balle spaziali!! Non è che questa affermazione

sia stata fatta dal Segretario del Movimento

Autonomo di Roccacannuccia, no, questa ame-

na ed incredibile affermazione l’ha fatta un lea-

der che si dichiara “in odor” di Palazzi Chigi!!!!

Anche un bimbetto di prima media ripetente

potrebbe calcolare che, con la legge attuale, per

raggiungere mediamente i 360 parlamentari

occorre arrivare almeno ad un risultato eletto-

rale del 45/50%, cosa statisticamente e storica-

mente impossibile!! Che fare?? Nella speranza

che masanielli, pifferai magici e fattucchiere si-

ano rifilati in soffitta, domani mattina vado alla

Camera di Commercio per aprire una catena

di negozi denominata “L’anello al naso” , ho già

anche un finanziatore occulto, un vecchio co-

mico sul viale del tramonto che, ormai, fa solo

piangere!!!

vicino le tue debolezze”.

Lo spirito che anima le tracce è stato conce-

pito a Tokyo, ma altre metropoli simboleggia-

no lo smarrimento e la solitidune alle quali si

accennava prima: ecco quindi “Istanbul” e

“Manhattan 5am”.

Ricco di melodie delicate ma mai leziose,

espresse in un linguaggio esplicito e diretto,

Nocturne conferma ancora una volta il ta-

lento compositivo del pianista. Il solido baga-

glio tecnico e il calore umano fanno di Remo

Anzovino un musicista nel senso più pieno e

più profondo del termine, un poeta capace di

esprimersi senza usare le parole.

“La musica e il diritto sono entrambe discipli-

ne che richiedono rigore e forma, da un lato,

intuizione e fantasia, dall’altro”: con queste

parole Remo Anzovino, avvocato e composi-

tore, si presentava ad Alessandro Sgritta nel

2006. L’intervista fu realizzata poco dopo

l’uscita di Dispari (La Frontiera/Rai Trade,

2006), il suo primo CD. Da allora sono pas-

sati 12 anni, nei quali il pianista friulano ci ha

offerto una musica ricca di sensazioni, pensie-

ri, riflessioni.

Grande appassionato di cinema, Anzovino ha

musicato fra l’altro il celebre film muto Na-

nook di Robert Flaherty. Ha scritto musiche

dedicate ad avvenimenti e figure centrali del

Novecento, come il disastro del Vajont (“Su-

ite for Vajont”, in Vivo, 2013), Pier Paolo Pa-

solini (L’alba dei tram, 2015) e Cassius Clay/

Muhammad Ali (Fight for Freedom, 2017),

quest’ultimo realizzato con Roy Paci.

In tutti i lavori realizzati finora era stato af-

fiancato da varie formazioni o da prestigiose

orchestre. Mancava però un disco dove il pia-

no fosse il protagonista assoluto. A colmare

questa lacuna ha provveduto Nocturne (Sony

Classical, 2017), l’ultimo lavoro di questo arti-

sta poliedrico, che si esibirà al Teatro Puccini

di Firenze mercoledì 24 gennaio.

Nel nuovo lavoro, come si diceva, domina il

piano, accanto al quale compaiono talvolta

dei solisti e la London Session Orchestra, ar-

rangiata e diretta da Stefano Nanni.

Anzovino ha studiato a fondo i celebri Not-

turni di Chopin, li ha esplorati e sezionati ad-

dentrandosi nei dettagli più nascosti della loro

struttura. In brani come “Nocturne in Tokyo”

e “Miss you” ha coagulato il frutto della sua

indagine, mantenendo ciò che definisce “il

frutto di quella planimetria”, che però ha rilet-

to con la sensibilità di un musicista moderno.

Ed è proprio la modernità il cardine attorno

al quale ruota il disco: “fatta di smarrimento e

solitudine”, dice il musicista, ma “questi sono

anche il bello del tempo in cui viviamo”.

Il disco può essere considerato una sorta di

racconto, ambientato in “in una notta nella

quale fai un bilancio della tua vita e guardi da

di Alessandro Michelucci

MusicaMaestro

Le emozioni della notte

1220 GENNAIO 2018

Mai rinvenimento archeologico di tale rile-

vante importanza fu tanto inaspettato da co-

gliere impreparati gli stessi tutori istituziona-

li: “Un’antica città in un luogo impensabile:

quando alcuni anni fa la Società Interporto

della Toscana Centrale scelse quest’area per

realizzare il più grande scalo-merci ferrovia-

rio della Regione, non era stata in alcun modo

presa in considerazione l’ipotesi che questa

parte del territorio di Prato, posta ai confini

con i Comuni di Campi Bisenzio e di Calen-

zano, in una zona a utilizzazione agricola, pia-

neggiante e priva di urbanizzazione recente,

potesse celare una scoperta archeologica di

straordinaria importanza, decisamente rivo-

luzionaria per la storia più antica dei luoghi

oggi occupati dalla periferia della città di Pra-

to” («Archeo», marzo 2001). Così le archeo-

loghe Poggesi e Bocci della Soprintendenza

fiorentina si espressero sulla scoperta dell’in-

sediamento etrusco su Bisenzio. Ma facciamo

un passo indietro, perché la storia dell’area

archeologica di Gonfienti, comincia sul finire

del 1996, grazie alla reiterata e circostanziata

segnalazione da parte di Silvio G. Biagini, ap-

passionato cultore di storia antica che, a quel

tempo, lavorava all’Interporto presso la Doga-

na e che già l’anno prima, durante la costru-

zione del fosso attiguo al piazzale merci, ave-

va segnalato i resti di una strada acciottolata

orientata SE- NO, valutata sulle prime come

il paleo alveo di un torrente. Alla luce di que-

ste scoperte mi domando ancor oggi perché

al Biagini non sia stato conferito per meriti il

titolo di ispettore onorario. Tornando ai fatti:

nell’area detta «Pantano 2», a circa 700 metri

dall’antica pieve di san Martino a Gonfienti,

erano riemersi diffusi reperti strutturati e coc-

ci vari dove si stava scavando per realizzare un

bacino idrico di compenso per le acque reflue

a servizio delle infrastrutture interportuali;

dopo pochi mesi, a circa 500 metri di distanza

dai primi, nel corso dei lavori di livellamento

dei terreni per l’edificazione del un lotto 15 F,

furono dissodati due complessi edificati. Tut-

tavia, nel 1997, dopo che i lavori di sbanca-

mento (non sospesi dopo i primi ritrovamenti)

avevano messo in luce un notevole quantitati-

vo di reperti fittili (tra i quali – come segnalato

dal suo scopritore – un frammento di vaso a

figure nere su fondo rosso), la Soprintendenza

fiorentina finalmente interviene con l’effet-

tuazione di due piccoli saggi dai quali emer-

gono con chiarezza le fondamenta a cassafor-

ma di costruzioni contestualizzabili al periodo

etrusco arcaico.

Sui quei primi ritrovamenti archeologici ritor-

nerà Gabriella Poggesi, responsabile di zona

Quei resti etruschi a GonfientiFrammenti di cronaca di un ritrovamento “quasi fortuito”

di Giuseppe Alberto Centauro

per la SBAT, che racconterà alcuni anni più

tardi a «La Repubblica» (Firenze, 24 luglio

2005): “Il primo sopralluogo ai resti, nel ’97,

si svolse in un’atmosfera di grande tensione.

Sapevo di avere davanti qualcosa di impor-

tante, ma non sapevo se saremmo riusciti a

difendere dai grandi interessi in gioco con

l’interporto”.

A Gonfienti, solo nell’estate del 1999, venne-

ro effettuate le prime indagini archeologiche.

In una nota SBAT del 24 settembre 1999 in-

viata al Comune di Prato, si legge: “Nell’area

del bacino di compenso di Gonfienti stanno

tornando alla luce complessi strutturali di di-

mensioni notevoli … Si tratterebbe di un inse-

diamento di età ellenistica, miracolosamente

conservato fino ad oggi … E’ evidente che la

scoperta è di notevolissima importanza per la

storia più antica di Prato, in quanto riconduce

almeno all’età ellenistica l’esistenza di centri

La segnalazione del 1996 (da: Carta Archeologica

della Provincia Prato, SBAT 2011, p.311)

1320 GENNAIO 2018

stanziali nel territorio; non si può d’altra par-

te escludere fasi di utilizzazione più antiche

del complesso, che potrebbero emergere con

l’auspicabile approfondimento dell’indagine

archeologica.… Naturalmente la Società In-

terporto è stata ufficialmente informata che

qualsiasi ulteriore lavoro di scavo nell’area in

questione doveva essere comunicato a questo

Ufficio per le necessarie esigenze di tutela e

che dovevano in ogni caso essere effettuate

indagini archeologiche per poter valutare

l’estensione fisica e cronologica del comples-

so”. Nella riunione del 27 ottobre 1999 tra

Comune e SBAT viene stabilito di effettuare

sondaggi. Su «La Repubblica» del 22 settem-

bre 2000, la direttrice Poggesi dichiara: «per

ora pensiamo che si tratti di un abitato di oltre

2 ettari e mezzo”; l’8 ottobre su «La Nazione»

il presidente dell’Interporto dichiara di avere

già speso oltre 250 milioni (diventeranno in

breve 500) per finanziare gli scavi e che gli

ettari ancora da scoprire sono almeno cinque

(saliranno entro l’anno a 11 con l’apertura

di un nuovo cantiere). Eloquente il titolo di

apertura dell’articolo: “Parco archeologico e

interporto. Una scommessa tra passato e fu-

turo” che annuncia la messa in luce di: “una

strada larga 10 metri e una serie di complessi

abitativi con tanto di canaletti di scolo delle

acque”. Questa lunga gestazione dei primi

saggi esplorativi si conclude con un resocon-

to pubblicato su «Archeo» dell’emblematico

titolo “Etruschi di periferia”. Così il soprin-

tendente Bottini: “… sono stati costantemente

seguiti tutti i lavori che comportano asporta-

zione di terreno; inoltre, i diversi lotti dell’in-

tera area sono stati di volta in volta sottoposti

ad indagini geofisiche e alla successiva verifi-

ca di anomalie evidenziate, mediante saggi di

profondità. E’ stato così possibile realizzare

una mappa con le zone a rischio, all’interno

delle quali ha preso avvio la ricerca arche-

ologica vera e propria, interamente finan-

ziata dalla Società Interporto della Toscana

Centrale”. In seguito agli oneri finanziari e

al “congelamento” di vari ettari edificabili,

Camera di Commercio, Unione Industriali

e Cari-Prato, soci dell’Interporto, scrivono al

Sindaco Mattei in merito “all’ultimo grave

problema: quello della ennesima scoperta –

in sé positiva ma ‘inopportuna’ quanto all’’u-

bicazione dei reperti – di vestigia etrusche”.

Tuttavia le maggiori e più clamorose evidenze

archeologiche dovranno ancora manifestarsi e

bisognerà aspettare il 2003 per averne piena

cognizione. Ma già pare incombere sulla città

etrusca un palese conflitto d’interessi, tra con-

trollore e controllato, quasi fosse uno spettro

aleggiante sugli scavi ancora a venire.)

Planimetria tratta dalla Carta

Archeologica della Provincia di

Prato, © SBAT 2011, p. 320,

riguarda le tracce (Lotto 15 F/G)

dell’insediamento etrusco messe in

luce nel 2001.

1420 GENNAIO 2018

di Paolo Marini Rileggo alcune pagine del diario di Etty

Hillesum, da lei scritto tra il 1941 e il 1943,

prima di morire a soli ventinove anni.

Etty è (non ‘era’ né, tantomeno, ‘fu’) una ra-

gazza unica. Dotata di una sensibilità e di

una intelligenza fuori dal comune, ha accet-

tato “con gioia la bellezza di questo mondo

di Dio, malgrado tutto”. In quel “malgrado

tutto” c’è il male che essa poco a poco co-

nosce ed affronta; è come misteriosamente

preparata e così, non solo lo accetta, ma gli

va generosamente incontro.

Etty è per caso pazza? Forse. O forse ha

soltanto preso una decisione fondamentale,

ancorché incomprensibile ai più: ha scelto

di fidarsi di Dio. Il resto è tutto e soltanto

una logica conseguenza.

A Dio l’ha condotta la sua “irrequietezza

‘creativa’”. Gli chiede di essere più e più

volte presa nella Sua grande mano e di di-

ventare Suo strumento. Tenerezza e gran-

dezza, allo stesso tempo, di una piccola don-

na che ha pure i desideri, i dubbi, i pensieri

di tante coetanee.

E’ Dio che fa la differenza. Ne pronuncia

ripetutamente il nome ed esorta ad averne il

coraggio (quanto mai necessario, nell’oggi!).

La concentrazione che scaturisce dalla pre-

ghiera edifica quegli “alti muri” in mezzo ai

quali può ritrovare se stessa e la sua unità,

“lontana – scrive - da tutte le distrazioni”.

E così, in questa solitudine del cuore ma

senza fughe dalla realtà (che anzi legge sin

nel profondo) né dagli altri (coltivando rela-

zioni sociali e personali), Etty è una donna

che irradia luce, tanto di più dove fa molto

buio. Le sue non sono pagine ‘trionfali’, rac-

chiudono soltanto una ineguagliabile uma-

nità. Non pretende di possedere il mondo,

ne accetta le contraddizioni: un “lungo e

doloroso processo” - anzi, un vero appren-

distato del dolore – ha forgiato in lei una

spiccata autonomia, “la presa di coscienza

che (...) non esiste alcun aiuto o appoggio

o rifugio presso gli altri”, perché essi “sono

altrettanto insicuri, deboli e indifesi”; soffre

interiormente una battaglia sanguinosa, da

cui esce ogni volta sfinita ma (più) consape-

vole, capace di godere della bellezza anche

in mezzo all’odio e alla bestialità, forte di

una svolta: “è in te che le cose devono venir

in chiaro, non sei tu che devi perderti nelle

cose”.

La giovane donna vive dunque momenti

drammatici, segnati da una “oppressione

di piombo”, eppure ama la vita ed è rico-

noscente per tutto il tempo che ha a dispo-

Non devi perdertinelle cose

sizione. E’ un amore, il suo, che attinge da

quella sorgente interiore, quel luogo intatto

e recondito in cui incrocia quotidianamen-

te Dio.

Nel diario è anche un abbozzo di estetica

della narrazione, che si lega perfettamente

alla mistica di questa scrittrice ebrea olan-

dese: Etty vorrebbe scrivere “con altret-

tanto spazio intorno a poche parole”, sen-

za cercare le ‘belle lettere’ ma “parole che

siano organicamente inserite in un grande

silenzio, e non (...) che esistono solo per co-

prirlo e disperderlo”. Essenzialità e silenzio

si alimentano a vicenda, si compenetrano.

Un giorno del ‘43, il 30 novembre, tutto que-

sto vitalissimo, magmatico mondo interiore

incontra il capolinea terreno. Etty ha scelto

di condividere la sorte di tanti ebrei prigio-

nieri: parte per Westerbork e lì si trova “da-

vanti al nudo steccato della vita” (“davanti

alla sua ossatura, libera da qualsiasi costru-

zione esterna, Mio Dio, ti ringrazio perché

m’insegni a leggere sempre meglio”); viene

quindi deportata ad Auschwitz.

In lei era già matura la consapevolezza che

“tutte le cose indispensabili che sono state

rimandate per una vita intera devono esse-

re sbrigate con urgenza”. La morte “grande,

semplice, e naturale” - insieme ad una gra-

duale rarefazione delle “raffinatezze della

civiltà” - si era già lasciata riconoscere al suo

cospetto. Ma la luce della sua anima aveva,

ha continuato a splendere e lo fa ancora, an-

che in questo momento.

Etty ci consegna con il diario una lunga ode

alla vita, una diffusa preghiera di ringrazia-

mento a Dio, il suo sicuro investimento nel-

la fede e nell’amore.

Che Dio sia con te, Etty.

1520 GENNAIO 2018

Women House, la mostra femminista, radi-

cale e a volte ironica presentata nello spazio

espositivo con magnifica vista sulla Senna del

palazzo della Monnaie, la Zecca nazionale

della Francia, a Parigi in Quai de Conti 11, ha

suscitato in molti qualche perplessità. Un’e-

sposizione al 100% femminile con quadri,

fotografie, sculture, installazioni, tessuti, filma-

ti... di 39 artiste, note o emergenti, provenienti

da diverse parti del mondo che ha come tema

il rapporto tra la donna e lo spazio domestico

inteso come rifugio o come esilio (la prison du

foyer). La mostra, dopo la tappa parigina, sarà

accolta al National Museum of Woman in the

Arts a Washington. L’intento della sua orga-

nizzatrice, Camille Morineau, è anche quello

di portare a sempre maggiore conoscenza la

creatività femminile penalizzata, secondo la

storica dell’arte, rispetto a quella maschile.

La stessa Morineau è a capo di un’organizza-

zione no profit chiamata Aware (Archives of

Women Artist Reserarch & Exihipitions). Nel

2009 aveva curato, sempre a Parigi, Elle@

Pompidou, una delle principali mostre dell’ar-

te femminista del periodo.

La necessità di trovare uno spazio personale,

un rifugio, in casa propria fu teorizzato da

Virginia Woolf nel libro “Una stanza tutta per

sé” del 1929. E’ questo l’anno nel quale inizia

la mostra per creare un percorso che arriva ai

giorni nostri passando attraverso gli anni ‘70,

momento di ribellione delle artiste contro la

privazione di uno spazio reale (di esposizio-

ne) e simbolico (di riconoscimento). Il titolo

della mostra è un omaggio a un evento, Wo-

menhouse, organizzato in quel periodo a Los

Angeles da Judy Chicago e Mirian Schapiro

che, in linea con il movimento femminista che

anche nell’arte cercava il suo spazio, misero a

disposizione di 25 artiste una casa abbando-

nata per trasformarla con le loro opere in un

manifesto di protesta sulla condizione della

donna. La mostra parigina, che si apre con

una enorme, coloratissima scultura di Niki de

Saint Phalle, Nana House II, e termina con un

altrettanto grande ragno di Louise Bourgeois,

rappresentazione degli aspetti protettivi e ter-

rificanti della figura materna e qui simbolo del

potere femminile, si sviluppa in otto sezioni

che mostrano la varietà dei punti di vista delle

artiste presenti: femminista, poetico, politico o

nostalgico.

A chi ha espresso il dubbio che fare una mo-

stra di sole artiste tenda a ghettizzare anziché

celebrare il loro lavoro, Camille Morineau ri-

sponde senza incertezze: è in un certo senso

un gesto politico e dispiace avere ancora biso-

di Simonetta Zanuccoli

Sorella arte gno di fare questo gesto.

Non ci rimane quindi che sperare che arrivi

presto il giorno che queste esposizioni di gene-

re non saranno più necessarie e il lavoro del-

le donne sarà semplicemente mostrato come

Arte e non come Arte Femminile. Nel frat-

tempo esorto le amiche che si dilettono come

me con tele e pennelli di sostenere le nostre

sorelle artiste e andare a vedere Women Hou-

se prima che finisca il 28 gennaio.

1620 GENNAIO 2018

Ok, va bene la fotografia di Storaro (già in

“Cafè Society”), la regia sapiente, il movi-

mento studiato delle macchine da presa…

ma la realtà ci offre l’ennesimo esercizio di

stile del Woody-Allen-di-Natale. La cosa

che infastidisce, al netto di alcune gemme

di rara bellezza (su tutte la telefonata “abor-

tita” di Ginny), è l’impalpabile anelito di

costrutto fondato su didascalie fin troppo

annunciate. Insomma: il simbolismo de “La

Ruota delle Meraviglie” è semplicemente

ridicolo. Allen oramai assomiglia sempre di

più a certi allenatori di calcio dagli schemi

logori che continuano a riproporre il mede-

simo modulo (un tempo foriero di successi)

sfruttando fino allo stremo la grandezza

di certi campioni. Soltanto che, a un cer-

to punto, vuoi per ragioni di logoramento,

vuoi per ragioni di anzianità, gli uomini

di sport hanno quantomeno il buongusto

di ritirarsi dall’attività agonistica, magari

in favore d’una carriera da commentatori

televisivi, o di rappresentanza. Qui l’osti-

nato Allen (che non possiede l’immarcesci-

bile necessità espressiva di un de Oliveira)

spreme fino all’osso la classe di Kate Win-

slet e Jim Belushi, ne vampirizza anima

ed essenza al fine di produrre poche stille

di nettare in un’opera confusa, infarcita di

citazioni sterili, manieristica fino alla nau-

sea. Il magnifico caleidoscopio generato da

Storaro evidenzia semmai - per contrasto

- tale pochezza di idee, tutte cristallizzate

nelle iconcine dei personaggi, in una sorta

di presepe del ricordo che fa tanto nostal-

gica piéce disneyana. Il dramma reale è che

Allen ha smarrito la sua visionarietà. Ancor

peggio: Woody Allen è oramai incapace di

farci ridere! E’ diventato un tessitore di tra-

me sterili, acconciate da cinema autoriale,

confezionate come il bel regalino inutile da

mettere sotto l’albero. Ormai si va a vedere

il cinema di Woody Allen per “spacchet-

tarlo”. Perfino i due killer (straordinarie

maschere de “I Soprano”) paiono essere lì

per il puro gusto della citazione, masche-

re aliene conficcate a forza in un contesto

sbagliato (“I Soprano”: andatevi a rivedere

quella straordinaria serie se volete davvero

riconciliarvi col Cinema). Coney Island è

il presepe, la cornice immanente in cui il

regista demiurgo relega e confina i suoi per-

sonaggi. Il problema è che la tragedia che

dovrebbe dispiegarsi in questa agorà rima-

ne invece accartocciata fra le lamiere della

ruota panoramica, fra le pastoie del suo ste-

rile impianto concettuale, con risultati che

rasentano il patetico (vedasi il forzato mo-

nologo finale di Ginny, talmente paludato

e fuori da ogni tempistica teatrale e cine-

matografica da indurre alla contumelia. Im-

maginate una sorta di epilogo dell’Odissea

con Ulisse in preda al mal di mare). Al di là

delle belle apparenze, ne “La Ruota delle

Meraviglie” non funziona quasi nulla. Non

c’è nessuna tensione che non sia frutto del-

la recitazione. Mai come in questo film ho

visto gli attori…recitare. Una cosa davvero

insostenibile, figlia di un approccio coerci-

tivo e rigido che ben mi ricorda certe griglie

compositive in grado di rendere asfittica,

ad es., un’opera musicale. Invano ho atteso

un segnale da parte del Deus Ex Machina,

l’enorme mano che forza il cielo di cartape-

sta e irrompe nella scena facendo a pezzi la

“Ruota delle Meraviglie”. Da quanto tempo

si attende un segnale visionario del genere

in un film di Allen? D’un qualcosa che

possa polverizzare il “contegno” borghese

di ogni sua ultima opera? Impossibile: è la

poetica di un cinema centripeto che na-

sconde una “volontà d’impotenza”; è il gat-

to che non si morderà mai la coda, il gatto

alleniano che implode nella spirale interna.

Evviva dunque il bambino piromane: ma

facciamogli dare fuoco anche a ‘sta pellico-

la! Che bel finale che sarebbe stato, vecchio

caro Woody. Impara da Buster Keaton!

di Francesco Cusa

Il ridicolo simbolismo della Ruota delle meraviglie

1720 GENNAIO 2018

te spaesata, è andata a coltivare lavanda in

Provenza, Monica perché il marito parruc-

chiere dal taglio troppo facile si trova in va-

canza a Rebibbia; sarà l’affetto e il senso di

responsabilità verso i figli che li accomuna

a trasformare lo scontro iniziale in un rap-

porto possibile. L’equipe degli sceneggiatori

e della regia ha lavorato davvero a lungo a

Bastogi, tanto che alcuni abitanti del quar-

tiere sono entrati felicemente a far parte del

cast; particolarmente divertenti Alessandra

e Valentina Giudichessa, nel film Pamela e

Suellen, sorellastre gemelle di Monica, che

parlano all’unisono e si dedicano a quello

che definiscono eufemisticamente “shop-

ping compulsivo”, in realtà saccheggiando

sistematicamente i supermercati del quar-

tiere. Lo si potrebbe definire un film sulla

nuova incomunicabilità o anche sugli effetti

possibili di una contaminazione reale; non

manca qualche cliché come quello della do-

mestica immigrata classista o l’eccesso mac-

chiettistico di Claudio Amendola, marito di

Monica in uscita dal gabbio così come nel

fumetto su Coccia de morto; sono invece

trattate con ironica maestria le manie dei

radical chic sia a Capalbio che a Roma dove

nel cinema d’essai Monica non comprende

perché non si possa mangiare qualcosa ve-

dendo il film in lingua originale armena né

tanto meno alzarsi prima della fine dei tito-

li di coda. Un film brillantemente comico,

ben diretto e recitato, che si chiude con un

apertura di speranza senza retorica.

Che le divisioni socioeconomiche e cultura-

li tra strati diversi della popolazione in Italia

nel 2018 siano profonde come strapiombi è

un dato piuttosto evidente ma l’ultimo film

di Riccardo Milani “Come un gatto in tan-

genziale “ lo descrive e approfondisce con

grazia ironica e senza retorica, con ottimi

tempi comici garantiti soprattutto dal tan-

dem Albanese/Cortellesi, “squisitamente

complici”. È un vero sollievo ritrovare un

film commedia italiano che non sia , come in

tutto un recente passato, solo una sequenza

di spot senza un vero filo logico e narrativo;

qui la tendenza si inverte, forse anche per-

ché si parte da un’esperienza reale di vita

del regista e per il lavoro intenso fatto sul

campo nei quartieri romani. In sintesi, Gio-

vanni, Antonio Albanese, è un intellettuale

agiato, molto sobrio, abita in un lussuoso ap-

partamento nel centro storico della capitale,

è un progressista e lavora come consulente

di una think tank che elabora progetti per

l’ottenimento di fondi europei destinati al

recupero delle periferie urbane degradate,

viaggiando con la sua equipe tra Roma e

Bruxelles; la sua esistenza viene sconvolta

dalla scoperta che la figlia tredicenne, Agne-

se, è innamorata di un coetaneo dall’appa-

renza piuttosto coatta , Alessio, che abita

in una delle periferie sulle quali Giovanni

disquisisce a Bruxelles, senza mai averle

frequentate e precisamente Bastogi, sei pa-

lazzoni tra Torrevecchia e Quartaccio, che,

come dice un collega napoletano di Giovan-

ni, “fa sembrare Scampia un centro benes-

sere”. Un amore, quello di Alessio e Agne-

se, che si tatuano sui polsi le rispettive “A”,

destinato appunto a durare, come dice Mo-

nica, “come un gatto in tangenziale “. L’in-

contro/scontro di Giovanni con Monica,

una Cortellesi a tratti esilarante, ma sempre

con umanità e amore per il personaggio e la

necessità di tuffarsi nel temibile Bastogi che

si apre con la scritta “Lassate ogni speran-

za o voi k’entrate”, saranno la sostanza della

narrazione successiva. Due personaggi, ap-

parentemente molto lontani tra loro, come

si evidenzia quando insieme portano i figli

al mare, una volta a Coccia de’ morto, spiag-

gia libera in pieno degrado, frequentata da

Monica, ex cassiera che lavora alla mensa di

una casa di riposo per anziani e Capalbio,

dove Giovanni frequenta gli intellettuali ra-

dical chic in vacanza; apparentemente lon-

tani, ma in realtà accomunati dalla condi-

zione di genitori separati; Giovanni perché

la moglie, una Sonia Bergamasco felicemen-

di Mariangela Arnavas

Come un gatto

in tangenziale

1820 GENNAIO 2018

CollineNob, Russian, Telegraph, Portrero sono Hills

(colline). Pacific è una aristocratica Heights.

Delle più o meno quarantatre , così si dice,

colline e collinette che formano la città di San

Francisco una le sovrappassa tutte per altezza.

Non è una “hill” né una “heights”, ma qualco-

sa di più: è un “peak”, anzi, molto di più, è un

Twin Peaks.

Pacific HeightsPacific Heights, high on the Pacific, con le

strade che scendono parallele verso l’acqua

della baia come solchi di un trattore in un cam-

po coltivato.

Pacific Heights è un altopiano da cui si può

ammirare il traffico di navi. Passano lente le

navi, isole in movimento, accanto ad Alcatraz,

isola vera dall’aspetto di una nave abbandona-

ta.

Sulle strade si alternano le ville in vari stili :

Tudor, Georgean, French Hotel, Palladian,

Coloniale. Sono belli i tramonti oltre le fine-

stre delle belle case, accesi i caminetti nei sa-

lotti decorati. Sono ben curati i fiori dei giar-

dini, lucide le Jaguar e Bmw’s dentro i garage.

Garage SaleLa parte più intoccabile della strada è dove il

cordolo dei marciapiedi (curb) si assottiglia e si

fa piatto per chiarire che lì non ci si ferma con

la macchina, lì c’è un garage! “Tow away , day

and night” è spesso ricordato da un cartello. Il

garage è spazio sacro, ancora più dell’ingresso

della casa. Questi edifici, anche se sembrano

di un’era pre-industriale, sono stati costruiti

quando l’automobile era diffusa.

Nelle strade non troppo commerciali ogni ca-

setta ha il suo garage. Per il proprietario è un

gran vantaggio, perché i posti sono due: uno

dentro e uno davanti sulla strada, dove solo lui

può parcheggiare. Il garage fa anche da stanza

deposito, una specie di cantina della casa e tal-

volta da negozio, il sabato o la domenica matti-

na quando durante il garage sale vi si accatasta

cianfrusaglie di ogni tipo. Questo spazio così

tenacemente protetto, chiuso e indisponibile,

diventa per un giorno spazio pubblico, esten-

sione della strada aperto a tutti: passanti, cu-

riosi, compratori.

Gated CommunitiesLungo le strade sinuose e ben tenute del Presi-

dio si incontrano spesso dei grandi portali che

indicano la presenza di esclusive “gated com-

munities”. Dalla definizione sembra quasi che

il divieto di passaggio non è tanto rivolto a chi

di Andrea Ponsi Mappe di percezione

sta fuori, quindi di entrare, ma un’ auto-impo-

sta reclusione per chi sta dentro, quindi di usci-

re. Le “gated communities” rappresentano una

delle forme estreme del “defensible space” ur-

bano. Sono il segno della voglia di mettere con-

fini, del desiderio di convivere con chi ci è più

simile, della insicurezza che trasmette la città:

la conseguenza è la progressiva erosione dello

spazio pubblico a favore del privato. Si dirà: è

un bisogno primordiale; tutte le porte, i cancel-

li, i ponti (levatoi) non hanno la stessa funzio-

ne? Non servono a proteggere dal pericolo, a

scoraggiare gli intrusi, a unire gli assediati?

Cable carsC’è un edificio all’angolo di Washington Street

e Mason Street che è il motore ( powerhouse)

di tutte le cable cars della città. Come in una

fabbrica di fiaba, in una grande sala all’inter-

no del palazzotto di mattoni, quattro immense

ruote girano con un assordante sferragliare ti-

rando tutti i cavi di acciaio che scorrono sotter-

ranei nelle strade. A quei cavi si aggrappano

le cable cars per scalare, e scendere, i colli più

scoscesi.

Nelle strade il cavo non si vede, ma si sente

ovunque passa la rotaia. Anche se non ci sono

in vista le vetture, si sente sempre questo con-

tinuo rombare del cavo sotterraneo, questo

brusio di fiume carsico, lo sferragliare nascosto

di una metropoli proto-industriale dell’800

che sembra non fermarsi mai.

Sotto l’ interstizio metallico largo pochi cen-

timetri ma lungo decine e decine di miglia,

che insieme alle rotaie segnano di luccicante

acciaio tante strade di San Francisco, scorre

quel filo comandato da un grande, unico mo-

tore. Un motore alloggiato in un piccolo edi-

ficio che della città è il cuore vivo e pulsante,

creatore di energia e movimento.

San Francisco

1920 GENNAIO 2018

Il gennaio del Teatro di Rifredi è decisamen-

te all’insegna di Serra Yilmaz, l’attrice icona

di Ferzan Ozpetec che da anni è una pre-

senza fissa della stagione di Pupi e Fresed-

de (in cartellone anche questa stagione per

l’undicesimo anno consecutivo) con l’Ultimo

Harem e da qualche anno anche con la Ba-

starda di Instambul, (che sarà in scena Roma

alla Sala Umberto dal 15 al 25 marzo).

Ai due successi ormai consolidati firmati An-

gelo Savelli quest’anno la compagnia di Ri-

fredi ha aggiunto il testo di Coraly Zahone-

ro, autrice e attrice della Comédie Française,

Grisélidis, memorie di una prostituta.

Un testo che l’autrice ha costruito sulle me-

morie e le interviste della prostituta fran-

co-svizzera Grisélidis Réal che visse la sua

“professione” come un’arte, costruendoci so-

pra una poetica che riversò in libri, quadri e

nella sua attività militante a favore dei diritti

delle prostitute.

Lo spettacolo ha ricevuto un’accoglienza

straordinaria in Francia e arriva nel nostro

Paese al Teatro di Rifredi dal 25 al 27 gen-

naio dopo essere andato in scena a Vicenza

nel dicembre scorso.

Serra Yilmaz regala una interpretazione

sentita, calandosi nella parte e portando

Il ministro Franceschini ha diffuso gli ultimi

dati incoraggianti sui nostri siti e musei mag-

giori. Dati che confermano il trend che, da

anni, cresce “naturalmente”, anche per una

generale crescita del turismo d’arte nel mon-

do. Ma questo deve misurarsi, forse, con altre

notizie di segno contrario. La notizia del flop

di iscrizioni ai corsi universitari in “Beni Cul-

turali”, nonché il documento assai critico verso

la politica ministeriale espressa da Franceschi-

ni, sottoscritto da sessantasei studiosi e specia-

listi del nostro patrimonio artistico, sembrano

far emergere una condizione di disagio ben

diversa da quanto prospettataci ufficialmente.

Il documento, ove appaiono firme autorevoli,

quali quelle di Andrea Emiliani, Francesco La

Regina, Licia Vlad Borrelli, Bruno Toscano,

Vezio De Lucia, parte da una considerazione

che, se vera, sarebbe piuttosto grave: il silenzio

imposto ai funzionari e al personale scientifi-

co-tecnico e ai soprintendenti, in particolare.

Il documento dei 66 si ferma su alcuni punti

in particolare: la spesa reale per i beni cultu-

rali che resta fra le più basse d’Europa a fronte

della dimensione del nostro patrimonio artisti-

di Michele Morrocchi

di Burchiello 2000

Serra Yilmaznei panni di Grisélidis,prostituta geniale

Che succede al Mibact?

dalle musiche eseguite in scena da Stefano

Cocco Cantini.

Uno spettacolo che in tempi di regressione

del discorso pubblico e privato sul corpo del-

le donne lo rimette al centro insieme alla sua

dignità e alla sua libertà da (ri)conquistare.

Non ultima, si ricorda la disapplicazione del

codice e della legge sul paesaggio da parte del

ministero che ha lasciato gran parte delle re-

gioni senza “piani paesaggistici”.

Ma altri hanno fatto notare come sia da consi-

derare una grave anomalia istituzionale quella

di stipulare “patti”, direttamente fra ministro e

autorità comunali, bypassando ogni program-

ma delle soprintendenze e depotenziandole

fin quasi ad emarginarle ; cancellando così

una norma fondamentale di buon governo che

ha sempre caratterizzato la programmazione

della spesa (modesta in verità) del ministero

dei beni culturali. Di ciò, un esempio calzan-

te sarebbe proprio Firenze, ove il patto diret-

to col Comune ha prosciugato le risorse delle

soprintendenze, concentrando la spesa sui soli

monumenti di proprietà comunale, abban-

donando la doverosa cura persino dei beni e

dei complessi monumentali demaniali, di pro-

prietà dello stato.

Insomma, il documento dei 66 lamenta una

conduzione del ministero che avrebbe “svuo-

tato la tutela”. Se così fosse, che ne sarebbe di

quel ministero che Giovanni Spadolini for-

temente volle per restituire dignità e ruolo al

nostro patrimonio artistico ?

in scena oltre al testo il suo impegno di in-

tellettuale e di donna mostrandoci questa

prostituta rivoluzionaria, l’approccio dei ma-

schi, la poesia che si può trovare anche nel

“mestiere”, senza però mai idealizzarlo. Una

presenza scenica cruda, diretta, sottolineata

co, l’impegnare risorse in obiettivi futili quali

le gare di canottaggio nella vasca monumen-

tale della Reggia di Caserta, le mostre del Na-

poli calcio nel Museo Archeologico, la valoriz-

zazione dei beni affidata prevalentemente a

fondazioni private. A tacere della sottomissio-

ne delle soprintendenze alle prefetture, dalla

singolare gestione di alcuni concorsi giudicati

in conflitto di interessi dall’autorità anticorru-

zione, del curioso investimento di 18 milioni

per consentire al Colosseo i giochi gladiatori,

ed altro ancora. L’autorevolezza della denun-

cia di ex-soprintendenti e di cattedratici uni-

versitari del settore non può non preoccupare,

soprattutto se si considera l’avvertibile politica

di depotenziamento della tutela e della conser-

vazione a favore di una dominante spinta ver-

so il turismo, mai affrontato con responsabilità

per la dimensione eccessiva e talvolta persino

“distruttiva” che questo ha raggiuto in alcune

realtà di centri storici e musei del paese.

2020 GENNAIO 2018

Mi ha sempre interessato nella Cappella

Capponi la presenza, discutibile per i più,

del cenotafio con reliquia dedicato a S.Car-

lo Borromeo. Non è fatto trascurabile ritro-

vare per volontà dei Capponi nella loro

Cappella questo Santo così legato al Conci-

lio di Trento e così operante in esso nella

sua Sessione conclusiva, Santo che “emanò

Decreti in ordine alla salvezza delle anime”

(cfr. Memoria del Martirologio Romano).

Nato nel 1538, sarebbe ovviamente assur-

do parlare di un suo influsso sulle opere di

Pontormo eseguite nella Cappella tra il

1525 e il 1528; come pure sarebbe anacro-

nistico intravedere il suo pensiero nella

nuova definizione dello spazio religioso che

la nobile famiglia si riservò in S.Felicita.

Eppure il suo legame con i Capponi, anche

se successivo, merita alcune riflessioni in

quanto il Cardinale Orazio Capponi - inse-

rendo nella Cappella il monumento a

S.Carlo - riconoscerà implicitamente un

programma teologico Tridentino dipinto

‘ante litteram’. Va sottolineato che il pensie-

ro teologico e spirituale del Concilio soggia-

ceva in seno alla Chiesa Romana e che non

si cominciò a edificare il suo gigantesco e

vigilante costrutto soltanto a partire dal

1545 (anno dell’apertura conciliare): infatti

la Riforma Cattolica si annunciava già da

prima del 1517 (anno della Pubblicazione

delle 95 Tesi di Lutero); certi punti fermi

che verranno raggiunti dal Concilio erano

stati posti in anticipo dal Savonarola: “l’in-

segnamento del Frate si palesa fecondissi-

mo sul piano etico e religioso, molto oltre la

morte di lui […]; l’incarnazione e la passio-

ne di Cristo aprono all’anima la porta della

felicità eterna” (in “Aspetti della Controri-

forma a Firenze”, di A.D’Addario, ed. Mini-

stero dell’Interno, Roma, 1972, pp.27-28).

Lo stesso esempio di A.Del Sarto si rivelò

fin dal 1523 “del tutto attuale nell’età della

Riforma cattolica […] conoscendo poi […] la

sua inclinazione per la spiritualità severa

del Savonarola” (A.Natali, “Il Cinquecento

a Firenze”, ed. Mandragora, Firenze, 2017,

p.89). Una Riforma Cattolica è dunque in

precoce movimento essendo i suoi effetti

‘retroattivi’ o, se si preferisce, ‘anticipatori’.

Anche nell’opera del Pontormo in S.Felici-

ta (1525-1528) si palesa questa anteprima

controriformata. I Capponi dimostrano con

il Cardinale Orazio che l’inserimento

cent’anni dopo del pur tanto discusso (allo-

ra come ora) monumento a S.Carlo Borro-

meo (1620) conferma come ancora icono-

graficamente valido il pensiero Tridentino

soggiacente alla macchina architettonica e

pittorica della Cappella, sottolineando così

il legame anticipato e a distanza dell’opera

del Pontormo con lo spirito del Concilio. Il

cenotafio del Santo permette di leggere sim-

bolicamente i dipinti del Pontormo nell’ot-

tica rovesciata dei valori conciliari: prova ne

è, ad esempio, che il vaso con i tre gigli - al-

lusivi alla “sempre Vergine Maria” - cancel-

lato dal monumento nella parete dell’An-

nunciazione, viene ‘recuperato’ in pietre

dure sull’apice del cenotafio stesso come

“vaso più piccolo, ma di gioie” (cfr. B.Pao-

lozzi Strozzi, “Di un ramo di gigli del Pon-

tormo”, Kunst, gennaio 2000, p.63). Fatte

queste premesse sarà possibile anche rico-

noscere nel nuovo assetto voluto dai Cap-

poni i riflessi anticipati del “Catechismo

Liturgico Tridentino” e, implicitamente di

S. Carlo Borromeo. Infatti il Santo presule

collaborò largamente alla stesura del Cate-

chismus Romanus che poi giungerà, quasi

immutato, alla versione del “Catechismo

Liturgico” del Padre Barin (1934) dal quale

sono tratte tutte le mie successive citazioni

relative alla lettura della Cappella e dei

suoi dipinti, lettura che mi accingo ora a

di M. Cristina François Tra Pontormo

Cappella Capponi: Monumento a San Carlo Borromeo (1620)

2120 GENNAIO 2018

fare (CATECHISMO LITURGICO, I

vol., Sac. Luigi Rodolfo Barin, Ed. Istituto

Padano, Rovigo, V ed.1945). Cominciamo

dall’ALTARE che da sempre custodisce la

doppia valenza di “mensa” e di “sepolcro”:

il “Catechismo” stigmatizza questi due si-

gnificati e vi si legge che “Nei primi secoli i

primi altari furono sul modello della tavola”

perché “per il culto erano obbligati a radu-

narsi in case private” (p.210). “Nell’Occi-

dente si mantenne qua e là l’uso degli alta-

ri-tavola fino all’XI sec.”. Invece per

l’altare-sepolcro il “Catechismo” fa riferi-

mento a S.Agostino il quale “ci parla (“De

Civitate Dei”, VIII, 27) di un Altare costru-

ito sopra il corpo di un martire” (pp.210-

211); [è questa una tipologia] che risale

all’uso dei primi cristiani rifugiati nelle ca-

tacombe per le adunanze liturgiche e che

celebravano sopra la tomba di un martire”.

Come pure a Roma, più tardi, “le sacre reli-

quie furono racchiuse in quelle preziose

vasche di granito, di porfido, o di basalto,

che avevano servito alle terme […] l’altare

così era bello e pronto in una forma di tom-

ba. L’altare a tomba fu abbandonato allora

che non si potevano avere corpi interi […] e

minuscole reliquie trovavano posto sotto le

pietre sagrate” (col rito segnato dal Pontifi-

cale) e quindi l’altare “si presentava o mas-

siccio o in forma di tavolo”. “L’Altare ricor-

da quello descrittoci nell’Apocalisse (VI,9)

sotto il quale si odono le voci di coloro che

vennero uccisi per la Fede; per questo nella

sua consacrazione si esigono reliquie di

Santi Martiri”, p.212. Si mantenne così la

relazione tra il sepolcro dei martiri e l’altare

che prendeva la forma di tomba: nella Cap-

pella del Pontormo il “Martire” per eccel-

lenza è Cristo, Agnello sacrificale, già più

volte descritto da A.Natali. Si ricorda che

l’altare sottostante la pala del Pontormo fu

più tardi distaccato dal muro, ma in origine

era - come richiederà formalmente il “Cate-

chismo Liturgico” - “ex murum confectum”,

p.218 (Decreto 3162); inoltre le parti che lo

compongono non devono essere disgiunte

tra di loro e dal sostegno”, p.219 (Decreto

3497) e “la lastra che serve da mensa deve

essere tutta di un pezzo (Decreto 2862)” ,

infine “ ‘altare debet esse lapideum’ (Miss.

Rubr. Ge. Tit. XX), regola che deve essere

intesa in senso rigoroso (Decreti 2862,

3674, 3962) […]. La mensa deve essere so-

stenuta da colonnine oppure da un ripieno

di marmo o di laterizi, dando all’altare col

primo modo la figura di tavola, col secondo

quella di sarcofago o tomba”, p. 215. Oggi,

purtroppo, vediamo questo altare Capponi

nella versione ottocentesca che si è rivelata

poco rispettosa di queste regole a causa di

interventi postumi (vedi il mio articolo in

“Cultura commestibile”, n.224, p.13). La

TOVAGLIA: “La materia per la tovaglia è

il lino, e, dove questo non si potesse avere, la

canapa […] e [le tovaglie] devono essere be-

nedette” pp.224-225 (Decreto 2600). “Mi-

sticamente rappresentano il sudario per il

Volto e gli altri lini con cui fu involto il cor-

po del Salvatore” (ibidem). “Secondo il

‘Pontificale’ (Ord. Subdiac.) esse significano

‘membra Christi’ (ibidem)”. Dunque, in sin-

tonia col “Catechismo liturgico”, dice bene

chi sostiene che il tessuto raffigurato dal

Pontormo per deporre sull’altare il Corpo

di Cristo, il tessuto che avvolse il Suo Cor-

po straziato (la Sindone) diventa simbolica-

mente tovaglia nel momento in cui il cele-

brante dice Messa e il Corpo di Cristo si

transustanzia. I CANDELABRI: il Cate-

chismo recita che sugli altari laterali i can-

delieri possono essere 4 o 2 (Decreto 3137),

ma “non possono essere suppliti da cande-

lieri a più bracci”, p.235 (ibidem). Prima del

Concilio di Trento, “dal sec.X al XVI, come

risulta dagli Inventari delle Chiese […] due

soli erano i candelabri, anche sull’altare

maggiore” (p.236). Così fu per la Cappella

Capponi e due candelabri con inciso lo

stemma familiare sono conservati ancor

oggi in S. Felicita. A parer mio, nella pala

del Pontormo i due candelabri sono raffigu-

rati, dai due Angeli in primo piano: basti

ricordare a questo proposito le innumerevo-

li raffigurazioni di Angeli reggi-candelabro,

sia in pittura (per es. di Rosso Fiorentino,

“Cristo morto fra gli Angeli” oggi a Boston)

che in scultura (per es. “l’Angelo reggi-can-

delabro” in marmo eseguito da Michelange-

lo, Arca di S. Domenico, Bologna). Sempre

due Angeli, perché sostituiscono i due can-

delieri di rito durante la Messa. Il “Catechi-

smo Liturgico” ricorda in proposito che pri-

ma, e cioè fino al sec XVI, i candelieri

“erano sostenuti da accoliti ai lati dell’altare

durante le sacre cerimonie”, p.234. La

LAMPADA: per gli altari laterali il “Ceri-

moniale dei Vescovi” (I vol., cap.XIII, 17)

prescrive che la lampada dovesse essere

una e sempre accesa durante le Messe (De-

creto 2890), (p.237). Una sola lampada

d’argento è documentata infatti in questa

Cappella, ma non più reperibile. L’ANTE-

PENDIUM o PALIOTTO dovrà essere di

materia “ne rugosa, aut sinuosa, sed extensa

et explicata”, p.225 (“Cerimoniale dei Ve-

scovi”, I vol., cap.XII, 11). Se ne farà uso

solo negli “altari a mensa” e non in quelli “a

sarcofago”: è questo il caso dell’altare Cap-

poni che ebbe un suo paliotto fisso facente

parte del programma iconografico dell’in-

sieme. È assai possibile che fosse da identi-

ficarsi con il noto “tondo” (poi ovale) custo-

dito presso Palazzo Capponi delle Rovinate,

raffigurante la “Madonna col Bambino”.

Questo Mistero dell’Incarnazione del Si-

gnore e di Maria Deipara, dipinto su di un

paliotto, è così ben esemplificato nel quadro

di Santi di Tito - opera giustamente più vol-

te citata da A. Natali (“Bene scripsisti de

me Thoma”, Uffizi, 1595) - da essere a mio

avviso emblematico così da potersi riferire

iconograficamente al paliotto della Cappel-

la Capponi. La CROCE: considerando che

“non sono permesse sull’altare più immagi-

ni dello stesso titolo”, p.214 (Decreto 3732),

nella pala di Pontormo la Croce non com-

pare perché si tratta di un dipinto simbolico

il cui messaggio non passava attraverso una

rappresentazione storico/narrativa, bensì

teologica. Questa credo sia la logica che sot-

tende alla mancanza di riferimenti materia-

li e contestuali, come la Croce. L’unico rife-

rimento materiale, una scala sul Golgota

appena accennata in un bozzetto, che fu poi

‘ripensata’ e sostituita dalla Nube (per il si-

gnificato teologico della Nube, vedi il mio

articolo in “Cultura Commestibile”, n.240,

p.19). Sull’altare stava di regola una Croce

perché “si vuole che ogni altare [la] abbia

qual primario ornamento”, anche se “non è

dato di precisare il tempo in cui fu reso ob-

bligatorio l’uso di essa”, pp.226-227. Vorrei

concludere questo testo con la lettura sim-

bolica del bianco tessuto svolto e tenuto fra

le mani dalla pia donna posta al vertice del

dipinto: per il fatto che si tratta di un lino

(?) bianco, quasi luminoso, come intatto e

posto nel punto più alto vicino al Cielo,

penserei che esso alludesse alla veste bian-

ca della Trasfigurazione o alla Resurrezio-

ne stessa annunciata da un Angelo “vestito

bianco come neve” (Mat. 28,3).

e San Carlo

2220 GENNAIO 2018

Dopo avere intervistato collezionisti di

bambole antiche, di giocattoli di latta, di Pi-

nocchi e dopo aver dedicato attenzione alle

vecchie bizzarrie oggettistiche di Rossano,

una mostra che si chiama “La trottola e il

robot”, Tra Balla Casorati e Capogrossi e

che espone antichi giocattoli e opere d’ar-

te in tema, mi sembra assolutamente da

non perdere. Si trova al Palazzo Pretorio

di Pontedera , paesone fra Firenze e Pisa,

che oltre a questa Istituzione che propone

interessanti Mostre temporanee, possiede il

Museo della Piaggo, la cui fabbrica princi-

pale qui si trovava e si trova, e un Teatro dal

programma di tutto rispetto. La collezione

di giocattoli d’epoca esposta appartiene

al Comune di Roma, quadri e sculture e

simili hanno la più varia, e spesso privata,

provenienza. Sono sei le sezioni tematiche

“La Casa” ,”Giochi all’esterno”, “L’Educa-

zione “, “Teatro Maschere e Circo”, “Gio-

chi senza età” ed “Automi”. Nella prima

sezione, quella della casa, oltre a deliziose

e più o meno semplici case per bambole, in

una di esse, in una stanza, solo minuscolis-

simi cappelli, c’è una vera cameretta color

giallo paglierino decorata ad opera del ce-

leberrimo Mussino con personaggi e scene

di Pinocchio che compaiono su spalliera del

letto, sedia, ante dell’armadio e del comodi-

no, tavolino, il lampadario è formato da un

girotondo di pinocchietti di legno che ten-

gono le lampadine. Nella sala campeggia

un grande ritratto, (A. Noci) , di una bella

bambina con in collo un cane. I giocattoli

che si vedono sono non solo molto belli, ma

anche disposti in modo da poterseli imma-

di Cristina Pucci

ginare all’opera, c’è una bellissima bambola

superelegante su un triciclo, vari cavalli a

dondolo, più o meno antichi, uno grande e

nero, uno bianco, perfetto, alcuni più pic-

coli, tutti splendenti, un dondolo di metallo

dall’aria vintage, i quadri ci mostrano bam-

bini che si dondolano , che fanno il giroton-

do, che saltano la corda, che giocano con i

birilli, che vanno al circo. In casa si studia

pure e molti quadri raffigurano eleganti ra-

gazzini che leggono, suonano, si impegnano

in attività didattiche. I trenini e i pupazzetti

di latta che saltano o comunque eseguono

qualche piccolo movimento, così come i

giochi da tavolo, sono perfettamenti conser-

vati e come consapevoli del proprio valore

e della loro età , dialogano sereni con noi,

direttamente dal secolo passato. Il gioco è

attività creativa per eccellenza vi regnano

fantasia ed immaginazione, ma anche re-

gole ed imitazione della realtà circostante.

Ogni bambino è un po’ come un artista in

fieri e ogni artista, che osserva l’ordinario

con sguardo staordinario, è un adulto che

ha conservato in sè il bambino che è stato.

In questa bella ed originale mostra ci sono

molte opere di Fortunato Depero, a me pia-

ce molto la fantasmagoria dei suoi colori e

la sua prorompente ed originalissima cre-

atività che nemmeno le linee rigidamente

geometriche che predilige riescono ad im-

brigliare. Dopo aver scritto insieme a Balla

un documento titolato “Ricostruzione futu-

rista dell’Universo” nel quale teorizzano di

occuparsi di ogni campo ed attività compre-

se moda, arredamento, scenografie e costu-

me teatrale, inventò il “complesso plastico”,

un equivalente polimaterico in salsa futuri-

sta della scultura da utilizzarsi anche nelle

rappresentazioni e nei balletti. Non sfondò

come collaboratore e realizzatore di sceno-

grafie per altri e ideò uno spettacolo tutto

suo e di cui curò regia ,scenografia, costumi

e realizzazione dei protagonisti, animaletti

di legno deliziosi. Erano i “Balli Plastici” ,

5 brevi pièces ricche di humour grottesco e

bizzarissima fantasia. Possiamo qui ammi-

rarne una intera scena abitata dai suoi ani-

mali stilizzati e coloratissimi, superbi direi.

La trottola e il robot

2320 GENNAIO 2018

Si dice che le donne, comprese le fotografe,

abbiano la visione periferica più sviluppata

degli uomini, compresi i fotografi. Non esiste

una prova scientifica di questa teoria, mentre

sembra facilmente dimostrabile che molte del-

le donne fotografe hanno, ed hanno avuto, un

tipo di visione più penetrante e più attenta di

quella di molti fotografi uomini, soprattutto in

quel genere di fotografia di strada che viene co-

munemente indicata come fotografia “sociale”.

Il lavoro di molte fotografe, messe a contatto

con la realtà sociale, con situazioni precarie e

con problematiche difficili, rivela la loro mag-

giore disponibilità all’avvicinamento ed all’em-

patia, e dimostra come i personaggi fotografati

dalle donne siano in genere meno propensi ad

erigere barriere, a trincerarsi dietro una ma-

schera, a nascondere pensieri ed emozioni. Fra

i lavori di documentazione sociale realizzati

dalle molte donne fotografe che hanno affron-

tato questo genere, non va trascurato quello di

Erika Stone, nata in Germania nel 1924 da una

famiglia ebrea rifugiata in America nel 1936, e

cresciuta nella New York degli anni Quaranta e

Cinquanta, praticando la fotografia da giovanis-

sima, dapprima con la Leica del padre, poi come

membro della famosa Photo League, una libera

associazione inserita nel 1947 nella lista nera

del ministero della Giustizia in quanto conside-

rata “sovversiva”, e sciolta nel 1951. Erika con-

tinua a studiare fotografia nella New School of

Social Research con Berenice Abbott e George

Tice, nel 1951 vince il concorso per giovani fo-

tografi di Life Magazine, pubblica le proprie im-

magini sul prestigioso U.S. Camera Annual nel

1952 e poi negli anni 1954, 1955 e 1956, e la-

vora come fotogiornalista per riviste come Time

e Der Spiegel fino al 1960, per dedicarsi poi alla

famiglia ed ai due figli, cambiando del tutto ge-

nere fotografico. Se per le riviste illustrate firma

numerosi servizi e fotografa molti personaggi

celebri, la parte più interessante della sua opera

viene realizzata nel tempo libero, nelle strade

di New York, fotografando la gente comune,

la vita di ogni giorno. Soprattutto frequenta i

quartieri popolari, quelli multietnici, in cui si

affollano i vecchi ed i nuovi immigrati, in cui la

vita è più difficile, al limite della sopravvivenza,

in cui la strada è l’elemento che accomuna tut-

ti, il luogo in cui la vita scorre più prepotente,

in cui ci si incontra e ci si scontra. Lavorando

per le riviste ha avuto modo di visitare anche

l’Europa ed altri paesi, riportandone immagini

paragonabili a quelle prese a New York. In una

recente intervista, alla soglia dei novant’anni,

Erika ha dichiarato: “Di solito prendevo un

pomeriggio alla settimana, mio marito curava i

figli, e io andavo a fare fotografie ed a cammina-

re. Ero sempre interessata a fare con le mie foto-

grafie qualcosa che potesse migliorare il mondo.

Ho provato a fotografare la natura, ma non ne

è uscito niente di buono. Non sono interessata

alla natura, perché sono interessata agli esseri

umani e alle loro storie. Tanti soggetti mi ispi-

rano, ma soprattutto è la gente che mi ispira. La

fotografia è la mia vita, è la ragione per cui vivo.

Amo parlare alla gente delle loro vite, delle loro

storie di vita. Ecco perché la mia macchina foto-

grafica le cercherà sempre.” Del suo lavoro han-

no detto: “La capacità unica di Erika di cattura-

re lo spirito umano è potente e va dritta al cuore.

Ci ricorda che ogni persona ha una storia unica

da condividere e le fotografie di Erika sono quei

momenti speciali. Queste iconiche fotografie in

bianco e nero catturano la semplicità del sogget-

to, il soggetto preferito di Erika: le persone. Ciò

che rende il lavoro di Erika così straordinario è

il modo in cui usa la sua macchina fotografica,

sia nei suoi primi anni come fotografa di strada

ad Harlem, sia in Bowery quando ha focalizzato

il suo obiettivo sul trionfo dello spirito umano,

o quando ha fotografato gli immigrati a Ellis

Island, o quando ha fotografato un transessuale

che documenta il suo viaggio, Erika ha sempre

avvicinato i suoi soggetti con dignità, compas-

sione e completa obiettività “. Nel 1982 Erika

Stone è stata una delle venti donne fotografe il

cui lavoro è stato pubblicato nell’antologia “Wo-

men of Vision”.

di Danilo Cecchi

Erika Stone fotografa sociale

2420 GENNAIO 2018

Sant’Agostino rispondeva, a chi gli chiede-

va cosa facesse Dio prima della creazione

del mondo, che preparava l’inferno a chi

faceva questo tipo di domande. Ed è in

fondo il tipo di domanda che ci facciamo

anche oggi: che c’era prima del mitico Big

Bang? Meno minacciosamente oggi possia-

mo rispondere che il Big Bang non è nato

nel tempo e nello spazio ma col tempo e lo

spazio, non c’è un prima.

I nostri parametri logici, da cui scaturisce

questo tipo di domanda nascono dopo, an-

ch’essi nel tempo e nello spazio. Del resto

oggi sappiamo che i nostri concetti di spazio

e tempo perdono il significato da noi cono-

sciuto nel vortice di un buco nero o nell’in-

finitamente piccolo oltre la cosiddetta co-

stante di Plank.

E sappiamo che circa 14miliardi di anni fa

una quantità inimmaginabile di energia è

scaturita dal “nulla” e ha prodotto centinaia

di miliardi di galassie, ognuna con centinaia

di miliardi di stelle che ancor oggi corrono

a velocità crescente allontanandosi l’una

dall’altra. I resti di quella esplosione sono

presenti nella radiazione elettromagnetica

di fondo, scoperta per caso negli anni 60,

che permea tutto il cosmo e la velocità di

fuga delle galassie è calcolabile ed è impre-

vedibilmente e illogicamente in continuo

aumento in proporzione alla distanza. Un

bel cambiamento per chi pensava ancora

poco tempo fa ad un Universo fondato sul-

la sola via Lattea ed in sostanziale equili-

brio. Il grande Einstein dovette inventarsi

la costante cosmologica per giustificare un

universo in equilibrio a controbilanciare la

forza distruttiva della gravità (ovviamente

anche su questo poi ha avuto ragione, solo

che quella forza avrà altra e più larga fun-

zione e spiegazione ed altro nome si chia-

merà energia oscura e ne parleremo). Inve-

ce molti eminenti scienziati hanno pensato

perfino ad una vittoria finale della gravità

tale da riportare indietro le galassie in cor-

sa fino al punto di partenza, come un film

al rovescio, fino all’esplosione successiva in

una sorta di ciclo eterno di rinascite, alla

maniera orientale solo, che qui rinasce e si

rincarna l’universo e non il singolo indivi-

duo.

Non è così. Tutto almeno oggi sembra dire

che l’Universo corre allontanando tutte le

galassie ed espandendosi a velocità crescen-

te e fra miliardi di anni la sua corsa finirà

disintegrando stelle e galassie e a prevalere

sarà il buio e il gelo e il nulla. Certo tra mi-

di Gianni Bechelli

liardi di anni, ma diciamolo, un po’ inquieta

questa apocalittica fine del mondo, più di

quanto la sia pur poco gradevole prospetti-

va di un sole gigante rosso che inghiottirà

ancor prima la Terra. Niente in realtà è

definitivo, considerando che siamo a cono-

scenza forse del 10% di ciò che c’è davvero

nell’universo di cui abbiamo nozione, il più

ci sfugge e quindi tutto può essere. Intan-

to, non sapendo cos’è questa energia oscura

che ci attrae inesorabilmente e altrettanto

cos’è la materia oscura che sappiamo esiste-

re per la sua forza attrattiva, che tiene insie-

me le galassie altrimenti destinate a spappo-

larsi per la forza della sola materia “chiara”,

possiamo tuttavia sperare in un concetto di

Infinito diverso da quello di Universo e Co-

smo regolato. Non sono la stessa cosa, o al-

meno non lo sono necessariamente. Questo

Infinito è l’indescrivibile degli infiniti mon-

di di Giordano Bruno, mai adeguatamente

apprezzato per le sue intuizioni sconvolgen-

ti anche per la teologia, ma è anche ciò a cui

sembrano portare per strade diverse alcune

delle varie attuali attività scientifiche e non

solo nel campo della fisica dell’astrofisica e

della fisica quantistica. Tutto questo potreb-

be riaprire la partita in modi imprevedibili

e anche un po’ fantasiosi. Ma la scienza ci

abitua sempre più alla meraviglia. E la me-

raviglia, sosteneva già Aristotele, è ciò che ci

rende attraente la conoscenza e la scienza.

Questa torsione, che porta la fisica vicina ai

limiti della metafisica (“l’altro” da sempre

per la scienza moderna) ha vari nemici tra

i fisici abituati a misurarsi con le cose e le

teorie e la loro concreta verificabilità, e tut-

tavia per la prima volta ,da secoli, il tema

dello sconfinamento tra i due campi si pone

concretamente e si cercano nuove risposte.

Prima del Big Bangnon c’era un prima

2520 GENNAIO 2018

Visitando il Museo degli Uffizi, ho notato

l’impegno profuso dalla Fondazione Friends

of Florence, da gli Amici degli Uffizi e da al-

tre figure per il restauro delle opere esposte e,

conservazione e riorganizzazione degli spazi

museali.

Il percorso, è costellato di targhe che accompa-

gnano le opere quasi senza soluzione di con-

tinuità. Nei corridoi, come nell’interno delle

sale più importanti e meno.

Una presenza quella degli sponsor, costante

nel tempo che parla di sensibilità e generosità.

Una presenza sempre più presente, sempre

più generosa, sempre più visibile.

Leggendo con attenzione le targhe, ho osser-

vato che le indicazioni riguardanti i donatori

presenti nelle didascalie, con il passare degli

anni, siano diventate sempre più grandi nelle

dimensioni e importanti.

Se nel 1993, le targhette di dimensioni di circa

13 cm x 18 cm riportavano per intero le indi-

cazioni descriventi l’opera: il titolo, il materiale,

l’epoca ecc. e in coda compariva il nome di chi

aveva contribuito al restauro, negli anni re-

centi, le targhette sono diventate delle targhe

di circa 30 cm x 30 cm tanto grandi da abbi-

sognare di una base autonoma per il loro sup-

porto, con una descrizione dell’opera ridotta al

titolo e un esteso ringraziamento alle persone o

aziende che hanno offerto il restauro e, ampio

spazio per il logo della fondazione.

Nei casi in cui il restauro non abbia investito

soltanto le opere, ma anche l’allestimento delle

sale, sono stati fissati alle pareti grandi pannelli

di dimensioni superiori ai 150 cm x 150 cm de-

dicati esclusivamente ai donatori e donatrici.

Mi pare che siamo lontani dai principi che

imponevano il cappuccio ai giornanti della

Confraternita di Misericordia, affinchè le loro

opere non fossero riconducibili alle persone.

Da Arezzo a Sansepolcro per vedere Pie-

ro, a Città di Castello per vedere Burri, si

traversano secoli. Sul profilo delle stesse

colline, sullo scabro delle stesse terre, sui

cretti.-.perfino.-. che il tempo ha fatto scop-

piare sull’intonaco e sulle tavole dell’uno,

apparentandolo, ancor più, all’altro. L’ oc-

chio che si posa sulle stesure consunte e sul-

le geometrie di San Francesco non fa fatica

a passare sulle trame lise o sulle sabbie di

certi “cellotex” delle pareti dei “Seccatoi”.

Non si sa che aspetto avesse Piero; possiamo

solo immaginare quanto fossero luminose le

pareti della Basilica appena dipinte da lui.

La cattedrale di Burri, invece, è negli ex ca-

pannoni della Fattoria Tabacchi di Città di

Castello. Un luogo, una cattedrale di oggi,

riattivata dall’Artista che l’ha fatta sua con

le pareti ‘affrescate’ dalle sue opere a rac-

contare un’unica, eterna avventura: quella

della materia, della luce, del colore e della

loro misura. Burri era medico e della scien-

za medica aveva conservato il gusto per la

dissezione, per l’impietoso scavo della real-

tà. ”Gli uomini sono cattivi”.-.diceva.-.”Ve-

de com’è crudele la natura; e gli uomini ne

fanno parte. Ci vogliono millenni per arri-

vare a un po’ di civiltà. Perciò non ci si può

permettere di compiere atti barbari.-.parlo

di pittura.-. e poi far finta che siano capo-

lavori. L’arte, la verità della pittura, sono

cose difficilissime ed esigono tutto”. Burri

ha costruito il suo tempio, che nella digni-

tà e spogliatezza delle sue architetture, non

è inferiore a quelli del passato. L’ha volu-

to con la sua azione solitaria e caparbia. E

ora i suoi cretti, le sue plastiche schiantate

e bruciate, i suoi monocolori in elegantissi-

me sequenze in nero, sono lì a testimoniare

le tragedie di un secolo, con un linguaggio

omologo fino all’estremo, dalla seconda

guerra mondiale alla guerra del Vietnam.

Tutto questo confermando la difficilissima

parola di Burri: che la materia, pur restando

tale, può trasformarsi in arte oggi.-.quando

è autentica.-.come cinquecento anni fa .

di Annamaria M. Piccinini

Da Piero e da Alberto, rivisitazioni

Valentino Moradei Gabbrielli

Art-è sponsor?

2620 GENNAIO 2018

Come è facile intuire, l’agenda di Mimmo D’A-

lessandro, nel periodo in cui il Summer Festival

2018 prende forma è fitta di impegni; questo

non gli ha impedito di trovare il tempo per que-

sta intervista e di presentarsi puntualissimo al

nostro appuntamento in un caffè del centro di

Lucca. Non a caso disponibilità e schiettezza

nei rapporti con le persone, sono tratti distintivi

che ho riscontrato in molti autorevoli personag-

gi che ho avuto la fortuna di intervistare per

libri e articoli. Fin dalle prime parole si perce-

pisce con chiarezza l’importanza che la musica

ha nella sua vita: anche solo parlarne, gli provo-

ca una gioia profonda e genuina.

Pare che diventare musicista fosse il suo grande

sogno di ragazzo e il suo rapporto con la musica,

al di là delle ovvie implicazione professionali,

sia sempre stato molto stretto, viscerale: ce lo

può raccontare?

Sono nato a Napoli e chi nasce a Napoli ha la

musica dentro. Tutti i ragazzini hanno questo

sogno; tutti i miei amici (Bennato, Pino Daniele,

Teresa De Sio, Enzo Avitabile) suonavano (era

la prima cosa che ci univa) e questo volevo fare,

fino a che mi sono reso conto che non era la mia

strada. Ho fatto altre cose, sempre guidato dalla

passione e dall’amore per la musica: produttore

discografico e televisivo, gestore d’importanti

locali, manager di artisti come Giorgia, Pino

Daniele e altri. Amore e passione sono alla base

della filosofia con la quale mi avvicino a tutto

quello che faccio.

Da musicista a produttore e organizzatore di

eventi, con la musica sempre al centro della sce-

na: quali sono state le tappe principali di questo

percorso?

Sono moltissime ed elencarle tutte porterebbe

via tutto il pomeriggio. Sono cresciuto con il

mito della Bussola; il locale del grande Sergio

Bernardini dove passavano tutte le star era il

mio “sogno americano”, così, quando mi sono

trasferito a Viareggio, la prima cosa che ho fatto

è stato entrare in quel locale. Ho cominciato da

lì, anche se avevo già fatto qualcosa a Napoli e

ho vissuto tutti i cambiamenti che hanno carat-

terizzato questo mestiere fino a oggi, quando ci

si trova a combattere con un nemico implaca-

bile: la burocrazia. Quella con la burocrazia è

davvero una lotta che sfinisce e toglie energie

che potrebbero essere usate per scopi molto più

utili.

E’ vero che a farle scoprire Lucca, fu nienteme-

no che Joan Baez?

Verissimo. Lei mi faceva una testa così sulle

bellezze della città e mi vergognavo a confessar-

le che, pur vivendo a 20 chilometri, conoscevo

Lucca solo superficialmente. Dopo il concerto

di Monica Innocenti

di Joan alla Bussola l’ho accompagnata in cen-

tro (mi ero fatto dare delle dritte da un amico) e

lei, alle 2 di notte, completamente rapita dall’at-

mosfera, si mise a cantare a cappella in piazza

Anfiteatro. Sono rimasto senza fiato ed è anda-

ta a finire che ho comprato casa in quella piaz-

za! Poi è arrivato il Summer Festival! L’allora

presidente della Provincia di Lucca, grande

appassionato di musica, mi telefonò chieden-

domi se fossi interessato a proporre dei concerti

in città. Ne discutemmo, cominciai a lavorare

al progetto e il 6 luglio 1998 Bob Dylan suonò

in piazza Napoleone: la grande avventura era

cominciata!

Il Summer è diventato parte integrante della

vita (e dell’economia) di Lucca, ma il rapporto

con alcune componenti della città e delle sue

istituzioni è stato, nel corso degli anni, un po’

tormentato: ce ne può parlare?

E’ stata una corsa a ostacoli, ma mi ha caricato

moltissimo. Credo che quando sei convinto di

fare la cosa giusta, niente ti deve spaventare.

Ho seguito la mia strada e ancora oggi quando,

dopo vent’anni, non mi sento completamente

accettato, beh: me ne sbatto se mi passa la fra-

se. Il Summer Festival è ormai un brand che ha

una notorietà mondiale e da Lucca è passata la

storia della musica: ho realizzato un libro foto-

grafico sul festival e quando scorro le pagine e

leggo i nomi, quasi non ci credo nemmeno io.

E comunque credo che i lucchesi, anche quelli

che ci criticano, apprezzino che il nome della

loro città faccia il giro del mondo: che una pic-

cola città sia entrata nel grande giro della mu-

sica internazionale dalla porta principale ha

dell’incredibile! Secondo me anche Puccini è

felice, perché Puccini è rock!

Nell’edizione del ventennale c’è stata anche

l’incredibile novità del mega evento sugli spalti

delle mura: è stato più complicato convincere

chi di dovere della bontà e della fattibilità del

progetto o i Rolling Stones a suonare in quella

che era, probabilmente, la città più piccola dove

si esibivano dai tempi del liceo?

Portare gli Stones a Lucca è stato meno compli-

cato di quanto pensassi perché, sulla mia strada,

ho trovato solo persone intelligenti. Ho faticato

un po’ a convincere il gruppo, ma quando metti

in campo, in rapida successione, Italia, Toscana

e Lucca, schieri una squadra vincente, non c’è

storia! A Lucca ho trovato un personaggio alla

Sovrintendenza, il professor Luigi Ficacci, che

non esito a definire un fuoriclasse: la città è for-

tunata ad avere personaggi di questo spessore.

Ha compreso il progetto da subito e mi ha sup-

portato in ogni modo. E alla fine, dopo qualche

titubanza iniziale, anche l’Amministrazione

Comunale ha fatto la sua parte. L’unica nota

stonata sono i rosiconi di professione e in mala-

fede ma, semplicemente, li compiango.

Se l’edizione del ventennale è stata indimenti-

cabile, quella del 2018, con Roger Waters come

evento speciale e una serie di concerti davvero

straordinari, non sarà da meno. Il Summer è

un figlio maggiorenne da un bel po’: quali sono

state le emozioni più grandi e quali i ricordi in-

cancellabili?

Mi ero detto che il giorno in cui sarei riuscito

a portare Steve Wonder a Lucca avrei raggiun-

to il massimo e avrei potuto smettere: mi sba-

gliavo! Eric Clapton, Leonard Cohen che era

sparito dalle scene da vent’anni, un musicista a

cui sono molto legato come Paco De Lucia, fino

ad arrivare al momento da brividi in cui si sono

spente le luci e gli Stones sono saliti sul palco:

sono innumerevoli le incredibili emozioni che

ho provato e che voglio continuare a provare,

perché quando non mi emozionerò più, allora

sarà il momento di smettere sul serio! E forse

l’emozione più grande è vedere il pubblico feli-

ce di quello che sta vivendo e pensare che sono

stato un ingranaggio che ha contribuito a far

funzionare quello straordinario meccanismo

dispensatore di felicità che è la musica.

Nei mesi invernali, il Summer ritroverà un pa-

rente stretto, il Winter Festival: ci sono anticipa-

zioni su questo progetto?

Sono molto legato al Winter, perché credo ab-

bia un potenziale incredibile e portare grandi

artisti come James Taylor, Nash, De Gregori

o Fiorella Mannoia in un teatro da 600 posti è

un’altra, grandissima emozione. L’anticipazio-

ne è quella che, ancora una volta, proveremo

a vincere la scommessa di proporre qualcosa

all’altezza di ciò che lo ha preceduto, capace di

emozionare e farsi amare allo stesso modo.

Il Summer di Mimmo

2720 GENNAIO 2018

Da lunedì 8 gennaio 2018 l’ingresso al Battiste-

ro di Firenze diventa gratuito per i fiorentini e

per tutti i residenti della Provincia di Firenze,

lo ha annunciato il Presidente dell’Opera di

Santa Maria del Fiore, Luca Bagnoli, in con-

clusione del discorso tenuto in occasione della

Cavalcata dei Magi. “In accordo con l’arcive-

scovo cardinale Giuseppe Betori - ha spiegato

Bagnoli - l’Opera di Santa Maria del Fiore ha

deciso di rendere accessibile anche questo luo-

go di culto, oltre

alla Cattedrale, ai

fiorentini e a tutti

i residenti della

provincia. L’obiet-

tivo dell’Opera è

di essere un’istitu-

zione sempre più

vicina alle esigen-

ze delle persone e

della città”.

Gian Lorenzo BerniniMuseo Borghese

Si può viaggiare nel tempo e nello spazio. Que-

sto ci dicono i lavori di Giampaolo Di Cocco

che formano una mostra polifonica e ben arti-

colata, scandita in tre gruppi di opere. Le carte

sono delle mappe oppure delle antiche scritture

riversate nel mondo attuale attraverso un’ope-

razione di recupero metastorico. Configurano

racconti che provengono da paesi immaginari,

mettono insieme luoghi e città forse legati dal

niente o da oscure connessioni. La cartografia

di Giampaolo Di Cocco offre poche certezze,

compaiono linguaggi di popoli sconosciuti,

simboli di difficile interpretazione, monumenti

limpidi come giornate lustrali. Ma vi sono an-

che delle presenze animali che consentono di

navigare tra le immagini come in un arcipelago

fantastico. Oppure potrebbe essere che le carte

non sono mappe, ma scritture figurate, testi di

una civiltà abbandonata dalla storia e ai margi-

ni della geografia.

I lavori chiamati “Tempio delle barche” infatti

mettono in scena in viaggio. La nave porta in

una direzione spirituale, gli specchi moltiplica-

no l’immagine dell’uomo in un gioco riflessivo

in cui il movimento è statico: è puro pensiero.

La “nave nel tempio” è un ossimoro, ma ricorda

l’etimologia delle navate, il simbolismo di una

salvezza a cui l’arca offre i suoi servigi e l’uomo

di Valerio Dehò

i suoi pensieri. Navigare necesse est, vivere non

est necesse.

I marmi graficamente scarnificati con l’acido,

presentano invece un tempo che collassa sul

presente. I decori pompeiani entrano in con-

tatto con le silhouette di bottiglie del Campari

soda o della Coca cola, in una sorta di elogio del

tempo. Tutto converge verso una artisticità che

non può esimersi dal confrontarsi con il con-

sumo, con lo specchio dei tempi. Le bevande

inebrianti dei nostri tempi sono lontane dalle

coppe del Falerno. Di Cocco mette insieme

grafica e scultura, passato e presente, rivelan-

doci un mondo senza età verso cui viaggiare

con gli strumenti che abbiamo a disposizione,

la mente e la cultura innanzi tutto.

Viaggi straordinari

Foto diPasqualeComegna

Corpidi marmo

Il Battisteroa ingresso gratuito per i fiorentini

2820 GENNAIO 2018

Se “tenete” per la Tebaldi lasciate perdere

questo libro. Per un fan della soprano pe-

sarese, infatti, sfogliare “Il melomane do-

mestico” di Alessandro Duranti (Ronzani

Editore, Vicenza 2017) presentato nei gior-

ni scorsi al Gabinetto Vieusseux, sarebbe

come per un suiveur di Coppi infliggersi

masochisticamente l’elogio di Bartali (e vi-

ceversa). Infatti nel primo e più lungo dei

saggi raccolti nel volumetto (versioni am-

piamente rielaborate di altrettanti scritti

usciti tra il 1981 e il 2007 su altre pubblica-

zioni) il professore fiorentino di Letteratura

italiana all’Università di Firenze non fa che

confessare con le formule più appassionate

e convinte il suo amore, musicale s’intende,

per la “divina” Callas, quella Anna Maria

Cecilia Sophia Kalogeropoulos, soprano

drammatico d’agilità, di cui nell’anno ap-

pena trascorso ricorreva il quarantennale

della morte.

Duranti è intrattenitore competente, anali-

sta acuminato, non privo di una rinfrescan-

te cattiveria. Dice quello che pensa, con

spontaneità, “a caldo”, non lesina sberleffi

o stoccate irriverenti quando gli sembrano

meritate: ai tenori imbolsiti e mai domi, alla

“torva musa verista” di Mascagni & c, alla

razza detestabile e becera dei loggionisti, ad

alcune trovate registiche contemporanee

(la Sonnambula con il nuovo finale è per

lui una “trovatina da supermercato”). Ma

nelle sue pagine Callas, oh Callas si erge,

letteralmente, come una furia della natura,

non solo per pienezza e onnipotenza di una

voce dall’estensione e uguaglianza fuori del

comune, ma soprattutto per intelligenza da

stratega, di potenza e aggressività mostruo-

se. Un fulgore e una pienezza irripetibili,

sovrumane, una voce spavalda e onnipoten-

te, unica nello sfrontato coraggio, fiammeg-

giante, portentosa, aggressiva, ubriacante,

marziana. Un indimenticabile filo d’oro.

Tanto entusiasmo, del resto ampiamente

motivato, ha qualcosa di commovente, se si

pensa che il professor Duranti (un po’ per

età un po’ per l’atteggiamento descritto nel

titolo del libro) non ha mai visto e ascoltato

la Callas dal vivo e che questa trascinante

passione se la porta dietro dalla nascita, da

quando cioè suo padre nel 1948, folgorato

dalla edizione fiorentina di Norma, acqui-

stò un disco con una selezione da La forza

del destino. Un amore il suo, quindi, tutto

coltivato da lontano, cesellato tra i fruscii

dei vecchi vinili, le registrazioni lacunose, i

ricordi narrati “a veglia” circa le meraviglio-

di Susanna Cressati

se performance di un mito.

Così leggendo queste abili pagine si viene

come rassicurati. Quanti amanti del melo-

dramma e del bel canto hanno oggi sentito

mai la Callas cantare dal vivo? E quanti

hanno sentito dal vivo altri nomi di spicco

del mondo operistico? L’evoluzione tecno-

logica, che restituisce versioni più fedeli

(anche se forse più piatte) delle esecuzioni

in teatro, consegna tanto più oggi tutti co-

loro che raramente o anche mai possono

attingere alle esperienze di una prima della

Scala o del Maggio allo stesso rango di colo-

ro che, invece, possono farlo.

Il libro si dipana divertente anche nei sag-

getti successivi dedicati rispettivamente:

ad una analisi della capacità di Giuseppe

Verdi di “cambiar maniera”; ad una taglien-

te galoppata tra i “nemici della musica” (i

veristi, fatto salvo Puccini); ad una rispet-

tosa considerazione di Puccini a dispetto

della sua “facile commestibilità”; allo stile

di Toscanini (compresa la sua “disastrosa

rigidità” nel dirigere Mozart); alle discutibi-

li cronache musicali del baritono mancato

Eugenio Montale. Ultimo ma non disprez-

zabile merito di Duranti quello di essere ri-

uscito a contenere la pratica della laudatio

temporis acti, così frequente a Firenze e nel

suo mondo culturale (ma non solo).

Storia di un melomane

2920 GENNAIO 2018

di Carlo Cantini

1982 Carlo Cantini a New York

Passeggiando sulla Quinta Avenue