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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo) Numero 337 404 18 gennaio 2020 Maschietto Editore Nani sulle spalle di giganti “Craxi è una grandissima figura di questo Paese, un gigante rispetto ai politici di oggi, anche se non provengo da quella cultura politica” Matteo Renzi

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Con la cultura

non si mangia

Giulio Tremonti

(apocrifo)

Numero

337 404

18 gennaio 2020

Maschietto Editore

Nani sulle spalledi giganti

“Craxi è una grandissima figura di questo Paese, un gigante rispetto ai politici di oggi, anche se non provengo da quella cultura politica”

Matteo Renzi

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dall’archivio di Maurizio Berlincioni

immagineLa prima

Un’altra strada, un’altra

camionabile in uscita dalla

città di Quing-Dao. Ciò che

mi colpì all’istante fu il passo

tranquillo di questo simpatI-

co cagnetto che trotterellava

tranquillo e senza batter

ciglio nel bel mezzo del traf-

fico. Si vede che qualche

strana divinità lo ha protetto,

visto che non è stato stritola-

to da una delle tante vetture

che sfrecciavano in tutte le

direzioni, come sempre acca-

de in Cina. Per quello che ho

potuto constatare durante il

mio soggiorno, da quelle par-

ti c’è sempre una certa disin-

voltura nella guida. In con-

fronto si potrebbe dire che

noi italiani siamo dei guida-

toti davvero “diligenti”, il che

è tutto dire! Guidare in Cina

non è uno scherzo, ci voglio

mille occhi. In confronto i

nostri napoletani sono dei

guidatori decisamente ordi-

nati e rispettosi delle regole!

Questo cagnolino ha avuto

proprio un gran culo, come

si direbbe in gergo!

Quing Dao, 2008

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Direttore

Simone SilianiRedazione

Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Susanna Cressati, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Progetto Grafico

Emiliano Bacci

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Editore

Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142

Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

issn 2611-884x

Numero

337 404

18 gennaio 2020

In questo numero

Il canto di Sibilla

di Dino Castrovilli

Streghe e incantesimi a La Cour Carrée

di Giovanna Sparapani

Lafayette, una macchina per esporre

di Simonetta Zanuccoli

Adriana Lestido, da donna a donna

di Danilo Cecchi

Flit non addormenta, fulmina

di Cristina Pucci

Quel liberale del Karl Marx

di Gianni Bechelli

Il gioco d’azzardo della finanza

di Anna Conti

Primo di nome, precoce col talento

di Paolo Marini

Vacanze romane di un Premio Nobel

di Corrado Pettenati

Fagetti, qualcosa in più che un grande ballerino

di Joël Vaucher-de-la-Croix

Gl’è i’ caffè de’ Padovani

di Nicla Pierini

Star Wars: l’ascesa del sognatore

di Matteo Rimi

e Capino, M.Cristina François, Valentino Moradei Gabbrielli, Remo Fattorini, Alessandro Michelucci....

e le foto di Maurizio Berlincioni e Carlo Cantini

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Sessant’anni fa, il 13 gennaio 1960, moriva

a Roma Marta Felicina “Rina” Faccio, uni-

versalmente nota come Sibilla Aleramo. Era

nata il 14 agosto 1876 ad Alessandria e nei

suoi 84 anni ha attraversato da protagonista

tutto il Novecento italiano. La sua vita, la sua

opera, non tanto e non solo quella letteraria,

ne fanno ancora un’icona e, per tanti aspet-

ti, un modello. Anche se non felicissima, la

sua fanciullezza “libera e gagliarda”, vissuta

nell’adorazione e negli insegnamenti, anche

didattici, del padre Ambrogio, viene spazzata

via dalla violenza sessuale subìta a 15 anni da

un operaio della fabbrica che il padre dirige

a Porto Civitanova, dove si erano trasferiti:

seguirà il matrimonio “riparatore” con lo stu-

pratore, Ulderico Pierangeli, la nascita del

figlio Walter nell’aprile 1895, una “conviven-

za” segnata dalle continue violenze fisiche e

psicologiche del marito (dopo la scoperta di

una avventura con un “forestiero” la spingerà

fino al tentato suicidio), l’estenuante battaglia

sentimentale e legale per ottenere la separa-

zione e, invano, l’affidamento del figlio. Ma

la libera e forte Rina aveva continuato a leg-

gere, aveva scoperto i fondamenti e le lotte

per l’emancipazione della donna - “Occorre

riformare la coscienza dell’uomo e creare

quella della donna” - aveva cominciato a scri-

vere per varie riviste, ottenendo addirittura

nel 1899 la direzione della rivista L’Italia

femminile 1899 - Corriere delle donne ita-

liane. Nel 1902 comincia la relazione con

lo scrittore Giovanni Cena, che la coinvolge

nelle sue relazioni con alcuni tra i maggiori

letterati dell’epoca e nella fondazione delle

scuole per i contadini dell’Agro Pontino. Rina

sente il bisogno di raccontare la parte della

sua vita che va dalla fanciullezza allo stra-

ziante “abbandono” del figlio (lo rivedrà dopo

molti anni) nelle mani del marito. Si chiude

con quell’abbandono Una donna, il roman-

zo autobiografico del 1906 firmato Sibilla

Aleramo che la impone come una scrittrice

di successo e una guida nel movimento per

l’emancipazione della donna. il libro divise la

critica, le scrittrici e le femministe: riconosce-

vano l’eccezione di quella coscienza evoluta

ma ne prendevano le distanze: poiché l’unica

vittima risultava il figlio, non si poteva porlo

ad esempio delle “donne pensanti”; “se fos-

se stata veramente forte non avrebbe esitato

nel sacrificio estremo” (così “Vita Internazio-

nale”, la rivista degli esordi di Sibilla, che ne

rimase molto addolorata). Spenta la relazione

con Giovanni Cena, Sibilla intraprende una

serie impressionante, per numero e qualità,

di relazioni, culturali, politiche - Margherita

Sarfatti, Riccardo Bacchelli, Filippo Tom-

maso Marinetti, Auguste Rodin, Eleonora

Duse, Matilde Serao, Gabriele D’Annunzio,

Cesare Pavese, Benito Mussolini (Sibilla è già

alle prese con le ristrettezze economiche che

l’accompagneranno per tutta la vita: il Duce

le fa concedere una pensione, che resterà no-

nostante tutti i cambiamenti politici), Palmiro

Togliatti, la regina Elena di Savoia (pressan-

ti richieste di far rientrare dalla Sardegna,

dov’era stato assegnato nel corso della guerra,

l’amante Franco Matacotta), Fausta Cialente,

Alba de Cespedes, Davide Lajolo, Corrado

Pavolini, Italo Calvino, Concetto Marchesi

- e soprattutto amorose: nel suo cuore si suc-

cederanno, ogni volta amati con sentimento

tanto sincero quanto impetuoso, poeti e artisti

come Vincenzo Cardarelli, Vincenzo Gerace,

Umberto Boccioni, Giovanni Boine, Giovan-

ni Papini, Julius Evola, Raffaello Franchi, Fe-

lice Damiani, Franco Matacotta e, nel 1909,

Lina Poletti - avete letto bene: Sibilla, a con-

ferma del suo irriducibile bisogno di amore e

della sua capacità di praticare la libertà, si è

cimentata anche con qualche amore femmi-

nile (“Imparai, amore, che il tuo mistero non è

nella legge che perpetua la specie...”) - e, “na-

turalmente”, Dino Campana.

Dico “naturalmente” perché, a ben leggere le

biografie dei due, i punti di “congiunzione”,

astrali ma non solo, sono parecchi: entrambi

nati sotto il segno del Leone (Sibilla il 14 ago-

sto, Dino il 20), entrambi con famiglie “abi-

tate” dalla pazzia (la madre di Rina, Ernesta

Cottino, dopo un tentato suicidio sarà inter-

nata nel manicomio di Ancona, dove morirà

dopo trent’anni di ricovero, senza che Sibilla

le abbia mai fatto visita; lo zio Mario, fratello

del padre di Campana, in preda a deliri mi-

stico-religiosi, finirà e morirà in manicomio),

entrambi amano molto Whitman e S. Fran-

cesco, entrambi hanno bisogno di essere (ri)

stampati e riconosciuti dalla critica, entrambi

hanno scritto un libro unico, i cui manoscritti

fondativi - Una donna e Il più lungo giorno -

“riposano” a Firenze, a pochissimi chilometri

di distanza (quello di Sibilla alla Biblioteca

Nazionale, quello di Dino alla Biblioteca Ma-

rucelliana), entrambi amano molto viaggiare

(nel caso di Dino errare), entrambi sono stati

di Dino Castrovilli

Il canto di Sibilla

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vittime di vergognose manipolazioni edito-

riali, entrambi hanno avuto un riferimento

umano e letterario nel critico Emilio Cecchi,

e infine entrambi sono protesi a fondere arte

e vita.

Tra tutte le relazioni amorose vissute da Si-

billa Aleramo è quella con Dino Campana ad

averle dato più celebrità, più gioia ma anche

più sofferenza (“Quell’amore di un anno è

stato il più intenso e il più terribile della mia

vita e così si spiega che io non abbia mai avuto

la forza di narrarlo distesamente. Solo tre bre-

vi poesie scrissi e rimangono a testimonianza

di quell’enorme rogo del mio cuore”).

Com’è noto, la relazione tra i due inizia con

una lettera di Sibilla, scritta da Villa la Topaia

di Borgo San Lorenzo, dove Sibilla era ospite

dei coniugi Luchaire, che Campana riceve il

10 giugno 1916, ancora inedita (è tra le carte

dell’Archivio Matacotta, probabilmente insie-

me a diverse altre lettere di Dino Campana).

Il poeta di Marradi, un po’ diffidente (poi le

chiederà scusa), scrive a Emilio Cecchi, chie-

dendogli “referenze” su Sibilla, di cui non

ha letto Una donna ma ha sentito le dicerie

sulla “innumerevole schiera”, come dirà Ma-

tacotta, di amanti. La temperatura comincia

a salire con la lettera/poesia che Sibilla scrive

a Dino dopo aver letto i Canti Orfici e con la

risposta di Dino (in francese) in cui le chiede

se “le piacerebbe vivere un po’ sotto la tenda”

(Sibilla accetta), “deflagra” (Mario Luzi) con

l’incontro tra i due, avvenuto al Barco il 3

agosto 1916 e protrattosi sino al 6. Rientrata

alla Topaia, Sibilla è completamente persa in

Dino: in procinto di ripartire per Firenze, gli

scrive ripetutamente, chiede di incontrarlo

ancora: silenzio da parte del poeta (forse lette-

re smarrite o giacenti chissà dove), che si rifarà

vivo il 9 agosto con un telegramma: “Ti aspet-

to. Dino”. Si rivedono, forse a Firenze. Ma che

“l’uomo dei boschi” avesse smantellato le sue

difese lo capiamo dalle tante cose che gli ha

scritto Sibilla tra il 6 e il 10 agosto - “Perché

non ho baciato le tue ginocchia? (...) Tu che

tacevi o soltanto dicevi la tua gioia. (...) I nostri

corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano

sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono

il cielo. (...) Oh, tu non hai bisogno di me” (...)

Dino, Dino! Ti amo.” (6-7 agosto) - e da quan-

to scrive Campana il 22 settembre “Non ti

dirò le sciocchezze che servivano di pretesto

al mio amore (...) Volevo anzi telegrafartelo

questo ritornello come una protesta brutale

della sanità vitale del nostro amore (...) Ad-

dio amore ritroverò forza tra le braccie della

mia Sibilla”. Ma è l’inizio della fine: si sposta-

no a Marina di Pisa e lì Campana, divorato

dalla gelosia e dalle sue crisi nervose, arriva

a insultare e percuotere Sibilla. Non sarà la

sola volta. Quello che occorre riaffermare -

sia dato a Sibilla quel che è di Sibilla - è che

“questa” donna, libera e forte per antonoma-

sia, incuriosita dal Campana di cui ha sentito

parlare a Firenze, come sempre alla ricerca di

un grande amore, fortemente motivata a co-

noscerlo, legge i Canti Orfici, comprende la

valenza straordinaria di quella poesia e fa la

sua scelta (abbandonando il giovane amante

del tempo, Raffaello Franchi, di appena 16

anni): amare totalmente Campana. Un amo-

re vero, pagato a carissimo prezzo, che le riser-

va “il dono spaventoso di vedere nel cuore di

Dino”, come scrive al comune amico Emilio

Cecchi. Lo stesso che riceverà la lettera “sto-

rica” di Campana in cui gli dice che “Il più

lungo giorno’ doveva essere la giustificazione

della mia esistenza” e quella del 13 settembre

1917, altrettanto “storica” (parola di Sibilla)

dalla stazione di Novara in cui l’Aleramo

gli racconta dell’incontro (sarà l’ultimo) con

Dino avvenuto nel carcere di Novara: “pure

ero sua, son rimasta sua, lo sapete”.

Lasciato Dino al suo destino (“per il bene di

entrambi”, aveva suggerito uno psichiatra) -

il delirio totale, il ricovero nel manicomio di

San Salvi e poi quello definitivo a Castelpul-

ci, dove morirà nel 1932 - Sibilla riprende la

sua frenetica attività, amorosa (non si chiama-

va “Amo dunque sono” uno dei suoi roman-

zi? E Cecchi, nella prefazione all’edizione di

“Una donna” del 1950: “ Ella è di forte tem-

peramento amoroso; e nei sensi e nello spirito,

l’amore rappresenta per lei una necessità vita-

le”), letteraria, politica: nel 1946 - tra la sor-

presa e lo scandalo dei suoi amici, si iscrive al

Partito Comunista, gira il mondo partecipan-

do a congressi, tenendo conferenze, raccon-

tando la sua storia e incitando le giovani ge-

nerazioni femminili a lottare per essere libere.

Il suo “canto” è anche il “loro” canto, come è

il canto dei diseredati a cui si è dedicata sin

dai tempi dei contadini analfabeti dell’Agro

Pontino. Vive sempre nella leggendaria “sof-

fitta” di via Margutta, che abbandonerà solo

poco prima di morire. “Una donna” ha supe-

rato le cinquanta edizioni, è tradotto in tutto

il mondo, ma lei continua a vivere in povertà.

Povera ma orgogliosa, al limite della presun-

zione, considera il suo “libro unico” addirittu-

ra un classico: il 5 agosto 1956 così scrive ad

Arnoldo Mondadori “(ho sognato di scrivervi

una lettera in cui) vi dicevo che se io fossi nata

in un qualunque altro paese, avrei in questa

occasione (80 anni, ndr) onoranze nazionali.

Perché sono un poeta, la sola donna poeta

oggi nel paese, perché il mio primo libro Una

donna avrà a novembre cinquant’anni, per-

ché i giovani si stupiscono ch’io, mezzo secolo

fa, scrivessi per i giovani d’oggi e per quelli

che vivranno il secolo venturo. E dicevo, a voi

che avete stampato la maggior parte dei miei

libri, che essendo io italiana mi accade invece

questo: che voi rifiutato di stampare alcuni

dei miei libri esauriti (fra i migliori): non solo,

svendete e mandate al macero la raccolta del-

le mie poesie e l’altra raccolta delle mie prose

migliori. (...). Io ho dinanzi a me il futuro, an-

che se voi non lo credete”. Oggi che le edizio-

ni di “Una donna” hanno superato il numero

di cento, possiamo non convenire sul fatto

che il libro sia da considerarsi un classico - il

suo valore è nel contenuto, più che nella sua

scrittura - ma certamente dobbiamo ammet-

tere che è un vero “long seller” e che Sibilla

Aleramo - “Così bella comme un rêve potrei

dimenticarti solo per andare molto lontano e

non tornare più.”, le aveva scritto Dino Cam-

pana da Livorno, il 4 gennaio 1917 - è una

donna più che mai del nostro tempo.

E ho fatto piangere tanti dacché vivo.

Che importa se per ogni lagrima che ho

fatto scendere

ne ho versate io stessa cento.

(Sibilla Aleramo in una lettera a Dino

Campana)

Sibilla era bella, incredibilmente bella,

bella,

misteriosa e pericolosa come la poesia”

(Giuseppe De Robertis)

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618 GENNAIO 2020

Di Sibilla Aleramo abbiamo molte imma-

gini, spesso tecnicamente ed esteticamente

ineccepibili (come alcune scattate da Gio-

vanni Cena), che ben colgono la sua incon-

testabile bellezza. Di Dino Campana ne

abbiamo invece, e purtroppo, pochissime, e

tra queste la più famosa, la foto di classe del

liceo Torricelli di Faenza, comprende un

falso Campana, come abbiamo scritto qual-

che tempo fa. Di Sibilla e Dino ne abbiamo

invece una sola: in questa unica immagine

sono in compagnia di un cane: Campana

ha barba e baffi, un abbigliamento quasi

elegante, Sibilla sembra indossare un abito

lungo, alla vita forse una cintura, soprattut-

to si notano i capelli neri. La foto, “mostra-

ta” da Elda Coppolino a Gabriel “Cacho”

Millet e da questi pubblicata, con l’orgoglio

che si meritava, dapprima nell’ormai intro-

vabile “Dino Campana fuorilegge” (No-

vecento, 1985) e poi in “Dino Campana

sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-

1918” (Olsckhi, 2000), stranamente non

compare in “Dino Campana. Lettere di un

povero diavolo. Carteggio (1903-1931)”

(Polistampa, 2011), sempre curato da Ga-

briel Cacho Millet, che pure ripota tutte

la corrispondenza intercorsa tra Aleramo e

Campana consultabile.

La donna della foto sembra una ragazza

(Sibilla invece doveva avere 40 anni) che

non ha nè i lineamenti, nè la conforma-

zione - sembra molto più magra - di Sibil-

la, nè la pettinatura di Sibilla Aleramo nè

soprattutto il colore dei capelli della Sibilla

Aleramo che vediamo in tutte le altre foto.

Anzi. Come scrive Bruna Conti - che, con

Alba Morino, ha curato l’imprescindibile e

ormai introvabile “Sibilla Aleramo e il suo

tempo. Vita raccontata e illustrata” (Fel-

trinelli, 1981) a pag. 7 del volume da lei

curato “Un viaggio chiamato amore. Let-

tere 1916-1918) (Feltrinelli, 2000) “i po-

chi che la incrociano (all’alba, mentre va a

prendere il treno che la porterà all’incontro

con Dino Campana del 3 agosto, ndr) non

possono fare a meno di notarla. Non solo

perché caracolla di buon mattino in solitu-

dine, ma perché è bella, assai bella. Ampia

la fronte, l’ovale del viso regolare come i

lineamenti, la bocca sensuale e tragica da

antica maschera, la pelle di madreperla e il

lungo collo tornito che si muove altero sulle

spalle. L’unica traccia che potrebbe rivelare

i suoi quarant’anni, una frezza bianca tra il

biondo dei capelli sopra la tempia sinistra,

è nascosta sotto le falde del cappello”. Sem-

bra che la foto sia stata scattata a Borgo San

Lorenzo, dove Sibilla soggiornava a Villa

la Topaia. Ma non risulta da nessuna parte

che Campana sia andato a trovare Sibilla

a Borgo S. Lorenzo (mentre le ha scritto a

quell’indirizzo). Potrebbe essere stata scat-

tata nei dintorni di Casetta di Tiara, dove

pure Dino e Sibilla stettero alcuni giorni

in quell’estate del 1916. Ma le perplessità

più forti vengono sempre dalla differenza

tra “quella” Siblla e la Sibilla delle imma-

gini coeve. A quanto pare non pochi stu-

diosi hanno sempre avuto il dubbio che la

ragazza della foto non sia Sibilla Aleramo,

e forse lo stesso Cacho Millet (ciò che po-

trebbe spiegare la mancata riproposizione

della foto nell’edizione 2011 del carteggio).

L’unica spiegazione che appare plausibi-

le è che la Sibilla della foto sia Enca, “la

russa incredibile” di cui Campana aveva

fatto cenno a fine luglio anche a Emilio

Cecchi. Sempre Bruna Conti ci dice che “

che (Enca) soggiornava a Casetta di Tiara

e che fu l’amante di Raffaello Franchi”, il

giovane poeta lasciato da Sibilla per passare

tra le braccia di Campana. Proprio Sibilla

scriveva a Dino Campana l’8 agosto 1916:

“Sei andato a veder di nuovo la Casetta? E

la russa, ti lascia in pace?”

Foto di Dino Campana con cane e... Sibilla?

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718 GENNAIO 2020

Un’altra esperienza che segna profndamen-

te il musicista bastiaccio è la collaborazione

con Roberta Alloisio. Purtroppo la cantan-

te genovese muore nel 2015, quattro anni

prima che venga pubblicato Animantiga

(2019), il frutto di questa solida amicizia

musicale. Anticipato da vari concerti a Ge-

nova e a Bastia, il disco rappresenta il testa-

mento ideale dell’artista genovese, profon-

damente innamorata della Corsica.

Sintesi ideale di amicizia, passione musica-

le e tecnica,

Animantiga spazia dalla canzone genovese

(‘”Lanterna de Zena”) a quella corsa (“I va-

scelli”, “Destini di Corsica”), senza dimen-

ticare un omaggio a quella napoletana (“Se

‘na mosca”, già proposto da Roberta Alloisio

in Lengua serpentina, 2007)..

Un disco fatto col cuore. I due protagoni-

sti sono affiancati da numerosi artisti, fra i

quali Paolo Gerbella, la cantante-poetessa

corsa Patrizia Gattaceca e Giovanni Cecca-

relli, responsabile degli arrangiamenti.

Dopo Animantiga Casalta realizza un nuo-

vo disco da solista, Trà ombra è anima. Il

nuovo CD comprende cinque pezzi inediti

e nove tratti dai lavori precedenti, rimaste-

rizzati per l’occasione. I quattordici brani

sono firmati da Casalta, ad eccezione di

quattro composti da altri.

Il chitarrista corso si conferma interprete

sensibile e raffinato, profondamente legato

alla propria identità culturale in un un’ot-

tica moderna. Fra i numerosi ospiti spicca

Oscar Del Barba, pianista e fisarmonicista,

già collaboratore di Franca Masu in Hoy

como ayer (2007) e Almablava (2013).

Ormai sono circa vent’anni che la Corsica

sta riallacciando i rapporti con le regioni

italiane alle quali è stata legata nei secoli

scorsi: Liguria, Sardegna e Toscana.

Non si tratta soltanto di iniziative istituzio-

nali stimolate dalla contiguità geografica,

ma anche di nuovi legami culturali. In que-

sto campo gioca un ruolo fondamentale la

musica.

Gli esempi sono numerosi: pensiamo a di-

schi come Mistico Mediterraneo (2011) e

Danse Mémoire (2017), registrati da Paolo

Fresu insieme al gruppo polifonico corso A

Filetta. Oppure a Isokhronos (2018), realiz-

zato da un altro corso, Jérôme Casalonga,

insieme al sardo Antonello Salis (vedi n.

322).

Un altro musicista attivamente impegnato

in questo campo è Stéphane Casalta, can-

tante e chitarrista di Bastia.

Nato nel 1968, l’artista isolano vanta un

percorso musicale versatile e coerente. En-

trato giovanissimo nel gruppo A filetta, col

quale incide due LP, nel 1992 ne esce per

fondare un gruppo proprio, Giramondu,

che propone una sintesi originale di musica

tradizionale corsa e world music. Dopo due

CD realizzati con questa formazione opta

per la carriera solista.

Il primo lavoro, Una preghera (2001), se-

gna l’inizio di un forte legame con l’Italia.

Il disco viene registrato a Firenze da Marco

Lamioni, all’epoca già ben noto per il suo

ruolo centrale nella new wave fiorentina

degli anni Ottanta.

Il 2007 segna l’incontro con la cantante

Franca Masu, prestigiosa esponente della

minoranza catalana di Alghero. I due for-

mano il gruppo Geminas e si esibiscono

periodicamente in vari concerti, senza però

incidere un disco che documenti questa

collaborazione. Si tratta comunque di un’e-

sperienza importante per entrambi, basata

su un’affinità poliforme: due culture mino-

ritarie, latine, insulari e mediterranee.

Successivamente Casalta realizza altri lavo-

ri: Terra è celu (2007), Fantasia (2011) e I

vascelli (2014).

di Alessandro Michelucci

MusicaMaestro

Affinità mediterranee

disegno di Massimo CavezzaliIl senso dellavita

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818 GENNAIO 2020

Comincio con questa breve colonna la mia

collaborazione con CUCO. Il mio contribu-

to a questa webzine (termine degli anni ‘90

ormai obsoleto) proporrà alcune storie riguar-

danti il CERN, ma soprattutto le sue perso-

ne. Ho avuto la fortuna di lavorare al CERN

per quasi diciassette anni, undici dei quali

come direttore della biblioteca, un servizio

che costituisce un’eccellenza internazionale

dal punto di vista tecnologico e culturale, in

sostegno alla grande scienza che si fa in quel

luogo. La scienza sviluppata al CERN non

è sempre facile da comunicare o da capire

ma diventa più accessibile quando ci ricor-

diamo che dietro ad ogni sviluppo scientifico

ci sono sempre le persone, ordinariamen-

te straordinarie, e le loro storie. Nel 1948

Edoardo Amaldi, allora capo dell’Istituto di

Fisica all’Università di Roma, invitò Werner

Heisemberg, premio Nobel per la fisica (“per

la creazione della meccanica quantistica, la

cui applicazione, tra le altre cose, ha portato

alla scoperta delle forme allotrope dell’idro-

geno”, come recita la giustificazione ufficiale

dell’Accademia di Stoccolma del 1932), a ve-

nire a Roma e tenere una serie di conferenze

sulla fisica delle particelle per i ricercatori

dell’Università. Per ringraziare Heisemberg

della sua disponibilità, Edoardo Amaldi

pensò di proporgli una gita turistica nella cit-

tà di Roma e incaricò il giovane ricercatore

Giuseppe Fidecaro (allora “garzone di bot-

tega all’Istituto di Fisica”) di accompagnarlo.

Giuseppe era agli inizi della sua carriera e

non aveva ancora un’auto ma aveva una bel-

la Lambretta. Egli propose allora al premio

Nobel Werner Heisemberg di fare la gita

romana in Lambretta. Werner Heisemberg

accettò, un po’ come fecero Gregory Peck

e Audrey Hepburn nel 1953 in “Vacanze

Romane”. Invece che in Vespa, Giuseppe

e Werner girarono per Roma in Lambretta,

naturalmente senza casco e senza assicura-

zione… Questa storia mi è stata raccontata al

CERN da Giuseppe Fidecaro, ora lucidissi-

mo nonno ultra-novantenne. Giuseppe (163

documenti scientifici pubblicati, specialista

nello studio dei raggi cosmici e responsabile

del Sincrociclotrone, il primo acceleratore

messo in servizio al CERN nel 1957) e la

moglie Maria (coautrice di oltre 240 pub-

blicazioni scientifiche e specialista di uno

dei primi rivelatori, la camera a nebbia), am-

bedue fisici sperimentali di fama mondiale,

hanno lavorato al CERN dal 1956 al 1995.

In pensione da oltre venticinque anni, la loro

passione per la ricerca nella fisica delle par-

ticelle è tale che, ancora oggi, si recano ogni

giorno al CERN per parlare e discutere con

colleghi giovani e anziani degli ultimi svi-

luppi degli esperimenti in corso. Giuseppe

e Maria sono da sempre assidui utilizzatori

della biblioteca del CERN. Giuseppe ha

raccolto negli anni un’importante personale

collezione di documenti scientifici relativi

alla sua più che cinquantennale attività di

ricerca nella fisica delle particelle. Un gior-

no, molti anni fa, con l’aiuto segreto di Maria,

proposi a Giuseppe di donare la sua colle-

zione privata di documenti scientifici alla

Biblioteca del CERN per renderla accessi-

bile a tutti. Giuseppe mi rispose che non si

fidava dei bibliotecari e della cura che avreb-

bero avuto dei suoi documenti. Ancora oggi

la “collezione Fidecaro” è accuratamente e

gelosamente custodita in un deposito secreto

negli immensi sotterranei del CERN e, da

ex-bibliotecario, non posso che osservare che

i curatori delle ricchezze documentali dell’u-

manità devono ancora lavorare per meritare

la fiducia completa dei loro lettori.

di Corrado Pettenati Vacanze romane di un Premio Nobel

Da sinistra: Giuseppe Fidecaro, Edoardo Amaldi, Werner Heisemberg, nel 1960, in occasione dell’inaugurazione

del Proton Synchrotron (PS), uno dei primi grandi acceleratori del CERN.

Maria e Giuseppe Fidecaro intervistati sulla loro vita al CERN nel 2012.

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918 GENNAIO 2020

Adriana Lestido, da donna a donnaLa figura femminile è sempre stata al centro

delle manifestazioni artistiche, fino dalla prei-

storia, ed è sempre stata ugualmente al centro

dell’attenzione dei fotografi. Diversamente

dalle altre arti, la fotografia comincia ad essere

praticata fino dall’inizio della sua storia anche

dalle donne, dapprima sul piano strettamente

professionale del ritratto in studio, per allargar-

si in seguito agli altri generi fotografici, come

il reportage, fino a diventare, per le fotografe

come per i fotografi, uno strumento di ricerca

e di espressione individuale. Se questo non

comporta, almeno in un primo momento, una

sostanziale differenza nella rappresentazione

della figura femminile, comporta di sicuro una

certa differenza nell’affrontare e nell’indagare

l’universo femminile. Indipendentemente dal-

la maggiore o minore profondità o superficiali-

tà dello sguardo, la raffigurazione dell’universo

femminile fornita dalle fotografe si avvantag-

gia, rispetto ai fotografi, di maggiori complici-

tà, intimità e vicinanze. La fotografa argenti-

na Adriana Lestido (nata a Buenos Aires nel

1955) ha dedicato molti anni della sua carriera

al tema dell’universo femminile. Diplomata

presso la Scuola di Arte e Tecnica Audiovisiva

di Avellaneda, comincia a lavorare come foto-

reporter all’epoca della dittatura militare, foto-

grafando anche le Madri della Plaza de Mayo,

e dal 1982 al 1995 lavora per alcune riviste,

maturando la consapevolezza delle limitazio-

ni imposte dai tempi rapidi del reportage e la

necessità di approfondire tutti quei temi che

fino ad allora aveva solamente toccato. Gra-

zie a due borse di studio, una del 1991 della

Fondazione Hasselblad ed una del 1995 della

Fondazione Guggenheim, dedica un anno alle

donne detenute con i figli nel carcere femmi-

nile di Los Hornos e tre anni al progetto “Ma-

dri e figlie”, seguendo la vita di quattro madri

con figlie di età diversa, tornando in seguito

e più volte in ambienti come carceri, cliniche

pediatriche ed asili infantili, continuando a fo-

tografare donne, bambine, madri adolescenti.

Fotografando, sempre in bianco e nero, e se-

guendo da vicino la vita quotidiana delle don-

ne, Adriana ne condivide i problemi, le inquie-

tudini, le emozioni, lo sviluppo e l’evoluzione

dei rapporti, ne registra i diversi momenti della

giornata, anche e soprattutto quelli quotidiani,

ripetitivi, apparentemente insignificanti, ma

scavando sempre al di sotto della superficie, al

di là delle apparenze, e cercando la profondità

dei sentimenti e dei legami affettivi. Le sue im-

magini oscillano fra la presenza e l’assenza, la

vita ed il ricordo, la vicinanza e la lontananza,

la speranza ed il rimpianto, il detto ed il non

di Danilo Cecchi

detto, i gesti e l’immobilità. Con le sue imma-

gini non vuole raccontare delle storie compiu-

te, non cerca di descrivere psicologicamente

i personaggi, non pretende di giudicare o di

denunciare delle situazioni, ma si immerge, da

fotografa, nella intimità dei rapporti, registra i

momenti di tenerezza o di apprensione, di feli-

cità o di stanchezza, i corpi che si abbracciano

o si distaccano, gli sguardi che si incrociano o

che spaziano lontano, nel chiuso delle stanze

o negli spazi aperti. Registra le somiglianze e

le differenze, gli incontri e gli abbandoni, le

complicità ed i contrasti, cercando di restituire

la complessità del mondo femminile in tutte

le sue sfumature, di dolcezza o di durezza, di

abbandono o di resistenza, ed i diversi atteggia-

menti davanti alle alterne vicende della vita,

senza voler dimostrare nessuna tesi, accompa-

gnando con le proprie immagini il fluire della

vita stessa, lo scorrere del tempo ed il ritorno

eterno di situazioni simili. Immagini giocate

sul filo del sentimento, della continua scoperta

delle complessità e delle difficoltà, immagini

che solo un occhio femminile sembra riuscire

a percepire ed a comporre. Nel 2001 pubblica

il libro “Mujeres presas”, nel 2003 “Madres

e hijas”, nel 2010 “Interior”, nel 2011 “La

Obra” e nel 2012 “Lo que se ve”, oltre a due

libri sull’Antartide nel 2017, frutto di un lungo

soggiorno nel 2012 in una residenza d’artista

presso l’Istituto Antartico dell’Argentina.

“Io non fotografo quello che vedo, perché lo ho

già visto. Quello che voglio vedere è quello che

i miei occhi non possono vedere. Io fotografo

quello che sento, ma che non riesco a vedere.

Cerco di fondermi con quello che guardo, bi-

sogna scomparire per diventare quello che stia-

mo guardando”.

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1018 GENNAIO 2020

Riscaldamento del pianeta, aumentano i

mesi caldi e le temperature dei sempre più

brevi inverni, nelle fogne... un calduccino, le

zanzare non muoiono mai! Arriva Rossani-

no con una megadose di insetticida.

Grande bidone di metallo, tappo e fondo

un pò arrugginiti (1947), di “Super Faust

al D.D.T.” La eloquente decorazione ci fa

sognare: una casina perbenino è sovrastata

da un diavolaccio rosso di nero ammantato

che impugna, a mo’ di arma di sterminio di

massa, un “flit”, da esso fuoriesce una nuvo-

letta grassoccia che contiene insetti di vario

tipo e zanzare a gambe ritte, stecchiti. Fon-

do blu, in alto citazione dantesca “lasciate

ogni speranza o voi che entrate”, in giallo

il nome del prodotto che, si precisa “non

addormenta, fulmina” e, in basso, piccolo,

Ditta Ruggero Benelli Super-Iride Prato.

Spunti numerosi per storielle frammentarie.

Per flit si intendeva il marchio, registrato nel

1930, di uno specifico insetticida da nebu-

lizzare, poi ogni insetticida spruzzabile ed

ancora poi, per trasferimento di significato,

l’attrezzo usato per spruzzare, un tubo con

uno stantuffo che pesca in un piccolo serba-

toio con il liquido scelto. La parola deriva

da fly-tox, tossico per le mosche, c’era un

refrain famosissimo “ammazza la mosca col

flit” e tante variazioni, fra esse “ammazza

la vecchia col flit e se non muore col gas”! Il

terribile ed oleoso odore di petrolio che se-

guiva ogni spruzzata di flit fatta dalla nonna

nei pomeriggi di canicola estiva è ancora nel

mio naso… Il Dicloro-Difenil-Tricloroetano

è il primo importante insetticida, scoper-

to nel 1939 da un chimico svizzero, Paul

Hermann Müller che lavorava alla Geigy.

Partecipando ad una ricerca su agenti pro-

tettivi per le piante, scoprì dei composti che

avevano proprietà battericida ed insetticida.

Per 4 anni studiò tutto il possibile su inset-

ti e prodotti che li potessero danneggiare,

dopo 349 tentativi infruttuosi spruzzò l’ul-

timo sintetizzato in una gabbietta di mosche

seccandole tutte. Pur non laureato, fu insi-

gnito del Nobel nel 1948. Si deve al DDT

la definitiva sconfitta della malaria in Italia

e nel Nord America. I soldati americani lo

avevano in dotazione e ne fecero ampio uso

nella evacuazione dei Campi di Concentra-

mento, e da noi, disinfestando un milione di

napoletani, scongiurarono il diffondersi di

una pericolosa epidemia di tifo petecchiale,

trasmesso dai pidocchi. Sempre al DDT si

deve la nascita del primo movimento am-

bientalista americano, nel 1962 una biologa

e zoologa, Rachel Carson, già autrice di libri

sugli ecosistemi marini, pubblicò “Prima-

vera silenziosa”, frutto di studi e ricerche

durati quattro anni; in esso descriveva gli

effetti negativi su animali ed ecosistema e

cancerogeni per l’uomo di questa sostanza.

Il suo interesse per la salvaguardia dell’am-

biente terrestre fu stimolato dalla pubbli-

cazione su un giornale della lettera di una

sua amica che denunciava la morte di tutti

gli uccelli della sua voliera dopo la irrora-

zione della zona con DDT. Pur osteggiata

dalle ditte prodruttrici di pesticidi, la sua

ricerca ne provocò la graduale messa la ban-

do. Oggi è usato solo in paesi dell’Africa e

dell’India in cui la malaria regna sovrana.

Salto alla Benelli, grandissima Ditta, di pro-

prietà della omonima famiglia, produceva

famose tinture per colorare, anche in casa,

le stoffe, (Super Bianco), cere per pavimenti,

Liù, ed insetticidi. Sia di misura del volume

delle loro vendite il treno dai vagoni gialli

su cui erano disegnati i prodotti Super-Iride

che usavano per spedirli in Italia e non solo.

Molti Caroselli e personaggi della pubblici-

tà ad essa riconducibili negli anni ‘60 e ‘70,

fra cui Riccardone e Svanitella. Si sgretolò

alla fine delgli anni 90.

Flit non addormenta, fulmina Bizzariadeglioggetti

a cura di Cristina Pucci

dalla collezione di Rossano

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1118 GENNAIO 2020

La Cour Carrée ospita fino al 25 gennaio

la mostra del fotografo messicano Gildardo

Gallo dal titolo “Streghe e Incantesimi”:

quattro grandi foto ( 200 x 150cm e 143

x 120cm ) estrapolate da un più ampio

progetto che l’artista ha esposto nel 2018

in Messico, nella città di Morelia, a Città

del Messico, Guadalajara e San Miguel de

Allende, con notevole successo di pubbli-

co e critica. Luci ed ombre mirabilmente

studiate ad avvolgere morbidamente le due

misteriose figure femminili che si stagliano

su fondi scuri, appaiono in netto contrasto

con gli effetti brillanti degli elementi florea-

li da cui scaturiscono morbide nubi di varie-

gati colori. Un clima di magia permea que-

ste foto: le due diafane figure femminili

con gli occhi e le pupille dilatate sembrano

contemplare mondi sconosciuti, lontani da

noi. Quest’ opera, come afferma il fotogra-

fo, ha tratto ispirazione dal periodo dell’o-

scurantismo e vuole essere un omaggio alla

donna e al suo fascino magico che si snoda

attraverso i secoli. I lavori di Gildardo Gallo

presuppongono un lavoro di ricerca intenso

e raffinato che precede gli scatti: dalla scel-

ta delle modelle, agli abiti da indossare, agli

oggetti di scena e soprattutto la scelta delle

luci a cui è affidato il compito di creare at-

mosfere ricercate e raffinate. Maestro nella

realizzazione di ritratti, il fotografo elimina

qualsiasi orpello sul fondo delle scene in

cui colloca i suoi personaggi, orpelli che ri-

schierebbero di distrarre lo sguardo dell’os-

servatore che deve rimanere concentrato

come quello dei protagonisti delle sue foto.

Formatosi come grafico a Morelia in Mes-

sico, scopre la fotografia di ritratto che per-

feziona con studi a Firenze, città nella qua-

le vive e lavora fin dal 2002. La conoscenza

approfondita dei lavori di fotografi come

J.P. Witkin, Irving Penn, Erwin Blumen-

feld e Andres Serrano, studiosi dell’ estetica

della figura umana e del suo comportamen-

to, costituiscono il fertile terreno su cui si è

innestata la sua passione per la fotografia.

Gildardo Gallo ha esposto in molteplici

personali e collettive in Italia e all’estero,

fra cui mi piace ricordare la suggestiva mo-

stra dal titolo “ Gli Eroi Invisibili” - 2005,

in cui il fotografo affronta in modo incisivo

e senza retorica la tematica della vita con-

temporanea che, con la sua frenesia, disto-

glie l’uomo dal comprendere quali siano i

bisogni fondamentali della sua esistenza. A

Firenze nel 2013, presso “Self Habitat” si è

tenuta la mostra collettiva ‘Sguardi Rifles-

Streghe e incantesimi a La Cour Carrée

di Giovanna Sparapani

si’: nelle due splendide opere di Gildardo

Gallo dal titolo ‘Pneuma’, si fa riferimento

a mondi trasversali che vivono dietro le im-

magini riflesse nello specchio, con risultati

di notevole lirismo ed estrema raffinatezza.

Gallo lavora parallelamente nel mondo del-

la moda, dove trova anche la possibilità di

continuare il suo lavoro di accurata inda-

gine sulla figura umana e la sua estetica. “

Streghe e incantesimi” di Gildardo Gallo

in mostra fino al 25 gennaio 2020 presso la

Cour Carrée box 23, Largo Annigoni, Fi-

renze. Orari: dalle 10alle 15.dal martedì al

sabato

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1218 GENNAIO 2020

L’inventario è tutela

del ‘Progetto Inventario’ si dovrebbe dare

per scontata una scambievole collabora-

zione. Come sempre specifica la CEI, detto

Inventario deve tener conto degli inventari

esistenti, integrarli, e, quando necessario,

aggiornali (cfr. “Modalità operative, Recu-

pero Inventari esistenti, 3”). Nel paragrafo

sulla “Programmazione” si specifica che

da parte loro “le Soprintendenze stabili-

scono d’intesa con le competenti Autorità

ecclesiastiche: i luoghi dell’intervento, le

tipologie di beni, le modalità, il periodo e la

durata delle campagne di inventariazione”

secondo la già citata “Intesa per la tutela

dei beni culturali ecclesiastici”, sottoscrit-

ta il 13 settembre 1996 dal Ministro per i

Beni Culturali e Ambientali e il Presiden-

te della Conferenza Episcopale Italiana

(in “Notiziario C.E.I.” n. 9, 20 novembre

1996, pp. 336-347). A monte della collabo-

razione fra Diocesi e Sovrintendenze, cioè

fra Chiesa e Stato, sta su questo tema l’Ac-

cordo Concordatario del 18 febbraio 1984.

Il “Progetto CEI” suggerisce elasticamente

che esso “potrà essere adattato di volta in

volta alle situazioni e alle esigenze locali”,

specificando che “una volta realizzato” sia

“messo a disposizione degli studiosi per la

consultazione, [svolgendo] cioè una funzio-

ne analoga a quella dell’archivio e della bi-

blioteca diocesana”. (continua)

Nel corso della mia passata esperienza in

campo di Inventariazione entro un conte-

sto di Beni culturali ecclesiastici, mi sono

trovata a condividere – in modo diretto e

pragmatico – le indispensabili linee gui-

da della Conferenza Episcopale Italiana

(CEI), nella sua Circolare “Amico del

clero”, n.2, del 26 gennaio 1998; quest’ul-

tima pubblicata dopo l’intesa con la CEI

(1996) di promuovere e coordinare l’In-

ventario ecclesiastico dei beni artistici e

storici delle diocesi italiane. Le Diocesi,

peraltro tenute all’Inventario dei loro

Beni secondo il Codice di Diritto Ca-

nonico (CDC, Libro V, 1283, 2) che le

invita a seguire rigorosamente le norme

per l’Inventario ecclesiastico dei Beni sto-

rico-artistici, devono dare la precedenza -

come la CEI stessa consiglia - ai Beni mo-

bili, cioè a “dipinti, sculture, suppellettili,

paramenti, ecc. perché sono quelli più a

rischio”. Per questo tipo di Patrimonio di

cui le Parrocchie fanno in gran parte an-

cora uso liturgico e che, essendo esposto

ad un utilizzo, è esposto di conseguenza

a” rischio”, è scontato che si parli di Inventa-

riazione e che quest’ultima sia ben fatta e si

avvalga “del tracciato dei dati d’inventario

già utilizzato dalle Soprintendenze /…/, nel-

lo spirito dell’Intesa 13 settembre 1996 (cfr.

art. 4)”. Nel corso dell’Inventario, le Dioce-

si non solo opereranno una capillare com-

parazione e verifica dei dati reperiti dalle

Sovrintendenze e/o da altri Enti pubblici,

ma “per quanto possibile al [loro] livello”

verificheranno questi stessi dati in quanto

il Patrimonio mobile è di per sé soggetto a

movimentazione, a degrado o, all’opposto,

è sottoposto - a parer mio - alla possibilità

del fortunato ritrovamento di documenti

che ne aggiornino la genesi, ne specifichino

la funzione ecc. Ne deriva una necessaria

stretta collaborazione con studiosi spe-

cialisti del sito ecclesiale, quali il parroco,

l’archivista o altra persona idonea indicata

dalla Sovrintendenza: infatti, in contesti

particolarmente ricchi di Beni mobili, non

possono considerarsi sufficienti figure ester-

ne quali il Responsabile diocesano, il Di-

rettore scientifico Docente universitario di

Storia dell’Arte, lo Schedatore specializzato

in Storia dell’Arte, il Revisore con partico-

lare preparazione scientifica. Là dove esiste

la combinazione della presenza di un Ar-

chivio o, almeno, di una persona contestual-

mente competente, per la buona riuscita

di M.Cristina François

[

Esemplare di ‘Inventario’ (del 5 agosto 1947) che attesta alcuni Beni ecclesiastici - già inventariati dalla Sovrintendenza - e andati distrutti

“ad opera dei Tedeschi la notte sul 4 Agosto 1945 [1944]”

di Paolo della Bella

Della Bella gente

Perele non ha mai digerito la rottura del suo

primo fidanzamento e terminati i “doveri” di

brava moglie e madre decide di riprendersi

tutto ciò che avrebbe dovuto essere suo. Un

viaggio nell’ebraismo meno aneddotico e più

legato allo studio della Lituania tra prima e

seconda guerra mondiale, un mondo estintosi

qui in Europa che invece riecheggia nell’Israe-

le odierno. Un libro davvero bello da leggersi e

da ripensare

Chaim Grade, La moglie del Rabbino, La

Giuntina, 2019, € 15,30 (Ebook € 9,99)

di Paolo della Bella

L’indomabile Perele

Microrece

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1318 GENNAIO 2020

Abbiamo considerato e continuiamo a con-

siderare la riproduzione fotografica come

una valida sostituta della realtà visibile. Ap-

pannaggio fino all’invenzione della fotogra-

fia della pittura e della scultura. Quando la

fotografia, ha raggiunto con il colore la sua

completezza, ha messo in seria discussione

la pratica di ogni tecnica pittorica finaliz-

zata alla rappresentazione delle cose, delle

persone e dei luoghi. La mostra: “De Nittis

e la rivoluzione dello sguardo”, allestita in

Palazzo dei Diamanti a Ferrara, ci presenta

a mio avviso le preoccupazioni, le curiosità

e maggiormente la volontà di lottare di un

pittore Giuseppe De Nittis (1846-1884),

che come i suoi contemporanei, ha vissuto

un momento di passaggio che ha costretto

la pittura fino ad allora unico strumento per

la rappresentazione del mondo e di chi lo

abitava ad abbandonare la sua ragione do-

cumentaria e documentativa. Il percorso

della mostra, presenta pitture di De Nittis

alternate a fotografie di autori a lui contem-

poranei, sottolineando lo scambio reciproco

tra i due linguaggi di esperienze e potenzia-

lità. Tra le notizie fornite sulla vita e l’opera

dell’artista, appariva l’elenco redatto alla

sua morte di quanto era presente nel suo

studio. Tra le quali cose, mi ha colpito e for-

temente incuriosito la presenza di una car-

rozza attrezzata come studio da lui utilizza-

ta per la pittura en plein air. Monica con la

quale stavamo visitando la città, osservava

quanto la sua pittura fosse vicina per la

scelta dei soggetti, il taglio compositivo con

inquadrature audaci e sorprendenti, l’im-

mediatezza esecutiva, agli scatti degli attua-

li fotoreporter. Questa considerazione di

Monica, sommata alla notizia della carroz-

za studio, ci ha portato ad immaginare il pit-

tore a bordo del suo atelier mobile, come un

“paparazzo” ante litteram, che certamente

sceglieva anche per convenienza di ritrarre

personaggi della mondanità, “sorpresi” sui

boulevards parigini e nel loro tempo libero,

alle corse dei cavalli e nei salotti eleganti.

Giuseppe De Nittis, pittore reporterdi Valentino Moradei Gabbrielli

Non è più il caso di guardare indietro, bensì di

cogliere quali “opportunità” sembri offrire il

mercato per nuove attività destinate ad inter-

cettare dei precisi, e nuovi, bisogni. Ovviamen-

te, non vogliamo invadere campi già occupati

da chi, prima di noi, si è dichiarato paladino,

se non difensore dei diritti (che finora non gli

erano parsi tutelati) di cui sono portatori colo-

ro che stanno sperimentando nuove forme di

attività. Questa è la ragione per cui evitiamo

di parlare dei seguenti mestieri: il mestiere

(certamente non facile) di essere Italiano, in

quanto tutti coloro che lo sono sembra abbia-

no conferito (stando a quanto da lui affermato)

un mandato a tale avvocato Conte, del Foro di

Firenze; il mestiere (precario come pochi altri)

di “rider” non vale la pena di essere descritto,

anche perché capita a tutti di vedere per strada

ciclisti muniti di capiente zaino, spesso intenti

a manovrare tablet o simili aggeggi. Di loro, si è

fatto protettore, fin dal suo insediamento, nien-

te popo’ di meno che l’ex vice Presidente del

Consiglio dei Ministri; il mestiere di “posteg-

giatore abusivo”, così pare, è in disgrazia e (per

amor di patria) non stiamo a riferire chi sembra

ne proteggesse un bel gruppo.

E, allora, quale sembra essere una delle oc-

cupazioni che è andata per la maggiore nelle

settimane intorno a Natale ed in queste prime

settimane dell’anno?

Francamente, non saprei come definire chi

esercita questa attività.

Eppure, ci è capitato di vederne i frutti in al-

meno due zone della città in cui viviamo (zone

neppure troppo contigue, se è vero che le sepa-

ra non solo un paio di chilometri in linea d’aria,

ma addirittura il corso di un fiume).

Potrebbero chiamarsi, con un acronimo:

“ADA” (Appenditori Di Abbigliamenti), op-

pure “DDS” (Distributori Di Sciarpe), o anche

“IDC” (Insacchettatori Di Calorie).

Di solito, agiscono all’imbrunire, quasi di sop-

piatto.

Mettono sciarpe, o guanti, in sacchetti di nylon

trasparente e li appendono ai tronchi degli al-

beri di un viale.

O anche appendono delle grucce con soprabi-

ti, o giacconi, al muro di un cavalcavia, sotto il

quale cercano riparo, la notte, dei senza tetto.

Di solito dei cartelli, invitano chi passa da lì e

apprezza il desiderio di indossarli di servirse-

ne, o di donarli ad altri che ne hanno bisogno.

Qualche sigla, apposta come firma, fa sospetta-

re che questi attacchi alla crescita del PIL (veri

e propri boicottaggi del mercato, nell’epoca dei

SALDI) siano opera di giovani, spesso mino-

renni (e, quindi, non punibili), mandati a spe-

rimentare questa attività da adulti che operano

in quei luoghi che, un tempo, si denominavano

Parrocchie.

Qualcosa si risveglia.

Se lo sa Zingaretti, il rischio è che apra anche

a loro...

Anno Nuovo, mestieri nuovi

I pensieri di Capino

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1418 GENNAIO 2020

Nel 1893 due cugini, Théophile Bader

e Alphonse Kahn decisero di aprire una

piccola merceria che chiamarono pompo-

samente Aux Galeries Lafayette perché si

trovava appunto in rue Lafayette. Ebbero

successo e nel 1912 acquistarono un intero

edificio nel vicino boulevard Haussmann

per creare un grande bazar di lusso, un

ambiente innovativo di cinque piani che si

affacciano su una grande sala, con balconi

dalle balaustre decorate con foglie in stile

art noveau, illuminata dalla luce naturale

che filtra dall’enorme cupola con vetrate in

stile neobizantino. Oggi Galeries Lafayette

attira milioni di visitatori ogni anno. Pochi

di loro sanno però che la costante ricerca

di novità e la voglia di stupire anticipando

i tempi hanno portato negli anni Galeries

Lafayette a instaurare un forte legame con

l’arte contemporanea e a fondare nel 2001

la Galeries des Galeries per promuovere

la trasversalità tra arte, moda e design. Poi

nel 2018 la sfida, nata da un’idea del presi-

dente delle Galeries Lafayette, Guillaume

Houze, di creare un grande spazio in cui

tutte le discipline artistiche si mescolano e

si presentano al pubblico in modo comple-

tamente innovativo. Il nome è un program-

ma: si chiama Lafayette Anticipations. Si

trova nel Marais, a pochi passi dal Centre

Pompidou, in rue du Platre 9, ricavato in un

palazzo storico del 1891. L’edificio, di pro-

prietà del gruppo Lafayette, che ha 7 piani

e una una superficie totale di 2.200 mq, è

stato completamente riconfigurato dal fa-

moso architetto olandese Rem Koolhaas

che ha inserito un nuovo volume di 875 mq

nel cortile interno a forma di torre in acciaio

e vetro alta 19 metri. Questa torre è una sor-

ta di “macchina per esporre” consentendo

attraverso lo spostamento e l’innalzamento

di 4 solai che sono piattaforme mobili la

massima flessibilità d’allestimento secondo

49 differenti configurazioni. Dice Koolhaas

Vedere il cambiamento fisico nelle propor-

zioni dell’edificio è offrire agli artisti l’op-

portunità di comporre le misure delle loro

opere secondo il loro proprio spazio creati-

vo. A questo incredibile, avveniristico luo-

go, dedicato alle creazioni contemporanee

di tutte le discipline artistiche, si aggiunge,

nel seminterrato, un laboratorio a dispo-

sizione degli artisti ospiti per creare i loro

lavori. La zona in questa parte del Marais

offre altre sorprese. Uscendo dal secondo

ingresso di Lafayette Anticipations, in rue

Sainte-Croix de la Bretonnerie, ci si trova

davanti a Eataly, aperto da pochi mesi in

un altro splendido palazzo storico, sempre

di proprietà del gruppo Lafayette titolare

del franchising esclusivo del marchio italia-

no in Francia. Illuminato dal tetto in vetro

dell’artista scozzese Martin Boyce, lo spazio

di 4000 mq di cui 2.500 aperti al pubblico,

ha 400 posti a sedere e un centinaio sulla

terrazza. All’interno una profusione di ban-

coni ricolmi di pasta fresca, formaggi, 47

tipi di pane (tutti prodotti fatti quotidiana-

mente nel laboratorio dentro Eataly), salu-

mi, una macelleria, un mercato di frutta e

verdura, caffetterie, gelaterie, sette ristoran-

ti (chiamati con modestia “punti di ristora-

zione”), naturalmente una pizzeria e nel se-

minterrato La taverna del vino, considerata

la più grande cantina di vini italiani a Parigi

con 1200 etichette. Le 300 persone che ci

lavorano, delle quali il 60% sono italiane, si

alternano in questo enorme santuario del

cibo dalla mattina alle 8.30 a mezzanotte

per sette giorni alla settimana. Tutto questo

per dire che Lafayette non è solo vetrine.

di Simonetta Zanuccoli

Lafayette, una macchina per esporre

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te e – pare - agevolmente conseguita. Anco-

ra acerbo, adolescente, seppe dare alla luce

manufatti ricchi di risonanze artistico-cul-

turali, come il “Ritratto con cappello e fiori”

(1913), la “Fruttivendola” (1915), il “Vec-

chio fumatore” (1915), il “Ritratto del poeta

Gino Chierini” (1916): dove si esprimono

una personalità aperta alle contaminazioni,

una statura decisamente lontana da qualsi-

voglia provincialismo e dove i colori, prima

ancora dei soggetti, dominano la tela e cattu-

rano l’occhio; una ‘festa’ che rinvia in parte

ai moduli espressivi di un Cezanne, ma non

si ferma lì e si porta sui lidi dell’arte fauvista

e futurista. Di pittura squisitamente futuri-

sta sono fulgidi esempi il “Vicolo notturno”

e “La cocomeraia” (entrambi del 1917) ma

Primo – ancora una volta rinnovandosi - pro-

vò a inserirla nei registri dell’estrosità e del

grottesco, come appaiono rispettivamente

nel “Saltimbanco” (1918) e ne “L’oste burlo-

ne” (1918) – quest’ultimo autentico innesto,

sul ‘letto’ futurista, di un lessico simbolista e

metafisico.

La tecnica di Conti si mostra incostante,

duttile, cangiante, poiché è al servizio di

una sensibilità acuta e vorace. La si constata

perfettamente ‘fermata’ in un dipinto di rara

complessità, quel “Ritratto in rosa e nero”

(1917) che mi è parso/mi pare una delle vet-

te della pinacoteca. Così posso affermare an-

che per “La cugina Pia” (1920), reputato un

caso unico nell’itinerario dell’artista, in cui

- grazie alla capacità di introspezione psico-

logica e ad una tecnica pittorica finissime - si

aggiunge l’impronta dell’ineffabile,

Né possiamo tralasciare i disegni, molti dei

quali (magnificamente, va detto) allo stato

di bozzetti, di figure incompiute (senonché,

nell’arte, il concetto di incompiuto molto

probabilmente è un non-senso): così il suo

“Autoritratto” (1915-16), eseguito con mati-

ta a cera su foglio di quaderno a quadretti, è

denso di poesia, di forza evocativa, per lo più

maneggiate, domate con una tecnica consu-

mata: ce n’è già più che a sufficienza - del suo

essere, della sua individualità - per affermare

che nulla, davvero nulla vi manca del giova-

ne Primo.

In Primo era già come iscritto il suo talento

precoce. I nomi, a volte, non si sa se siano più

un (anticipato) riconoscimento o una profe-

zia. In ogni caso il pittore sbocciava che ave-

va undici anni: ce lo testimonia il suo “Au-

toritratto”, del 1911 (il primo di una serie,

nel corso degli anni), che è, oltre al resto, un

segno di assertività che vogliamo immagina-

re al servizio di un magari mai pronunciato,

eppur verosimile “Eccomi!”. Come l’incipit

di una avventura artistica che sarebbe durata

tre quarti di secolo e che egli ha vissuto at-

traversando numerose correnti - senza però

averla inquadrata, ovvero ‘chiusa’, in alcuna

tra esse. Così, a chi chiedesse che genere di

pittura sia stata quella di Primo Conti, cre-

do che neanche il più esperto, di quella, sa-

prebbe rispondere. Perché, se è vero che il

suo universo è “inscindibile dal Futurismo”,

altrettanto può affermarsi la sua inclinazio-

ne a “lasciarsi attraversare, come un duttile

medium, dalle diverse traiettorie che con-

temporaneamente percorrono il secolo, e la

capacità di far convergere su se stesso, come

centro e catalizzatore, il portato delle molte-

plici esperienze” (Giovanna Dalla Chiesa,

“L’avanguardia lirica di Primo Conti”, ne “Il

Museo Primo Conti”, 1987, pag. 12). Questa

sua libertà dalle scuole, dalle correnti e dalle

avanguardie, unita tuttavia alla originalità

con cui vi si è immerso e mediante la quale

ha interpretato e declinato nelle opere l’arte

del proprio tempo, fanno di lui un protagoni-

sta di primo piano dell’arte italiana del XX°

secolo. Ancorché, si può dire, rimasto un po’

come in seconda fila.

Di questa articolata esperienza culturale ed

artistica è solida conferma la raccolta di di-

pinti (65) e di disegni (oltre 150) custodita

della Fondazione che da lui ha preso il nome,

al piano terra della villa quattrocentesca de

“Le Coste” - in quel di Fiesole - dove Conti

ebbe a vivere per circa 35 anni.

Vi si accede per una porta che Primo volle

dipinta di rosa e subito si è al cospetto delle

opere più recenti, realizzate negli anni ‘70; vi

è in evidenza il tema dell’eros, tradotto con

segni e forme essenziali in tele di notevoli di-

mensioni, ove si rinsalda la fiducia nella pro-

messa di una energia e di una vitalità primor-

diali e imperiture, come manifesti esposti a

dispetto del tempo: tra gli altri, il “Grande

nudo erotico” (1973) e l’“Incontro erotico”

(1973-76). Ma per chi scrive non è qui il

Conti magistrale.

Procedendo nelle sale e prestando l’occhio

alle date delle opere, colpisce appunto la sua

maturità artistica in quanto così rapidamen-

Primo di nomeprecoce col talento

di Paolo Marini

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di Gianni Bechelli

socialisti e comunque ha favorito sempre il

miglioramento delle condizioni di lavoro e

di democrazia, che niente hanno avuto a

che fare con quei regimi assoluti. Ma buona

parte dell’umanità ha subito e ancora oggi

subisce, direttamente o indirettamente, le

conseguenze di quei regimi irriformabili

dall’interno, e sono quelli sembrano lasciare

il segno più evidente nella storia. Marx ha

iniziato la sua attività in Renania difenden-

do e pagando sulla propria pelle con l’esilio

francese, belga e londinese per promuovere

quelle libertà individuali, di critica , di pa-

rola, di stampa che sono le caratteristiche ti-

piche di un pensiero liberale e democratico.

Marx un liberale? Lo sostengo e non da ora

e non è così estemporanea questa conside-

razione visto che già nel 2012 il professor

Mario Alighiero Manacorda affrontava il

tema col suo “Quel vecchio liberale del co-

munista Karl Marx”. Vedo già qualcuno a

destra ma anche a sinistra sobbalzare sulla

sedia. Molto più semplice condannarlo alla

damnatio memoriae dopo averlo esaltato

magari senza alcun spirito critico a suo tem-

po. Eppure, se non bastassero i suoi articoli

sulla Gazzetta Renana del 1842 contro la

censura, per la libertà di stampa, per l’au-

tonomia dello Stato, la laicità, attribuendoli

magari a giovanili ardori poi abbandonati,

scriveva trent’anni dopo, come ci ricorda

una relazione del professor Stefano Pe-

trucciani della Sapienza di Roma : “si pensi

alla critica dello Stato pesante, ipertrofico,

e burocratico nella “Guerra civile in Fran-

cia” (1871) e “Nella critica al Programma

di Ghota”(1873) la critica dello Stato edu-

catore, sostenuto dai Lassalliani ribadendo

che ognuno deve poter soddisfare tanto i

suoi bisogni religiosi che corporei senza

che la polizia ci ficchi il naso”. E pur vero

che Marx non ha costruito un’ipotesi isti-

tuzional- politica di transizione organica

al futuro, solo Engels, dopo la morte dell’a-

mico, ha esaltato il Parlamento Tedesco in

cui cresceva la socialdemocrazia. Marx su

questo era più reticente. Forse non aveva

un’opinione così centrata come la nostra

sulla democrazia rappresentativa parla-

mentare, vista a suo tempo la base eletto-

rale assai ristretta ai maschi e possidenti

un reddito di un certo rilievo per cui aveva

qualche motivo a ritenerlo uno strumento

di “classe”, perché lo era davvero. Si capi-

sce solo che in una fase di transizione in un

sistema elettivo nazionale ( a voto universa-

le? ) rappresentante di realtà certamente

elettive locali con maggioranza, ovviamen-

te di per sé proletaria, avrebbero reso snel-

la ogni attività burocratica, ridotto il ruolo

di autorità esterne centrali. E la dittatura

del proletariato allora? Francamente non

si capisce bene quando ne parla, ma certo

non fa riferimento ad un sistema repressi-

vo di polizia, ma alla logica di sopraffazione

insita in una maggioranza che deve far va-

lere i suoi obbiettivi di superamento della

proprietà ad esclusivo beneficio di alcuni,

e di nuova egemonia di classe, così come la

borghesia l’ha espressa in società democra-

tiche, fino all’estinzione dello stato, garante

dei domini di classe che a quel punto, dopo

questa fase di transizione, non esisteranno

più. Io sono convinto che quella un po’ in-

genua idea del superamento finale dello sta-

to e dell’estraneazione della politica tramite

una concorde autogestione e l’allargamento

delle libertà che furono componenti del suo

pensiero, derivi sempre dalla sua motiva-

zione libertaria di fondo, all’opposto dello

stato assoluto di Hegel, il che rende ancor

più paradossale la filiazione di giganteschi

moloch statuali. (continua)

Da più parti a sinistra si invoca un ritorno

a Marx, anche per le sue intuizioni circa la

finanziarizzazione e la globalizzazione eco-

nomica del mondo, derivanti dall’idea che

il capitalismo ha una necessità costante di

allargare i mercati per contrastare i rischi

della stagnazione e recessione, producendo

così sotto i nostri occhi ,tra mille contraddi-

zioni spesso tragiche, una sorta di unifica-

zione del mondo, dopo di ché, unificato il

mondo, dovrà trovare nuove forme di allar-

gamento e diversificazione dei mercati che

bisogna capire e provare a governare invece

di laisser-faire Un punto vero, un condi-

visibile recupero di quel pensiero, ma non

si può evitare un altro punto assai dolente

circa una domanda di fondo senza la quale

ogni tentativo di resuscitare quell’imposta-

zione di pensiero mi appare piuttosto fragi-

le: com’è stato possibile che un movimento,

un pensiero che a lui faceva riferimento

e che si proponeva libertà eguaglianza e

giustizia sia stato alla base di rivoluzioni e

sconvolgimenti epocali, che nel ventesimo

secolo hanno costruito alcuni dei sistemi

più oppressivi della storia, con caratteristi-

che che riportano alle monarchie assolute

spesso con la designazione al potere per fa-

coltà dinastica e familistica ovunque si sia

andati al potere in suo nome ? Non si tratta

della ormai consunta critica ai regimi comu-

nisti come prova dell’autenticità democrati-

ca della sinistra europea . E’ un tema che va

affrontato invece, nel riprendere le gigan-

tesche opportunità che un pensiero come

quello di Marx continua ad offrire, perché

la storia questo ci consegna, e non basta l’i-

dea che si tratti di eresia, perché questa è la

storia di tutti i regimi fondati in suo nome.

O c’è qualcosa di totalmente sbagliato nel-

la sua teoria della lotta di classe o le rivo-

luzioni del ventesimo secolo, a partire da

quella russa e seguire sono il frutto di una

gigantesca mistificazione del suo pensiero.

Tertium non datur. Io propendo per la se-

conda ipotesi, con alcune riflessioni critiche

di fondo però, avendo sempre pensato che

la vita ed il pensiero del filosofo di Treviri

si sia formato, fin dagli entusiasmi giova-

nili hegeliani, nel tentativo di dare corpo

all’idea di libertà per tutti e come concreta-

mente raggiungerla, ed è questa concretez-

za che lo porta ad incrociare i temi sociali

per realizzarla compiutamente, superando

l’astrattezza illuministica dei valori. So be-

nissimo inoltre che il pensiero di Marx in

Occidente è stato decisivo anche laddove

si è andati alternativamente al potere come

Quel liberale del Karl Marx

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Giordano Bruno Guerri presenta il laboratorio di scrittura l’Officina del Premio

L I B R I D ’A R T E

Sotto al loggiato di Piazza del Comune, nel

centro storico di Prato, si trova l’«Antica Torre-

fazione del Caffè Padovani». È lì che incontro

Alberto Padovani, la terza generazione della

famiglia Padovani. Appena entro nel negozio,

vedo Alberto dietro al bancone, sta servendo un

cliente; aspetto che abbia finito e nel frattem-

po osservo attentamente quel luogo. I silos del

caffè, l’insegna originale del 1929 appesa alla

parete e le caramelle sfuse. Mi viene in mente

un’espressione dialettale ricorrente tra i pratesi

«Questo gl’è i’ caffè de’ Padovani» a sottolineare

che non c’è bisogno di spiegazioni aggiuntive

e che quel cognome da solo basta a garantire

la qualità; mi viene anche in mente la scena di

una nipotina in braccio al nonno che, indicando

tra le numerose tipologie di caramelle, sceglie

quelle da mettere nel sacchettino trasparente.

«Agli inizi del ‘900 Ubaldo Padovani, il fratello

di mio nonno, cominciò a lavorare come ragaz-

zo di bottega nella drogheria sotto al loggiato di

Piazza del Comune e all’età di venticinque anni

rilevò quella bottega insieme al fratello minore

Pietro, continuando nel commercio di coloniali,

generi alimentari e aggiungendo la torrefazione

del caffè. Cominciarono con una torrefattrice

artigianale che poteva cuocere poco più di 10

kg di caffè per volta. Ma fin da subito puntarono

sulla ricerca delle migliori qualità di caffè prove-

nienti da tutto il mondo. Ancora oggi a distanza

di molti anni, il caffè Padovani viene prodotto

completamente a Prato. Poi dal 1987 abbiamo

aperto anche un punto vendita in via Paolo

dell’Abbaco, dove risiede la nuova macchina

torrefattrice. Oggi ci siamo io, mio fratello e i

miei cugini» mi dice. Sono incuriosita nel sape-

re qualcosa in più sull’arredamento del negozio:

«Nel 1936 ci fu il rinnovo del locale, dal banco-

ne, agli scaffali dietro fino al banco dei tabacchi.

Da allora non sono più cambiati. Pensi che in

tempo di guerra la parte in metallo del banco

era stata punzonata, guardi lo stemma “Fabbri-

guerra” apposto sopra, nel caso in cui ci fosse

stato bisogno di materiale bellico, sarebbe stata

requisita. Quella che oggi è la parte posteriore

del negozio, prima era la torrefazione, è lì che fu

installata la prima torrefattrice. Mi diceva mio

zio, riportando i racconti di suo zio che entrò qui

nel 1900, che la porta è rimasta la stessa. I silos

del caffè sono stati inseriti negli anni successivi»

e aggiunge: «La scelta di lasciare l’arredamento

esattamente come era in passato non è casuale.

Ovviamente facciamo una manutenzione co-

stante ma cerchiamo sempre di rimanere fedeli

alla storia di questo luogo». Chiedo ad Alberto

quando abbia cominciato a lavorare qui e mi ri-

sponde: «Venivo qui anche da ragazzo a trovare

il mio babbo o ad aiutarlo nel periodo natalizio,

poi sono entrato fisso a partire dagli anni ’90.

Abbiamo visto la città cambiare, evolversi» e

prosegue: «Sono più di cento anni che siamo sul

mercato e abbiamo avuto molti riconoscimenti.

Del passato sono rimaste molte cose uguali ma

abbiamo cercato di stare al passo con i tempi;

oltre al caffè sfuso abbiamo aggiunto le cialde,

le capsule, sempre prodotte col nostro caffè. Ci

siamo specializzati nel vino, oltre a mantenere

la tradizione delle spezie, della cioccolata e del

caffè. Il caffè che vendiamo noi ha massimo due

tre giorni dalla produzione e da noi si possono

acquistare prodotti esclusivi che non si trovano

nella grande distribuzione. Inoltre, abbiamo più

di mille articoli: come le caramelle sfuse, la cioc-

colata, il vino, i sottoli, le spezie, le nocciole Igp

del Piemonte, il pistacchio di Bronte, i pinoli di

San Rossore. A volte entrano dei turisti ameri-

cani o australiani e rimangono sbalorditi, non

hanno mai visto un negozio così, sia per l’arre-

damento che per la varietà di articoli e scattano

molte fotografie». È appena entrato un cliente,

Alberto lo saluta chiamandolo per nome e lui

contraccambia.

Un laboratorio di scrittura nei luoghi del

Premio Viareggio: i luoghi e gli autori del

prestigioso premio letterario saranno atmo-

sfera e sostanza per chiunque ami la scrittu-

ra e intenda darle il giusto supporto. Nasce

a Viareggio la scuola dell’Officina del Pre-

mio, promossa dall’omonima associazione

che vede tra i suoi soci fondatori Giordano

Bruno Guerri – storico e scrittore di valore,

presidente della Fondazione Il Vittoriale

degli italiani – e Simona Costa, presidente

del Premio letterario Rèpaci.

L’iniziativa sarà presentata nel corso di un

incontro-conferenza stampa, aperto al pub-

blico, che si terrà sabato 18 gennaio alle ore

12 nella sala convegni dell’hotel Palace, in

via Flavio Gioia a Viareggio.

All’incontro saranno presenti, fra gli altri,

Giordano Bruno Guerri e il presidente

dell’Officina del Premio, Adolfo Lippi,

nonché alcuni dei docenti che daranno vita

alle lezioni. Tra gli scrittori che animeran-

no il laboratorio dell’Officina del Premio vi

sono, oltre a Giordano Bruno Guerri, Giu-

seppe Lupo, Chiara Valerio, Marco Rovelli,

Divier Nelli, Giampaolo Simi.

Le lezioni inizieranno il prossimo 20 marzo

e si terranno all’hotel Palace, sede dell’As-

sociazione.

di Nicla Pierini Gl’è i’ caffè de’ Padovani

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1818 GENNAIO 2020

Una pubblicazione

#impresacultura

@Federculturewww.federculture.it

Con il contributo di Con il sostegno di

Presentazione del

RSVP [email protected]

politiche reti competenze

C u l t u r a e S o c i e t à INGRESSO LIBERO FINO AD ESAURIMENTO POSTI

Lunedì 27 gennaio 2020 - ore 14.45Piccolo teatro Studio MelatoVia Rivoli 6 | Milano | M2 Lanza

Apertura dei lavori

FILIPPO DEL CORNOAssessore alla Cultura Comune di Milano

STEFANO BRUNO GALLIAssessore all’ Autonomia e Cultura Regione Lombardia

Intervento

SERGIO ESCOBARDirettore Fondazione Piccolo Teatro di Milano

Presentazione del Rapporto Federculture

CLAUDIO BOCCIDirettore Federculture

TAVOLA ROTONDAIntroduce e coordina

ANDREA CANCELLATOPresidente Federculture

Interventi

GIANFRANCO ACCOMANDOPresidente Fondazione per Leggere

DAVIDE MAGGIConsigliere delegato alla Cultura Fondazione Cariplo

GIOVANNA FORLANELLIVice Presidente Fondazione Luigi Rovati

MARCO LANATAGeneral Manager Fondazione Pirelli Hangar Bicocca

L’Italia è ufficialmente a un passo dalla stagna-

zione, pericolosissima anticamera alla recessio-

ne. Incubo condiviso da molti paesi europei.

Bisogna capire quale sia il punto cruciale cioè

il primo nodo da sciogliere; quello che manca

è la base degli scambi, dell’investimento, della

ricerca, dell’occupazione: il denaro. Il sistema

bancario ha dismesso la funzione fondamenta-

le di raccogliere il risparmio per finanziare im-

presa e innovazione. Oggi le banche concedo-

no mutui o finanziamenti solo a chi garantisce il

denaro con altrettanto denaro investito nei loro

prodotti finanziari, ma di cui sono solo rivendi-

tori. Il sistema dei piccoli e medi imprenditori

boccheggia da anni come un pesce spiaggiato.

Questo sta portando a un altro fenomeno grave

e ancor più sotto silenzio: la perdita del capita-

le di beni mobili e immobili, fondamentali per

l’attività, con un trasferimento netto di risorse

dall’economia che produce a quella virtuale.

Le banche, generose nell’elargire fidi e finan-

ziamenti fino al 2007 a fronte di ipoteche su

beni mobili e immobili, dal 2008 chiudono im-

provvisamente a ogni forma di finanziamento

e chiedono agli imprenditori addirittura di ri-

entrare sui fidi di esercizio. L’economia subisce

uno shock da mancanza di liquidità. Per mol-

tissime imprese questo ha significato il blocco

della loro operatività. L’economia rallenta.

Cominciano i licenziamenti. I suicidi tra im-

prenditori e licenziati tra il 2012 e il 2017 sono

stati in Italia 937. Per chi ha resistito si prospet-

ta comunque la perdita del capitale. Oggi dai

capannoni alle case di famiglia, gli immobili

sono pignorati. Le banche hanno rivenduto i

crediti deteriorati delle situazioni in sofferenza

a società, più o meno trasparenti. Ripianati i

bilanci grazie agli interventi salva-banche, i cre-

diti passano di mano in mano ad altre società.

Agenzie finanziarie (spesso straniere), i cui

forzieri sono pieni del frutto degli hedge funds

che scommettono sui debiti insolventi (da loro

stesse causati), che poi acquistano gli immobili,

anzi direttamente i pacchetti di crediti, a bas-

sissimo costo. Mentre al singolo imprenditore

non è offerta alcuna soluzione bancaria. Per il

mondo della finanza è una succulenta trasfor-

mazione di denaro virtuale in ricchezza vera.

Con una serie d’interventi salva-banche gli

stati hanno immesso enormi quantità di denaro

pubblico, cioè prelevato dai contribuenti, cioè

dalle vittime del crack finanziario, per sanare i

loro bilanci, senza porre condizioni per la ripre-

sa economica per tutti. L’enorme quantità di

denaro pubblico che ha permesso alle banche

di ripulire i propri bilanci ha altresì determina-

to, con la svendita dei crediti, un trasferimento

netto dalle tasche dei contribuenti europei alle

società finanziarie d’oltremare. Grazie a questo

meccanismo anche la liquidità che il professor

Draghi ha immesso nell’economia europea con

il Q.E. non ha raggiunto, che in minima parte,

l’economia reale. Nulla per la massa dei piccoli

imprenditori, motore della nostra economia;

quasi la metà degli occupati lavora in aziende

con meno di dieci operai. Intanto cresce sui

monitor delle banche la ricchezza, anzi quei

numeri, che sono oggi più di dieci volte la som-

ma dei PIL mondiali, chiusi nelle loro mortifere

casseforti. Quanto vale allora questa massa di

denaro: quello dei numeri sui monitor o quello

rappresentato dal valore aggregato (a prezzo di

mercato) delle produzioni dei beni e dei servizi

del mondo? Dove si colloca la certezza del va-

lore? E quanto può reggere questo equivoco? E’

in questa incertezza che precipita la fiducia tra

gli uomini ed esplodono paura e conflittualità.

Le banche hanno cessato di investire nel credi-

to all’impresa, preferendo diventare collettore

tra il risparmio e il gioco d’azzardo della finan-

za. Perché non sono più i profitti d’impresa ma

le rendite finanziarie che brillano nei bilanci e

pagano lautamente manager e dividendi. (con-

tinua)

di Anna Conti

Il gioco d’azzardo della finanzaImpotenti verso la stagnazione

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Dopo aver presentato il profilo di Claudio Co-

cino, primo ballerino del Corpo di ballo del

Teatro dell’Opera di Roma, questo ritratto è

dedicato a Christian Fagetti, classe 1991, bal-

lerino solista del Corpo di ballo del Teatro alla

Scala di Milano. Vera e propria rivelazione per

la padronanza tecnica impeccabile, per le ele-

vazioni incredibili, per la tensione e la presenza

scenica, sempre convincente nei pezzi solistici

e perfetto nei gruppi, è ormai una conferma,

una sicurezza di esecuzione e di emozioni.

La personalità artistica e l’ottima tecnica sono

evidenziate anche dalla intensità della sua arte

interpretativa. Qualsiasi personaggio di cui Fa-

getti si fa carico rimane impresso, non risulta

mai comune, grazie ad una immedesimazione

sempre totale sia nei ruoli da antagonista che

in quelli positivi ed eroici: è lo smaliziato e tra-

gico Mercuzio di MacMillan, l’indimenticabile

Birbanto, visto a Cagliari, dal profilo byroniano

e un po’ guascone, l’irruento ma mai esagerato

Hilarion di Giselle, il sensuale e ferino Orion

o l’arcadico Eros, il principe passionale e nel-

lo stesso tempo elegante di Cinderella. Que-

sta duttilità è frutto della grande capacità di

chi con ogni studiato gesto, con l’intensità del

suo trasporto, con l’intelligenza viva di un’arte

conquistata unita ad una sensibilità innata, fa

sua una personalità, un riflesso di pensiero e lo

proietta fuori di sé, oltre il palcoscenico, unito

alla musica. Innesta sulla sua eccezionale indi-

vidualità uno studio attento dei personaggi che

interpreta e il risultato è sempre l’esaltazione di

un dettaglio psicologico, di una sfumatura che

non si era mai colta, di un carattere riconoscibi-

le, ma nello stesso tempo differente perché suo,

profondamente suo. Non è solo mimo eccelso

– di quelli ce ne sono tanti – è attore del gesto

e dell’emozione. Ma mi si permetta di uscire

da teatro e andare anche oltre. Lo abbiamo

visto e apprezzato poche settimane fa accanto

all’étoile Roberto Bolle nel programma televi-

sivo “Danza con me” andato in onda su Rai 1

il primo giorno del 2020, ma non è questo su

cui mi voglio dilungare. La sua sensibilità inter-

pretativa viene confermata anche osservandolo

nella semplicità del suo quotidiano, che mostra

sui social dov’è particolarmente attivo, come

molti altri giovani artisti. Si comprende allora

ancora meglio il perché Fagetti sia l’acclama-

to ballerino che è: lo si capisce osservando su

Instagram (christianfagetti) la dolcezza e la de-

dizione con cui cuce le sue scarpette; l’entusia-

smo con cui spiega gli elementi del trucco base

cui si sottopone quasi ogni giorno; l’orgoglio e la

gioia con cui mostra l’appartamento tutto suo

costruito giorno dopo giorno, o la scelta delle

cornici per le intense fotografie di Raoul Iaco-

metti (www.raouliacometti.it) di cui è modello

sensuale e statuario in scenari post-industriali

o suburbani; lo si capisce leggendo i pensieri,

le riflessioni mai banali, postate sopra sorrisi

luminosi che regala spesso agli scatti rubati de-

gli amici. Non è necessario, è vero, tutto questo

per fare un grande ballerino, ma lui come balle-

rino è anche tutto questo.

di Joël Vaucher-de-la-Croix Fagetti, qualcosa in più che un grande ballerino

Smog alle stelle, polveri sottili sopra i livelli di

guardia a Firenze, nell’hinterland e in tutta la

piana. Insomma in mezza Toscana le centrali-

ne segnalano un accumulo di Pm10, biossido di

azoto, anidride solforosa e monossido di carbo-

nio superiore ai limiti. Di fatto una situazione a

rischio per la popolazione. Come si sa le emis-

sioni prodotte dal traffico e dai riscaldamenti

sono oltre che climalteranti anche pericolose

per la salute. Le normative parlano di un limite

massimo di 50 microgrammi per metro cubo.

Ebbene a Firenze siamo sui 63, Signa 68, Luc-

ca 84, Prato 88, Pisa 62 e via di seguito. Sfora-

menti che hanno fatto scattare le ordinanze dei

sindaci per limitare il traffico e ridurre a sole 8

ore l’accensione dei riscaldamenti, con l’ag-

giunta del divieto di accensione dei camini e

delle stufe a legna. Specifichiamo: le ordinanze

hanno fissato 5 giorni il blocco del traffico ma,

attenzione, solo per quello più inquinante Non

possono circolare quindi gli scooter a 2 tempi,

le auto a benzina euro 1 e i diesel euro 1 e 2.

Tutto il resto del parco veicoli può viaggiare

regolarmente.

Risultato: nonostante queste ordinanze nell’ul-

timo weekend si sono continuati a registrare

ben 94 sforamenti. Dopo 5 giorni di un blocco

così fatto il livello dell’inquinamento non è mi-

gliorato, e resta stabilmente sopra i limiti. Tan-

to che si è dovuto ricorrere a nuove ordinanze,

prolungando di altri 5 giorni il blocco, fino a

sabato 13 gennaio. Naturalmente, con le stesse

modalità: blocco parziale (dalle 8.30 alle 12.30

e poi dalle 14.30 alle 18,30) e limitato solo ai

mezzi più inquinanti.

In sostanza si va avanti così nella speranza che

quanto prima, per risolvere il problema, arrivi

la pioggia e si alzi il vento. Di fatto la difesa del-

la qualità dell’aria che respiriamo viene affidata

all’andamento delle condizioni meteo, anziché

alle decisioni e alle scelte di chi ci governa.

Credo sia evidente a tutti che le misure adot-

tate per ripulire l’aria che respiriamo siano del

tutto inadeguate e insufficienti. Occorrono

provvedimenti più radicali e più strutturali.

Prima di tutto, le ordinanze quando si fanno

vanno fatte rispettare, altrimenti sono inutili

e diseducative. Poi bisogna iniziare a pensare

che nelle nostre città dobbiamo muoverci senza

auto, e che quindi vanno rapidamente adegua-

te e trasformate, organizzando una mobilità al-

ternativa. Se l’obiettivo è quello di ripulire l’aria

dobbiamo tutti cambiare comportamenti: nelle

città dovremmo imparare a muoverci solo con

i bus (elettrici), i taxi (ibridi), le biciclette (piste

ciclabili dalle periferie al centro), i percorsi pe-

donali. Senza dimenticare la piantumazione

degli alberi, ovunque possibile.

Vivere senza autoSegnalidi fumo

di Remo Fattorini

Page 20: Numero - Maschietto Editore · Adriana Lestido, da donna a donna di Danilo Cecchi Flit non addormenta, fulmina di Cristina Pucci Quel liberale del Karl Marx di Gianni Bechelli Il

2018 GENNAIO 2020

Il Ponte (via di Mezzo 42/b, Firenze) inau-

gura il nuovo anno con una mostra dedicata

a Giulia Napoleone. Artista, cui la galleria

aveva già organizzato nel passato due mostre,

nel 1996 e nel 2002: nella prima vennero

presentati acquarelli e pastelli, nella seconda

dipinti ad olio su tela e alcune chine su carta.

La mostra allestita, come si può facilmente

evincere dal titolo, è interamente dedicata a

un nucleo di recenti opere in bianco e nero,

realizzate interamente con l’inchiostro di

china. Il volume che la correda, oltre a pre-

sentare le quindici opere esposte, ripercorre

questo aspetto del lavoro dell’artista fin dalle

sue prime piccole chine della metà degli anni

Cinquanta. Attraverso le immagini e il testo di

Bruno Corà, si potrà così penetrare nella pe-

culiare dimensione di un mondo in bianco e

nero, che si concretizza nelle opere di questa

artista attraverso l’uso dell’inchiostro di china,

portato fino al suo limite estremo. Come scri-

ve nel testo in catalogo per la mostra curata

da Giuseppe Appella alla GNAM di Roma

nel 2018, Stefania Zuliani: “Un segno dopo

l’altro, con precisione paziente e necessaria,

da oltre mezzo secolo Giulia Napoleone cer-

ca l’ordine luminoso della forma. Una forma

che è viva e perciò imperfetta, come vivo e

imperfetto è il pensiero di chi non teme l’er-

rore e quindi rifugge l’ovvio e il già noto. Ciò

che l’artista sperimenta nella quiete silenziosa

del suo studio, da qualche anno nascosto tra

le colline e i campi di lavanda della Tuscia, è

la ricerca ostinata di un equilibrio che nulla

concede alla facilità della rappresentazione e

che dell’astrazione conosce le regole, ma pri-

vilegia le eccezioni, creando immagini nitide,

nette di luce e di ombra, immagini assidue che

sono l’esito preciso di una tecnica e una ma-

teria scelte ed esercitate di volta in volta con

perizia e rispetto. Fuori da ogni rigido vincolo

progettuale, Giulia Napoleone si muove fra le

sue carte... con la grazia leggera del viandante,

senza l’assillo di una destinazione [e come lei

stessa scrive]: Il mio lavoro è un cammino che

conosce soste, forse, ma che non ha mete né

punti di arrivo. É un andare verso.” In mostra

verranno anche presentati gli ultimi suoi due

libri d’artista: Yves Peyré, Les Rehauts du Son-

ge (da cui sono tratti i titoli delle opere esposte)

e Luigia Sorrentino, Olympia, entrambi per le

Edizioni Al Manar, Parigi, 2017 e 2019, cor-

redati da chine e pastelli originali dell’artista.

L’essere umano nel corso della vita si trova a var-

care confini materiali e immateriali: il momento

della nascita, dall’adolescenza all’età adulta, il

matrimonio, il diventare genitore, fino alla mor-

te. Questi passaggi di confine, fin dall’antichità,

venivano espressi in riti. Oggi, pur avendo perso

gran parte del significato religioso, hanno mante-

nuto una grande valenza sociale. Anche la vita

quotidiana è delimitata da confini, da semplici

rituali. Spesso questo passaggio è preceduto in

senso pratico da un cambio di vestiario o dalla

marcatura di un badge che attesta anche giu-

ridicamente la presenza nel luogo di lavoro. In

tempi moderni spesso questi confini sono vissuti

come un prezzo da pagare alla società, obblighi

che limitano la libertà personale. Pensiamo ai

confini tra Stati che un tempo delimitavano il

territorio “conosciuto” da quello “sconosciuto,

oggi vengono aperti per permettere spostamenti

più veloci, scambi di ogni genere, libertà di mo-

vimento. Anche i confini tra periodi della vita

sono stati modificati tanto che adesso risulta dif-

ficile identificare i momenti in cui dall’infanzia

si passa all’adolescenza e dall’adolescenza all’età

adulta, ma se questo processo ha avuto un ottimo

risultato in termini di consumismo, dall’altra ha

avuto una conseguenza sfavorevole in quanto

ha causato un disequilibrio che spesso rifugge

la responsabilità e i doveri. Il confine è inteso

anche come una soglia, un concetto visto nella

prospettiva dinamica dell’attraversamento, che

diventa in quel momento luogo della creatività,

dell’immaginazione. Solo ciò che non riusciamo

a immaginare non ha confini ne’, di conseguen-

za, possibilità di superamento. Le soglie che in-

contriamo nella nostra vita, sono passaggi che ci

consentono di vivere le terre di mezzo, sono esse

il luogo e lo spazio dove si facilitano l’incontro, il

contatto, la contaminazione, dove l’arte ha il suo

spazio vitale, sono luoghi di ricerca interiori, che

non negano i confini ma al contrario valorizza-

no le diversità, la conoscenza di esse e il rispet-

to reciproco. E’ possibile vivere in un mondo

senza confini? E’ auspicabile? La nostra unicità

non è forse dettata proprio dalla presenza di un

confine tra “io sono io” e “tu sei l’altro”? Non è

proprio in questa terra di confine che avviene il

processo di conoscenza del sé’ e dell’altro? Qua-

le forza riesce ad assottigliare la linea di confine

fino a farla diventare valicabile? L’amore? La de-

terminazione? La curiosità? La vita stessa? Cosa

accade all’animo umano quando varca il confine

della ragione, della decenza, della sopportazio-

ne, di tutto ciò che credevamo impossibile? Qual

è il confine tra immaginazione e immagine? L’ar-

te è confine da superare o meta da raggiungere?

Queste sono solo alcune delle domande rivolte

agli artisti che hanno deciso di cimentarsi con

ADG photo contest. Più di ogni altra cosa era

richiesto che gli artisti cercassero di disegnare

i confini più nascosti, invisibili, che ognuno ha

dentro di sé, quelli superati, spostati in avanti o

trasformati in ossatura che protegge e rende in-

dividui unici.

ADG Photo Contest In collaborazione con l’As-

sociazione Culturale Bueno e la collaborazione

di Vittorio D’Onofrio. A cura di Alberto Desirò

Sala del Basolato - Fiesole – (Piazza Mino) 18- 25

gennaio 2020

a cura di Bruno Corà Un andare verso

Confine

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2118 GENNAIO 2020

Io e Guerre Stellari abbiamo la stessa età

ma non saprei dire chi è invecchiato meglio,

soprattutto viste le aspettative che almeno

uno tra noi due attirava. Sì, forse è meglio

vivere (e sognare) fuori dalla luce dei riflet-

tori, tra visioni miseramente più economi-

che ma sicuramente più libere, che crescere

sotto gli occhi di tutti, alimentando così tan-

ta fantasia altrui da trasformarla, alla lunga,

in mania, in gelosia.

Che poi crescere non è neanche la cosa mi-

gliore da augurare quando si parla di sogni.

Meglio proteggere il fanciullo che c’è in te,

portare lui al cinema, con pop-corn e bibi-

ta, e lasciare a casa raziocinio e cinismo: in

letteratura la chiamano sospensione dell’in-

credulità, dote indispensabile quando devi

prendere per vero il fatto che un’astronave

che “supera di 0,5 punti la velocità della

luce” ti possa sfrecciare davanti agli occhi.

Ma non è neanche questo il punto. Perché

il tuo resterà comunque un fanciullino

“invecchiato” che sogna ancora come si so-

gnava quarant’anni fa o giù di lì e neanche

tutto il pop-corn e tutte le bibite del mondo

faranno volare il tuo Millennium Falcon

più veloce di quello del bambino che hai

sulla poltroncina accanto!

Ebbene sì, anche i sogni si adeguano e nes-

suno oggigiorno ha il diritto di giudicare le

qualità oniriche di chi sta crescendo così

tanto lontano dal nostro retroterra, come,

negli anni della Milano da bere, di Cher-

nobyl o della Guerra fredda, non avrebbero

avuto nessun diritto di giudicare il nostro,

che si ergeva intatto tra parrucconi, nani

rinchiusi dentro bidoni ed attori shake-

speariani che maneggiano sviliti manici di

scopa. Diritto inviolabile, quindi, quello di

sognare, insieme a quello, oserei dire altret-

tanto inviolabile, di vivere al cinema la pro-

pria saga di Star Wars (e qui metterei la se-

conda ed ultima nota autobiografica: dopo

la trilogia originale vissuta come scrivevo

all’inizio da bambino, mi sono goduto quel-

la prequel insieme ai miei nipoti e quest’ul-

tima, la sequel, con i miei figli… tanto per

chiudere un altro cerchio!), adeguata alle

proprie percezioni, abitudini filmiche ed

emozioni in generale. Registi caotici per

pubblici caotici, insomma, che passano in

un attimo da fantascienza e supereroi a se-

rie TV snocciolate sui tablet e, sparate nelle

cuffie, hit che durano appena una manciata

di secondi. Ed è qui forse che arriviamo al

punto.

Sì, perché ad un’opera dell’immaginazio-

ne, anche la migliore, manca sempre quel

qualcosa che tocca allo spettatore compen-

sare con la propria immaginazione, facendo

tornare ciò che non scorre, rendendo me-

morabili scene invece di altre, allargando i

confini di una galassia lontana lontana fino

a farla arrivare vicino vicino. E non capita

solo a Luke e soci perché ogni eroe della no-

stra infanzia è diventato insuperabile grazie

all’apporto delle nostre aspirazioni, da tene-

re ben presenti ogni volta che la fruizione

di queste vecchie storie arriverebbe a farci

ghignare dall’ingenuità. E so che se a leg-

gere queste mie deboli teorie ci fossero quel

razionale e quel cinico rimasti fuori dalla

sala senza bibita né pop-corn, essi risponde-

rebbero subito schierandomi le cifre astro-

nomiche dei compensi di chi non avrebbe

dovuto sbagliare il colpo, la delusione di

chi, tra le quattro mura della propria ca-

meretta, aveva sognato ben altra traiettoria,

la saccenza di chi ha scovato ogni minima

incongruenza dai meandri più dimenticati

della rete. In fin dei conti, tutti sono liberi

di far svanire i propri sogni di fronte a qual-

siasi misera realtà riterranno più affidabile!

A loro, mai impreparati puristi in bilico tra

ringhio e pianto, non potrei rispondere che

alzando le spalle, facendo scoppiare una

bolla del chewing gum in faccia ed allonta-

nandomi facendo volare la sciarpa intorno

al collo mentre intono la Marcia imperiale.

Sogni propri a tutti.

di Matteo Rimi Star wars: l’ascesa del sognatore

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2218 GENNAIO 2020

I primi incontri con Remo

Salvadori avvennero nei primi

anni ’70, come cita Remo stesso,

alla luce del sole del giardino di

Palazzo Frescobaldi in via San-

to Spirito 11, dove c’era il mio

studio. Remo era un giovane

artista che sperimentava altre

idee e forme al di la della pittu-

ra tradizionale e la sua curiosità

la interpretava anche attraverso

la fotografia. Fu un incontro

speciale che ci ha coinvolto per

tutti questi anni con amicizia

e stima, anche con tutti i suoi

familiari. Ho seguito moltis-

simo delle sue mostre in molti

luoghi del mondo, da New York,

Grenoble, Roma, Milano etc. e

tante avventure vissute insieme.

Ma quello che ci rende veri

amici è quando c’incontriamo

nella sua casa di famiglia a

Cerreto Guidi, dove i ricordi

del passato finiscono sempre

conviviali intorno ad un tavolo,

con portate genuine, in passato

preparate da sua madre per il

nostro e il suo piacere di stare

insieme. Molte altre esperienze

lavorative ci hanno coinvolto,

arricchendoci nella conoscen-

za di una crescita continua di

entrambi ma soprattutto di lui

come un’artista straordinario.

Cito uno dei momenti passati

insieme a Remo Salvadori, ed

è stato quando siamo saliti sul

monte Falterona a vedere la

dove nasce il fiume Arno. La

nostra amicizia è come il fiume

che scorre lento e nel suo letto

riflette il cielo.

50anni

d’incontri con persone straordinarie di Carlo Cantini