Numero - Maschietto Editore · Adriana Lestido, da donna a donna di Danilo Cecchi Flit non...
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Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
Numero
337 404
18 gennaio 2020
Maschietto Editore
Nani sulle spalledi giganti
“Craxi è una grandissima figura di questo Paese, un gigante rispetto ai politici di oggi, anche se non provengo da quella cultura politica”
Matteo Renzi
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagineLa prima
Un’altra strada, un’altra
camionabile in uscita dalla
città di Quing-Dao. Ciò che
mi colpì all’istante fu il passo
tranquillo di questo simpatI-
co cagnetto che trotterellava
tranquillo e senza batter
ciglio nel bel mezzo del traf-
fico. Si vede che qualche
strana divinità lo ha protetto,
visto che non è stato stritola-
to da una delle tante vetture
che sfrecciavano in tutte le
direzioni, come sempre acca-
de in Cina. Per quello che ho
potuto constatare durante il
mio soggiorno, da quelle par-
ti c’è sempre una certa disin-
voltura nella guida. In con-
fronto si potrebbe dire che
noi italiani siamo dei guida-
toti davvero “diligenti”, il che
è tutto dire! Guidare in Cina
non è uno scherzo, ci voglio
mille occhi. In confronto i
nostri napoletani sono dei
guidatori decisamente ordi-
nati e rispettosi delle regole!
Questo cagnolino ha avuto
proprio un gran culo, come
si direbbe in gergo!
Quing Dao, 2008
Direttore
Simone SilianiRedazione
Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Susanna Cressati, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
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Editore
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Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
issn 2611-884x
Numero
337 404
18 gennaio 2020
In questo numero
Il canto di Sibilla
di Dino Castrovilli
Streghe e incantesimi a La Cour Carrée
di Giovanna Sparapani
Lafayette, una macchina per esporre
di Simonetta Zanuccoli
Adriana Lestido, da donna a donna
di Danilo Cecchi
Flit non addormenta, fulmina
di Cristina Pucci
Quel liberale del Karl Marx
di Gianni Bechelli
Il gioco d’azzardo della finanza
di Anna Conti
Primo di nome, precoce col talento
di Paolo Marini
Vacanze romane di un Premio Nobel
di Corrado Pettenati
Fagetti, qualcosa in più che un grande ballerino
di Joël Vaucher-de-la-Croix
Gl’è i’ caffè de’ Padovani
di Nicla Pierini
Star Wars: l’ascesa del sognatore
di Matteo Rimi
e Capino, M.Cristina François, Valentino Moradei Gabbrielli, Remo Fattorini, Alessandro Michelucci....
e le foto di Maurizio Berlincioni e Carlo Cantini
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Sessant’anni fa, il 13 gennaio 1960, moriva
a Roma Marta Felicina “Rina” Faccio, uni-
versalmente nota come Sibilla Aleramo. Era
nata il 14 agosto 1876 ad Alessandria e nei
suoi 84 anni ha attraversato da protagonista
tutto il Novecento italiano. La sua vita, la sua
opera, non tanto e non solo quella letteraria,
ne fanno ancora un’icona e, per tanti aspet-
ti, un modello. Anche se non felicissima, la
sua fanciullezza “libera e gagliarda”, vissuta
nell’adorazione e negli insegnamenti, anche
didattici, del padre Ambrogio, viene spazzata
via dalla violenza sessuale subìta a 15 anni da
un operaio della fabbrica che il padre dirige
a Porto Civitanova, dove si erano trasferiti:
seguirà il matrimonio “riparatore” con lo stu-
pratore, Ulderico Pierangeli, la nascita del
figlio Walter nell’aprile 1895, una “conviven-
za” segnata dalle continue violenze fisiche e
psicologiche del marito (dopo la scoperta di
una avventura con un “forestiero” la spingerà
fino al tentato suicidio), l’estenuante battaglia
sentimentale e legale per ottenere la separa-
zione e, invano, l’affidamento del figlio. Ma
la libera e forte Rina aveva continuato a leg-
gere, aveva scoperto i fondamenti e le lotte
per l’emancipazione della donna - “Occorre
riformare la coscienza dell’uomo e creare
quella della donna” - aveva cominciato a scri-
vere per varie riviste, ottenendo addirittura
nel 1899 la direzione della rivista L’Italia
femminile 1899 - Corriere delle donne ita-
liane. Nel 1902 comincia la relazione con
lo scrittore Giovanni Cena, che la coinvolge
nelle sue relazioni con alcuni tra i maggiori
letterati dell’epoca e nella fondazione delle
scuole per i contadini dell’Agro Pontino. Rina
sente il bisogno di raccontare la parte della
sua vita che va dalla fanciullezza allo stra-
ziante “abbandono” del figlio (lo rivedrà dopo
molti anni) nelle mani del marito. Si chiude
con quell’abbandono Una donna, il roman-
zo autobiografico del 1906 firmato Sibilla
Aleramo che la impone come una scrittrice
di successo e una guida nel movimento per
l’emancipazione della donna. il libro divise la
critica, le scrittrici e le femministe: riconosce-
vano l’eccezione di quella coscienza evoluta
ma ne prendevano le distanze: poiché l’unica
vittima risultava il figlio, non si poteva porlo
ad esempio delle “donne pensanti”; “se fos-
se stata veramente forte non avrebbe esitato
nel sacrificio estremo” (così “Vita Internazio-
nale”, la rivista degli esordi di Sibilla, che ne
rimase molto addolorata). Spenta la relazione
con Giovanni Cena, Sibilla intraprende una
serie impressionante, per numero e qualità,
di relazioni, culturali, politiche - Margherita
Sarfatti, Riccardo Bacchelli, Filippo Tom-
maso Marinetti, Auguste Rodin, Eleonora
Duse, Matilde Serao, Gabriele D’Annunzio,
Cesare Pavese, Benito Mussolini (Sibilla è già
alle prese con le ristrettezze economiche che
l’accompagneranno per tutta la vita: il Duce
le fa concedere una pensione, che resterà no-
nostante tutti i cambiamenti politici), Palmiro
Togliatti, la regina Elena di Savoia (pressan-
ti richieste di far rientrare dalla Sardegna,
dov’era stato assegnato nel corso della guerra,
l’amante Franco Matacotta), Fausta Cialente,
Alba de Cespedes, Davide Lajolo, Corrado
Pavolini, Italo Calvino, Concetto Marchesi
- e soprattutto amorose: nel suo cuore si suc-
cederanno, ogni volta amati con sentimento
tanto sincero quanto impetuoso, poeti e artisti
come Vincenzo Cardarelli, Vincenzo Gerace,
Umberto Boccioni, Giovanni Boine, Giovan-
ni Papini, Julius Evola, Raffaello Franchi, Fe-
lice Damiani, Franco Matacotta e, nel 1909,
Lina Poletti - avete letto bene: Sibilla, a con-
ferma del suo irriducibile bisogno di amore e
della sua capacità di praticare la libertà, si è
cimentata anche con qualche amore femmi-
nile (“Imparai, amore, che il tuo mistero non è
nella legge che perpetua la specie...”) - e, “na-
turalmente”, Dino Campana.
Dico “naturalmente” perché, a ben leggere le
biografie dei due, i punti di “congiunzione”,
astrali ma non solo, sono parecchi: entrambi
nati sotto il segno del Leone (Sibilla il 14 ago-
sto, Dino il 20), entrambi con famiglie “abi-
tate” dalla pazzia (la madre di Rina, Ernesta
Cottino, dopo un tentato suicidio sarà inter-
nata nel manicomio di Ancona, dove morirà
dopo trent’anni di ricovero, senza che Sibilla
le abbia mai fatto visita; lo zio Mario, fratello
del padre di Campana, in preda a deliri mi-
stico-religiosi, finirà e morirà in manicomio),
entrambi amano molto Whitman e S. Fran-
cesco, entrambi hanno bisogno di essere (ri)
stampati e riconosciuti dalla critica, entrambi
hanno scritto un libro unico, i cui manoscritti
fondativi - Una donna e Il più lungo giorno -
“riposano” a Firenze, a pochissimi chilometri
di distanza (quello di Sibilla alla Biblioteca
Nazionale, quello di Dino alla Biblioteca Ma-
rucelliana), entrambi amano molto viaggiare
(nel caso di Dino errare), entrambi sono stati
di Dino Castrovilli
Il canto di Sibilla
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vittime di vergognose manipolazioni edito-
riali, entrambi hanno avuto un riferimento
umano e letterario nel critico Emilio Cecchi,
e infine entrambi sono protesi a fondere arte
e vita.
Tra tutte le relazioni amorose vissute da Si-
billa Aleramo è quella con Dino Campana ad
averle dato più celebrità, più gioia ma anche
più sofferenza (“Quell’amore di un anno è
stato il più intenso e il più terribile della mia
vita e così si spiega che io non abbia mai avuto
la forza di narrarlo distesamente. Solo tre bre-
vi poesie scrissi e rimangono a testimonianza
di quell’enorme rogo del mio cuore”).
Com’è noto, la relazione tra i due inizia con
una lettera di Sibilla, scritta da Villa la Topaia
di Borgo San Lorenzo, dove Sibilla era ospite
dei coniugi Luchaire, che Campana riceve il
10 giugno 1916, ancora inedita (è tra le carte
dell’Archivio Matacotta, probabilmente insie-
me a diverse altre lettere di Dino Campana).
Il poeta di Marradi, un po’ diffidente (poi le
chiederà scusa), scrive a Emilio Cecchi, chie-
dendogli “referenze” su Sibilla, di cui non
ha letto Una donna ma ha sentito le dicerie
sulla “innumerevole schiera”, come dirà Ma-
tacotta, di amanti. La temperatura comincia
a salire con la lettera/poesia che Sibilla scrive
a Dino dopo aver letto i Canti Orfici e con la
risposta di Dino (in francese) in cui le chiede
se “le piacerebbe vivere un po’ sotto la tenda”
(Sibilla accetta), “deflagra” (Mario Luzi) con
l’incontro tra i due, avvenuto al Barco il 3
agosto 1916 e protrattosi sino al 6. Rientrata
alla Topaia, Sibilla è completamente persa in
Dino: in procinto di ripartire per Firenze, gli
scrive ripetutamente, chiede di incontrarlo
ancora: silenzio da parte del poeta (forse lette-
re smarrite o giacenti chissà dove), che si rifarà
vivo il 9 agosto con un telegramma: “Ti aspet-
to. Dino”. Si rivedono, forse a Firenze. Ma che
“l’uomo dei boschi” avesse smantellato le sue
difese lo capiamo dalle tante cose che gli ha
scritto Sibilla tra il 6 e il 10 agosto - “Perché
non ho baciato le tue ginocchia? (...) Tu che
tacevi o soltanto dicevi la tua gioia. (...) I nostri
corpi su le zolle dure, le spighe che frusciano
sopra la fronte, mentre le stelle incupiscono
il cielo. (...) Oh, tu non hai bisogno di me” (...)
Dino, Dino! Ti amo.” (6-7 agosto) - e da quan-
to scrive Campana il 22 settembre “Non ti
dirò le sciocchezze che servivano di pretesto
al mio amore (...) Volevo anzi telegrafartelo
questo ritornello come una protesta brutale
della sanità vitale del nostro amore (...) Ad-
dio amore ritroverò forza tra le braccie della
mia Sibilla”. Ma è l’inizio della fine: si sposta-
no a Marina di Pisa e lì Campana, divorato
dalla gelosia e dalle sue crisi nervose, arriva
a insultare e percuotere Sibilla. Non sarà la
sola volta. Quello che occorre riaffermare -
sia dato a Sibilla quel che è di Sibilla - è che
“questa” donna, libera e forte per antonoma-
sia, incuriosita dal Campana di cui ha sentito
parlare a Firenze, come sempre alla ricerca di
un grande amore, fortemente motivata a co-
noscerlo, legge i Canti Orfici, comprende la
valenza straordinaria di quella poesia e fa la
sua scelta (abbandonando il giovane amante
del tempo, Raffaello Franchi, di appena 16
anni): amare totalmente Campana. Un amo-
re vero, pagato a carissimo prezzo, che le riser-
va “il dono spaventoso di vedere nel cuore di
Dino”, come scrive al comune amico Emilio
Cecchi. Lo stesso che riceverà la lettera “sto-
rica” di Campana in cui gli dice che “Il più
lungo giorno’ doveva essere la giustificazione
della mia esistenza” e quella del 13 settembre
1917, altrettanto “storica” (parola di Sibilla)
dalla stazione di Novara in cui l’Aleramo
gli racconta dell’incontro (sarà l’ultimo) con
Dino avvenuto nel carcere di Novara: “pure
ero sua, son rimasta sua, lo sapete”.
Lasciato Dino al suo destino (“per il bene di
entrambi”, aveva suggerito uno psichiatra) -
il delirio totale, il ricovero nel manicomio di
San Salvi e poi quello definitivo a Castelpul-
ci, dove morirà nel 1932 - Sibilla riprende la
sua frenetica attività, amorosa (non si chiama-
va “Amo dunque sono” uno dei suoi roman-
zi? E Cecchi, nella prefazione all’edizione di
“Una donna” del 1950: “ Ella è di forte tem-
peramento amoroso; e nei sensi e nello spirito,
l’amore rappresenta per lei una necessità vita-
le”), letteraria, politica: nel 1946 - tra la sor-
presa e lo scandalo dei suoi amici, si iscrive al
Partito Comunista, gira il mondo partecipan-
do a congressi, tenendo conferenze, raccon-
tando la sua storia e incitando le giovani ge-
nerazioni femminili a lottare per essere libere.
Il suo “canto” è anche il “loro” canto, come è
il canto dei diseredati a cui si è dedicata sin
dai tempi dei contadini analfabeti dell’Agro
Pontino. Vive sempre nella leggendaria “sof-
fitta” di via Margutta, che abbandonerà solo
poco prima di morire. “Una donna” ha supe-
rato le cinquanta edizioni, è tradotto in tutto
il mondo, ma lei continua a vivere in povertà.
Povera ma orgogliosa, al limite della presun-
zione, considera il suo “libro unico” addirittu-
ra un classico: il 5 agosto 1956 così scrive ad
Arnoldo Mondadori “(ho sognato di scrivervi
una lettera in cui) vi dicevo che se io fossi nata
in un qualunque altro paese, avrei in questa
occasione (80 anni, ndr) onoranze nazionali.
Perché sono un poeta, la sola donna poeta
oggi nel paese, perché il mio primo libro Una
donna avrà a novembre cinquant’anni, per-
ché i giovani si stupiscono ch’io, mezzo secolo
fa, scrivessi per i giovani d’oggi e per quelli
che vivranno il secolo venturo. E dicevo, a voi
che avete stampato la maggior parte dei miei
libri, che essendo io italiana mi accade invece
questo: che voi rifiutato di stampare alcuni
dei miei libri esauriti (fra i migliori): non solo,
svendete e mandate al macero la raccolta del-
le mie poesie e l’altra raccolta delle mie prose
migliori. (...). Io ho dinanzi a me il futuro, an-
che se voi non lo credete”. Oggi che le edizio-
ni di “Una donna” hanno superato il numero
di cento, possiamo non convenire sul fatto
che il libro sia da considerarsi un classico - il
suo valore è nel contenuto, più che nella sua
scrittura - ma certamente dobbiamo ammet-
tere che è un vero “long seller” e che Sibilla
Aleramo - “Così bella comme un rêve potrei
dimenticarti solo per andare molto lontano e
non tornare più.”, le aveva scritto Dino Cam-
pana da Livorno, il 4 gennaio 1917 - è una
donna più che mai del nostro tempo.
E ho fatto piangere tanti dacché vivo.
Che importa se per ogni lagrima che ho
fatto scendere
ne ho versate io stessa cento.
(Sibilla Aleramo in una lettera a Dino
Campana)
Sibilla era bella, incredibilmente bella,
bella,
misteriosa e pericolosa come la poesia”
(Giuseppe De Robertis)
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Di Sibilla Aleramo abbiamo molte imma-
gini, spesso tecnicamente ed esteticamente
ineccepibili (come alcune scattate da Gio-
vanni Cena), che ben colgono la sua incon-
testabile bellezza. Di Dino Campana ne
abbiamo invece, e purtroppo, pochissime, e
tra queste la più famosa, la foto di classe del
liceo Torricelli di Faenza, comprende un
falso Campana, come abbiamo scritto qual-
che tempo fa. Di Sibilla e Dino ne abbiamo
invece una sola: in questa unica immagine
sono in compagnia di un cane: Campana
ha barba e baffi, un abbigliamento quasi
elegante, Sibilla sembra indossare un abito
lungo, alla vita forse una cintura, soprattut-
to si notano i capelli neri. La foto, “mostra-
ta” da Elda Coppolino a Gabriel “Cacho”
Millet e da questi pubblicata, con l’orgoglio
che si meritava, dapprima nell’ormai intro-
vabile “Dino Campana fuorilegge” (No-
vecento, 1985) e poi in “Dino Campana
sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-
1918” (Olsckhi, 2000), stranamente non
compare in “Dino Campana. Lettere di un
povero diavolo. Carteggio (1903-1931)”
(Polistampa, 2011), sempre curato da Ga-
briel Cacho Millet, che pure ripota tutte
la corrispondenza intercorsa tra Aleramo e
Campana consultabile.
La donna della foto sembra una ragazza
(Sibilla invece doveva avere 40 anni) che
non ha nè i lineamenti, nè la conforma-
zione - sembra molto più magra - di Sibil-
la, nè la pettinatura di Sibilla Aleramo nè
soprattutto il colore dei capelli della Sibilla
Aleramo che vediamo in tutte le altre foto.
Anzi. Come scrive Bruna Conti - che, con
Alba Morino, ha curato l’imprescindibile e
ormai introvabile “Sibilla Aleramo e il suo
tempo. Vita raccontata e illustrata” (Fel-
trinelli, 1981) a pag. 7 del volume da lei
curato “Un viaggio chiamato amore. Let-
tere 1916-1918) (Feltrinelli, 2000) “i po-
chi che la incrociano (all’alba, mentre va a
prendere il treno che la porterà all’incontro
con Dino Campana del 3 agosto, ndr) non
possono fare a meno di notarla. Non solo
perché caracolla di buon mattino in solitu-
dine, ma perché è bella, assai bella. Ampia
la fronte, l’ovale del viso regolare come i
lineamenti, la bocca sensuale e tragica da
antica maschera, la pelle di madreperla e il
lungo collo tornito che si muove altero sulle
spalle. L’unica traccia che potrebbe rivelare
i suoi quarant’anni, una frezza bianca tra il
biondo dei capelli sopra la tempia sinistra,
è nascosta sotto le falde del cappello”. Sem-
bra che la foto sia stata scattata a Borgo San
Lorenzo, dove Sibilla soggiornava a Villa
la Topaia. Ma non risulta da nessuna parte
che Campana sia andato a trovare Sibilla
a Borgo S. Lorenzo (mentre le ha scritto a
quell’indirizzo). Potrebbe essere stata scat-
tata nei dintorni di Casetta di Tiara, dove
pure Dino e Sibilla stettero alcuni giorni
in quell’estate del 1916. Ma le perplessità
più forti vengono sempre dalla differenza
tra “quella” Siblla e la Sibilla delle imma-
gini coeve. A quanto pare non pochi stu-
diosi hanno sempre avuto il dubbio che la
ragazza della foto non sia Sibilla Aleramo,
e forse lo stesso Cacho Millet (ciò che po-
trebbe spiegare la mancata riproposizione
della foto nell’edizione 2011 del carteggio).
L’unica spiegazione che appare plausibi-
le è che la Sibilla della foto sia Enca, “la
russa incredibile” di cui Campana aveva
fatto cenno a fine luglio anche a Emilio
Cecchi. Sempre Bruna Conti ci dice che “
che (Enca) soggiornava a Casetta di Tiara
e che fu l’amante di Raffaello Franchi”, il
giovane poeta lasciato da Sibilla per passare
tra le braccia di Campana. Proprio Sibilla
scriveva a Dino Campana l’8 agosto 1916:
“Sei andato a veder di nuovo la Casetta? E
la russa, ti lascia in pace?”
Foto di Dino Campana con cane e... Sibilla?
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Un’altra esperienza che segna profndamen-
te il musicista bastiaccio è la collaborazione
con Roberta Alloisio. Purtroppo la cantan-
te genovese muore nel 2015, quattro anni
prima che venga pubblicato Animantiga
(2019), il frutto di questa solida amicizia
musicale. Anticipato da vari concerti a Ge-
nova e a Bastia, il disco rappresenta il testa-
mento ideale dell’artista genovese, profon-
damente innamorata della Corsica.
Sintesi ideale di amicizia, passione musica-
le e tecnica,
Animantiga spazia dalla canzone genovese
(‘”Lanterna de Zena”) a quella corsa (“I va-
scelli”, “Destini di Corsica”), senza dimen-
ticare un omaggio a quella napoletana (“Se
‘na mosca”, già proposto da Roberta Alloisio
in Lengua serpentina, 2007)..
Un disco fatto col cuore. I due protagoni-
sti sono affiancati da numerosi artisti, fra i
quali Paolo Gerbella, la cantante-poetessa
corsa Patrizia Gattaceca e Giovanni Cecca-
relli, responsabile degli arrangiamenti.
Dopo Animantiga Casalta realizza un nuo-
vo disco da solista, Trà ombra è anima. Il
nuovo CD comprende cinque pezzi inediti
e nove tratti dai lavori precedenti, rimaste-
rizzati per l’occasione. I quattordici brani
sono firmati da Casalta, ad eccezione di
quattro composti da altri.
Il chitarrista corso si conferma interprete
sensibile e raffinato, profondamente legato
alla propria identità culturale in un un’ot-
tica moderna. Fra i numerosi ospiti spicca
Oscar Del Barba, pianista e fisarmonicista,
già collaboratore di Franca Masu in Hoy
como ayer (2007) e Almablava (2013).
Ormai sono circa vent’anni che la Corsica
sta riallacciando i rapporti con le regioni
italiane alle quali è stata legata nei secoli
scorsi: Liguria, Sardegna e Toscana.
Non si tratta soltanto di iniziative istituzio-
nali stimolate dalla contiguità geografica,
ma anche di nuovi legami culturali. In que-
sto campo gioca un ruolo fondamentale la
musica.
Gli esempi sono numerosi: pensiamo a di-
schi come Mistico Mediterraneo (2011) e
Danse Mémoire (2017), registrati da Paolo
Fresu insieme al gruppo polifonico corso A
Filetta. Oppure a Isokhronos (2018), realiz-
zato da un altro corso, Jérôme Casalonga,
insieme al sardo Antonello Salis (vedi n.
322).
Un altro musicista attivamente impegnato
in questo campo è Stéphane Casalta, can-
tante e chitarrista di Bastia.
Nato nel 1968, l’artista isolano vanta un
percorso musicale versatile e coerente. En-
trato giovanissimo nel gruppo A filetta, col
quale incide due LP, nel 1992 ne esce per
fondare un gruppo proprio, Giramondu,
che propone una sintesi originale di musica
tradizionale corsa e world music. Dopo due
CD realizzati con questa formazione opta
per la carriera solista.
Il primo lavoro, Una preghera (2001), se-
gna l’inizio di un forte legame con l’Italia.
Il disco viene registrato a Firenze da Marco
Lamioni, all’epoca già ben noto per il suo
ruolo centrale nella new wave fiorentina
degli anni Ottanta.
Il 2007 segna l’incontro con la cantante
Franca Masu, prestigiosa esponente della
minoranza catalana di Alghero. I due for-
mano il gruppo Geminas e si esibiscono
periodicamente in vari concerti, senza però
incidere un disco che documenti questa
collaborazione. Si tratta comunque di un’e-
sperienza importante per entrambi, basata
su un’affinità poliforme: due culture mino-
ritarie, latine, insulari e mediterranee.
Successivamente Casalta realizza altri lavo-
ri: Terra è celu (2007), Fantasia (2011) e I
vascelli (2014).
di Alessandro Michelucci
MusicaMaestro
Affinità mediterranee
disegno di Massimo CavezzaliIl senso dellavita
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Comincio con questa breve colonna la mia
collaborazione con CUCO. Il mio contribu-
to a questa webzine (termine degli anni ‘90
ormai obsoleto) proporrà alcune storie riguar-
danti il CERN, ma soprattutto le sue perso-
ne. Ho avuto la fortuna di lavorare al CERN
per quasi diciassette anni, undici dei quali
come direttore della biblioteca, un servizio
che costituisce un’eccellenza internazionale
dal punto di vista tecnologico e culturale, in
sostegno alla grande scienza che si fa in quel
luogo. La scienza sviluppata al CERN non
è sempre facile da comunicare o da capire
ma diventa più accessibile quando ci ricor-
diamo che dietro ad ogni sviluppo scientifico
ci sono sempre le persone, ordinariamen-
te straordinarie, e le loro storie. Nel 1948
Edoardo Amaldi, allora capo dell’Istituto di
Fisica all’Università di Roma, invitò Werner
Heisemberg, premio Nobel per la fisica (“per
la creazione della meccanica quantistica, la
cui applicazione, tra le altre cose, ha portato
alla scoperta delle forme allotrope dell’idro-
geno”, come recita la giustificazione ufficiale
dell’Accademia di Stoccolma del 1932), a ve-
nire a Roma e tenere una serie di conferenze
sulla fisica delle particelle per i ricercatori
dell’Università. Per ringraziare Heisemberg
della sua disponibilità, Edoardo Amaldi
pensò di proporgli una gita turistica nella cit-
tà di Roma e incaricò il giovane ricercatore
Giuseppe Fidecaro (allora “garzone di bot-
tega all’Istituto di Fisica”) di accompagnarlo.
Giuseppe era agli inizi della sua carriera e
non aveva ancora un’auto ma aveva una bel-
la Lambretta. Egli propose allora al premio
Nobel Werner Heisemberg di fare la gita
romana in Lambretta. Werner Heisemberg
accettò, un po’ come fecero Gregory Peck
e Audrey Hepburn nel 1953 in “Vacanze
Romane”. Invece che in Vespa, Giuseppe
e Werner girarono per Roma in Lambretta,
naturalmente senza casco e senza assicura-
zione… Questa storia mi è stata raccontata al
CERN da Giuseppe Fidecaro, ora lucidissi-
mo nonno ultra-novantenne. Giuseppe (163
documenti scientifici pubblicati, specialista
nello studio dei raggi cosmici e responsabile
del Sincrociclotrone, il primo acceleratore
messo in servizio al CERN nel 1957) e la
moglie Maria (coautrice di oltre 240 pub-
blicazioni scientifiche e specialista di uno
dei primi rivelatori, la camera a nebbia), am-
bedue fisici sperimentali di fama mondiale,
hanno lavorato al CERN dal 1956 al 1995.
In pensione da oltre venticinque anni, la loro
passione per la ricerca nella fisica delle par-
ticelle è tale che, ancora oggi, si recano ogni
giorno al CERN per parlare e discutere con
colleghi giovani e anziani degli ultimi svi-
luppi degli esperimenti in corso. Giuseppe
e Maria sono da sempre assidui utilizzatori
della biblioteca del CERN. Giuseppe ha
raccolto negli anni un’importante personale
collezione di documenti scientifici relativi
alla sua più che cinquantennale attività di
ricerca nella fisica delle particelle. Un gior-
no, molti anni fa, con l’aiuto segreto di Maria,
proposi a Giuseppe di donare la sua colle-
zione privata di documenti scientifici alla
Biblioteca del CERN per renderla accessi-
bile a tutti. Giuseppe mi rispose che non si
fidava dei bibliotecari e della cura che avreb-
bero avuto dei suoi documenti. Ancora oggi
la “collezione Fidecaro” è accuratamente e
gelosamente custodita in un deposito secreto
negli immensi sotterranei del CERN e, da
ex-bibliotecario, non posso che osservare che
i curatori delle ricchezze documentali dell’u-
manità devono ancora lavorare per meritare
la fiducia completa dei loro lettori.
di Corrado Pettenati Vacanze romane di un Premio Nobel
Da sinistra: Giuseppe Fidecaro, Edoardo Amaldi, Werner Heisemberg, nel 1960, in occasione dell’inaugurazione
del Proton Synchrotron (PS), uno dei primi grandi acceleratori del CERN.
Maria e Giuseppe Fidecaro intervistati sulla loro vita al CERN nel 2012.
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Adriana Lestido, da donna a donnaLa figura femminile è sempre stata al centro
delle manifestazioni artistiche, fino dalla prei-
storia, ed è sempre stata ugualmente al centro
dell’attenzione dei fotografi. Diversamente
dalle altre arti, la fotografia comincia ad essere
praticata fino dall’inizio della sua storia anche
dalle donne, dapprima sul piano strettamente
professionale del ritratto in studio, per allargar-
si in seguito agli altri generi fotografici, come
il reportage, fino a diventare, per le fotografe
come per i fotografi, uno strumento di ricerca
e di espressione individuale. Se questo non
comporta, almeno in un primo momento, una
sostanziale differenza nella rappresentazione
della figura femminile, comporta di sicuro una
certa differenza nell’affrontare e nell’indagare
l’universo femminile. Indipendentemente dal-
la maggiore o minore profondità o superficiali-
tà dello sguardo, la raffigurazione dell’universo
femminile fornita dalle fotografe si avvantag-
gia, rispetto ai fotografi, di maggiori complici-
tà, intimità e vicinanze. La fotografa argenti-
na Adriana Lestido (nata a Buenos Aires nel
1955) ha dedicato molti anni della sua carriera
al tema dell’universo femminile. Diplomata
presso la Scuola di Arte e Tecnica Audiovisiva
di Avellaneda, comincia a lavorare come foto-
reporter all’epoca della dittatura militare, foto-
grafando anche le Madri della Plaza de Mayo,
e dal 1982 al 1995 lavora per alcune riviste,
maturando la consapevolezza delle limitazio-
ni imposte dai tempi rapidi del reportage e la
necessità di approfondire tutti quei temi che
fino ad allora aveva solamente toccato. Gra-
zie a due borse di studio, una del 1991 della
Fondazione Hasselblad ed una del 1995 della
Fondazione Guggenheim, dedica un anno alle
donne detenute con i figli nel carcere femmi-
nile di Los Hornos e tre anni al progetto “Ma-
dri e figlie”, seguendo la vita di quattro madri
con figlie di età diversa, tornando in seguito
e più volte in ambienti come carceri, cliniche
pediatriche ed asili infantili, continuando a fo-
tografare donne, bambine, madri adolescenti.
Fotografando, sempre in bianco e nero, e se-
guendo da vicino la vita quotidiana delle don-
ne, Adriana ne condivide i problemi, le inquie-
tudini, le emozioni, lo sviluppo e l’evoluzione
dei rapporti, ne registra i diversi momenti della
giornata, anche e soprattutto quelli quotidiani,
ripetitivi, apparentemente insignificanti, ma
scavando sempre al di sotto della superficie, al
di là delle apparenze, e cercando la profondità
dei sentimenti e dei legami affettivi. Le sue im-
magini oscillano fra la presenza e l’assenza, la
vita ed il ricordo, la vicinanza e la lontananza,
la speranza ed il rimpianto, il detto ed il non
di Danilo Cecchi
detto, i gesti e l’immobilità. Con le sue imma-
gini non vuole raccontare delle storie compiu-
te, non cerca di descrivere psicologicamente
i personaggi, non pretende di giudicare o di
denunciare delle situazioni, ma si immerge, da
fotografa, nella intimità dei rapporti, registra i
momenti di tenerezza o di apprensione, di feli-
cità o di stanchezza, i corpi che si abbracciano
o si distaccano, gli sguardi che si incrociano o
che spaziano lontano, nel chiuso delle stanze
o negli spazi aperti. Registra le somiglianze e
le differenze, gli incontri e gli abbandoni, le
complicità ed i contrasti, cercando di restituire
la complessità del mondo femminile in tutte
le sue sfumature, di dolcezza o di durezza, di
abbandono o di resistenza, ed i diversi atteggia-
menti davanti alle alterne vicende della vita,
senza voler dimostrare nessuna tesi, accompa-
gnando con le proprie immagini il fluire della
vita stessa, lo scorrere del tempo ed il ritorno
eterno di situazioni simili. Immagini giocate
sul filo del sentimento, della continua scoperta
delle complessità e delle difficoltà, immagini
che solo un occhio femminile sembra riuscire
a percepire ed a comporre. Nel 2001 pubblica
il libro “Mujeres presas”, nel 2003 “Madres
e hijas”, nel 2010 “Interior”, nel 2011 “La
Obra” e nel 2012 “Lo que se ve”, oltre a due
libri sull’Antartide nel 2017, frutto di un lungo
soggiorno nel 2012 in una residenza d’artista
presso l’Istituto Antartico dell’Argentina.
“Io non fotografo quello che vedo, perché lo ho
già visto. Quello che voglio vedere è quello che
i miei occhi non possono vedere. Io fotografo
quello che sento, ma che non riesco a vedere.
Cerco di fondermi con quello che guardo, bi-
sogna scomparire per diventare quello che stia-
mo guardando”.
1018 GENNAIO 2020
Riscaldamento del pianeta, aumentano i
mesi caldi e le temperature dei sempre più
brevi inverni, nelle fogne... un calduccino, le
zanzare non muoiono mai! Arriva Rossani-
no con una megadose di insetticida.
Grande bidone di metallo, tappo e fondo
un pò arrugginiti (1947), di “Super Faust
al D.D.T.” La eloquente decorazione ci fa
sognare: una casina perbenino è sovrastata
da un diavolaccio rosso di nero ammantato
che impugna, a mo’ di arma di sterminio di
massa, un “flit”, da esso fuoriesce una nuvo-
letta grassoccia che contiene insetti di vario
tipo e zanzare a gambe ritte, stecchiti. Fon-
do blu, in alto citazione dantesca “lasciate
ogni speranza o voi che entrate”, in giallo
il nome del prodotto che, si precisa “non
addormenta, fulmina” e, in basso, piccolo,
Ditta Ruggero Benelli Super-Iride Prato.
Spunti numerosi per storielle frammentarie.
Per flit si intendeva il marchio, registrato nel
1930, di uno specifico insetticida da nebu-
lizzare, poi ogni insetticida spruzzabile ed
ancora poi, per trasferimento di significato,
l’attrezzo usato per spruzzare, un tubo con
uno stantuffo che pesca in un piccolo serba-
toio con il liquido scelto. La parola deriva
da fly-tox, tossico per le mosche, c’era un
refrain famosissimo “ammazza la mosca col
flit” e tante variazioni, fra esse “ammazza
la vecchia col flit e se non muore col gas”! Il
terribile ed oleoso odore di petrolio che se-
guiva ogni spruzzata di flit fatta dalla nonna
nei pomeriggi di canicola estiva è ancora nel
mio naso… Il Dicloro-Difenil-Tricloroetano
è il primo importante insetticida, scoper-
to nel 1939 da un chimico svizzero, Paul
Hermann Müller che lavorava alla Geigy.
Partecipando ad una ricerca su agenti pro-
tettivi per le piante, scoprì dei composti che
avevano proprietà battericida ed insetticida.
Per 4 anni studiò tutto il possibile su inset-
ti e prodotti che li potessero danneggiare,
dopo 349 tentativi infruttuosi spruzzò l’ul-
timo sintetizzato in una gabbietta di mosche
seccandole tutte. Pur non laureato, fu insi-
gnito del Nobel nel 1948. Si deve al DDT
la definitiva sconfitta della malaria in Italia
e nel Nord America. I soldati americani lo
avevano in dotazione e ne fecero ampio uso
nella evacuazione dei Campi di Concentra-
mento, e da noi, disinfestando un milione di
napoletani, scongiurarono il diffondersi di
una pericolosa epidemia di tifo petecchiale,
trasmesso dai pidocchi. Sempre al DDT si
deve la nascita del primo movimento am-
bientalista americano, nel 1962 una biologa
e zoologa, Rachel Carson, già autrice di libri
sugli ecosistemi marini, pubblicò “Prima-
vera silenziosa”, frutto di studi e ricerche
durati quattro anni; in esso descriveva gli
effetti negativi su animali ed ecosistema e
cancerogeni per l’uomo di questa sostanza.
Il suo interesse per la salvaguardia dell’am-
biente terrestre fu stimolato dalla pubbli-
cazione su un giornale della lettera di una
sua amica che denunciava la morte di tutti
gli uccelli della sua voliera dopo la irrora-
zione della zona con DDT. Pur osteggiata
dalle ditte prodruttrici di pesticidi, la sua
ricerca ne provocò la graduale messa la ban-
do. Oggi è usato solo in paesi dell’Africa e
dell’India in cui la malaria regna sovrana.
Salto alla Benelli, grandissima Ditta, di pro-
prietà della omonima famiglia, produceva
famose tinture per colorare, anche in casa,
le stoffe, (Super Bianco), cere per pavimenti,
Liù, ed insetticidi. Sia di misura del volume
delle loro vendite il treno dai vagoni gialli
su cui erano disegnati i prodotti Super-Iride
che usavano per spedirli in Italia e non solo.
Molti Caroselli e personaggi della pubblici-
tà ad essa riconducibili negli anni ‘60 e ‘70,
fra cui Riccardone e Svanitella. Si sgretolò
alla fine delgli anni 90.
Flit non addormenta, fulmina Bizzariadeglioggetti
a cura di Cristina Pucci
dalla collezione di Rossano
1118 GENNAIO 2020
La Cour Carrée ospita fino al 25 gennaio
la mostra del fotografo messicano Gildardo
Gallo dal titolo “Streghe e Incantesimi”:
quattro grandi foto ( 200 x 150cm e 143
x 120cm ) estrapolate da un più ampio
progetto che l’artista ha esposto nel 2018
in Messico, nella città di Morelia, a Città
del Messico, Guadalajara e San Miguel de
Allende, con notevole successo di pubbli-
co e critica. Luci ed ombre mirabilmente
studiate ad avvolgere morbidamente le due
misteriose figure femminili che si stagliano
su fondi scuri, appaiono in netto contrasto
con gli effetti brillanti degli elementi florea-
li da cui scaturiscono morbide nubi di varie-
gati colori. Un clima di magia permea que-
ste foto: le due diafane figure femminili
con gli occhi e le pupille dilatate sembrano
contemplare mondi sconosciuti, lontani da
noi. Quest’ opera, come afferma il fotogra-
fo, ha tratto ispirazione dal periodo dell’o-
scurantismo e vuole essere un omaggio alla
donna e al suo fascino magico che si snoda
attraverso i secoli. I lavori di Gildardo Gallo
presuppongono un lavoro di ricerca intenso
e raffinato che precede gli scatti: dalla scel-
ta delle modelle, agli abiti da indossare, agli
oggetti di scena e soprattutto la scelta delle
luci a cui è affidato il compito di creare at-
mosfere ricercate e raffinate. Maestro nella
realizzazione di ritratti, il fotografo elimina
qualsiasi orpello sul fondo delle scene in
cui colloca i suoi personaggi, orpelli che ri-
schierebbero di distrarre lo sguardo dell’os-
servatore che deve rimanere concentrato
come quello dei protagonisti delle sue foto.
Formatosi come grafico a Morelia in Mes-
sico, scopre la fotografia di ritratto che per-
feziona con studi a Firenze, città nella qua-
le vive e lavora fin dal 2002. La conoscenza
approfondita dei lavori di fotografi come
J.P. Witkin, Irving Penn, Erwin Blumen-
feld e Andres Serrano, studiosi dell’ estetica
della figura umana e del suo comportamen-
to, costituiscono il fertile terreno su cui si è
innestata la sua passione per la fotografia.
Gildardo Gallo ha esposto in molteplici
personali e collettive in Italia e all’estero,
fra cui mi piace ricordare la suggestiva mo-
stra dal titolo “ Gli Eroi Invisibili” - 2005,
in cui il fotografo affronta in modo incisivo
e senza retorica la tematica della vita con-
temporanea che, con la sua frenesia, disto-
glie l’uomo dal comprendere quali siano i
bisogni fondamentali della sua esistenza. A
Firenze nel 2013, presso “Self Habitat” si è
tenuta la mostra collettiva ‘Sguardi Rifles-
Streghe e incantesimi a La Cour Carrée
di Giovanna Sparapani
si’: nelle due splendide opere di Gildardo
Gallo dal titolo ‘Pneuma’, si fa riferimento
a mondi trasversali che vivono dietro le im-
magini riflesse nello specchio, con risultati
di notevole lirismo ed estrema raffinatezza.
Gallo lavora parallelamente nel mondo del-
la moda, dove trova anche la possibilità di
continuare il suo lavoro di accurata inda-
gine sulla figura umana e la sua estetica. “
Streghe e incantesimi” di Gildardo Gallo
in mostra fino al 25 gennaio 2020 presso la
Cour Carrée box 23, Largo Annigoni, Fi-
renze. Orari: dalle 10alle 15.dal martedì al
sabato
1218 GENNAIO 2020
L’inventario è tutela
del ‘Progetto Inventario’ si dovrebbe dare
per scontata una scambievole collabora-
zione. Come sempre specifica la CEI, detto
Inventario deve tener conto degli inventari
esistenti, integrarli, e, quando necessario,
aggiornali (cfr. “Modalità operative, Recu-
pero Inventari esistenti, 3”). Nel paragrafo
sulla “Programmazione” si specifica che
da parte loro “le Soprintendenze stabili-
scono d’intesa con le competenti Autorità
ecclesiastiche: i luoghi dell’intervento, le
tipologie di beni, le modalità, il periodo e la
durata delle campagne di inventariazione”
secondo la già citata “Intesa per la tutela
dei beni culturali ecclesiastici”, sottoscrit-
ta il 13 settembre 1996 dal Ministro per i
Beni Culturali e Ambientali e il Presiden-
te della Conferenza Episcopale Italiana
(in “Notiziario C.E.I.” n. 9, 20 novembre
1996, pp. 336-347). A monte della collabo-
razione fra Diocesi e Sovrintendenze, cioè
fra Chiesa e Stato, sta su questo tema l’Ac-
cordo Concordatario del 18 febbraio 1984.
Il “Progetto CEI” suggerisce elasticamente
che esso “potrà essere adattato di volta in
volta alle situazioni e alle esigenze locali”,
specificando che “una volta realizzato” sia
“messo a disposizione degli studiosi per la
consultazione, [svolgendo] cioè una funzio-
ne analoga a quella dell’archivio e della bi-
blioteca diocesana”. (continua)
Nel corso della mia passata esperienza in
campo di Inventariazione entro un conte-
sto di Beni culturali ecclesiastici, mi sono
trovata a condividere – in modo diretto e
pragmatico – le indispensabili linee gui-
da della Conferenza Episcopale Italiana
(CEI), nella sua Circolare “Amico del
clero”, n.2, del 26 gennaio 1998; quest’ul-
tima pubblicata dopo l’intesa con la CEI
(1996) di promuovere e coordinare l’In-
ventario ecclesiastico dei beni artistici e
storici delle diocesi italiane. Le Diocesi,
peraltro tenute all’Inventario dei loro
Beni secondo il Codice di Diritto Ca-
nonico (CDC, Libro V, 1283, 2) che le
invita a seguire rigorosamente le norme
per l’Inventario ecclesiastico dei Beni sto-
rico-artistici, devono dare la precedenza -
come la CEI stessa consiglia - ai Beni mo-
bili, cioè a “dipinti, sculture, suppellettili,
paramenti, ecc. perché sono quelli più a
rischio”. Per questo tipo di Patrimonio di
cui le Parrocchie fanno in gran parte an-
cora uso liturgico e che, essendo esposto
ad un utilizzo, è esposto di conseguenza
a” rischio”, è scontato che si parli di Inventa-
riazione e che quest’ultima sia ben fatta e si
avvalga “del tracciato dei dati d’inventario
già utilizzato dalle Soprintendenze /…/, nel-
lo spirito dell’Intesa 13 settembre 1996 (cfr.
art. 4)”. Nel corso dell’Inventario, le Dioce-
si non solo opereranno una capillare com-
parazione e verifica dei dati reperiti dalle
Sovrintendenze e/o da altri Enti pubblici,
ma “per quanto possibile al [loro] livello”
verificheranno questi stessi dati in quanto
il Patrimonio mobile è di per sé soggetto a
movimentazione, a degrado o, all’opposto,
è sottoposto - a parer mio - alla possibilità
del fortunato ritrovamento di documenti
che ne aggiornino la genesi, ne specifichino
la funzione ecc. Ne deriva una necessaria
stretta collaborazione con studiosi spe-
cialisti del sito ecclesiale, quali il parroco,
l’archivista o altra persona idonea indicata
dalla Sovrintendenza: infatti, in contesti
particolarmente ricchi di Beni mobili, non
possono considerarsi sufficienti figure ester-
ne quali il Responsabile diocesano, il Di-
rettore scientifico Docente universitario di
Storia dell’Arte, lo Schedatore specializzato
in Storia dell’Arte, il Revisore con partico-
lare preparazione scientifica. Là dove esiste
la combinazione della presenza di un Ar-
chivio o, almeno, di una persona contestual-
mente competente, per la buona riuscita
di M.Cristina François
[
Esemplare di ‘Inventario’ (del 5 agosto 1947) che attesta alcuni Beni ecclesiastici - già inventariati dalla Sovrintendenza - e andati distrutti
“ad opera dei Tedeschi la notte sul 4 Agosto 1945 [1944]”
di Paolo della Bella
Della Bella gente
Perele non ha mai digerito la rottura del suo
primo fidanzamento e terminati i “doveri” di
brava moglie e madre decide di riprendersi
tutto ciò che avrebbe dovuto essere suo. Un
viaggio nell’ebraismo meno aneddotico e più
legato allo studio della Lituania tra prima e
seconda guerra mondiale, un mondo estintosi
qui in Europa che invece riecheggia nell’Israe-
le odierno. Un libro davvero bello da leggersi e
da ripensare
Chaim Grade, La moglie del Rabbino, La
Giuntina, 2019, € 15,30 (Ebook € 9,99)
di Paolo della Bella
L’indomabile Perele
Microrece
1318 GENNAIO 2020
Abbiamo considerato e continuiamo a con-
siderare la riproduzione fotografica come
una valida sostituta della realtà visibile. Ap-
pannaggio fino all’invenzione della fotogra-
fia della pittura e della scultura. Quando la
fotografia, ha raggiunto con il colore la sua
completezza, ha messo in seria discussione
la pratica di ogni tecnica pittorica finaliz-
zata alla rappresentazione delle cose, delle
persone e dei luoghi. La mostra: “De Nittis
e la rivoluzione dello sguardo”, allestita in
Palazzo dei Diamanti a Ferrara, ci presenta
a mio avviso le preoccupazioni, le curiosità
e maggiormente la volontà di lottare di un
pittore Giuseppe De Nittis (1846-1884),
che come i suoi contemporanei, ha vissuto
un momento di passaggio che ha costretto
la pittura fino ad allora unico strumento per
la rappresentazione del mondo e di chi lo
abitava ad abbandonare la sua ragione do-
cumentaria e documentativa. Il percorso
della mostra, presenta pitture di De Nittis
alternate a fotografie di autori a lui contem-
poranei, sottolineando lo scambio reciproco
tra i due linguaggi di esperienze e potenzia-
lità. Tra le notizie fornite sulla vita e l’opera
dell’artista, appariva l’elenco redatto alla
sua morte di quanto era presente nel suo
studio. Tra le quali cose, mi ha colpito e for-
temente incuriosito la presenza di una car-
rozza attrezzata come studio da lui utilizza-
ta per la pittura en plein air. Monica con la
quale stavamo visitando la città, osservava
quanto la sua pittura fosse vicina per la
scelta dei soggetti, il taglio compositivo con
inquadrature audaci e sorprendenti, l’im-
mediatezza esecutiva, agli scatti degli attua-
li fotoreporter. Questa considerazione di
Monica, sommata alla notizia della carroz-
za studio, ci ha portato ad immaginare il pit-
tore a bordo del suo atelier mobile, come un
“paparazzo” ante litteram, che certamente
sceglieva anche per convenienza di ritrarre
personaggi della mondanità, “sorpresi” sui
boulevards parigini e nel loro tempo libero,
alle corse dei cavalli e nei salotti eleganti.
Giuseppe De Nittis, pittore reporterdi Valentino Moradei Gabbrielli
Non è più il caso di guardare indietro, bensì di
cogliere quali “opportunità” sembri offrire il
mercato per nuove attività destinate ad inter-
cettare dei precisi, e nuovi, bisogni. Ovviamen-
te, non vogliamo invadere campi già occupati
da chi, prima di noi, si è dichiarato paladino,
se non difensore dei diritti (che finora non gli
erano parsi tutelati) di cui sono portatori colo-
ro che stanno sperimentando nuove forme di
attività. Questa è la ragione per cui evitiamo
di parlare dei seguenti mestieri: il mestiere
(certamente non facile) di essere Italiano, in
quanto tutti coloro che lo sono sembra abbia-
no conferito (stando a quanto da lui affermato)
un mandato a tale avvocato Conte, del Foro di
Firenze; il mestiere (precario come pochi altri)
di “rider” non vale la pena di essere descritto,
anche perché capita a tutti di vedere per strada
ciclisti muniti di capiente zaino, spesso intenti
a manovrare tablet o simili aggeggi. Di loro, si è
fatto protettore, fin dal suo insediamento, nien-
te popo’ di meno che l’ex vice Presidente del
Consiglio dei Ministri; il mestiere di “posteg-
giatore abusivo”, così pare, è in disgrazia e (per
amor di patria) non stiamo a riferire chi sembra
ne proteggesse un bel gruppo.
E, allora, quale sembra essere una delle oc-
cupazioni che è andata per la maggiore nelle
settimane intorno a Natale ed in queste prime
settimane dell’anno?
Francamente, non saprei come definire chi
esercita questa attività.
Eppure, ci è capitato di vederne i frutti in al-
meno due zone della città in cui viviamo (zone
neppure troppo contigue, se è vero che le sepa-
ra non solo un paio di chilometri in linea d’aria,
ma addirittura il corso di un fiume).
Potrebbero chiamarsi, con un acronimo:
“ADA” (Appenditori Di Abbigliamenti), op-
pure “DDS” (Distributori Di Sciarpe), o anche
“IDC” (Insacchettatori Di Calorie).
Di solito, agiscono all’imbrunire, quasi di sop-
piatto.
Mettono sciarpe, o guanti, in sacchetti di nylon
trasparente e li appendono ai tronchi degli al-
beri di un viale.
O anche appendono delle grucce con soprabi-
ti, o giacconi, al muro di un cavalcavia, sotto il
quale cercano riparo, la notte, dei senza tetto.
Di solito dei cartelli, invitano chi passa da lì e
apprezza il desiderio di indossarli di servirse-
ne, o di donarli ad altri che ne hanno bisogno.
Qualche sigla, apposta come firma, fa sospetta-
re che questi attacchi alla crescita del PIL (veri
e propri boicottaggi del mercato, nell’epoca dei
SALDI) siano opera di giovani, spesso mino-
renni (e, quindi, non punibili), mandati a spe-
rimentare questa attività da adulti che operano
in quei luoghi che, un tempo, si denominavano
Parrocchie.
Qualcosa si risveglia.
Se lo sa Zingaretti, il rischio è che apra anche
a loro...
Anno Nuovo, mestieri nuovi
I pensieri di Capino
1418 GENNAIO 2020
Nel 1893 due cugini, Théophile Bader
e Alphonse Kahn decisero di aprire una
piccola merceria che chiamarono pompo-
samente Aux Galeries Lafayette perché si
trovava appunto in rue Lafayette. Ebbero
successo e nel 1912 acquistarono un intero
edificio nel vicino boulevard Haussmann
per creare un grande bazar di lusso, un
ambiente innovativo di cinque piani che si
affacciano su una grande sala, con balconi
dalle balaustre decorate con foglie in stile
art noveau, illuminata dalla luce naturale
che filtra dall’enorme cupola con vetrate in
stile neobizantino. Oggi Galeries Lafayette
attira milioni di visitatori ogni anno. Pochi
di loro sanno però che la costante ricerca
di novità e la voglia di stupire anticipando
i tempi hanno portato negli anni Galeries
Lafayette a instaurare un forte legame con
l’arte contemporanea e a fondare nel 2001
la Galeries des Galeries per promuovere
la trasversalità tra arte, moda e design. Poi
nel 2018 la sfida, nata da un’idea del presi-
dente delle Galeries Lafayette, Guillaume
Houze, di creare un grande spazio in cui
tutte le discipline artistiche si mescolano e
si presentano al pubblico in modo comple-
tamente innovativo. Il nome è un program-
ma: si chiama Lafayette Anticipations. Si
trova nel Marais, a pochi passi dal Centre
Pompidou, in rue du Platre 9, ricavato in un
palazzo storico del 1891. L’edificio, di pro-
prietà del gruppo Lafayette, che ha 7 piani
e una una superficie totale di 2.200 mq, è
stato completamente riconfigurato dal fa-
moso architetto olandese Rem Koolhaas
che ha inserito un nuovo volume di 875 mq
nel cortile interno a forma di torre in acciaio
e vetro alta 19 metri. Questa torre è una sor-
ta di “macchina per esporre” consentendo
attraverso lo spostamento e l’innalzamento
di 4 solai che sono piattaforme mobili la
massima flessibilità d’allestimento secondo
49 differenti configurazioni. Dice Koolhaas
Vedere il cambiamento fisico nelle propor-
zioni dell’edificio è offrire agli artisti l’op-
portunità di comporre le misure delle loro
opere secondo il loro proprio spazio creati-
vo. A questo incredibile, avveniristico luo-
go, dedicato alle creazioni contemporanee
di tutte le discipline artistiche, si aggiunge,
nel seminterrato, un laboratorio a dispo-
sizione degli artisti ospiti per creare i loro
lavori. La zona in questa parte del Marais
offre altre sorprese. Uscendo dal secondo
ingresso di Lafayette Anticipations, in rue
Sainte-Croix de la Bretonnerie, ci si trova
davanti a Eataly, aperto da pochi mesi in
un altro splendido palazzo storico, sempre
di proprietà del gruppo Lafayette titolare
del franchising esclusivo del marchio italia-
no in Francia. Illuminato dal tetto in vetro
dell’artista scozzese Martin Boyce, lo spazio
di 4000 mq di cui 2.500 aperti al pubblico,
ha 400 posti a sedere e un centinaio sulla
terrazza. All’interno una profusione di ban-
coni ricolmi di pasta fresca, formaggi, 47
tipi di pane (tutti prodotti fatti quotidiana-
mente nel laboratorio dentro Eataly), salu-
mi, una macelleria, un mercato di frutta e
verdura, caffetterie, gelaterie, sette ristoran-
ti (chiamati con modestia “punti di ristora-
zione”), naturalmente una pizzeria e nel se-
minterrato La taverna del vino, considerata
la più grande cantina di vini italiani a Parigi
con 1200 etichette. Le 300 persone che ci
lavorano, delle quali il 60% sono italiane, si
alternano in questo enorme santuario del
cibo dalla mattina alle 8.30 a mezzanotte
per sette giorni alla settimana. Tutto questo
per dire che Lafayette non è solo vetrine.
di Simonetta Zanuccoli
Lafayette, una macchina per esporre
1518 GENNAIO 2020
te e – pare - agevolmente conseguita. Anco-
ra acerbo, adolescente, seppe dare alla luce
manufatti ricchi di risonanze artistico-cul-
turali, come il “Ritratto con cappello e fiori”
(1913), la “Fruttivendola” (1915), il “Vec-
chio fumatore” (1915), il “Ritratto del poeta
Gino Chierini” (1916): dove si esprimono
una personalità aperta alle contaminazioni,
una statura decisamente lontana da qualsi-
voglia provincialismo e dove i colori, prima
ancora dei soggetti, dominano la tela e cattu-
rano l’occhio; una ‘festa’ che rinvia in parte
ai moduli espressivi di un Cezanne, ma non
si ferma lì e si porta sui lidi dell’arte fauvista
e futurista. Di pittura squisitamente futuri-
sta sono fulgidi esempi il “Vicolo notturno”
e “La cocomeraia” (entrambi del 1917) ma
Primo – ancora una volta rinnovandosi - pro-
vò a inserirla nei registri dell’estrosità e del
grottesco, come appaiono rispettivamente
nel “Saltimbanco” (1918) e ne “L’oste burlo-
ne” (1918) – quest’ultimo autentico innesto,
sul ‘letto’ futurista, di un lessico simbolista e
metafisico.
La tecnica di Conti si mostra incostante,
duttile, cangiante, poiché è al servizio di
una sensibilità acuta e vorace. La si constata
perfettamente ‘fermata’ in un dipinto di rara
complessità, quel “Ritratto in rosa e nero”
(1917) che mi è parso/mi pare una delle vet-
te della pinacoteca. Così posso affermare an-
che per “La cugina Pia” (1920), reputato un
caso unico nell’itinerario dell’artista, in cui
- grazie alla capacità di introspezione psico-
logica e ad una tecnica pittorica finissime - si
aggiunge l’impronta dell’ineffabile,
Né possiamo tralasciare i disegni, molti dei
quali (magnificamente, va detto) allo stato
di bozzetti, di figure incompiute (senonché,
nell’arte, il concetto di incompiuto molto
probabilmente è un non-senso): così il suo
“Autoritratto” (1915-16), eseguito con mati-
ta a cera su foglio di quaderno a quadretti, è
denso di poesia, di forza evocativa, per lo più
maneggiate, domate con una tecnica consu-
mata: ce n’è già più che a sufficienza - del suo
essere, della sua individualità - per affermare
che nulla, davvero nulla vi manca del giova-
ne Primo.
In Primo era già come iscritto il suo talento
precoce. I nomi, a volte, non si sa se siano più
un (anticipato) riconoscimento o una profe-
zia. In ogni caso il pittore sbocciava che ave-
va undici anni: ce lo testimonia il suo “Au-
toritratto”, del 1911 (il primo di una serie,
nel corso degli anni), che è, oltre al resto, un
segno di assertività che vogliamo immagina-
re al servizio di un magari mai pronunciato,
eppur verosimile “Eccomi!”. Come l’incipit
di una avventura artistica che sarebbe durata
tre quarti di secolo e che egli ha vissuto at-
traversando numerose correnti - senza però
averla inquadrata, ovvero ‘chiusa’, in alcuna
tra esse. Così, a chi chiedesse che genere di
pittura sia stata quella di Primo Conti, cre-
do che neanche il più esperto, di quella, sa-
prebbe rispondere. Perché, se è vero che il
suo universo è “inscindibile dal Futurismo”,
altrettanto può affermarsi la sua inclinazio-
ne a “lasciarsi attraversare, come un duttile
medium, dalle diverse traiettorie che con-
temporaneamente percorrono il secolo, e la
capacità di far convergere su se stesso, come
centro e catalizzatore, il portato delle molte-
plici esperienze” (Giovanna Dalla Chiesa,
“L’avanguardia lirica di Primo Conti”, ne “Il
Museo Primo Conti”, 1987, pag. 12). Questa
sua libertà dalle scuole, dalle correnti e dalle
avanguardie, unita tuttavia alla originalità
con cui vi si è immerso e mediante la quale
ha interpretato e declinato nelle opere l’arte
del proprio tempo, fanno di lui un protagoni-
sta di primo piano dell’arte italiana del XX°
secolo. Ancorché, si può dire, rimasto un po’
come in seconda fila.
Di questa articolata esperienza culturale ed
artistica è solida conferma la raccolta di di-
pinti (65) e di disegni (oltre 150) custodita
della Fondazione che da lui ha preso il nome,
al piano terra della villa quattrocentesca de
“Le Coste” - in quel di Fiesole - dove Conti
ebbe a vivere per circa 35 anni.
Vi si accede per una porta che Primo volle
dipinta di rosa e subito si è al cospetto delle
opere più recenti, realizzate negli anni ‘70; vi
è in evidenza il tema dell’eros, tradotto con
segni e forme essenziali in tele di notevoli di-
mensioni, ove si rinsalda la fiducia nella pro-
messa di una energia e di una vitalità primor-
diali e imperiture, come manifesti esposti a
dispetto del tempo: tra gli altri, il “Grande
nudo erotico” (1973) e l’“Incontro erotico”
(1973-76). Ma per chi scrive non è qui il
Conti magistrale.
Procedendo nelle sale e prestando l’occhio
alle date delle opere, colpisce appunto la sua
maturità artistica in quanto così rapidamen-
Primo di nomeprecoce col talento
di Paolo Marini
1618 GENNAIO 2020
di Gianni Bechelli
socialisti e comunque ha favorito sempre il
miglioramento delle condizioni di lavoro e
di democrazia, che niente hanno avuto a
che fare con quei regimi assoluti. Ma buona
parte dell’umanità ha subito e ancora oggi
subisce, direttamente o indirettamente, le
conseguenze di quei regimi irriformabili
dall’interno, e sono quelli sembrano lasciare
il segno più evidente nella storia. Marx ha
iniziato la sua attività in Renania difenden-
do e pagando sulla propria pelle con l’esilio
francese, belga e londinese per promuovere
quelle libertà individuali, di critica , di pa-
rola, di stampa che sono le caratteristiche ti-
piche di un pensiero liberale e democratico.
Marx un liberale? Lo sostengo e non da ora
e non è così estemporanea questa conside-
razione visto che già nel 2012 il professor
Mario Alighiero Manacorda affrontava il
tema col suo “Quel vecchio liberale del co-
munista Karl Marx”. Vedo già qualcuno a
destra ma anche a sinistra sobbalzare sulla
sedia. Molto più semplice condannarlo alla
damnatio memoriae dopo averlo esaltato
magari senza alcun spirito critico a suo tem-
po. Eppure, se non bastassero i suoi articoli
sulla Gazzetta Renana del 1842 contro la
censura, per la libertà di stampa, per l’au-
tonomia dello Stato, la laicità, attribuendoli
magari a giovanili ardori poi abbandonati,
scriveva trent’anni dopo, come ci ricorda
una relazione del professor Stefano Pe-
trucciani della Sapienza di Roma : “si pensi
alla critica dello Stato pesante, ipertrofico,
e burocratico nella “Guerra civile in Fran-
cia” (1871) e “Nella critica al Programma
di Ghota”(1873) la critica dello Stato edu-
catore, sostenuto dai Lassalliani ribadendo
che ognuno deve poter soddisfare tanto i
suoi bisogni religiosi che corporei senza
che la polizia ci ficchi il naso”. E pur vero
che Marx non ha costruito un’ipotesi isti-
tuzional- politica di transizione organica
al futuro, solo Engels, dopo la morte dell’a-
mico, ha esaltato il Parlamento Tedesco in
cui cresceva la socialdemocrazia. Marx su
questo era più reticente. Forse non aveva
un’opinione così centrata come la nostra
sulla democrazia rappresentativa parla-
mentare, vista a suo tempo la base eletto-
rale assai ristretta ai maschi e possidenti
un reddito di un certo rilievo per cui aveva
qualche motivo a ritenerlo uno strumento
di “classe”, perché lo era davvero. Si capi-
sce solo che in una fase di transizione in un
sistema elettivo nazionale ( a voto universa-
le? ) rappresentante di realtà certamente
elettive locali con maggioranza, ovviamen-
te di per sé proletaria, avrebbero reso snel-
la ogni attività burocratica, ridotto il ruolo
di autorità esterne centrali. E la dittatura
del proletariato allora? Francamente non
si capisce bene quando ne parla, ma certo
non fa riferimento ad un sistema repressi-
vo di polizia, ma alla logica di sopraffazione
insita in una maggioranza che deve far va-
lere i suoi obbiettivi di superamento della
proprietà ad esclusivo beneficio di alcuni,
e di nuova egemonia di classe, così come la
borghesia l’ha espressa in società democra-
tiche, fino all’estinzione dello stato, garante
dei domini di classe che a quel punto, dopo
questa fase di transizione, non esisteranno
più. Io sono convinto che quella un po’ in-
genua idea del superamento finale dello sta-
to e dell’estraneazione della politica tramite
una concorde autogestione e l’allargamento
delle libertà che furono componenti del suo
pensiero, derivi sempre dalla sua motiva-
zione libertaria di fondo, all’opposto dello
stato assoluto di Hegel, il che rende ancor
più paradossale la filiazione di giganteschi
moloch statuali. (continua)
Da più parti a sinistra si invoca un ritorno
a Marx, anche per le sue intuizioni circa la
finanziarizzazione e la globalizzazione eco-
nomica del mondo, derivanti dall’idea che
il capitalismo ha una necessità costante di
allargare i mercati per contrastare i rischi
della stagnazione e recessione, producendo
così sotto i nostri occhi ,tra mille contraddi-
zioni spesso tragiche, una sorta di unifica-
zione del mondo, dopo di ché, unificato il
mondo, dovrà trovare nuove forme di allar-
gamento e diversificazione dei mercati che
bisogna capire e provare a governare invece
di laisser-faire Un punto vero, un condi-
visibile recupero di quel pensiero, ma non
si può evitare un altro punto assai dolente
circa una domanda di fondo senza la quale
ogni tentativo di resuscitare quell’imposta-
zione di pensiero mi appare piuttosto fragi-
le: com’è stato possibile che un movimento,
un pensiero che a lui faceva riferimento
e che si proponeva libertà eguaglianza e
giustizia sia stato alla base di rivoluzioni e
sconvolgimenti epocali, che nel ventesimo
secolo hanno costruito alcuni dei sistemi
più oppressivi della storia, con caratteristi-
che che riportano alle monarchie assolute
spesso con la designazione al potere per fa-
coltà dinastica e familistica ovunque si sia
andati al potere in suo nome ? Non si tratta
della ormai consunta critica ai regimi comu-
nisti come prova dell’autenticità democrati-
ca della sinistra europea . E’ un tema che va
affrontato invece, nel riprendere le gigan-
tesche opportunità che un pensiero come
quello di Marx continua ad offrire, perché
la storia questo ci consegna, e non basta l’i-
dea che si tratti di eresia, perché questa è la
storia di tutti i regimi fondati in suo nome.
O c’è qualcosa di totalmente sbagliato nel-
la sua teoria della lotta di classe o le rivo-
luzioni del ventesimo secolo, a partire da
quella russa e seguire sono il frutto di una
gigantesca mistificazione del suo pensiero.
Tertium non datur. Io propendo per la se-
conda ipotesi, con alcune riflessioni critiche
di fondo però, avendo sempre pensato che
la vita ed il pensiero del filosofo di Treviri
si sia formato, fin dagli entusiasmi giova-
nili hegeliani, nel tentativo di dare corpo
all’idea di libertà per tutti e come concreta-
mente raggiungerla, ed è questa concretez-
za che lo porta ad incrociare i temi sociali
per realizzarla compiutamente, superando
l’astrattezza illuministica dei valori. So be-
nissimo inoltre che il pensiero di Marx in
Occidente è stato decisivo anche laddove
si è andati alternativamente al potere come
Quel liberale del Karl Marx
1718 GENNAIO 2020
Giordano Bruno Guerri presenta il laboratorio di scrittura l’Officina del Premio
L I B R I D ’A R T E
Sotto al loggiato di Piazza del Comune, nel
centro storico di Prato, si trova l’«Antica Torre-
fazione del Caffè Padovani». È lì che incontro
Alberto Padovani, la terza generazione della
famiglia Padovani. Appena entro nel negozio,
vedo Alberto dietro al bancone, sta servendo un
cliente; aspetto che abbia finito e nel frattem-
po osservo attentamente quel luogo. I silos del
caffè, l’insegna originale del 1929 appesa alla
parete e le caramelle sfuse. Mi viene in mente
un’espressione dialettale ricorrente tra i pratesi
«Questo gl’è i’ caffè de’ Padovani» a sottolineare
che non c’è bisogno di spiegazioni aggiuntive
e che quel cognome da solo basta a garantire
la qualità; mi viene anche in mente la scena di
una nipotina in braccio al nonno che, indicando
tra le numerose tipologie di caramelle, sceglie
quelle da mettere nel sacchettino trasparente.
«Agli inizi del ‘900 Ubaldo Padovani, il fratello
di mio nonno, cominciò a lavorare come ragaz-
zo di bottega nella drogheria sotto al loggiato di
Piazza del Comune e all’età di venticinque anni
rilevò quella bottega insieme al fratello minore
Pietro, continuando nel commercio di coloniali,
generi alimentari e aggiungendo la torrefazione
del caffè. Cominciarono con una torrefattrice
artigianale che poteva cuocere poco più di 10
kg di caffè per volta. Ma fin da subito puntarono
sulla ricerca delle migliori qualità di caffè prove-
nienti da tutto il mondo. Ancora oggi a distanza
di molti anni, il caffè Padovani viene prodotto
completamente a Prato. Poi dal 1987 abbiamo
aperto anche un punto vendita in via Paolo
dell’Abbaco, dove risiede la nuova macchina
torrefattrice. Oggi ci siamo io, mio fratello e i
miei cugini» mi dice. Sono incuriosita nel sape-
re qualcosa in più sull’arredamento del negozio:
«Nel 1936 ci fu il rinnovo del locale, dal banco-
ne, agli scaffali dietro fino al banco dei tabacchi.
Da allora non sono più cambiati. Pensi che in
tempo di guerra la parte in metallo del banco
era stata punzonata, guardi lo stemma “Fabbri-
guerra” apposto sopra, nel caso in cui ci fosse
stato bisogno di materiale bellico, sarebbe stata
requisita. Quella che oggi è la parte posteriore
del negozio, prima era la torrefazione, è lì che fu
installata la prima torrefattrice. Mi diceva mio
zio, riportando i racconti di suo zio che entrò qui
nel 1900, che la porta è rimasta la stessa. I silos
del caffè sono stati inseriti negli anni successivi»
e aggiunge: «La scelta di lasciare l’arredamento
esattamente come era in passato non è casuale.
Ovviamente facciamo una manutenzione co-
stante ma cerchiamo sempre di rimanere fedeli
alla storia di questo luogo». Chiedo ad Alberto
quando abbia cominciato a lavorare qui e mi ri-
sponde: «Venivo qui anche da ragazzo a trovare
il mio babbo o ad aiutarlo nel periodo natalizio,
poi sono entrato fisso a partire dagli anni ’90.
Abbiamo visto la città cambiare, evolversi» e
prosegue: «Sono più di cento anni che siamo sul
mercato e abbiamo avuto molti riconoscimenti.
Del passato sono rimaste molte cose uguali ma
abbiamo cercato di stare al passo con i tempi;
oltre al caffè sfuso abbiamo aggiunto le cialde,
le capsule, sempre prodotte col nostro caffè. Ci
siamo specializzati nel vino, oltre a mantenere
la tradizione delle spezie, della cioccolata e del
caffè. Il caffè che vendiamo noi ha massimo due
tre giorni dalla produzione e da noi si possono
acquistare prodotti esclusivi che non si trovano
nella grande distribuzione. Inoltre, abbiamo più
di mille articoli: come le caramelle sfuse, la cioc-
colata, il vino, i sottoli, le spezie, le nocciole Igp
del Piemonte, il pistacchio di Bronte, i pinoli di
San Rossore. A volte entrano dei turisti ameri-
cani o australiani e rimangono sbalorditi, non
hanno mai visto un negozio così, sia per l’arre-
damento che per la varietà di articoli e scattano
molte fotografie». È appena entrato un cliente,
Alberto lo saluta chiamandolo per nome e lui
contraccambia.
Un laboratorio di scrittura nei luoghi del
Premio Viareggio: i luoghi e gli autori del
prestigioso premio letterario saranno atmo-
sfera e sostanza per chiunque ami la scrittu-
ra e intenda darle il giusto supporto. Nasce
a Viareggio la scuola dell’Officina del Pre-
mio, promossa dall’omonima associazione
che vede tra i suoi soci fondatori Giordano
Bruno Guerri – storico e scrittore di valore,
presidente della Fondazione Il Vittoriale
degli italiani – e Simona Costa, presidente
del Premio letterario Rèpaci.
L’iniziativa sarà presentata nel corso di un
incontro-conferenza stampa, aperto al pub-
blico, che si terrà sabato 18 gennaio alle ore
12 nella sala convegni dell’hotel Palace, in
via Flavio Gioia a Viareggio.
All’incontro saranno presenti, fra gli altri,
Giordano Bruno Guerri e il presidente
dell’Officina del Premio, Adolfo Lippi,
nonché alcuni dei docenti che daranno vita
alle lezioni. Tra gli scrittori che animeran-
no il laboratorio dell’Officina del Premio vi
sono, oltre a Giordano Bruno Guerri, Giu-
seppe Lupo, Chiara Valerio, Marco Rovelli,
Divier Nelli, Giampaolo Simi.
Le lezioni inizieranno il prossimo 20 marzo
e si terranno all’hotel Palace, sede dell’As-
sociazione.
di Nicla Pierini Gl’è i’ caffè de’ Padovani
1818 GENNAIO 2020
Una pubblicazione
#impresacultura
@Federculturewww.federculture.it
Con il contributo di Con il sostegno di
Presentazione del
RSVP [email protected]
politiche reti competenze
C u l t u r a e S o c i e t à INGRESSO LIBERO FINO AD ESAURIMENTO POSTI
Lunedì 27 gennaio 2020 - ore 14.45Piccolo teatro Studio MelatoVia Rivoli 6 | Milano | M2 Lanza
Apertura dei lavori
FILIPPO DEL CORNOAssessore alla Cultura Comune di Milano
STEFANO BRUNO GALLIAssessore all’ Autonomia e Cultura Regione Lombardia
Intervento
SERGIO ESCOBARDirettore Fondazione Piccolo Teatro di Milano
Presentazione del Rapporto Federculture
CLAUDIO BOCCIDirettore Federculture
TAVOLA ROTONDAIntroduce e coordina
ANDREA CANCELLATOPresidente Federculture
Interventi
GIANFRANCO ACCOMANDOPresidente Fondazione per Leggere
DAVIDE MAGGIConsigliere delegato alla Cultura Fondazione Cariplo
GIOVANNA FORLANELLIVice Presidente Fondazione Luigi Rovati
MARCO LANATAGeneral Manager Fondazione Pirelli Hangar Bicocca
L’Italia è ufficialmente a un passo dalla stagna-
zione, pericolosissima anticamera alla recessio-
ne. Incubo condiviso da molti paesi europei.
Bisogna capire quale sia il punto cruciale cioè
il primo nodo da sciogliere; quello che manca
è la base degli scambi, dell’investimento, della
ricerca, dell’occupazione: il denaro. Il sistema
bancario ha dismesso la funzione fondamenta-
le di raccogliere il risparmio per finanziare im-
presa e innovazione. Oggi le banche concedo-
no mutui o finanziamenti solo a chi garantisce il
denaro con altrettanto denaro investito nei loro
prodotti finanziari, ma di cui sono solo rivendi-
tori. Il sistema dei piccoli e medi imprenditori
boccheggia da anni come un pesce spiaggiato.
Questo sta portando a un altro fenomeno grave
e ancor più sotto silenzio: la perdita del capita-
le di beni mobili e immobili, fondamentali per
l’attività, con un trasferimento netto di risorse
dall’economia che produce a quella virtuale.
Le banche, generose nell’elargire fidi e finan-
ziamenti fino al 2007 a fronte di ipoteche su
beni mobili e immobili, dal 2008 chiudono im-
provvisamente a ogni forma di finanziamento
e chiedono agli imprenditori addirittura di ri-
entrare sui fidi di esercizio. L’economia subisce
uno shock da mancanza di liquidità. Per mol-
tissime imprese questo ha significato il blocco
della loro operatività. L’economia rallenta.
Cominciano i licenziamenti. I suicidi tra im-
prenditori e licenziati tra il 2012 e il 2017 sono
stati in Italia 937. Per chi ha resistito si prospet-
ta comunque la perdita del capitale. Oggi dai
capannoni alle case di famiglia, gli immobili
sono pignorati. Le banche hanno rivenduto i
crediti deteriorati delle situazioni in sofferenza
a società, più o meno trasparenti. Ripianati i
bilanci grazie agli interventi salva-banche, i cre-
diti passano di mano in mano ad altre società.
Agenzie finanziarie (spesso straniere), i cui
forzieri sono pieni del frutto degli hedge funds
che scommettono sui debiti insolventi (da loro
stesse causati), che poi acquistano gli immobili,
anzi direttamente i pacchetti di crediti, a bas-
sissimo costo. Mentre al singolo imprenditore
non è offerta alcuna soluzione bancaria. Per il
mondo della finanza è una succulenta trasfor-
mazione di denaro virtuale in ricchezza vera.
Con una serie d’interventi salva-banche gli
stati hanno immesso enormi quantità di denaro
pubblico, cioè prelevato dai contribuenti, cioè
dalle vittime del crack finanziario, per sanare i
loro bilanci, senza porre condizioni per la ripre-
sa economica per tutti. L’enorme quantità di
denaro pubblico che ha permesso alle banche
di ripulire i propri bilanci ha altresì determina-
to, con la svendita dei crediti, un trasferimento
netto dalle tasche dei contribuenti europei alle
società finanziarie d’oltremare. Grazie a questo
meccanismo anche la liquidità che il professor
Draghi ha immesso nell’economia europea con
il Q.E. non ha raggiunto, che in minima parte,
l’economia reale. Nulla per la massa dei piccoli
imprenditori, motore della nostra economia;
quasi la metà degli occupati lavora in aziende
con meno di dieci operai. Intanto cresce sui
monitor delle banche la ricchezza, anzi quei
numeri, che sono oggi più di dieci volte la som-
ma dei PIL mondiali, chiusi nelle loro mortifere
casseforti. Quanto vale allora questa massa di
denaro: quello dei numeri sui monitor o quello
rappresentato dal valore aggregato (a prezzo di
mercato) delle produzioni dei beni e dei servizi
del mondo? Dove si colloca la certezza del va-
lore? E quanto può reggere questo equivoco? E’
in questa incertezza che precipita la fiducia tra
gli uomini ed esplodono paura e conflittualità.
Le banche hanno cessato di investire nel credi-
to all’impresa, preferendo diventare collettore
tra il risparmio e il gioco d’azzardo della finan-
za. Perché non sono più i profitti d’impresa ma
le rendite finanziarie che brillano nei bilanci e
pagano lautamente manager e dividendi. (con-
tinua)
di Anna Conti
Il gioco d’azzardo della finanzaImpotenti verso la stagnazione
1918 GENNAIO 2020
Dopo aver presentato il profilo di Claudio Co-
cino, primo ballerino del Corpo di ballo del
Teatro dell’Opera di Roma, questo ritratto è
dedicato a Christian Fagetti, classe 1991, bal-
lerino solista del Corpo di ballo del Teatro alla
Scala di Milano. Vera e propria rivelazione per
la padronanza tecnica impeccabile, per le ele-
vazioni incredibili, per la tensione e la presenza
scenica, sempre convincente nei pezzi solistici
e perfetto nei gruppi, è ormai una conferma,
una sicurezza di esecuzione e di emozioni.
La personalità artistica e l’ottima tecnica sono
evidenziate anche dalla intensità della sua arte
interpretativa. Qualsiasi personaggio di cui Fa-
getti si fa carico rimane impresso, non risulta
mai comune, grazie ad una immedesimazione
sempre totale sia nei ruoli da antagonista che
in quelli positivi ed eroici: è lo smaliziato e tra-
gico Mercuzio di MacMillan, l’indimenticabile
Birbanto, visto a Cagliari, dal profilo byroniano
e un po’ guascone, l’irruento ma mai esagerato
Hilarion di Giselle, il sensuale e ferino Orion
o l’arcadico Eros, il principe passionale e nel-
lo stesso tempo elegante di Cinderella. Que-
sta duttilità è frutto della grande capacità di
chi con ogni studiato gesto, con l’intensità del
suo trasporto, con l’intelligenza viva di un’arte
conquistata unita ad una sensibilità innata, fa
sua una personalità, un riflesso di pensiero e lo
proietta fuori di sé, oltre il palcoscenico, unito
alla musica. Innesta sulla sua eccezionale indi-
vidualità uno studio attento dei personaggi che
interpreta e il risultato è sempre l’esaltazione di
un dettaglio psicologico, di una sfumatura che
non si era mai colta, di un carattere riconoscibi-
le, ma nello stesso tempo differente perché suo,
profondamente suo. Non è solo mimo eccelso
– di quelli ce ne sono tanti – è attore del gesto
e dell’emozione. Ma mi si permetta di uscire
da teatro e andare anche oltre. Lo abbiamo
visto e apprezzato poche settimane fa accanto
all’étoile Roberto Bolle nel programma televi-
sivo “Danza con me” andato in onda su Rai 1
il primo giorno del 2020, ma non è questo su
cui mi voglio dilungare. La sua sensibilità inter-
pretativa viene confermata anche osservandolo
nella semplicità del suo quotidiano, che mostra
sui social dov’è particolarmente attivo, come
molti altri giovani artisti. Si comprende allora
ancora meglio il perché Fagetti sia l’acclama-
to ballerino che è: lo si capisce osservando su
Instagram (christianfagetti) la dolcezza e la de-
dizione con cui cuce le sue scarpette; l’entusia-
smo con cui spiega gli elementi del trucco base
cui si sottopone quasi ogni giorno; l’orgoglio e la
gioia con cui mostra l’appartamento tutto suo
costruito giorno dopo giorno, o la scelta delle
cornici per le intense fotografie di Raoul Iaco-
metti (www.raouliacometti.it) di cui è modello
sensuale e statuario in scenari post-industriali
o suburbani; lo si capisce leggendo i pensieri,
le riflessioni mai banali, postate sopra sorrisi
luminosi che regala spesso agli scatti rubati de-
gli amici. Non è necessario, è vero, tutto questo
per fare un grande ballerino, ma lui come balle-
rino è anche tutto questo.
di Joël Vaucher-de-la-Croix Fagetti, qualcosa in più che un grande ballerino
Smog alle stelle, polveri sottili sopra i livelli di
guardia a Firenze, nell’hinterland e in tutta la
piana. Insomma in mezza Toscana le centrali-
ne segnalano un accumulo di Pm10, biossido di
azoto, anidride solforosa e monossido di carbo-
nio superiore ai limiti. Di fatto una situazione a
rischio per la popolazione. Come si sa le emis-
sioni prodotte dal traffico e dai riscaldamenti
sono oltre che climalteranti anche pericolose
per la salute. Le normative parlano di un limite
massimo di 50 microgrammi per metro cubo.
Ebbene a Firenze siamo sui 63, Signa 68, Luc-
ca 84, Prato 88, Pisa 62 e via di seguito. Sfora-
menti che hanno fatto scattare le ordinanze dei
sindaci per limitare il traffico e ridurre a sole 8
ore l’accensione dei riscaldamenti, con l’ag-
giunta del divieto di accensione dei camini e
delle stufe a legna. Specifichiamo: le ordinanze
hanno fissato 5 giorni il blocco del traffico ma,
attenzione, solo per quello più inquinante Non
possono circolare quindi gli scooter a 2 tempi,
le auto a benzina euro 1 e i diesel euro 1 e 2.
Tutto il resto del parco veicoli può viaggiare
regolarmente.
Risultato: nonostante queste ordinanze nell’ul-
timo weekend si sono continuati a registrare
ben 94 sforamenti. Dopo 5 giorni di un blocco
così fatto il livello dell’inquinamento non è mi-
gliorato, e resta stabilmente sopra i limiti. Tan-
to che si è dovuto ricorrere a nuove ordinanze,
prolungando di altri 5 giorni il blocco, fino a
sabato 13 gennaio. Naturalmente, con le stesse
modalità: blocco parziale (dalle 8.30 alle 12.30
e poi dalle 14.30 alle 18,30) e limitato solo ai
mezzi più inquinanti.
In sostanza si va avanti così nella speranza che
quanto prima, per risolvere il problema, arrivi
la pioggia e si alzi il vento. Di fatto la difesa del-
la qualità dell’aria che respiriamo viene affidata
all’andamento delle condizioni meteo, anziché
alle decisioni e alle scelte di chi ci governa.
Credo sia evidente a tutti che le misure adot-
tate per ripulire l’aria che respiriamo siano del
tutto inadeguate e insufficienti. Occorrono
provvedimenti più radicali e più strutturali.
Prima di tutto, le ordinanze quando si fanno
vanno fatte rispettare, altrimenti sono inutili
e diseducative. Poi bisogna iniziare a pensare
che nelle nostre città dobbiamo muoverci senza
auto, e che quindi vanno rapidamente adegua-
te e trasformate, organizzando una mobilità al-
ternativa. Se l’obiettivo è quello di ripulire l’aria
dobbiamo tutti cambiare comportamenti: nelle
città dovremmo imparare a muoverci solo con
i bus (elettrici), i taxi (ibridi), le biciclette (piste
ciclabili dalle periferie al centro), i percorsi pe-
donali. Senza dimenticare la piantumazione
degli alberi, ovunque possibile.
Vivere senza autoSegnalidi fumo
di Remo Fattorini
2018 GENNAIO 2020
Il Ponte (via di Mezzo 42/b, Firenze) inau-
gura il nuovo anno con una mostra dedicata
a Giulia Napoleone. Artista, cui la galleria
aveva già organizzato nel passato due mostre,
nel 1996 e nel 2002: nella prima vennero
presentati acquarelli e pastelli, nella seconda
dipinti ad olio su tela e alcune chine su carta.
La mostra allestita, come si può facilmente
evincere dal titolo, è interamente dedicata a
un nucleo di recenti opere in bianco e nero,
realizzate interamente con l’inchiostro di
china. Il volume che la correda, oltre a pre-
sentare le quindici opere esposte, ripercorre
questo aspetto del lavoro dell’artista fin dalle
sue prime piccole chine della metà degli anni
Cinquanta. Attraverso le immagini e il testo di
Bruno Corà, si potrà così penetrare nella pe-
culiare dimensione di un mondo in bianco e
nero, che si concretizza nelle opere di questa
artista attraverso l’uso dell’inchiostro di china,
portato fino al suo limite estremo. Come scri-
ve nel testo in catalogo per la mostra curata
da Giuseppe Appella alla GNAM di Roma
nel 2018, Stefania Zuliani: “Un segno dopo
l’altro, con precisione paziente e necessaria,
da oltre mezzo secolo Giulia Napoleone cer-
ca l’ordine luminoso della forma. Una forma
che è viva e perciò imperfetta, come vivo e
imperfetto è il pensiero di chi non teme l’er-
rore e quindi rifugge l’ovvio e il già noto. Ciò
che l’artista sperimenta nella quiete silenziosa
del suo studio, da qualche anno nascosto tra
le colline e i campi di lavanda della Tuscia, è
la ricerca ostinata di un equilibrio che nulla
concede alla facilità della rappresentazione e
che dell’astrazione conosce le regole, ma pri-
vilegia le eccezioni, creando immagini nitide,
nette di luce e di ombra, immagini assidue che
sono l’esito preciso di una tecnica e una ma-
teria scelte ed esercitate di volta in volta con
perizia e rispetto. Fuori da ogni rigido vincolo
progettuale, Giulia Napoleone si muove fra le
sue carte... con la grazia leggera del viandante,
senza l’assillo di una destinazione [e come lei
stessa scrive]: Il mio lavoro è un cammino che
conosce soste, forse, ma che non ha mete né
punti di arrivo. É un andare verso.” In mostra
verranno anche presentati gli ultimi suoi due
libri d’artista: Yves Peyré, Les Rehauts du Son-
ge (da cui sono tratti i titoli delle opere esposte)
e Luigia Sorrentino, Olympia, entrambi per le
Edizioni Al Manar, Parigi, 2017 e 2019, cor-
redati da chine e pastelli originali dell’artista.
L’essere umano nel corso della vita si trova a var-
care confini materiali e immateriali: il momento
della nascita, dall’adolescenza all’età adulta, il
matrimonio, il diventare genitore, fino alla mor-
te. Questi passaggi di confine, fin dall’antichità,
venivano espressi in riti. Oggi, pur avendo perso
gran parte del significato religioso, hanno mante-
nuto una grande valenza sociale. Anche la vita
quotidiana è delimitata da confini, da semplici
rituali. Spesso questo passaggio è preceduto in
senso pratico da un cambio di vestiario o dalla
marcatura di un badge che attesta anche giu-
ridicamente la presenza nel luogo di lavoro. In
tempi moderni spesso questi confini sono vissuti
come un prezzo da pagare alla società, obblighi
che limitano la libertà personale. Pensiamo ai
confini tra Stati che un tempo delimitavano il
territorio “conosciuto” da quello “sconosciuto,
oggi vengono aperti per permettere spostamenti
più veloci, scambi di ogni genere, libertà di mo-
vimento. Anche i confini tra periodi della vita
sono stati modificati tanto che adesso risulta dif-
ficile identificare i momenti in cui dall’infanzia
si passa all’adolescenza e dall’adolescenza all’età
adulta, ma se questo processo ha avuto un ottimo
risultato in termini di consumismo, dall’altra ha
avuto una conseguenza sfavorevole in quanto
ha causato un disequilibrio che spesso rifugge
la responsabilità e i doveri. Il confine è inteso
anche come una soglia, un concetto visto nella
prospettiva dinamica dell’attraversamento, che
diventa in quel momento luogo della creatività,
dell’immaginazione. Solo ciò che non riusciamo
a immaginare non ha confini ne’, di conseguen-
za, possibilità di superamento. Le soglie che in-
contriamo nella nostra vita, sono passaggi che ci
consentono di vivere le terre di mezzo, sono esse
il luogo e lo spazio dove si facilitano l’incontro, il
contatto, la contaminazione, dove l’arte ha il suo
spazio vitale, sono luoghi di ricerca interiori, che
non negano i confini ma al contrario valorizza-
no le diversità, la conoscenza di esse e il rispet-
to reciproco. E’ possibile vivere in un mondo
senza confini? E’ auspicabile? La nostra unicità
non è forse dettata proprio dalla presenza di un
confine tra “io sono io” e “tu sei l’altro”? Non è
proprio in questa terra di confine che avviene il
processo di conoscenza del sé’ e dell’altro? Qua-
le forza riesce ad assottigliare la linea di confine
fino a farla diventare valicabile? L’amore? La de-
terminazione? La curiosità? La vita stessa? Cosa
accade all’animo umano quando varca il confine
della ragione, della decenza, della sopportazio-
ne, di tutto ciò che credevamo impossibile? Qual
è il confine tra immaginazione e immagine? L’ar-
te è confine da superare o meta da raggiungere?
Queste sono solo alcune delle domande rivolte
agli artisti che hanno deciso di cimentarsi con
ADG photo contest. Più di ogni altra cosa era
richiesto che gli artisti cercassero di disegnare
i confini più nascosti, invisibili, che ognuno ha
dentro di sé, quelli superati, spostati in avanti o
trasformati in ossatura che protegge e rende in-
dividui unici.
ADG Photo Contest In collaborazione con l’As-
sociazione Culturale Bueno e la collaborazione
di Vittorio D’Onofrio. A cura di Alberto Desirò
Sala del Basolato - Fiesole – (Piazza Mino) 18- 25
gennaio 2020
a cura di Bruno Corà Un andare verso
Confine
2118 GENNAIO 2020
Io e Guerre Stellari abbiamo la stessa età
ma non saprei dire chi è invecchiato meglio,
soprattutto viste le aspettative che almeno
uno tra noi due attirava. Sì, forse è meglio
vivere (e sognare) fuori dalla luce dei riflet-
tori, tra visioni miseramente più economi-
che ma sicuramente più libere, che crescere
sotto gli occhi di tutti, alimentando così tan-
ta fantasia altrui da trasformarla, alla lunga,
in mania, in gelosia.
Che poi crescere non è neanche la cosa mi-
gliore da augurare quando si parla di sogni.
Meglio proteggere il fanciullo che c’è in te,
portare lui al cinema, con pop-corn e bibi-
ta, e lasciare a casa raziocinio e cinismo: in
letteratura la chiamano sospensione dell’in-
credulità, dote indispensabile quando devi
prendere per vero il fatto che un’astronave
che “supera di 0,5 punti la velocità della
luce” ti possa sfrecciare davanti agli occhi.
Ma non è neanche questo il punto. Perché
il tuo resterà comunque un fanciullino
“invecchiato” che sogna ancora come si so-
gnava quarant’anni fa o giù di lì e neanche
tutto il pop-corn e tutte le bibite del mondo
faranno volare il tuo Millennium Falcon
più veloce di quello del bambino che hai
sulla poltroncina accanto!
Ebbene sì, anche i sogni si adeguano e nes-
suno oggigiorno ha il diritto di giudicare le
qualità oniriche di chi sta crescendo così
tanto lontano dal nostro retroterra, come,
negli anni della Milano da bere, di Cher-
nobyl o della Guerra fredda, non avrebbero
avuto nessun diritto di giudicare il nostro,
che si ergeva intatto tra parrucconi, nani
rinchiusi dentro bidoni ed attori shake-
speariani che maneggiano sviliti manici di
scopa. Diritto inviolabile, quindi, quello di
sognare, insieme a quello, oserei dire altret-
tanto inviolabile, di vivere al cinema la pro-
pria saga di Star Wars (e qui metterei la se-
conda ed ultima nota autobiografica: dopo
la trilogia originale vissuta come scrivevo
all’inizio da bambino, mi sono goduto quel-
la prequel insieme ai miei nipoti e quest’ul-
tima, la sequel, con i miei figli… tanto per
chiudere un altro cerchio!), adeguata alle
proprie percezioni, abitudini filmiche ed
emozioni in generale. Registi caotici per
pubblici caotici, insomma, che passano in
un attimo da fantascienza e supereroi a se-
rie TV snocciolate sui tablet e, sparate nelle
cuffie, hit che durano appena una manciata
di secondi. Ed è qui forse che arriviamo al
punto.
Sì, perché ad un’opera dell’immaginazio-
ne, anche la migliore, manca sempre quel
qualcosa che tocca allo spettatore compen-
sare con la propria immaginazione, facendo
tornare ciò che non scorre, rendendo me-
morabili scene invece di altre, allargando i
confini di una galassia lontana lontana fino
a farla arrivare vicino vicino. E non capita
solo a Luke e soci perché ogni eroe della no-
stra infanzia è diventato insuperabile grazie
all’apporto delle nostre aspirazioni, da tene-
re ben presenti ogni volta che la fruizione
di queste vecchie storie arriverebbe a farci
ghignare dall’ingenuità. E so che se a leg-
gere queste mie deboli teorie ci fossero quel
razionale e quel cinico rimasti fuori dalla
sala senza bibita né pop-corn, essi risponde-
rebbero subito schierandomi le cifre astro-
nomiche dei compensi di chi non avrebbe
dovuto sbagliare il colpo, la delusione di
chi, tra le quattro mura della propria ca-
meretta, aveva sognato ben altra traiettoria,
la saccenza di chi ha scovato ogni minima
incongruenza dai meandri più dimenticati
della rete. In fin dei conti, tutti sono liberi
di far svanire i propri sogni di fronte a qual-
siasi misera realtà riterranno più affidabile!
A loro, mai impreparati puristi in bilico tra
ringhio e pianto, non potrei rispondere che
alzando le spalle, facendo scoppiare una
bolla del chewing gum in faccia ed allonta-
nandomi facendo volare la sciarpa intorno
al collo mentre intono la Marcia imperiale.
Sogni propri a tutti.
di Matteo Rimi Star wars: l’ascesa del sognatore
2218 GENNAIO 2020
I primi incontri con Remo
Salvadori avvennero nei primi
anni ’70, come cita Remo stesso,
alla luce del sole del giardino di
Palazzo Frescobaldi in via San-
to Spirito 11, dove c’era il mio
studio. Remo era un giovane
artista che sperimentava altre
idee e forme al di la della pittu-
ra tradizionale e la sua curiosità
la interpretava anche attraverso
la fotografia. Fu un incontro
speciale che ci ha coinvolto per
tutti questi anni con amicizia
e stima, anche con tutti i suoi
familiari. Ho seguito moltis-
simo delle sue mostre in molti
luoghi del mondo, da New York,
Grenoble, Roma, Milano etc. e
tante avventure vissute insieme.
Ma quello che ci rende veri
amici è quando c’incontriamo
nella sua casa di famiglia a
Cerreto Guidi, dove i ricordi
del passato finiscono sempre
conviviali intorno ad un tavolo,
con portate genuine, in passato
preparate da sua madre per il
nostro e il suo piacere di stare
insieme. Molte altre esperienze
lavorative ci hanno coinvolto,
arricchendoci nella conoscen-
za di una crescita continua di
entrambi ma soprattutto di lui
come un’artista straordinario.
Cito uno dei momenti passati
insieme a Remo Salvadori, ed
è stato quando siamo saliti sul
monte Falterona a vedere la
dove nasce il fiume Arno. La
nostra amicizia è come il fiume
che scorre lento e nel suo letto
riflette il cielo.
50anni
d’incontri con persone straordinarie di Carlo Cantini