NOTIZIARIO DEL C.A.I. DI MANERBIO Bollettino on line della ... · base della lirica “ Infinito...

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1 CLUB ALPINO ITALIANO Sezione di Brescia Sottosezione di Manerbio NOTIZIARIO DEL C.A.I. DI MANERBIO Bollettino on line della sottosezione Mese di giugno 2011

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CLUB ALPINO ITALIANO Sezione di Brescia

Sottosezione di Manerbio

NOTIZIARIO DEL C.A.I. DI MANERBIO

Bollettino on line della sottosezione

Mese di giugno 2011

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“L’idea, insinuantesi in un alpinista ortodosso, che una sola ascensione, in un certo giorno, in un certo anno, lo renda capace di comprendere e di sapere come sarà

quella vetta tutti gli altri giorni, mi fa credere che egli non sia lontano dall’essere

ancora un filisteo. E’ indiscutibile che muraglie e rocce sono sempre identiche, ma il

loro fascino e la loro bellezza consistono nelle loro luci e ombre sempre mutevoli, nelle nebbie che le inghirlandano, nelle loro enormi cornici e nei loro ghiacci

sospesi, in tutte le loro variazioni di tempo, stagioni e di ora. D’altronde, non vi è

che la visione reale, quella che resta impressa sulla retina, che rifletta ogni modalità e cambiamento di tempo o di sole; l’osservatore stesso non è meno

incostante. Un giorno sarà dominato dall’impressionante orrore del precipizio, dalla

nudità lacerata di spaventevoli pareti o dalla corsa alla morte delle rocce, quando

enormi blocchi si distaccano e precipitano nel vuoto, veri emblemi di un irrefrenabile cruccio.

Un altro giorno egli non presterà alcuna attenzione a queste cose: cullato da tinte

delicate d’opale e d’azzurro si beerà nella dolcezza vaporosa della valli italiane,

nella graziosa corsa delle nevi spazzate dal vento o nel fascino semplice dei piccoli fiori alpini nascosti nelle fessure del granito. La montagna alle volte po’ imprimere

la sua grazia su colui che ne è lo spettatore, ma sovente è piuttosto lo spettatore

che non vede quello che si armonizza con sé medesimo.

Un uomo po’ certamente essere cosiffatto da credere che

Une primulacee, au long de la rivier

Est simplement pour lui la jaune primavere

E non può in alcuna circostanza essere altra cosa; ma altri uomini più felicemente

costituiti e capaci di gioire della bellezza del mondo esteriore, non sentiranno

molto “la impronta della banalità” anche se essi conoscono con precisione la

struttura intima della roccia o del ghiacciaio sui quali sole o nubi, vento o cielo azzurro, vengono a deporre la gloria della loro irradiazione”

A.F. Mummery

My Climbs in Alps and Caucasus

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IN QUESTO NUMERO:

LETTURA MAGISTRALE • Alpinismo come possibile transcodificazione simbolica della Alpinismo come possibile transcodificazione simbolica della Alpinismo come possibile transcodificazione simbolica della Alpinismo come possibile transcodificazione simbolica della

dialettica di dolore e piacere in senso leopardianodialettica di dolore e piacere in senso leopardianodialettica di dolore e piacere in senso leopardianodialettica di dolore e piacere in senso leopardiano (Anonimo)(Anonimo)(Anonimo)(Anonimo)

LE ESCURSIONI DEL MESE DI GIUGNO • Alla scoperta delle terre dei Alla scoperta delle terre dei Alla scoperta delle terre dei Alla scoperta delle terre dei Baschenis. Da Averara al Passo Baschenis. Da Averara al Passo Baschenis. Da Averara al Passo Baschenis. Da Averara al Passo

di Salmurano.di Salmurano.di Salmurano.di Salmurano. (Fabrizio Bonera)(Fabrizio Bonera)(Fabrizio Bonera)(Fabrizio Bonera)

• Le acque dei sogni immobili. Escursione ai laghi del PorcileLe acque dei sogni immobili. Escursione ai laghi del PorcileLe acque dei sogni immobili. Escursione ai laghi del PorcileLe acque dei sogni immobili. Escursione ai laghi del Porcile

(Fabrizio Bonera)(Fabrizio Bonera)(Fabrizio Bonera)(Fabrizio Bonera)

IL CAI MANERBIO NELLA STAMPA • Iniziative di riabilitazione psichiatricaIniziative di riabilitazione psichiatricaIniziative di riabilitazione psichiatricaIniziative di riabilitazione psichiatrica (Lina Agnelli)(Lina Agnelli)(Lina Agnelli)(Lina Agnelli)

SALVARE LE ALPI • Inquinamento, sovraffollamento e deturpamento del Inquinamento, sovraffollamento e deturpamento del Inquinamento, sovraffollamento e deturpamento del Inquinamento, sovraffollamento e deturpamento del

paesaggio (Giovanni Meneghello)paesaggio (Giovanni Meneghello)paesaggio (Giovanni Meneghello)paesaggio (Giovanni Meneghello)

NATURA DEL MESE • Paradisea liliastrumParadisea liliastrumParadisea liliastrumParadisea liliastrum (Fabrizio Bonera)(Fabrizio Bonera)(Fabrizio Bonera)(Fabrizio Bonera)

LE BUONE LETTURE

• Silk Road (Fabrizio Bonera)Silk Road (Fabrizio Bonera)Silk Road (Fabrizio Bonera)Silk Road (Fabrizio Bonera)

LA FOTO DEL MESE

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LETTURA MAGISTRALE

Alpinismo come possibile Alpinismo come possibile Alpinismo come possibile Alpinismo come possibile transcodificazione transcodificazione transcodificazione transcodificazione

simbolica dellasimbolica dellasimbolica dellasimbolica della dialettica di dolore e piacere in dialettica di dolore e piacere in dialettica di dolore e piacere in dialettica di dolore e piacere in

senso leopardianosenso leopardianosenso leopardianosenso leopardiano

Alcuni anni or sono mi capitò di leggere sull’autorevole rivista scientifica “Nature”

un lavoro sperimentale sulla correlazione fra livelli di testosterone e pensiero. La

cosa curiosa era che il lavoro, accettato dal comitato scientifico redazionale e quindi

pubblicato, avendone riconosciuto la validità sperimentale, al posto del nome

dell’autore recava la dicitura “anonymous”. L‘autore stesso aveva preferito non

citare il proprio nome. E’ chiaro che il nostro Bollettino non ha la dignità di

“Nature”, né pretende di averla, tuttavia, nel momento in cui mi capitato nelle mani

lo scritto del lavoro che segue, nella impossibilità di risalirne all’Autore, ma

constatata la sua validità e la pregnanza culturale, mi sono permesso di pubblicarlo

egualmente, memore di quella mia antica esperienza. Ho successivamente scoperto

che le considerazioni che seguono sono maturate nell’ambito redazionale di una

associazione avente scopo educativo. Questo ha determinato una maggiore volontà

do portarlo a conoscenza del mondo alpinistico.

(Fabrizio Bonera)

Premessa

Mi accingo a presentare un elaborato alquanto insolito e forse difficile da capire ed apprezzare se letto in modo superficiale; esso è il frutto di un accostamento di una mia grande passione, l’alpinismo, e di un incontro avvenuto nel corso di questo anno di studi, il Leopardi. A primo acchito parrebbe un argomento un poco forzato, un voler “tirare per i capelli” un autore al fine di assoggettarlo ad un mio pensiero; niente di tutto ciò. Nel buttar giù queste poche righe ho tentato di spogliarmi di tutta “l’ideologia classica dell’alpinista”, di osservare la mia attività e quella di tutti coloro che condividono questo mio interesse, dall’esterno, in modo quanto più analitico e distaccato mi fosse possibile. Tale

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analisi, che ho tentato di far aderire il più possibile all’ “arido vero” leopardiano, degrada l’alpinista, raffigurando quest’ultimo non più come eroe alla Guido Rey, che sfida la montagna spinto da un bisogno metafisico e trascendentale, bensì come semplice essere umano alla ricerca del piacere o, come avrebbe detto Gian Piero Motti1, un fallito in fuga dalla vita.

Ben consapevole che il legame intercorrente fra alpinismo e Leopardi sia per tutti coloro che non praticano tale attività difficile da comprendere, essendo l’emozione alpinistica qualcosa di pratico piuttosto che teorico, una intuizione2 piuttosto che una comprensione, proverò a chiarire meglio tale binomio partendo dall’autore e ponendo me stesso come anello di legame fra i due campi dell’indagine. Tenterò di essere più chiaro. Il fatto che durante gli studi il Leopardi mi sia piaciuto in particolar modo, non credo sia un caso (come non è un caso che un qualsivoglia autore piaccia a qual si voglia lettore). Penso di poter affermare che gli scritti di questo abbiano portato alla luce delle mie idee che fino a quel momento erano semplicemente sensazioni, delle intuizioni, appunto, che, mancando io del genio di cui era dotato il poeta, non riuscivo a riorganizzare in concetti organici. Tali intuizioni (mi si passi la ripetizione del termine ma penso sia un concetto chiave), erano già infatti presenti nella mia attività quotidiana e si concretizzavano al meglio in quella alpinistica; erano presenti, è vero, a livello primordiale, in stato di emozioni, “melanconia” e “noia”, o sensazioni quali la solitudine (ed alle volte la ricerca di questa) e la spinta verso qualcosa di sconosciuto. Il passo, infine, fra eventi emotivi di una singola persona e le grandi tematiche della vita affrontate dall’autore, non mi sembra poi così enorme, e se in particolare queste tematiche le ho appunto riscontrate nell’attività alpinistica, penso qualcosa voglia dire. Sono infatti convinto che quella invidia nei confronti delle mucche che pascolano tranquille nel fondovalle, da me molto spesso provata mentre appeso ad una scomoda ed incerta sosta assicuro il compagno di cordata, non si distacchi di gran lunga dall’inquietudine del Leopardi che, costretto ad una scomoda ed incerta vita, invidia chi riesce ad addormentarsi la sera con la mente priva di pensieri

“Tu dormi, che t’accolse agevol sonno Nelle tue chete stanze; e non ti morde

Cura nessuna”

Il mio accostare Leopardi all’alpinismo aveva inizialmente intenti tutt’altro che demistificatori; intendevo anzi dare una spiegazione quanto più dignitosa possibile a questa mia inspiegata passione. Il legame primo che ho creato si basava infatti sulla lirica “Infinito”, ed andava a fondare la propria legittimità sulla dignitosissima spinta verso un desiderio di, appunto, infinito, proprio dell’essere umano. Una più attenta analisi mi ha però condotto a ciò che sta alla

1 Guido Rey e Gian Piero Motti rappresentano i due personaggi simbolo dell’evoluzione-rivoluzione

dell’alpinismo italiano negli anni ’70. Il primo è il teorico di un alpinismo eroico, della conquista e della

“lotta con l’Alpe”. Il secondo è l’autore del celebre articolo “I Falliti” e portatore di una nuova filosofia

dell’arrampicata che pone l’uomo al centro relegando la cima ad un ruolo di secondo piano. 2 Perché intuizione? Per l’impossibilità di spiegare a parole la sensazione del vuoto, della solitudine,

dell’ignoto. Non si può capire che cosa si prova in un bivacco in parete, nell’appendersi ad un chiodo

insicuro, nel fidarsi della sola aderenza delle scarpette sulle rugosità della roccia, nel trovarsi persi in un

labirinto verticale, nel perdere il senso del tempo fusosi con un meccanico salire, se non si prova tutto

ciò.

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base della lirica “Infinito”, ossia alla “teoria del piacere”. Tale rivelazione ha distrutto la mia prima idea, sostituendo quelle basi pseudo romantiche, su cui si fondava il mio perché all’alpinismo, con basi principalmente sensistiche che tendono alle volte ad un materialismo meccanicistico, riprendendo il continuo oscillare del poeta fra “l’arido vero” e la dolcezza della purtroppo ormai smascherata illusione (in termini di testi fra idilli da un lato ed operette morali e canti pisano recanatesi dall’altro) Per meglio comprendere quanto detto, e fruire maggiormente dell’elaborato, è ora necessario presentare in modo più diretto il poeta (e filosofo) Giacomo Leopardi. Nato a Recanati il 29 giugno 1798 da una famiglia nobile e bigotta, ha uno sviluppo letterario precocissimo ed una esistenza quanto mai travagliata: e da problemi fisici e da una sensibilità assai superiore alla media. Stufo della sterile erudizione che gli offre la famiglia lo stesso autore scrive di aver compiuto attorno al 1816 una prima conversione letteraria “dall’erudizione al bello”, che verrà poi seguita da una seconda conversione/evoluzione del pensiero leopardiano definita dallo stesso “dal bello al vero”. Il pensiero del poeta risulta essere un continuo evolversi e ritornare, un continuo interrogarsi sulla infelicità umana. In una prima fase, quella definita del “pessimismo storico” (1819-1823), tale infelicità è causata dall’allontanarsi umano da quella situazione primordiale di illusione e felicità in cui la natura è benigna e fonte di fuga dal dolore della vita; in un secondo momento (quello del cosiddetto pessimismo cosmico, successivo al 1824) questa situazione umana è invece vista come una condizione assoluta, in cui la natura diviene matrigna (la mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali e de’ viventi [Zib. 1829]). Durante la prima di queste due fasi il poeta delinea “la teoria del piacere” (punto cardine sul quale fondamentalmente si basa questa analisi), secondo cui la felicità si identifica con il piacere, la finitezza del quale decreta la infelicità umana. “Lo sviluppo del pensiero di Leopardi coincide con lo sviluppo di tutta loa sua opera, la sua capacità di penetrazione (nel vero) si collega ibn ogni momento con la totalità dell’esperienza personale: non c’è nessuna tra le sue grandi opere che non sia percorsa da una fortissima esigenza speculativa” (scrive Giulio Ferroni in “Profilo storico della letteratura italiana”). “Ogni Leopardi” presenta infatti nelle proprie opere i caratteri della rispettiva filosofia “del momento”. Scrive ancora Ferroni: “La critica ha spesso discusso sulla legittimità di attribuire al pensiero di Leopardi il valore di una vera e propria filosofia; ma, dal punto di vista del pensiero contemporaneo, una simile discussione non ha motivo di essere, perché è facile riconoscere oggi che il grande spessore filosofico di tutta l’opera leopardiana si lega proprio al suo carattere non sistematico, al suo procedere problematico”. Ecco infatti che leopardi torna continuamente al passato ed alla rimembranza, e seppur conscio del vero non negherà mai il “dolce naufragare” nel vago e nell’indefinito, che non casualmente è il cardine della sua poetica. (Ecco perché nel paragrafo precedente affermo che Leopardi oscilla fra arido vero e illusione.) E’ infine interessante notare come Leopardi riprenda, senza averlo mai letto (a quanto si sa), Schopenhauer, ripercorrendone in forma poetica alcuni temi e divergendo su altri. Presentato a grandi linee il pensiero leopardiano, che potrebbe essere definito lo strumento di lavoro, è altrettanto necessario dare una prima presentazione

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del campo d’analisi, ossia l’alpinismo e in particolar modo il suo perché. Il problema è estremamente poliedrico e complicato come fa perfettamente notare Camillo Berti (nella premessa al libro di Marino Stenico ”Alpinismo perché”):”E’ un tema di profondo interesse che, anche se si è tentato di affrontarlo e svilupparlo con ricorso a chiavi psicologiche, filosofiche e, più recentemente, anche sociologiche, non ha portato, né mai riuscirà a portare, a conclusioni convincenti: perché alla base di ogni riflessione sta, e non può stare, che l’individuo con la varietà dei suoi impulsi e delle sue reazioni, eminentemente soggettive ma sempre influenzate da un infinità di componenti estrinseche ed intrinseche, spesso determinanti in ogni comportamento, ma sempre, o quasi, imponderabili e comunque difficilmente catalogabili.” Si può dire cioè (e questo è un concetto cui tengo particolarmente) che i perché dell’alpinismo sono tanti quanti sono gli alpinisti. Ho quindi deciso di riportare “Il Perché” di alcuni dei grandi alpinisti (e non solo) della nostra epoca. Armando Aste: “Può essere il tormentoso bisogno di azione, assieme al desiderio di profonde meditazioni rasserenanti. Un osare sempre di più, un voler andare oltre. Per sentirsi felici. Almeno un poco [..]. Per me, alpinismo, vuol dire tutto questo ed altro ancora, vuole significare sopra ogni altra considerazione un “rimettere l’ali” all’inesausto ardimento.” (“Alpinismo Perché” di M. Stenico). Reinhold Stecher: “Molte sono le vie che portano al Signore; una di queste va sui monti.”(“Il messaggio delle montagne” di R.S.). Riccardo Cassin: “(L’alpinismo) deve sempre costruire la prova dell’ardimento, del valore umano basato su una seria e completa preparazione, deve rimanere un atto di fede e di amore puro verso la montagna.” (A.P). Sonia Livanos: “Per me la montagna era semplicemente un quadro naturale, non sapevo nemmeno che esistesse un attività chiamata alpinismo. L’alpinismo l’ho scoperto più tardi, non per caso come direbbe Georges, ma perche la montagna è un richiamo atavico.”(A.P). Georges Livanos: “(L’alpinismo) è l’ignoto, la scoperta; è appassionante chiedersi cosa ci sarà “là dietro”, o come sarà il cammino “là in alto.”(A.P). Cesare Maestri: ”Essere un Uomo è sempre stato il fine della mia vita. L’alpinismo è stato il mezzo per divenirlo, è stato il mezzo attraverso il quale ho potuto inserirmi ed espletarmi nella società, è stato il veicolo sul quale ho trasportato il bagaglio delle mie esperienze, è stato il canale che mi ha permesso un “discorso politico” vivendo ed interpretando in chiave comunista il mio lavoro fatto sulle montagne, tanto da considerarmi un proletario di esse. [..] Le montagne sono per me quello che sono i colori e la tela per il pittore, quello che è il treno per il macchinista, il teatro per l’attore, il tornio per l’operaio, il pianoforte per il compositore, il piccone per il manovale.”(A.P). Pierre Mazeaud: “Nella maggior parte delle mie salite, e certamente delle prime ascensioni, sono stato animato da uno spirito di competizione. Desiderio profondo di sforzarmi d’essere il migliore sia rispetto a me stesso che rispetto agli altri.”(A.P).

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Massimo Mila: “(L’alpinismo) è un attività dettata in ultima analisi dal bisogno dell’uomo di riconoscere e sottomettere con la propria presenza fisica qualunque angolo, qualunque anfratto, qualunque minima o enorme protuberanza o cavità di questa crosta terrestre su cui siamo chiamati a vivere.[..] L’alpinismo reca in sé le tracce della massima perfezione e conoscenza in cui si accomunano le due facoltà supreme dell’uomo: la facoltà teoretica e la facoltà pratica, il conoscere e il fare.(“Scritti di montagna” di M.M.) Catherine Destivelle: “L’azione in parete è una delle rare occasioni in cui non penso a nient’altro che a quanto sto facendo, in cui testa e gambe sono tutt’una cosa. [..] Non ci si compiace di muoversi, ci si muove, e se si tiene alla propria pelle non lo si fa come capita: bisogna riflettere, anticipare, regolare lo sforzo… E’ questo gioco tattico con gli elementi che amo sopra ogni cosa, questa accettazione calcolata di rischi che resta sempre un’avventura e mi obbliga a rimettermi ogni volta in gioco.” (“Verticali” di C.D.) Reinhold Messner:

“L’alpinismo è – una possibilità L’alpinismo è - avventura

L’alpinismo è - sperimentazione attiva della natura L’alpinismo è - sport a carattere creativo e giocoso

L’alpinismo è - prendere coscienza dell’essere nell’azione L’’alpinismo è - conoscenza attraverso la sfida della morte

L’alpinismo è - un passaggio dal cielo alla terra L’alpinismo è - un ponte tra “questa parte” e “l’altra parte”

L’alpinismo è - la ricerca di più alti livelli di coscienza L’alpinismo è - una possibilità”

“Il sentimento della nullità di tutte le cose, l’in sufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un in finito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplic issima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tut ti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che consi derandola bene, è tutt’uno col piacere.”[Zib165] Dando tale concetto Leopardiano come postulato base di questa mia analisi intendo costruire un parallelismo fra lo svilupparsi de “La teoria del piacere” del detto autore ed il fenomeno alpinistico considerato appunto come mera ricerca del piacere. Al cruccio: ”perché esiste l’alpinismo?” domanda spinosa e dai mille risvolti, propongo una mia riflessione, che senza alcuna pretesa risolutiva, credo alquanto sensata e rispecchiante uno dei molteplici aspetti di quello sfaccettato diamante chiamato verità.

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L’avvicinarsi dell’uomo alla montagna considerata come territorio d’avventura A spingere l’uomo verso l’ignoto vi sono due fattori; il primo che definirei “piacere dell’infinito”, ed il secondo che definirei ”fuga dalla noia”. Leggiamo nello Zibaldone[172] che “l’ignoto è più bello del noto” e ancora che “la grandezza anche nelle cose non piacevoli per se stesse, diviene un piacere per questo solo che è grandezza”. Vi è quindi nell’uomo una pulsione verso l’ignoto, l’infinito, spinta che però, tengo a ricordare, non ha nel nostro campo d’analisi alcuno sfondo metafisico o trascendentale, quanto più prettamente una natura di tipo conoscitivo, un bisogno dell’intelletto che fin dalla notte dei tempi spinge l’uomo a cercare ciò che ancora gli si nasconde, ciò che ancora è celato dietro la siepe. Vi è poi la seconda motivazione, (quella su cui ci soffermeremo), ossia la fuga dalla noia3, il tentare di sottrarsi a questa natura aerea (come la definisce il leopardi stesso in “dialogo fra Torquato Tasso e il suo genio familiare”) che “riempie tutti gli spazi[..] tutti gli intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri”. Indicativa da questo punto di vista è l’analisi storica della collocazione sociale dei primi grandi alpinisti, da Edward Whimper (pittore di nobile famiglia) a Guido Rey a George Mallory, tutti agiati e mantenuti che quindi, non occupati da attività di stretta sussistenza si trovano nella stessa situazione del ”Pastore errante dell’Asia”, di quell’uomo cioè che “senza nessuna occupazione spirituale o corporale, e senza nessuna cura o afflizione o dolor positivo, o annoiato dall’uniformità di una cosa non penosa o dispiacevole per sua natura,[..] soffre e si dispera, e preferirebbe qualunque travaglio a quello stato”.[Zib175]

“E pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra

La mente, ed uno spron mi punge Si che, sedendo più che mai son lunge

Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.”

Ecco quali furono gli “sproni” che punsero i primi alpinisti. Processo de “ Piacer figlio d’affanno”

“Piacer figlio d’affanno; Gioia vana, ch’è frutto

3 Essendo la noia definita dallo stesso Leopardi come “il più sublime dei sentimenti” [i pensieri], in

quanto propulsione dell’animo umano all’infinito, tengo a sottolineare che nel precedente paragrafo ho

semplicemente preso atto di un dato storico, ben lungi dal voler sostenere tesi elitaristiche che

vorrebbero confinare la spinta verso l’infinito alla classe aristocratica o, ad ogni modo, acculturata.

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Del passato timore, onde si scosse E paventò la morte Chi la vita aborria;”

L’alpinista, spinto, come su detto, alla montagna, si trova gettato in un mondo non ancora addomesticato, in cui la vita è appesa ad un filo, (meglio sarebbe dire ad un chiodo), dove gli elementi naturali fanno da padroni, e l’incertezza è il sentimento principe. L’ascensione diviene così un inconscia ricerca di dolore e sofferenza dell’alpinista.“Il soddisfare a un bisogno, il liberarsi da un incomodo è molto maggior piacere che il non provarlo”[Zib1832], e si fatto piacere “va per lo più in ragione della maggiore o minore intensità del bisogno”. E la vetta è appunto il bisogno dell’alpinista impegnato in un ascensione, quella linea che una volta superata ci riporta alla vita che, in precedenza inconsciamente rifiutata, è ora agognata più d’ogni altra cosa, ed il raggiungimento della quale ci conduce al nostro unico fine: il piacere. Niente di divino dunque, bensì qualcosa di estremamente naturale, che ci riconduce ad uno stadio animale come può essere quello degli uccelli “che nella tempesta si tacciano, come anche fanno in ciascun altro timore che provano; e passata quella, tornano fuori cantando e giocolando.”(Elogio degli uccelli)

“Si rallegra ogni core. Si dolce, si gradita,

Quand’è com’or la vita?” L’alpinista tacciato di masochismo saprà quindi che l’accusa è in parte fondata, “e ciò non solo perché essi mali”(ch’egli si procura nell’ascensione)” danno risalto ai beni, e perché più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perché senza mali, i beni non sarebbero neppur beni a poco andare”[Zib2601-2602]. Tuttavia il fatto non è sufficiente a mascherare l’illusorietà della felicità della vetta, che si rivela essere una fuga dal dolore, a sua volta scelto in precedenza come strada per fuggire la noia, proprio come suggerisce il Leopardi nell’operetta “Dialogo fra Torquato Tasso e il suo Genio familiare”: -“T: che rimedio potrebbe giovare contro la noia? -G: il sonno, l’oppio, il dolore. E questo è il più potente di tutti: perché l’uomo mentre patisce, non si annoia in niuna maniera”.

“O natura cortese, Son questi i doni tuoi,

Questi diletti sono Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena

E’ diletto fra noi.”

Piacere del sonno

“Ora io non voglio esser causa di spaventar la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il maggior bene che abbiano” (“Dialogo fra la Terra e la Luna”).

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L’alpinista sperimenta quindi il piacere di uscire dal dolore, ma facendo ciò si accorge anche che, in quella fase di pericolo, sforzo, concentrazione, sta bene, non pensa o per lo meno i suoi pensieri hanno come unico oggetto la salita. Scrive Massimo Mila in “ Scritti di montagna”: “Chi compie un’ascensione vive, (dal momento in cui abbandona la sua base abituale), di un’esistenza tutta sua particolare, ben distinta da quella normale quotidiana, con interessi del tutto mutati, che di solito non vanno mai più in là della classica punta del naso, e si restringono man mano dalla preoccupazione di passare una discreta nottata sulla paglia, a quella di prepararsi una decente colazione, poi a quella di non affaticarsi col saccone mal fatto nella marcia d’approccio, finchè si giunge via via a un felice momento, in cui il supremo ideale di un uomo è di raggiungere con due dita un minuscolo risalto o una riga nella roccia”. Riassumendo, l’alpinista intuisce senza capire4 che ”non c’è maggior piacere nella vita (né maggior felicità), che il non sentirla” [Zib3895]. Quest’intuizione, che per comodità chiameremo “piacere del sonno”, sembra la stessa avuta da Cristoforo Colombo nell’operetta “Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez”: “Se al presente tu, ed io, e tutti i nostri compagni, non fossimo su queste navi, in mezzo di questo mare, in questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in quale altra condizione di vita ci troveremmo essere? In che saremmo occupati? In che modo passeremmo questi giorni? Forse più lietamente? O non saremmo anzi in qualche maggior travaglio o sollecitudine, ovvero pieni di noia?”. Essa integra (ed in parte sostituisce) il concetto di “Piacer figlio d’affanno”, (denominazione data da me sempre per comodità), ed è ravvisabile nel fenomeno alpinistico italiano denominato “Il nuovo mattino” (il cui teorico, Motti, si ispira al “clean climb” americano) che si oppose negli anni settanta all’alpinismo classico. Tale rivoluzione nel modo di vivere la montagna ha come principale effetto la traslazione del fenomeno arrampicatorio, da mezzo per giungere alla vetta, a fine ultimo e completo in sé stesso. Nel movimento arrampicatorio si condensano cioè le due soluzioni altre al dolore, che il Genio familiare suggerisce al Tasso per fuggire alla noia, ossia sonno ed oppio. “L’anima”, infatti, “prova sempre piacere quando è piena, e la distrazione viva ed intera è un piacere rispetto a lei assolutamente, come il riposo dalla fatica è piacere, perché una tal sensazione è riposo dal desiderio” [ Zib173]. Leopardi sintetizza ancor meglio il passaggio fra questi due stadi del piacere nel “dialogo di Malambruno e Farfarello” in cui appunto la felicità (ossia il piacere) non può che essere istantaneo (vetta) o oppiaceo (salita). -M: “…l’infelicità nostra non può cessare per ispazio, non che altro, di un solo istante.” -F: “ Sì; cessa, sempre che dormite senza sognare, o che vi coglie uno sfinimento o altro che vi interrompa l’uso dei sensi.”

4 Questo “senza capire” risulta espressione ambigua e confutabile, spero possa risultare più chiara alla

luce di quanto segue.

Massimo Mila, alpinista, musicista e scrittore dichiara nel saggio “Perché si va in montagna” che non vi è

uomo sulla terra più assennato dell’alpinista e che l’alpinismo scaturisce dalla conoscenza, e quindi non

vi è nulla di più razionale dell’alpinismo. Se si confronta ora tale idea con il passo riportato nel paragrafo

precedente si nota immediatamente come le idee che ne traspaiono siano diametralmente opposte.

Credo che non vi sia niente di razionale nel voler ridurre tutti i propri bisogni all’aggrapparsi ad una ruga

della roccia, anzi tale estratto è stato utilizzato a supporto della tesi qui sostenuta, eppure ciò è

affermato nel brano “La Punta Fiorio”, da un autore tutt’altro che impreparato o delirante: Ecco perché

mio permetto di dire che il più delle volte l’alpinista intuisce ma non capisce.

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Rifacendoci ora nuovamente al dialogo fra Torquato Tasso e il suo Genio familiare, e transcodificando la figura di Torquato Tasso con quella dell’alpinista, e quella del Genio con un allegorizzato piacere, si comprende chiaramente quale sia il ruolo rivestito dall’arrampicata in questa mia analisi, arida forse, ma spero anche un minimo veritiera. -T:”Addio. Ma senti. La tua conversazione mi conforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza: ma questa per la più parte del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né stelle mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare.” -G: “ Ancora non l’hai conosciuto? In qualche liquore generoso.”

…”Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera.”

Sawtooth Mountain – Idaho – U.S.A (1984)

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Gloria e desiderio, ossia rimembranze ed illusione.

“…ma con dolor sottentra Il pensier del presente, un van desio

Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.”

E’ questa forse la parte più bella e malinconica dell’alpinismo: ricordare. Rifacendomi alla mia esperienza riporto la frase di un amico che sostiene che ”…la gita non è finita finchè non si esce dall’osteria.”; sembra una sciocchezza ma non lo è. Al bar, infatti, magari con una bella birra fra le mani, si rivivono i momenti della giornata, forse in modo più completo che nel momento stesso dell’azione. Ognuno narra, ascolta, elogia, rivive e ricostruisce; ingrandendo i fatti, illudendosi ed infine autoconvincendosi…”e va ruminando, e compiacendosi di quello che ha sentito, e provando così un altro piacere il di cui oggetto è bensì passato.”[Zib534]. Reale non è più l’accaduto ma quel che si crede, e quando dopo giorni, settimane, mesi, si torna a parlare della salita, per quanto brutta questa sia stata, lo si fa con dolce allegria, ed anche un principio di congelamento, o un sasso”preso” su un piede, può divenire fonte di scherzo e nostalgia.

“Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita; ed è, né cangia stile, O mia diletta luna. Eppur mi giova

La ricordanza, il noverar l’etate Del mio dolor.”

“La rimembranza del piacere, si può paragonare alla speranza, e produce appresso a poco gli stessi effetti. Come la speranza, ella piace più del piacere; è assai più dolce ricordarsi del bene (non mai provato ma che in lontananza sembra di aver provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perché in lontananza sembra di poterlo gustare.”[Zib1044]. L’attività alpinistica si estende dunque anche al post-ascensione, abbraccia una sfera non strettamente attiva del nostro essere, ci ingloba, e non solo nel ricordo. “L’idea del cosiddetto piacere provato gli dà” (all’alpinista)”un’idea di quelli ch’egli crede di poter provare; concepisce una migliore idea del futuro, una speranza, un disegno, una risoluzione, o di procurarsi altri piaceri, o qualunque essa sia.”

“Il garzoncel come inesperto amante, La sua vita ingannevole vagheggia, E celeste beltà fingendo ammira.”

L’alpinista infatti, terminato il piacere e l’appagamento di un’ascensione continua ad appagarsi delle indefinite e lusinghiere sensazioni di ricordo e

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speranza, di gloria (dovuta al ricordo degli altri) e illusione. Questi vive un periodo paragonabile alla gioventù di Silvia:

“Sedevi, assai contenta Di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il Maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno.”

Questa piacevole stasi va però velocemente sfumando in un percorso molto simile a quello de’”Il sabato nel villaggio”, e presto l’alpinista vede il prossimo domani “Il dì del travaglio usato” e non più quello festivo di una nuova ascensione, così tristezza e noia ricominciano a recar l’ore e questi è costretto a gettarsi in un’attività di febbrile progettazione, rendendosi conto che “ quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce ma quella che non si conosce; non la vita passata ma la futura.” [Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere]. “Il piacere umano si può dire che è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro.”[Zib532]. Così l’attività più propria dell’alpinista è forse il sognare.

Uniformità e noia conducono all’estremo

“… Perché giacendo A bell’agio, ozioso,

S’appaga ogni animale; Mè, s’io giaccio in riposo il tedio assale?”

Questa su citata attività onirica conduce però, ben presto, ad una situazione di noia “Pena che non vien da altro se non dal desiderare invano”[Zib3876]. Conseguenza diretta è l’imbarcarsi in una nuova scalata. L’alpinista entra così, però, in un circolo vizioso, di noia, occupazione-estraniante e sollievo, che a lungo andare diviene esso stesso fonte di grigiore interiore e uniformità. Scrive Leopardi: “L’uniformità è certa cagione di noia. L’uniformità è noia, e la noia è uniformità. D’uniformità vi son moltissime specie.[…] V’è la continuità di tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa, benché il suo soggetto sia il piacere”. [Zib2599]. Si scatena così, nuovamente in modo inconscio, un bisogno dirompente di rompere questa circolarità che se pur data da un susseguirsi di piacere diviene monotona, “e però noia, e però nemica del piacere”.[Zib2600]. Ne segue un processo paragonabile alla “storia del genere umano” di Leopardi in cui l’uomo giunge al limite, e non contento, vuole superarlo, poiché “ Il contentarsi di quello che presentemente godessero, senza promettersi verun accrescimento di bene, non pareva loro di potere”.[Storia del genere umano]. Si giunge così alla ricerca dell’estremo, all’inseguimento del limite fisico e psichico, che porta al sesto grado, in seguito alla direttissima, poi al settimo grado, poi all’arrampicata con le scarpette, a seguire il 9a e poi…chissà…5

5 Ho qui riassunto in modo estremamente sommario l’evolversi delle caratteristiche principali dell’alpinismo

e dell’arrampicata della seconda metà del 1900. Nel secondo dopo guerra infatti il sesto grado veniva

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Irrisorietà del tutto

“..E l’infinita vanità del tutto.”

Nel complesso questo excursus lungo uno dei possibili perché dell’alpinismo segue più o meno l’andamento del rapporto fra genere umano e Giove nella già citata operetta ”storia del genere umano”. La nostra analisi torna quindi al postulato di partenza, concludendo allo stesso modo in cui il demone Farfarello liquida la richiesta di Malambruno:

-F “Infine che mi comandi?” -M “Fammi felice per un momento di tempo.”

-F “Non posso” -M “come non puoi?”

-F “Ti giuro in coscienza che non posso.”

Raccogliendo infine le idee, l’alpinista che vuol protrarre la propria attività (ed io sono fra questi) non potrà che comportarsi come il passeggere, che conscio, comprerà ugualmente l’almanacco; ed è per questo che ai vari testi di filosofia dell’alpinismo preferisco la semplice ma forse non così superficiale risposta che diede il grandissimo Mallory quando gli chiesero: ”Perché scali le montagne?”. Egli infatti si limitò a rispondere: “Perché sono là”.

considerato come limite fisico umano, e l’unico modo per andare oltre era rappresentato dalla direttissima, da vie che attraversavano la parete in modo verticale, con una linea a goccia, facendo largo uso di chiodi a pressione e mezzi artificiali vari. Con gli anni settanta si comincia a parlare di settimo grado e si torna ad un arrampicata libera, ossia senza l’utilizzo di mezzi artificiali per la progressione, limitando l’uso di questi alla protezione, sotto la spinta della denuncia dell’ “assassinio dell’impossibile” mossa da Messner e da altri grandi arrampicatori del periodo. L’evoluzione dell’arrampicata libera dagli anni settanta in poi prosegue in modo vertiginoso, raggiungendo ben presto il carattere di sport a pieno titolo con tanto di gare ed allenamenti specifici. Il costante miglioramento delle tecniche di allenamento e dell’attrezzatura ha cosi portato a livelli estremi le difficoltà. Basta pensare che il 9a corrisponde al 11° grado della scala classica.

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ESCURSIONI DEL MESE DI GIUGNO 2011

• Alla scoperta delle terre dei Baschenis. Da Averara al Passo di Salmurano.

• Le acque sei sogni immobili. Escursione ai laghi del Porcile

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ALLA SCOPERTA DELLE TERRE DEI BASCHENIS

Da Averara al Passo di Salmurano

Domenica 12 giugno 2011 “Ciò che di più alto possiamo raggiungere non è la Conoscenza, ma l’Armonia con l’Intelligenza” Henry David Thoreau Coordinatore: Fabrizio Bonera Collaudo: Fabrizio Bonera Partecipanti 34 Condizioni meteo: nuvoloso con nebbia. Monumento alla natura, questa escursione si caratterizza per i possenti paesaggi glaciali che viene ad interessare. Pascoli, cespuglieti e laghi (Pescegallo, Trona, Zancone, Rotondo, Piazzotti) sono dono di una natura potente che ad ogni passo ci invia messaggi preziosi. Possenti le montagne che ne sono espressione: Pizzo dei Tre Signori, Pizzo di trona e Pizzo san Giacomo. Essi ci richiamano la idea della stabilità e della immortale consistenza al cui confronto appare ben poca cosa la transeunte esistenza degli uomini e degli animali. Forse è proprio questa consapevolezza, nata dal confronto con la apparente indistruttibilità della natura che ha ispirato l’arte pittorica dei Baschenis, originari di questa valle, una dinasta di pittori attiva per due secoli nelle vallate bergamasche e trentine e di cui ci sono rimaste le famose rappresentazioni delle danze macabre. Se i paesi della Valle Averara emanano ricordi di tempi passati, uno degli elementi più pregiati del territorio percorso rimane senza dubbio la fauna, dove la consistenza di ungulati, gallo forcello, e coturnice è decisamente elevata. Un'aperta interpretazione dell'etimologia di Cusio potrebbe suggerire che il paese non è chiuso, ma raccolto tra le pendici dell'omonimo Pizzo e il Monte Avaro. In questo angolo di terra ogni balza è stata pazientemente dissodata e coltivata con la tipica sollecitudine contadina che ha addolcito con terrazze i pendii troppo scoscesi e ha vinto persino la sterilità dell'Avaro, aprendo varchi di verde agli alpeggi estivi. Nella quiete della vallata, accanto alle folte abetaie crescevano a ridosso delle cascine robusti alberi di noce, che nella mente e nella mano dei nativi Rovelli diventavano preziosi simulacri, degni come pochi di entrare nella casa del Signore. Cassettoni, armadi, pulpiti e confessionali si arricchivano di un'arte che, senza indulgere al virtuosismo, pur operando ad

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intaglio ed intarsi, esprimeva nelle figure e nelle decorazioni l'essenzialità di una trama convincente e riflessiva. Come del resto doveva essere l'anima di chi era cresciuto fra questi monti, ritirandone l'impronta del carattere.

Discesa dalla Cima di Valpianella nella Valle dell’ Inferno ITINERARIO. Dopo Averara, si supera l’abitato di Cusio e ci si dirige lungo la carrozzabile che conduce ai Piani dell’Avaro, assai ripida e con strette curve. Si parcheggia in prossimità di un tornante (curva degli Sciocc ) dove sono evidenti le indicazioni per il Rifugio Benigni. Poiché le possibilità sono un poco limitate, spazi più ampi per parcheggiare si trovano al tornante immediatamente sottostante. Dalle indicazioni parte una scalinata in parte in pietra e in parte di cemento che in breve diviene un sentiero (CAI 108) che assume una direzione nord-ovest. Il tracciato, molto evidente, si addentra nella Val di Salmurano superando alcune radure e anche un torrentello. Alternando lunghi tratti semipianeggianti ad altri in lieve salita si raggiunge la Baita Alta di Salmurano , posta sul lato orografico sinistro della Val di Salmurano, normalmente monticata, nel periodo estivo, da greggi di capre orobiche. Si prosegue un direzione nord per sentiero molto evidente da cui si stacca sulla sinistra un sentiero che conduce in Val Pianella. Il sentiero si innesta su una mulattiera di fattura militare (CAI 107) realizzata con bei muri a secco e con pendenza regolare. Essa supera un gradino di

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origine glaciale e sbocca in una conca superiore solcata da un ruscello in cui trova posto la Baita del Piano (m 1855). Si contorna la radura sulla destra sempre in costante salita sino a raggiungere la scarpata che la chiude a settentrione. Qui sono evidenti i segnavia con le indicazioni per il Rifugio Benigni. Tuttavia si presentano due possibilità:

1. Si prosegue lungo il sentiero che contorna la scarpata; si passa la base delle rocce di Cima Piazzotti e ci si impegna in un canalone roccioso assi ripido ma che si sale senza difficoltà al termine del quale si giunge ad una conca pianeggiante, piccola, che il sentiero contorna sulla sinistra per poi inerpicarsi con agevoli serpentine lungo il pendio della montagna fino a sbucare sulla balconata panoramica che ospita il Rifugio Benigni (m 2.222).

2. Dalla Baita del Piano si abbandona il sentiero che sale “per via normale”

al Rifugio Benigni per salire verso destra all’ampia insellatura del Passo di Salmurano , meta finale della mulattiera militare. Dal valico si risale sulla sinistra un canale di rocce e sassi con passaggi alpinistici di primo grado. Raggiunta la sommità del canale si traversa lungo la cresta spartiacque che divide la Valtellina dalla Val Brembana fino a raggiungere il Rifugio Benigni (m 2.222).

Nelle vicinanze del rifugio si adagia il caratteristico Lago Piazzotti, dalle forme dolci e sinuose.. Per il ritorno si consiglia di effettuare un giro ad anello. Si sale su facile e magro pascolo la Cima Valpianella che si raggiunge in circa 20 minuti e caratterizzata da una grossa croce metallica. Il panorama dalla cima è assai esteso. Una traccia di sentiero, che si fa più evidente verso il basso, digrada lungo la cresta sudoccidentale della Cima di Valpianella per raggiungere il Passo Bocca di trona. La fine della discesa coincide con una ampia radura pascoliva che termina alla sua estremità con un profonda incisura. Non seguire i segni bianco rossi sulla destra che ci porterebbero nuovamente in salita al rifugio Benigni. Contornare invece sulla destra la profonda incisura in modo da guadagnare un promontorio di roccia da cui è possibile dominare tutta la Valle dell’Inferno sottostante. Un traccia di sentiero, dal promontorio citato, scende con numerosi tornanti lungo uno scosceso pendio erboso. Esso ci permettere di raggiungere il Baito Pastrengo , arrivando alle sue spalle, su cui spicca la data di costruzione. Il Baito è transitato da una mulattiera. Seguendola versa destra ci si dirige verso Ornica. Noi la dobbiamo seguire verso sinistra, in lieve pendenza e poi pianeggiante ed in breve raggiungiamo la Baita Alta di Salmurano. Da qui percorriamo a ritroso il tratto in comune con il tragitto di andata che in cica venti minuti ci riporta alla Curva degli Sciocc.

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Cenni Storici di Cusio

Cusio, dalle origini all'epoca feudale

Il primo riferimento storico di Cusiom e della Valle Averara risale all'anno 917. In un documento vi appare il nome di Abraria, indicata come localita' di orgine del padre di un diavolo: "Benedictus diaconus ordinarius de infra civitate Bergamo et filius quondam Giseverti de Abrara". Questo nome e' la prima testimonianza in assoluto per quanto riguarda una localita' della Valle Brembana, non e' riferito all'attuale comune di Averara, bensi' all'intera Valle Averara con i comuni di: Averara, Santa Brigida, Cusio, Ornica, Cassiglio, Olmo, Mezzoldo. Lo stabilirsi dei primi nucclei abitativi in queste vallate dei due versanti orobici, cosi' come Valtorta e in Val Taleggio, potrebbe essere avvenuto in seguito alle invasioni barbariche e in particolare quelle dei Lomardi (VI secolo), che costrinsero gli abitanti delle citta' e della campagna lombarda a cercare scampo in luoghi piu' remoti. Da qui il sorgere della prima comunita' civile e religiosa, facente capo alla pieve di Primaluna, e poi il consolidarsi di nucclei sparsi, distribuiti nelle suddette vallate.

Cenni Storici di Cusio

Cusio, dalle origini all'epoca feudale

Il primo riferimento storico di Cusiom e della Valle Averara risale all'anno 917. In un documento vi appare il nome di Abraria, indicata come localita' di orgine del padre di un diavolo: "Benedictus diaconus ordinarius de infra civitate Bergamo et filius quondam Giseverti de Abrara". Questo nome e' la prima testimonianza in assoluto per quanto riguarda una localita' della Valle Brembana, non e' riferito all'attuale comune di Averara, bensi' all'intera Valle Averara con i comuni di: Averara, Santa Brigida, Cusio, Ornica, Cassiglio, Olmo, Mezzoldo. Lo stabilirsi dei primi nuclei abitativi in queste vallate dei due versanti orobici, cosi' come Valtorta e in Val Taleggio, potrebbe essere avvenuto in seguito alle invasioni barbariche e in particolare quelle dei Lomardi (VI secolo), che costrinsero gli abitanti delle citta' e della campagna lombarda a cercare scampo in luoghi piu' remoti. Da qui il sorgere della prima comunita' civile e religiosa, facente capo alla pieve di Primaluna, e poi il consolidarsi di nuclei sparsi, distribuiti nelle suddette vallate.

CARATTERISTICHE GEOLOGICHE Le rocce e le complesse architetture di questo tratto di catena orobica, osservate lungo il sentiero per il Rifugio Benigni, consentono di ricostruire i principali processi geologici avvenuti nella regione alpina nel lontano paleozoico e quelli che hanno caratterizzato la nascita e lo sviluppo delle Alpi. La descrizione del sentiero è rivolta anche a quanti hanno poca familiarità con i fondamenti e con il linguaggio della geologia; le difficoltà del primo impatto, sicuramente non trascurabili, potranno essere superate con l'aiuto del glossario. In questo modo sarà possibile rendersi conto che le rocce posseggono una prodigiosa memoria dei loro processi evolutivi e che non è difficile entrare nei loro misteriosi segreti. Il testo è stato redatto anche con l'intento di fornire un utile strumento per la didattica: lo studente può approfondire e verificare in modo critico la propria cultura, toccando con mano alcuni degli argomenti appresi a lezione e studiati sui testi. Gli insegnanti possono utilizzarlo come tema di ricerche in aula e meta di escursioni alternative. La lettura e la comprensione di carte geologiche e topografiche può essere

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uno strumento fondamentale per avviare gli allievi verso una corretta comprensione del territorio. La partenza m 1532 il sentiero inizia in localita Sciocc, sulla strada carrozzabile che sale ai Piani dell'Avaro in comune di Cusio e segue il segnavia CAI 108 per il Rifugio Benigni fino al Passo di Salmurano. All'inizio e lungo la controriva stradale si possono osservare numerosi strati della formazione di Collio. Si tratta di rocce sedimentarie di natura particellare in cui la dimensione dei granuli è della taglia delle arenarie e delle siltiti (frazioni granulometriche comprese rispettivamente tra 0.004 mm e 2 mm). Questi depositi sono di natura esclusivamente terrigena derivando dall'azione di smantellamento del basamento cristallino (formato dagli attuali micascisti e gneiss presenti nei settori settentrionali) e dei prodotti prevalentemente effusivi messi in posto dai vulcani e dalla loro attività, sia come colate laviche, sia come corpi iniettati. La stratificazione è ben visibile essendo i singoli strati divisi tra loro da giunti ben individuabili anche per la presenza nelle loro parti sommitali di veli di pelite. La loro giacitura è complessivamente regolare verso Nord-Ovest ed è interrotta da superfici di frattura (faglie che dislocano la successione) e litoclasi (prevalentemente ortogonali alla stratificazione). La gradazione positiva, localmente ben evidente in alcuni strati, con le particelle più grossolane alla base, indicano che la successione è diritta, cioè ha mantenuto le condizioni originarie che si avevano al momento della deposizione dei sedimenti. L'ambiente di sedimentazione del Permiano inferiore è raffigurato nel Disegno 1 dove è rappresentato un paesaggio caratterizzato da rilievi non molto accentuati (l'oro genesi ercinica è in fase di sviluppo) che vengono smantellati dai corsi d'acqua. I materiali trasportati confluiscono in zone pianeggianti occupate dai bacini lacustri di debole profondità. Gli elementi di taglia più grossolana si fermano nelle zone apicali delle conoidi alluvionali, allo sbocco delle valli, mentre quelli più fini vengono trasportati verso i laghi. L'intera zona è tettonicamente instabile perciò da un lato si ha la surrezione dei rilievi, dall'altro si riscontrano zone in subsidenza. Queste ultime sono occupate dai laghi che vedono in tal modo il loro fondo abbassarsi progressivamente permettendo l'accumulo della potente pila di sedimenti che corrisponde alla Formazione di Collio. Questa formazione ha uno spessore che nei luoghi ove si è meglio conservata (esempio a Trabuchello di Fondra) supera i duemila metri. L'attività vulcanica in questo periodo era molto intensa, sia sotto forma di espansioni laviche che di corpi iniettati all'interno della crosta. Di questi prodotti, nella provincia di Bergamo, si hanno solo locali tracce, mentre in altre regioni (provincie di Varese, Brescia e Trento) hanno formato potenti accumuli con spessori che arrivano al migliaio di metri. La seconda sosta viene proposta in corrispondenza della prima vallecola alquanto incisa che s'incontra circa alla quota 1580 m (a 15 minuti dall'imbocco del sentiero del Benigni). L'osservazione che si propone ha lo scopo di illustrare il meccanismo di venuta a giorno (sorgente) delle acque di circolazione sotterranea che intercettano i massicci rocciosi. Le acque meteoriche penetrano nelle rocce allorquando queste presentano porosità primaria (vuoti tra le particelle) o secondaria (fratturazioni), caso quest'ultimo che si presenta in corrispondenza della Formazione di Collio. Attraverso l'intensa rete di fratture le acque penetrano in profondità sino a costituire una sorta di "livello freatico" (o zona di saturazione). La conformazione di questa zona è estremamente varia ma, comunque, è strettamente dipendente da uno o più orizzonti impermeabili. Questi costituiscono un vero e proprio ostacolo alla percolazione delle acque in profondità. In funzione della conformazione fisiogeografica dei luoghi, quando le acque di circolazione sotterranea intercettano uno di questi orizzonti impermeabili, possono essere veicolate verso l'esterno. I luoghi preferenziali sono i versanti e le incisioni vallive, sia lungo i loro fianchi sia nella zona dell'alveo. Dopo aver superato la casera di Valletto a quota 1630 m ed il bivio per Ornica, a quota 1740 m, si entra in una formazione caratterizzata dalla colorazione rossastra. E' il "Verrucano", una potente successione conglomeratica e conglomeratico-arenacea

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del Permiano superiore. Le rocce che si osservano si sono formate in un ambiente di tipo desertico, ove l'azione degli agenti esogeni ha prodotto un intensa alterazione dei sedimenti, mediante ossidazione. La forte colorazione rossastra è dovuta alla presenza di ossidi di ferro (Fe2O3) che hanno pigmentato anche i frammenti di quarzo (minerali vetrosi) presenti nella roccia. La deposizione del Verrucano è avvenuta al termine della fase orogenetica ercinica. La catena si era completamente sollevata, con rilievi molto accentuati che venivano smantellati con facilità, producendo una notevole quantità di detriti. Questi venivano convogliati, al di sopra dei precedenti depositi lacustri, da vere e proprie fiumare. Nella letteratura geologica questi depositi vengono indicati con il termine di "molassa", che sta ad indicare l'accumulo di materiali derivati dallo smantellamento di una catena appena formatasi. Depositi di analogo significato, ma di età decisamente più recente (oligocenica, circa 30/25 milioni di anni fa) - si rinvengono nel comasco con il termine di "gonfolite" (molassa gonfolitica) e sono dovuti al denudamento della catena formatasi a seguito dell'orogenesi alpina. La sosta a quota 1820 m consente di osservare le caratteristiche litologiche della formazione del Verrucano e permette anche di "toccare con mano" il contatto tettonico che si sviluppa, per faglia inversa, tra la formazione del Collio ed il Verrucano stesso. Come raffigurato nel profilo, in questo punto, a seguito degli sforzi compressivi che questo settore di catena ha subito, le rocce presenti in profondità sono state fagliate e dislocate da piani di taglio. Il tipo di movimento ha pertanto portato le siltiti della formazione del Collio a sovrapporsi (appunto tettonicamente) alle più recenti rocce del Verrucano. Salendo lungo il sentiero del Rifugio Benigni, tra le quote 1820-1850 si ha una visione panoramica dell'anfiteatro di origine glaciale formato dalla quinta che congiunge le creste delle cime Torrione Giacomo-Piazzotti-dorsale del Monte Valletto. Le pareti e i versanti dotati di minore acclività sono impostati in rocce metamorfiche (micascisti e gneiss chiari) mentre le pareti ripide visibili verso ovest sono formate dai conglomerati del Monte Ponteranica. Il contatto tra le due litologie avviene attraverso una superficie di sovrascorrimento. Si tratta di una profonda disgiunzione nelle rocce che ha portato il basamento a sollevarsi di alcune migliaia di metri, fino ad accavallarsi sui termini permiani (conglomerato del Ponteranica a ovest e Verrucano a Sud). Nei dintorni delle quote 1920 -1960 m affiorano dalla cotica erbosa spuntoni di rocce metamorfiche: sono i micascisti dell'originario fondo del bacino. Queste evidenziano belle deformazioni esaltate dall'andamento nastriforme ripiegato soprattutto delle lenti di quarzo. Giunti al passo Salmurano, ci riposiamo mentre lo sguardo spazia verso le valli di Salmurano (a Sud) e di Pescegallo, sino alle cime delle Retiche (a Nord). Riprese le energie, è possibile eseguire una semplice ma interessante osservazione geologica. L'incisione del passo è situata in corrispondenza di una roccia nuova (di colore verde chiaro a grana finissima) non osservata in affioramento, però presente come frammento all'interno delle rocce del Collio. Si tratta di un filone porfirico che si è "intruso" nei micascisti. Questo è un corpo connesso all'attività vulcanica del Permiano che, mentre in altri luoghi ha dato origine a colate ed espandimenti lavici, qui è rimasto intrappolato all'interno del basamento cristallino ed è stato portato a giorno solo grazie all'azione erosiva degli agenti esogeni. Ripreso il sentiero e procedendo verso il Rifugio Benigni, si incontrano nuovamente le siltiti della Formazione del Collio e si osservano, ai piedi della bastionata dei Piazzotti, per la prima volta direttamente, i Conglomerati del Ponteranica. Questi sono caratteristici per l'elevata taglia degli elementi, per il loro buon grado di arrotondamento, per la natura (prevalentemente clasti porfirici) e per la matrice arenacea a grana grossolana che ingloba i clasti. L'itinerario si conclude al rifugio Benigni dopo aver percorso un erto canale impostato lungo una superficie di faglia che separa le rocce della Formazione del Collio a sinistra (Sud) da quella del conglomerato del Monte Ponteranica a destra (Nord)

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Presenze nella nebbia a Cima Piazzotti

I PITTORI BASCHENIS

Una valle di pittori L’antica Valle Averara costituì, a partire dall’età comunale e fino al periodo napoleonico, un’unica grande realtà amministrativa comprendente, oltre agli attuali comuni di Averara, Santa Brigida e Cusio, anche le località limitrofe di Cassiglio, Ornica, Mezzoldo e Olmo. La sede comunale era posta alla Fontana di Averara, mentre il centro religioso era rappresentato dalla chiesa di Santa Brigida, già suffraganea della pieve di Primaluna in Valsassina e poi matrice di tutte le parrocchie della Valle Averara. La comunità averarese godette a lungo di una propria autonomia, garantita da appositi statuti, di cui ci è pervenuta una redazione del 1313, ripresa dal testo originale del secolo precedente. Terra di scarse risorse e votata all’emigrazione, la Valle Averara ha comunque dato alla cultura bergamasca una straordinaria fioritura di artisti, iniziata con il quasi sconosciuto Pietro de Asenelis, a cui si devono gli affreschi del portico della

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parrocchiale di Santa Brigida, e proseguita con gli Scanardi, gli Scipioni, i Guarinoni e la folta schiera dei Baschenis. Per oltre duecento anni, a partire dalla metà del Quattrocento, i pittori Baschenis si sono succeduti di padre in figlio, abbellendo di affreschi decine di chiese in terra bergamasca e portando il nome della loro patria fin nelle remote valli del Trentino. Diversi per ispirazione e capacità artistica, piuttosto restii ad accogliere le istanze rinascimentali, seppero tutti interpretare con gusto e originalità le tematiche proprie dell’arte sacra, non disdegnando a volte di spaziare nel profano, fino a dare alla grande pittura italiana le opere prestigiose di Evaristo, autentici capolavori in assoluto. La quindicina di artisti che in qualche modo hanno lasciato traccia della loro produzione appartengono a due diverse dinastie: quella di Lanfranco, che annovera quattro esponenti, attivi tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento e quella di Cristoforo, più numerosa, protrattasi fino alla seconda metà del Seicento. Divisi tra la produzione nella terra d’origine e quella nelle vallate trentine (dove è documentata la presenza di almeno una decina di loro), i Baschenis seppero affermarsi come i pittori delle fatiche e delle sofferenze del popolo contadino di montagna. Le loro opere rispecchiavano le aspirazioni della gente umile, fosse essa bergamasca o trentina, gente che trovò nei Baschenis gli interpreti ideali del sentire comune. I pittori Baschenis nacquero quasi tutti nella contrada Colla di Santa Brigida dove è stata individuata quella che fu la dimora della dinastia di Cristoforo. Tuttavia essi sono comunemente noti come Baschenis di Averara, così infatti firmavano le loro opere o si qualificavano nei documenti che li riguardavano, dal momento che la Colla apparteneva con Santa Brigida al comune della Valle Averara. Va però precisato che negli atti notarili redatti in Valle Averara, da notai del posto, è sempre presente il riferimento “Baschenis della Colla”. Oggetto della recente attenzione dei critici, la produzione pittorica del Baschenis è tutt’altro che definitivamente riscoperta e valorizzata: è di questi mesi, ad esempio, la scoperta di affreschi di Pietro Baschenis nel santuario della Madonna dell’Argon a San Paolo d’Argon e l’attribuzione a Dionisio Baschenis del ciclo della chiesa del Bretto di Camerata Cornello. Opere di questi saggi artisti itineranti attendono di essere messe in luce e attribuite, non solo in terra trentina e bergamasca, ma fors’anche nelle vallate limitrofe, a cominciare dalla Valtellina, dove c’è chi vorrebbe assegnare ad altri esponenti della famiglia i soggetti della famosa “camera picta” con l’homo selvadego di Sacco. Stemma della famiglia Baschenis affrescato sulle pareti interne del portico di Averara. L’ALBERO GENEALOGICO DEI BASCHENIS (in maiuscolo i nomi dei pittori) La dinastia di Lanfranco La dinastia di Cristoforo La dinastia di Lanfranco Antonio Baschenis (documentato tra il 1450 e il 1490). E’ il primo pittore della famiglia in ordine di tempo. Figlio di Giacomo e nipote di Lanfranco, nel 1451 risulta avere una bottega a San Michele all’Arco in Bergamo. In seguito, primo dei Baschenis, si trasferì in Trentino, dove nel 1461 affrescò la chiesa di Santo Stefano a Carisolo con un ciclo comprendente fra l’altro un’Ultima cena due Madonne in trono con Bambino, e varie figure di Santi. Sempre in Trentino lavorò all’interno dellachiesa di San Vigilio a Pinzolo e una Madonna col Bambino e Santa Caterina nella chiesa di Mione in Val di Rumo, firmata e datata 1480.

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Quanto ai suoi rapporti col paese natale, Antonio è citato in un atto notarile del 1450 con il quale suo fratello Taddeo acquistava dei beni nella contrada Muggiasca per sé e per i fratelli Antonio e Angelo. Angelo Baschenis (doc. 1450-1490). Fratello di Antonio, appare per la prima volta come pittore nel 1482, quando affresca il presbiterio di San Defendente alla Roncola con figure di Santi. Ben più importante è però il ciclo della sagrestia della parrocchiale di Ornica, da lui firmato “Angelus de Averaria pinxit una cum filio suo” e datato 15 novembre 1485. Ad Angelo Baschenis sono attribuiti gli Episodi della vita di San Nicola da Tolentino e altri affreschi della chiesa di Santa Brigida, risalenti allo stesso periodo. Più tardi lavorò in Trentino, prima a Flavon e quindi, nel 1490, nella chiesa di San Vigilio a Pinzolo. Giovanni e Battista Baschenis (doc.1471-1503). Figli di Antonio, lavorarono inizialmente in Trentino, affrescando diverse chiese, tra cui la cappella di San Valerio a Tasullo e la chiesa di Sant’Udalrico a Rumo, in Val di Non, dove nel 1471 firmarono una bella Ultima Cena. Tornati in patria, Giovanni si dedicò alla pittura autonomamente, realizzando tra l’altro la Raffigurazione del peccato originale nella sagrestia di Alino (1478) e il Cristo sul sepolcro tra la Madonna e San Giovanni in una collezione privata di Fuipiano al Brembo (1486). La dinastia di Cristoforo Cristoforo I Baschenis (doc.1465-1475). E’ il capostipite, in senso pittorico, dell’altro ramo della famiglia. Pur figurando residente alla Colla, lavorò prevalentemente in Trentino, dopo aver soggiornato per qualche tempo a Brescia. Nel 1474 dipinse e firmò il Sant’Antonio Abate sulla facciata della chiesa cimiteriale di Pelugo in Val Rendena, l’unica opera di certa attribuzione. Per affinità stilistica si potrebbero attribuirgli anche altri affreschi della facciata, tra cui la Madonna con Bambino, l’Annunciazione, la Processione e San Giorgio. Dionisio Baschenis (doc.1493). Figlio di Cristoforo I, lavorò pure lui alla chiesa di Pelugo, firmando il 9 ottobre 1493 il grande San Cristoforo che occupa il lato destro della facciata. A Dionisio vengono attribuite le Scene della vita di Sant’Antonio dipinti sulla parete esterna destra della stessa chiesa. In Valle Brembana viene attribuito a Dionisio il ciclo di affreschi datato 1504 della chiesa di San Ludovico nella contrada Bretto di Camerata Cornello. Simone I Baschenis (doc.1488-1503). Fratello di Dionisio, lavorò in Trentino con il fratello, ma di lui non resta nessuna opera. Alcuni affreschi della parrocchiale di Lodrone, da lui firmati assieme a Dionisio, sono andati perduti nel corso di questo secolo. Cristoforo II Baschenis (doc.1472-1520). Figlio di Simone I, nacque nel 1472, lavorò sempre in Trentino, dove nel 1496 affrescò l’interno della chiesa di San Felice a Bono di Bleggio con un bel ciclo recentemente restaurato, comprendente tra l’altro una bella Crocifissione, un’Annunciazione, Scene della vita di San Felice, una serie di Santi, la teoria degli Apostoli, i Dottori della Chiesa e Cristo Pantocratore. Attorno al 1500 affrescò la chiesa di San Giorgio a Dorsino e quella vicina di San Rocco a San Lorenzo in Banale con due cicli che riprendono i soggetti già dipinti in San Felice. Altre opere certe di Cristoforo II sono il Cristo benedicente e le Storie di San Lorenzo della chiesa di Condino (1519), il ciclo della chiesa dei Santi Faustino e Giovita a Ragoli e gli Episodi della vita di Cristo in Sant’Antonio a Pelugo.

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La presenza di Cristoforo II a Santa Brigida è documentata da un atto notarile rogato a Muggiasca nel 1505 dal notaio Antonio Mascheroni dell’Olmo. Simone II Baschenis (1490 ca. 1555). Figlio di Cristoforo II, è considerato l’affreschista più qualificato di tutta la dinastia, in quanto la sua produzione presenta una certa impronta rinascimentale e un gusto creativo personale. Tra i dipinti, l’assemblea dei Santi e Dottori della Chiesa a Commezzadura (1512), la Leggenda di Carlo Magno e le Storie di Santo Stefano nell’omonima chiesa di Carisolo (1519), l’Annunciazione e altri affreschi sul protiro della chiesa della Natività a Pellizzano (1534), la grande Crocifissione di Santa Maria Javré (1543) e la decorazione degli interni di quello splendido gioiello che è la chiesa di San Vigilio a Pinzolo (1539), dove tra l’altro è possibile ammirare la rappresentazione dei Vizi capitali, una Crocifissione, un Cristo Pantocratore con i Quattro Evangelisti e i Dottori della Chiesa e Scene della vita di San Vigilio. L’artista ha legato il suo nome a due originali Danze Macabre: quella dipinta sull’esterno della chiesa di Santo Stefano a Carisolo, eseguita nel 1519 e soprattutto quella grandiosa della chiesa di San Vigilio a Pinzolo, del 1539, considerata un capolavoro nel suo genere. Simone II fu l’ultimo esponente della famiglia a lavorare in Trentino. Verso il 1550 si stabilì definitivamente nella sua casa della Colla, assieme ai figli, due dei quali, Filippo e Cristoforo, continuarono l’attività pittorica in Valle Brembana. La sua figlia Lucia sposerà un Guarinoni della Fontana da cui avrà per figlio quel Giovanni Battista Guarinoni che diventerà a sua volta un eccellente pittore. Simone II lavorò anche in Valle Averara, come risulta da un documento conservato nell’archivio parrocchiale di Averara. Si tratta della trascrizione notarile di un’iscrizione datata 21 maggio 1513, un tempo posta su un altare della chiesa di San Giacomo, nella quale l’artista afferma di aver realizzato sia le sculture che le pitture di quell’altare. Filippo Baschenis (1525 ca. -1597 ca.). Figlio di Simone II, fu senz’altro pittore, come appare in vari documenti; tuttavia, a parte gli affreschi di Pinzolo e Massimeno a cui lavorò assieme al padre, della sua opera non è rimasta traccia. Tornato a Santa Brigida assieme al resto della famiglia, Filippo partecipò attivamente alla vita del suo paese, diventando tra l’altro sindaco della confraternita del Rosario della parrocchia. Numerosi sono i documenti che riguardano Filippo. In particolare, nel 1590, egli figura tra i capifamiglia che sottoscrivono lo strumento di juspatronato della chiesa parrocchiale di Santa Brigida. Nel 1588 è così registrato nello stato d’anime della parrocchia: nella casa della Colla, di messer Filippo Baschenis, abita il medesimo Filippo d’anni 63, pittore, con Lucia sua moglie d’anni 53 e suo nipote Antonio di anni 10. Cristoforo Baschenis il Vecchio (1520 ca. - 1613 ca.). Fratello di Filippo, dopo le prime esperienze giovanili in Trentino, si stabilì a Bergamo in Borgo San Leonardo e da quel momento lavorò sempre in Bergamasca. Nel 1564 affrescò il ciclo delle Storie di San Bernardino a Lallio e nel 1576 firmò gli affreschi della chiesa di Sant’Egidio a Fontanella. A Cristoforo il Vecchio appartengono anche una grande Crocifissione e la Predica di Santo francescano nel monastero di Romacolo Zogno, oltre agli affreschi della chiesa di Santa Trinità a Urgnano e a diverse opere minori. Anche Cristoforo il Vecchio compare in diversi atti rogati a Santa Brigida. In uno di questi è registrata la vendita da lui fatta al nipote Giovanni Battista Guarinoni, pure pittore, di una pezza di terra “campiva e prativa” in contrada Ripa.

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Giovanni Battista Guarinoni (1548 ca.- 1579). Anche il Guarinoni, noto semplicemente come l’Averara, può essere annoverato alla stirpe dei Baschenis, essendo nato da Lucia, figlia di Simone II Baschenis. Tra le sue opere più significative, il ciclo di affreschi ispirati alla favola di Amore e Psiche di Palazzo Morando a Bergamo e la tela della Madonna col Bambino e Sante della parrocchiale di Averara, firmata e datata “Io. Baptista Guarinonus de Averaria pingebat 1576”. Cristoforo Baschenis il Giovane (1560 ca.- 1626). Figlio di un fratello di Cristoforo il Vecchio, apprese l’opera pittorica a Bergamo, nella bottega dello zio, al quale fu affidato dal padre, come apprendista, per cinque anni, con un regolare contratto notarile. Le sue opere più note sono le Scene della vita di San Giovanni Battista nell’omonima cappelletta di Cusio (1583) e gli Episodi della vita di San Benedetto da Norcia, nel monastero di San Benedetto a Bergamo (1597). Cristoforo il Giovane risiedeva stabilmente a Santa Brigida, nella casa di famiglia della Colla. In occasione della redazione dello stato d’anime del 1588, egli aveva 27 anni e abitava con la madre Elisabetta di 54 anni, vedova, la moglie Alessandra ventenne, il figlio Stefano di un anno e la sorella Elisabetta di 20. Pietro Baschenis (1590 ca.- 1630). Pronipote di Cristoforo il Vecchio, è forse il primo esponente della dinastia a non essere nato a Santa Brigida. Nacque infatti a Bergamo, nella casa a suo tempo acquistata dal nonno in Borgo San Leonardo. Tra i suoi primi lavori figurano gli affreschi mitologici di casa Galizzi (ora casa parrocchiale) a Leffe (1613) e la Madonna col Bambino nella sagrestia della basilica di Santa Maria Maggiore (1616). Dopo tale data lavorò intensamente in varie località bergamasche, realizzando opere sacre e profane. Notevoli le Storie della Vergine nel santuario di Sombreno, gli affreschi del monastero dell’Incoronata a Martinengo e quelli della chiesa dell’Assunta a Grassobbio. Pietro Baschenis, morto di peste nel 1630, fu l’ultimo degli affreschisti. Dopo di lui la fama della famiglia sarà legata ai capolavori di Evaristo. Evaristo Baschenis (1617 - 1677). Nato a Bergamo nel 1617, Evaristo (Guaresco) Baschenis, si distacca nettamente da tutti gli altri pittori della famiglia, sia perché si dedicò quasi esclusivamente alla pittura a olio e sia per il livello artistico nettamente superiore da lui raggiunto, che ne fa uno dei più qualificati artisti del Seicento. Poco si sa dei rapporti che intercorsero tra Evaristo e il resto della famiglia, salvo supporre che in giovane età abbia conosciuto il cugino Pietro, morto quando egli aveva appena tredici anni. Non esiste documentazione nemmeno sui suoi eventuali legami con Santa Brigida e non è da escludere che non vi abbia mai messo piede, non avendo qui più nessun interesse economico. La formazione artistica di Evaristo, maturata di pari passo con la vocazione sacerdotale, fu comunque del tutto autonoma dalla tradizione dei suoi antenati frescanti e tale da costituire il necessario presupposto per quella personale e inimitabile esperienza creativa che lo colloca nel novero dei grandi bergamaschi di ogni tempo. L’eleganza e la raffinatezza del suo stile eccellono in particolare nelle molteplici composizioni con strumenti musicali, considerate tuttora ineguagliate, e nelle nature morte in cucina. Il gusto cromatico, il rigore compositivo, la sapiente resa dei volumi e delle forme conferiscono all’opera di Evaristo Baschenis la straordinaria forza evocativa di un perfetto ordine superiore che diventa modello per la natura umana e induce a meditare sull’essenza intima delle cose e sull’inarrestabile fluire del tempo.

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L’originalità della sua opera non venne pienamente compresa e apprezzata dai contemporanei, influenzati dall’imperante gusto barocco dell’epoca e solo in questo secolo la critica ha collocato Evaristo nella giusta luce. Le sue opere sono oggi conservate, oltre che nell’Accademia Carrara di Bergamo, in pinacoteche e collezioni di tutto il mondo. PRESENZE BERGAMASCHE DEI BASCHENIS SANTA BRIGIDA : Angelo Baschenis (parrocchiale vecchia) ORNICA: Angelo Baschenis (sagrestia della parrocchiale) CUSIO: Cristoforo Baschenis il Giovane (chiesa di San Giovanni) CAMERATA CORNELLO : Dionisio Baschenis? (chiesa di San Ludovico al Bretto) SAN GIOVANNI BIANCO : Giovanni Baschenis (casa Cavagnis, Fupiano al Brembo) SAN PELLEGRINO TERME : Giovanni Baschenis (chiesa di Alino) ZOGNO Cristoforo Baschenis il Vecchio (monastero di Romacolo) SERINA: Pietro Baschenis (casa del vicario) PALADINA : Pietro Baschenis (santuario di Sombreno) RONCOLA: Angelo Baschenis (chiesa di San Defendente) BERGAMO : Cristoforo Baschenis il Vecchio (palazzo ex Grataroli) Cristoforo Baschenis il Giovane (monastero di San Benedetto) Pietro Baschenis (sagrestia basilica di Santa Maria Maggiore, monastero di Santa Grata, monastero Matris Domini, Istituto Sordomuti, Biblioteca Civica, casa Bonomi, casa Bonoreni) Evaristo Baschenis (Accademia Carrara) LALLIO : Cristoforo Baschenis il Vecchio (chiesa di San Bernardino) GRASSOBBIO : Pietro Baschenis (chiesa dell’Assunta) DALMINE : Pietro Baschenis (chiesa di Guzzanica) LOCATE : Pietro Baschenis (sagrestia parrocchiale)

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Le acque dei sogni immobili

Escursione si Laghi del Porcile

Domenica 19 giugno 2011Domenica 19 giugno 2011Domenica 19 giugno 2011Domenica 19 giugno 2011

“Qui non è possibile perdersi e il mio viso nell’acqua pura io vedo”

Paul Eluard

Coordinatore: Marco Zampedri Collaudo: Marco Zampedri, Picozzi Ivan Partecipanti: 42 Condizioni meteo: Sereno Le acque dei laghi alpini conciliano sempre atmosfere di grande tranquillità. Forse per quel loro essere arroccate su terrazzamenti nascosti, che non si vedono dal basso, per quella loro apparenza di immobilità, per quella loro trasparenza che le mantiene lontano dai torbidi della vita quotidiana. E’ la tranquillità di una innocenza originaria e primordiale, incapace di costruire menzogne. Hanno il dono della immediatezza, della comunicazione non mediata e non filtrata. Sono specchio riflettente la realtà autentica, di ciò che realmente è, univoco ed univocamente interpretabile. Ecco perché attraverso lo specchio dell’acqua alpina vedo ciò che realmente sono, scevro dal dubbio. Ecco perché in quel loro tradurre il mondo nella sua inconfondibile realtà e verità mi impediscono di smarrirmi. Paul Eluard forse si riferisce a questo. La verità non produce mai smarrimento e nella verità io riconosco l’autenticità del mio viso Specchiandomi in acque veritiere mi vedo qual realmente sono. ITINERARIO Quello proposto è un giro ad anello che ha come punto di partenza Foppolo, località turistica pesantemente segnata dalla speculazione edilizia degli anni sessanta. Si parcheggia la macchina nella porzione occidentale dell’agglomerato urbano (come si arriva imboccare una curva a gomito a sinistra e risalire per alcuni tornanti). Si parcheggia in prossimità di alcuni casermoni in cemento armato che mi ricordano gli edifici di epoca staliniana di alcune capitali dell’est. Qui si imbocca il sentiero 201, segnalato, che scende in una vallecola per poi impegnarsi in un bel prato . Il sentiero sale costantemente lungo un costone,

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con una salita progressiva ma non faticosa e guadagna quota, alto su una

Lago di Porcile superiore

vallecola che scende fino all’abitato di Foppolo. Colpisce l’abbondanza di ruscelli. Si giunge ad un terrazzo di magro pascolo, con buona vista panoramica e successivamente si risale passando accanto alla Baita di Cadelle (2.052 mt). Oltre la baita, ad un bivio, si tiene la sinistra. Il sentiero punta decisamente verso una depressione della linea di cresta costituita dal passo di porcile. Si raggiunge il passo, posto a quota 2284 metri con ampia vista verso le montagne valtellinesi. Circa cento metri più in basso occhieggiano i laghi di Porcile. Non è obbligatorio raggiungerli ma una loro visita è assai meritevole, anche per poter apprezzare un caratteristico e decisamente bel manufatto di architettura pastorale che si trova adiacente al lago più alto. Si scende per uno scosceso sentiero in mezzo alle rocce fino a raggiungere le sponde del lago superiore (m 2055). Il lago può costituire un buon punto per una sosta ristoratrice. Per il ritorno si risale all’ampio terrazzo roccioso che si incontra subito sotto il Passo di Porcile per imboccare una traccia (spalle al passo) sulla destra che taglia diagonalmente il versante settentrionale del Monte Cadelle e corre in direzione est mantenendosi alta sulla Valle dei Lupi al fondo della quale si nota una traccia di sentiero che la risale. Questa traccia può essere poco evidente e soprattutto può rimanere nascosta dai nevai presenti fino a

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stagione inoltrata. Qualsiasi riferimento sul terreno scompare quando essa si impegna su una vasta pietraia che va attraversata diagonalmente facendo attenzione a non perdere quota. Punti di riferimento sono la valle dei Lupi, sottostante, e soprattutto, lo stretto intaglio della Bocca dei Lupi, alla quale bisogna giungere, che rappresenta lo sbocco superiore della valle omonima e a cui giunge il sentiero che la risale. La nostra traccia si raccorda al sentiero che nel volgere di alcune decine di metri, in salita, ci porta alla Bocca stessa. Qui si apre un altro panorama in cui lo sguardo domina l’alta Valmadre. Il sentiero scende ripidamente, un poco scivoloso all’inizio, con stretti tornanti ed attraversando luoghi assai suggestivi con piccoli terrazzi che ospitano nevai e piccoli laghi. Il fondo della Valmadre è sempre evidentecome pure è evidente il Rifugio Dordona, lambito da una mulattiera sterrata. Non dobbiamo cercare di raggiungere il rifugio. Mantenendo la quota dobbiamo raccordarci alla mulattiera nel punto più vicino al Passo di Dordona, che essa attraversa e marcato da una larga insellatura alla nostra destra. Il Passo viene facilmente raggiunto una volta che ci si è innestati sulla mulattiera, seguendola verso destra. Al passo meritano una vista le opere militari della Linea Cadorna, ben conservate e percorribili. Il Passo Dordona è posto a 2007 mt di quota. La mulattiera, ora rientrata nella conca di Foppolo, va seguita per un breve tratto fino ad imboccare il segnavia 202 che con una progressiva e suggestiva discesa, senza altri bivi, ci conduce nuovamente a Foppolo, in prossimità del parcheggio, dopo aver superato alcuni impianti paravalanghe.

Verso il Passo Dordona

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NOTAZIONI STORICO GEOGRAFICHE Facciamo un salto indietro nel tempo, di circa 20.000 anni, portandoci nel cuore del Pleistocene superiore, al tempo dell’ultima glaciazione, quando la Valtellina era percorsa da un’immensa colata dello spessore di circa 1.800 metri, che si muoveva alla velocità di circa 10-15 metri al giorno. L’azione di questa enorme massa di ghiaccio ha dato alle sue montagne la forma che siamo abituati ad ammirare. Da questo abbagliante oceano emergeva solo il profilo delle catene orobica e retica, con le relative testate e costiere. Si deve all’azione poderosa dei ghiacci anche la formazione dei caratteristici circhi glaciali, vale a dire pianori e conche situati ad una quota superiore ai 1.600-1700 metri. I ghiacci esercitarono azioni diverse: un’azione abrasiva, che lisciava la superficie rocciosa sottostante, un’azione di frantumazione della massa rocciosa ed, infine, un’azione di escavazione, cioè di asportazione del materiale roccioso frantumato. In circostanze particolari il concorso di queste azioni ha determinato questi caratteristici circhi, dalla tipica forma semicircolare, delimitata da pareti scoscese. Molti di questi circhi ospitano i laghetti alpini di origine glaciale.Fra i più belli e caratteristici della catena orobica sono da annoverare sicuramente i laghetti di Porcile, sulla testata della Val Lunga, che hanno una disposizione caratteristica, su tre ripiani successivi, detta “a rosario”. Essi costituiscono altrettante perle della Val di Tartano, la maggiore attrattiva per gli escursionisti che amano raggiungere scenari suggestivi ed incontaminati con uno sforzo relativamente ridotto. Per illustrare meglio le caratteristiche

di questi laghi e dell'ambiente che li ospita riportiamo le informazioni che ci vengono offerte dal bel volume "Laghi alpini di Valtellina e Valchiavenna", di Riccardo De Bernardi, Ivan Fassin, Rosario Mosello ed Enrico Pelucchi, edito dal CAI, sez. di Sondrio, nel 1993:“I tre laghetti sono situati su livelli diversi, a poca distanza l'uno dall'altro, sui morbidi declivi che scendono dal Monte Valegino (2415 m) e dal Passo di Porcile (2290 m), sotto la cima più imponente ed erta, ma non molto più rilevata, del Monte Cadelle (2483 m), un punto panoramico molto rilevante di questo tratto della catena orobica.Come s'è già detto, i tre laghetti. dai colori cangianti tra l'azzurro, il verde, il grigio, situati tra pendici verdeggianti e brevi bastionate di rocce rotte, alla confluenza di vallecole ricche di neve e acque e poi di erbe e fiori, concorrono a comporre una sorta di quintessenza di paesaggio alpestre.A poca distanza una Valle dei Lupi non riesce a preoccupare troppo... (sempre che il toponimo originario non abbia - come è possibile - tutt'altro significato. Si ricorda che in questa valletta vi era miniera di ferro).È possibile immaginare qui la forma e il corso delle antiche colate glaciali che hanno escavato le conche, smussato le forme di una roccia ora friabile (micascisti), ora più resistente (gneiss) creando uno svasato altopiano dove stanno alcuni tra i migliori pascoli delle Orobie. L'accesso è relativamente agevole, per bei sentieri, dal parcheggio in fondo alla Val Lunga (1400 m ca.), passando per la Casera Porcile (1800 m), in una prima conca prativa, donde poi la vallata

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si apre a ventaglio, con varie possibilità di salita.”

Dai 2290 metri del passo di Porcile ci affacciamo sulla Val Brembana e possiamo vedere, più in basso, la località turistica di Foppolo (m. 1500). Sul passo troviamo tre cartelli. Quello che si riferisce alla direzione dalla quale proveniamo dà i laghi di Porcile a 30 minuti (segnavia 201), il passo di Tartano ad un’ora (segnavia 201) e la Ca’ S. Marco a 5 ore (segnavia 101). Nella direzione della Val Brembana, invece, due cartelli danno rispettivamente il monte Cadelle ad un’ora e Foppolo (segnavia 201) ad un’ora e mezza. La cima delle Cadelle è la massima elevazione del crinale che scende, alla nostra sinistra, al passo (cioè da est). Non lo possiamo raggiungere seguendo dal passo il crinale, ma sfruttando il versante che guarda alla Val Brembana. Il sentiero per Foppolo comincia a scendere assai ripido, passando a sinistra di un corpo franoso, per poi volgere a sinistra e portarsi ad una baita isolata (m. 2230), dalla quale si stacca, sulla sinistra, il sentiero, segnalato, per la cima. Possiamo però evitare la noiosa discesa puntando, appena sotto il passo, subito a sinistra e tagliando il ripido versante erboso, fino ad intercettare questo sentiero. È possibile farlo utilizzando una traccia di sentiero stretta ma continua, che si stacca, appunto, sulla sinistra, non segnalata, dal sentiero principale, e che non presenta particolari problemi (se non quello di fare un po’ di attenzione tagliando un modesto dosso con roccette). Raggiunto un piccolo pianoro con un ometto, procediamo fino ad attraversare un valloncello, oltre il quale intercettiamo, ad una quota approssimativa di 2300 metri, il sentiero che sale da destra; immettendoci in quest’ultimo, troviamo alcuni segnavia (bolli gialli e rossi) e saliamo sul versante a sud-ovest della cima, tagliando da destra a sinistra un corpo franoso. Il sentiero, ben visibile, punta ad uno sperone di rocce scure; prima di raggiungerlo, però, piega a sinistra e risale, zigzagando, il canalone erboso alla sua sinistra, proponendo per sei volte la sequenza di tornantini dx-sx. Il fondo è buono e la pendenza non eccessiva, per cui salire, se non proprio un piacere, quantomeno non è una pena. Al settimo tornante dx ci portiamo alla sommità arrotondata ed erbosa del salto roccioso (attenzione, in discesa, a ricordarsi di piegare, qui, a destra, evitando di proseguire diritti per non raggiungere il ciglio del salto). Pieghiamo, quindi, di nuovo a sinistra, salendo per un breve tratto, ed ancora leggermente a destra. Nella salita, l'angelo è scomparso: non si vede più, anzi, non si vede ancora. Pochi tornanti ci permettono di superare un corpo franoso e di raggiungere il crinale fra Val Brembana e Val Tartano, in corrispondenza del punto di arrivo di un canalino che sale fin qui dal versante valtellinese: è possibile, ma sconsigliabile, usarlo come via direttissima per la salita o la discesa. In basso il canalino, percorso da una traccia, termina ad una faticosa fascia di massi, nei pressi dei resti delle miniere di siderite che furono sfruttate fino alla fine del 1700, quando, anche per l'esaurirsi della legna per i forni, cessarono di essere redditizie. Superata la fascia di massi (che, racconta una leggenda, sono incessantemente percorssi da un'anima confinata qui, un "cunfinàa", il Rigadìn, che frodò la comunità di Colorina favorendo quella di Fusine), raggiungiamo la piana che si trova ai piedi della

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valle dei Lupi (forse quel che resta del quarto dei laghi di Porcile, dopo un progressivo interramento); da qui, piegando a sinistra, in breve siamo al lago Grande.

Ma torniamo alla salita. Ormai ci siamo: pochi passi ancora sul crinale, e siamo alla cima delle Cadelle . Ed ecco l’angelo, anzi, l’arcangelo Gabriele nella singolare raffigurazione trifronte, che veglia dal 1997 su Val Tartano, Valmadre e Val Brembana. Ci accoglie con la sua mano sinistra, protesa verso di noi, quasi a volerci sollevare, come a dire: sei salito fin qui, ora sali più in alto; la mano destra, infatti, è rivolta al cielo. Bellissima la sua raffigurazione. Al posto delle ali, una suggestiva spirale che sembra per un verso descrivere il movimento che dalla terra ci innalza al cielo, per un altro descrivere la traiettoria che annulla la minaccia del cielo turbolento, scaricandone a terra gli strali, i fulmini (ed in effetti la statua funziona anche da parafulmine). Sulla spirale la frase latina "Gabriel, angele Dei, qui custoses mei", cioè "O Gabriele, angelo di Dio, che sei il mio custode". La mente va ad un antico insegnamento del catechismo, quello dell'angelo custode, edalla vecchia preghiera che ci hanno insegnato a rivolgergli: "illumina, custodisci, reggi, governa me..." Chi se ne ricorda più?Accanto all'angelo, uno zaino con la picozza, come un fardello deposto, un peso dal quale siamo sollevati. Sotto la base della statua, una targa sulla quale sta scritto: "Angelo delle Cadelle - Là in alto si tocca il cielo con un dito e ci si sente più vicini a Dio. la montagna è uno dei mezzi che ti permette di scoprirlo; se non immediatamente, lo capisci con il tempo (CesarottoRenato)". Uno sguardo al cielo, ma anche allo splendido panorama che si innalza verso il cielo. A nord, da sinistra, si propongono le cime della Costiera dei Cech, seguite dal gruppo del Masino, che si propone nella sua integrale bellezza, con i pizzi Porcellizzo (m. 3075), Badile (m. 3308), Cengalo (m. 3367) e del Ferro (occ. m. 3267, centr. 3289 ed or. m. 3234), le cime di Zocca (m. 3174) e di Castello (m. 3386), la punta Rasica (m. 3305), i pizzi Torrone (occ. m. 3349, cent m. 3290, or. m. 3333), il monte Sissone (m. 3330) ed il monte Disgrazia (m. 3678). Segue la testata della Valmalenco, che propone, da sinistra, il pizzo Gluschaint (m. 3594), le gobbe gemelle della Sella (m. 3584 e 3564) e la punta di Sella (m. 3511), il pizzo Roseg (m. 3936), il pizzo Scerscen (m. 3971) il pizzo Bernina (m. 4049), i pizzi Argient (m. 3945) e pizzo Zupò (m. 3995), la triplice innevata cima del pizzo Palù (m. 3823, 3906 e 3882), ed il più modesto pizzo Varuna (m. 3453). Proseguendo verso destra, si scorge il gruppo dello Scalino, con il pizzo Scalino (m. 3323, la punta Painale (m. 3248) e la vetta di Ron (m. 3136). Sul fondo, ad est, la triade Ortles, Zebrù e Gran Zebrù ed il gruppo dell’Adamello. A sud-est, sud e sud-ovest è tutto un susseguirsi di scenari, fuga di quinte, cime dei settori orobici centro-orientale, centrale ed occidentale, fra i quali spicca, a destra del pizzo di Coca, l'arrotondato e regolare cono del pizzo del Diavolo di Tenda. Già, il diavolo, anche lui un angelo. ottimo, infine, il colpo d’occhio su Foppolo e la Val Brembana. Possiamo, quindi, riposare sotto la grande statua dell'Arcangelo, dopo circa 3 ore e mezza di cammino, necessarie per

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superare un dislivello approssimativo di 1000 metri. Ora che le gambe sono ferme, lasciamo vagare i pensieri. Al passato, al presente, al futuro, alla fragilità ed all’incertezza delle cose umane. E, parlando di angeli, forse verrà in mente la voce “angèl” del vocabolario dei dialetti della Val Tartano di Giovanni Bianchini. Vi si legge che “angel”, oltre che angelo, significa, anche bambino morto, perché si credeva che i bambini morti in tenerissima età diventassero angeli. Nelle famiglie numerose, si aggiunge, queste morti non era viste come una disgrazia, perché significavano, nel contesto di un'economia di stentata sussistenza, una bocca in meno da sfamare. Così, il complimento fatto ad una donna con prole già numerosa, ed al suo bambino, nato da poco e tenuto fra le sue braccia: “Che bèl facii de àngel”, era, implicitamente, un augurio che potesse morire presto. Tempi terribili,

spesso troppo superficialmente idealizzati.

APPUNTI SULLA “LINEA CADORNA” NELLE ALPI BERGAMASCHE Una lunga linea di difesa per arginare l'eventuale attacco austriaco in caso di sfondamento dello Stelvio o della neutrale Svizzera. Trincee, postazioni per l'artiglieria, cannoniere, mulattiere militari, piccole casermette. I resti della linea Cadorna, costruita durante la Grande Guerra, sono ancora lì Diroccati, in alcuni casi irriconoscibili, spesso confusi con recinti per il bestiame o con segnali di confine. Eppure ci sono ancora. A testimonianza di un conflitto tristemente conosciuto come la «guerra di trincea», dove i soldati, spesso arruolati tra la gente del posto, hanno protetto il territorio italiano esposti a temperature bassissime o sotto il cocente sole d'estate a duemila metri di quota, ma spesso anche più in alto. Fu una lotta di logoramento vissuta all'insegna di un'eroica difesa. E sul fronte lombardo, presidiato da un paio di divisioni e da pochi battaglioni, la strategia del piano Cadorna fu incentrato proprio su una rigorosa difensiva. Sulle montagne bergamasche, anche se il nemico non è mai arrivato, le tracce dei militari si possono trovare su quasi tutti i passi dell'alta Valle Brembana che guardano verso la provincia di Sondrio. In modo evidente e meglio conservate ci sono soprattutto nei dintorni del Passo di Verrobbio (zona Ca' San Marco), ma anche ai Passi di Lemma (sopra San Simone) e Dordona (sopra Foppolo). Il tratto occidentale delle Orobie apparteneva infatti alla seconda linea, fatta costruire dal generale Cadorna che temeva un attacco allo Stelvio o al Tonale. Ma anche la Svizzera non era molto sicura. In fondo il precedente del Belgio, neutrale ma invaso dai tedeschi, non lasciava tranquilli. Nel caso le truppe austro-ungariche avessero sfondato, proprio come accaduto a Caporetto, la via naturale dell'invasione sarebbe stata la Valtellina e quindi il Lario e le Orobie occidentali attraverso i passi dell'alta Valle Brembana. Praticamente impossibile, invece, il passaggio nelle Orobie orientali con le sue vette impervie e quindi impraticabili.

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L'ordine di Cadorna, con l'inizio della prima guerra mondiale, fu dunque quello di costruire e ancora costruire. Così, dall'Aprica fino al Lario, ma anche oltre, dove le montagne assumono quasi le sembianze di colline, fu realizzata una fitta ragnatela di trincee e di postazioni d'artiglieria. Una ragnatela spezzata qua e là dalle vette, con camminamenti scavati nella roccia e piccole caserme in pietra per il riparo dei soldati. Sulle Orobie bergamasche, i resti più notevoli si trovano al Passo di Verrobbio dove è ancora possibile camminare fra letrincee per una cinquantina di metri. Si parte da Ca' San Marco dove, sul lato ovest del piazzale antistante l'antico edificio si imbocca il sentiero n. 101; delle Orobie occidentali. Dopo una decina di minuti in piano sopra la casera di Cul, si lascia il 101 che continua in Valle Ponteranica, per salire sulla destra con la mulattiera militare contrassegnata dalla bandierina del CAI con il numero 161. Dopo circa un'ora e dieci minuti di cammino, in cima al passo che domina la Valle di Bomino (una diramazione della Valle del Bitto di Gerola in provincia di Sondrio), ci si trova improvvisamente in un museo all'aperto. Un museo senza indicazioni, senza biglietto d'ingresso, ma che parla di antiche fatiche e di lunghe giornate trascorse con gli occhi, ma anche i fucili, puntati verso la valle sottostante. L'ambiente è dei più suggestivi. Poco prima di raggiungere il passo, il sentiero tocca sulla sinistra una vecchia costruzione in pietra, ora diroccata, praticamente un ammasso di pietre. Ma la pianta, e i resti di muri a secco ancora intatti fanno intravedere un'imponente precisione nella costruzione che non lascia dubbi. Non sì tratta di un rifugio per mandriani, ma di una caserma. L'edificio è stato costruito sul versante bergamasco del passo, quello più protetto, sovrastato dalla cresta scoscesa del Monte Ponteranica. Proseguendo e, raggiungendo il passo, dal sentiero si aprono due ali di trincee in pietra. Sulla destra i camminamenti passano nella roccia, attraversando una piccola galleria, e raggiungono una postazione d'artiglieria dove, nella parete della montagna, sono state realizzate due "finestre" che guardano nella vallata sottostante. I due fori servivano da cannoniere. A fianco della piazzola si apre una grotta a fondo chiuso utilizzata come riparo e deposito di munizioni. L'ala che si dirama sulla sinistra del sentiero, invece prosegue lungo il passo seguendone la conformazione e terminando in un ampio spazio semicircolare, scavato nella terra e rinforzato con muri in pietra, utilizzato come fortino. I camminamenti sono ancora ben conservati e, lungo gli scavi, è ben visibile la linea di pietra utilizzata come sedile o, all'occorrenza, come pedana per osservare la valle. Anche se le trincee hanno resistito, oltre che alla guerra, anche a quasi un secolo di intemperie, ormai mostrano tutta la loro vetustà. Servirebbe un intervento di recupero. In fondo, anche se non si è mai combattuto, quei cimeli parlano della nostra storia. Forse basterebbe un cartello per ricordare all'escursionista che quel luogo merita maggior rispetto, non solo per l'ambiente che con il laghetto blu crea un quadro naturale di rara suggestione, ma anche per il suo passato, per ricordare quegli uomini che lassù hanno trascorso le loro giornate in un ambiente di montagna, con tutte le sue difficoltà e insidie. Le opere dei battaglioni della prima guerra mondial e sono visibili a nche sopra S. Simone e Foppolo Oltre al Passo di Verrobbio, i resti della Grande guerra sono visibili anche in

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altre zone della Bergamasca. Raggiungerli non è un problema. Tutti gli itinerari sono semplici e possono essere percorsi anche con bambini. Restando in zona Ca' San Marco si può raggiungere l'Alpe Cul a 2070 metri di quota incontrando sul sentiero numerose testimonianze di origine militare. Si parte dall'edificio, da poco riaperto della Ca' San Marco e si segue la Priula, l'antica via che univa la Bergamo veneta alla Rezia. Poco prima di raggiungere il Passo San Marco ci si imbatte nei ruderi di alcune caserme costruite appositamente per controllare il valico. Una volta arrivati al passo si prende ad ovest un sentiero costruito dai soldati. Lungo il tragitto che porta all'Alpe Cul si attraversano un paio di gallerie di ricovero, alcune baracche in pietraormai crollate e, sulla sommità di un dosso, un tratto di trincee tuttora ben conservato. Arrivati all'Alpe Cul, si può proseguire fino al Passo di Verrobbio, ma il passaggio in cresta è abbastanza impegnativo e richiede attenzione e una buona conoscenza della montagna. La gita fino all'Alpe Cul, invece, è in totale relax. Il tempo di percorrenza infatti nonsupera l'ora e il dislivello in salita è di solo 250 metri. Lasciata la Valle di Mezzoldo, l'appassionato di cimeli militari può trasferirsi a Valleve scendendo fino a Piazza Brembana e quindi risalire un altro ramo della Valle seguendo le indicazioni stradali per S. Simone. Giunti al piazzale degli alberghi si può parcheggiare l'auto oppure si può proseguire sulla strada sterrata che sale fino alla Baita Camoscio. Da qui si dirama il sentiero n. 116 che porta al Passo di Lemma. Inizialmente il tracciato corrisponde con il n. 101, ma dopo alcune centinaia di metri, superata una malga e una serie di alveari, si deve abbandonare il 101 e prendere sulla sinistra il 116. Il sentiero comincia a salire dolcemente a zig zag mantenendosi sempre sopra la vallata di S. Simone disseminata di impianti sciistici. Poco prima del passo si incontrano i ruderi di una caserma e, giunti alla Bocchetta di Lemma, proprio nell'intaglio della roccia sulla sinistra si apre una trincea con feritoie chiuse. Seguendo lo scavo si sale lungo la cresta fino a raggiungere una piccola caverna di riparo. I camminamenti si interrompono e solo più in basso è possibile vederne un altro tratto. La durata dell'escursione, con passo lento e regolare, è di un'ora e mezza, mentre il dislivello in salita è di 387 metri. Quindisi tratta di una passeggiata accessibile a tutti. Altrettanto facile è la gita al Passo di Dordona dove si possono ammirare notevoli resti di fortificazioni militari della Grande Guerra. Il punto di partenza è Foppolo, vicinissimo a S. Simone dove si lascia l'auto nei pressi dell'albergo K2. Da lì si imbocca ilsentiero n. 202 che sale al Passo di Dordona.L’escursione non è faticosa e richiede un'ora e un quarto di cammino per un dislivello in salita 411 metri. Una fatica che verrà ripagata dall'arrivo al passo dove sono tuttora conservati notevoli resti di trincee e fortificazioni militari con un bunker scavato nella roccia. Le trincee furono costruite da manovali del posto c he vestivano la divisa degli Alpini Le trincee che, nel silenzio dei loro duemila metri di quota, dominano l'alta Valle Brembana portano il segno di un'attività frenetica iniziata nel 1916 e

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conclusa o meglio incompiuta nei primi mesi del 1917. Appena scoppiata la prima guerra mondiale il generale Cadorna ha messo in atto il suo piano di difesa. Un piano che aveva il proprio perno nella costruzione di una lunga linea fortificata in grado di tamponare un attacco dai Grigioni e quindi in Valtellina, «Le trincee furono realizzate dai battaglioni della Milizia territoriale, in pratica soldati arruolati sul posto, al massimo entro i confini regionali aiutati da maestranze locali – spiega Daniele Grioni, un ricercatore lecchese di fortificazioni militari - mentre le strade militari e le opere in caverna erano state affidate a imprese civili. Si trattava di una lunga linea che dal Varesotto attraversava la Valtellina per chiudersi al campo trincerato del Mortirolo». Il lavoro iniziò dal Verbano nel 1916, dove le fortificazioni sono più sofisticate e gli scavi sono stati rinforzati con coperture in calcestruzzo armato. Poi i cantieri si spostarono verso est fino ad arrivare nelle nostre valli dove le trincee sono sostanzialmente in pietra con muri a secco. «Iniziati con strutture imponenti - dice Daniele Grioni - i lavori sono poi continuati con materiali sempre più poveri fino ad arrivare dalle nostre parti quando ormai la guerra era praticamente spostata sul fronte orientale. Ecco perché le nostre trincee sono solo in pietra. Inoltre nelle zone a cavallo tra Valtellina, Lecchese e Bergamasca arrivavano solo unità di seconda scelta, messe in piedi all'ultimo momento». Nella «linea Cadorna», l'alta Valle Brembana faceva parte del settore «Mera-Adda» che comprendeva Valchiavenna e Valtellina. L'intera area era presidiata dal 77°, 176° e 242° battaglione Milizia territoriale, dalle Compagnie alpine Morbegno (283°) , Tirano (284°), Edolo (285°) e Ves tone (286°), da quattro drappelli di alpini sciatori e d al 18° battaglione della Regia Guardia di Finanza. Tutti i soldati dipendevano dal Comando occupazione avanzata frontiera nord che corrispondeva con la «linea Cadorna». Il Comando venne disciolto il 10 gennaio 1919, ma le nostre trincee erano rimaste sguarnite già parecchio tempo prima. Durante la guerra gli schieramenti rimasero compatti fino al maggio 1917, poi dalla «Cadorna» la Fanteria di linea venne inviata al fronte e in loro sostituzione arrivarono sei battaglioni della Guardia di Finanza. Più tardi anche le Fiamme Gialle finirono al fronte e le trincee dell'alta Valle Brembana, così come quelle di tutto il settore «Mera-Adda», rimasero nelle mani di alpini genio, artiglieria e compagnie di presidio, In pratica la linea «Cadorna» era diventata una struttura, più che di difesa, di ripiego per i soldati provenienti dal fronte.

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IL CAI MANERBIO NELLA STAMPA

Esperienza di riabilitazione Esperienza di riabilitazione Esperienza di riabilitazione Esperienza di riabilitazione psichiatrica e montagnoterapia alle psichiatrica e montagnoterapia alle psichiatrica e montagnoterapia alle psichiatrica e montagnoterapia alle

Case di BlesCase di BlesCase di BlesCase di Bles GLI SPAZI APERTI DELLA NATURA Da Canè che è frazione di Vione, quota 1490, il promo passaggio è stata la camminata di due ore, e anche più, per arrivare alle Case di Bles, 600 metri più in alto. Larici e abeti, la formica rufa, genziane e rododendri: alle spalle delle Case la cima Bles; davanti lo spettacolo dell’Adamello. “Due mondi geologicamente differenti” spiega Fabrizio Bonera, medico, responsabile del Gruppo CAI di Manerbio, esperto di montagne e di tanto altro. Comunque alla geologia, non sempre facile da ritenere, fa da sponda la bellezza dei luoghi. Sistemazione nella grande camerata e nel bivacco adiacente. Un tè caldo, anzi bollente, il paiolo di rame degli Alpini di Vione pronto per la polenta della cena, e, intanto “il cerchio”. Lo introducono gli amici gemellati della Sardegna con un vigoroso inno, fatto proprio da loro, “Andales de amistade”, cammini di amicizia per vincere la paura. Ignazio conduce con piglio, Fulvio accompagna; lello e marco danno sostegno e stimolo al dire dei ragazzi. Ma sono soprattutto loro, questi giovani quasi adulti con sofferenza mentale, del Centro o dell’Area salute mentale ad esporsi. Dicono delle loro emozioni, dalla mattina fino a quel momento, ed usano parole che fanno venire a tratti la pelle d’oca. Intanto Angelo, in silenzio ha preparato la polenta; Beppe ed Alberto hanno fatto arrostire salamelle e costine. Il giorno dopo, la straordinarietà di Cima Tremonti e di quelle montagne per escursionisti esperti, come restituisce in funzione di guida Fabrizio Bonera alla sera quando si è accaldati. Terzo giorno, dunque. Peccato, la pioggia, ma va bene lo stesso. E ci si trasferisce al Bivacco Saverio Occhi, in Val Grande: lo spazio infinito dei cervi che vanno in amore a ottobre. Il giorno dopo, infine, si è a Tu, una contrada di dieci case più una chiesetta. Laggiù, Vezza d’Oglio, con i meccanici che hanno la mano di mago se si ha un problema all’automobile. [ di Lina Agnelli - da Giornale di Brescia 25 giugno 2011]

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Camminare per ordinareCamminare per ordinareCamminare per ordinareCamminare per ordinare Tempo spazio e pensieroTempo spazio e pensieroTempo spazio e pensieroTempo spazio e pensiero

Il camminare, ordinatore di spazio e pensiero. Così i quattro giorni in Val Canè con punto d’appoggio presso le Case di Bles rese disponibili dal CAI di Manerbio, vissuti andando per sentieri in boschi e radure, inerpicandosi su percorsi impervi, toccando la cima e ridiscendendo a valle, ecco quei giorni e quei passi, a tratti leggeri, spesso affaticati e grevi, sono stati per i camminatori di Ospitaletto e San Gavino, Cagliari, una esperienza molto bella, capace di suscitare forti emozioni e benessere. La pratica è chiamata montagnoterapia e vuole significare tutto il bene che viene dal fatto di andare per monti, tornando poi a casa. Una esperienza che, come dicono “in cerchio” le persone coinvolte, permette di trovare i propri spazi di fronte alla essenzialità della montagna, che è luogo per eccellenza. Sono spazi ritrovati che non invadono e non sconfinano. Spazi dell’uno insieme all’altro, in cordata, beneficando di quello stare insieme che dà coraggio, forza e conforto e permette di non sentirsi soli, appartenendo piuttosto a qualcuno, pur nel disagio, nella fatica di portare un peso, fosse anche quello dello zaino. Montagnoterapia, dunque, che solleva dalla sofferenza mentale e dà la speranza che i percorsi abbiano un senso, che certe esperienze siano trasformanti. Perciò, quattro giorni intensi per una sfilza di nomi, che sono tutte persone in gamba, qui suddivisi soltanto per area geografica di provenienza. Dalla Sardegna: Ketty, Efisio, Marco, Francesco, Giancarlo, Giacomo, Simone, Giuseppe, Giovanni e Daniele, con Ignazio, Antonello, detto Lello, e Sergio. Dal Bresciano, Ospitaletto, Manerbio e dintorni: Gabriele, Roberto, Angelo, Klydi, e Federico, con Fulvio, Marco e Beppe. E, ancora, Fabrizio, Alberto e Angelo. Dalla Sardegna e da Ospitaletto, persone con sofferenza mentale, insieme ai loro educatori, sostenuti da gente amica e disponibile. E’ un Centro psicosociale quello in cui operano a San Gavino Ignazio e Lello, ed è “l’Area salute Mentale della Comunità Fraternità” di Ospitaletto ad aver dato il via all’esperienza con Fulvio e marco quali propulsori. Poi, gli agganci fortunati, con Fabrizio Bonera, responsabile del Cai di Manerbio a raccogliere l’invito alla collaborazione, dando più di una mano. Subito disponibili le Case di Bles con una trantina di posti letto, allertati i solidi amici di Vione e Vezza d’Oglio –Guido e suo cugino, la Monica, Gianbattista e l’anonimo pastore di malga Tremonti – per rendere possibile il trasferimento dei viveri fino a dove un fuoristrada ce la può fare. [di Lina Agnelli – da Giornale di Brescia 25 giugno 2011]

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SALVARE LE ALPI

INQUINAMENTO, SOVRAFFOLLAMENTO E INQUINAMENTO, SOVRAFFOLLAMENTO E INQUINAMENTO, SOVRAFFOLLAMENTO E INQUINAMENTO, SOVRAFFOLLAMENTO E DETURPAMENTO DEL PAESAGGIODETURPAMENTO DEL PAESAGGIODETURPAMENTO DEL PAESAGGIODETURPAMENTO DEL PAESAGGIO

La montagna è diventata un “prodotto” per il grande pubblico. Il cliente tipo? Il “cittadino annoiato”, stressato, che ha bi sogno di evadere ma non vuole rinunciare alle comodità. Oggi le Alpi sono come un grande malato i l cui quadro clinico è in costante peggioramento: occ orrono provvedimenti di emergenza prima che sia troppo tar di. Parola di Reinhold Messner.

Le parole e la musica si sarebbero offerte spontaneamente durante

un’escursione solitaria “Là su per le montagne”. Così il mitico Toni Ortelli, scarpinando “tra boschi e valli d’or”, ha rubato al vento La montanara (estate 1927), il più famoso tra i canti di montagna, uno di quelli che l’immaginario popolare ha fatto propri, come se fossero sue creature. A farne un successo internazionale ci pensò il Coro della Sat, che lo incise nel 1933: le sue note risuonarono persino nella sala dei Nobel a Stoccolma, quando fu premiato Salvatore Quasimodo.

Ha ormai settantacinque primavere, ma non è certo da pensione. Oggi, non c’è coro alpino che non l’abbia nel suo repertorio, o comitiva di turisti che non sappia improvvisarlo. Basta che qualcuno lo intoni ed ecco che tutti, grandi e piccini, sono pronti a cantare. “La montanara ohè…”, e chi non la sa? Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato, sembra che la musica non sia più la stessa.

Il fatto è, vecchia cara Montanara, che la montagna non è più quella che canti tu. “Tra l’aspre rupi” e i “rivi d’argento”, proprio là dove echeggiava il tuo celebre “cantico d’amore”, oggi rombano i motori diesel che muovono i gruppi elettrogeni: senza di essi non sanno più vivere le tue “valli d’or”, oltraggiate dal cemento e sfigurate dalle piste da sci. I tuoi boschi sono invasi da orde di escursionisti che si danno convegno nelle aree di ristoro camuffate da rifugi alpini, con tanto di musiche e menu a la carte. Per non dire del via vai di cabine - o, peggio ancora, di elicotteri - che fanno la barba ai tuoi pini, catapultando tra le vette una moltitudine variopinta di sciatori, abbigliati all’ultima moda.

Altrove poi non c’è nemmeno questa nota cromatica a mitigare l’impatto sull’ambiente, ma il grigio cupo di una lingua d’asfalto e una processione di automobili che vanno a scaricare là dove osano le aquile un miscuglio “esplosivo” di uomini, donne, bambini e… monossido di carbonio.

Inquinamento, sovraffollamento, deturpamento del paesaggio? Gli amministratori delle aree alpine non sembrano preoccuparsene: se una strada a pagamento si arrampica fino ai ghiaioni delle Tre Cime di Lavaredo i

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vantaggi economici sono ben superiori ai danni ambientali. E poi, la montagna è di tutti e quindi deve essere accessibile a tutti, senza fatica e in poco tempo. Basta pagare il pedaggio.

Così le Alpi si stanno rapidamente trasformando in un enorme parco divertimenti. Parola di Reinhold Messner. Il famoso alpinista ha recentemente dato alle stampe Salvate le Alpi (Bollati Boringhieri), un libro-appello nel quale difende le sue idee sull’uso “ecocompatibile” della montagna.

Un’immensa palestra Fino a qualche decennio fa andare in montagna non faceva “tendenza”.

Le terre alte erano violate solo per necessità o per passione, due condizioni che mettevano le ali ai piedi e rendevano immuni a fatiche e difficoltà. Oggi, invece, il turismo di massa ha conquistato anche le vette, aprendo a chiunque l’accesso ad intere regioni rocciose. Basta salire su una funivia e il gioco è fatto, in un batter d’occhio ci si trova dove con le proprie gambe mai si sarebbe in grado di arrivare.

Vestito e attrezzato di tutto punto, con giacca in gore-tex e scarponcini water-resistent, il novello montanaro sale in alta quota per fare dello sport e per divertirsi, per soddisfare la sua sete di competizione; va a caccia della prestazione con lo stesso spirito con cui va in palestra a sollevare pesi o in piscina a nuotare. E la cosa non riguarda solo sciatori e scalatori. Nell’immensa palestra alpina sono nate numerose altre discipline: c’è chi dentro una canoa si fa sballottare dall’impeto dei torrenti, chi pedala su una mountain bike su e giù per i sentieri, chi si lancia nel vuoto col parapendio o col deltaplano, oppure saldamente ancorato ad una corda elastica (bungee jumping). Tutte pratiche che richiedono una buona condizione atletica, forse del coraggio, sicuramente una certa dose di incoscienza, ma che con l’alpinismo hanno poco a che fare.

“L’aspre rupi” e i “rivi d’argento” si sono trasformati nella nostra coscienza in enormi attrezzi sportivi, con la benedizione dei business-men del turismo, che per vendere al meglio il loro prodotto

non esitano a preconfezionarlo, secondo le richieste del mercato. Per attirare la massa, bisogna garantire un ambiente confortevole, la montagna va “preparata”, resa innocua secondo l’equazione meno rischio uguale più divertimento. Così, oltre ai mastodontici impianti di risalita e a quelli per la “neve programmata”, si moltiplicano un po’ ovunque le “armature protettive”, gli sbarramenti contro le valanghe, i sentieri attrezzati. I ghiacciai vengono periodicamente sorvolati per evidenziare e recintare le zone pericolose. Gli scalatori possono assicurarsi ai chiodi copiosamente e saldamente infissi nella roccia, e anche i meno esperti possono contare su scalette metalliche e ponticelli sospesi per superare i punti più difficoltosi. Tutti quanti poi sanno benissimo che in caso d’emergenza basta estrarre dallo zaino il cellulare e chiamare l’elicottero di soccorso.

Montagna a numero chiuso? In alta montagna - sentenzia Messner - l’uomo ci deve andare con le

proprie gambe. E quindi, “basta infrastrutture sulle terre alte. Basta funivie, seggiovie, bidonvie, skilift, piste, strade, rifugi, attrezzature fisse. Basta aprire sentieri, lordare le rocce di segnavia. Magari con quella scusa della sicurezza che ha il solo merito, anzi demerito di portare più gente in alta quota”.

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La conservazione delle Alpi, e sulla loro scia di tutte le altre grandi montagne della Terra, fa a pugni con l’apertura al turismo di massa. “I beni d’alta quota, come lo spazio, la quiete e la natura primigenia hanno valore se rimangono accessibili ai pochi individui che si sottopongono alle fatiche e ai pericoli per raggiungere luoghi estranei all'uomo”.

Insomma, se le Alpi saranno abbandonata nelle mani dell’industria del turismo non tarderanno ad essere “consumate” dall’incoscienza e dall’incuria dei loro “fruitori”. Diventeranno, come sta già succedendo, un immenso spazio ricreativo, a spese delle specie animali e vegetali che hanno trovato qui il loro ultimo rifugio, ma non senza conseguenze sulla vita delle pianure. Non va dimenticato infatti che i ghiacciai alpini sono il grande serbatoio di acqua potabile a cui attingono Milano, Torino, Vienna e Monaco, le città situate ai margini della catena montuosa.

Occorre una drastica inversione di tendenza, una svolta culturale che deve coinvolgere in primo luogo i club alpini e le associazioni che si occupano della promozione e tutela delle Alpi. L’alta quota deve tornare ad essere “un lusso” concesso a pochi e precluso alla massa.

Una proposta elitaria? Certamente sì, ma anche chi storce il naso davanti all’idea del “numero chiuso” dovrà riconoscere che la situazione è grave e occorrono provvedimenti di emergenza. Le Alpi sono come un grande malato il cui quadro clinico è in rapido peggioramento. Messner, pur lontano da ogni fondamentalismo ambientalista, propone una terapia radicale, che taglia i viveri alla “malattia” rimettendo in discussione il rapporto tra uomo e montagna.

La medicina è di quelle che funzionano. E il medico, fino a prova contraria, conosce bene il suo paziente. È meglio iniziare la cura, prima che sia troppo tardi.

Giovanni Meneghello

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NATURA DEL MESE

Paradisea liliastrumParadisea liliastrumParadisea liliastrumParadisea liliastrum La mente corre a tutti gli incontri fatti con questo fiore, per la verità non molti. L’ultimo avvenne proprio in occasione della escursione, trattata in questo bollettino, al Rifugio Benigni. Ma ricordo perfettamente due incontri fatti alle pendici del Monte Torsoleto, lungo la regolare mulattiera militare che sale da Loveno e lungo il sentiero che da Campolaro conduce in Val di Stabio. La mia relativa rarità di incontro traduce in effetti la considerazione fatta dai botanici che trattasi di una pianta non molto frequente. Anche Lil de Koch, nella sua Bilderflora des Monte Baldo (1993) la considera “rara”. Paradisea liliastrum è una specie elegante, nativa dei pascoli alpini dell’Europa meridionale. Il nome comune, giglio di San Bruno, si riferisce allo scopritore, che la storia ci tramanda appartenente, nell’XI secolo, all’Ordine dei Certosini la cui casa madre si trovava nelle Alpi francesi. Essa è annoverata dal greco Dioscoride nel suo De materia medica per le sue presunte proprietà medicinali. Debbo tuttavia confessare che, nonostante tutti i miei sforzi, non sono stato in grado di trovare studi che parlassero di botanica farmaceutica relativa a questa pianta. Né, mi pare, esistono studi di fitochimica attinenti ad essa. Tanto vale anche per eventuale usi di tipo alimentare. In definitiva, Paradisea liliastrum, tanto bella e delicata, che ci fa pensare ad una letteratura di fantasia e quindi, per il suo aspetto, ad una sorta di simpatia con il mondo magico medicamentoso, si presenta con un background talmente povero che ci lascia un tanto disarmati. Il nome del genere deriverebbe dal cognome del conte Giovanni Paradisi al quale la pianta venne dedicata dal botanico G. Mazzuccato nel secolo XVIII; per altri allude alla bellezza paradisiaca del fiore. Il nome specifico sta ad indicare la somiglianza dei fiori con quelli del giglio bianco, somiglianza per altro ingannevole. Anche nel caso di Paradisea liliastrum la classificazione offre tutto quel grado di confusione di cui solo la botanica sa essere un campione. Dapprima venne inclusa nella famiglia delle Antheraceae. Secondo la classificazione filogenetica APG III del 2009, l’intera famiglia viene incorporata, insieme ad altre monocotiledoni, nelle Asparagaceae. Tutte le mie flore , anche le più recenti, la annoverano nelle Liliacaee (Flora alpina, Flora Helvetica, Flora Italica etc). Io sono molto affezionato al mio vecchio Zangheri che, se anche superato nel tempo, basta e avanza per un botanico ruspante come me. Quindi, famiglia delle liliacee, genere Paradisia: pianta a fusto nudo, cilindrico, liscio con foglie tutte lineari e radicali, larghe 3-8 mm, fiori bianchi e riuniti tutti in grappolo terminale, unilaterale e largamente imbutiformi, con le divisioni libere ma avvicinate alla base e formanti un tubo lungo e stretto. Preferisce i prati, i pascoli, i luoghi selvosi del piano montano superiore ed inferiore. Trattasi di una geofita perenne con antesi da giugno a luglio.

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Il giardino botanico Paradisia, in Valle d’Aosta, ha preso il nome dalla Paradisea liliastrum.

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LE BUONE LETTURE SILK ROAD AUTORE: Bertram Job FOTOGRAFA : Alessandra Meniconzi EDITORE: Feierabend : [email protected] 295 x 270 mm - 260 pagine, ca. 200 foto . Nella mia mappa dei sogni c’era l’idea di pedalare lungo le vie carovaniereche attraversano le remote ed isolate valli distese ai piedi delle imponenti catene montuose dell’Hindukush, del Karakorum e del Pamir. Vie che collegano l’Oriente e l’Occidente: Vie del corallo, della porcellana, delle spezie, dell’incenso e ...della seta. Antichi percorsi che hanno costituito per secoli i tragitti utilizzati da guerrieri, mercanti, ambasciatori, viaggiatori, missionari e pellegrini, che con le loro carovane si avventuravano in terre sconosciute, paesi lontani e affascinanti, abitati da popoli bellicosi, demoni e fate. Attraverso questi canali di scambio commerciale oltre le merci come seta, spezie, polvere da sparo, pietre preziose si propagavano nuove tecnologie, idee religiose e politiche. Così un po' casualmente mi sono ritrovata a pedalare in Turchia, nel Caucaso, in Asia Centrale, nel Pakistan, in Cina e in Tibet. Viaggi che mi hanno portato a raccogliere non solo foto paesaggistiche ma pure documenti di vita e tradizioni dei popoli che vivono lungo l'antica carovaniera utilizzata anche da Marco Polo. Questo in sintesi quanto dice l’autrice delle fotografie riportate in questo bel libro. Ma non si tratta solo di un libro fotografico. La documentazione è molto ben curata sia dal punto di vista antropologico che etnografico. La bibliografia è ampia. Da tutto ciò, oltre al piacere della lettura dei testi e alla felice collocazione delle immagini, ne scaturisce un testo non solo da leggere ma anche semplicemente da consultare. Unica nota negativa, che non riguarda il lavoro prodotto dai due autori, è la difficile reperibilità, essendo il volume distribuito lungo canali non commerciali.

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LA FOTO DEL MESE

In direzione della Corna della Ca di Camocc (m 3020 ) - Parco nazionale dello Stelvio.

"L'Inferno, e ancor più il Purgatorio, celebrano la camminata

umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede e la sua forma. Del

passo, congiunto alla respirazione e saturo di pensiero, Dante

fa un criterio prosodico. Egli segna l'andare e il venire... In

Dante, filosofia e poesia sono sempre in cammino, sempre in

piedi" [di Osip Mandel'stam, citato da Fabrizio Bonera in

"Dall'Abisso alla Vetta", serie di lezioni dantesche - CAI

Manerbio 2010/2011]