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Salvatore e Maria Giordano NOSTALGIA DEL PAESE Ricordi di migranti Web Edit

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Salvatore e Maria Giordano

NOSTALGIA DEL PAESE

Ricordi di migranti

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SALVATORE GIORDANO, autore – insieme alla sorella

MARIA - dei racconti qui raccolti, è nato in Sicilia, a

Pietraperzia (EN), dove è vissuto fino all’età di vent’anni

circa. Si è poi trasferito a Torino, città in cui vive, ora in

pensione, dove ha esercitato la professione di maestro e

successivamente quella di Dirigente Scolastico.

Nota autobiografica

Pochi anni della mia vita ho vissuto a Pietraperzia, rispetto a quelli ormai passati fuori dal mio paese, da quando lo lasciai per Torino. Ma, nonostante il radicamento nei costumi e nelle consuetudini della nuova realtà, gli impegni privati e pubblici, le nuove amicizie, gli anni trascorsi nella terra natale restano quelli fondativi di quello che sento di essere. Dalla nascita ai dodici anni, anni fondamentali, degli affetti e delle premure familiari, dei giochi, della strada, degli amici d’infanzia, della scuola; e quelli, importantissimi e non meno fondamentali dei primi, dai sedici al trasferimento, meno di un decennio, gli anni intensi delle amicizie più mature e profonde, dei ragionamenti seri, delle riflessioni che hanno indirizzato gli orientamenti e le scelte. Quegli anni, quei luoghi, quelle esperienze, quelle persone, anche se sono venute a mancare le occasioni di più frequenti contatti e comunicazioni, restano i punti fermi di riferimento della mia esistenza: basta un momento di riflessione su me stesso per constatare come immediatamente affiorino i

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caratteri e i segni della mia identità e della mia reale appartenenza.

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SALVATORE GIORDANO

INTRODUZIONE AI RACCONTI

di Salvatore Giordano

Molti ricordi risvegliò in noi quel viaggio dell’estate 2005 a

Pietraperzia dopo venticinque anni di assenza dal nostro paese.

Rivedere persone e luoghi della nostra infanzia dopo tanto tempo,

con occhi nuovi e nuovi parametri, fu motivo di varie sensazioni e di

momenti di profonda commozione. Il racconto “Storia di una tovaglia

d’altare”, di Maria, prende spunto dall’emozione da lei provata,

mentre, Domenica 21 agosto, partecipavamo alla Messa al Santuario

della Madonna della Cava, dall’aver riconosciuto, nella tovaglia che

addobbava l’altare centrale della chiesa, un lavoro di ricamo che lei

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stessa aveva eseguito in età giovanile e che mai più si aspettava di

trovare ancora.

Da tale medesima condizione emotiva nacquero anche la sua

poesia “Ritorno al mio paese” e la mia “Littra a lu me pajisi”, in

dialetto, che inviammo alla Rivista <Pietraperzia>, organo della

rinata “Accademia Cauloniana”, fondata un anno prima, che le

pubblicò. Fu in seguito a tale circostanza che Maria mi passò una

serie di appunti e di bozze di racconti contenuti in una cartellina,

memoria di eventi ed esperienze della sua vita a Pietraperzia, che

era venuta scrivendo per suo diletto, per conservarne ricordo.

Le vicende narrate richiamavano alla mente luoghi, persone,

episodi che avevano segnato la nostra esistenza in famiglia e in paese

nel corso della nostra infanzia e della nostra adolescenza; pertanto

costituivano patrimonio comune di esperienze e di affetti di tutta la

nostra famiglia. Si trattava di rivederli, riordinarli, integrarli e

raccoglierli in un unico libro. Anche questa era un’idea che a Maria

piaceva realizzare. Così ci trovammo a mettere assieme i nostri

ricordi, a precisare, ad ampliare e rielaborare il lavoro ed un certo

numero di racconti uscì sulla Rivista PIETRAPERZIA. La raccolta è

sempre in fieri; altro materiale resta da mettere a punto.

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MARIA GIORDANO

Storia di una tovaglia d’altare

di Maria Giordano

Era il 21 di Agosto del 2005, la domenica successiva al ferragosto. In pochi minuti

da Barrafranca eravamo giunti alla Cava. Considerata la rapidità con cui arrivammo,

mi fu spontaneo e immediato ripensare alle condizioni in cui si svolgevano i

pellegrinaggi parecchi anni addietro, quando le strade che dalla provinciale portano al

Santuario erano piene di sabbia. Che fatica seguire la mamma con i piedi che

sprofondavano e gli schizzi che pizzicavano le caviglie, mentre lei percorreva a piedi

scalzi i cinquecento metri dell’ultimo tratto di strada, “per grazia ricevuta”! Sapevo che

la zona era diventata luogo di villeggiatura e di soggiorno estivo di molti pietrini

benestanti che si erano fatta costruire la casa in prossimità del santuario della Madonna

della Cava; rimasi lo stesso sorpresa di vedere la chiesa gremita, anche se era domenica,

tanto da non trovare posto all’interno. Perciò dovemmo rimanere tra la porta di ingresso

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e la ringhiera assieme alle mie sorelle, mio fratello, mio cognato Alessandro e ad alcuni

altri fedeli.

Eravamo arrivati in Sicilia qualche giorno prima , il 18 agosto, ed era già stato deciso

che la domenica successiva saremmo andati a messa al Santuario della Cava. Ci

eravamo informati dell’orario: avremmo assistito alla Messa delle ore 10 così da

soddisfare l’obbligo domenicale e compiere un viaggio alla Madonna. Il luogo ci era

molto caro per tradizione familiare, nonni e genitori ce lo avevano fatto conoscere e

venerare fin dalla nostra infanzia.

Celebrò la Messa Monsignor Bongiovanni , che, durante l’omelia, ebbe parole

particolari per i fedeli venuti da fuori ai quali rivolse, con la consueta sua affabilità, un

caloroso benvenuto. A fine Messa don Giovanni intonò il Salveregina in dialetto

pietrino, seguito dal coro unanime di fervore e di entusiasmo di tutti i presenti. Non

nascondo di essermi distratta per qualche momento durante la Messa, inseguendo il

filo dei ricordi che si accavallavano, mentre guardavo gli altari laterali i quadri, gli

addobbi, i banchi con i nomi dei benefattori. Quante cose erano cambiate! L’interno

della chiesa non era più lo stesso per me che portavo impresse le immagini di altri

arredi di altri addobbi…erano spariti i segni che testimoniavano la presenza costante e

devota di nonno Pasquale. Chi sa da quanto tempo erano già stati sostituiti i tendaggi

all’altare di S.Giuseppe che egli aveva fatto fare a sue spese. Uguale, immutabile,

insostituibile, restava invece il dipinto della Vergine col Bambino sopra l’altare

centrale, a sette secoli dal suo miracoloso ritrovamento, a segnare il tempo, a unificare

nella visione di esso la continuità tra il passato, il presente, il futuro.

Una cosa mi colpì in modo particolare facendomi venire i brividi: la tovaglia che

copriva l’altare maggiore. ancora bella, ancora come nuova: possibile dopo tanti anni?

Ero ancora molto giovane quando, insieme alla mamma, la confezionai e ne ricamai

l’orlo. Ne ero rimasta orgogliosa allora; mi commosse molto ritrovarla ancora. Dopo

la Messa don Giovanni ci raggiunse nello spiazzale del Santuario mentre stavamo

salutando conoscenti e amici che avevamo avuto la sorpresa e la gioia di incontrare. Ci

abbracciò con l’ abituale ed inconfondibile sorriso nel suo viso di eterno ragazzo e ci

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rinnovò il benvenuto unito ad un bonario rimprovero per i nostri venticinque anni di

assenza. La nostra amicizia con monsignor Bongiovanni è un’amicizia di vecchia data,

siamo nati e cresciuti nello stesso quartiere; lui era Gianninu di donna Pasqualina . Sua

madre fu la sarta della nostra famiglia e,.grazie alla sua bravura, di un gran numero di

famiglie pietrine: chi desiderava l’abito da sposa fatto da lei doveva prenotarsi in

tempo. I periodi che precedevano la Pasqua e il ferragosto donna Pasqualina lavorava

giorno e notte per rispettare le scadenze e appagare i desideri delle numerose clienti. Il

suo atelier era frequentato da molte ragazze che, mentre aiutavano, apprendevano

l’arte. Era una donna molto paziente, donna Pasqualina, non si adirava mai nemmeno

con le clienti più fastidiose, e piena di fede in Dio: il sacerdozio del suo primogenito

Giannino fu per lei un premio del Signore. Ricordai queste cose a don Giovanni mentre

parlavamo facendolo commuovere. Tra l’altro portai il discorso sulla tovaglia che quel

giorno addobbava l’altare maggiore. Gli dissi che mi era piaciuta e gli chiesi se ne

conosceva l’origine. Mi spiegò che in effetti quella tovaglia era la più bella del corredo

del santuario e che per mantenerla tale e farla durare nel tempo la adoperava soltanto

per le feste solenni dedicate alla Madonna, per certi matrimoni e durante le domeniche

delle ferie estive per rendere la chiesa più bella agli occhi dei pietrini emigrati devoti

della Madonna, che tornavano in paese, e ai numerosi turisti. Circa l’origine aggiunse

che più volte se l’era chiesto, ma che di quel paramento non conosceva la provenienza.

Gli raccontai così l’origine di quella tovaglia che aveva interessato due continenti. Il

tessuto, fine e prezioso, proveniva infatti dagli Stati Uniti, l’aveva portato, in uno dei

suoi viaggi in Italia, la signora Anna Rindone Pace, nota in paese come Annuzza la

santa . In età non più giovanissima, Annuzza si era sposata con il signor Filippo Pace,

tornato dall’America dove era emigrato da giovane. Dopo tanto tempo egli aveva

deciso di riabbracciare i fratelli, con i quali era rimasto sempre in contatto epistolare, e

fare la conoscenza dei nipoti visti solo in fotografia. Ed essendo vedovo da parecchi

anni aveva anche maturato l’idea di risposarsi al paese natio. In Italia giunse

accompagnato da uno dei suoi due figli, Biagio, già in età di prendere moglie. Fu

così che, durante il loro soggiorno a Pietraperzia, con due cerimonie nuziali a breve

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distanza l’una dall’altra, padre e figlio realizzarono quello che era nelle loro intenzioni

già alla partenza dall’America: il padre portò all’altare la signorina Anna Rindone; il

figlio sposò una bella sua cugina, e mia. Dopo un breve periodo di vita insieme, gli

“americani” ripartirono da soli alla volta degli Stati Uniti per essere raggiunti dalle

rispettive spose dopo circa sei mesi , tempo allora previsto dalla burocrazia per il

rilascio del permesso di espatrio. La signora Anna Rindone Pace lasciava in Italia

l’anziano padre e due sorelle, perciò spesso faceva ritorno al paese, trascorreva qualche

mesetto con i suoi cari e faceva poi ritorno dal marito. Durante i suoi soggiorni pietrini

non mancò mai di compiere un viaggio al santuario e di far celebrare una

messa alla Madonna della Cava di cui era molto devota. In una delle sue venute aveva

portato con sé una stoffa bellissima e fine con la quale desiderava far confezionare una

tovaglia per l’altare maggiore della chiesa della Cava. Voleva così dimostrare il suo

attaccamento alla Madonna, lasciando un segno della sua devozione. Fui pertanto felice

di collaborare allora alla realizzazione del suo desiderio e di vedere, oggi , quel dono,

a distanza di tanti anni, conservato ancora e scelto per addobbare l’altare della

Madonna il giorno in cui Pietraperzia dedica la festa più grande alla Sua SS.Patrona.

«Bene», mi disse don Giovanni, «sono contento di conoscere la storia di quella tovaglia

come anche di sapere che è stata ricamata da una mia amica d’infanzia. Avrò piacere

di raccontarlo a chi me lo chiederà e a chi non me lo chiederà».

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La nascita

di Maria e Salvatore Giordano

Quella domenica 29 Giugno del …., fu la nonna paterna a dare

l’annuncio della mia nascita all’amica della mamma che la chiamava

per andare a messa, com’era nelle loro abitudini. Si sapeva che il

lieto evento era imminente ma fu ugualmente una sorpresa perché

si verificò con un certo anticipo. L’amica, nostra vicina di casa, disse

che avevo scelto un giorno particolare, il giorno della festa dei santi

Pietro e Paolo. Ed è grazie a tale particolarità che, con maggiore

facilità, ogni anno parecchi sono quelli che si ricordano, il ventinove

di giugno, di farmi gli auguri per il mio compleanno.

Mi fu dato il nome di Maria Cava che era quello della nonna

paterna: le usanze erano quelle e bisognava rispettarle, del resto

quale più bel nome di Maria? L’aggiunta di Cava al nome Maria, (il

suo significato è “della Cava”) è una peculiarità del nostro paese dove

ha grande rilevanza ed è abbastanza diffuso; il nome di Maria Cava

non si riscontra fuori da Pietraperzia, almeno credo

Il motivo di tale particolarità è legato ad un evento miracoloso,

citato anche nella Storia di Pietraperzia di Fra’ Dionigi, che si verificò

quasi otto secoli fa, intorno al 1223 presso una località di campagna

non molto distante dal paese. Tale località, nota per la presenza nella

zona di cave di pietra per costruzione e di sabbia, prima chiamata

Runzi, venne denominata Cava in seguito al ritrovamento, dopo vari

tentativi di scavo, di una immagine della Madonna col Bambino, ad

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opera di un giovane sordomuto trapanese a cui la Madonna era

apparsa in sogno. Si tramanda che il muto all’atto di scoprire

l’immagine, ricevendo miracolosamente la parola, si sia messo a

gridare ” Viva Maria SS della Cava”. La lastra di pietra su cui è dipinta

la Madonna mentre allatta il Bambino troneggia, fin dall’epoca del

ritrovamento, sull’altare del piccolo santuario fatto erigere sul luogo

e meta di pellegrinaggi da parte dei pietrini. A Pietraperzia, che

proclamò la Madonna della Cava sua patrona, si sviluppò una

grandissima devozione alla Madonna che si esprime nelle più varie

forme interessando singole persone, famiglie, organizzazioni di

categorie e sodalizi, in ogni periodo dell’anno Tra le forme più

suggestive vanno ricordati i pellegrinaggi del mese di maggio,

organizzati nei giorni di Sabato (da cui I Sabati della Madonna) dalle

varie categorie di lavoratori La festa ricorre il 15 Agosto giorno

dell’Assunta giornata nella quale la devozione dei pietrini riveste la

forma più. solenne.

Furono tutti contenti della mia nascita ed anche del fatto che fossi

una bambina, così mi è stato detto, perché nella famiglia un

maschietto c’era già, il mio fratellino Salvatore che aveva tre anni.

Era stata la nonna Maria Cava ad aiutare la mamma a farmi

nascere: la mamma in quei momenti voleva vicina la suocera che con

la sua serenità le dava sicurezza. Forse la nonna aveva anche delle

attitudini particolari se spesse volte veniva chiamata dalle sue vicine

per essere assistite nel momento del parto.

Ad assistere la mamma durante la mia nascita, assieme alla

nonna, c’era donna Antonietta Attanasio la levatrice che prima di me

aveva fatto nascere il mio fratellino e dopo di me mia sorella Ninetta.

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Michela invece, la mia ultima sorella, nata dopo la morte della nonna

paterna, venne al mondo con l‘aiuto di donna Giovannina “la Nuda”,

levatrice amica della nonna materna, nonna Nina. Donna Antonietta

Attanasio era quasi una nostra parente avendo sposato un fratello

della zia Angelina Attanasio moglie del prozio Michele Calì fratello di

bisnonna Francesca. Seppi dalla mamma che donna Antonietta

nell’imminenza di un parto veniva a dormire a casa nostra perché

sapeva che ai primi sintomi noi eravamo pronti a nascere e che se

avesse dovuto partire da casa sarebbe arrivata a parto avvenuto. Il

parto quindi si svolse in modo spontaneo, tutto andò bene come la

prima volta per la mamma, quando era nato mio fratello. Adesso

c’ero anch’io; la nonna annunciò che era arrivata una bambina e

grazie ai sonorissimi strilli che seguirono all’annuncio si capì che

avevo dei bei polmoni. Mamma finalmente poté vedere il mio viso e

fu molto felice; papà, sempre molto equilibrato nel manifestare i suoi

sentimenti, non nascose il suo appagamento. Il corredino era pronto;

la mamma si era molto adoperata a prepararlo aiutata da entrambe

le nonne. Era costituito da camicine giacchettini, scarpette, cuffiette

completati e impreziositi da delicati ricami all’uncinetto che vi aveva

applicato nonna Maria Cava, arte che aveva appreso dalla sua

mamma, la bisnonna Francesca. Nonna Nina, molto abile nel taglio e

cucito, si era invece occupata dei lunghi coprifasce completandoli con

rifiniture in pizzo, il necessario per avvolgere i neonati, i grandi

quadrati di stoffa picchè le lunghe fasce in damasco, lo stesso,

riciclato, che era servito per il mio fratellino. Crescendo ebbi modo di

ammirare parecchi capi dei corredini preparati per noi: mamma li

custodì a lungo; il ritrovarli era occasione per ricordare e raccontare

episodi dei primi momenti e dei primi anni della nostra vita e le

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persone che ci erano state vicine. Sentivo così la mamma confermare

molti particolari su di essi e sugli eventi che seguirono, che la nonna

materna mi aveva raccontato nei nostri quotidiani dialoghi: del primo

bagnetto, del piumino soffice col quale mi aveva cosparso di

borotalco, di come mi aveva essa stessa agghindato con il lungo

coprifasce per presentarmi a tutti che volevano vedermi. Non sono

in grado di dare alcun giudizio su come ci si può sentire dentro le

fasce a fine giugno, so che mi era stata risparmiata la tortura della

cuffietta per il troppo caldo. Non mi mancò invece quella dei forellini

ai lobi delle orecchie: era d’obbligo, allora, che una bambina portasse

gli orecchini. Durante tale operazione fui molto irrequieta,

l’intervento non riuscì perfetto e ciò è ancora evidente, il forellino di

un orecchio, infatti, è più alto di quello dell’altro. Non mi mancava

più nulla per entrare in società.

I nonni materni, nonna Nina e nonno Pasquale, non erano in paese

il giorno della mia nascita perciò fu per essi una grande sorpresa al

loro rientro da Marcatobianco trovarmi già nata. I nonni addirittura

credevano di aver anticipato il ritorno dalla campagna rispetto al

giorno previsto dell’evento, pensavano di poter essere vicini alla loro

figlia in un momento così importante ma io ero stata più veloce. Il

loro stupore si mutò subito in gioia, la nonna si sentì alleggerita di

un grosso peso, essa sapeva, come diceva, che la figlia era in buone

mani, la mamma stessa la tranquillizzò su questo.

Come tutti i nonni, mi trovarono bellissima e di più il nonno che

poco esternava i suoi entusiasmi, disse che ero una bambina

speciale. Essendo ora, nonna anch’io capisco benissimo nonno

Pasquale. Per la nonna paterna era un momento propizio, dopo il

maschietto, la femminuccia la quale, cosa importante, portava il suo

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nome. La sua gioia si accentuava quando venivo presentata ai parenti

e agli amici che venivano a conoscermi e a felicitarsi, tutti concordi

nell’affermare che somigliavo a papà: di lui il naso, gli occhi; per il

resto ero il ritratto della nonna, il suo.

Gina la Papalia

Le famiglie amiche, i vicini e le persone che ci conoscevano furono

informati del lieto evento da Gina la Papalia. persona idonea a tale

incombenza. E, a parere della mamma, svolse il compito con molta

precisione. Gina era una nostra vicina di casa; abitava una porta

accanto a quella degli zii Calogero e Damiana in via Tortorici Cremona

e noi tutti, delle due famiglie, la consideravamo un’amica di famiglia

e così lei si sentiva a casa nostra. Papalia in realtà era il cognome di

Gina da sposata ma noi avevamo imparato a conoscerla e a

nominarla così. Anche lei quando si riferiva al marito non lo chiamava

con il nome di battesimo, Salvatore o mio marito ma Papalia, il suo

cognome: “questa mattina Papalia è andato a giornata da massaro

Micheli Racchianedda”, diceva, contenta, “meno male, speriamo che

duri”. Subito dopo la guerra la vita era un po’ dura per tutti ma

specialmente per chi non aveva terra da lavorare e doveva andare a

sevizio da altri: fare lu jurnataru, cioè lavorare a giornata; non

c’erano altre attività se non quelle legate alla campagna e

all’esecuzione dei lavori secondo la stagione. Così Papalia provvedeva

a mantenere la famiglia composta dalla moglie e dai loro tre figli:

Salvatore, Luigi e Pasqualino che avevano più o meno la stessa età

di mio fratello, di mio cugino Pasqualino e mia e, perciò, erano anche

nostri amici. Anche Gina si dava da fare per dare una mano a portare

avanti la famiglia per cui spesso aiutava mamma nei lavori domestici,

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ella aveva bisogno di essere aiutata e la mamma, sempre sensibile

alle necessità degli altri, la chiamava quando aveva da lavare o da

stirare. Gina veniva anche spontaneamente perché sapeva che a

casa nostra qualcosa da fare c’era sempre. Con la nascita di Michela,

l’ultima sorellina, eravamo diventatati una famiglia numerosa e la

mamma che rispetto alla pulizia era molto esigente, ci voleva sempre

puliti ed ordinati Ricordo che la cucina in muratura della casa di via

Quattro Novembre, d’inverno era sempre accesa perché non

mancasse mai l’acqua calda per le necessità quotidiane. Dopo l’età

della scuola elementare i nostri rapporti con Gina la Papalia e con i

suoi figli si allontanarono. Un rapporto più stretto rimase con la

famiglia di zio Calogero. Quando, negli anni cinquanta venne attuata

la riforma agraria e molte terre di feudatari vennero distribuite ai

contadini, dell’ERAS (Ente Riforma Agraria Siciliana), anche

Salvatore Papalia divenne un assegnatario. Negli appezzamenti

assegnati costruirono anche le case ma non risulta che famiglie vi si

siano trasferite dal paese e continuare l’attività agricola, restava

irrisolto il problema dell’acqua. I primi anni, era sorta anche una

macchina organizzativa gestita da funzionari regionali dell’Ente

(ERAS) che promossero la formazione di una cooperativa degli

assegnatari di cui lo zio Calogero divenne presidente Alcuni ragazzi

figli di assegnatari furono anche mandati a studiare in un istituto

agrario alle porte di Palermo, l’Istituto Castelnuovo per farne degli

agronomi. Ma l’attività della campagna non era attraente, legata a

tradizione di duro lavoro e sacrifici e poco reddito, risultava frustrante

tanto che venne abbandonata. Seguirono gli anni del boom

economico connesso con lo sviluppo delle fabbriche del nord e

dell’emigrazione di massa verso un lavoro sicuro non soggetto alle

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condizioni atmosferiche. Anche per la famiglia di Gina le cose

andarono meglio, quando, cresciuti i suoi figli, come molti altri,

lasciarono Pietraperzia e si trasferirono in una città del nord dove

trovare lavoro per i tre figli sarebbe stato più facile. Molto tempo

dopo il loro trasferimento sapemmo che i Papalia abitavano in un

paese della cintura di Torino, a Venaria la famosa cittadina della

reggia dei Savoia, ora meta di numerosi visitatori. Quando

individuammo l’indirizzo telefonico di un Luigi Papalia, e lo

chiamammo, scoprimmo che si trattava proprio del Luigi nostro

amichetto dei primi anni di vita. Nello scambiarci le reciproche notizie

fu triste sapere che Gina non c’era più: Luigi ci disse avrebbe avuto

più di cento anni, calcolammo che era più anziana di mamma di sette

anni. Immaginammo la gioia che avrebbero provato le due vecchie

amiche se avessero potuto incontrarsi. Ma così non era stato scritto.

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Il battesimo e i sacristi della Chiesa madre.

Maria e Salvatore Giordano

«Ricevetti il primo sacramento, dice Maria, una settimana esatta

dopo la festività della Madonna della Cava nostra patrona, ossia il 22

di agosto dello stesso anno della nascita; avevo poco meno di due

mesi». In una comunità contadina come la nostra, le attività di

conclusione dell’annata agricola avevano la precedenza per cui ogni

altro impegno veniva rimandato a dopo il raccolto (“a l’astaciunata“).

«Come era tradizione, mi fu imposto il nome di Maria Cava che era

quello della mia nonna paterna. Il vestito preparato per l’occasione

era bianco, di seta, impreziosito da applicazioni di pizzo in macramè

e fiocchetti di nastro luminoso. La moda dell’epoca voleva che i

neonati fossero portati al fonte battesimale con i gioielli che avevano

ricevuto in regalo; per le bambine gli immancabili orecchini, l’anellino

all’anulare fermato da un nastrino e legato al polso per evitare che si

sfilasse. Così anch’io fui ingioiellata con i monili che parenti e amici

di famiglia mi avevano donato; al collo portavo la collana d’oro regalo

del padrino di battesimo». La cerimonia religiosa ebbe luogo nella

Chiesa Madre dedicata a Santa Maria Maggiore di Pietraperzia, unica

chiesa parrocchiale del paese fino al 1951. Dalla nostra casa di

abitazione in via 4 Novembre, la Matrice fu raggiunta percorrendo la

Via Garibaldi sino alla Piazza Matteotti (dove sorgono il palazzo dei

Baroni Tortorici e la Chiesa del Rosario e in cui si affacciano il Palazzo

Comunale, lato della torre, e, allora, anche lu casinu di li

galantumini,) e l’ultimo tratto della salita Barone Tortorici. Da quando

posso avere ricordo del mio paese, vedo quel pezzo di strada sino al

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sagrato della chiesa Madre adorno di una fila di oleandri, ciascuno

protetto e sostenuto da una piccola gabbia rotonda in ferro».

«Il fonte battesimale, con attorno la cornice marmorea con sculture

del Gagini, è posto accanto all’entrata di destra della chiesa.

Ad amministrare il sacramento fu il parroco di allora, don Michele

Carà, assistito dal sacrista».

Il parroco si avvaleva della collaborazione di due sacristi, i due fratelli

“Pupa”, Cosimo e Calogero, che in paese comunemente chiamavamo

“ lu zi Cosimu e lu zi Caloriju pupa ”. Essi continuarono a svolgere le

loro funzioni anche durante il periodo in cui la parrocchia fu retta da

don Luigi Lo Giudice, subentrato al Parroco Carà. I due fratelli erano

persone molto diverse sia nelle fattezze fisiche sia nel carattere e

svolgevano mansioni differenti nell’ambito delle esigenze

amministrative ed organizzative della chiesa parrocchiale. Tutti i

pietrini che incominciavano a frequentare la Matrici entravano per

forza di cose in contatto con l’uno e con l’altro dei due fratelli sacristi.

«Fin da bambina, ebbi l’occasione di conoscere meglio le loro

caratteristiche, soprattutto nel periodo in cui feci parte dell’Azione

Cattolica e frequentai più spesso la Chiesa Madre».

Lu zi Co’, era una persona di bell’ aspetto e dal portamento distinto.

Aveva però un carattere poco docile e facile a innervosirsi; era, come

si suol dire, un tipo da “prendere con le molle”; tuttavia, dopo la

sfuriata, i suoi bollori svanivano presto.

Cosimo curava le pubbliche relazioni con i parrocchiani riguardo ai

problemi burocratici ed amministrativi; a lui ci si rivolgeva per le

pratiche relative a battesimi, matrimoni, funerali .

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Per lo zio Cosimo l’ordine e la disciplina in chiesa erano essenziali,

perciò non si esimeva dall’ intervenire energicamente tutte le volte

che notava comportamenti inadeguati al decoro del luogo sacro: non

esitava un minuto a cacciare fuori dalla chiesa i giovani che, durante

le feste solenni, quando l’edificio era gremito e ogni angolo occupato

da fedeli, a volte esageravano nella scompostezza per farsi spazio e

poter meglio ammirare le ragazze. Egli gridava loro che la chiesa non

serve a questo scopo. Era ancora lu zi Cosimu a rammentare alla

comunità che la parrocchia viveva di elemosine, ragion per cui chi

voleva assistere a qualsiasi cerimonia religiosa comodamente seduto

doveva pagare le cinque lire per la sedia; chi si rifiutava era giusto

che restasse in piedi. Nessuno si opponeva né arrivava in chiesa

senza aver prima preparato gli spiccioli necessari. A questo

proposito, il momento più redditizio era quello che precedeva la

Pasqua. Ogni anno, durante il periodo della quaresima, si registrava

in chiesa una grandissima affluenza di fedeli, soprattutto donne;

quello era anche occasione per le ragazze, specie se in età da marito,

di farsi vedere in giro. Nei giorni di predica, le sedie andavano a ruba:

si mandavano i bambini per tempo a prenotarle così da assicurarsi i

posti migliori per ascoltare e vedere. Sotto lo sguardo compiaciuto di

Cosimo la pila ordinata delle sedie si vedeva presto scemare e il

piattino riempirsi di monete. All’ora di inizio della predica non si

trovava più una sedia disponibile; non era raro il caso che i ritardatari

se la portassero da casa.

Il parroco prendeva accordi con predicatori esperti, quaresimalisti

francescani o domenicani abilissimi nell’ illustrare episodi della vita

di Gesù e nel commentare le parabole più note del Vangelo,

soprattutto quelle che meglio si prestavano ad un racconto

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drammatizzato che suscitava commozione tra gli ascoltatori. Lo zio

Cosimo era presente e vigile a che tutto si svolgesse ordinatamente

al punto che, a volte, capitava di sentire, anche in corso di predica,

la sua sonora sgridata rivolta a qualche giovanotto che, entrato nella

chiesa, incominciava a gironzolare e a guardare in giro disturbando

e distraendo i fedeli. Il momento di maggiore tensione per lo zio

Cosimo era quello della fine della predica e dell’uscita. Molti giovani

facevano ressa davanti alla porta impedendogli di aprirla

completamente per affollarsi poi davanti al sagrato per adocchiare le

ragazze costrette a passare tra due ali di folla, ammiccando e

cercando di fare breccia su qualcuna o semplicemente di incrociarne

lo sguardo, per continuare poi a seguirla quando usciva, far la posta

sotto il suo balcone, fermarsi a la cantunèra vicina alla sua abitazione

sperando che si affacciasse. Provoca commenti da parte di persone

di una certa età ma oggi è spettacolo consueto, vedere nelle città,

come nei paesi, frotte di ragazzi e ragazze trovarsi tutti insieme i

pomeriggi in piazza, scherzare e ridere in un rapporto di completa

parità, manifestarsi in maniera disinvolta reciproche effusioni

affettuose. Allora non era così; ragazzi e ragazze potevano vedersi

solo nelle occasioni di festa e da lontano lanciarsi qualche sguardo e

qualche segno d’intesa. Le fasi del corteggiamento del fidanzamento

e del matrimonio avevano procedure e regole consuetudinarie che

sono state superate gradatamente.

Nel lungo periodo della sua attività di sacrista della Chiesa Madre non

vennero mai meno l’attenzione e lo zelo di lu zi Co’ verso la Catèva,1

1 Cateva o Caterva. Una disputa è sorta, riguardo al nome autentico della cripta, tra Giovcanni Culmone e don Filippo

Marotta, autori del Vocabolario Siciliano della Parlata di Pietraperzia. Il primo sostiene la versione Caterva sulla base

di documenti storici dell’archivio parrocchiale relativi a matrimoni e sepolture celebrati nella chiesetta,.in cui è

chiamata Caterva. Il secondo si appella alla tradizione popolare e all’opera storica di Fra’ Dionigi che l’hanno chiamata

Cateva, oltre che alla etimologia della parola che potrebbe derivare dal greco: cateva = sottostante..

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la piccola chiesa attaccata alla matrici, che apriva con puntualità al

culto dei fedeli tutti gli anni per il mese mariano. Dopo un’accurata

pulizia, collocava all’ingresso della chiesetta un tavolo coperto da una

tovaglia in velluto rosso con l’immancabile piatto di ottone lucido per

le offerte e, accanto al tavolo, una sedia sulla quale, seduto, egli

sorvegliava ogni movimento.

Nella chiesetta della Catèva o Caterva si venera un antico crocefisso

dipinto, posto su un altarino. «Tutte le volte che vi entravo e

guardavo il crocefisso, dice Maria, mi venivano in mente certe

giaculatorie che avevo imparato sentendole recitare alla mia nonna

quando faceva le sue preghiere:

Ggesù cchì bbìddu dòrmiri faciti

Ntra ‘n trunculu di cruci arripusàti

Jì sugnu piccatùri e bbui patìti

Jì sugnu ddebbitùri e bbui pagàti

Caru Ggesuzzu ppi lu vostru custatu

Rènniri lu vùgliu a Bbui l’urtimu Xàtu.

o l’altra

O Santissimu Crucifissu

Li vostri grazzii sunu spissu

No d‘ha scurarii sta jurnata

Ca-mma essiri cunzulati

Io frequentai poco la Catèrva. La chiesetta ha una volta molto bassa,

poca luce vi filtra da una minuscola finestra e vi circola poca aria.

L’ambiente veniva illuminato dalle numerose candele che vi

accendevano i fedeli, ma non si riusciva a sostare a lungo, l’acuto

odore di cera misto a quello delle rose finiva col dare alla chiesetta

un’atmosfera funerea».

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Lu Zì Caloriju era molto diverso dal fratello sia nell’aspetto fisico sia

nell’abbigliamento. Più basso di statura di Cosimo, aveva dei

lineamenti marcati che, uniti al modo di vestirsi, lo facevano

avvicinare molto ad un perfetto clown senza bisogno di trucco. Le

sue giacche e i suoi pantaloni, compresi quelli che indossava per le

feste, erano enormi, due tre misure sopra la sua taglia. Ciò è detto

in modo affettuoso, dal momento che lu zi Calò era buono e silenzioso

e raramente alzava la voce, diversamente dal fratello. Era

costantemente presente in Parrocchia e il suo lavoro era

fondamentale per il quotidiano pratico funzionamento della Matrici.

Curava la pulizia dei vari ambienti della chiesa, rimetteva in ordine

le sedie e i banchi, predisponeva l’altare prima di ogni funzione,

accendeva tutti i candelieri, accompagnava, con cotta addosso e il

bastone crocifero in mano, i funerali. Serviva la messa ma il latino

non era il suo forte: l’unica risposta che si percepiva era un amen

che lu zi Calò amplificava e trascinava facendola diventare aammenn.

Annunciava orari di messe e funzioni, il mezzogiorno e l’Ave Maria,

col suono delle campane, cosa che faceva con grande perizia, dallo

scampanio a distesa dei giorni di festa che trasmetteva gioia e

allegria, ai rintocchi mesti e tristi con cui accompagnava all’ultima

dimora…già un ammonimento e una meditazione.

«All’epoca del mio battesimo, continua Maria, Cosimo poteva avere

cinquant’ anni e Calogero trovarsi sui quarantacinque. Immagino,

anzi sono certa che Lu zi’ Calò fu presente alla cerimonia. Per aver

partecipato a diversi battesimi come madrina o come invitata, ho

sempre notato la sua presenza accanto al parroco per aiutarlo nella

celebrazione del Sacramento e suggerire ai parenti del bambino le

risposte alle domande di rito: “rinunci a Satana alle sue vanità alle

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sue opere ?” e Calogero con voce robusta seguito dai presenti.:

“Rinuncio”. Per la verità la risposta del sacrista era lontana dalla

corretta pronuncia della parola perché dalla sua bocca usciva una

specie di verso che faceva pensare ad essa e in cui predominava il

suono della lettera “R” a cui veniva unita, pronunciata con più forza,

la parte finale della parola stessa:, “abr..nzio”, intanto che, con molta

serietà e devozione, porgeva al Sacerdote officiante la conchiglietta

per spargere l’acqua sul capo del bambino, la ciotolina del sale e la

boccettina dell’olio santo.

Finché i due sacristi ebbero fiato furono i pilastri della Matrice e delle

chiese ad essa collegate. Io ricordo i due fratelli con grande simpatia,

come due persone familiari con le quali siamo venuti a contatto

moltissime volte. Essi mi fanno tornare anche ai tempi della mia

infanzia e della mia giovinezza

In quanto al trattenimento, per il mio battesimo non ci furono sfarzi:

si era in piena guerra, nessuno si trovava nello spirito giusto per

allestire ricevimenti fastosi .

Del mio padrino, che non ebbi la gioia e il piacere di conoscere, so

soltanto quello che di lui mi raccontò mio padre che l’aveva scelto.

Era un suo intimo amico, si chiamava Vincenzo Siciliano, Vicinzu lu

Vicchiu, persona di gradevole presenza e, come, parlando di lui, ho

avuto confermato recentemente da certi suoi parenti, aveva modi

educati e sani principi. Non era sposato, allora, viveva in famiglia con

altri fratelli e con i genitori che parteciparono alla gioia del figlio

assistendo alla cerimonia del battesimo. Forse fu tra le ultime volte

che lo videro e felice. Poco tempo dopo, richiamato alle armi,

s’imbarcò per la Grecia da dove non fece più ritorno. Non fu l’unico

del nostro paese.

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La bisnonna Francesca

di Maria e Salvatore Giordano

«Eravamo dei bambini fortunati, mio fratello ed io, dice Maria,

sempre circondati dalle premure dei nonni e degli zii, oltre che da

quelle dei genitori

Era soprattutto la nonna paterna Maria Cava che si occupava di noi,

assieme alla giovane zia Mariù (Mariuzza nel nostro gergo) sorellina

di papà, l’ultima nata della famiglia. Assieme con la nonna e la zia

vivevano nella stessa casa due fratelli più giovani di papà, zio Biagio

e zio Michele e la bisnonna Francesca. La zia Lucietta, sorellastra di

papà e di lui più anziana perché nata dal precedente matrimonio del

nonno, sposata da tempo, era già madre di quattro bambine, l’ultima

era nata due mesi prima di me».

Spesse volte ci accudiva anche la bisnonna Francesca, mamma della

nonna paterna, l’unica tra i bisnonni che abbiamo avuto la fortuna e

la gioia di conoscere. La bisnonna Francesca era piccola di statura

ma molto carina e disponibile. Era pulitissima e sempre in ordine

nella persona e nell’abbigliamento. Per profumarsi faceva dei

mazzettini di menta che metteva nel bustino. Fu felicissima quando

riuscì ad indossare il profumo “Paradiso perduto” della Paglieri che

suo nipote, lo zio Biagio, le portava da Palermo quando tornava a

casa in licenza durante il suo primo servizio militare. La bisnonna

proveniva da una buona famiglia, la famiglia Calì, li Chjarapachjè,

tutte persone molto stimate in paese per il loro ben fare e il loro

decoro.

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Era la prima di otto figli, dopo di lei erano nati una sorella e sei

fratelli: l’ultimo di questi aveva la stessa età della figlia, quella che

sarebbe diventata la nostra nonna paterna. Si raccontava che proprio

quest’ultimo fratellino fu da lei stessa allattato perché il seno della

madre non dava più latte. Ebbe molti pretendenti la bisnonna e nella

scelta dello sposo la famiglia pensò di fare bene orientandosi verso

quello che sembrava il giovane più affidabile e il miglior partito dal

punto di vista economico. La realtà però si rivelò diversa dalle

aspettative dei suoi familiari e sue: il bisnonno era un accanito

giocatore di carte e per assecondare il suo vizio metteva in secondo

piano ogni altro impegno. Manifestò inoltre un carattere piuttosto

fastidioso e per nulla simpatico che procurò alla bisnonna non pochi

dispiaceri nel corso della loro lunga convivenza matrimoniale. Si

tramandava in famiglia, a tale riguardo, la risposta che ella aveva

dato, quando il bisnonno, molto vecchio, era morto, alla sorella che

le portava il suo conforto, e le chiedeva come si sentisse,:- «mi sento

come una rosa secca appena annaffiata».

Da quel momento la figlia la tenne accanto a sé, nella sua casa dove

visse serena con i suoi nipoti dando esempi di saggezza e loro la

sostennero e l’amarono fino alla morte, avvenuta all’età di

ottantasette anni.

Nonna Francesca fu sempre autentica, genuina e schietta gentile e

presente ad ogni necessità; amò i suoi nipoti incondizionatamente e

si adoperò alla stessa maniera verso i pronipoti, noi. Nel corso dei

primi anni di frequenza di Salvatore della scuola elementare, quando

già da aprile i nostri genitori si trasferivano in campagna, era la

bisnonna Francesca che, a casa della nonna, in via Ville Superiori, si

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sostituiva ad essi nel preparare da mangiare pietanzine appetitose e

profumate alla menta.

Si muoveva con passettini svelti dentro il suo abbigliamento

armonico ed elegante che portava con disinvoltura e «a me, dice

Maria, faceva pensare a quale affascinante graziosa ragazza doveva

essere stata nella sua giovinezza». La bisnonna lavorava benissimo

con l’uncinetto, faceva dei bellissimi pizzi con i quali rifiniva le sue

sottane. Amava molto la campagna dove trascorreva lunghi periodi

Portava abitualmente gonne lunghe nere con bustini ricamati stretti

in vita chiusi da lunghe file di bottoni e camicie bianche rifinite con

l’immancabile pizzo. Calzava stivaletti a punta neri alti legati alla

caviglia. D’inverno, per proteggersi dal freddo, si legava un fazzoletto

in testa e si copriva le spalle con mantelline di lana da lei stessa

lavorate. Aveva molta cura di ciò che indossava e sapeva mantenersi

pulita; prima di accingersi a qualsiasi opera culinaria si annodava alla

vita un lungo grembiule per evitare sgradevoli macchie alla sua

gonna, la stessa alla quale parecchie volte con mio fratello ci

attaccavamo impedendole di camminare e lei con molta pazienza e

dolcezza ripeteva « cruci santa, cruci santa ”. «La nonna mi raccontò,

dice Maria, che ad imboccarmi il primo ovetto fu proprio la bisnonna

Francesca intuendo il motivo di un mio apparentemente ingiustificato

pianto. Lei sola capì che si trattava di fame affermando che il latte

materno non era sufficiente. Subito preparò due uova alla coque, uno

per me – che divorai con avidità chetandomi come per incanto,- e

uno per mia mamma affermando che anche lei doveva alimentarsi di

più per incrementare il suo latte.»

Durante il periodo della guerra la bisnonna Francesca fu la nostra

vivandiera. Per sfuggire ai pericoli dei bombardamenti ci eravamo

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trasferiti tutti in campagna “ li Minniti”; anche la zia Lucietta era

venuta con noi assieme alla sua numerosa famiglia. Papà che allora

era militare a Caltanissetta più facilmente poteva venirci a trovare

quando gli era possibile. Per maggior sicurezza avevamo

abbandonato la casa colonica per rifugiarci nelle grotte, tra le rocce

che sorgevano in prossimità di essa, dove avevamo sistemato

materassi e pagliericci vari. Nonna Francesca non aveva voluto

seguirci preferendo restare nella casa, ci preparava da mangiare e

molto spesso era lei stessa che ce ne portava su non preoccupandosi

minimamente dei rischi che correva. Mentre gli adulti andavano e

venivano dalla casa dove svolgevano dei lavori e accudivano gli

animali, noi bambini quasi mai ci allontanavamo dalle grotte, la cosa

che maggiormente ci metteva paura era il rombo degli aerei, appena

li sentivamo arrivare correvamo velocemente ai rifugi se ce ne

eravamo allontanati di qualche metro. Ancora tempo dopo la guerra

gli stessi tuoni durante i temporali ci facevano tremare dallo

spavento. Niente successe a nessuno di noi per fortuna ma, più di

una volta, bombe furono sganciate nelle vicinanze. L’affetto della

bisnonna per noi fu da tutti ricambiato nella stessa misura, le

volevamo bene come alla nonna e ai genitori; «gli anni trascorsi con

lei mi sono rimasti nel cuore come le cose più belle che potessero

capitarmi nella vita e a ricordarli mi prende un forte senso di

nostalgia e di commozione», dice Maria.

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TRA PACE E GUERRA

di Salvatore e Maria Giordano

<< I pochi intimi che avevano partecipato al mio battesimo, dice

Maria, fecero ritorno, lo stesso giorno o il giorno seguente, alle loro

residenze di campagna >>. Trascorrere l’estate in campagna era

consuetudine al nostro paese. Quelli che vi avevano una casa, ancora

prima che iniziassero le attività legate al momento del raccolto, vi si

trasferivano con tutta la famiglia. Gli uomini, in questo modo,

potevano essere meglio accuditi dalle loro donne ed occuparsi con

maggiore serenità delle varie incombenze che il momento richiedeva.

Al 22 di Agosto, del resto, si è ancora in piena estate, né la

stasciunata può dirsi conclusa: è il periodo della raccolta delle

mandorle e c’è, forse, ancora chi, tra le donne, ha da terminare la

preparazione delle conserve da riporre per l’inverno. Anche i nonni

materni, nonno Pasquale e nonna Nina, lu papà Pasquali e la mamma

Nina, dopo il Battesimo fecero ritorno a Marcato Bianco, “a lu

Funnacu”, dove trascorrevano gran parte dell’anno occupandosi con

i figli della conduzione dell’azienda agricola dei baroni Piaggia.

Insieme ai nonni e ai figli Francesco, Maria e Filippo, vivevano la

giovane nuora, zia Damiana, e il suo bambino, il cuginetto

Pasqualino, che allora aveva quasi due anni. Già da più di un anno

anche l’Italia era in guerra, si combatteva lontano da noi, ma

moltissime famiglie vivevano in grande apprensione per la sorte di

loro congiunti inviati ai vari fronti. In casa dei nonni, in quel periodo,

non regnava un clima molto lieto: del loro primogenito Calogero,

padre di Pasqualino e nostro zio materno, al fronte in Africa

Settentrionale, da qualche tempo non giungevano notizie. La cosa

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faceva vivere in ansia tutte le nostre famiglie. Avremmo saputo dopo

della presa di Tobruk e del gran numero di soldati italiani fatti

prigionieri da parte degli inglesi. Ma, sino a quando lo zio non ebbe

la sua destinazione definitiva come prigioniero di guerra, non ci

pervennero notizie .

Lo zio partecipava alla guerra come richiamato alle armi; egli, infatti,

aveva prestato, dieci anni prima, i previsti 18 mesi di servizio come

militare di leva presso il 10° Reggimento Bersaglieri di Palermo.

Nell’ambito dell’esercito i Bersaglieri costituiscono uno dei corpi più

prestigiosi, tanto che sono tra i primi ad essere impiegati in

particolari operazioni o missioni; loro caratteristica è quella di

spostarsi sempre di corsa: tante volte, nelle parate militari, li

abbiamo visti sfilare, piume al vento, dietro il loro trombettiere. Di

quel periodo conserviamo dello zio Calogero una fotografia di lui in

uniforme: indossa la divisa grigio-verde composta da giubba a

quattro tasche con bottoni argentati, pantaloni larghi alla zuava su

scarpe e gambali con cinghie e, in testa, il tipico copricapo piumato.

Al braccio porta i gradi di caporale. Lo zio era orgoglioso di

appartenere a tale corpo e poco mancò che non mettesse firma per

restarvi; ma il pensiero della famiglia prevalse e, dopo il periodo

previsto, era tornato ad occuparsi dei lavori agricoli assieme ai suoi

genitori e fratelli. Dopo il congedo, lo zio venne iscritto alla M.V.S.N.

(Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale) e nominato

caposquadra con l’incarico di curare, il sabato e la domenica,

l’istruzione premilitare dei giovani di leva. Nel 1936 si era sposato

con la zia Damiana. A fine agosto 1939, richiamato in seguito alla

mobilitazione ordinata in previsione della probabile entrata in guerra

dell’Italia, ancora “non belligerante”, venne inquadrato nel

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Battaglione “Enna ”, uno dei reparti della 172^ Legione provinciale

della M.V.S.N. Un mese dopo, la Legione (corrispondente

probabilmente all’attuale Reggimento, così chiamata secondo la

terminologia adottata dal regime che aveva preso a modello di

riferimento l’esercito romano di cui voleva emulare le glorie) si era

imbarcata a Messina con destinazione Derna, in Cirenaica, regione

orientale della Libia allora colonia italiana, e qui aggregata alla

Divisione Camicie Nere “3 Gennaio”. Il Battaglione venne dislocato

presso il villaggio “Giovanni Berta”, a pochi chilometri a sud-ovest

della città, dove trascorse l’inverno e parte della primavera, fino a un

mese prima dell’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno del 1940.

Pertanto era lì che lo zio si trovava quando, nel novembre 1939,

nacque Pasqualino. Fu solo dopo tre mesi dalla nascita del figlio che

egli, ottenuta una licenza di dieci giorni, poté venire a conoscere il

suo primogenito e festeggiarne il battesimo. Tornato subito dopo al

reparto, gli sembrò di aver vissuto come in un sogno quel breve

periodo.

Lo scrittore Lino Guarnaccia, amico di nostro cugino Pasqualino, nella

circostanza della morte dello zio avvenuta a Milano il 4 ottobre 1985,

scrisse un Ricordo di Calogero Messina. Le notizie riportate in tale

opuscolo ci consentono di completare e approfondire la conoscenza

degli eventi bellici a cui lo zio partecipò. A tale proposito lo studioso

(egli stesso militare di leva del 31° Battaglione Guastatori al fronte

in Africa, fatto prigioniero probabilmente in una delle operazioni del

1941/’42), nel ripercorrere le tappe significative della vita dello zio,

riporta anche i nomi dei pietrini che si trovavano con lui nella stessa

Compagnia, o Centuria, come allora veniva chiamata.

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Assieme al Caporale Calogero Messina erano presenti i seguenti

graduati: il Caporal Maggiore Filippo Di Gloria, con l’incarico di

aiutante sanitario del Battaglione, Caporal Maggiore Salvatore Calì

(Piscialacinniri), e i seguenti soldati: Calogero Barone (Liddu lu

puntinaru), Giuseppe Calì (Chiarapachiè), Luigi Cipolla, Giuseppe

Ciulla (Nataliddu), Antonino Corvo, Pasquale Di Cataldo (lu

Lampariu), Rosario Farulla, Giuseppe Giusto (Racchianedda), Santo

Marotta (Santu Cavigliuni), Salvatore Puzzo (Lu Farchisi), Giuseppe

Rabita, Giuseppe Salamone (Calacipuddi), Filippo Sammartino

(Bellacitu), Calogero Tisa (Mburna), Salvatore Viola (

Assicutangiddi).

La compagnia era comandata dal capitano (Centurione) Conti di

Nicosia.

Tenente medico del Battaglione “Enna” era il dott. Rocco Sillitto,

nostro paesano, Ufficiale Sanitario del paese per molti anni dopo la

guerra.

Tutte le forze armate italiane in Africa Settentrionale costituivano il

10° Corpo d’Armata; Comandante supremo e Governatore della Libia

era il Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. Il Maresciallo aveva

sostituito il generale Italo Balbo, morto in seguito all’abbattimento

del suo aereo da parte dell’incrociatore italiano S. Giorgio, ancorato

nel porto di Tobruk, con il quale l’aereo non era riuscito a stabilire

contatti e a farsi riconoscere2.

Entrata in guerra anche l’Italia, 10 giugno 1940, il battaglione, al

seguito della X Armata, avanza verso est partecipa allo sfondamento

2 Montanelli-Cervi, Storia d’Italia-L’Italia del Novecento, Milano, Fabbri Editori, 1998, p. 181.

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del confine egiziano e alla presa, il 19 settembre 1940, di Sidi el

Barrani.

Gli Italiani tengono le posizioni per più di due mesi. A dicembre però,

gli Inglesi, ricevuti rinforzi di uomini e soprattutto di carri armati più

moderni ed efficienti, passano al contrattacco e, con una “incursione

in grande stile”, appoggiati dal cannoneggiamento della flotta, il 9

dicembre ‘40, sfondano inesorabilmente la prima linea della X Armata

di Graziani, riconquistano Sidi el Barrani, presidiata dalla Divisione

“3 Gennaio”, e proseguono l’avanzata ad ovest verso Tobruk, Derna,

Bengasi. Inutile è il tentativo da parte degli Italiani di sbarrare

l’accerchiamento: «le scatole di sardine italiane» con le loro fragili

corazze e le loro mitragliatrici […] erano spacciate in partenza»3.

L’epopea di Giarabub

Il 21 marzo del ’41, sotto le preponderanti forze inglesi, cadeva, dopo

più di tre mesi da Sidi el Barrani, anche il forte di Giarabub. L’oasi,

situata a circa 200 chilometri all’interno del territorio desertico della

Cirenaica, considerata strategica per i rifornimenti, era difesa da

1350 soldati italiani e meno di un migliaio di ascari libici armati dei

tradizionali moschetti 91/38 e di modesti pezzi di artiglieria leggera.

Il contingente, sotto il comando del Ten. Colonnello Salvatore

Castagna di Caltagirone, aveva resistito strenuamente, fino ad

esaurimento di viveri e munizioni, dando in più circostanze esempi di

eroismo e di valore, rifiutando ogni trattativa di resa. Sulla base delle

cronache giornalistiche degli inviati di guerra, che conciliavano le

esigenze professionali con le esigenze del regime, l’avvenimento

3 Ibidem, p. 193.

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rifulse come una pagina di gloria delle forze armate italiane;

mitizzato e oggetto di spettacoli teatrali e di film a fini

propagandistici, venne celebrato come “L’ epopea di Giarabub”.

Grazie alla radio, molto popolare divenne la celebre canzone “La

sagra di Giarabub”, il cui ritornello era allora facile sentire intonare o

fischiettare:

…. …. ….

“Colonnello non voglio pane

voglio fuoco pel mio moschetto,

ho la terra nel mio zainetto

che per oggi mi basterà…

Colonnello non voglio acqua

voglio il fuoco distruggitore

con il sangue di questo cuore

la mia sete si spegnerà….

Colonnello non voglio il cambio

qui nessuno ritorna indietro

non si cede neppure un metro

se la morte non passerà!

…. …. ….

La battaglia di Sidi el Barrani era costata alle forze italiane la morte

di un generale, di 47 ufficiali (78 feriti), di 2147 tra sottufficiali e

soldati (2208 feriti); della Legione “Enna” erano rimasti feriti in modo

grave otto militari, tra cui un capitano, nessuno del gruppo pietrino.

I prigionieri furono circa 38.000; a pezzi il morale. È difficile calarsi

nello stato d’animo che può provare un soldato fatto prigioniero,

probabilmente lo prende un forte senso di frustrazione misto a un

sentimento di inutilità e di impotenza, a cui si aggiunge l’insicurezza

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di non sapere in quali mani sia capitato e cosa sarà di lui e del suo

futuro. D’altra parte la gestione dei prigionieri costituisce un

problema anche per gli eserciti vincitori, sia pure delle nazioni le più

rispettose delle convenzioni internazionali: l’organizzazione dei

campi, incominciando dalla località in cui far sorgere il baraccamento,

il vettovagliamento, il controllo di un gran numero di nemici, tolti sì

dal fronte ma pronti alla fuga, al sabotaggio, allo spionaggio...,

comporta sottrarre risorse di uomini e mezzi alle esigenze più

pressanti della guerra. Iniziano, pertanto, per i nostri prigionieri,

mesi in cui sperimentano la precarietà della loro situazione, fatta di

privazioni, tra improvvise evacuazioni dei campi e trasferimenti

forzati nel deserto provocati dall’andamento delle operazioni belliche.

Dopo la resa i prigionieri vennero avviati a piedi verso un unico posto

in territorio egiziano per essere poi smistati in campi diversi. Zio

Calogero venne internato in un campo di Alessandria d’Egitto,

successivamente nel campo di prigionia presso Suez. Al suo ritorno

in paese egli ci raccontò delle peripezie e delle sofferenze provate. In

tutto il periodo che restò in Egitto aveva perso diversi chili di peso:

ci faceva vedere una fotografia in cui appariva irriconoscibile per

quanto era dimagrito, tanto da suscitare le lacrime delle donne di

casa.

Col passaggio del comando delle forze dell’Asse in Africa

Settentrionale al generale tedesco Rommel (la famosa “volpe del

deserto”), le armate italo-tedesche furono protagoniste (marzo

1941-maggio 1942) di una poderosa avanzata sino a raggiungere El

Alamein, a una cinquantina di chilometri da Alessandria d’Egitto4. In

4 Come è noto, le sorti in Africa volsero a favore degli inglesi che, tra il ’42 e il ’43 (battaglia di El Alamein - ottobre ’42

- di cui ci sono tramandati esempi di eroismo degli italiani), sotto il comando del generale Alexander, con una

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quei frangenti i prigionieri vennero evacuati dall’Egitto e distribuiti in

campi di concentramento in Palestina, India, Australia. Lo zio venne

inviato in Inghilterra, nel campo di Burton on Trend, nella contea

dello Stafford, nei pressi della cittadina di Notthingam, ed impiegato

presso un’azienda agricola. Fu grazie a questa destinazione che egli

poté abituarsi gradatamente ad una alimentazione più normale, e

riprendersi fisicamente bevendo il latte delle mucche che si

allevavano nella fattoria.

A lui, come caposquadra, era affidato il compito di accompagnare i

soldati al lavoro e riportarli al campo. Per queste sue funzioni egli

disponeva di una bicicletta. I prigionieri per il loro lavoro ricevevano

una regolare paga. Zio Calogero raccontava spesso dell’umanità e

della benevolenza con le quali i proprietari della fattoria lo avevano

trattato; ci disse anche il loro nome, che non poteva dimenticare, si

trattava dei signori Hamilton, i quali avevano preso ad apprezzare le

sue qualità come uomo e la sua competenza come agricoltore.

Sembra che avessero anche maturato l’intenzione di fargli sposare

una loro figlia ma, quando gli prospettarono la cosa, lo zio, con molto

tatto e sincerità, dichiarò la sua condizione di uomo sposato e padre

di un bambino, cosa che accrebbe la stima dei proprietari della

fattoria nei suoi confronti. Nostro cugino Pasqualino ci ha raccontato

che nel 1973, in occasione di un suo viaggio in Inghilterra, dove

risiedono dei parenti della moglie, lo zio volle accompagnarlo e, nella

circostanza, andare a salutare la famiglia che tanto gentile era stata

con lui circa trenta anni prima. La ricerca risultò vana, l’ambiente

controffensiva verso ovest, raggiungono la Tunisia, ponendo fine alla guerra in Africa Settentrionale (maggio 1943). Un

mese dopo iniziava la campagna d’Italia con lo sbarco a Lampedusa e a Pantelleria e, a luglio, in Sicilia.

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fisico e umano era cambiato: non solo non trovarono gli Hamilton,

ma nessuno nella zona seppe dare riscontri o notizie di essi.

Al campo la vita trascorreva in modo ordinato, ciascuno svolgeva il

compito affidatogli, secondo gli orari. Alle attività seguivano i

momenti di riposo e di ricreazione durante i quali i prigionieri

potevano scrivere alle loro famiglie. Il momento più atteso era quello

della posta: contavano i giorni che intercorrevano tra una lettera

inviata e l’attesa risposta. Le lettere dello zio giungevano alla famiglia

con una certa regolarità e, certe volte, venivano recapitate

direttamente in campagna: l’impiegato addetto al servizio postale del

Borgo Cascino, che conosceva la situazione, prelevava la lettera

appena arrivata e, passando da Marcatobianco, la consegnava ai

nonni, con la riconoscenza e i ringraziamenti della nonna che mai lo

lasciava a mani vuote. I prigionieri potevano andare anche al cinema

dietro pagamento del biglietto. A questo proposito lo zio ricordava,

per la sua caratteristica particolare, un suo commilitone: era un vero

attore, uno show-man, abilissimo nel raccontare barzellette con le

battute e le pause al momento giusto. Per non pagare tutti quanti il

biglietto, quelli del suo gruppo facevano la colletta e mandavano lui

ad assistervi; la sera successiva si radunavano nella baracca ed egli

raccontava il film descrivendo con precisione, grazie alla sua

memoria e alla sua abilità, ambienti e situazioni senza trascurare

nessuna scena, nessun dialogo, rendendone la drammaticità o la

comicità, aiutandosi con la mimica: per loro era come assistere allo

spettacolo. Egli alleviava così la tristezza derivata dall’attesa della

sospirata notizia dello scambio dei prigionieri e della liberazione che

si protraevano, e la nostalgia per la famiglia e il paese lontani.

***

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Fu per un avvenimento fortuito se papà non seguì la stessa sorte

dello zio. Anche lui, infatti, era stato richiamato, aggregato al

Battaglione “Enna” e destinato in Africa Settentrionale; ma non vi era

rimasto a lungo. Alcuni giorni dopo l’arrivo in Cirenaica e la

sistemazione del Battaglione al “Giovanni Berta”, a papà si erano

gonfiate le gambe, probabilmente in seguito alla puntura di un

insetto o al morso di chissà quale ragno o scorpione velenoso e, nel

giro di un paio di giorni, era rimasto paralizzato. Aveva “marcato

visita”, gli erano state prescritte delle pomate e dei bagni con acqua

e sale, con acqua e diverse sostanze medicinali, senza alcun esito. Il

Tenente medico dottor Sillitto, pensando, forse, che papà fingesse

allo scopo di essere rimandato a casa o temendo anche di poter

venire accusato di avere favorito un compaesano, lo sottopose ad

accertamenti e a prove scrupolosissime e di ogni genere, tra cui

l’introduzione nelle gambe di lunghi aghi acuminati a cui non si

sarebbe potuto resistere se si fosse trattato di una messinscena;

senza contare il rischio di incriminazione che papà correva se fosse

stata accertata una simulazione. Effettuate tutte le verifiche e

perdurando lo stato di immobilità, papà era stato rimandato in Italia.

Qui, dopo un lungo periodo di degenza in ospedale militare, aveva

riacquistato gradatamente l’uso delle gambe e superato la paura di

restare paralizzato. Rientrato in servizio dopo la brutta avventura,

era rimasto in Sicilia e destinato a Caltanissetta, presso la Caserma

di Terrapilata, dove svolgeva l’incarico di magazziniere economo del

distaccamento col grado di Caporal Maggiore.

«Anche noi, dopo il mio battesimo», dice Maria, «tornammo tutti in

campagna. Avevo due mesi, ero una bambina sana che non dava

problemi, venivo allattata dalla mamma, che si era ripresa bene dal

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parto. La nonna Maria Cava, che non aveva lasciato la nostra casa

da quando vi si era trasferita in previsione dell’evento, viste le

condizioni floride di salute di noi bambini, pensò che fosse il momento

di riunirci al resto della famiglia trasferendoci tutti a li Minniti, a

cinque-sei chilometri da Pietraperzia, lungo la strada per

Caltanissetta». La nonna sollecitava questo trasferimento perché

voleva raggiungere gli zii Michele e Maria che erano soli in campagna.

Infatti, anche lo zio Biagio, suo secondogenito, era stato richiamato

alle armi (aveva adempiuto agli obblighi di leva alcuni anni prima, a

Palermo, nell’Arma dell’artiglieria) e, mandato a Castelvetrano, era

stato assegnato alla contraerea. Il peso della conduzione della

campagna gravava quindi su Michele, che si faceva aiutare,

stagionalmente, da qualche bracciante. Anche lui, per la sua età,

avrebbe dovuto trovarsi alle armi, ma era stato esonerato perché

aveva già due fratelli alla guerra ed era orfano di padre. Per questo

motivo era stato rimandato a casa da Verona-S. Bonifacio dove, in

attesa dell’espletamento della pratica di esenzione, prestava servizio

nel corpo dei Bersaglieri.

Seguendo la volontà della nonna ci avvicinammo così anche a papà.

La caserma di Terrapilata (oggi Villaggio Santa Barbara) dista, infatti,

pochi chilometri dalla casa colonica de li Minniti e, quando il servizio

glielo permetteva, papà inforcava la bicicletta e ci raggiungeva in

pochi minuti. «Fu a li Minniti che, circondata e coccolata dai familiari,

trascorsi la mia prima infanzia e incominciai a balbettare e a imparare

le prime parole. Presto, a detta di tutti, diventai una gran

chiacchierona. Ad un anno circa cominciai a camminare e già allora

avevo un vocabolario fornitissimo di parole e, a chi mi cullava per

farmi addormentare, suggerivo la ninna nanna che più gradivo.

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Ma una gravissima disgrazia segnò la nostra vita in quel periodo. Mi

avvicinavo a festeggiare il mio primo compleanno quando la nostra

famiglia fu colpita dal terribile evento: il giovane zio Michele, una

mattina, mentre accudiva le bestie, venne colpito, da una delle mule,

da un calcio forte e improvviso al basso ventre. A nulla valsero il

ricovero immediato all’Ospedale Civile di Caltanissetta, l’intervento

chirurgico e le cure. Lo zio non durò più di una ventina di giorni ed

avvertì che non ce l’avrebbe fatta. Ci volle tutti vicini, ci chiamava

per nome e continuava ad abbracciarci e a baciarci. Ci lasciò nella più

profonda costernazione: era il 17 giugno del 1942; aveva appena 22

anni. Da quel dolore la nonna non si riprese più; nel corso della

giornata spesso la sentivamo invocare il nome del figlio tra lamenti e

profondi sospiri, spesso accompagnati da urla disperate, tremende».

Quando anche l’Italia divenne campo di battaglia e, nell’imminenza

dello sbarco degli alleati in Sicilia, le incursioni aeree si fecero più

frequenti e intense, moltissima gente lasciò il paese per cercare rifugi

più sicuri nelle campagne, anche chiedendo ospitalità presso parenti

o conoscenti. Allora, a li Minniti, ci raggiunse la zia Lucietta con tutta

la sua famiglia. Con l’arrivo dei nuovi sfollati raddoppiò il numero

delle persone e, di conseguenza, il fabbisogno di generi alimentari

per sfamare tante bocche. Per maggior sicurezza avevamo

abbandonato la casa colonica e ci eravamo rifugiati nelle grotte, tra

le rocce vicine, la puntara di li Minniti, dove avevamo sistemato

materassi e pagliericci vari. La bisnonna Francesca non aveva voluto

seguirci: più rischioso sarebbe stato per lei muoversi tra i sassi e

salire sino alle grotte che restare nella casa. Durante quei terribili

mesi di paura la bisnonna non perse la sua serenità continuando a

badare alle galline, a raccogliere le uova, a preparare la cagliata con

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il latte della capra, a predisporre quanto occorreva per facilitare i

lavori ai nipoti, uomini e donne. Gli adulti andavano e venivano dalla

casa per accudire gli animali e provvedere a tutte le esigenze della

numerosa compagnia; noi bambini, invece, quasi mai ci

allontanavamo dalle grotte. La cosa che maggiormente ci metteva

paura era il rombo degli aerei: appena li sentivamo arrivare

correvamo velocemente ai rifugi, se ce ne eravamo allontanati di

qualche metro. Ancora tempo dopo la guerra, gli stessi tuoni durante

i temporali ci facevano tremare dallo spavento. Niente successe a

nessuno di noi, per fortuna, ma spesso assistemmo a

bombardamenti su Caltanissetta: sentivamo il frastuono delle

esplosioni e notavamo le grosse nuvole di polvere dalla parte del

cimitero della città. Una bomba sola cadde a metà strada tra la nostra

casa colonica e la rrobba di li Minniti che probabilmente avevano

voluto colpire. Noi sentimmo il fortissimo boato e il rumore dei vetri

andati in frantumi. Grande fu lo spavento di mamma e di zia Mariù

che, all’interno della casa, in quel momento stavano scaldando il

forno per cuocere il pane. Nonna trascorse quella giornata in grande

agitazione: zio Biagio (dopo la morte di Michele l’esonero era passato

a lui), partito il mattino presto per andare al mulino per macinare del

grano, tardava a tornare. La paura della nonna era che avessero

bombardato anche il mulino e che allo zio fosse capitata qualcosa di

grave. Si tranquillizzò la sera tardi quando lo zio tornò con il suo

carico di farina. Noi bambini fummo i primi a dirgli della bomba. Solo

dopo qualche giorno gli uomini andarono a vedere il grosso cratere

che l’ordigno aveva provocato.

Non passarono più di due settimane dalla caduta della bomba che

osservammo sbalorditi, da una purtedda all’altra del tratto di strada

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che vedevamo dalla casa (circa un chilometro), i soldati anglo-

americani provenienti da Caltanissetta avanzare in una fila

interminabile verso Pietraperzia, con le divise di colori diversi, cachi,

color petrolio, grigio-verde, e notammo le piccole jeep americane che

sembrava dovessero capovolgersi da un momento all’altro da come

si muovevano veloci, quasi saltellando sui sassi della strada.

Dopo alcuni giorni tornò papà: era arrivato a piedi; ce lo vedemmo

comparire improvvisamente dalla parte della piana del Salso.

Scoprimmo che durante un bombardamento era stato ferito alla

gamba e al braccio sinistro dove aveva ancora una scheggia

conficcata che si sentiva toccandolo. Niente di ciò ci aveva fatto

sapere prima. Aveva portato con sé un commilitone, un certo

Palazzetti, marchigiano, che aveva preferito restare ancora in Sicilia

e accettare l’ospitalità che papà gli aveva offerto piuttosto che

avventurarsi in un pericoloso ritorno a casa. Infatti i tedeschi

opponevano una forte resistenza all’avanzata degli alleati in Italia. I

pericoli erano aumentati, specie quando, un mese dopo l’armistizio

dell’8 settembre con gli Americani, l’Italia aveva dichiarato guerra

alla Germania, provocando crudeli rappresaglie da parte dei tedeschi

che si erano sentiti traditi.

Notammo che papà e Palazzetti erano stati seguiti da un grosso cane

dal pelo fulvo, che essi chiamavano Churchill (non avevamo ancora

le conoscenze necessarie per capire il motivo dell’attribuzione al cane

di tale nome). Palazzetti rimase a li Minniti alcuni mesi, aiutando nei

lavori della campagna e della stalla, poi decise di partire; di lui non

sapemmo più niente. Il cane rimase con noi a far la guardia alla casa

colonica e noi continuammo a chiamarlo col nome che gli avevano

dato i militari di Terrapilata.

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Fu in quel periodo che a casa dei nonni materni, in Via Ville Superiori,

venne a trovarci Mike Mancuso, figlio di Salvatore, fratello della

nonna emigrato negli Stati Uniti, nella sua tipica divisa da libera

uscita dell’aviazione americana che avremmo visto in tanti film

americani sulla guerra. Fu quello un momento di gioia per la nonna

che, tra le lacrime, abbracciava il figlio di suo fratello, mentre

mormorava il nome di Calogero, suo figlio, di cui, ora, sperava

imminente il ritorno.

Conoscenti in paese ci raccontarono che erano state sganciate alcune

bombe, una decina, ma solo due avevano centrato il paese: una

aveva distrutto il negozio di ferramenta di Paolo Fiorino, in Piazza

Vittorio Emanuele, e danneggiato il Teatro Comunale; l’altra,

purtroppo, aveva fatto una vittima, la signora Rosa Farinelli moglie

del meccanico don Turiddu Mancusu. Per diversi anni ancora dopo la

guerra restarono i ruderi del negozio di Fiorino col tetto sfondato,

fino a quando la Società Militari in Congedo non acquistò il locale e

vi costruì la propria sede sociale. Qualche tempo dopo sapemmo

anche della disgrazia che aveva colpito la famiglia Culmone: una

bomba a mano inesplosa, che bambini tante volte avevano preso in

mano e si erano lanciata per gioco, questa volta era scoppiata

vicinissimo a Salvatore, figlio di don Rusariu Ddoca e della maestra

Torrenti, e ne aveva provocato la morte5.

Lo zio Calogero tornò a casa il 20 giugno 1946; mancavano due mesi

circa a sette anni, tanti ne erano trascorsi da quando era partito.

Vestiva pantaloni e giubbotto della divisa inglese senza stellette;

stanco del lungo viaggio, ma molto somigliante a come si vede nella

5 Il tragico evento è ricordato da Giovanni Culmone in Pietraperzia anni ’40-Reminiscenze-, 1996, p.10. Lo stesso, in

ibidem, pp.31-38, racconta le giornate di luglio 1943, a Pietraperzia, attraverso una serie di testimonianze.

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fotografia fatta qualche tempo prima della sua liberazione, con lo

sguardo sicuro e il sorriso sulle labbra, forse scattata appena saputo

dell’imminente ritorno a casa.

Zia Damiana lo accolse nella loro casa in via Tortrici Cremona, la casa

dove erano andati ad abitare appena sposati. L’incubo era finito.

Pasqualino non aveva ancora sette anni, frequentava la scuola

assieme a Salvatore fin dalla prima elementare; non poteva

ricordarsi del suo papà che aveva visto solo quando era ancora in

fasce, benché di lui sempre si parlasse in casa e si vivesse nell’attesa

del suo ritorno. Difficile dire quello che Pasquale provò di fronte a

quell’evento sconvolgente della sua vita. Quando lo ricorda, egli ne

parla come di uno shock: confuso e frastornato, cercava di rendersi

conto di quello che gli stava capitando. Fu un momento di intensa

emozione quello dell’abbraccio tra padre e figlio, anche per chi vi

assistette.

La casa presto si riempi di gente: parenti, amici, venuti per

partecipare alla gioia della famiglia; restava difficile seguire il filo dei

molti discorsi che si iniziavano, si intrecciavano, si riprendevano,

tante erano le domande, tanti i ricordi, tante le cose che egli aveva

da raccontare, tante quelle di cui voleva essere informato.

Del gruppo dei pietrini del Battaglione “Enna” non sappiamo dove

erano stati internati dopo l’ultimo smistamento dei prigionieri, né

come abbiano trascorso la loro prigionia. Certo è che anche loro

tornarono al paese e all’affetto dei loro cari nello stesso periodo dello

zio. Molti li abbiamo conosciuti, con alcuni di essi abbiamo

intrattenuto rapporti di amicizia.

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Il ritorno dei prigionieri in patria poneva fine al lungo periodo di lutti

e rovine che aveva attraversato il mondo. Nuovi scenari si aprivano

di natura politica, economica, sociale. Si era di nuovo all’inizio.

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Altri eventi I parte

Altri eventi ed aspetti del dopoguerra a Pietraperzia

di Salvatore e Maria Giordano

Quell’ estate del 1943 i lavori agricoli a li Minniti furono portati a

termine come consentì la situazione, ma senza incidenti. Il peso

maggiore era stato sopportato dallo zio Biagio: esonerato dal sevizio

militare in seguito alla morte dello zio Michele, era rientrato da

Castelvetrano e rappresentava l’unico uomo della casa che potesse

dedicarsi con costanza ai lavori della campagna. Nelle fasi del

raccolto, sino a quando non incominciarono le operazioni di guerra in

Sicilia, era stato aiutato da papà che, compatibilmente con i suoi turni

di servizio e grazie alla collaborazione di suoi commilitoni disponibili

a sostituirlo, poteva spesso raggiungerci da Terrapilata. Trascorso il

periodo della guerra e cessati i pericoli, con la liberazione dell’ isola

da parte delle forze alleate, tornammo in paese nella nostra casa di

Via 4 Novembre.

Eravamo ancora molto giovani per comprendere in tutta la loro

intensità e interpretare nella loro complessità i momenti che stavamo

attraversando, circondati dalle premure dei nostri cari che facevano

di tutto per non farci sentire alcun disagio. I ricordi della vita di

allora, piuttosto confusi e sbiaditi, sono stati rischiarati in seguito dai

racconti dei genitori e dei nonni e dalle loro risposte alle nostre

domande. Ancora oggi zia Maria, sorella di papà, l’ultima della

famiglia Giordano della generazione a noi precedente, (che ogni tanto

abbiamo la gioia di avere con noi), lei che ci fu pure vicina negli anni

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della nostra infanzia, essendo allora nel pieno della sua giovinezza,

ci aiuta con i suoi ricordi, che ha ben presenti e vivi, a chiarire i nostri

dubbi riguardo a particolari degli accadimenti. Quando siamo con lei

è inevitabile che il discorso cada su quei tempi e quei luoghi e,

soprattutto, su quelle persone che erano al centro della nostra

esistenza e con le quali dividemmo un unico destino. Esse rivivono

nella nostra immaginazione con sentimenti di nostalgia e tenerezza:

manca solo la loro presenza.

«Dell’esperienza della guerra-dice Maria- ricordavo solo la paura

degli aerei e delle bombe; le incursioni degli aerei e i loro sordi

rumori, quando si avvicinavano, mi sconvolgevano le viscere; del

resto avevamo avuto pochi disagi. Mi raccontano che un giorno allo

scoppiare di un temporale, sentendo il rumore dei tuoni, rivolta alla

zia Damiana che stavo andando a trovare in via Tortorici Cremona,

a pochi passi da casa nostra, « Mamma, zi’ Dommià», mi misi a

gridare, «zi’ Dommià, aiutu ca mi stanu bummardannu ‘ntesta! ».

In paese l’atmosfera non era lieta; la guerra era durata poco e aveva

provocato modesti disastri, ma tante preoccupazioni occupavano il

cuore della gente. La liberazione aveva riguardato soltanto parte del

sud d’Italia; nel resto della penisola gli alleati stentavano a sfondare

le linee tedesche e ad avanzare verso nord. Contingenti militari

italiani erano presenti nei vari teatri di guerra, in Iugoslavia, in

Albania, in Grecia, in Russia. Le famiglie che avevano congiunti ai

vari fronti non avevano cessato di temere per la sorte dei loro cari.

Ma altri eventi erano intervenuti in quel periodo a rendere più

complicata e difficile la situazione in Italia. I fatti sono noti; li

riassumiamo brevemente.

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Nel luglio del ’43, con le forze anglo-americane già in Sicilia,

destituito e arrestato il suo capo, l’esperienza del governo fascista è

finita. Il nuovo esecutivo, presieduto dal Gen. Badoglio, concluso

l’armistizio separato con gli Alleati, ne dà l’annuncio l’8 settembre. I

termini poco chiari del proclama non fatto seguire da precise

indicazioni operative (…”ogni atto di ostilità contro le forze anglo-

americane deve cessare”…”le forze italiane reagiranno ad eventuali

attacchi da qualsiasi altra provenienza ) creano grande

disorientamento nelle forze armate italiane, a tutti i livelli, con

disastrose conseguenze. I tedeschi, all’annuncio dell’armistizio, da

alleati sono diventati forze di occupazione. I nostri quadri militari non

sanno cosa fare né quali ordini impartire ai loro reparti di fronte alla

scelta drammatica se arrendersi ai tedeschi, combattere al loro fianco

o contro di essi. Si verificano casi di suicidio da parte di alti ufficiali

per non subire l’onta della cattura e della prigionia; episodi di interi

reparti che reagiscono con le armi alle condizioni dei tedeschi e

cadono in combattimento o, se superstiti, vengono barbaramente

trucidati6. Sono i luoghi e le particolari circostanze in cui ciascuno si

trova che determinano le scelte individuali e di gruppo. L’esercito

italiano è in gran parte formato da contadini del meridione; il primo

impulso è quello di tornare a casa e comunque di pensare alla

sopravvivenza7. Di quelli che tentano la via del ritorno a casa, molti

sono catturati e fucilati o deportati, come successe al nostro

concittadino Liborio Meglio, (6/9/1912), finito nel campo di sterminio

di Flossenburg (Norimberga). Alcuni vi riescono, sfuggendo

fortunosamente ai rischi della cattura, tra mille difficoltà e dopo molti

6 Montanelli-Cervi, Storia d’Italia-L’Italia del Novecento, Milano, Fabbri Editori, 1998, pp.244-245. 7La situazione era quella che avremmo vista rappresentata nel film di Luigi Comencini, Tutti a casa, del 1960, con

l’interpretazione di Alberto Sordi.

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giorni di cammino: nascondendosi di giorno e camminando di notte,

sempre lungo le linee ferrate, dormendo, quando possibile, nei

casolari ferroviari, nutrendosi di frutta e di quello che offriva la

campagna e qualche famiglia di buon cuore. Tale fu l’esperienza di

un nostro parente, che, partito il 13 settembre assieme ad altri

commilitoni, da Gorizia, dove prestava servizio, giunse a Pietraperzia

dopo 23 giorni di viaggio. Intercettati una sola volta, ormai nei pressi

di Salerno, da carabinieri italiani e portati al comando inglese, furono

trattenuti per due giorni ed impiegati in lavori di scarico viveri da una

nave. Fu l’occasione per potersi rifocillare, fare rifornimento di

scatole di sardine e di carne. Lasciati inoperosi e senza alcun

controllo, ripresero il loro cammino8.

Altri, invece, isolati di reparti allo sbando, trovano rifugio presso

famiglie del luogo con le quali avevano instaurato buoni rapporti, si

accasano e lì superano, senza conseguenze, il periodo della guerra

civile, e vi rimangono per il resto della loro vita.

Ma la storia documenta anche di moltissimi militari che, abbandonate

le caserme al seguito di loro ufficiali, vanno verso le montagne, a

ingrossare le fila delle “bande partigiane” che erano incominciate a

formarsi, dando vita alla resistenza armata per liberare l’Italia dai

nazifascisti. Il regime fascista, infatti, ripristinato con la liberazione

del suo capo, e organizzato nella Repubblica Sociale Italiana (RSI)

con l’intento di far rivivere un nuovo stato fascista repubblicano,

sostenuto dai soldati ad esso rimasti fedeli e forte dell’appoggio

militare tedesco, governa l’Italia settentrionale ancora occupata. Dal

1943 al 1945 il nostro Paese, quindi, rimase diviso in due: Regno del

8 Testimonianza di Vincenzo Siciliano (Vicinzu Barraggiddu).

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Sud e Repubblica Sociale Italiana (o di Salò dal nome della cittadina

in provincia di Brescia, sede del governo fascista).

La guerra che imperversò per due anni in quella parte d’Italia fu,

pertanto, una vera e propria guerra civile. Essa conobbe atti di feroce

crudeltà e di inumana rappresaglia anche nei confronti di popolazioni

inermi, soprattutto ad opera dei tedeschi.

Ma la delimitazione fu solo geografica. È senza fondamento la

convinzione che la resistenza per la liberazione dell’Italia dalla

dittatura nazifascista sia stata “faccenda”esclusiva della gente del

nord. Ad essa parteciparono, con contributo di sacrifici e di sangue,

uomini e donne provenienti da tute la parti d’Italia. Perché, se da una

parte “prevalevano le divise”, dall’altra, nelle formazioni partigiane

“si parlavano tutti i dialetti”9.

Non esistono dati certi circa il numero di meridionali che scelsero di

combattere per la libertà. Una stima parziale, fatta dall’Istituto di

Storia della Resistenza di Torino (ISTORETO) relativa alle squadre

partigiane che operarono nelle province di Torino e Cuneo,

ridimensiona al 20%, la precedente valutazione dello storico Augusto

Monti che sosteneva aggirarsi intorno al 40% la presenza di

meridionali in quelle formazioni10.

Per quanto riguarda, in particolare, il contributo dato dai siciliani alla

Resistenza, in un articolo sul quotidiano “la Repubblica” del 25

/4/2008, si parla di 2.600 partigiani siciliani, riconosciuti

dall’ISTORETO, che operarono in Piemonte; a parte le province di

Biella Novara e Vercelli che dipendevano dal comando di Milano11. Ad

integrazione di tale dato, portandolo a 2727 unità, l’articolo di Mauro

9 Bianco, Dante Livio, Guerra partigiana, Einaudi, 1974. 10 Amelia Crisantino, I partigiani siciliani liberatori di Torino, la Repubblica, 23 aprile 2005, sezione: Palermo. 11 Carmela Zangara, Ecco i partigiani di Sicilia, la Repubblica, 25/4/2008.

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Begozzi, pubblicato sulla Rivista “Nuova Resistenza”, riporta i

nominativi di 127 combattenti siciliani presenti nelle formazioni

partigiane del novarese e del VCO (Verbano Cusio Ossola, i paesi

intorno al lago Maggiore ) tra cui 18 caduti e 3 deportati in

Germania12

Non sono solo militari ma anche operai, impiegati, ferrovieri,

studenti, carabinieri siciliani, giovani e meno giovani, provenienti da

tutte le province dell’isola, in Piemonte per precedenti migrazioni o

trasferimenti. Situazioni simili si trovavano anche in altre regioni del

nord occupate dai tedeschi. Un esempio molto noto è quello di

Concetto Marchesi di Misterbianco (CT), latinista, rettore

all’Università di Padova, il quale fu tra i primi ad incitare studenti e

professori a lasciare la scuola, dandone l’esempio, e a unirsi ai

resistenti per liberare l’Italia dal terrore nazista.

Secondo dati ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani), 211

furono i siciliani che persero la vita in Piemonte, molti dei quali

insigniti di medaglia d’oro (26), d’argento ( 85), di bronzo e di croce

di guerra. Altri 70 si immolarono nelle altre regioni d’Italia, 5 perirono

nel massacro delle Fosse Ardeatine di cui uno insignito di medaglia

d’oro, due d’argento13. Tra i caduti è indicato il nome di un figlio di

Pietraperzia: Filippo Di Blasi (Pirtusiddu), 12-9-1920, caduto in

combattimento a Chiusa Pesio (CN) il 24/3/1945. Quella di Filippo Di

Blasi è una vicenda toccante; sentirla raccontare dal cognato,

Vincenzo Guarnaccia (Vicinzu Caniglia), ci ha procurato intensa

emozione. Filippo, in servizio a Cuneo, si è fidanzato con una ragazza

12 Mauro Begozzi (a cura di), Dalla Sicilia per la Libertà. I combattenti siciliani nelle fila delle formazioni partigiane del

Novarese e del VCO. Su “Nuova Resistenza”, Luglio-Agosto 2007. Inserto speciale. 13 I dati relativi ai caduti, come quelli che riguardano la partecipazione dei siciliani alla resistenza, sono approssimativi e

parziali e non da considerare come esaustivi e definitivi.

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di Beinette, piccolo comune di quella provincia, dove i genitori di lei,

sig.ri Quaranta, possiedono una grossa cascina. Dopo l’8 settembre

Filippo viene accolto dai futuri suoceri, tra l’altro figure di spicco della

Resistenza alla quale anche lui ha aderito. Della IV Divisione Alpini,

Filippo opera con le bande dislocate nelle montagne della Valle Pesio.

Le valli del cuneese, culla delle prime formazioni partigiane, sono le

zone in cui più frequenti si susseguono i rastrellamenti e più accesi i

combattimenti. Spesse volte, tra molti rischi, il nostro giovane

partigiano è sceso a Beinette, in quei venti mesi di vita di trincea,

rinsaldando il legame con la famiglia Quaranta, e parlato di

matrimonio, da celebrare a liberazione avvenuta. Quando però

manca circa un mese alla liberazione, in uno di quegli scontri che si

fanno più violenti quando la conclusione si avvicina, Filippo rimane

ucciso. La notizia colpisce e addolora la ragazza e i suoi familiari;

sono loro che si occupano del recupero del corpo e della tumulazione

nel cimitero di Beinette. La Cascina Quaranta, a Beinette, ora si trova

in Via Filippo Di Blasi: i Quaranta, membri influenti della comunità,

hanno voluto che la strada in cui si trova la loro casa fosse intitolata

al ragazzo siciliano che si era immolato per la liberazione dell’Italia.

Tra gli esempi più illustri del contributo dato dai siciliani alla

liberazione dell’Italia è annoverato, per il ruolo che vi svolse, l’on.

Pompeo Colajanni, classe 190614. Il personaggio sarebbe divenuto

molto noto a Pietraperzia: fisicamente inconfondibile per i suoi

foltissimi baffi neri, più volte, nel dopoguerra, i pietrini udirono la sua

voce robusta risuonare nella Piazza Vittorio Emanuele, durante le

14 Dalla scheda biografica ANPI di Palermo: on. .P. Colajanni, nato a Caltanissetta il 4/1/1906, morto a Palermo nel 1987

”…fu sottosegretario alla Difesa nel primo governo Parri e nel primo governo De Gasperi, ricoprì diverse cariche politiche

di rilievo nel Parlamento nazionale e nell’Assemblea siciliana. Fu segretario delle federazioni comuniste di Enna e di

Palermo.

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campagne elettorali. Egli, nel 1943, tenente di complemento presso

la Scuola di cavalleria di Pinerolo, fu tra i primi, subito dopo l’8

settembre, ad organizzare, con altri ufficiali, i suoi soldati e civili, la

resistenza, fondando a Borgo San Dalmazzo (CN) la banda partigiana

“Carlo Pisacane” da cui si svilupparono le brigate “Garibaldi”. Le

imprese da lui condotte, come comandante delle brigate garibaldine

della zona del Monferrato, con il nome di battaglia di “Barbato”, sono

rimaste leggendarie. Per la sua esperienza e competenza militare fu

nominato Vice comandante del Comando Militare Regionale

Piemontese del Corpo Volontari della Libertà che riuniva i vari

raggruppamenti partigiani di diverso orientamento di tutto il

Piemonte. Furono le formazioni partigiane guidate da “Barbato” che

liberarono Torino il 28 aprile 1945. Il Comune di Cavour (TO) ha

voluto ricordare il grande partigiano apponendo sulla facciata del

palazzo comunale, in piazza Sforzini, una lapide con questa

iscrizione: «Da Cavour (TO) il 10/9/1943 con alla testa il comandante

Barbato on. Pompeo Colajanni un gruppo di militari e civili iniziò la

guerra di liberazione nella zona per dare al nostro paese pace libertà

e democrazia. L’Amministrazione Comunale e i partigiani superstiti

posero il 25 /4/1992. »

Non meno degno di essere ricordato è il Comandante “Petralia”,

nome di battaglia di Vincenzo Modica, classe 1919, di Mazara del

Vallo. Ufficiale presso la Scuola di cavalleria di Pinerolo, come

Pompeo Colajanni, ma di diversa formazione ed esperienza politica,

convinto dal più anziano tenente, lo seguì e ne divenne vice e braccio

destro. Si rese celebre come comandante della I Divisione

Garibaldina. “Petralia”era al fianco di “Barbato” nella liberazione di

Torino. A lui, ferito al braccio sinistro, toccò l’onore di portare la

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bandiera del CVL ( Corpo Volontari della Libertà) nella sfilata dei

partigiani vittoriosi del 6 maggio 1945, a Torino.

La data del 25 aprile ‘45 segna la fine della guerra fratricida e la

liberazione dal nazifascismo. Dovevano passare ancora 14 mesi

prima che i prigionieri di guerra potessero tornare alle loro famiglie.

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ALTRI EVENTI E ASPETTI DEL DOPOGUERRA A PIETRAPERZIA (II PARTE)

Salvatore e Maria Giordano

Assieme agli aspetti che concernevano il piano delle vicende belliche

e politiche, molte erano le difficoltà di natura materiale che

angustiavano le famiglie nel periodo del dopoguerra. Esse

riguardavano la carenza di generi di prima necessità, come

alimentari, indumenti, medicine e materie prime. Presso i negozi

convenzionati si potevano prelevare con la tessera annonaria,

distribuita dal Comune (ECA), pasta, pane, olio, zucchero, secondo

la misura prevista in base ai punti assegnati ad ogni famiglia; si

trattava, comunque, di quantità non sufficienti in rapporto alle

esigenze. Le famiglie dei contadini, che potevano contare sulla

campagna, non lamentavano disagi rispetto alla disponibilità di

prodotti base dell’alimentazione: grano per fare pane e pasta, olio,

ortaggi, frutta. Più pesanti erano le condizioni delle famiglie degli

impiegati, degli operai e degli artigiani. Questi ultimi, nelle

ristrettezze generali, ricevevano poche commissioni e mancavano

anche delle materie prime per eseguire gli ordini connessi alla loro

attività. In una civiltà contadina, la cui economia si fonda

essenzialmente sulla coltivazione della terra, è consuetudine

stipulare contratti tra le categorie, regolati sulla base del pagamento

in natura di servizi e beni, da onorare al raccolto. Contratti fondati

sul baratto erano da tempo in atto nel nostro paese tra i contadini e

gli artigiani; questa pratica andava bene per gli uni e per gli altri

specie in momenti di carestia. Ricordiamo benissimo di aver visto il

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sig. Cosimo Tragno, barbiere, ritirare il pattuito presso la casa del

nonno, mentre faceva il suo giro, con un somarello evidentemente

chiesto in prestito, per le abitazioni dei clienti. E ritornare a casa con

le bisacce piene di grano. Tali forme tradizionali di contratto

andarono avanti a lungo nel nostro paese, almeno sino a quando il

modello di sviluppo rimase fondato sull’agricoltura. Le cose

cambiarono quando le mutate scelte politiche nazionali provocarono

l’abbandono delle campagne e l’esodo dei contadini verso le città

industriali del nord, dove diventarono operai presso le varie industrie.

Quelli del dopoguerra furono anni in cui, come e più di prima,

passarono ai figli i vestiti smessi dei genitori, ai fratelli minori quelli

dei maggiori; in cui scucire vecchie maglie, recuperare con cura i filati

e riutilizzarli per confezionarne di altre; in cui materassi e cuscini

vennero svuotati della lana, sostituita con materiale vegetale, lu

crinu, lana che, lavata, cardata, filata, serviva per tessere nuovi

indumenti per adulti e bambini.. Anni, insomma, in cui, per parecchio

tempo ancora, si continuarono ad usare la rocca e lu fusu, majidda,

maidduni e sagnaturi, e a cerniri farina e a mpastari lu pani, ed ogni

altra attrezzatura casalinga per confezionare a mano ogni cosa che

serviva per la vita quotidiana, dal cibo ai capi di vestiario, dal sapone

e la cinniri di minnula per pulire, ai colori per tingere indumenti.

Ad alleviare, in parte, la penuria di tali generi contribuirono gli aiuti

dell’UNRRA, United Nations Relief Rehabilitation Administation

(Amministrazione delle Nazioni Unite per la riabilitazione e il soccorso

dei paesi liberati) organizzazione umanitaria internazionale, fondata

nel 1943 a Washington, e sottoscritta da 44 Stati, con lo scopo di

portare aiuti alle popolazioni colpite dalla guerra liberate dagli alleati.

Sostenuta per il 70% dal contributo degli USA, l’UNRRA prevedeva

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interventi a largo raggio che andavano dall’invio gratuito di generi di

prima necessità come prodotti alimentari per i bambini e le madri,

medicine per la lotta contro malaria e tubercolosi, distribuzione di

tessuti per confezionare indumenti, a sovvenzioni per l’acquisto

facilitato di concimi, di attrezzature, di mezzi meccanici per il rilancio

dell’agricoltura. Prodotti dietetici americani come latte in polvere,

omogeneizzati, gallette fecero sicuramente parte della alimentazione

di molti neonati pietrini dell’epoca.

« La distribuzione dei tessuti a Pietraperzia, racconta Salvatore,

avveniva in via San Domenico nel locale al piano terra del palazzo

comunale, laboratorio di sartoria di Angelo Di Gregorio. Io mi ci

recavo per andare a trovare papà che faceva parte del comitato che

sovrintendeva alla distribuzione. Fu in una di tali visite che incontrai

Rosario Mendola, Sariddu Minnula, dei Mendola di Via Roma, fratello

di Michele, Cristina, Pino, ed ebbi subito la sensazione di una

reciproca simpatia. Spirito allegro e giocherellone, così mi sembrò

dal suo sguardo, gli piacque entrare in confidenza con un bambino

molto più giovane di lui, stuzzicandolo simpaticamente con delle

trovate spiritose. Ricordo ancora la sua prima battuta: «Cosa stanno

a significare tutti questi “schinopeggi” che disegnano sulla stoffa?!»,

fece, invitandomi ad osservare gli arabeschi a zig-zag tracciati sulla

cimosa del tessuto. Da quel momento, “ciao schinopeggi”, fu il nostro

modo di salutarci, ridendo. Sariddu aveva sempre qualche curioso

fatterello da raccontare, commentandolo scherzosamente, con cui

rendeva piacevoli i momenti trascorsi in sua compagnia». «Non l’ho

mai più rivisto ma la sua figura mi è rimasta impressa».

Le operazioni dell’UNRRA si interruppero nel 1947; la prosecuzione

di molti dei progetti previsti dal piano passò alle strutture dell’ONU.

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Entrarono invece in funzione le più consistenti forme di aiuti

postbellici per la ricostruzione materiale delle città distrutte dalla

guerra, previste dall’E.R.P. (European Recovery Program) noto come

“Piano Marshall”.

Nel periodo successivo alla guerra anche gli emigrati americani

intensificarono la loro spedizioni di pacchi ai parenti in Italia, forse

spinti dalle stesse istituzioni USA. Questa consuetudine contribuì ad

accrescere in noi la percezione del mito della ricchezza americana.

Molti dei nostri paesani avevano parenti emigrati in USA; anche tre

dei quattro fratelli di nonna Nina, Calogero, Francesco e Salvatore,

vi erano emigrati nei primi decenni del ‘900. La nonna parlava

sempre di questi fratelli più giovani di lei, ai quali era molto legata e

dei quali soffriva la lontananza. Non era infrequente che giungessero

alla nonna pacchi dai suoi fratelli, qualche volta anche dei dollari.

L’arrivo di un avviso dall’ufficio postale di andare a ritirare un pacco

la emozionava molto ed eccitava la nostra curiosità. I pacchi erano

così grossi e pesanti che, a volte, neanche un adulto da solo poteva

trasportarli a casa. Era nello stile degli zii non inviare indumenti o

roba usata, ma tagli di stoffa adatti a confezionare vestiti e cappotti

maschili e femminili, biancheria per la casa, lenzuola, camicie per il

nonno e per i nipoti. «Ricorderò sempre il vestito in rosatello a fiori,

dice Maria, che mamma mi fece cucire da donna Pasqualina la Pitarra

, così come ricordo un carinissimo gilè che la nonna, appena estratto

dal pacco, volle che fosse destinato a me, sicura che l’avrei gradito:

era nero con la scollatura a V e con delle bordure bianche e rosse. Lo

indossai subito e volentieri». Mike, venutoci a trovare durante la

guerra, fu l’unico che conoscemmo di persona dei nostri cugini

americani; altri ne conoscemmo tramite le fotografie che gli zii

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inserivano nelle loro lettere. Conserviamo ancora quella di due fratelli

sui diciotto-vent’anni, un fratello e una sorella elegantemente vestiti,

figli di una figlia di Zio Salvatore: «così la nonna amava immaginare

i suoi due nipoti, Salvatore e me, quando fossimo cresciuti», dice

Maria.

«Per anni, prosegue Maria, curai io la corrispondenza della nonna con

i suoi fratelli. Discutere con la nonna quando decideva di rispondere

alle lettere dei fratelli era davvero divertente: storceva la bocca

quando sentiva tradotte in italiano le espressioni che lei mi veniva

dettando in dialetto; le sembrava che dicessero un’altra cosa rispetto

a quello che lei aveva voluto comunicare. In una sua lettera uno degli

zii aveva chiesto la ricetta del torrone con le mandorle e quella volta

ebbi un gran da fare, ci volle tutto il pomeriggio, ma alla fine riuscii

ad elencare ingredienti e casseruole adatte e a descrivere con

chiarezza le fasi di lavorazione. Mi sentii sollevata quando lo zio

rispose, «il torrone mi è riuscito ottimo». Anzi, volle che gli

inviassimo la fotografia della nipotina che, con tanta pazienza, teneva

viva la corrispondenza con la sorella. Li accontentammo e ne furono

felici; risposero che somigliavo alla sorella da giovane , aggiungendo

che «guardandola ci siamo fatti una “piangiutella». Allora, quando

lessi quella parola, mi venne quasi da riderne; ripensandoci, dopo

tanto tempo, la “piangiutella” viene da farla anche a me».

A rendere più triste la vita dei pietrini, alle tante vicissitudini della

ripresa si aggiungeva quello della mancanza della corrente elettrica.

L’unica centrale esistente in paese, la centrale di Callararu, che aveva

erogato energia, era fuori servizio per la scarsa disponibilità di

carburante. Al calar della sera, all’interno delle case si accendevano

i lumi a petrolio ccu lu tubbu americanu, e le antiche lumeri ad ugliu

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ccu lu meccu di cuttuni. Petrolio e tubi si compravano nti Civittuni

che aveva il negozio in Via Barone Tortorici, vicino a la Matrici, e su

cui il nostro affabulatore, don Cicciu Cudduzzu, aveva ricamato una

divertente storiella in versi, Lu tubu americanu, appunto. Prima

ancora di leggerli sul libro, passi di questa e di altre poesie, noi

sentivamo recitare da nostra madre; lei è stata la nostra prima fonte

di conoscenza del poeta pietrino.

L’ottu marzu annu vintunu,

si vi spia quarchedunu,

chi cci fu ntra ‘na citati,

chistu fattu cci cuntati

[… … … ..]

Un viddanu ruppi un tubbu,

percò dissi:” Cumu addubbu

senza tubbu e ccu lu fumu

di l’assuliu ca m’affuma?

Teni cca ‘na lira e vinti

Lu v’accatti e cci lu minti.

[… … … …]

Cchiù a sta via di la Matrici

abitava un negozianti,

cu ’na machina parlanti,

ca vinnia tanti ratteddi:

sita lana zagareddi,

rinalicchi e piatta fini,

nastri, lazzi di scarpini

[... … … …]

pumittedda di gilecchi,

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tazzi, lumi, tubbi e mecchi

[… … … …]15.

Nei locali pubblici, sodalizi o bar, si usavano i petromax, il cui

funzionamento consentiva la completa bruciatura del gasolio; non

emettevano fumo ed emanavano una luce bianca ed intensa. In

occasione di feste private, matrimoni, battesimi o serate danzanti, le

famiglie se li procuravano; c’era chi li affittava, o li chiedevano in

prestito, per rendere più luminosi gli ambienti in cui venivano tenute

le feste serali. Alla luce dei petromax si tennero nella casa della

nonna paterna, in Via Ville Superiori, i trattenimenti in occasione dei

matrimoni dello zio Biagio, nel 1947, e della zia Maria, nel 1948. Per

le strade il buio era totale, tanto che pochissima gente si poteva

vedere in giro dopo una certa ora: era come se continuasse

l’oscuramento del periodo bellico. Col buio, inoltre, in un paese in cui

solo qualche abitazione disponeva di allacciamento alla rete fognaria,

era facile evento riceversi addosso qualche scarica di liquido di odore

pungente. Se si era costretti a uscire per qualche serio motivo, era

necessario fornirsi di un lume; a questo scopo si prestava lu lumi di

li carrittera, di cui tutte le famiglie erano fornite. Spesse volte, dopo

esserci attardati a casa dei nonni sino a sera inoltrata, era lo zio

Francesco che ci accompagnava alla nostra abitazione. Nel caso dei

medici e delle levatrici, la cui presenza era necessaria in certi

momenti, erano solitamente i parenti dell’ammalato o della

partoriente che andavano a prelevarli a casa loro e li

riaccompagnavano. I Pietrini dovettero attendere parecchi anni

15 Francesco Tortorici Cremona, Aranci di nterra, Breve collezione di novelle e aneddoti espressi in linguaggio poetico

siciliano, con introduzione di Antonio Lalomia.

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prima di poter godere delle loro case e delle loro strade illuminate;

quando quel momento arrivò fu un grande sollievo, che servì anche

a mettere di buon umore la gente. La corrente elettrica, la luci

bianca, arrivò a Pietraperzia nel 1951, tramite l’allacciamento con la

centrale di Caltanissetta. Fu per tutti una gioia potersi liberare

finalmente del fumo e dell’odore del petrolio; era comodo, inoltre,

potere, con una sola lampadina, dedicarsi ciascuno a ricamare, cucire

e a leggere anche in punti distanti della stessa camera. Tuttavia,

come tutte le novità, l’innovazione trovò qualche resistenza da parte

delle persone più anziane, le quali si opposero all’attacco nelle loro

case, sentendosi più sicure del sistema di illuminazione centrato sulla

tradizionale lumera, che meglio conoscevano e potevano controllare.

La prima cabina di trasformazione, con una porta d’entrata e una di

uscita, fu costruita in fondo alla Discesa S.Orsola, a qualche decina

di metri da Via della Pace. Con l’aumentare delle richieste di

allacciamento da parte delle famiglie, fu presto necessario costruirne

un’altra. La società erogatrice dell’energia elettrica era la SGES,

(Società Generale Elettrica della Sicilia); la persona addetta alla

gestione tecnica dell’impianto a Pietraperzia fu, per molti anni, il sig.

Castelli che divenne presto noto in tutto il paese. Alto, con pochi

capelli, una parlantina veloce, oltre che esperto conoscitore del suo

mestiere “Castelli”, come comunemente veniva chiamato omettendo

il nome, tanto che ora ci sfugge, era persona disponibile, cordiale,

pronta ad ascoltare tutti; e tutti a lui si rivolgevano con fiducia per

qualsiasi problema inerente al servizio. A cercarlo lo si poteva

incontrare facilmente in piazza, mentre si recava, indaffaratissimo, a

soddisfare qualche richiesta. Il nome di Castelli, Giuseppe, non

sfugge invece a Lillu Maddalena, figlio dello storico pietrino Giuseppe

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Maddalena, che, per via della sua attività, gestore del “Mulino La

Monica-Maddalena”, ebbe spesso a che fare con lui. Castelli, racconta

tra l’altro Lillu, aveva le mani coperte da spessissimi calli a causa

delle scariche elettriche che aveva preso toccando, a mani scoperte,

fili in tensione. Ora quella massa callosa gli serviva da protezione ed

egli continuava con noncuranza a fare come prima, suscitando la

meraviglia degli astanti: quando lo mettevano in guardia, Castelli

alzava e faceva vedere le mani, come a dire che non c’era da

preoccuparsi, ormai.

La SGES cessò la sua attività alla fine del 1962, quando con la legge

della nazionalizzazione dell’energia elettrica (L. 1643 del 6/12/1962),

voluta dal primo governo di centro sinistra, fu creato l’ENEL, che

assorbì circa 1270 imprese che operavano nel settore della

produzione commercializzazione e distribuzione dell’energia elettrica.

Ma la gente non stava con le mani in mano, contando soltanto sugli

aiuti esterni. Le diverse attività erano rallentate per forza di cose, ma

mai si erano interrotte del tutto. In quegli anni l’ansia e la volontà di

ripresa erano segnate dalla presenza nelle strade di vecchi e nuovi

personaggi, di ogni genere di venditori ambulanti, commercianti

anche improvvisati, artigiani, che offrivano servizi ed ogni tipo di

merce. Erano salinari, venditori di sarde salate, di baccalà, di olio, di

frutta, di uova, di cannistra e panara, impagliatori di sedie, ombrellai,

canciacapiddi. Non era strano vedere in mezzo alla via piccoli

assembramenti di donne attorno a lu purciddaru -venditore di

porcellini mentre, tra gli acuti grugniti delle malcapitate bestiole,

sceglievano, si consigliavano, valutavano, contrattavano e tornavano

a casa con il loro roseo o nero lattonzolo. Perfino l’inchiostro si poteva

acquistare; lo vendeva, sfuso, un signore che andava in giro con una

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vecchia bicicletta con un paio di bocce impagliate piene, ben

assicurate sul portabagagli. Quando arrivava si faceva subito

riconoscere per il suo verso e la sua voce inconfondibili: “Inchiostlo

pe’ sclivele…”, annunciava, alla maniera dei cinesi quando parlano

l’italiano, strappandoci anche qualche risata.

Tra i venditori ambulanti del paese, Calogero Barone, Liddu lu

Puntinaru, era il più noto e conosciuto. Tornato dalla prigionia aveva

ripreso a girare per le strade con il suo fagotto sulle spalle contenente

merce varia per uso personale e domestico, dalla biancheria intima

per uomini e donne, adulti e bambini, alle tovaglie da tavola, alle

lenzuola ecc., tutta merce di ottima qualità. «Si conservano ancora

belli, dopo molti anni, degli asciugamani di spugna in puro cotone

che la mamma comprò da lui per il mio corredo», dice Maria. Piaceva

a Liddu fermarsi e discutere con le clienti, alle quali offriva la sua

mercanzia elencando i vari prodotti e decantandone i pregi. Era un

uomo buono e pieno di fede; riprendendo il cammino, nella paziente

accettazione della sua quotidiana fatica, non mancava di pronunciare

la frase: «avanti, Liddu, in nome di Dio, va’ guadagnati la pagnotta».

Fino a quando ce lo ricordiamo, non smise mai di esercitare questo

lavoro; col passare del tempo e l’avanzare dell’età si era comprato

un somarello, sulla groppa del quale aveva potuto caricare maggior

quantità di roba, risparmiando così un po’ di fatica. In anni più vicini

a noi il figlio maggiore,Vincenzo, continuando nell’attività paterna, si

sarebbe procurato un furgoncino.

Un modo originale di vendita era quello del “lunario”, il venditore a

rate del lunedì. Lu lunariu vendeva la stessa merce di Liddu lu

Puntinaru, ma passava a ritirare le rate pattuite ogni lunedì;

concedendo alle acquirenti più tempo per il pagamento della merce

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acquistata, esse si sentivano incoraggiate a comprare. La vendita a

rate in forme diverse si sarebbe incrementata ed allargata a

moltissimi prodotti.

Un mestiere che non si ricorda neanche più che sia esistito, e che

può perfino far sorridere in un’epoca in cui, piuttosto che riparare un

oggetto rotto, si preferisce sostituirlo con uno nuovo, era quello di lu

conzapiatti. Era comune usanza del nostro paese adoperare grossi

piatti di terracotta smaltata ad uso dell’intera famiglia, dove veniva

scodellata la pastasciutta e più persone potevano, ciascuno dalla

propria parte, affondare la forchetta. L’acquisto di tali piatti avveniva,

per lo più, durante le fiere di ferragosto o della Madonna del Rosario

ai primi di ottobre: Erano belli e robusti questi piatti, fatti a mano,

pertanto non raffinatissimi, smaltati e pitturati con colori vivaci. Sul

bordo del piatto scorreva tutt’intorno una greca, generalmente

azzurra; all’interno dominavano il verde, il giallo, il rosso, che

dipingevano i soggetti rappresentati al centro: spighe dorate, cesti di

frutta. I piatti più venduti erano quelli col motivo del gallo: altero,

impettito, cresta rosso vivo, due grossi bargigli, una coda lunga e

fitta di piume brillantissime. Quando si rompeva uno di questi piattoni

era un dispiacere per la massaia, sia per la spesa ed i possibili

rimbrotti del marito, sia perché poteva non essercene uno di ricambio

e magari si era ancora lontani dalla più prossima fiera. Per fortuna

c’era lui, l’aggiustapiatti, lu cunzaturaru. I cocci del piatto rotto

venivano messi da parte, prima o poi lui sarebbe passato. Le famiglie

che hanno conservato tali oggetti li adoperano adesso per ornare

cucine o altri locali, appendendoli alle pareti a mo’ di quadri. Uno

bellissimo, ancora come nuovo, fa mostra di sé nella casa di Graziella

e Saro Siciliano, a Santena, collocato sopra il bordo superiore della

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cappa del camino del forno, all’interno della tavernetta: testa alta,

possente cresta rossa, il gallo, nei suoi sgargianti colori, domina al

centro del piatto; fiero, quasi abbia coscienza del proprio ruolo, fa

pensare a un generale in alta uniforme.

Lu conzaturaru, che girava per le strade del nostro paese era un

uomo non più giovane e che, chiamato dalle donne che avevano

sentito il suo annuncio, si fermava a riparare, “cunzari”, piatta, tazzi,

ggiarriteddi, vasi, boccali ed altri recipienti di terracotta. Portava sulle

spalle una cassettina di legno contenente gli attrezzi da lavoro: un

piccolo trapano, tenaglie, pinze, lima, un rotolino di fil di ferro e un

barattolino di latta contenente una sostanza molle di colore grigio, il

mastice. Più che strumenti di lavoro, i suoi sembravano giocattoli,

quasi che egli andasse in giro per far divertire i bambini più che per

guadagnarsi da vivere. I bambini, infatti, si fermavano ad osservare

lu conzapiatti mentre adoperava quegli attrezzi minuscoli, coi quali

loro avrebbero volentieri giocato, e la montagnetta di polvere color

della creta che si depositava ai suoi piedi e che copriva il suo

grembiule di grossa tela. «Io lo vidi all’opera una volta davanti la

porta di casa di nonna Nina, in via Ville Superiori», dice Maria.

«Posata a terra la sua cassetta e ricevuti dalla nonna i cocci del piatto

si mise a verificare con attenzione che combaciassero perfettamente.

Appoggiati poi i cocci del piatto su una tavoletta di legno che si era

sistemata sulle gambe, col suo piccolo trapano vi praticò i fori

necessari; tagliò dal suo rotolino dei pezzetti di fil di ferro, ne fece

delle graffette e le introdusse nei fori dalla parte interna dei pezzi da

unire, tenendoli strettamente accostati. Attorcigliò ben bene le

estremità sporgenti delle graffette e le ripiegò in modo che facessero

meno spessore. Sopra i punti infine passò il mastice».

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«Cummà», disse il conzapiatti alla nonna consegnando il piatto

cucito, « lassatilu asciucari tantì, appena s’asciuca lu piattu jè

prontu». Pagato il pattuito, la nonna, cui era consuetudine offrire

sempre da bere a chiunque passasse da casa sua per visita o per un

servizio: «Cumpà», disse, «bbunu vinni lu piattu, sprammu ca nun

perdi; ntantu vivitivi stu bicchiri di vinu».

«V’arringrazziu cummà, salutatimi a Pasquali».

Nel frattempo la gnura Cuncittina, affacciatasi sulla porta, chiamava

lu cunzaturaru : «Passassi di nti mi’ ca aiju u’ llemmu di cunzari».

Il piatto riparato restava comunque sempre lu piattu cunzatu, ed era

utilizzato come ripiego: equilibrio e tenuta lasciavano spesso a

desiderare. Nella novella La giara Luigi Pirandello, nel personaggio di

Zi’ Dima Licasi, ha reso immortale la figura del “conciabrocche”.

Per la vendita di pizzi, merletti, nastri di raso e affini, erano famose

le modicane. Arrivavano da Modica (RG) ed erano le stesse che, in

estate, venivano a spigolare nei nostri campi. «Ne ebbi una prova,

dice Maria, un giorno che una venditrice di pizzi passò da casa mia

per vendere i suoi merletti. La riconobbi per averla vista a

Marcatobianco, dai nonni, durante il periodo della trebbiatura del

grano. Volentieri la donna si fermò a bere e a chiacchierare con la

mamma da vecchi conoscenti».

Modicani e sciclitani praticavano una specie di nomadismo estivo:

singolarmente o in piccole carovane di due tre carri, sui quali

caricavano tende ed attrezzature, dopo aver viaggiato anche di notte,

arrivavano con tutta la famiglia dalle nostre parti, luoghi di

coltivazione estensiva del grano. Si accampavano in posti vicini a

qualche casa colonica e in prossimità di pozzi, e vi restavano per

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qualche tempo o per tutto il periodo della loro spigolatura. Se

l’esperienza era stata positiva anche dal punto di vista dei rapporti

umani con le persone del posto, vi tornavano l’anno successivo. Ai

tempi della nostra infanzia, viveva a la rrobba di li Minniti, una

famiglia di modicani, lu Massaru Saru e la gnura Grazziedda, che,

arrivati un’estate per spigolare, ottenuta della terra da coltivare a

mezzadria, vi erano rimasti definitivamente. Avevano tre figlie

femmine Carmela, Palmina e Maria. Ce li ricordiamo come persone

laboriose, buonissime e pazienti.

Forniti di sacchi e di sacchini, dalla postazione base, i modicani si

spostavano anche di chilometri, spigolando tutto il giorno nei campi

dove i covoni erano stati ritirati e il grano trebbiato. Tornavano

all’attendamento la sera per depositare il raccolto e riprendere il

giorno dopo, fin dalle prime luci dell’alba. Così, giorno dopo giorno,

spiga dopo spiga, riuscivano, alla fine, a mettere insieme, dopo

accurato lavoro di battitura e di pulitura, alcuni tumoli o alcuni sacchi

di grano, a seconda delle annate. Lo spiazzo di fronte al fondaco di

Marcatobianco, proprio dove vivevano i nonni, d’estate era sempre

occupato da qualche famiglia di modicani. La presenza del pozzo a

pochi passi, la grande estensione, nel feudo, di terra coltivata a

grano, lo rendeva un posto strategicamente adatto a piantarvi le

tende. Per molti anni vi si accampò una famiglia di sciclitani, quella

dei Ficili, composta dal padre, Bartolomeo, Vartulu, madre Ignazia,

Tudda, e i figli Francesco e Giuseppina, Ciccio e Pina. Il nonno che,

per istinto, intuiva l’indole delle persone, non fece mai mancare la

sua generosa disponibilità a questa famiglia. Con la disposizione sua

e della nonna a trasformare in amicizia ogni nuova conoscenza, si

stabilì con suoi componenti un rapporto di familiarità e di fiducia che

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continuò per tutta la vita, fino ad interessare figli e nipoti. Il nonno

consentiva loro di attingere acqua al pozzo, dava la disponibilità di

un magazzino all’interno del fondaco per depositare gli attrezzi e i

sacchi del grano; a utilizzare il forno per la preparazione del pane. La

famiglia Ficili si mostrava altrettanto generosa nel ricambiare tale

ospitalità, rendendosi utile e, soprattutto, compari Vartulu, abile e

versatile nell’usare aghi e filo da vardunaru, ascia e pialla come un

mastru d’ascia, riparava visazzi, rutuna, varduna e finimenti, carri e

strauli ed altri attrezzi agricoli. «Mastru Vartulu», gli diceva il nonno,

«vu’ muririti poviru, sapiti fari tanti cosi utili e nu’ vi faciti pagari».

Con la signora Tudda si facevano assieme pane e dolci e spesso si

mangiò a tavola pane di pasta dura alla maniera modicana. Quando

la violenza della malattia non consentì più allo zio Filippo di lavorare,

la famiglia Ficili arrivava da Scicli già all’inizio del periodo della

falciatura del grano per dare una mano. Vartulu e Tudda non ci sono

più, ma Pasqualino, nostro cugino, mantiene ancora rapporti di

amicizia con Ciccio, con il quale aveva giocato da bambino. Si

sentono spesso al telefono e, quando si reca in Sicilia, Pasqualino va

a trovarlo. Francesco, che ora abita a Ragusa e lavora presso il

Comune, quando sa dell’arrivo dell’amico programma le sue ferie in

modo da poterlo accogliere e dedicarsi a lui libero da impegni

lavorativi.

Un’attività economico-commerciale affatto nuova, legata alla

situazione post bellica, era quella della compravendita di robbi

americani. Alcuni pietrini la intrapresero con successo, realizzando

buoni guadagni tanto da migliorare la loro precedente condizione ed

investire in altre imprese. Tali nuovi imprenditori compravano, a

basso prezzo, enormi quantità di indumenti, per lo più usati, di tutte

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le fogge e le misure, grossi ritagli di stoffa e accessori vari, tutti

affastellati e pressati insieme alla rinfusa in grosse balle. Bastimenti

carichi di tale materiale arrivavano al porto di Napoli dagli Stati Uniti.

Gli articoli imballati venivano da lì smistati in molte zone d’Italia. Ad

ogni nuovo arrivo i commercianti vi si recavano personalmente per

assicurarsi la merce. Essi, successivamente, smantellavano le balle

selezionando e suddividendo gli articoli per tipo e qualità, che

vendevano al minuto a differenti prezzi, con grossi margini di

guadagno. Anche al minuto, però, i prezzi praticati erano accessibili;

la curiosità e la speranza di trovare nel mucchio qualche pezza buona

attirava molta clientela. Tale era l’interesse della gente ad essere

informata dei nuovi arrivi che stavano all’erta aspettando l’annuncio

del banditore.

Questo tipo di mercato ebbe molto successo soprattutto nel mondo

femminile. Tra i primi e più noti protagonisti di tale redditizio

commercio era molto conosciuta Beatrice, Bijatrici per i pietrini. Nel

campo del vestiario usato il suo nome attraversò un momento di

notorietà per tutti gli anni cinquanta ed oltre. Bijatrici vestì

all’americana molte signore pietrine di ogni età e ceto sociale.

L’affluenza al suo negozio era forse dovuta anche al carattere

benevolo e cordiale della titolare, allo sguardo sorridente e aperto sul

viso rubicondo, mentre seno e pancia si muovevano come seguendo

un accordo musicale. Coraggiosa e disinvolta, Beatrice esercitava la

sua attività in autonomia e libertà. La collaborazione del marito

consisteva nel non impedire che ella conducesse il suo commercio,

concedendole piena fiducia, preferendo una vita tranquilla ai fastidi

che l’attività comportava. Al momento di ogni nuovo arrivo,

numerose signore, fin dalle prime ore del mattino, si recavano a casa

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di Beatrice, dove teneva il negozio, con andatura quasi ansiosa,

perché ognuna voleva essere la prima ad avere l’opportunità di

scegliere le migliori pezze. La casa di Beatrice non era grande e tutto

l’insieme consisteva in una sola camera, una camera multiuso: in un

angolo c’era la cucina, in un altro il gabinetto, chiuso dietro una tenda

di stoffa americana; la parte più ampia della camera era occupata

dal letto, sul quale Beatrice sparpagliava la sua merce. Non fu raro

vedere la mercanzia scivolare improvvisamente da una parte o

dall’altra sottratta alla scelta della gente, come se uno spiritello

dispettoso aleggiasse in quella casa- negozio improvvisato. Le

signore venivano subito rassicurate da Beatrice con una risata:

nessuno spirito aveva mosso la roba, era suo marito che era rimasto

sotto perché dormiva quando lei aveva sistemato la merce e non

aveva fatto in tempo ad alzarsi prima del loro arrivo. E chissà se nel

dormiveglia, coperto da morbide sete americane odorose di strano

profumo e cullato dal vocio di signore intente a scegliere un capo che

le facesse sognare, in quel momento anche lui sognasse di trovarsi

sull’ oceano a navigare per chi sa quali lidi.

Altri avvenimenti, intanto, avevano cominciato a profilarsi,

sconvolgenti e traumatici. Essi vedevano protagonisti anche

moltissimi pietrini.

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Il mio primo giorno di scuola

di Maria Giordano

Ho sempre avuto la passione per i libri che mi sono stati compagni

della vita. La lettura l’ho sempre amata, fin da bambina.

Quando mio fratello cominciò ad andare a scuola ero quasi gelosa

di lui che aveva un libro tutto suo, e sapeva leggere! E vederlo

andare via con la sua cartella? Era un magone che si ripeteva tutte

le mattine.

Tutto questo io sognavo per me e mi andavo costruendo il mio

percorso scolastico.

Conoscevo delle maestre e, in particolare, una era quella che avrei

voluto proprio per me. Frequentava l’Azione Cattolica, dove più volte

andavo con la mamma che in quel periodo era la presidente delle

Donne Cattoliche; era lì che l’avevo conosciuta: era carina, ben

pettinata, e aveva lo sguardo dolce.

Il mio primo giorno di scuola iniziò però in modo molto diverso da

come me l’ero immaginato.

Partii da casa felicissima, quella mattina, il mio sogno si stava

avverando.

Indossavo il grembiule blu con il collettino bianco con sopra legato

un grosso fiocco azzurro, come allora era d’uso, che sembrava una

colomba pronta a spiccare il volo; ero molto orgogliosa della mia

prima, nuova cartella: non era la comune cartella di cartone ma di

cuoio nero, del tipo di quelle che alla mamma erano piaciute di più,

non solo perché davvero più belle ma anche perché, essendo più

robuste e resistenti, potevamo finirci l’anno scolastico e servire per

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qualche anno ancora. Le cartelle, naturalmente, erano state

comprate uguali, la mia e quella di mio fratello, altrimenti erano guai!

Dentro venivano messi un quaderno a quadretti, perché era più facile

imparare a tracciare le aste, una matita e un temperino. Dopo

qualche mese venivano aggiunti il quaderno a righe, la scatola con

sei colori marca Giotto, la penna e il libro di lettura. La penna a

cannuccia aveva un pennino in rame che bisognava manovrare con

attenzione altrimenti si sgangherava subito; per scrivere occorreva

intingerlo nel calamaio che era inserito nel banco e che veniva

riempito tutte le mattine dalla bidella. Il banco, composto da un

sedile lungo e stretto senza schienale e da un piano di appoggio

piuttosto ruvido, serviva a più bambini che si sedevano uno accanto

all’altro. La bidella, che era anche la custode della scuola, era una

zitella dai modi burberi ma di un burbero finto, “benefico”, come

scoprivamo dopo qualche giorno, perché voleva bene a tutti i

bambini. Viveva, assieme ad un fratello, anche lui scapolo, in un

appartamentino di pochi locali all’interno dell’edificio scolastico, che

era una costruzione antica con corridoi e ambienti molto spaziosi; le

stesse aule erano degli enormi saloni con soffitti a volta altissimi.

Per andare a scuola non ebbi la fortuna di fare la strada assieme a

mio fratello perché le scuole femminili non erano accanto a quelle

maschili ma molto distanti da quelle situate nella parte opposta del

paese.

Il primo giorno andai accompagnata dalla mamma; ero sicura,

serena, fiduciosa. Ma grande fu la mia sorpresa quando entrai

nell’aula e vidi quella che doveva essere la mia maestra. Il mio

stupore si tramutò subito in disperazione: dov’era finita la maestra

dei miei sogni? Eppure esisteva, io l’avevo vista e conosciuta, sapevo

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che aveva bimbe di prima elementare. Evidentemente io non ero

stata scritta nel suo elenco e perciò dovevo rassegnarmi e restare in

quella classe con quella maestra… Almeno così la pensavano gli

adulti. E più la guardavo, più quella, vista con i miei occhi, mi

appariva un mostro: piccola, goffa, tutta nera dai vestiti ai capelli,

con due grossi baffi! La guardavo e, costernata, pensavo all’altra,

così bella, esile, dolce, vestita bene… Ruppi in un pianto inconsolabile

che mise la mamma in grande imbarazzo e che, mortificata, si

scusava con la maestra per me che non capivo quello che facevo.

Intanto mi riportò a casa; non si sentì di lasciarmi a scuola in quello

stato, era certa che a casa mi sarei calmata e convinta. Ma non ci fu

niente da fare: sarei tornata a scuola solo se mi cambiavano di

maestra. Della cosa si parlò in tutta la scuola.

Mio papà, visti inutili tutti i tentativi di convincermi e dietro quel

mio pianto disperato e ininterrotto, prese lui in mano la situazione;

ne parlò con il direttore didattico che mise a posto la cosa secondo i

miei desideri. Tornai a scuola vittoriosa e felice; fui ben accolta dalla

nuova maestra, molto lusingata per la preferenza ma dispiaciuta per

essere stata causa, senza volerlo, di una situazione così delicata.

Intanto io superai l’incubo in cui ero vissuta e tornai alla realtà: per

me fu la realizzazione di un sogno: andare a scuola e da quella

maestra. Tutte le mattine la raggiungevo in chiesa da dove passava

prima di andare a scuola e, dopo la messa, insieme, mano nella

mano, ci avviavamo verso l’edificio scolastico. Così fino alla fine

dell’anno che per me si chiuse con la promozione a pieni voti.

Ogni anno all’inizio delle scuole corro sempre col pensiero al mio

primo giorno di scuola, così movimentato, così triste, così lieto, che

non dimenticherò mai. ».

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Via 4 Novembre e dintorni . Caratteri e tipi. (1)

di Salvatore e Maria Giordano

Ritorno in paese

Con il ritorno in paese ebbero fine le vacanze in campagna e con esse

i giochi all’aria aperta: rincorrere le farfalle, stanare le lucertole, fare

la marmellata schiacciando i fichi sulla mattonella, preparare i

biscotti pasticciando con la farina. Cessarono le arrampicate sulle

rocce e sugli alberi, la ricerca dei nidi, il piacere di ammirare

meravigliati, nelle ore più calde della giornata lo spettacolo dei falchi

che, libratisi in aria volteggiavano leggeri sullo sfondo della volta

azzurrissima del cielo o si lasciavano cullare dal vento, simili ad

aquiloni tenuti da un filo invisibile. Finirono anche le entusiasmanti

escursioni al Salso, tutte le lvolte che lo zio Biagio ci portava con sé

a raccogliere li pumadoru, li milinciani, li pipi e li muluna di xiauru

che coltivavamo nell’orto della piana. Al fiume ci piaceva giocare coi

grossi ciottoli neri e levigati; lucentissimi mentre erano ancora

bagnati, tolti dall’acqua presto si asciugavano, perdendo la loro

brillantezza, e apparivano opachi e coperti da una polverina bianca.

Noi ne prendevamo alcuni di varia grandezza e ce li portavamo a

casa, ci attraeva la loro forma rotonda e liscia; li usavamo per

schiacciare le mandorle.

Era però altrettanto appagante, in paese, andare a trovare i nonni.

Tutti i pomeriggi, salvo imprevisti, eseguiti i compiti scolastici,

correvamo a casa loro in Via Ville Superiori. Lì trovavamo le cugine

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Antonietta e Rocca, Totò, Maria e Vincenzina, figlie della zia Lucietta,

le cui abitazioni sorgevano a poca distanza da quella dei nonni. Nonna

Nina, che attendeva il nostro arrivo, aveva predisposto le tasche della

sua lunga gonna nera riempiendole di leccornie, come biscottini a

forma di animaletti, i famosi nnicchinnà: con gesto improvviso, che

chiamava l’ammuccata, ce li cacciava in bocca al momento di

salutarla; li muscardini sicchi, dolcissimi, che sgranocchiavamo con

avidità. Canestrate intere di moscardini freschi e morbidi non

mancavano comunque mai a casa della nonna, che ne era abilissima

confezionatrice. Nelle capienti tasche del suo grembiule trovavano

posto anche i ceci tostati, li ciciri calliati, che lei stessa preparava, di

cui eravamo pure molto ghiotti. In una grossa padella posta sul

fuoco, contenente già della sabbia di fiume, metteva i ceci sbollentati

che, a contatto con la sabbia sempre più calda, man mano che la

nonna li rigirava con un lungo cucchiaio di legno, prendevano quel

colore tipico tra il bianco e l’avana. Quando, a suo parere, i ceci

avevano preso la giusta tonalità, versava il contenuto della padella

in un setaccio e, fatta cadere la sabbia, restavano i ceci tostati,

coloriti e friabili, che travasava in un panierino di paglia intrecciata,

con il fondo ormai sfilacciato e bruciacchiato. I ceci ci piacevano

anche verdi; grosse bracciate di piante con i semi attaccati ne

portava tante volte lo zio Francesco dalla campagna. Ceci tostati

venivano venduti sulle bancarelle della frutta secca, soprattutto nel

periodo natalizio, ma non avevano niente a che vedere con la

friabilità, la freschezza e la bontà di quelli preparati dalla nonna.

Ancora oggi i ceci tostati si trovano anche nei mercati rionali di

Torino, in sacchetti o sfusi venduti a peso: «Quando vado al

mercato» dice Maria «mi lascio attirare e ne prendo qualche bustina,

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li offro alle mie sorelle e agli amici che vengono a trovarmi e che

volentieri li accettano come occasione di ritorno a vecchie sensazioni

e ad allegri e nostalgici commenti».

Andando dalla nonna conoscemmo molte persone che non sapevamo

fossero nostri parenti. Di parenti i nonni ne avevano tanti, sparsi nei

diversi quartieri del paese; in molti venivano a trovarli di proposito o

passavano a salutarli trovandosi nei dintorni di via Ville Superiori per

i loro affari. Se ci fosse stato un dubbio su qualche persona di cui si

stava parlando, la nonna lo risolveva subito: la persona in causa era

ma cuscina Giuannina o ma niputi Cuncittina o ma cummari Filippa.

E se uscivamo con lei era la stessa cosa, tutte le persone che

incontravamo la salutavano: bongiornu cuscina Nì o ssa bbanadica

zi’ Nì, se era una persona giovane; e magari si fermavano a

raccontarsi le ultime reciproche vicende familiari. Ed io spesso,

continua Maria:

- «Ma mamma Nì, cu jera ssa fimmina ca t’ha ssalutato ora ora?»

- « Bbi’ Mariuzzè,… ma figliozza Catarina, figlia di ma cummari

Maracava la Campanedda».

La casa di via 4 Novembre

Noi abitavamo al n° 72 della Via 4 Novembre, prima parallela a Nord

del Corso Umberto I, la strataranni. Dedicata com’è alla data della

vittoria della Grande Guerra (1915/1918) che completò l’unificazione

dell’Italia, la via 4 Novembre ben si inserisce, e ne costituisce

coronamento, nel gruppo di strade della zona intitolate ad eventi e

personaggi della storia patria, siciliana e pietrina. Essa si estende,

infatti, da via Giuseppe La Masa alla Discesa Leone, per tutta la

lunghezza del più noto corso di lu ringu di sutta; la via Tortorici

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Cremona la separa dalle vie Garibaldi e Capitano Bivona; a poco

meno della metà del suo percorso incrocia la discesa Rosolino Pilo,

perpendicolare al corso Umberto16. Esattamente a quell’incrocio

sorgeva, (e sorge ancora, abitata da altri) la nostra casa.

L’abitazione, che era composta dalla parte anteriore ristrutturata del

piano terra e dal piano superiore dello stabile che era stato lu tarpitu

della famiglia di papà, ne formava l’angolo, la cantunera nord/ovest;

mamma e papà vi andarono ad abitare subito dopo il loro

matrimonio. In quella casa di via 4 Novembre ebbe inizio la vita di

noi, quattro figli; è lì che abbiamo trascorso la nostra infanzia e parte

della giovinezza, fino agli inizi degli anni ’60 del ‘900. Di essa

rivediamo ogni componente, ogni angolo: la porta d’ingresso a due

ante ccu li stanghi e lu licchettu di firru, il pianerottolo in cima alla

scala, dove si aprivano le entrate per la stanzetta e per la camera

grande con i mobili in legno di noce costruiti dal falegname Turiddu

Calì, disposti lungo le pareti: il letto matrimoniale con sopra, sulla

parete, il quadro della Sacra Famiglia e, accanto, i due comodini, il

comò con lastra di marmo grigio, sormontato dalla specchiera,

l’armadio, la scrivania col ripiano ricoperto di panno verde, la

credenza con le antine dei due piani superiori a vetri, dove mamma

aveva sistemato alcuni regali del matrimonio e, in fondo a sinistra

della camera, la cucina, da dove si sprigionava l’odore della salsiccia,

sfrigolante nella padella, che papà prenotava dal macellaio Micheli

Fimminedda.

La casa aveva un balcone sopra l’entrata dell’ex frantoio e una

finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo, ma non aveva sbocco

16 Giuseppe La Masa (Trabia- PA, 1819), patriota,contribuì a promuovere la rivolta di Palermo del 1848; in esilio sotto i

Borboni, nel 1860 partecipò alla Spedizione dei Mille. Rosolino Pilo (PA, 1820), patriota mazziniano in esilio, cadde nel

1860 partecipando alla spedizione garibaldina.

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sulla via Tortorici Cremona, lu ringu di ncapu. Da quel lato confinava

con l’abitazione della famiglia di Antonino Pagliaro, sposato con la

Signora Maria Matanza. Lu massaru Ninu coltivava le sue terre

assieme al figlio minore Giuseppe; Santo, il figlio maggiore, si

occupava di edilizia, campo in cui era diventato un esperto

capomastro; Maria Anna, Mariannina, la figlia femmina, faceva la

maestra. Attraverso la parete nord, che divideva la nostra casa da

quella dei Pagliaro, sentivamo ogni parlottare e ogni minimo

movimento provenienti dalla loro casa. Spesso, bambini curiosi,

appoggiavamo l’orecchio al muro per indovinare dal rumorino che

avevamo udito a chi della famiglia poteva attribuirsi. Mariannina

sposò Salvatore Marotta, lu Cacucciularu, allora, e per molti anni,

custode del cimitero. Da tutti, in paese, era chiamato “Sarvaturi” e

nominarlo evocava la sua funzione. Alto e di bell’aspetto, baffi e pizzo

pronunciato ben curati, una certa ricercatezza nell’abbigliamento

(cappello nero a larghe tese ed eleganti abiti scuri di sartoria), il

portamento serio e distinto erano tutti elementi che abbinavamo al

suo ufficio e che ce lo facevano percepire come personaggio dotato

di particolari poteri e guardare con una certa apprensione.

Il crocevia con la discesa Rosolino Pilo ovvero i quattro canti-

Di fronte alla nostra, la casa abitata dalla vedova sig.ra Ada Callari

costituiva l’angolo sud/ovest dell’incrocio. L’angolo opposto, la

cantunera a sud-est, era formato dalla casa dell’antica famiglia

Nicoletti, abitata da donna Caterina, ultima discendente del casato,

signorina avanti negli anni, che vi viveva da sola. Alla porta della

casa di donna Catarina si arrivava dopo aver salito i gradini di un alto

ballatoio, protetto da una ringhiera di ferro, e superata quella, situata

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sullo stesso ballatoio, della casa della famiglia di Vincenzo Di Romana

sposato con Vincenzina Lo Presti, genitori di Masinu, Tommaso, e

Lina, di qualche anno più piccoli di noi, che portavano il nome dei

nonni paterni. L’angolo nord-est, di fronte a donna Caterina Nicoletti,

era costituito dalla casa di don Filippo Rabita, don Filippu Pruni, noto

maestro falegname, che vi abitava con la moglie, sig.ra Giuseppina

Aiesi, e con i tre figli, tra i dodici-quindici anni di età all’epoca della

nostra nascita: Vincenzo, Giuseppe e Piera, Pitrina. Accanto alla casa

della signora Callari, abitava la famiglia di Paulu Vavaluciu e Mariuzza

la Buttafoca, Paolo Corvo e signora Maria Buttafuoco, famiglia che

nel corso degli anni raggiunse i dieci componenti: genitori e otto figli

di cui i maggiori, all’incirca della nostra stessa età, furono i primi

nostri compagni di gioco e di litigate. Tre maschi, Salvatore, Pino,

Pasqualino; tre femmine, Costanza, Filippina e Agatina, a cui si

aggiunsero i gemelli Michele e Vincenzo.

Gli abitanti delle case di quell’incrocio furono i nostri vicini più

prossimi, quelli che, per la vicinanza, vedevamo quotidianamente e

con i quali più frequenti erano le occasioni di incontro. Nel numero

rientrano pure i componenti della famiglia del dott. Vincenzo Vitale,

la cui abitazione confinava con la nostra dal lato ovest: sulla via 4

Novembre si affacciavano i due balconi della casa ma l’ingresso si

apriva sulla via Tortrici Cremona.

Tanti ricordi della nostra vita di allora sono legati a quella via, alle

strade vicine, alle persone che vi incontrammo e conoscemmo. Di

quell’incrocio sentiamo i rumori, gli odori, le voci. Lo scalpitio dei muli

dei contadini che di buonora transitavano per la discesa Rosolino Pilo

per recarsi in campagna; il crocevia disseminato di una infinità di neri

confettini e il lezzo penetrante che, poco più tardi, impregnava l’aria

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dopo il passaggio del capraio che tutte le mattine portava il latte alle

clienti. Esse lo aspettavano sulla porta ccu la cicara mmanu, ed egli

la restituiva piena del bianco e nutriente liquido ancora fumante,

munto direttamente dalle capre che si portava appresso; il vociare

dei ragazzi che passavano da un gioco all’altro tra innocenti litigi; il

gridare delle madri che si affacciavano e continuavano, non udite, a

chiamarli quasi a squarciagola; lo starnazzare delle galline

disturbate, nel loro pacifico razzolare, da qualche improvviso rumore;

il richiamo degli ambulanti venditori di merce varia; il grido del

banditore, Micheli l’urbu, che, fermo al centro dell’incrocio, lanciava

il suo avviso o annunciava la novità (e tutti zitti ad ascoltare):

o figliuli,

ad-ha arrivatu lu pisci friscu,

trigli mirluzzu picaredda, sardi…

va iti a la piscarija…. ;

o figliuli …

cu- ha ttruvatu na mula

ca jè di…

va purtaticcilla ca c’è lu viviraggiu; …

e mamma a ripeterci quel curioso annuncio che le era rimasto in

mente da quando glielo avevano raccontato:

O populu di Summatinu,

cu ha ttruvatu un papì masculu

ca jiera di li Chinnici

ca havi tri ghiorna ca la criat’è sutta

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“O popolo di Sommatino, chi ha trovato un tacchino, (sappia) che era

di proprietà della famiglia Chinnici; ora son tre giorni che la serva

(accusata del furto) è in prigione”.

La posizione della nostra casa ci offriva anche la possibilità di un altro

tipo di spettacolo: dalla finestra che dava sulla discesa Rosolino Pilo,

dopo fortissimi temporali vedevamo scendere, sbalorditi, grossissime

piene di acqua sporca accompagnate da un rumore assordante. La

piena che, partita da via Ville, si ingrossava man mano che scendeva

verso il basso, ricevendo altra acqua e altra sporcizia dalle strade

laterali come un fiume dai suoi affluenti, copriva, all’altezza del

nostro incrocio, tutta la larghezza della discesa e proseguiva,

ingrossandosi ancora, sino a lu Vadduni dove, in questi casi, alcune

abitazioni venivano allagate. La grossa fiumara nella sua furia

trascinava a valle non solo lo sporco delle strade ma anche cufinati

di ogni genere di immondizia che la gente, lungo il percorso, affidava

alla piena: era abitudine diffusa, infatti, in quelle occasioni, ripulire

stalle e paglialori. Di temporali se ne scatenavano di molto violenti,

con lampi e tuoni da scuotere le ossa e da essere motivo di serie

preoccupazioni, specie se nei periodi di raccolto. Allora vedevamo la

mamma prendere la corona del rosario e recitare, con molta

partecipazione, tra le altre, la preghiera che chiamava “Lu Verbu”:

Lu Verbu sacciu e lu Verbu haju a ddiri

lu Verbu ca nni lassà nostru Signuri

quannu acchjanà la cruci ppi muriri

ppi sarvari a nuantri piccatura.

O piccatura, o peccatrici

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viditi quant’è ranni chista cruci

ca teni un vrazzu ‘n cilu e nantru ‘n terra

sinu a la vadda di Giosafat

picciddi e ranni amma essiri ddà.

Scinni la Matri SSanta ccu lu libbru a li manu e chi dirà?

«Figliu li pirdunasti li Jiudija

accussi ha ppirdunari li figliuli mija».

«Matri ji nu li puzzu pirdunari

ca sunu tutti piccatura assai,

sanu lu Verbu e nu lu vunu diri

ntre li vampi e la pici han ‘a –ccadiri».

Cu nu lu sapi si lu fa’ nsignari.

.

Cu lu dici tri- bboti ‘n capizzu

Je scanzatu di trimulizzu;

cu lu dici tri-bboti la notti

Je scanzatu di mala morti;

cu lu dici tri-bboti a la via

l’accuppagna la Vergini Maria;

cu lu dici tri-bboti ‘n campu

je scanzatu di trona e di lampu

Ma era bello, dopo la calata di la chjina, vedere l’acciottolato lucido

della discesa brillare sotto il sole improvvisamente comparso. Per

alcuni giorni la strada appariva pulita, ma rametti, paglie, stracci si

trovavano attaccati alle grate dei dammusa e ai muri delle case.

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Via 4 Novembre e dintorni . Caratteri e tipi. (2)

di Salvatore e Maria Giordano

Lu Signuri di li fasci

Il crocevia Rosolino Pilo/via 4 Novembre era però compreso

nell’itinerario della via di li Santi, e questo fatto secondo la nostra

percezione, gli conferiva una certa importanza. Da qui passavano

tutte le processioni delle feste religiose, qui sostava, per alcuni

minuti, lu Signuri di li fasci, la processione del Venerdì Santo, la più

suggestiva, sentita ed emozionante del nostro paese, dopo che,

svoltata da via Garibaldi, aveva percorso quel centinaio di metri di

discesa sdrucciolevole prima di raggiungere il Corso Umberto17. A la

Strataranni il percorso diventava pianeggiante e lineare, allora

l’imponente corteo si snodava in tutta la sua lunghezza e si potevano

contemplare in un’unica visione i tre simulacri: il colle imbiancato del

calvario, lu Cravaniu, sormontato dal Crocefisso sul globo policromo,

Cristo morto nell’urna e la Madonna Addolorata piangente, avvolta

nel suo manto nero, portata a spalle dalle donne cattoliche, ciascuno

preceduto dai devoti incappucciati delle confraternite, seguiti da

bande musicali e da una moltitudine di persone in preghiera,

comprese quelle delle famiglie di recente lutto.

17 Cf. Filippo Marotta, La Settimana Santa e la Pasqua a Pietraperzia, p. 94: nella fotografia, “lu Signori di li fasci” in

processione nella discesa Rosolino Pilo, di epoca successiva ai nostri ricordi, il corteo ha raggiunto proprio il nostro

incrocio. I balconi che si vedono sulla sinistra appartengono alla casa, ristrutturata, che era stata della signora Ada Callari;

sulla destra i muri prospicienti il corso Umberto della casa che fu di donna Caterina Nicoletti.

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Per il passaggio di Lu Signuri di li fasci si rendeva necessario

rimuovere li curdini, quei fili tesi da un balcone all’altro delle case di

fronte, utilizzati per stendere il bucato. Era incombenza di papà

slegare, qualche giorno prima del venerdì, il filo che univa

trasversalmente il nostro balcone a quello di casa Nicoletti, situati ai

due angoli opposti dell’incrocio; arrotolato a mo’ di grosso bracciale

restava attaccato al balcone di donna Caterina per circa quindici

giorni. La curdina veniva ripristinata dopo il passaggio della

processione della festa di San Vincenzo Ferreri, che veniva celebrata

una settimana dopo Pasqua,

La giornata del Venerdì santo, fulcro della settimana santa, veniva

vissuta a Pietraperzia secondo le tradizioni tramandateci dai nostri

avi, che prevedevano il divieto di usare forbici e attrezzi taglienti,

martelli e di piantare chiodi, e caratterizzata da pratiche di penitenza

e mortificazione. Era consuetudine della nostra famiglia, e ad essa

fummo abituati fin da bambini, osservare quel giorno il digiuno come

quella di compiere, la sera del giovedì santo, il giro delle cinque

chiese per la visita a li Sapurca, accompagnati da mamma e da papà.

Ma i comportamenti di tutta la settimana erano ispirati da parte dei

credenti pietrini ad una profonda mestizia, come sottolineavano le

stesse preghiere di la Simana santa, che invitavano a meditare sul

mistero della Passione di Cristo; preghiere che la mamma ci intonava

invitandoci ad ascoltare e a ripetere con lei:

Accuminzammu di lu Santu Luni,

na jurnatedda benigna e murtali.

L’armuzzi santi stanu a nghinucchiuni

prigannu nostru Ddì celestiali.

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Nu’ lu prigammu ccu perfettu amuri

nun nni spagnammu di nessunu mali.

Si vu’ lu Paradisu o piccaturi,

ti cci’ ha addurari li so cincu chiaghi.

…. …. ….

Di venniri murì nostru Signuri

ntre un trunculu di crucci assai pinnenti

tri chiova furu li primi dulura

e la cruna di spini trapungenti.

Di fili e acitu nnappi tri bbuccuna ,

ppi ddaricci cchbiù peni e cchiù turmenti18

Via 4 Novembre: ambiente umano. 1

In quel rettangolo di terra di qualche centinaio di metri ad est e ad

ovest dell’incrocio della via con la discesa Rosolino Pilo si svolsero i

nostri primi giochi e si svilupparono le nostre prime amicizie. Quel

contesto fisico e umano rappresentò il primo ambiente della nostra

crescita individuale e sociale.

«La mia vita in Via 4 Novembre fu per me molto gradevole», dice

Maria, «e tali sono tutti i miei ricordi, prima di bambina poi di

adolescente, che si riferiscono a quel periodo: furono anni splendidi.

Col vicinato regnò sempre buona armonia; non ricordo si sia mai

verificato un benché minimo alterco con qualche vicino o vicina,

neanche a causa di noi bambini». Era infatti una strada allietata da

un gran numero di bambini e bambine. Quel tratto di strada, allora

in terra battuta, tra l’incrocio con via Rosolino Pilo e Discesa S.Orsola,

18 Quelle preghiere troviamo ora in La Settimana Santa cit., p. 131

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molti ne raccoglieva di tutto il vicinato, perché ben si prestava ai

giochi di femmine e di maschi: a li cchiè, a li rrummula, a li castedda,

a la stacca, a li petri, a la fussetta. Era un cinguettio continuo, che

poteva anche dar fastidio a persone anziane meno tolleranti nei

confronti dei bambini, specie in certe ore della giornata. E mentre tra

le bambine l’idillio era quasi perfetto, tra i maschietti piccole baruffe

avvenivano per questioni legate al gioco, fino a sfociare, qualche

volta, in vere e proprie liti. E tuttavia mai tra le mamme ci furono

discussioni, dal momento che nessuna di esse fu mai indulgente nei

confronti del proprio figlio, né intervenne a prenderne le difese.

Capitava che si affacciassero alle finestre all’udire il clamore della lite

o al pianto, ma le loro parole erano: «Cosi di carusi su, vinu l’anni e

mintinu li sinzii, cresceranno, capiranno». E ciascuna richiamava il

proprio figlio. Del resto, passata la buriana, i ragazzi erano di nuovo

insieme a giocare, dimentichi di tutto.

Fu molto triste vedere quelle strade deserte e silenziose; solo noi con

i nostri pensieri le attraversavamo quel pomeriggio di fine agosto del

2005! Pavimentazioni rifatte con pietra di Catania, pulite ma ciuffi di

erba vi crescevano ai bordi e tra gli interstizi dell’acciottolato ;

moderni lampioncini ad applique ai muri delle case di Via Garibaldi,

della discesa Rosolino Pilo ; case ristrutturate fornite di nuovi

portoncini, anche eleganti, accanto ad altre coi muri scrostati, le

serrande abbassate e i segni della loro vetustà. Ma tutte porte chiuse,

non una finestra aperta, non una donna al balcone a stendere panni,

non un bambino per la strada. La casa della nostra infanzia aveva già

subito un primo intervento di cui presentava le tracce nelle porte

esterne sostituite, nei muri ritinteggiati e soprattutto nel balcone con

ringhiera di ferro che la circondava per tutta la sua estensione sino a

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dopo l’angolo con la discesa Sant’Elia. Una tenda da sole vi era stata

montata sopra la porta finestra. Ma nessun segno di vita come in

tutte le altre. Vi avessi scorto una presenza umana avrei chiesto di

entrare: mi sarebbe piaciuto verificare quali modifiche vi erano state

apportate all’interno.

La famiglia Rabita

Tra tutti i nostri vicini di casa ai quali si è accennato, la persona

con cui la mamma si trovò più in sintonia fu la signora Giuseppina

Aiesi, moglie di don Filippo Rabita. Tra lei e la signora Giuseppina fu

subito simpatia reciproca; nel tempo si stabilì tra di loro, una perfetta

intesa che si consolidò in rapporto di stretta e duratura amicizia. Nella

sig.ra Aiesi Rabita, di lei più anziana, la mamma trovò una consigliera

e un’interlocutrice ideale. Non erano necessarie fra le due molte

parole per intendersi, si comprendevano con lo sguardo. Persone

entrambe schiette, genuine e disponibili alla collaborazione, davano

ai rapporti e alle cose peso e valore appropriati; dotate di una certa

giovialità e senso dell’umorismo, sapevano cogliere l’aspetto comico

delle situazioni. «La sig.ra Rabita fu la prima ad apprendere della mia

nascita», racconta Maria, «la mattina della domenica di quel 29

giugno, quando alla signora Aiesi, affacciatasi alla sua finestra di via

Rosolino Pilo per chiamare mamma - si erano intese il giorno prima

per andare insieme a messa - la nonna Maria Cava comunicò che,

nella notte, ero nata io». Don Filippo Rabita aveva il suo laboratorio

dietro la chiesa del Rosario, in via Fenice (poi Don Minzoni); vi

esercitava l’arte assieme al fratello Liborio e ai propri due figli.

Appena svoltato l’angolo, da piazza Matteotti, già si sentiva il rumore

degli attrezzi in funzione e si avvertiva l’odore della polvere del legno,

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sempre più penetrante man mano che ci si avvicinava. All’interno del

locale, si notavano, appoggiate alla parete di fronte all’entrata, assi

di legno di vario tipo e di diverso spessore che toccavano quasi il

soffitto; rastrelliere piene di attrezzi, righe e squadre pendevano

dalla parete di destra, per lo più occupata da pezzi di mobili in

costruzione. Addossate alla parete di sinistra e sostenute, su tre

piani, da robusti spuntoni sporgenti, si intravedevano, benché

fossero coperte da un telone grigio, casse dalla forma inquietante.

Tra le casse e l’angolo sinistro di fondo stava il tornio. Due solidi

banconi, con ampi incavi sui piani da lavoro e terminanti con grosse

morse, erano sistemati perpendicolarmente alla parete di fondo. I

Rabita costruivano ogni genere di mobile; seri e puntuali, godevano

di un vasto numero di clienti. «Io però mi ci recavo», dice Salvatore,

«soprattutto per farmi costruire li rrummula: appena venivo in

possesso del tronchetto di ulivo, correvo da don Filippo, sicuro e

fiducioso, e lo osservavo mentre, sistemato al tornio il pezzo di legno,

lo sgrossava da una parte e dall’altra e lo rifiniva per dare all’oggetto

la grandezza e la forma desiderata. Grazie a lui si potevano infatti

ottenere, passione di tutti noi ragazzi, trottole personalizzate, della

fattura che si voleva, tornite ed eleganti, dei veri prodotti artistici,

ben diverse dalla rozze e grossolane trottole, tutte uguali, che si

compravano alle bancarelle del mercato o al negozio di Magliocca.

Peccato non averne conservata neppure una. Alla sua bravura nel

lavorare il legno», prosegue Salvatore, «don Filippo univa molta

bontà e pazienza; parlava sempre in modo calmo e pacato; mi

spiegava, rispondendo a certe domande che, incoraggiato dalla

conoscenza, osavo rivolgergli, che il bancone da lavoro del suo

laboratorio era costruito con un legno americano, «forti cumu lu firru,

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lu piscipagnu» (pick-pine), che il rumore lacerante che si sentiva

mentre veniva segato era il lamento del legno, perché «anchi lu lignu

soffri, cumu li cristiani».

« Impossibile per me», dice Maria, «dimenticare la figura di don

Filippo Rabita. Me la ricorda costantemente un piccolo mobile che,

posto in bella vista, adorna tra gli altri l’entrata della mia casa a

Torino. Si tratta di un comò in miniatura stile ‘800, che don Filippo

mi regalò quando ero ancora bambina. È un modellino alto 45 cm per

cm 38 di larghezza, con i piedini a cipolla, le colonnine laterali tornite

a bottiglietta, cinque cassettini estraibili, due piccoli superiori e tre

grandi inferiori. Lu cantaraniddu,posto in un angolo del laboratorio

e coperto di polvere, aveva attirato la mia attenzione una volta che,

per caso, avevo accompagnato papà alla falegnameria Rabita, e me

ne ero innamorata. A lungo lo avevo ammirato e desiderato! Quando

mi capitava di transitare dalle parti di Piazza Matteotti, mi avvicinavo

al laboratorio, entravo, mi accostavo al mobiletto, lo spolveravo, lo

fissavo, uscivo col piccolo comò che mi ballava davanti agli occhi.

Don Filippo intuiva il mio desiderio, ma restava apparentemente

indifferente: mi fece patire un po’, forse il mobiletto gli ricordava suo

padre, l’artefice, e non voleva separarsene. Ma “il miracolo” avvenne.

Il giorno in cui si compì, don Filippo mi disse: “Maria, eccolo, è tuo,

ma, mi raccomando, tienilo bene”! In quel momento il cuore mi

batteva forte dalla gioia! A casa lo tenni sempre vicino a me. Un

giorno a scuola ne decantai i pregi e le bellezze in un componimento

che la maestra ci aveva assegnato:”Parla di un oggetto a te caro”.

Quando mi sposai e dovetti trasferirmi a Torino lo lasciai in paese

sicura che sarebbe stato ben custodito, ma col pensiero di fargli

attraversare lo stretto il prima possibile. A qualche aspirante la

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mamma ripeteva “è di Maria, non si tocca!”. Dovevano passare

diversi anni prima di avere il mobiletto di nuovo con me. Accadde

quando mia sorella Michela, venduta la bella casa di via Principessa

Deliella, portò su i mobili che costituivano per noi oggetti di maggior

pregio, soprattutto dal punto di vista affettivo, alcuni dei quali

portavano i segni di nostri interventi impropri. Tra essi,

accuratamente impacchettato, il mio “giocattolo” finalmente partì da

Pietraperzia per la sua nuova dimora. Giunto a Torino fu portato da

un restauratore che, con una modesta spesa, ridiede al mobiletto il

suo originale splendore. Ora il piccolo comò, posto in bella vista,

adorna tra gli altri mobili l’entrata della mia casa; lo sposto secondo

l’inclinazione del momento, ma sempre negli angoli più in vista. Passa

il tempo e inesorabile lascia su tutti noi le sue tracce, ma lui, lu

cantaraniddu, non registra il fenomeno: sempre più bello, lui sì è

sempre come fosse appena nato».

L’amicizia tra le due famiglie si consolidò col tempo e continuò, senza

mai uno screzio o una semplice incomprensione, anche quando i

Rabita lasciarono la casa di via 4 Novembre e si trasferirono in Via

San Giuseppe. Scomparsi don Filippo e donna Giuseppina, l’amicizia

è proseguita soprattutto con Giuseppe Rabita, che ci aveva visto

nascere e fatto giocare nei nostri primi anni di vita. «Nel mio album

delle fotografie», dice Maria, «una ne conservo, scattata

nell’occasione del passaggio di un fotografo ambulante dalla via 4

Novembre: sono seduta su un tavolo ricoperto da un tappeto di

ciniglia; accanto al tavolo, sul cavallino a dondolo, mio fratello con il

boccolo ben ordinato. Tutte le volte che ci incontriamo, Peppino non

manca di ricordarmi quell’episodio: egli, nascosto dietro il tappeto,

mi sostenne con una mano per paura che cadessi all’indietro. Non

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avevo ancora un anno, mio fratello ne aveva circa tre». Peppino ha

continuato ad esercitare l’arte del padre, con le stesse competenza e

abilità, sino alla pensione. Era una sua specialità la costruzione delle

persiane con le gelosie movibili, cosa che richiede precisione e

pazienza. Il nostro rapporto è stato, ed è, caratterizzato dagli stessi

sentimenti di sincerità, schiettezza e di stima reciproca oltre che da

vicendevole aiuto in momenti di difficoltà, come capita a tutti nella

vita. Per noi è rimasto “cumpari Pippinu”, come erano soliti chiamarsi

con papà e mamma, così come “Cummari Maria” mamma chiamò

sempre la sua signora (Maria Marotta) quando Peppino si sposò. Fu

lui che ci accolse per primo in Piazza Vittorio Emanuele, il 18 agosto

del 2005, quando tornammo in Sicilia dopo venticinque anni di

assenza, con la stessa premura con cui accoglieva mamma e Michela,

quando, quasi ogni anno, d’estate, tornavano al paese. Assieme a lui

facemmo il giro del cimitero, fermandoci, dopo la visita ai nostri cari,

a ricordare, davanti alle loro tombe, parenti, conoscenti e amici

scomparsi. Per tutta la mattinata visitammo i luoghi del paese,

ricordandoci vicendevolmente gli eventi e i momenti che avevano

visto vicine le nostre famiglie.

Alla sua abilità di artigiano del legno, Peppino Rabita associava una

grande passione per il ballo, una passione incontenibile: dotato di

grande sensibilità musicale e di una naturale attitudine, non c’era

musica che non sapesse immediatamente, e senza alcuna difficoltà,

ispirargli i passi da compiere e le figurazioni da assumere. Ballare lo

appagava, niente gli dava maggiore soddisfazione. Di sentimenti

romantici ed animo di poeta, esprimeva nel ballo l’autenticità della

sua natura. Amava ballare il valzer, il tango, la polka e tutti i balli

classici della tradizione, ma ballava anche, con la massima

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disinvoltura, i nuovi balli, latino-americani, afro-cubani, man mano

che venivano importati nel nostro paese; il ritmo del bughi-bughi

(Boogie-Woogie), del samba, del charleston gli mettevano addosso

una forte carica di entusiasmo. Il periodo dell’anno che preferiva era

quello del carnevale, durante il quale poteva dare sfogo alla sua

passione dominante. Assieme alla sorella Piera, anch’essa abile

ballerina, giravano per le vie del paese, vestiti in maschera,

chiedendo un ballo nelle case dove si tenevano serate danzanti.

Vederli ballare faceva pensare a Fred Astaire e Ginger Rogers, la

celebre coppia di ballerini americani. Erano subito riconosciuti perché

era nota in paese questa loro predilezione; sempre applauditi e

invitati a restare, accettavano di fare un altro ballo, ma raramente si

fermavano. Era come se avessero una missione da compiere: essere

i testimonial della danza. Anche il fratello Vincenzo era portato per la

musica, suonava ottimamente la fisarmonica ed era un bravo

ballerino: quando si sposò con Anita Cutaia, figlia di don Arfonziju

Cutaija, impiegato comunale, le coppie diventarono due. Fu questa

attitudine che portò i due fratelli ad unirsi ad un gruppo di altri valenti

suonatori e a fondare un complesso, il “Gempen”, in cui Peppino fu

apprezzato batterista. L’orchestrina riscosse grande successo tra i

pietrini e per molti anni allietò trattenimenti matrimoniali, feste di

battesimo, serate danzanti. Quanto alla intitolazione del complesso,

”Gempen”, il significato resta un mistero, noto forse solo a qualcuno

dei componenti del gruppo.

Lunga vita, compare Peppino, e grazie di questa amicizia !

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Via 4 Novembre e dintorni : ambiente umano 3

Salvatore e Maria Giordano

«Della figura di donna Ada Callari, nostra dirimpettaia, ho ricordi

molto vaghi e sbiaditi», racconta Maria. «Ho davanti agli occhi (o

forse me la immagino?). una gentildonna elegantemente vestita Era

vedova e viveva insieme ad una dama di compagnia di cui mi è

rimasto in mente solo il nome: Giorlandina». Abitava in una casa

grande e signorile, alla quale si accedeva, dopo una scalinata di

quattro o cinque gradini, attraverso un ingresso ad arco di pietra

munito di un portoncino a due ante.

Potemmo visitare quella casa quando, dopo un paio di passaggi, fu

acquistata dai Di Marca, li Pumittara, famiglia di agiati coltivatori

diretti provenienti dalla zona canali, composta da sette persone:

genitori, lu massaru Vicinzu e la gnura Filippa e cinque figli, quattro

maschi, Calogero, Paolo, Pino e Francesco, e una femmina, Piera,

Pitrina, coi quali si ebbe un buon rapporto di vicinanza e di amicizia.

La casa era composta dall’entrata dalla quale, a destra, si andava in

cucina attraverso una porta e, a sinistra, di fronte alla cucina, in una

saletta. Una porta in fondo all’entrata portava in un grande salone a

cui seguivano due ampie camere da letto. Da ciascuna di esse si

apriva una porta finestra su una grande terrazza che si affacciava sul

corso Umberto. Una finestra e un balcone si aprivano sopra dei

magazzini lungo la discesa Rosolino Pilo. Per rendere la casa adatta

alle loro esigenze i Di Marca affidarono i lavori di ristrutturazione che

prevedeva anche l’edificazione di un altro piano, al capo mastro don

Giovanni Falzone, don Giuanninu Scarciuni uno, allora, dei più noti

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maestri muratori del paese. I lavori richiesero parecchio tempo

durante il quale buona parte di quel pezzo di via 4 Novembre fu

occupato da attrezzature, materiale vario e dal via vai della squadra

degli operai muratori e da artigiani, fabbri e falegnami, chiamati

secondo le esigenze del procedere della costruzione. La polvere si

depositava dappertutto, la confusione e il rumore continuo

mettevano alla prova la pazienza dei diretti interessati e dei vicini. I

Di Marca appartenevano alla categoria dei “bburgisi”, così venivano

chiamati i contadini agiati che coltivavano terre di loro proprietà

(diversamente dai mezzadri, li mitatera, che invece lavoravano

terreni di proprietà di altri) e per lavorare i loro poderi, che

comprendevano pure appezzamenti di un fratello di lu massaru

Vicinzu, emigrato negli USA, i Di Marca si meccanizzarono

acquistando trattori, altri tipi di macchine agricole e relativi accessori.

A tale scopo, all’inizio, ingaggiarono un meccanico trattorista di nome

Orazio, un uomo molto spiritoso e sempre pronto al sorriso, che

anche noi imparammo a chiamare, donn’Arà’ donn’Arazio. Don

Orazio era di Gela e il suo modo di nominare le cose e la sua cadenza

in un siciliano così diverso del nostro parlare pietrino ci incuriosiva.

Conoscemmo tutti i componenti della famiglia Di Marca e, in parte,

anche le loro vicende come succede in un piccolo paese specie tra

vicini di casa Insieme a loro viveva anche un’anziana signora che tutti

della famiglia chiamavano la zi’ Cristina. La zi’ Cristina, come anche

noi imparammo a chiamarla, in verità era la mamma adottiva di la

gnura Filippa la quale era vissuta nella sua casa e cresciuta sotto le

sue cure fin da quando era bambina. La zi’ Cristina e suo marito,

coppia agiata e senza figli, avevano deciso di prenderla a casa loro

quando aveva appena sei anni ed era rimasta orfana della madre

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morta prematuramente. Con i nuovi genitori la piccola trascorse

molto serenamente la sua fanciullezza e la sua giovinezza ed anche

dopo il matrimonio con Vincenzo Di Marca, lu massaru Vicinzu lu

pumittaru, Filippa continuò a vivere con colei che le era stata mamma

e che ora faceva la nonna felice ai bambini della nuova coppia. In via

Quattro Novembre la zi’ Cristina, vedova ormai da molti anni,

divideva la camera da letto con Piera. «Ne ricordo ancora gli arredi

vecchio stile che, nella mia fantasia, dice Maria, immaginavo essere

i mobili di la zi Cristina: i due lettini in ferro battuto, i comodini alti e

scuri, il grande comò dello stesso stile. La camera era ampia e

luminosa, si affacciava sulla terrazza di corso Umberto e sulla discesa

Rosolino Pilo; gli spazi della stanza erano tali che non era di alcun

intralcio la postazione del lungo telaio dove Piera si accostava per

ricamare. Spesso andavo a trovarla perché mi divertivano le favole

che la zi’ Cristina raccontava e gli indovinelli assai divertenti che

proponeva. La trovavo sempre intenta alla sua attività consueta:

raccogliere della lana in gomitolo che, appena formato,ella

raggomitolava ricominciando dalla parte opposta come aveva fatto la

mitica Penelope con la sua tela. Sempre lieta e sorridente, immagino

che fosse felice perché bene accudita e tanto amata da tutti. Dei Di

Marca figli, i primi, di noi maggiori di età di parecchi anni. Paolo

divenuto, in seguito al matrimonio con Nina Bellavia, nostro compare

di battesimo fu l’unico dei fratelli a rimanere in paese anche dopo

l’esodo generalizzato dei contadini seguito al crollo dell’agricoltura

abbandonata perché non più sufficientemente redditizia e, lasciato il

lavoro delle terre si dedicò ad altre attività. Pino partito per il servizio

militare tornò fornito di patente B e, trasferitosi a Torino negli anni

del grande esodo, avrebbe esercitato l’attività di autotrasportatore.

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Francesco, il più piccolo dei fratelli pressappoco della nostra stessa

età presto si inserì nel numero dei ragazzi della strada, giocava con

Salvatore con cui pure bisticciava per i soliti banali motivi da ragazzi.

«Legato ai giochi di quel periodo, ricordo un episodio,.dice Salvatore,

che coinvolse Francesco in maniera pesante. Si stava facendo un

gioco che prevedeva una pegno per chi fosse arrivato ultimo in una

gara. Si trattava di uno scherzo ai danni di un negoziante della zona

che avevamo conosciuto come persona nervosa e molto suscettibile:

don Agostino Bivona. Donn’Austinu gestiva un negozio di merceria in

largo Capitano Bivona, due strade a nord della via IV Novembre, dove

le nostre mamme ci mandavano spesso a comprare. La penalità

consisteva in una prova di abilità e di coraggio: aprire la bussola del

negozio, dire al merciaio “ donn’Austì’ nn’avi cavuli’ e scappare prima

che egli si alzasse dalla sedia dietro il bancone su cui stava

abitualmente seduto. Francesco, a cui toccò eseguire la prova, non

si tirò indietro e corse ad eseguire la penalità, se non che… Se non

che spinta la bussola e iniziato a pronunciare la fatidica frase,

Francesco si trovò subito davanti il negoziante il quale riuscì ad

afferrarlo e a trascinarlo all’interno del negozio dove sfogò su di lui

tutta la sua rabbia picchiandolo selvaggiamente. Quando, dopo un

po’ vedemmo ricomparire Francesco piangente e dolorante che quasi

non riusciva a camminare, non fu necessario chiedergli cosa era

successo perché subito immaginammo la scena che, comunque, era

lontana dalle nostre sia pure non gradevoli previsioni nel caso che la

prova non fosse riuscita. Ma la cosa rischiò di avere ulteriori

conseguenze perché il padre di Francesco, lu massaru Vicinzu, visto

il figlio in quelle condizioni, si infuriò a tal punto che minacciava di

andare a prendere per il collo donn’Agustinu e, se gli altri genitori

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non fossero riusciti a calmarlo e fermarlo la vicenda poteva avere

sviluppi spiacevoli. Fu quella un’esperienza che mai potrò

dimenticare assieme ai rimproveri solenni dei genitori e alla

punizione da cui nessuno potè salvarci. Quello fu comunque uno degli

ultimi nostri giochi di quel genere. Terminato il periodo della scuola

elementare la compagnia già aveva incominciato a divedersi e a

prendere direzioni diverse. Anche Francesco avrebbe seguito, tempo

dopo, le orme del fratello trasferendosi a Torino ed essere accolto

dalle braccia di mamma FIAT e trovare molti pietrini come colleghi di

lavoro. Ancora ci vediamo assieme alla moglie Piera, nelle occasioni

tristi o liete che toccano la comunità pietrina a Torino»

Di Pitrina Di Marca, ricordiamo la sua abilità nell’arte del ricamo.

Servendosi di un telaio rotondo, seguendo disegni che aveva preso

dalla rivista “Mani di fata”, eseguiva alla perfezione direttamente sul

tessuto, secondo la tecnica di ricamo prescelta, punto croce, punto a

giorno, punto pieno…, artistiche composizioni floreali o con tipi di

frutta. Adoperava invece un lungo telaio rettangolare di legno per

eseguire ricami da applicare a capi di più ampia dimensione. Non era

un lavoro che Piera svolgeva per conto di clienti, ella ricamava per

sé, impreziosiva con la sua arte tovaglie e tovaglioli, federe e

lenzuola, asciugamani…, pezzi del suo corredo da sposa. Piera era

una ragazza bella ed attraente, le piaceva ridere e scherzare ed

ispirava simpatia. Ella oltre a possedere queste qualità costituiva un

“buon partito” per cui i pretendenti non mancarono: a lei erano

dedicate le serenate di musica e canti appassionati che risuonavano

nella notte sotto le finestre delle case di quel crocevia via 4

Novembre/ discesa Rosolino Pilo, opera di innamorati, giovani che

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probabilmente avevano cercato di farsi intendere con qualche

segnale e chiarivano in questo modo le loro intenzioni nella speranza

che lei capisse la provenienza. All’epoca era consuetudine fare la

“notturna” alla ragazza amata; era una specie corteggiamento, un

mezzo per un giovane innamorato per far capire alla ragazza del

cuore con un gesto romantico e delicato quei sentimenti che non

riusciva ad esprimere pienamente e in modo diretto. Quelle serenate

erano, al mattino, da parte nostra, oggetto di discorsi e di curiose

indagini assieme alla stessa Piera: si facevano allusioni esplicite sulla

probabile destinataria, ipotesi su nomi di responsabili, giovani che si

erano visti passare durante il giorno o che avevano frequentato la

casa dei Di Marca per qualche motivo o scusa, specie in quel periodo

dei lavori di rifacimento della casa. Piera prendeva la cosa con molta

spontaneità e serenità, non si adombrava anzi era lusingata da

queste supposizioni, sorrideva compiaciuta, non le dispiaceva essere

al centro di tante attenzioni. Alla fine l’uomo che la portò all’altare fu

Calogero Di Cataldo, «Liddu lu lampariu», più anziano di lei di diversi

anni, penultimo dei quattro fratelli della famiglia di coltivatori diretti

benestanti come i Di Marca.« La trattativa tra le famiglie, dice Maria,

avvenne nel periodo della festa di san Giuseppe e in rapporto a tale

circostanza si parlò di una scherzosa poesia in dialetto fatta pervenire

da parte di un innamorato deluso forse allo stesso Calogero Di

Cataldo che ne aveva fatto partecipe la fidanzata. «Fatto sta,

continua Maria, che si rise con la stessa Pitrina, di quel verso che

alludeva al prescelto e che diceva più o meno”….. e pu’ vinni San

Giseppi ca ppi ttia fu na furtuna e ppi mmi’ fu na rruvina ca

m’arrubbasti a Pitrina”

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Un’affettuosa amicizia si stabilì tra noi, cummari Filippa la Spizziala

e Nina, la cui abitazione seguiva subito dopo quella dei Corvo,

rispettivamente moglie e giovane figlia di lu Massaru Turiddu

Pignatuni, Salvatore Bellavia, coltivatore diretto, grande lavoratore,

proprietario di buone terre in zone note per l’alta produttività: le loro

terre erano “oru macinatu” usava dire cummari Filippa parlando della

dote destinata alla figlia Nina. Fin da ragazza Nina la Spizziala

frequentava la nostra casa, era attirata dallo spirito giovanile di

mamma, con la quale si confidava più che la stessa madre, e dalla

presenza di noi bambini che amava intrattenere. Con mamma

parlava di biancheria, di ricami e di corredo. Sposatasi con Paulu Lu

Pumittaru, Paolo Di Marca, fu suo desiderio, condiviso che noi due,

ormai cresciuti, facessimo da padrino e madrina di battesimo alla

figlia Filippina. La ragazza, oggi felicemente sposata con Lorenzo

Barrile, è mamma di due splendide ragazze, Caterina e Antonella,

che abbiamo conosciuto nel 2005, durante il nostro soggiorno a

Pietraperzia. Cariche importanti negli anni 2000 avrebbero ricoperto

nell’ambito delle istituzioni locali, il figlio della coppia dei nostri amici

Paolo e Nina , dott. Vincenzo Di Marca, e il nipote, avvocato Paolo Di

Marca.

Dopo i Bellavia abitava la famiglia di don Giuseppe Barrile, don

Pippinu Varliri, e donna Marietta La Monica, genitori e quattro figli,

che avevano già superato l’età dell’adolescenza: Filippo, Michele,

Giovanni e Sarina passavano sempre davanti alla nostra casa quando

andavano a lavorare o quando si recavano in piazza. Sarina si fidanzò

e si sposò con il geometra Salvatore Di Lavore, nostro concittadino

da tempo trasferito a Milano. Ricordiamo che scandalizzò le persone

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più anziane e suscitò qualche commento tra i vicini il fatto che,

contrariamente alle tradizionali consuetudini dei nostri paesi, Sara

usciva da sola col fidanzato. Filippo e Michele Barrile sposarono, a

loro volta, “le americane”, due sorelle di una famiglia pietrina

emigrata negli USA, e le seguirono in America. Con Giovanni Barrile,

maestro, persona allegra e spassosa, avemmo maggiori occasioni di

incontro e di amichevoli rapporti. Giuanninu Varliri sposò la figlia di

don Agostino Bivona. Mamma ci raccontò come egli, passando dal

negozio di via La Masa, una mattina le aveva annunciato la nascita

del figlio: «Pippì, Giuseppina, - le aveva detto - guarda di non farmi

supirchiarija pirchì ora haiu a-mma figliu Pè (Giuseppe) ca m’

addifenni».

Nella casa all’angolo con Discesa S. Orsola abitò donna Giuannina

la Tanoria, Giovanna Tortorici, con le sue figlie Pina e Angela,

‘Ngilina, dove esercitò la sua attività di sarta. Nella stessa casa abitò

successivamente donna Angiulamaria la Vecchiavilasi, Angela Maria

Di Gregorio, con i suoi figli Sara e Rocco, vedova, sarta anche lei.

Assieme a loro vivevano il fratello di lei, Salvatore Di Gregorio,

scapolo, applicato avventizio di segreteria presso il Comune, e le

sorelle Peppina e Rosalia, che aiutavano la sorella nella stiratura e

messa a punto degli abiti per la consegna alle clienti e nel tenere in

ordine il laboratorio e la casa.

«Dei componenti della famiglia dei Siciliano, madre, la gnura

Pippina la duranedda, due figli e due figlie, che abitavano di fronte ai

Bellavia, non ho dimenticato», dice Maria, «queste due ultime,

Mariuzza e Carmela. Mentre i fratelli Siciliano, regolarmente sposati,

non costituivano motivo di preoccupazione per l’anziana madre, le

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due figlie, invece, erano per lei causa di cruccio perché le avrebbe

volute “sistemate”, mentre quelle non volevano saperne di sposarsi,

o almeno così dicevano. Di questo suo tormento la donna parlava

spesso da sola, mentre faceva la calza seduta davanti la porta, e con

i conoscenti che passavano dalla strada e si fermavano a scambiare

due parole con lei. Non so se per gelosia o perché erano talmente

legate da non potersi distaccare l’una dall’altra, le due sorelle

permanevano ferme nel loro atteggiamento tanto che l’una impediva

il fidanzamento dell’altra, e viceversa, con comportamenti che

rasentavano il grottesco. A confermare questa loro bizzarria fu un

evento spassoso: un buffo colpo di scena, messo in atto da una delle

due sorelle una sera, mentre si stava trattando la richiesta di

matrimonio che riguardava la più giovane di esse, Carmela. Nel

momento culminante della discussione, Mariuzza, temendo che

l’impegno si facesse veramente serio e vincolante, prese una

decisione sorprendente che lasciò i presenti di stucco: si impadronì

dell’unico lume che dava luce alla stanza in cui si svolgeva il

conciliabolo e si trasferì in soffitta, lasciando tutti al buio. Gli ospiti,

parenti del pretendente, convinti che il gesto non fosse altro che un

pretesto per impedire la positiva conclusione della trattativa,

abbandonarono la seduta e il fidanzamento andò a monte. Nessuno

dei vicini si stupì più di tanto quando si apprese lo svolgimento della

sceneggiata».

Formava l’angolo nord con la Discesa S. Orsola l’astricu, il ballatoio,

che portava al primo piano della casa abitata da Filippo Emma,

Vincenza, Vicinzina, sua moglie, e i figli, Angela, Filippo (morto

ancora bambino investito da un camion) e Pina, Pinuzza. Abitavano

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assieme alla suocera, la gnura Pippina la Meccia, Giuseppina Virruso,

sarta per uomo. Era il nome di lei che veniva evidenziato quando ci

si riferiva a quella casa e a quella famiglia. La Meccia era nota in tutta

la strada e, a sua volta, sapeva tutto di tutti. Conosceva ogni persona

che più frequentemente passava per la via e che ella non tralasciava

di intrattenere per informarsi su cosa si diceva in piazza. Percorreva

continuamente quel tratto della via 4 Novembre e si spingeva anche

oltre; andava avanti e indietro parlando ad alta voce del più e del

meno e commentando, senza peli sulla lingua, notizie di fatti lieti e

tristi che capitavano in paese. «Molti momenti di gioco trascorsi con

‘Ngilina», dice Maria; «con lei ci divertivamo a costruire bambole di

pezza, a cucire vestitini con stoffette multicolori e ad allestire feste

di battesimo con bambine invitate alle quali offrivamo pezzettini di

pane con marmellata di mele cotogne che mamma preparava tutti

gli anni

A poche decine di metri dall’incrocio di via 4 Novembre con la

Discesa S. Orsola s’incontrava l’officina di li Marani, fabbri

maniscalchi, attività artigianale di una certa importanza in un sistema

ad economia agricola. Oltre a battere zappe, falci, vomeri o a

costruirne di nuovi, quello della ferratura delle bestie era l’impegno

predominante di lu firraru. In un paese come il nostro, il mulo, bestia

da soma adatta a tutta una serie di attività connesse con i lavori della

campagna, era l’animale maggiormente utilizzato dai nostri

contadini; la stalla non era un ambiente secondario delle loro case.

L’attenzione rivolta alla salute e all’efficienza della bestia era pari a

quella rivolta alla salute personale; pertanto non trascuravano di

ricorrere all’intervento del maniscalco tutte le volte che era

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necessario per il pareggio e la ferratura degli zoccoli dell’animale.

Diverse erano le botteghe di firrara di vistii sparse nelle varie zone

del paese, tutti artigiani competenti e abilissimi nel loro mestiere

tanto che venivano consultati anche riguardo alla cura di ferite e di

malattie tipiche degli animali19. A metà della discesa Rosolino Pilo,

poco sopra lo slargo Capitano Bivona, di fronte alla casa di li

Subbanni, i Ribaudo, avevano la loro bottega i fratelli Falzone,

mastru Pè e mastru Cosimu Farzuni; la bottega della famiglia di li

mastri Lillì, gli Zito, si trovava in via Sabotino; quella di li Ribelli, i

Guarneri a la Costa. Non erano i soli. «Più di una volta», dice

Salvatore, «mi capitò di vedere al lavoro, all’esterno della loro

firraria, i fratelli Di Gregorio, li Marani, Salvatore, Filippo e Francesco,

quando avveniva che uno degli zii portasse le mule a ferrare. Mi

piaceva osservare come, sul momento, da un’asta di metallo nasceva

un ferro da cavallo: estratta incandescente dalla forgia, un pezzetto

della misura giusta veniva tagliato dalla bacchetta; battuto con la

mazza, più volte rimesso nel fuoco, bucato con uno scalpello a punta,

piegato, modellato con lavoro di incudine e martello il ferro prendeva

forma, mentre suoni metallici risuonavano, come allegri rintocchi di

campana; e quando, ancora infuocato, il ferro veniva provato sullo

zoccolo dell’animale e l’odore acre e pestifero dell’unghia che

bruciava mi pungeva le narici. E poi, finito, il ferro veniva applicato

allo zoccolo con dei chiodi lunghissimi e acuminati che la bestia

sopportava tranquilla, cosa che mi sembrava impossibile»20.».

19 Cf. Giovanni Culmone, Pietraperzia anni ’40. Reminiscenze, Pietraperzia, 1997, p. 131: Firraru. 20 Cf. G. Culmone & F. Marotta, Vocabolario siciliano della parlata di Pietraperzia, 2002, p. 208: la fotografia ivi

riportata si riferisce proprio ai fratelli Di Gregorio all’opera di fronte alla loro officina.

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VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI: AMBIENTE UMANO 4

Salvatore e Maria Giordano

Nella direzione di via La Masa, lato nord di via 4 Novembre,

dopo la casa di don Filippo Rabita e quella di Santo Bellavia

(Santu Pignatuni), della quale dava sulla strada il balcone e

si apriva la porta della stalla, abitava la sig.ra Maria Calogera

Pergola. La signora Pergola era la nonna paterna di Maria,

Eleonora ed Elvira, “le americane”, tre belle e simpaticissime

ragazze, due delle quali sarebbero andate in spose ai fratelli

Barrile, i quali, in seguito a questo matrimonio, lasciarono

anch’essi l’Italia. Quando i Pergola, alcuni anni prima della

II Guerra Mondiale, erano emigrati in America, la nonna,

donna di una certa età, non aveva voluto seguirli, ma aveva

preferito restare al suo paese. Nella stessa casa viveva con

lei, Agatina, Ituzza, che, dama di compagnia e badante ante

litteram, la accudiva e mai l’abbandonò finché visse.

Conoscemmo la famiglia Pergola durante il periodo bellico. I

Pergola, tornati in Italia per rivedere la nonna, erano rimasti

bloccati a causa dello scoppio della guerra e costretti a

rimanervi sino alla fine del conflitto. Ma essi non si persero

d’animo ed affrontarono il disagio con determinazione,

adattandosi alla situazione. Presero in affitto una casa in

Corso Umberto, all’angolo con la Discesa Rosolino Pilo,

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proprio di fronte ai balconi della casa di donna Caterina

Nicoletti. La casa si ergeva in altezza ed era composta da un

locale a piano terra, delle piccole camere al primo piano, che

utilizzarono come camere da letto, ed altrettante al secondo,

dove c’era anche la cucina. Nel locale a piano terra aprirono

un laboratorio di falegnameria, che era l’attività del padre, il

quale vi lavorava aiutato dai due figli maschi, Franchino e

Michelino. Dall’uscio di casa nostra noi vedevamo la porta

d’ingresso del laboratorio. Salvatore conserva ancora un

ricordo dei fratelli Pergola: la cornice di legno dell’immagine

di Gesù, ricordo della sua prima comunione. Maria Pergola,

la maggiore delle sorelle, che era insegnante elementare,

dava il suo contributo alla famiglia impartendo lezioni

private. Eleonora ed Elvira aiutavano la mamma nelle

faccende. Tutti i componenti della famiglia erano persone

aperte, gentili e cordiali e noi avemmo modo di

sperimentarlo. La via Rosolino Pilo era la strada obbligata

per recarsi dalla nonna, pertanto i nostri incontri con uno o

l’altro di loro erano frequentissimi. «Tutte e tre le sorelle

erano nei nostri confronti, di me e Salvatore», dice Maria,

«molto affettuose e ci vezzeggiarono parecchio. Durante il

loro lungo obbligato soggiorno pietrino riuscirono a

conquistare tutti quelli che le conobbero, grazie alla loro

signorile disponibilità. Quando, alla fine della guerra,

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ripartirono per gli Stati Uniti, lasciarono bei ricordi e una scia

di simpatia». Durante i rimpatri che seguirono furono accolti

con piacere da tutti. Fu appunto in uno di tali viaggi in Italia

che Maria Pergola e Filippo Barrile si fidanzarono e si

sposarono. Qualche anno più tardi, tornati di nuovo in Italia,

si formò la seconda coppia, quella di Michele Barrile ed

Eleonora Pergola, a cui seguì il matrimonio di Michelino

Pergola con una cugina dei Barrile, Venezia La Monica.

Da quel lato della strada, dopo la casa della signora

Pergola, un centinaio di metri prima di raggiungere la

Discesa Corrao, proprio di fronte al pastificio, funzionò il

forno di Peppi Dinariddu, Giuseppe Dinarello. Vi lavoravano

li Stipu, i fratelli della famiglia Stipo che, per il brio e

l’entusiasmo con cui svolgevano il loro lavoro, rendevano

lieto l’ambiente circostante. Passando davanti al laboratorio,

la cui porta era generalmente aperta, colpiva la vivace

animazione all’interno. Si potevano notare, secondo il

momento, i fornai, in canottiera o a dorso nudo, impastare,

tagliare pezzi dell’impasto, preparare con sveltezza le forme,

infornarle, sfornarle, sistemarle sulle griglie ad asciugare o

riempirne cestoni, pronti per la consegna: un’operosità

allegra e chiassosa in cui il rumore delle attrezzature usate

si confondeva con le allegre risate dei panettieri. Sempre,

comunque, transitando davanti al forno, oltre che dal

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gradevole odore del pane appena sfornato, il passante si

sentiva investito dalle note di qualche canzone in voga:

Maruzzella Maruzzè

t’he miso dint’allocchie ‘o mare

e m’he miso ‘n pietto a me nu’ dispiacere…

Stu core me fai sbattere

chiù forte ell’onna

quanno o cielo è scuro

primma me dice sì

poi doce doce mi fai murì

Maruzzella, Maruzzè.

Tra una cosa e l’altra, ogni tanto, i giovani lavoranti si

affacciavano alla porta e non mancavano di rivolgere

qualche galanteria alle ragazze che passavano; inventato sul

momento su note improvvisate, intonavano il complimento

in modo garbato:

ha- ppassatu na signurinella

ca sempri cchiù bella, cchiù bella si fa.

Dopo l’ingresso del forno Dinarello, sino alla via La Masa, sul

lato nord di via 4 Novembre, si aprivano solo porte di stalle

e di dammusa relative ad abitazioni le cui entrate principali

davano sulla via Tortorici Cremona. Da quella parte la via

terminava con il palazzo Mendola, uno tra i palazzi signorili

del paese.

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I Di Romana, famiglia di piccoli proprietari terrieri, che

abitavano nello stesso ballatoio, lato sud della strada, della

casa di donna Caterina, erano noti in paese come li Vinci.

Vincenzo Di Romana viveva nella stessa casa dei suoi

genitori, lu massaru Masi Vinci e la gnura Calidda, ma in

piani diversi: il primo piano, quello del ballatoio, era

destinato alla giovane famiglia di Vincenzo; al secondo

piano, dopo la morte di lu Massaru Masi, dimoravano la

gnura Calidda, già anziana, e Michelina, sua figlia; in

comune le due famiglie avevano la cucina. Tra esse regnò

sempre buona armonia.

Lina di la gnura Calidda, figlia maggiore di Vincenzo e

Vincenzina Lo Presti, di qualche anno più giovane di noi, era

molto amica di nostra sorella Ninetta, quasi sua coetanea.

Per via di questa amicizia, Lina frequentava spesso la nostra

casa e noi la sua. Favorito dalla vicinanza e dalla buona

disposizione, un buon rapporto si costruì tra le nostre due

famiglie. La “zi’ Michilina ”, come tutti la chiamavamo, ci

viziava e trattava alla stessa maniera dei suoi nipoti. Esile di

corporatura e buona di carattere, era la colonna portante di

quelle famiglie per ciò che riguardava la vita domestica e

risparmiava lavoro alla cognata, che aveva due figli a cui

badare. La si vedeva perennemente affaccendata, lavava e

stirava di continuo e le loro case brillavano in ogni angolo.

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Al piano terra della casa c’erano i magazzini e la stalla;

accanto, nel sottoscala del ballatoio, il pollaio. Ma i polli vi

trascorrevano solo la notte; di giorno razzolavano per la

strada guardati a vista dalla “gelosissima” gnura Calidda,

attenta a proteggerli da ogni passaggio rischioso: un cane

randagio, un carro rumoroso, che potesse spaventarli e

stravijarili con conseguente calo della deposizione delle

uova. Il sopraggiungere di un’auto diventava un dramma:

l’auto doveva fermarsi e aspettare che ogni pollo fosse al

sicuro prima di rimettere in moto e ripartire. Ma era

inevitabile che qualche gallina restasse sotto le ruote di

qualche automobilista distratto; ed era evento usuale che

dei ragazzini, giocando con la palla o facendo girare un

cerchione di bicicletta, provocassero il fuggi fuggi delle

galline tra lo sgomento della padrona incollerita e il

divertimento dei ragazzi. La figlia e la nuora avrebbero fatto

a meno di quei polli pur di evitare quei momenti risibili e

imbarazzanti. Ma come fare a meno del piacere dell’uovo

fresco da dare ai bambini, alla gustosa frittata, al pan di

Spagna a Natale e a Pasqua? La gnura Calidda la Vinci non

intendeva rinunciare al sacrosanto diritto di tenere le sue

galline e a vigilare su di esse; così continuò finché le forze

glielo permisero. Per non contrariare la madre e mantenere

le sane abitudini, Michelina si sobbarcava quotidianamente

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di un essenziale impegno: pulire l’area attorno al ballatoio

dello sterco delle galline; pulizia che eseguiva con molto

scrupolo, com’era nel suo stile: munita di scopa, paletta e di

un vecchio cucchiaio raschiava, spazzava e lavava il basolato

della strada fino a farlo brillare. A questo lavoro Michelina

dedicava le ore che, per molti, erano quelle riservate alla

siesta pomeridiana. Nel silenzio dell’ora era facile sentire il

cra cra cra del cucchiaio col quale ella, incurante del gran

caldo, raschiava le pietre, una per una. La sera,

all’imbrunire, scendeva per verificare che i pennuti fossero

tutti entrati nel pollaio, si fossero appollaiati sulle stanghe

collocate da parete a parete, e chiudere col solito sasso il

foro d’entrata. Questo era il sistema solitamente adottato

per i pollai, ma non era molto sicuro. Si sentiva dire, infatti,

che qualcuno aveva subito il furto dei polli. La cosa veniva

attribuita ad un tizio specializzato in quel genere di ruberia.

Spingeva la pietra che ostruiva il buco, allungava il braccio

sino alle stanghe e, con un movimento rapido, afferrava il

pollo addormentato senza neanche farlo gridare. Se il colpo

riusciva, ripeteva la mossa una seconda volta. Molte furono

le famiglie vittime del mariuolo. Si vociferava in paese che il

tipo, abitando in una casa piccola ed avendo una moglie

troppo grassa, patisse il caldo e che, per evitare, soprattutto

d’estate, tale sofferenza, preferisse abbandonare il letto

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coniugale, uscire di casa e dedicarsi al suo hobby notturno

preferito.

All’astricu di accesso alle case Di Romana e Nicoletti

seguivano due piccoli ballatoi, du’ tucchineddi, a breve

distanza l’uno dall’altro, alti poco più di un metro, con

quattro-cinque gradini e privi di ringhiera: appartenevano

alle abitazioni delle famiglie di Rocco Zappulla, Roccu

Zzappudda, e di Giuseppe Emma, Pippinu Palazzu. Il primo

era sposato con la signora Giovanna Di Gregorio, la zi’

Giuannina, della numerosa famiglia di li Mazzariddi (o li

Cilij), sorella di nostra zia Damiana madre di Pasqualino; il

secondo con la signora Concetta Barrile, Cuncittina la

Padedda. Appresso veniva il portoncino della casa della

famiglia di Nunzio Pace. Tra i quattro Zappulla, Totò, Nino,

Paolo, Antonietta, altrettanti dei Pace, Vincenzo, Pino, Anna,

Rocco, e due della famiglia Emma, Filippina e Sebastiano,

erano altri dieci bambini che gravitavano attorno a quelle

centinaia di metri quadrati di terra vicino al nostro incrocio.

«Fu soprattutto con Totò Zappulla,Vincenzo e Pino Pace e

spesso anche Rino Mendola (nipote del dott. Vitale) ed altri

ragazzi della zona», dice Salvatore, «che mi trovavo a

giocare tra gli altri a li castedda, e a scinni scinni rininedda21,

giochi che ricordo come divertenti e impegnativi, in cui

21 Vd. la voce rininedda sul Vocabolario Siciliano cit.

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mettevamo tutta la nostra anima per eseguirli nel rispetto

delle regole e dei ruoli che definivamo dopo una serie di

discussioni. Come tra gli adulti, gli inevitabili diverbi

sorgevano quando c’era da attribuire la responsabilità della

sconfitta della squadra, ma venivano presto risolti per

riprendere subito il gioco». «Con Anna Pace», dice Maria,

«non ricordo di aver diviso tanti momenti di gioco ma tra noi

c’era una sincera amicizia; frequentavamo l’Azione cattolica

e spesso facevamo assieme la strada per raggiungere la

Parrocchia così come anche la domenica per recarci a Messa.

Eravamo due donnine e spesso aiutavamo in casa. Le nostre

mamme si stimavano a vicenda, si chiamavano cugine e lo

erano realmente: la madre di Anna, zia Maria Balestrieri, era

nipote di nonno Pasquale; suo padre era figlio di Giuseppina

Costa che, vedova Balestrieri, aveva sposato in seconde

nozze Calogero Messina, nostro bisnonno materno».

Accanto alla casa dei Pace, abitavano i Calì, li

Chiarapachjè, la famiglia dei cugini di papà del ramo

materno, unici suoi parenti a Pietraperzia, dal momento che

il padre, nonno Salvatore, proveniva da Caltanissetta.

Gaspare Calì, il capo famiglia, era fratello di nostra bisnonna

Francesca; noi non lo conoscemmo. Conoscemmo invece la

moglie, la zia Maria Calogera, la zì’ Maracalò, madre dei

cugini, e di essa conserviamo un ricordo nitido. Nella nostra

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memoria rivive come figura autorevole nell’ambito della

famiglia e della parentela; a lei ci si rivolgeva con rispetto,

le si chiedevano consigli e le sue parole erano tenute in

grande considerazione. Passavamo spesso a salutarla e per

le feste mamma ci mandava a farle gli auguri. Tanto lei

quanto le zie Rosina ed Anna, le sue due figlie femmine, ci

accoglievano affettuosamente e ci trattavano come nipotini

diretti; da loro ci sentivamo come a casa della nonna. La

casa dei Calì distava dalla nostra circa cento metri ed era

una casa grande, bella ed arredata con signorilità. Si ergeva

su due piani e aveva un grande terrazzo sopra;

comprendeva molte stanze con balconi sulla via 4 Novembre

e sul corso Umberto, dove si aprivano anche dei magazzini.

I rapporti tra i cugini furono stretti e continui; si tennero

sempre vicini nei momenti lieti come, ancor di più, nei

momenti tristi. Si consultavano e si aiutavano a vicenda

riguardo a tutte le questioni che avessero per le mani, di

natura familiare e sociale. «Consideravo i fratelli Calì,

Giuseppe, Vincenzo, Michele, Calogero e Gaspare, che fu

padrino di Cresima di Salvatore», dice Maria, «come fossero

fratelli di papà, più che cugini. Più di una volta, ci trovammo

nella loro campagna di Ggibbijnu attorno ad un grande

tavolato su cui lo zio Vincenzo e lo zio Biagio fratello di papà

svuotavano cufinati di mandorle appena bacchiate che le

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donne delle nostre famiglie continuavano a scricchjulari. Di

mandorle, come di pistacchi, i Calì erano infatti grandi

produttori. Né posso dimenticare», continua Maria, «le belle

serate trascorse in casa Calì durante il periodo natalizio,

seduti attorno a un grande tavolo a giocare tutti, grandi e

piccoli, a sette e mezzo; e le allegre feste da ballo durante il

carnevale, aperte ai gruppi mascherati. Serate, le une e le

altre, spesso interrotte per dare spazio ad un ricco buffet

fatto di dolci tipici, armisanti, sfingiuna, pagnuccata,

abbondantemente conditi con miele e pistacchi sbriciolati e

di altri dolci fatti arrivare apposta dalla rinomata pasticceria

Gruttadauria di Caltanissetta». Fu sotto la presidenza di

Giuseppe Calì, il maggiore dei fratelli, che la Società Militari

in Congedo acquistò la casa dei Cocilovo, in Corso Vittorio

Emanuele, distrutta durante i bombardamenti del luglio

1943, ed edificò la sua attuale e definitiva sede sociale22. In

quella occasione papà, già promotore assieme al cugino

dell’iniziativa, fu il suo più grande sostenitore nell’ambito del

Consiglio di amministrazione della società e nell’opera di

convincimento presso i soci (che cosa ne pensa l’attuale

Amministrazione della Militari in Congedo di apporre una

targa commemorativa all’interno del sodalizio? O c’è già?).

22 La precedente sede della Società Militari in Congedo fu il locale di Casa Fulco, accanto al Caffè di don Ciccinu Lalomia,

in Corso Vittorio Emanuele, lo stesso dove successivamente funzionò il Circolo di Cultura “V. Guarnaccia”.

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Quando si intensificò la meccanizzazione dell’agricoltura, i

fratelli Calì si munirono dei macchinari necessari, trattori e

trebbiatrici, sia per la lavorazione delle loro terre sia per

metterli a sevizio di terzi. Nella stagione del raccolto era lo

zio Biagio che collaborava maggiormente con loro. A lui era

affidato il compito di occuparsi della mensa degli operai della

squadra ingaggiata per la trebbiatura e seguire la

trebbiatrice in tutte le postazioni in cui veniva chiamata dai

vari proprietari. Ma una terribile disgrazia doveva colpire la

famiglia Calì ed essere anche per noi motivo di immenso

dolore. Fu papà che, con intensa commozione, ci comunicò

la notizia, quel tragico 28 giugno 1973, del tremendo

incidente automobilistico avvenuto nei pressi di

Marcatobianco, in cui Giuseppe Calì e due dei suoi figli,

Gaspare e Pino, avevano perso la vita. «Mentre piangeva la

morte del cugino, papà ci implorava di non scendere in Sicilia

con l’automobile, come era nostra abitudine ogni anno per

le ferie», dice Maria. Nel parlare tra noi dell’evento

disastroso, ad entrambi venne subito in mente che, qualche

anno prima, in occasione di un suo viaggio a Torino, Gaspare

era venuto a trovarci nelle rispettive case e ci aveva portato

dei pistacchi.

Nella casa di via 4 Novembre vivono ora la zia Anna e la

famiglia di Franca Calì, figlia di Michele e Franca Cilano,

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sposata con Michele di Paolo Riccobene: fu molto bello

incontrarli quando andammo a trovarli nell’agosto del 2005.

Lasciata la zia Anna, Franca e Michele, nostro pensiero

unanime fu di andare a salutare la zia Maria Paternicola,

vedova di Giuseppe Calì, in quel periodo ospite presso la

figlia Maria Bertini, in via san Giuseppe. Ed anche lì

l’emozione ci colse ancora. «Spesso telefono a Pietraperzia»,

dice Maria «e, dopo una piacevole chiacchierata con Franca,

parlo con la zia Anna che al mio “ciao zia” inizia subito con i

ricordi che numerosi affiorano alla mente al cuore e alle

labbra di entrambe».

Seguiva l’abitazione dei Dinarello, li Dinariddi, famiglia di

provetti pastai. La porta della loro casa si apriva su un

ballatoio con ringhiera: porta e ringhiera erano verniciati di

verde come pure, di fronte al forno, l’ingresso del pastificio

che precedeva l’astricu. Era frequente vedere, nello spazio

esterno prospiciente il laboratorio, la pasta lunga e corta nei

diversi formati, messa ad asciugare su una numerosa serie

di canne o dentro capienti ceste.

A qualche metro dal ballatoio Dinarello abitava la famiglia

di Giuseppe Cucchiaro, barbiere, sposato con la signora

Agata Russano, genitori di due bambini, Enzo e Gino, di

alcuni anni di età inferiore alla nostra, il primo dei quali

avrebbe sposato Angela Spagnolo, nostra amica di famiglia.

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L’indirizzo di casa Cucchiaro fu molto noto alle donne

pietrine: trasformata e arredata allo scopo, l’entrata della

casa fu uno dei primi saloni di parrucchiera per signora che

si aprì a Pietraperzia dopo la guerra. La nuova tendenza

liberava le donne dal ricorso al fastidioso “ferro a forbice”

che, a lungo andare, indeboliva i capelli, o al sistema dei

bigodini, che dovevano essere tenuti a lungo e non essere

mossi. Il piacere della permanente, della messimpiega, del

taglio alla moda, presto conquistò anche le signore meno

giovani che avevano considerato la cosa frivola o mondana.

Antesignana in questa attività a Pietraperzia, assieme alla

signora Agata Cucchiaro, fu la signora Maria Violante

Falzone, Maria la Pataterna. Entrambe le due stiliste dei

capelli, donne aperte e briose, univano al buon gusto e

all’abilità nell’arte modi gentili e accattivanti. Le clienti

arrivavano ai loro laboratori anche da altri quartieri, specie i

giorni precedenti le feste, sobbarcandosi il tedio di lunghe

attese, per usufruire del loro intervento. A loro si deve il

merito di aver diffuso la nuova moda e di avere favorito il

processo di modernizzazione del costume nel nostro paese.

Da esse molte ragazze appresero l’arte che consentì loro di

esercitare un lavoro e aprire nuove sale. Fra tutte Giovanna

Falzone, figlia della Signora Maria, Giannina la Pateterna, poi

sposa di Lillu Maddalena e madre di Giuseppe (che porta il

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nome del nonno, noto storico delle cose pietrine), attuale

Governatore della Confraternita Maria SS del Soccorso, cui

compete la cura della chiesa del Carmine e l’organizzazione

della processione di Lu Signuri di li Fasci.

All’abitazione dei Cucchiaro seguiva la casa degli Ideo. Il

capo famiglia, don Luigi, alto, asciutto e con un certo stile

nel portamento, era il postino del nostro quartiere. Non era

molto, allora, il volume della corrispondenza tanto che per

lunghi tratti egli poteva tenere in mano tutta la posta da

consegnare; raramente lo vedemmo con la tipica sacca di

cuoio sulla spalla. L’altro postino del paese era il sig.

Giuseppe Nicoletti, Balacatajimmi. Entrambi i portalettere

erano rapidissimi nell’espletamento del loro lavoro; non

c’era rischio che la lettera non fosse consegnata al vero

destinatario, anche in caso di errato indirizzo. Conoscevano

bene tutti i residenti della loro zona e da essi, con i quali

stabilivano un rapporto di familiarità, ricevevano confidenze,

ringraziamenti e benedizioni. Era don Luiginu Ide’ che

recapitava alla nonna le lettere dei suoi fratelli e gli avvisi

dei pacchi che le spedivano dall’America. Dopo di loro

l’attività passò ai rispettivi figli. Con don Sariddu Ideo

avemmo un rapporto amichevole e confidenziale.

C’era poi la casa di Salvatore Taibi, rappresentante di

commercio, sposato con Nina Satariano e, subito dopo,

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quella di don Rosario Ragusa, che era stato sindaco del

paese durante gli ultimi anni della Grande Guerra e

successivamente ad essa, tra il 1917 e il 191923. «Don

Sariddu Ragusa», dice Salvatore, «era il padre del mio

maestro di terza e quarta elementare, Luigi, uomo buono e

paziente; più severo, invece, e facile ad innervosirsi, era

stato don Tatò Ballati, maestro di prima e seconda. Conobbi

bene anche il prof. Umberto Ragusa, persona gentilissima,

fratello minore di Luigi, con il quale papà aveva un rapporto

di buona amicizia». Don Sariddu era, tra l’altro, socio della

ditta “SARP-Parla”, la società di trasporto passeggeri che

gestiva la linea che da Riesi, passando per Pietraperzia,

Barrafranca, Piazza Armerina, portava quotidianamente a

Catania e ritornava il pomeriggio dello stesso giorno. Era la

linea della storica corriera degli studenti che si recavano a

Piazza Armerina, affollatissima specie nei giorni che

precedevano e seguivano i periodi di vacanza. Vi lavorava

come bigliettaio Luigi Cipolla, ritornato dalla prigionia come

lo zio Calogero, e Liddu lu Puntinaru. Lu zi’ Luigi Cipudda,

come lo chiamavano tutti gli studenti, era un punto di

riferimento per famiglie e studenti. Molte volte, negli anni

degli studi di Salvatore, fece da tramite tra noi e lui.

23 Cfr. Giovanni Culmone, Pietraperzia- Primi Cittadini del XX secolo, p. 32, Pietraperzia, ottobre 2003.

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VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI CARATTERI E TIPI 5.

Salvatore e Maria Giordano

GIOVANNI CORRAO, CHI ERA COSTUI ?

La perpendicolare alla via 4 Novembre che si incontra dopo Casa

Ragusa è intitolata a Giovanni Corrao.

Fino a non molto tempo fa, di fronte a questo nome ci siamo trovati

come don Abbondio davanti a quello di Carneade: una personalità

celebre del nostro paese? Un personaggio storico? Ma chi? Quando?

Perché? Di lui non parlano i libri di storia comunemente in

circolazione, né il suo nome compare nei repertori storici correnti. Ad

uno stesso, unico Giovanni Corrao dedicano poche note l’EGM

(Enciclopedia Generale Mondadori), la Nuova Enciclopedia Universale

Rizzoli La Rousse e l’enciclopedia libera Wikipedia la quale cita come

fonte una scheda che l’Archivio Biografico di Palermo ha dedicato allo

stesso personaggio: G.C., Palermo 1822-1863, patriota e uomo

politico, esiliato dai Borboni ed attivo nei moti siciliani, generale di

Garibaldi, assassinato per motivi politici. Ma il nome di G. Corrao

raramente compare nello stradario delle nostre città; pochissime

quelle che gli hanno intitolato una strada (Pietraperzia sarebbe fra le

poche), benché in tutte compaiano vie e piazze dedicate (oltre che

G.Garibaldi) a luoghi e personaggi connessi agli stessi eventi storici:

Calatafimi, Marsala, Nino Bixio, Giuseppe La Masa, Rosolino Pilo…A

tale riguardo chiarificatrice ci è stata, recentemente, la lettura del

romanzo dello scrittore agrigentino Matteo Collura, Qualcuno ha

ucciso il generale, romanzo del quale è protagonista Giovanni Corrao,

patriota siciliano tra i più audaci e valorosi del nostro Risorgimento,

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la cui vicenda è passata nell’oblio per ragioni oscure legate agli ultimi

anni della sua vita e alla sua fine misteriosa24.

Palermitano, quasi coetaneo (Palermo, 1822) dei due più noti

corregionali, Rosolino Pilo (Palermo, 1820) e Giuseppe La Masa

(Palermo, 1819), G.Corrao fu, come quelli, ostile ai Borboni contro i

quali diresse diversi tentativi di cospirazione, subendo prigione ed

esilio. Assieme a Rosolino Pilo organizzò gruppi di volontari a capo

dei quali preparò l’arrivo e lo sbarco dei Mille in Sicilia. Combatté, per

l’intera durata della campagna, a fianco di Garibaldi distinguendosi

per spirito di iniziativa, capacità militari, ardimento, tanto da essere,

dallo stesso, nominato generale sul campo. Successivamente

all’Unità d’Italia venne integrato nell’esercito regio col grado di

colonnello. Non condivise, però, ed avversò, la politica del nuovo

governo in Sicilia, che si aspettava diversa, e si dimise per coerenza.

Partecipò anche all’impresa di Aspromonte. Non è improbabile che G.

Corrao accompagnasse Garibaldi durante il suo passaggio da

Pietraperzia, nel 1862. Specie di “antigattopardo siciliano”, Corrao

non aveva combattuto perché tutto restasse come prima: estremista

del Partito d’Azione, fu ideatore di un vago disegno politico

imperniato su una sorta di dittatura popolare. Ritenuto sovversivo e

pericoloso agitatore, inviso e spiato dalla polizia, rimase invischiato

in ambigue trame ordite tra notabili, mafia e autonomisti palermitani

e, il 3 agosto 1863, fu ucciso proditoriamente da due colpi di lupara

sparati da sicari rimasti sconosciuti, presentatisi, sembra, vestiti da

carabinieri. Delitto di mafia o politico-mafioso? L’assassinio di

Giovanni Corrao è sempre rimasto avvolto nel mistero, essendo

24 Matteo Collura, Qualcuno ha ucciso il generale, Longanesi, Milano, 2006.

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andati distrutti, o fatti sparire, i documenti che lo riguardavano, come

se si volesse che di lui non restasse neanche la memoria.25 Lo

scrittore siciliano, col suo romanzo, ne ha voluto riportare alla luce

la vicenda. 26. Gli stessi misteri avrebbero avvolto l’evento della fine

di Salvatore Giuliano agli inizi degli anni ‘5027

Sulla base di tali elementi, appare evidente che il Giovanni Corrao a

cui è dedicata, a Pietraperzia, la discesa perpendicolare alle vie

Garibaldi e 4 Novembre, in mezzo e parallela alle vie Rosolino Pilo e

Giuseppe La Masa, sia il terzo dei tre patrioti siciliani, il “generale dei

picciotti”in camicia rossa, eroe dimenticato dell’epopea garibaldina in

Sicilia, il medesimo personaggio a cui si riferiscono le note riportate

dall’Archivio biografico del comune di Palermo e dalle enciclopedie

sopra citate. Riteniamo dunque che gli amministratori del nostro

paese i quali deliberarono in merito alla dedicazione delle strade, a

conoscenza di eventi e protagonisti, abbiano voluto, attraverso la

loro scelta, onorare i tre valorosi garibaldini che tanta parte avevano

avuto nell’impresa dei Mille. Siamo convinti tuttavia che, nonostante

l’alto grado di probabilità riguardo all’identità del personaggio a cui

la via è stata dedicata, solo la delibera di approvazione del Consiglio

comunale conferirebbe alla nostra ipotesi il crisma della

inconfutabilità. Non sembra, però, che lo stato degli archivi comunali,

a causa di danneggiamenti e manomissioni subiti in periodi diversi,

25 In una nota in appendice del romanzo, l’autore fa notare la coincidenza tra l’assassinio di Giovanni Corrao e l’uso della

parola mafia comparsa per la prima volta nella commedia del 1863 I mafiusi di la Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaspare

Mosca. Il termine mafia viene ufficialmente usato negli atti di indagine relativi al delitto Corrao. 26 Di Giovanni Corrao parla l’articolo Morte di un garibaldino scomodo di Rosa Faragi, Assessore alla cultura del comune

di Prizzi, pubblicato su Dialogus dell’ARCI- Libera di Corleone, del 9/7/2010. 27 Analogie, per certi aspetti, è possibile riscontrare tra la vicenda di G. Corrao e quella di Salvatore Giuliano. Vedi, tra

l’altro, la ricostruzione che del colonnello dell’Evis fa Gaetano Savatteri in I Siciliani, Editori Laterza, 2005, pp.44-53.

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sia tale da garantire un esito positivo circa il reperimento di un atto

di cui si ignorano data ed epoca.

LEDA E IL CIGNO ed altro

Dopo la Discesa Corrao, seguiva un tratto di strada in cui si

susseguivano una serie di abitazioni di famiglie di possidenti, che

cedevano le loro terre a mezzadria, o di impiegati pubblici, tutte

persone molto conosciute in paese. La prima era quella di Don Nittu

Minnula, don Benedetto Mendola, sposato con donna Rosina della

famiglia dei Nicoletti, sorella di donna Caterina, nostra dirimpettaia

all’incrocio di via Rosolino Pilo. La casa occupava tutta la cantunera,

aveva delle finestre lungo la discesa e dei balconi ad angolo che

davano sul corso Umberto, dove si aprivano locali dati in affitto adibiti

a negozi. Era una casa signorile, alla quale si accedeva tramite una

bella entrata posta sopra una piccola scalinata di alcuni gradini

disposti a semicerchio attorno ad essa; sull’ultimo, molto più ampio,

si apriva il portoncino. «Diverse volte vi accompagnai donna Caterina

che andava a trovare la sorella», dice Maria. «Entrando in quella casa

subito si avvertiva il profumo della buona cucina, odore di vaniglia e

di pasticceria. Un pomeriggio arrivammo in un momento in cui

l’aroma del caffè sovrastava su tutto: donna Rosina, che l’aveva

appena preparato, ne porgeva, con bei modi, una tazzina sul piattino

al marito don Nitto, mentre lui, con giacca da camera e ciabatte,

leggeva seduto in poltrona. A noi, donna Rosina offrì dei dolci fatti in

casa. Mi fu subito chiaro il diverso modo di vivere di donna Caterina,

parsimoniosa all’eccesso, rispetto a quello della famiglia della sorella.

Di quella casa mi colpì, una volta», prosegue Maria, «la visione di

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alcuni abiti da donna con gonne svasate delicatamente adagiati sui

divani che arredavano il grande salone, pronti ad essere indossati o,

come si possono vedere in un atelier di sartoria, pronti per la

consegna».

«Sono delle mie nipoti», disse donna Rosina, «li tengono qua perché

la madre non vuole disordine a casa sua e loro invece dicono che

negli armadi si stropicciano… e la nonna non sa dire di no». Quattro

erano le nipoti di donna Rosina: Leda, Rosetta, Maria e Aurora, la più

piccola, più o meno della nostra età, figlie di donna Francesca

Mendola, (donna Ciccina) e di Luigi Potenza della famiglia di

numerosa parentela tra le più in vista del paese; Stefano, l’ultimo

nato, era il loro quinto figlio. Frequentazioni e rapporti di amicizia

delle sorelle si svolgevano nell’ambito dell’aristocrazia pietrina. Erano

ragazze molto belle, le sorelle Potenza, destinate a contrarre ricchi

matrimoni; non di una bellezza giunonica, come vediamo in certi

dipinti di artisti rinascimentali che hanno illustrato il mito di Leda e il

Cigno28, a cui il nome della maggiore delle sorelle subito rimanda,

ma di lineamenti più sottili e di un’ avvenenza più delicata.

La casa dei Potenza confinava ad ovest con quella dei Palascino, i

nonni di Luigi Palascino, «mio compagno di scuola alle elementari»,

dice Salvatore, «poi divenuto avvocato e, dagli anni ‘80, per più

mandati, sindaco di Pietraperzia». Seguivano la casa dei Vincifora,

che i fratelli Vincenzo e Salvatore, poi trasferitisi dal paese, furono

gli ultimi ad abitare, e la casa dei genitori di Francesco Potenza,

Ciccinu Potenza, cugino delle giovani Potenza, che sposò la signorina

28 Nelle Metamorfosi, il poeta Ovidio narra che Leda, giovane e bellissima regina di Sparta, aveva attirato le attenzioni di

Giove e che il re degli dei, con il proposito di sedurla, fingendo di essere inseguito da un’aquila, si era avvicinato a lei e

cercato la sua protezione, nelle sembianze di uno splendido cigno,. Sul mito di Leda e il Cigno si sono esercitati fantasia

ed estro artistico di scultori e pittori di tutti i tempi.

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Maria Nocera, figlia del sig. Cosimo Nocera, ragioniere capo del

comune di Pietraperzia. Assieme al dott. Francesco Mulè, segretario,

costituirono per molti anni la celebre coppia dei funzionari del

Comune. «Maria Nocera era sorella di Letizia, mia compagna di

scuola», dice Maria, «quando frequentavamo la classe seconda

elementare della maestra Pennino Chiaramonte, moglie di donn’

Anillu la napulitanu, Aniello Pennino, che aveva un negozio di tessuti

vicino alla Piazza Matteotti, all’inizio di via Sottotenente Giarrizzo. A

volte, a scuola, il mattino, Letizia ed io decidevamo di trovarci

assieme a casa sua il pomeriggio per eseguire i compiti. Allora

incontravo il ragioniere, il quale mi incaricava di portare i saluti a

papà: “portami tanti saluti a tuo padre, il presidente”, mi diceva.

Sapevo che si conoscevano e che avevano grande stima l’uno

dell’altro».

C’erano poi la casa della famiglia di Michele Adamo, Chjichjiuliddu,

impiegato presso l’ufficio del dazio; la casa del maestro don Michele

Farinelli e quella di Angelo Ideo, ‘Ngilinu Ideu, fratello del portalettere

Luigi. Dopo un’ultima porta relativa ad una casa di abitazione di più

piani con un balcone che dava sulla via La Masa, la strada terminava

con il basso locale dove sarebbe stato successivamente impiantato il

forno elettrico del rag. Pasquale Nicoletti.

Quest’ultimo pezzo della via 4 Novembre era, anche allora, piuttosto

tranquillo: non si sentivano rumori di giochi o di pianti di bambini.

Percorrendolo poteva capitare di incontrare insieme le nipoti di donna

Rosina, o solo qualcuna di esse, che andavano a trovare i nonni; la

signorina Adelina Palascino che si recava in chiesa; Ciccinu Potenza

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che bussava alla porta di casa della madre o Angelo Ideo, con la sua

cartellina sotto l’ascella, che usciva o tornava a casa.

Angelo Ideo svolgeva in paese il lavoro di messo giudiziario ed era

molto noto ai cittadini pietrini: facilmente lo si vedeva in piazza, o in

giro per le strade, mentre consegnava avvisi di sfratto, di

pignoramenti, citazioni di pagamenti e notifiche del genere: non era

l’attività più idonea ad accattivarsi la simpatia della gente, benché

tutti cercassero di farselo amico e lo chiamassero zi’ ‘Ngilì’ (zio

Angelino). La sua figura, nella percezione generale, era accostata a

quella dell’agente delle tasse o del carabiniere che portava gli avvisi

di comparizione. «CCi mannu jintra ‘Ngilinu Ide’!», minacciava

l’esercente che voleva recuperare un debito da un cliente insolvente;

e a lui guardava con una certa ansia chi si trovava in tale situazione.

Il piglio sicuro e il tono serio e deciso, coerenti con i termini perentori

delle sue ingiunzioni, mettevano soggezione. ‘Ngilinu Idè’ manteneva

ed alimentava l’alone di cui era circondato e se ne compiaceva. La

battuta si usava anche con accento scherzoso in caso di un

occasionale debito di modestissima entità: «Te’ li cincu liri di lu

debbitu d’airi prima ca mi manni jintra ‘Ngilinu Idè’»; oppure: «Nu n

c’era bisugnu di tutta sta primura, cchi ffà, ti scantasti ca ti mannava

jintra ‘Ngilinu Idè’. …). (“Prendi le cinque lire del debito di ieri prima

che mi mandi a casa ‘Ngilinu Ideo”; … “Non era necessaria tutta

questa premura (di pagare il debito); avevi forse paura che ti

mandassi a casa…”

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VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI CARATTERI E TIPI 6.

Salvatore e Maria Giordano

UN CENTRO COMMERCIALE E LUOGO DI RAPPORTI UMANI

Quel tratto di via La Masa, che collega la via 4 Novembre al corso

Umberto, era invece sempre animato dalla presenza di molte

persone. In una superficie non più estesa di un attuale ipermercato

erano infatti concentrati parecchi esercizi commerciali e poche case

di abitazione. Quando, dopo la chiusura della merceria di lu Citriri,

all’angolo di via La Masa/corso Umberto, venne aperta una pescheria,

in quello spazio i pietrini potevano trovare ogni tipo di negozio in cui

rifornirsi di tutti i generi di alimenti in cui consisteva ordinariamente

la spesa quotidiana, ed anche di più. Quelle poche centinaia di metri

quadrati costituivano quindi un autentico centro commerciale come

oggi se ne trovano (e di nuovi continuamente se ne aprono) in ogni

città e paese. Ma, a differenza dei moderni centri commerciali,

anonimi ed artificiosamente organizzati esclusivamente a fini

consumistici, il nostro centro commerciale aveva più la fisionomia di

un reale “centro sociale”, genuino luogo di incontri e di rapporti

umani: all’opportunità di esaurire la lista della spesa senza fare altri

giri per i negozi del paese, si univa il piacere di incontrare e

intrattenersi con conoscenti e amici coi quali scambiare notizie e

commentare i fatti del giorno, concludere affari.

Già prima di raggiungere la via La Masa si vedeva, di fronte, il

negozio del cugino di mamma, lu zi’ Turiddu Pirtusiddu, Salvatore

Messina, che da piccola putija di salsamenteria del tempo di guerra

si era allargato in grosso negozio di generi alimentari, fornito di ogni

tipo di prodotto in commercio. L’esercizio era gestito da Pino, Pinu

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Pirtusiddu, figlio maggiore dello zio Salvatore e della zia Concettina

Lo Presti, il quale non trascurava di rifornirsi di ogni novità nel campo

dei commestibili che venisse immessa nel mercato. Sopra il negozio

sorgeva, su due piani, la casa di abitazione della famiglia. A nord,

subito dopo la porta d’ingresso della casa, in un magazzino con due

locali, lo zio Salvatore esercitava il commercio di granaglie e ntrita.

«I due figli minori della famiglia Messina, i gemelli Filippo e Salvatore,

di qualche anno più anziani di me», dice Salvatore, «si dedicarono

agli studi. Dopo la scuola elementare frequentarono la scuola media

parificata a lu Statutu e successivamente l’Istituto Magistrale “F.

Crispi” di Piazza Armerina. Le stesse scuole che frequentai a mia

volta. Ad essi fui legato da assidua e affettuosa amicizia, che si

intensificò soprattutto negli anni post-diploma, per condivisione di

interessi e di orientamenti, fino a quando le esigenze lavorative non

si conciliarono più con la nostra permanenza a Pietraperzia. Dopo le

prime esperienze che ci videro impegnati come insegnanti presso

scuole sussidiarie e popolari rurali, i fratelli Messina furono, entrambi,

tra i primi del gruppo dei colleghi-amici, a superare, ancora studenti

universitari, il concorso magistrale, in seguito al quale si trasferirono

in Sardegna dove si stabilirono definitivamente, e proseguirono la

loro carriera di insegnamento e direttiva. Di poi soltanto qualche

annuale gradito incontro per le vacanze estive».ed ora più o meno

frequenti ed attese telefonate tra Filippo e me, lunghe da fare le ore

piccole.»

Dallo stesso lato del magazzino di Pirtusiddu, poco più sopra di esso,

verso la via Tortorici Cremona, c’era il negozio di Totò Pizzucu,

Salvatore Nicoletti, anch’esso di salsamenteria, preesistente a quello

e altrettanto fornito. Il negozio era appartenuto a don Pasquali

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Pizzucu, suo padre; Totò lo aveva ereditato da lui. Attaccata

all’esterno dell’esercizio si vedeva sempre una gabbietta con un

canarino: dalla mattina alla sera l’uccellino, interrompendo soltanto

per dare qualche beccata ad una fogliolina di lattuga sul fondo della

gabbietta, rallegrava i passanti con i suoi gorgheggi e costituiva nello

stesso tempo motivo di richiamo. Varcando la soglia del negozio, una

mescolanza di odori ti investiva, di unto, di olio e di pecorino, di

spezie; ambiente e arredi ne erano impregnati. A sinistra, in un locale

attiguo al primo, da cui proveniva odore di vino, erano disposti dei

tavoli con sopra dei bicchieri di vetro capovolti su un vassoio, e delle

sedie attorno. Nella gestione del negozio Totò Nicoletti aveva nella

madre, donna Mattuzza, donna Mattia Dinarello, una provetta

aiutante. Oltre a conoscere bene il mestiere per averlo esercitato

assieme al marito, donna Mattuzza ne aveva le attitudini e la

passione. Il mattino, racconta la signora Gemma Siciliano, sua figlia,

ad orario di apertura dei negozi, lasciava a lei l’incombenza del

disbrigo delle faccende di casa per correre ad aiutare il figlio.

Da quello stesso lato, verso Corso Umberto, altri negozi, che nel

tempo cambiarono genere, furono: la macelleria di Michele

Femminile, trasferitosi dal Corso Umberto, successivamente

trasformata in panificio da Salvatore Parlato e da lui poi ceduto a

Tano Ferruggia; la casa di lu zi’ Caloriju Piccicutu dal balcone della

quale l’uomo si sedeva a prendere il fresco e a guardare l’animazione

sottostante ; l’abitazione e il negozio di ferramenta di Antonino La

Tona; la sartoria di Calogero Bonaffini, Liddu Frappaponiju, nel locale

all’angolo con via Riva, poi ristrutturato e diventato macelleria di

Filippo Femminile, il più piccolo di li Fimminiddi, sei fratelli, tutti

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macellai: oltre a Filippo, Salvatore, Giovanni, Giuseppe, Michele,

Umberto.

Da via 4 Novembre, svoltando a destra in via La Masa c’era, invece,

un unico negozio, quello di frutta e verdura dei nostri genitori ,

trasferitovisi dopo il trasloco dal corso Umberto I e che il locale era

stato lasciato libero da Vincenzo Tortorici ,Vicinzu Purpetta, che lo

utilizzava come magazzino deposito dei mobili di cui era

commerciante. Favoriti dalla contiguità dei due esercizi oltre che dal

tipo della relativa mercanzia: pane e pizza l’uno, frutta e verdura

l’altro, base essenziale dell’alimentazione, i rapporti amichevoli

intercorsi tra i nostri genitori e Pasqualino Nicoloetti, avevano

quotidianamente occasione di manifestarsi concretamente. Non

mancavano a mamma tra i prodotti del suo negozio e quelli dei

negozi intorno gli ingredienti per preparare abbondanti “daganate”

di melanzane, peperoni, patate, cipolle condite e aromatizzate ed

arricchite di carne (in particolare di pollo, da quando per un certo

periodo funzionò , nell’ex negozio di ferramenta di La Tona, la polleria

di Aurelio La Monica) che il ragioniere, a volte sollecitava e che

premurosamente faceva introdurre nel suo forno assieme alle grosse

teglie di pizza e “fuati a facci di vecchia” : pietanze destinate a finire

sulle tavole di quanti avevano collaborato alle operazioni e, spesso,

anche di amici più assidui frequentatori ben informati di certe

abitudini di quell’angolo di strada.

UNA CARA AMICIZIA

Tra gli esercenti del “Centro Commerciale La Masa” vigevano

relazioni amichevoli. Quasi tutti, del resto, trattavano prodotti di

genere diverso l’uno dall’altro per dare luogo a discussioni per “

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gelosia di mestiere” e per problemi di concorrenza. Prevalse sempre

spirito di civile reciproca tolleranza, anche di fronte a qualche

momentaneo ed occasionale intralcio che il commercio di uno poteva

arrecare all’altro.

Fu in questa atmosfera di rapporti che caratterizzò il clima sociale di

quell’ambiente che maturò un simpatico fatto che coinvolse noi ed

una nostra carissima amica: il Battesimo di Salvatore , figlio di Filippo

Femminile, il macellaio del “Centro Commerciale”. «Le cose andarono

così», racconta Maria. «Già prima che il bambino nascesse, mamma

che aveva intuito le intenzioni dei genitori da certe risatine e frasi

allusive di Cristina, moglie di Filippo, ci aveva comunicato le sue

impressioni»: «vedrete che appena a Filippu Fimminedda cci nasci

ssu figliu, v’arriva l’ambasciata» disse «rivolta a me e a Salvatore».

«Ed ecco che un giorno, continua Maria, mamma rientrò a casa dal

negozio con la notizia:« è nato Salvatore, il sesto figlio di Filippu

Fimminedda ». E, come da lei previsto, non era trascorsa una

settimana dal lieto evento che un giorno Filippo ci venne a trovare a

casa. Era l’ora di pranzo, aveva appena chiuso il negozio.

«Scusate per l’ora», disse sfoderando il suo sorriso accattivante di

quando non era nervoso, «sono venuto per esprimervi un desiderio

mio e di mia moglie, e tolgo il disturbo: saremmo felici, io e Cristina,

se il piccolo Salvatore lo battezzassero lu professuri e la signurina»:

sue testuali parole. Subito dopo Filippo aggiunse il nome della

madrina, la terza, alla quale sarebbe spettato il compito di lavare la

cuffietta. Si trattava di Graziella Monica, confidenzialmente chiamata

Graziedda la Catrinara quando si parlava di lei in terza persona; per

noi era semplicemente Graziedda, nostra amica da sempre, cosa

nota a Filippo. Sapere di condividere con Graziella l’onore e il

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complimento ci fece piacere (È tradizionale credenza a Pietraperzia

che “ li carusi si nni piglianu setti rami di li parrini” nel senso che i

figliocci tendono ad assomigliare ai padrini in qualità e carattere). Il

lavaggio della cuffietta faceva parte del cerimoniale del Battesimo e

delle tradizioni del paese. La cuffietta bianca di filo serviva per

asciugare il capo del bambino bagnato dall’acqua benedetta versata

dal sacerdote durante il rito. La madrina dopo averla lavata e stirata,

avvolta in una velina bianca la restituiva alla mamma del bambino

che la conservava come ricordo. Nelle famiglie numerose la stessa

cuffietta serviva, o era servita, per più battesimi.

Fu un susseguirsi di accordi, di visite al bambino, di preparativi vari

fino alla data della celebrazione del Sacramento . La cerimonia ebbe

luogo nella parrocchia Santa Maria di Gesù; la festa proseguì in casa

di Filippo e Cristina, in Via Mosca, con la partecipazione della

numerosa famiglia, della anziana madre di Filippo, donna Lucia, e di

altri amici invitati. Benché fosse il sesto figlio, Filippo non badò a

spese: tra musica, balli e assaggi continui di dolci e bevande il

trattenimento si protrasse fino a tardi».

Quello del Battesimo del piccolo Salvatore Femminile, che ancor più

rafforzava la nostra amicizia, non fu che uno dei tanti episodi della

nostra vita che ci vide assieme a Graziella: la sua accanto a noi fu

una presenza costante che ci accompagnò fin dalla nascita, per tutta

l’infanzia e la giovinezza. L’appellativo “ la Catrinara” le derivava

dall’essere figlia di lu zi’ Caloriju lu Catrinaru e da la zi’Michilina, amici

di mamma e papà fin dai tempi precedenti al matrimonio delle due

coppie, e padrini di Battesimo di Salvatore, quindi cumpari Caloriju e

cummari Michilina . Da questa amicizia tra le due famiglie nacque la

reciproca conoscenza e si sviluppò in maniera naturale e spontanea,

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il rapporto tra noi e Graziella, alimentato nel corso degli anni, da

tante occasioni di incontri e di cose fatte insieme..

Nei periodi di Natale e di Pasqua, lunghe serate trascorrevamo a

casa sua o a casa nostra, giocando a carte o a tombola o cercando

di aiutare le nostre mamme che preparavano pietanze e dolci in

previsione della cena quando fossero arrivati i nostri papà dalla

Società “Militari in Congedo” e da portare via per il giorno dopo. «Oh

le gran padellate di baccalà fritto, di broccolo in pastella, di carduna

dorati e croccanti,- dice Maria- o di sfirrijulati di salsiccia grassa e

profumata! Al solo pensarci già sento lo sfrigolio dell’olio e l’odore di

fritto, acre ma così buono, mi pizzica le narici». Né potevano mancare

l’armisanti e li sfingi , gli unici tipi di dolci che piacevano a papà, lui

così restio alle cose dolci.

Frequentavamo anche la famiglia dei nonni materni della nostra

amica : non erano per noi degli estranei, lu papà Gisè (nonno

Giuseppe) , uomo buono e paziente come il suo santo omonimo, la

mamma Annù (nonna Anna), sempre di buonumore, e la pipina Filì

( la padrina Filippa), la figlia buona e affettuosa come il padre,

sempre allegra come la madre.

Anche il fratello della nonna Anna, Paolo, da giovane emigrato a

Torino, divenne per noi lo “zio Totino” perché così lei lo chiamava

(da “Tota”, ragazza, termine torinese come il nostro “carusa,)” che

ricordiamo essere ritornato in paese a trascorrere la sua vecchiaia.

In primavera andavamo a piedi a trovarli a lu Magazzinazzu, località

a poche centinaia di metri dopo li tri pponti nella direzione di lu

Funnachiddu, dove essi trascorrevano lunghi periodi. Sotto lo

sguardo compiaciuto dei due vecchietti prendevamo d’assalto le

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piante dei gelsi bianchi e facevamo scorpacciate dei dolci frutti che ci

piacevano più dei gelsi neri.

I Monica ci venivano a trovare a li Minniti e quelle erano le volte delle

nostre gite a Caltanissetta. Ad uno di tali viaggi si riferisce un

episodio, risalente alla nostra prima infanzia, che con Graziella

amiamo ricordarci a vicenda. In quelle occasioni, prima di ritornare

a li Minniti, eravamo soliti andare a salutare i parenti di papà, la zia

Rosina, lo zio Tatà (Gaetano) Nastasi e la zia Concettina Russo. Gli

zii abitavano nella stessa casa, al primo piano di uno stabile situato

in una piazzetta dietro la chiesa di San Michele. Nella stessa piazzetta

aveva lo studio il dott. Cucugliata che, da quando gli zii ce ne

avevano decantato la bravura, era diventato il nostro occasionale

pediatra. Una volta, mentre a casa degli zii gli adulti si scambiavano

convenevoli furono richiamati da un frastuono di voci e di latta

battuta proveniente dall’esterno. Guardandosi attorno e notando la

nostra assenza, spontaneamente si erano affacciati al balcone :

Graziella e Salvatore, seduti sui gradini dello studio del dott.

Cucugliata, cantavano, con tutta la voce che si ritrovavano in corpo,

le lodi di Sant’Antonio, e intanto battevano a tutto spiano come piatti

d’orchestra, i coperchi delle pentole che erano state acquistate

durante la mattinata.

“ Oh Sant’Antonio profumo di gigli

tutto il mondo t’invoca fedel:

deh benedici pietoso i tuoi figli

spargi grazie e favori dal ciel…”

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« Sebbene siano trascorse alcune decine di anni da quel giorno, una

piacevole sensazione mista a commozione, mi procura – dice

Salvatore- il rivedere l’immagine rimasta stampata nella mia mente,

della mia madrina che, nel sole abbagliante di mezzogiorno che

invade la piazzetta e mi costringe a tenere gli occhi socchiusi, dal

balcone di casa Nastasi, si scioglie in una delle sue aperte risate e

con la mano ci indica a mamma che le si trovava accanto».

Con Graziella condividemmo anche lo scompiglio dell’emigrazione

con lo sradicamento dalla terra d’origine, dagli ambienti fisici e umani

, col cambiamento delle prospettive, con la perdita dei panorami che

ci erano cari. Graziella vive a Milano, noi a Torino. Protagonisti delle

nostre telefonate sono ora i figli e i nipoti: quei tempi possiamo solo

farli rivivere con la memoria, ricordandoceli a Natale a Pasqua ai

compleanni…, contarci gli anni che passano, inesorabili. Da tempo

ormai, ma per noi sempre spiritualmente presentii, i genitori di

Graziella e il nostro papà riposano accanto nel cimitero del paese ,

nei nuovi loculi che il Comune fece costruire nel 1997, in prossimità

della tomba della Società “Militari in Congedo”. Assieme ad altri

sodali della stessa Società che li avevano preceduti e seguiti; hanno

vicini i coniugi Corvo, Paolo e Maria Buttafuoco, loro buoni amici che

ci furono dirimpettai in via 4 Novembre. Il sodalizio continua ora nel

mondo della verità. Graziella, infallibilmente, va a trovarli ogni anno

nei suoi ritorni estivi a Pietraperzia ( anche più di una volta nel corso

dell’anno, in questo molto più assidua di noi) e fa anche le nostre

veci. Grazie cara amica!

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VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI- CARATTERI E TIPI.7

Salvatore e Maria Giordano

IL COMMEDIOGRAFO COMMENDATORE GIOVANNI GIARRIZZO.

All’incrocio di via 4 Novembre con via La Masa, lato destro verso il

corso Umberto, al negozio di prodotti ortofrutticoli e terraglie dei

nostri genitori, seguiva un’unica abitazione, quella del

Commendatore don Giovanni Giarrizzo, nota personalità del paese.

Il Commendatore oltre al fatto di avere ricoperto, e di ricoprire,

incarichi politici, doveva la sua notorietà all’essere autore di opere

teatrali, commedie e drammi, alcune delle quali erano state

rappresentate più volte al Teatro Comunale di Pietraperzia e in altri

teatri della Sicilia. La casa in cui abitava era costituita da una parte

del grosso caseggiato appartenente alla famiglia di nobile

discendenza dei Signori Giarrizzo, con ingresso principale da Corso

Umberto. Tale entrata era utilizzata da don Ciccio, fratello del

Commendatore, che abitualmente viveva in una sua dimora di

campagna, e dalla sorella, donna Gnazzidda, donna Ignazia Giarrizzo

sposata Piazza, madre di Gino, Luigi Piazza, maestro di professione

presso le scuole elementari del paese, ma avvocato di studi, titolo al

quale la madre teneva molto. Il commediografo conduceva vita

piuttosto ritirata, guardava alle cose con aristocratico distacco, di

uomo che conosce il mondo. Usciva per fare ritorno, poco dopo, con

il giornale sotto il braccio. Delle cose di casa sua si occupava una

donna spiritosa e cordiale, Arfunzina, (=Alfonsina) poi divenuta la

signora Giarrizzo. Frequentando il negozio avemmo diverse occasioni

di incontrarlo e di parlare con lui. Era un uomo di raffinata gentilezza

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e signorilità, i sui discorsi avevano un intento pedagogico, erano

sempre discorsi edificanti ispirati ai valori della verità, della giustizia,

dell’onestà oltre che all’amore per la patria, per la Sicilia, per la sua

terra natia, valori a cui si ispirano i suoi drammi e le sue commedie.

«Ricordo, dice Salvatore, di aver tenuto a lungo attaccato ad una

parete della mia cameretta il cartoncino con il disegno della lumiera

ad olio e la scritta di dedica ai giovani, invito a tenere vivi i valori di

una volta, soppiantati dall’unico criterio ormai imperante fondato

sull’egoismo: “ campu iju e ccu mori mori”. Il drammaturgo l’aveva

fatto stampare con riferimento alla sua omonima opera, “Lumiera

ad olio”. Una cosa che lo indignava molto era leggere casi di

malversazione e di corruzione soprattutto degli amministratori

pubblici che, in questo caso, considerava profittatori e imperdonabili

traditori della fiducia dei cittadini, essi, che dovevano per primi dare

l’esempio. «L’uomo onesto, usava dire, deve essere come la tastiera

del pianoforte: unni la toccanu toccanu, sona» (= qualsiasi tasto si

rocchi, suona). Così li avrebbe voluti: chiari nelle parole, irreprensibili

nei comportamenti. Il Commendatore aveva rapporti con personalità

politiche e delle istituzioni, riceveva frequenti visite da parte di don

Felice Lo Giudice cappellano e poi parroco della Chiesa Madre, ed

accoglieva a casa sua, con disponibilità, persone che bussavano alla

sua porta per chiedere il suo tramite, una sua lettera per la soluzione

di qualche problema che ostacolava l’iter di una loro pratica. «Molte

altre occasioni ebbi di parlare con il commediografo, e di apprezzare

la sua personalità, aggiunge Maria, durante le serate televisive a casa

della signorina Potenza, donna Rosina, sorella di don Liborio Potenza

del quale avevamo comprato la casa in Via Principessa Deliella,

porzione del palazzo della famiglia signorile dei Potenza, lo stesso in

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cui l’eroe dei due mondi aveva pernottato quando, nel 1862, era

passato per Pietraperzia. L’evento è ricordato da un mosaico in

piastrelle di ceramica raffigurante Garibaldi a cavallo, collocato sulla

parete del palazzo in occasione della celebrazione dei 150 anni

dell’Unità d’Italia. Donna Rosina, che viveva sola al secondo piano

dello stabile, era stata tra le prime ad acquistare la televisione ed

invitava i suoi amici ad assistere alle trasmissioni. Don Giuanninu

veniva assieme alla signora Alfonsina, a donna Gnazzidda e

all’avvocato Piazza. Io, che avevo instaurato con la signorina Potenza

un rapporto di grande familiarità, ero sempre presente. Per nessuna

ragione il nostro drammaturgo si sarebbe persa la rappresentazione

di una commedia di Pirandello o avrebbe rinunciato alle puntate degli

sceneggiati, adattamenti dei romanzi storici che la televisione allora

trasmetteva: le seguiva con attenzione ed esprimeva le sue

considerazioni sulle opere e sulla recitazione attraverso commenti e

confronti di intenditore. Io lo ascoltavo e facevo tesoro delle sue

parole. Restavo lusingata le volte che, avendo indovinato lo sviluppo

di qualche situazione o espresso timidamente qualche giudizio : «hai

tanto intuito, Maria, e senso artistico», mi diceva.

Spesso partecipava alle serate anche donna Angela Vitale, la

poetessa, figlia del dott. Vitale, che era sempre accompagnata dalla

figlia Giovanna. Madre e figlia arrivavano con molto anticipo rispetto

all’orario delle trasmissioni perché a Giovanna piaceva fermarsi un

po’ con me: al mio invito ad entrare, ella non si toglieva il cappotto,

né si sedeva; senza mai interrompere di giocherellare con la sua

borsetta girava per la casa, guardava i mobili e i ritratti alle pareti,

mi rivolgeva qualche ingenua domanda. La sua spontanea semplicità

suscitava in me tanta simpatia>>.

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«Nel periodo in cui all’angolo di quel tratto di strada funzionò il nostro

negozio, più di una volta», aggiunge ancora Salvatore, «vidi arrivare

alla porta della casa del commendatore, un signore robusto, guance

piene, due folti baffi, sguardo malinconico; si trattava dell’attore

Giovanni Grasso, interprete delle sue commedie, con il quale il

commediografo era legato da amicizia oltre che da motivi

professionali. Una volta vi arrivò anche l’avv. Antonio Romano, di

Enna, senatore della DC (Democrazia Cristiana), che in paese molti

soprannominavano “Cordiali saluti”, per via dell’immancabile formula

con la quale chiudeva ogni sua lettera di risposta, unica conclusione,

dicevano, a richieste di interessamento rispetto a pratiche dei suoi

elettori».29

LA STRATARANNI.30

DON ROCCO RINDONE

Il corso Umberto, arteria principale del settore sud-ovest del

territorio urbano di Pietraperzia, ed una delle più importanti vie del

paese, la stratranni (la strada grande) per i pietrini, fu tra le prime,

dopo la guerra, alla quale vennero sistemati i marciapiedi e rifatta la

pavimentazione con mattonelle nere bituminose. «Era stata

piastrellata da poco», dice Salvatore, «quando, spingendolo sino

all’incrocio con Via Rosolino Pilo, vi feci scorrere sulle sue rotelline

29Vd. : PIETRAPERZIA, anno IV N. 2 - Aprile-Giugno 2007, p. 14, Vita ed opere di Giovanni Giarrizzo. La scheda

biografica del commediografo, corredata di fotografie, è seguita dalla pubblicazione del dramma “Tutto, meno

l’amore”.

Vd anche: PIETRAPERZIA, Anno VIII, N. 1-Gennaio- Marzo 2011, Sac. Filippo Marotta, La poetessa Maria

Antonietta Giarrizzo, Baronessa di Rincione- Il ramo nobiliare della famiglia Giarrizzo e altre personalità Giarrizzo

di Pietraperzia, p.26. 30 La Strataranni è intitolata a Umberto I (1844- 1900) figlio di Vittorio Emanuele II. Salito al trono nel 1878 in seguito

alla morte del padre, fu soprannominato il Re Buono per la pronta presenza, assieme alla Regina Margherita (prima regina

d’Italia), sui luoghi di collettive calamità Sotto il suo regno, tuttavia, l’impostazione politica ebbe un’impronta autoritaria

che diede origine ad aspri conflitti sociali repressi duramente. Nel corso dei moti di Milano del maggio 1898 le truppe

comandate dal Gen. Bava Beccaris, (poi decorato di alta onorificenza) sparavano sulla folla uccidendo un centinaio di

persone inermi. Umberto I morì a Monza il 29/07/1900 assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci.

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gommate il carrello con sopra la radio Siemens con giradischi

incorporato, che papà, dietro nostra insistenza, aveva comprato nel

negozio di Gasparuzzu, Gaspare Tortorici, in via La Masa». « Così

riassestata la via divenne il posto preferito per le nostre corse e le

partite a palla. Allacciate strette le scarpe, non avevo altro pensiero

il pomeriggio, subito dopo le lezioni da Maria l’”americana”, che

tornare a la strataranni assieme a Pasqualino dove trovavamo altri

ragazzi con cui, posti due sassi a fungere da pali, esercitarci a fare

tiri in porta. Rocco scendeva subito vedendoci arrivare. Il quasi

inesistente traffico di automobili ci consentiva allora di continuare per

tempi lunghi i nostri giochi». Rruccuzzu Muscugliuni (= Rocco

Rindone) nostro coetaneo, abitava alla metà di quel tratto di strada,

sul lato nord, tra via Rosolino Pilo e Discesa S. Orsola. «Suo padre

era lu zì’Vastianu Badamu (così era soprannominato, secondo

l’usanza del nostro paese, Sebastiano Rindone) cugino in primo

grado di lu zì’ Caloriju Badamu (Calogero Rindone) padre di Vincenzo

mio futuro marito», dice Maria. «Di li Muscugliuna era la madre, la

zì’ Pippina Missina, Giuseppina Messina, omonima, non parente ma

molto amica di mamma. Insieme frequentavano la Chiesa di Santa

Maria di Gesù in Piazza V. Emanuele, vi si recavano a messa la

domenica e molti pomeriggi anche alla Benedizione. La comune

passione per il lavoro a maglia le faceva incontrare spesso. La

mamma di Rocco veniva a casa nostra per provare insieme alla

nostra nuovi punti o per completare le parti più complicate della

maglia». «I momenti di incontro con Rocco che ricordo si riferiscono

agli anni della frequenza della scuola elementare ma non eravamo

compagni di classe. Rocco, di un anno più giovane di me, continua

Salvatore, avrebbe potuto esserlo di Pasqualino, nato solo due giorni

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dopo di lui, ma il cuginetto, col quale eravamo inseparabili, aveva

voluto incominciare la scuola assieme a me. Pasqualino si era

dimostrato molto bravo imparando subito a leggere e scrivere con la

soddisfazione del maestro, don Totò Ballati, che aveva accettato di

accoglierlo nel numero dei suoi alunni. Con Rocco ci trovavamo il

pomeriggio in casa di Maria Pergola, a pochi passi dalle nostre

rispettive abitazioni, la maestra “americana”che ci dava ripetizione.

Durante queste lezioni avevamo notato che Rocco trovava qualche

difficoltà a leggere correttamente le parole con la “esse impura” (s

preconsonantica). Diceva, per es., bbaglio, invece di sbaglio e ciò

suscitava qualche nostra risatina. Ma Rocco non si offendeva di

questa punta di cattiveria, anzi si metteva a ridere assieme a noi.

Maria Pergola, però, trovava il modo di ristabilire l’equilibrio:

sottolineava, sorridendo, i nostri sbagli e mentre faceva esercitare

Rocco nella corretta pronuncia, ci faceva ripetutamente coniugare il

verbo in tutte le persone, io sbaglio, tu sbagli, egli sbaglia….

Uscendo, Rocco stesso: “Scinniti ddoppu ca jucammu” (=Scendete

dopo che giochiamo), ci diceva. Dopo gli anni della scuola elementare

cessarono le occasioni di incontrarlo. Le uniche immagini che

conservo di Rocco di quel periodo sono quelle che si riferiscono alla

sua frequenza dell’Istituto Salesiano Don Bosco di Catania dove si

era iscritto sin dalla scuola media. Lo vedevo quando, per le vacanze,

tornava al paese. Più volte ci incontrammo durante quelle estati e ci

rivolgemmo lo sguardo, il sorriso e il saluto. Egli, sempre con la

tonaca nera addosso, gli occhiali spessi, il labbro pronunciato, serio

e meditabondo, quasi certamente tornava dalla chiesa di Santa Maria

di Gesù. Avendo scelto la direzione da dare alla sua vita fin da allora

andava riflettendo sulla sua vocazione. Diversi erano infatti i ragazzi

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che, terminata la scuola elementare, si iscrivevano al Seminario di

Piazza Armerina o alla scuola dei Cappuccini di Caltanissetta, ma

pochi quelli che vi proseguivano gli studi con l’intenzione di diventare

sacerdoti. Dopo la licenza media molti abbandonavano la tonaca; così

non fu per Rocco che, fedele alla strada intrapresa ne continuò il

corso e conseguì l’ordine sacerdotale. Era tutto quello che sapevo di

Lui né il suo nome capitava con frequenza nei nostri discorsi. Doveva

passare molto tempo prima che sentissi parlare di Rocco e fu quasi

una sorpresa, come se egli stesso fosse venuto a cercarmi: era il

1992, quando il nostro sacerdote salesiano non c’era già più da alcuni

anni. Avvenne nel corso di un convegno, a Punta Ala in provincia di

Grosseto a cui partecipavo, che un collega proveniente da Palermo,

saputomi pietrino, mi chiese se avevo conosciuto don Rocco Rindone.

Ai mio immediati interesse e curiosità di sapere di lui, il collega

sintetizzò la sua risposta in una parola sola ma pesante come un

macigno, e impegnativa anche per un sacerdote: « Don Rocco?... un

santo!». Mi parlò del loro casuale primo incontro e di come la sua

morte, avvenuta nel 1988, aveva lasciato disorientati i suoi amici.

Aggiunse che di don Rocco avrei saputo di più leggendo le

testimonianze di alcuni di coloro che l’avevano conosciuto, che erano

state raccolte e pubblicate in un libro. Durante il viaggio di ritorno

ripensando a quella strana coincidenza, mentre mi passavano

davanti agli occhi ,visioni di Rocco bambino, Rocco seminarista,

cercavo di dare forma e contenuto alla sua santità. A Torino, tramite

Saro Siciliano che lo chiese a don Pino suo fratello, nel giro di qualche

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settimana ebbi tra le mani il volumetto31. Ogni nostra famiglia ne

volle una copia.

Dalle parole di confratelli, collaboratori, amici e di quanti lo

avvicinarono emerge il racconto di una operosità svolta soprattutto

a favore dei poveri, degli ultimi, degli emarginati, degli esclusi di

qualsiasi categoria. Mandato come direttore al Centro salesiano

“Santa Chiara” all’Albergheria, una delle aree più degradate di

Palermo, dove ancora i bambini giocavano tra le macerie e i ruderi

delle case distrutte dalla guerra, don Rocco svolse il suo servizio

sacerdotale condividendo i problemi dei residenti facendosi

animatore e portavoce delle loro rivendicazioni presso le autorità e

le istituzioni. Libero da ogni condizionamento umano, indifferente al

senso comune di dignità, guidato esclusivamente dai principi del

Vangelo, accoglieva nel Centro, e ancora prima nel suo cuore,

barboni, alcolizzati, prostitute, tossicodipendenti, mentecatti usciti

dal manicomio che sarebbero rimasti abbandonati a se stessi. Non

solo spartì con essi tetto, cibo, indumenti ma si pose al loro servizio,

accudendo quelli che non erano in grado di farlo, riguardo alle loro

più elementari ed umili operazioni della quotidianità. Nella sua vita

non mancò neppure la sofferenza fisica che egli accettò come forma

di partecipazione ai dolori di Cristo. Non a sproposito il collega aveva

usato la parola “santo”: spiccano nell’agire di Rocco, quei tratti di

non ordinarietà che siamo soliti attribuire ai santi; né la santità fu

per lui un ideale astratto o una semplice aspirazione. “Farsi santo”

era nei suoi propositi, anzi il suo principale obiettivo, la ragione con

cui egli faceva coincidere la sua esistenza: «Se non mi faccio santo

31 Don Rocco Rindone. Ricordi e testimonianze. Scuola Grafica Salesiana- Palermo, 1989, pp. 124 (Supplemento al

n.42 di «Sicilia Salesiana Missionaria»

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ho sbagliato la mia vita!» 32, scriveva nel suo diario il 9.5. 1969.

Questa riflessione scritta, proposito quotidiano con cui iniziava la

giornata, non era che la conferma di una decisione e di un impegno

presi parecchio tempo prima, il 23.5.1956 quando, seminarista

presso l’Istituto Salesiano “San Giuseppe” di Pedara (CT), chiedeva

ai suoi superiori di “essere ammesso al Noviziato come Chierico”:

«Dopo aver deciso di farmi santo, ho scelto dopo molta riflessione

la via del Sacerdozio…»33, e ribaditi al Direttore del Pontificio Ateneo

Salesiano di Torino al momento, il 7/3/65, di chiedere la Tonsura per

conseguire gli Ordini Sacri ed «essere un santo sacerdote»34. È

riuscito Rocco nel suo intento? Tutti coloro che parlano di lui

considerano il fatto stesso di averlo incontrato una particolare grazia

del Signore; per il coraggio di vivere ritrovato, per la pace interiore

riacquistata dopo situazioni dolorose, tragedie e fallimenti, molti si

ritengono miracolati da lui; manca solo la narrazione dell’evento

straordinario che fa scalpore, alcuni l’hanno chiesto per sua

intercessione.

A don Rocco Rindone, la Rivista PIETRAPERZIA dedica il n. 1 -

Gennaio–Marzo 2007 . Sulla copertina spicca, a tutta pagina, la

fotografia del sacerdote: stempiato con barba alla maniera dei

cappuccini, nerissima, gli occhi pensosi e penetranti. All’interno della

rivista la rubrica “Gli Uomini e la Storia” ci propone integralmente le

testimonianze e i ricordi contenuti nel libro delle edizioni salesiane.

◊◊◊ ◊◊◊

32 Op.cit., p.15.(Cf. PIETRAPERZIA, Anno IV N.1 Gennaio/Marzo 2007, p.20) 33 Op.cit., p.13 (Cf. PIETRAPERZIA, ibidem, p.19) 34 Op.cit., p.15 (Cf. PIETRAPERZIA, ibidem)

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Percorrevamo di frequente la strataranni per recarci in piazza, perché

via più larga, aperta, piena di luce e molto più frequentata della via

4 Novembre. Pochi negozi si incontravano nella prima parte del

percorso. Dopo la casa e la falegnameria di Salvatore Pergola, (papà

della maestra Maria), che funzionò proprio all’angolo sud per qualche

anno durante e dopo la guerra, si incontrava, qualche metro più

avanti, la putija (= la bottega) di generi alimentari di Micheli Paciuzzu

(Michele Pace). Vendeva pane, pasta, sarde salate, formaggi,

mortadelle e prosciutti. Da un filo metallico, steso da una parte

all’altra del negozio circa un metro sopra il banco di vendita,

pendevano delle strisce attaccaticce attorcigliate; servivano per

acchiappare mosche che, attirate dagli odori di unto e di rancido,

numerose vi restavano appiccicate. Seguiva poi una fila ininterrotta

di case di abitazione per lo più precedute da astrichi, tra le quali

quelle dei nostri parenti Angelo Paternò e Giuseppe Calì; quelle di lu

zì’ Micheli Tularu e di la zi’ Cuncittina Paci (anche noi li chiamavamo

così perché zii dei cugini Calì), di Liborio lu Manichiri e quella della

famiglia paterna di Anna Buttafuoco: «Annuzza la Buttafoca, sposata

Sardo, di cui conobbi, dice Maria, la carica di simpatia (che seppe

trasmettere ai suoi figli Genoveffa, Luigi e Graziella), nel periodo in

cui entrambe frequentammo il corso di ricamo organizzato dalla

Necchi, macchine per cucire, e si stabilì l’amicizia tra le nostre

famiglie». Poco più avanti, di fronte alla casa della signora Filippa

Paternicola, madre di Borina e di Nino Zarba, e a quella di Turiddu

Mezzacucchia (Salvatore Miccichè), intimo amico e cognato di nostro

Compare Peppino, e delle sue due sorelle, le religiosissime signorine

Miccichè, si incontrava il negozio di legname e materiale per l’edilizia

di Paolo Riccobene. L’ultima abitazione del lato destro prima

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dell’incrocio del corso con la discesa Corrao, era quella di lu

marasciallu Nirbuzzu,, Salvatore Siciliano, persona molto nota e

stimata in paese, padre di Angelo, ‘Ngilinu Sicilianu, diplomato

maestro elementare ma passato ad un impiego alle Poste.Italiane.

Salvatore Siciliano, in pensione con il grado di Maresciallo Maggiore,

aveva fatto carriera nell’arma dei Carabinieri a cavallo e aveva svolto

il suo servizio, fin dal grado di Brigadiere, nelle zone calde del

palermitano e del nisseno. Noi ce lo ricordiamo soprattutto come

attivo collaboratore del notaio Emanuele, nell’istruire le pratiche di

compravendita terreni e case che prevedono indagini catastali e

ipotecarie, presso l’ufficio a piano terra in Piazzetta La Masa all’inizio

del corso Barone Tortorici.

Dalla discesa Corrao sino a li bagli di li Vrichini era, sul lato sud, un

succedersi di ampie terrazze al primo piano di case di abitazione,

anche di più piani, appartenenti a famiglie di agiati contadini e di

commercianti. La prima era quella della famiglia dei

Buttafuoco,«stretti parenti, dice Maria, della mia amica Annuzza»;

ad essa seguivano quelle di Salvatore Napoli, commerciante, quella

della famiglia Giusto e quella di Francesco Calafato che, al mercato

di la sirbija, esercitava l’attività di mediatore di frutta e ortaggi.

«Con Salvatore Buttafuoco, che si trasferì a Torino nello stesso nostro

periodo, prosegue Maria, condividemmo i problemi del primo

adattamento alla nuova realtà cittadina e si consolidò quel rapporto

di amicizia e collaborazione, che c’è tra noi, rafforzato dalla

parentela, (Salvatore Buttafuoco aveva sposato Vincenzina Rindone

prima cugina di mio marito) Successivamente anche Vincenzo e Anna

Buttafuoco, con le loro famiglie, raggiunsero il fratello a Torino».

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Più numerosi si contavano i negozi e le botteghe, da ambo i lati, man

mano che dall’incrocio con la discesa Corrao ci si avvicinava alla via

La Masa. Nel primo locale ad angolo della casa di don Nittu Munnula,

di fronte a quella dei Buttafuoco, era posto l’ufficio delle Guardie

Campestri, li guardij bbarraggiddara, di cui era comandante il

Maresciallo don Rocco Siciliano, fratello di Salvatore e padre dei

maestri Calogero e Liborio, del rag. Salvatore, di don Pino e di Saro

maestro anche lui ma destinato a far carriera nelle Ferrovie dello

Stato. Il Comandante, seguito da altri graduati, alcuni giorni la

settimana lasciava l’ufficio e faceva un giro di perlustrazione nelle

campagne della sua giurisdizione. Le guardie campestri operavano in

stretta collaborazione con i Carabinieri; la loro attività si intensificava

durante i periodi del raccolto del grano, delle mandorle, delle olive,

durante i quali si verificava qualche furtarello. Al posto dell’ufficio,

che era seguito dalla tabaccheria di Micheli Minarchiu, subentrò la

falegnameria di Filippu lu Varauni; seguivano la merceria dei

Tumminelli, li Gaddiniddu, poi passata a Pinu Mastrazzizzu,Pino

Messina; il bar di Cicciu Spagnulu, Francesco Spagnolo, in

precedenza negozio di frutta e verdura di lu zì’ Cosimu Mastrazzizzu,

Cosimo Messina. Sul lato opposto, l’officina di fabbro di don

Giacuminu Gulizia, amico di papà e della sua stessa leva, presso la

quale, allora apprendista, imparò il mestiere e lavorò per diversi anni

Roccu lu Villiri, Rocco Romano; la bottega del bastaio, lu vardunaru,

Filippu Dadatu (Filippo Bongiovanni). Su questo lato, nel magazzino

confinante col laboratorio del bastaio, a pochi metri dall’angolo con

via La Masa, ai primi degli anni ’50, la nostra famiglia decise di aprire

il negozio di frutta verdura e terrecotte della cui licenza era in

possesso da qualche anno. Nella casa sopra il negozio, con entrata

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dall’astricu in gesso quasi all’angolo con via La Masa, abitò la famiglia

dei maestri Vincenzo Marotta e Lina Viola. Di fronte al nostro, nei

locali terranei di Casa Giarrizzo (la famiglia stessa del nostro

commediografo) altri negozi si aprivano tra cui quello di generi

alimentari di Pippinu Zappudda (Giuseppe Zappulla), la macelleria di

Micheli Fimminedda, dove subentrarono il negozio di tessuti di lu

Capaciuttu, il signor Vassallo, così nominato perché proveniente da

Capaci (PA) e, successivamente la barbieria di Giuseppe Di Gloria,

Peppi lu Baju. Presso il “Salone Di Gloria” fece da ragazzo di barbiere,

per alcune estati, quando frequentava la scuola, il nostro cuginetto

Totò, figlio dello zio Biagio. In fondo al corso, all’angolo nord con via

La Masa, funzionò per molti anni, la merceria di lu Citriri, dei coniugi

Calogero e signora ‘Ngilina la Pissa.

Poco prima di raggiungere il laboratorio di don Giucuminu, tra il

garage di don Liboriu Farzuni (Liborio Falzone), taxista, e la casa

paterna di Michilinu e Attiliu Giunta, si incontravano le case di li

Vrichini, i fratelli Salvatore e Giuseppe Buccheri, famiglie di artigiani

falegnami, i cui membri costituivano il gruppo storico portante della

banda musicale del paese. Da quelle case capitava di sentire,

soprattutto nel periodo che precedeva il ferragosto, il risuonare delle

note di qualche opera lirica, assieme ai richiami del Maestro Salvatore

Buccheri, che dirigeva le prove della sua banda per le esecuzioni sul

palco per le feste dei santi patroni. «Un giorno però», dice Salvatore,

«mentre passavo lì davanti, avvertii una insolita eccitazione, un

parlottare accorato tra le donne della casa e udii dei pianti. Fu la volta

che i Buccheri, già rassegnati, ricevettero la notizia definitiva che

Giuliano, figlio di Giuseppe, già dato per disperso, era da considerare

caduto in Russia». Da uno dei bbagli (= cortili), vicini alle abitazioni

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dei Buccheri, poteva capitare di vedere uscire la gnura Cuncittina la

sbirra, o di incontrarla in questo ultimo tratto del Corso Umberto

prima di raggiungere via La Masa. Donna all’antica, usava indossare

una veste lunga nera con un grande grembiule davanti; sulla testa

portava un fazzolettone nero, le cui cocche non annodava sotto il

mento ma ripiegava sul capo stesso. Sempre seria in volto, quasi

crucciata come se qualcosa l’angustiasse, andava avanti e indietro

per il corso simile a un gendarme, notando tutti i movimenti e i

passanti abituali o capitatevi occasionalmente. Era personaggio noto

tra i negozianti della zona, con i quali, spesso, si fermava a parlare;

dai modi energici e spicci, nessuno cercava di contrariarla, anzi tutti

se la tenevano buona. Capitava ogni tanto che qualche persona la

cercasse e allora partiva con le sue tre quattro bestiole dentro un

barattolo di vetro, avvisando: «Vaju a mmintiri tri ssangisuchi a lu

massaru Pe’, si mi cercanu dicittici ca a mmumentu vignu», (vado ad

applicare tre sanguisughe al massaru - così venivano chiamati i

contadini con riferimento alle case di campagna,- massarija - signor

Giuseppe, se mi cercano dite loro che a momenti torno) gratificata

dal fatto che qualcuno avesse bisogno di lei.

Ma il giorno dell’anno in cui in corso Umberto si verificava il maggiore

movimento di persone era il 2 novembre. La Strataranni era, infatti,

il percorso obbligato per recarsi al cimitero e nessuno quel giorno si

sentiva esentato dal dovere di andare a far visita ai propri morti. Il

viavai di persone iniziava già il giorno di Tutti Santi e proseguiva fino

al pomeriggio inoltrato di quello dedicato alla commemorazione dei

defunti, quando i passaggi di uomini, donne, bambini, con mazzi di

fiori in mano e grandi fotografie sotto il braccio, si susseguivano

ininterrottamente. In un’atmosfera quasi festiva molti ragazzi

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indossavano le scarpe o le maglie nuove, ngignavanu, che, assieme

alle castagne, le noci e i dolci, li murticiddi avevano deposto dentro

le loro scarpe ai piedi dei loro letti durante la notte. All’andirivieni di

singoli e di gruppi familiari, si univano i cortei organizzati dei sodalizi.

I componenti delle società “Combattenti e Reduci”, “Militari in

Congedo”, “Operaia Regina Margherita”,… in ordine dietro la propria

bandiera e il proprio presidente, partivano dalle rispettive sedi di

piazza Vittorio Emanuele per andare a rendere omaggio ai membri

defunti dell’associazione, espressione del senso di comunione e

continuità tra i vivi e i morti della società. La cura e l’attenzione

riservate alle tombe sociali era un punto d’onore delle

amministrazioni che si succedevano nella gestione del sodalizio.

«Io,- dice Salvatore- facevo la mia visita ai nostri defunti la mattina

del giorno due e seguivo ancora papà anche il pomeriggio, quando

partecipava al corteo della società Militari in Congedo; ma lo facevo

con uno stato d’animo di sconforto e di pena che derivava da una

forte sensazione di paura che il pensiero dei morti mi procurava. Mi

recavo soprattutto a visitare la tomba della Confraternita di Santa

Maria, non lontana dalla porta d’entrata del cimitero, dove erano

sepolti la bisnonna, i nonni paterni e lo zio Michele. La tomba era un

luogo angusto con pareti alte e diversi piani di loculi, troppo stretta

per la quantità di parenti venuti a visitare i propri defunti. Entrarvi,

respirare l’odore di marcio e di stantio di li xùri di murti e della cera

dei lumini che si consumava; vedere quella serie di volti di vecchi di

giovani di bambini, in bianco e nero, ingranditi, fissi, circondati da

nere cornici attaccate alle lapidi, era come ricevere una botta allo

stomaco, un forte senso di nausea si concentrava in gola e non mi

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abbandonava neanche quando, uscito all’aria aperta, vedevo alcuni

ragazzi correre disinvolti tra i vialetti del cimitero e le tombe a terra».

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VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI 8

Salvatore e Maria Giordano

VIA TORTORICI CREMONA

La via Tortorici Cremona era la prima a nord di via 4 Novembre. La

strada era stata intitolata al noto poeta dialettale pietrino dopo la

caduta del fascismo. Sino a tale evento si chiamava Via XXVIII

Ottobre, data della marcia su Roma (1922). Ad un breve tratto di

essa ci legava un rapporto particolare: ad una ventina di metri ad est

dall’incrocio con la discesa Rosolino Pilo, dopo l’astricu di gesso

dell’abitazione dei coniugi Maimone, c’era la casa di lu Massaru

Turiddu Racchianedda (Salvatore Giusto), dove gli zii Calogero e

Damiana, presala in affitto, erano andati ad abitare dopo il loro

matrimonio. In quella casa era nato Pasqualino, da lì lo zio,

richiamato alle armi, era partito per l’Africa Settentrionale prima che

il figlio nascesse; solo tre mesi dopo egli aveva potuto vederlo grazie

ad un breve permesso, il giorno del battesimo. Ma Pasqualino non

poteva avere ricordo di quel giorno; egli conosceva suo padre dalle

fotografie che gli mostrava la madre e dai racconti quotidiani che gli

faceva. In quella casa la zia e il suo bambino lo avevano atteso

durante i sette anni di prigionia ed accolto al suo ritorno. Con loro e

con i nonni, coi quali trascorrevano lunghi periodi a Marcatobianco,

noi condividemmo i timori e le speranze, sotto l’ala protettrice del

nonno che aveva sempre parole di saggezza e di fiducioso ottimismo.

Quella situazione e quell’attesa ci facevano sentire ancora più uniti;

quegli anni fissarono in ciascuno di noi l’ imprinting che segnò

indelebilmente lo sviluppo dei nostri futuri rapporti. Durante tutta la

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nostra infanzia, nei periodi in cui eravamo in paese, tra via 4

Novembre e via Tortorici Cremona era un andirivieni che si ripeteva

per diverse volte nel corso della giornata. Giochi, gelosie, dispetti,

piccole baruffe, si alternavano, come avviene tra fratelli all’interno

della stessa famiglia, sotto gli occhi ora della mamma ora della zia

che coglievano l’occasione per orientare la nostra crescita. «Ripetute

volte, dice Maria, la zia Damiana mi portava a dormire con loro ed

era per me una festa; tutti e tre nel lettone, prima di addormentarci,

la zia ci faceva ripetere le preghiere della sera. Pregavamo anche per

i soldati in guerra, per i prigionieri perché tornassero alle loro

famiglie, per la pace. Spesso nel silenzio della notte venivamo

svegliati da acuti squittii e da inquietanti rumori sul tetto; erano i topi

che passeggiavano tra le tegole. In quel momento avevamo paura

che ci potessero cadere addosso ma la zia ci rassicurava: non c’era

pericolo, il soffitto in legno era spesso e robusto». «Quando arrivò il

momento, Pasqualino, benché fosse più piccolo di un anno, volle

iniziare la scuola elementare con me, dice Salvatore. Venne inserito

nella stessa classe e assieme rimanemmo per tutti gli anni che

frequentammo la scuola elementare di Santa Maria. Pasqualino si era

dimostrato molto bravo imparando subito a leggere e scrivere con la

soddisfazione del maestro, don Totò Ballati, che lo aveva accettato

nel numero dei suoi alunni. L’esecuzione dei compiti di scuola fu

un’altra attività che condividemmo sia sotto l’assistenza delle nostre

mamme sia di Maria “l’americana”. La zia Damiana all’inizio di ogni

anno scolastico ci rilegava i libri: mescolando farina con un’ altra

sostanza preparava un impasto vischioso con cui incollava due

cartoncini alle copertine che, una volta asciutte, risultavano rigide e

resistenti. Avevamo terminato la seconda quando lo zio Calogero

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tornò dalla prigionia, Pasqualino aveva sette anni.35 Superato lo

shock e gli emozionanti momenti del primo incontro, e tornata la

calma nella casa di quella famiglia finalmente ricomposta, dopo la

confusione creata dalla folla dei vicini e dei curiosi venuti per il ritorno

del prigioniero, lo zio che si voleva informare dei successi scolastici

del figlio volle sentirlo leggere . «Very, very, wuell!, molto, molto

bene » esclamò dopo che Pasqualino ebbe terminata la lettura di una

paginetta del suo libro. Pasqualino racconta che l’episodio della

lettura fu, tra le altre prime manifestazioni del padre, quello che

maggiormente lo colpì e che gli è rimasto impresso nella memoria. Il

padre, egli dice, entusiasta per l’abilità da lui dimostrata, o forse

perché cercava il modo più efficace di instaurare i più rassicuranti

rapporti col figlio settenne che lo vedeva per la prima volta, tirato

fuori il portafoglio prese e gli diede dei soldi perché si andasse a

comprare altri libri. Il ritorno a casa aveva ridato allegria allo zio; le

sofferenze fisiche e la lontananza; i timori e le incertezze le ansie

delle lunghe attese, sembravano appartenere ad un tempo ormai

lontano. Non potevamo sapere quanto avessero inciso nel suo cuore

e nella sua mente. Raccontandoci episodi della sua vita intercalava

parole nella lingua della sua prigionia; così continuò a fare spesso nei

suoi discorsi con noi e la prima cosa che ci insegnò fu a contare in

inglese. Intonava pure qualche canzone di prima della guerra o di

quelle in voga in quel periodo che sicuramente aveva ascoltato in

Inghilterra:

Besame, besame mucho

Come si fuera esta la noche la ultima vez…

35 Vd in “PIETRAPERZIA” Anno V, N.3, Luglio/Settembre 2008, p.15 Noi tra pace e guerra

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Besame mucho

Nella via Tortorici Cremona, ad ovest della discesa Rosolino Pilo, di

fronte a quello della famiglia Pagliaro, c’era invece l’astricu della casa

di donna Bettina Assennato Guarnaccia; l’altra entrata, la principale,

si apriva in Largo Capitano Bivona. Ogni tanto, salendo dalla via 4

Novembre o dal Corso Umberto, si vedeva arrivare il fratello di donna

Bettina,Vincenzo, ma noi, allora, niente sapevamo della sua storia.

VIA GARIBALDI, VIA DEGLI ARTIGIANI.

Un’altra strada che percorrevamo con una certa frequenza era la via

Garibaldi; ci era comoda per andare a la Matrici, alla scuola del

Carmine, in Piazza Matteotti, al Comune, a la piscarija. Tra le vie del

paese, Via Garibaldi era una delle più ricche di negozi e laboratori,

magazzini delle case di abitazione della via S. Nicolò, lu ringu di

ncapu, che si aprivano, quasi tutti, sul lato nord della strada. Si

trattava, in prevalenza, di botteghe artigiane di calzolai, di falegnami,

di sarti, intervallati, nel corso del tempo, a negozi di tessuti e a

mercerie. All’inizio della strada, all’angolo con la Discesa Rosolino

Pilo, c’era, nel locale sottostante l’abitazione, il laboratorio di lu

stagnataru, lo stagnino Filippo Romano che esercitava l’attività con i

suoi due figli, spesso per conto del Comune. Il giorno successivo a

qualche funerale si vedeva il maggiore dei fratelli Romano con gli

strumenti del mestiere contenuti in un recipiente di latta, partire alla

volta del cimitero. All’incrocio con la Discesa Corrao, c’era anche una

tipografia, quella di Nunzio Messina. Mancavano solo fabbri e

barbieri.

«Da diversi anni ormai trascorriamo d’estate alcuni giorni al mare

assieme a Pasqualino che raggiungiamo a Varazze, dove lui possiede

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una casa. Seduti al bar dei Bagni Mafalda-Royal con Vincenzo Ligotti

anch’egli proveniente da Milano - dice Salvatore- «abbiamo cercato

di ricostruire, sul filo della memoria, la distribuzione dei laboratori

artigiani di via Garibaldi. In una strada che misura circa la metà del

corso Umberto, abbiamo contato una quindicina di botteghe,

associandole ai nomi degli artigiani ai quali erano appartenute»:

Liddu Busacca (Calogero Maddalena); Pitrinu Virrusu (Pietro

Virruso); Peppi di Stella (Giuseppe Ligotti); Timpuni (Calogero Di

Fede), tra i calzolai. Turiddu lu Pisciatu (Salvatore Vitale); Vicinzu

Purpetta (Vincenzo Tortorici); Li Ciudda (i fratelli Salvatore e

Vincenzo Ciulla), tra i falegnami. Vicinzu Stillina (Vincenzo Colonna);

Roccu lu Birrittaru (Rocco Di Gregorio); Pidi Papari, Vincenzo Paci

(poi trasferitosi negli USA assieme alla moglie Margherita Di Romano,

la Virginedda); Tanu la Pigra (Gaetano Russano), tra i sarti. C’erano

poi il negozio-merceria di don Vicinzu Farulla e la tabaccheria di lu

Generali (Timpanelli), che davano già sulla Piazza Matteotti.

Vincenzo ci ricordava come, spesso, mentre lavoravano ciascuno

all’interno del proprio laboratorio, frivole conversazioni, tenute ad

alta voce, si intrecciavano tra artigiani confinanti. Capitava così che,

ogni tanto, frasi o battute scherzose mal comprese suscitassero

equivoci. Cessava allora il rumore degli attrezzi e, al chiarimento,

seguivano momenti di grande ilarità. Se poi accadeva che il calzolaio,

che continuava il suo lavoro fuori dal laboratorio dove aveva posto il

suo deschetto, annunciasse, alzando un po’ la voce, «..Fa ffirmari li

rraloggia!...», (fa fermare gli orologi!) era un precipitarsi generale

all’esterno per non perdere la visione del passaggio di una bella

ragazza cui tenevano dietro i commenti e le curiosità di prammatica:

« cu je… a ccu si piglià?» ( Chi è, a quale famigli a.

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◊◊◊

Il negozio di scarpe di Peppi di Stella (Giuseppe Ligotti, padre di

Vincenzo) si trovava all’incrocio di Via Garibaldi con la discesa La

Masa, «proprio di fronte alla casa dove abitava la signora Carolina

Miccichè in Vetri, dice Maria, mia indimenticabile maestra di quarta

elementare; lei e Lina Viola, mia prima maestra, restano figure

indelebili della mia esperienza di scolara». Presso quel negozio si

forniva tutta la nostra famiglia, dal momento che vi si trovavano,

risparmiando anche, gli stessi tipi di scarpe per uomo e per donna,

per qualità di pellame e per varietà di modelli, di quelle che si

compravano a Caltanissetta da Spadafora o al Calzaturificio di

Varese. Da quando papà aveva smesso di usare le scarpe alte a

tronchetti di cuoio scamosciato, che si faceva confezionare su misura

da Peppi di Danieli, solo le scarpe di Peppi di Stella lo soddisfacevano.

Il Signor Ligotti, uomo pacato, tranquillo e di modi gentili, non

impiegava tante parole per decantare al sua merce. Lo trovavi

sempre con addosso un grembiulone di cuoio, seduto al suo

banchetto da lavoro mentre, con gli occhiali tirati giù sul naso, cuciva

nuove calzature o ne riparava di vecchie. Nella vendita era spesso

aiutato dalla moglie, la signora Giuseppina Candolfi, donna, come la

nostra mamma, tanto spiritosa e allegra quanto lui era calmo e

pacato. Quando le due s’incontravano, arrivava sempre, da una parte

o dall’altra, qualche spiritosa facezia. Lina, la figlia dei Ligotti, e

nostra sorella Ninetta, che fu sua compagna di scuola alle medie,

ebbero, a volte, come insegnante di matematica Vincenzo Ligotti,

fratello maggiore di Lina, allora all’inizio della sua carriera. «Fu nella

calzoleria Ligotti», dice Maria, «che comprai il mio primo paio di

scarpe col tacco alto. Anzi, fu a mia sorella Ninetta che piacquero

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appena le vide nel negozio e le comprò per me: erano di un

marroncino sfumato con dei delicati disegni semilucidi in punta ed

avevano il tacco quasi a spillo, una “conquista”! Le calzavo e gioivo,

guardandomi allo specchio, dei centimetri che mi regalavano. Decisi,

da allora, che non avrei più portato scarpe basse. Mi complimentai

per la scelta e ringraziai mia sorella. Ha sempre avuto gusti fini e

originali Ninetta! Lina Ligotti, assieme ad altre amiche di Ninetta,

partecipò anche al mio matrimonio; ne conservo una foto ricordo».

L’ondata di emigrazione doveva portarci tutti lontani dal nostro paese

e dividerci, ma l’amicizia che si era stabilita tra le due compagne di

scuola dura ancora. Lina fa la maestra a Milano, dove in precedenza

si erano trasferiti i fratelli, e vive con la sua mamma, ora anziana;

Ninetta, maestra anch’essa, ci raggiunse a Torino all’inizio degli anni

’70, per venirvi ad insegnare. Quando le due amiche e colleghe si

sentono per telefono, mamma Ligotti gradisce intervenire nei loro

dialoghi, o viene chiamata in causa e, con lo stesso spirito di una

volta, introduce nel discorso le sue allegre e ironiche battute.

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VIA 4 NOVEMBRE E DINTORNI - CARATTERI E TIPI 9

Salvatore e Maria Giordano

IL DOTTORE VITALE

Per i primi dieci anni della nostra vita, e gli ultimi della sua, avemmo il privilegio

di abitare accanto ad un personaggio a cui spetta un posto di primo piano tra le

personalità più note e stimate del nostro paese, e di godere del suo professionale

intervento e interessamento. Per la maggior parte dei nostri concittadini il nome

del dott. Vincenzo Vitale è legato alla professione medica che egli esercitò con

somma competenza tra la fine dell’ ‘800 e la prima metà del ‘900. Relativamente

noti sono invece i suoi studi nel campo della matematica e in quello della fisica,

ambiti ai quali egli pure si dedicò con grande interesse e passione contribuendo,

con apporti teorici di altissimo livello, alla maggiore comprensione di aspetti

significativi di tali settori scientifici. Questo dato anche per noi ha costituito una

scoperta postuma. Riguardo a tali argomenti la rivista PIETRAPERZIA, mentre

per la prima volta riporta notizie biografiche sulla figura dell’illustre personaggio,

ci offre la possibilità di leggere due articoli del dott. Vincenzo Vitale pubblicati

integralmente36. La medicina resta comunque il settore che assorbì

maggiormente la sua attività e quello su cui si fondano la sua popolarità e

notorietà tanto da essere considerato un’autorità nel campo della scienza medica

anche fuori dai confini del territorio pietrino. A suo vanto si riferivano in paese

certe osservazioni che dei pietrini, poco fiduciosi nella bravura dei medici locali,

si sentivano avanzare dai medici specialisti che andavano a consultare in città:

«Al vostro paese, a Pietraperzia, voi avete il dott. Vitale, cosa venite a fare da

noi!? ».

Don Filippo Marotta, direttore editoriale della rivista trimestrale PIETRAPERZIA,

lo annovera tra le «personalità che hanno dato lustro al nostro abitato». Al suo

illustre concittadino il Comune di Pietraperzia ha dedicato una strada.

36 Per gli articoli citati in questa pagina e la poesia A mio padre di Angela Vitale, cfr. PIETRAPERZIA, Anno VIII N. 4,

Ottobre/Dicembre 2011, la Rubrica Gli uomini e la scienza, pp. 17-43.

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Un punto di riferimento e fonte per la conoscenza del dott. Vitale, resta la poesia

A Mio padre, in cui la figlia Angela, celebrata poetessa, ne ricostruisce la figura,

in una sintesi biografica in versi liberi, contemplando l’aspetto fisico e morale

dell’uomo, padre e maestro, educatore rigoroso scevro da vezzeggiamenti e

sdolcinature; ispiratore di alti ideali e sani costumi, nello spirito dei mores

maiorum e dell’humanitas che gli derivavano dalla lettura costante dei classici

greci e latini; spregiatore di agiatezze, ricchezze e onori, amante del “bello,

grande, potente, sublime”.

…“Spartanamente m’educasti

senza baci e carezze, senza vezzi,

e in me trasfondesti l’amore per l’opere grandi…”

… …

…avevi d’antichi filosofi greci somiglianza strana,

il disprezzo di agi e ricchezze,

il disdegno e il rifiuto d’una vita vana!...

Nella sua composizione appassionata la poetessa considera anche gli anni della

formazione universitaria del padre alla scuola dei più insigni cattedratici di

medicina dell’epoca dell’Università di Roma (in particolare Guido Baccelli e

Francesco Durante)37, nel corso dei quali il suo amore per la conoscenza e la sua

passione per la ricerca gli valsero l’assegnazione, per ben tre volte, del “Premio

Rolli” 38, sino alla partecipazione al gruppo degli studiosi collaboratori del prof.

Virchow39 dell’Università di Berlino che, con le sue intuizioni e ricerche sulla

formazione della cellula e sulle alterazioni delle normali funzioni di essa

(patologia cellulare), stava rivoluzionando le conoscenze e la pratica medica del

tempo. Tale collaborazione, con uno degli scienziati medici più celebri del

momento, apriva a Vincenzo Vitale la strada verso i più alti successi scientifici

37 Guido Baccelli (1830-1916), romano, professore di medicina e chirurgia operatoria, nonché uomo politico, più volte

ministro della P.I. A lui si devono, tra l’altro, i Programmi didattici della Scuola elementare del 1894 e la promozione

della costruzione del Policlinico Umberto I della capitale. Fu medico di casa reale ed archiatra.

Francesco Durante (1844-1934), di Letojanni (ME), professore di patologia speciale chirurgica e senatore del regno,

cofondatore con Baccelli del Policlinico Umberto I. 38 Il “Premio Rolli” era istituito dall’Università La Sapienza” di Roma sulla base di un lascito testamentario del medico e

botanico romano Ettore Rolli (1818-1876) per premiare studenti particolarmente meritevoli, contribuire a far raggiungere

i loro obiettivi e incentivarli all’ottenimento di risultati eccellenti. 39 Rudolf Virchow (polacco di nascita, 1821 - Berlino, 1902), professore di anatomia patologica dell’Università di Berlino,

scienziato e uomo politico antibismarchiano. Noto per la sua teoria della “patologia cellulare”, punto di svolta nella storia

della medicina. Candidato al Premio Nobel del 1902.

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che venne interrotta dopo breve tempo, a causa della morte del padre poco più

che cinquantenne, per trasformarsi in opera di “missionario” in un servizio e in

una sede più umili, accettati con generosità e sacrificio di sé. A questo impegno

meritorio, svolto sia nello studio medico della sua stessa casa, nella via non

ancora intitolata al nostro poeta Francesco Tortorici Cremona, sia andando a

trovare i suoi poveri assistiti, molti dei quali curati gratuitamente, nelle stesse

modeste abitazioni, fa più volte cenno la figlia nella biografia poetica:

“…e penetrando ancora nei miseri tuguri

della povera gente. per lenire gli affanni...”,

E mentre soccorreva i suoi pazienti e alleviava le loro sofferenze, il dottore non

tralasciava la lettura degli antichi autori greci e latini, da cui traeva alimento e

appagamento spirituali, né abbandonava la speculazione scientifica, continuando

le sue collaborazioni con riviste specializzate sino a tarda età (i due articoli

pubblicati in PIETRAPERZIA sono del 1942, scritti a più di ottant’anni di età).

Anche il professore Salvatore Sillitto, per lunghi anni direttore didattico delle

scuole elementari di Pietraperzia, ed insigne matematico anche lui, in un articolo

del 1982, ora riproposto nella stessa rubrica della Rivista “Pietraperzia”, oltre

alla genialità del dott. Vitale sottolinea la sua opera di «apostolo e benefattore

dei poveri». Tale era l’uomo tale l’icona che di lui ci è stata tramandata. Questa

constatazione sfaterebbe il dissidio tra la cultura scientifica e la cultura

umanistica denunciato dallo studioso inglese Charles Snow nel suo saggio Le due

culture del 195940. Secondo lo scienziato una grave frattura è in atto da tempo

tra cultura scientifica e cultura umanistica. Questi due tronconi del sapere si

troverebbero come su due poli opposti in cui gli scienziati, che prediligono una

visione più oggettiva del mondo e della natura, tendono a snobbare i letterati.

Tendenza non meno ostile verso la cultura scientifica caratterizza i cultori delle

discipline umanistiche, nei quali tale atteggiamento tende a farsi a-scientifico se

non antiscientifico. L’esperienza e la vita del dott. Vitale smentiscono tale

40 Sir Charles Percy. Snow (Leicester, 1905- Londra, 1980), professore di fisica a Cambridge, scienziato e scrittore di

romanzi, nel suo saggio Le due culture rileva una forma astiosa di incomunicabilità tra la scienza e le discipline

umanistiche e attribuisce a tale scissione tra i due tronconi del sapere la mancata soluzione di molti problemi che

affliggono il mondo.

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contrasto: nella sua figura troviamo, infatti, armonicamente fuse, componente

scientifica e componente umanistica; competenza scientifica espressa con

appassionata umanità.

Era opinione comune che il dott. Vitale non fosse credente, che tutto il bene

elargito verso gli altri lo fosse in termini esclusivamente umani e terreni. Nessun

cenno si riscontra su questo aspetto della sua vita negli articoli di coloro che

hanno scritto di lui; né ci sembra siano da considerare indizi significativi, tali da

fondare su di essi ipotesi circa la fede del dottore nel soprannaturale, quelli

contenuti nella poesia A mio padre della figlia Angela nel verso in cui ella dice

di vedere il padre “taciturno e pensoso” o l’altro, più avanti, dove riporta una

sua affermazione: “lo spirito vive”. Segnali forse di un dilemma interiore ma non

così chiarificatori circa il suo credo nel destino ultraterreno dell’ uomo. E tuttavia

pare che, verso gli ultimi anni della sua esistenza, Vincenzo Vitale si sia

avvicinato ad una fede che potremmo definire di tipo “pascaliano”, riassumibile,

in estrema sintesi, in questi termini: “se c’è e ci ho creduto mi sono guadagnato

la vita eterna; se non c’è che cosa ci ho perso?” Cioè credere nell’ esistenza di

Dio è una scommessa in cui niente c’è da perdere e tutto da guadagnare; per di

più se ne ha un guadagno incommensurabile, infinito41. A tale proposito abbiamo

ascoltato il racconto di un episodio riferibile agli anni subito dopo la II guerra

mondiale. È di don Filippo Rabita, il maestro falegname vicino di casa del dottore

e nostro. Raccontava don Filippo che, per diversi pomeriggi, verso l’ora della

Benedizione, aveva notato il dott. Vitale attraversare la Piazza Matteotti e

proseguire per via Barone Tortorici verso la matrice. Preso dal dubbio e spinto

dalla curiosità, un pomeriggio pensò di avvicinarlo e, forte della lunga

conoscenza, gli espresse, in modo velato, il suo sospetto.

« Filì, nzirtasti, rispose il dottore, vaiju a la Matrici ad assistiri a la Bbinidizzioni…

Pirchì, vidi,… l’ura s’abbicina… E si cc’è daveru?» (“Filippo, hai indovinato, vado

alla Chiesa Madre ad assistere alla Benedizione,… Perché, vedi,… l’ora si

avvicina… E se c’è davvero?”).

***

41 Cfr. Blaise Pascal, Pensieri. Gli organi della fede, «La scommessa», p. 123, Oscar Mondadori, 1968.

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Solo la parete ovest della camera grande separava la nostra abitazione da quella

del dottore che aveva, però, l’ingresso in via Tortorici Cremona. Sulla via 4

Novembre si apriva soltanto la porta “allannata” di un “dammusu” che raramente

veniva aperto. Quando, diversi anni dopo la morte del dottore, comprammo la

sua casa, trovammo quel locale pieno di paglia e di polvere. Lo stabile di casa

Vitale comprendeva anche un secondo piano abitato, all’epoca dei nostri ricordi,

dalla famiglia di una delle figlie del dottore, Elena, che aveva sposato il

farmacista dottor Salvatore Mendola. I coniugi Mendola-Vitale avevano due figli,

Salvatore, chiamato Rino, e Cristina, per noi tutti, Cristinedda, dei quali noi

eravamo di uno-due anni più giovani. «Di essi, crescendo», dice Maria, «fummo

compagni di gioco: Rino partecipava al gruppo dei ragazzi della sua età che

gravitavano in quello spazio di fronte alle nostra casa e a quella del dottore, che

avevano eletto come luogo preferito per i loro giochi; con Cristina, che spesso

veniva a casa nostra, condivisi, ancora giovinette, molti allegri e sereni momenti

di amichevole trattenimento». «E parlando di loro, la prima immagine che mi

viene in mente», continua Maria, «è quella del farmacista Mendola che, all’ora

di pranzo o di cena, affacciato ad uno dei balconi della sua casa, chiama il figlio,

che ritarda a rientrare, “Rinoo!, Rinoo!”, ad alta voce, alla maniera delle massaie.

E quasi lo rivedo e l’eco mi sembra di sentire risuonare nelle mie orecchie». Rino

e Cristina dovevano restare, ancora giovani, orfani del padre e donna Elena,

conseguita la laurea in farmacia, proseguire l’attività del marito. La Farmacia

Mendola, situata in Piazza La Masa, passata successivamente dalla madre alla

dott.ssa Cristina, costituisce ancora una della farmacie storiche del nostro paese

assieme a quella, allora di un altro Mendola, Stefano, figlio di don Totò Mendola,

ubicata in Piazza Matteotti in un locale del Palazzo del Barone Tortorici.

***

Il dott. Vitale, esperto in medicina generale ed in chirurgia, era anche

specializzato in ginecologia, e, nel ruolo di ginecologo, egli aiutò a nascere molti

bambini del nostro paese. All’epoca i parti avvenivano generalmente in casa,

parti spontanei per cui tante volte era sufficiente l’assistenza della levatrice se

non l’aiuto di una persona della famiglia o di una vicina particolarmente esperta,

ma nei casi più difficili, quando neanche l’ostetrica era in grado di affrontare la

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complicazione imprevista, si chiamava il dott. Vitale ed egli interveniva con

urgenza: «Currimmu ca masculu jè», diceva. Aveva sperimentato, infatti, che

erano i maschietti a presentare le maggiori difficoltà a venire al mondo. Altra

espressione tipica del dottore era la risposta al parente di una persona colpita

improvvisamente da qualche malore, che sollecitava il suo intervento: «Vossì

s’allibberta duttù ca ma matri sta mmurinnu.» E il dottore, sicuro del soccorso

che poteva dare la medicina ma anche consapevole dei limiti di essa di fronte

all’ineluttabilità, «Figliju mì - rispondeva- si nun gnè l’urtima arrivammu

‘ntimpu» (“Faccia presto dottore, mia madre sta morendo”. “Figlio mio, se non

è l’ultima, se non è il colpo definitivo, arriviamo in tempo”).

Per la nascita di nessuno di noi fu però necessario l’intervento del dottore Vitale,

a mamma bastò l’aiuto dell’ostetrica donna Antonietta (la signora Antonietta

Gulino sposata Attanasio) e il sostegno della nonna Maria Cava, perché noi

fummo tutti e quattro lesti e ansiosi di presentarci in società. Provvidenziale fu

invece la vicinanza del dottore i primi anni della nostra vita e nel corso della

nostra infanzia, specie riguardo alla diagnosi e la cura delle malattie dei bambini:

morbillo, varicella, orecchioni, rosolia che, sino a quando non vennero indebolite

dai vaccini, aggredivano in modo violento. In quei casi era motivo di sicurezza

per mamma, che subito lo interpellava, ed egli era pronto a tranquillizzarla

dicendo che eravamo abbastanza forti e robusti da superare senza conseguenze

quelle che erano le “tasse da pagare” da parte di tutti i bambini. Egli non solo si

informava e si adoperava per la nostra salute ma era anche prodigo di consigli

ed ammonimenti di carattere alimentare ed educativo alla mamma che lo

ascoltava con molta attenzione. “L’ha detto il dottore Vitale” era diventata la

frase risolutiva che mamma usava tutte le volte che rifiutavamo qualche farmaco

o alimento utile alla nostra crescita.

***

Ricordiamo il dott. Vitale già avanti negli anni. Ogni tanto compariva dietro i vetri

della porta finestra del balcone di via 4 Novembre, con gli occhiali sul naso,

intento a consultare qualche rivista o qualche libro da cui sollevava gli occhi per

osservare cosa succedeva in strada o, forse, per richiamare o rimproverare quel

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gruppo di bambini chiassosi che avevano disturbato i suoi studi. Lo vedevamo

uscire mentre scendeva dalla via Rosolino Pilo ed imboccava la via 4 Novembre,

sempre vestito in modo elegante, generalmente di scuro, borsalino nero e canna

con il pomo arrotondato in avorio. Accessorio, quest’ultimo, del suo

abbigliamento ma da qualche tempo supporto a volte necessario. Non era molto

alto il dottore ma aveva un fisico ben modellato. Sul suo viso grazioso spiccava

lo sguardo vigile e attento, in cui si coglieva anche un che di severo. Non era

rapido nei movimenti ed impiegava del tempo per superare quel breve stretto

tratto di strada in lieve salita tra il ballatoio dei Rabita (di don Filippu Bruni) e

quello dei Vinci (di la gnura Calidda la Vinci). «Mi capitò infatti una mattina»,

dice Salvatore, «di stare in apprensione per lui quando, mentre affrontava

l’attraversamento della via, non rischiò di essere investito da un carro che

sopraggiungeva dalla direzione opposta. Il conducente, un gessaio, per quanto

tirasse le redini, non riusciva a frenare il cavallo spinto dal peso del carro e del

carico, e intanto, in preda all’agitazione, continuava con voce atterrita a gridare

“Dittù ‘ssi si sposta! Dittù ‘ssi si sposta!”. E fu per un pelo che il dottore riuscì

ad appoggiarsi al ballatoio dei Vinci puntando il bastone per terra, mentre il lu

issaru, rosso in faccia, si asciugava i sudori freddi per il pericolo corso e

fortunatamente scampato».

Meta della uscite del dottore, quando non erano visite ad ammalati, era la

“Società Operaia Regina Margherita” in Piazza Vittorio Emanuele, dove era atteso

per la consueta lettura del giornale quotidiano. Lì era ben conosciuto dai soci che

erano stati, ed erano, suoi pazienti da quando era stato scelto come medico

sociale dalla società che, come istituzione di mutuo soccorso, aveva tra i sui

scopi statutari l’assistenza medica ai soci e ai loro familiari. Come in un rito il

dottore, attorniato da un buon numero di soci, eseguiva la rassegna stampa

accompagnando la lettura delle notizie con spiegazioni e commenti e fornendo i

chiarimenti che gli venivano chiesti. Immaginiamo una “Prima Pagina” viva come

quella che va in onda ogni mattina su RAI 3, dove il giornalista di turno, dopo

aver letto le notizie più importanti riportate dai giornali quotidiani, risponde

telefonicamente alle domande degli ascoltatori. Quando i minuscoli caratteri di

stampa rappresentarono un problema per i suoi occhi, e il leggere ad alta voce

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lo stancava, il dottore fu sostituito da Giuseppe Maddalena, lo storico di cose

pietrine, che leggeva in maniera spedita e corretta ed aveva una voce chiara e

tonante. Il dott. Vitale interveniva per spiegare qualche termine, correggere

qualche accento e interpretare le notizie stesse oltre ciò che appariva tra le righe.

Così il dottore metteva al servizio dei soci del sodalizio non solo la sua

competenza professionale ma la sua cultura nel senso più ampio: è indubbio,

infatti, che tale cerimonia quotidiana superasse l’aspetto puramente informativo

e avesse funzione pedagogica. Nei liberi discorsi tra loro e a casa con i familiari

gli ascoltatori riportavano le novità udite dove “l’ha ditto lu dutturi Vitali”

equivaleva a zittire ogni opposizione.

***

Il dottore amava i giovani e, riguardo ad essi, aveva idee molto chiare. I giovani

costituivano l’avvenire delle famiglie e del paese, attori dello sviluppo futuro, ma

niente debolezze e divagazioni per loro; le distrazioni toglievano ore allo studio,

che doveva essere serio, rigoroso e continuo. Questo era il criterio che ispirava

i suoi rapporti con i giovani: la stessa serietà, lo stesso rigore con i quali aveva

educato i figli. Forse non a tutti nota è, a questo proposito, la vicenda che

riguardò i figli Rocco e Ferdinando quando erano studenti universitari a Roma.

L’ episodio fu raccontato dallo stesso Ferdinando a Filippo Romano, nostro

parente che negli anni ’40 era stato mezzadro locatario a lu Lucu, la tenuta di

campagna dove, da un certo periodo, era andata a vivere donna Giuseppina

Anzalone (donna Pippina), moglie del dottore, e che, in tale ruolo, spesso si

recava in via Tortorici Cremona per conferire con il dottore. Il dottore, a cui

erano giunte voci di una condotta piuttosto disinvolta dei due fratelli, pensò di

fare loro una sorpresa. Si recò a Roma a loro insaputa. Non trovandoli a casa, in

un’ora in cui si sarebbe aspettato di vederli al tavolo di studio, li aspettò nella

casa che avevano preso in affitto. Quando, dopo alcune ore, arrivarono ignari

della visita alla quale non erano preparati, il padre, a cui l’irritazione era viepiù

montata a causa della lunga attesa, prese a colpirli ripetutamente alle gambe

mentre si cambiavano di abito, con un sottile ramo di ulivo che, evidentemente,

si era portato dietro, minacciando ripercussioni riguardo alla prosecuzione dei

loro studi.

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«Anch’io ebbi un esempio della severità del dott. Vitale», dice Salvatore, «l’anno

in cui avevo incominciato frequentare la scuola media. Continue erano le partite

di pallone del nostro gruppo di ragazzi della zona che si svolgevano sotto i suoi

balconi; era naturale che il chiasso e le urla potessero disturbare il suo studio o

il suo riposo. In effetti, qualche volta, il dottore si era fatto vedere dietro i vetri

con il viso severo e ammonitore, ma non si era affacciato a richiamarci e noi

speravamo nella sua comprensione e pazienza. Quella volta eravamo soltanto in

due: Pasqualino Buttafuoco, compagno di scuola alle medie, ed io, in attesa di

organizzare la solita partita. Sistemate le due pietre che fungevano da pali,

avevano incominciato a fare qualche tiro in porta. Ma un calcio dato un po’ più

forte e non controllato mandò il pallone, ironia della sorte, dove mai avremmo

voluto che andasse a finire: sul balcone del dottore. Prima che decidessimo come

fare e a chi rivolgerci per farcelo mandare giù (contavamo sulla complicità della

figlia, la signorina Cecilia) ecco che il dottore aprì la porta finestra, si affacciò al

balcone con gli occhiali sul naso, vide la palla, rientrò e ricomparve con un paio

di forbici da chirurgo con le punte ricurve e, senza proferire parola, prese il

pallone e, sotto i nostri occhi sorpresi ed imploranti, con mosse lente e con mani

tremanti, forse non solo per l’età, lo ridusse in piccole strisce e ce lo buttò davanti

ai piedi. Noi, fermi, assistemmo mortificati, sino alla fine, all’operazione, senza

la forza né il coraggio di dire una parola o di chiedere scusa. Rientrammo a casa

pieni di vergogna, ma la lezione ci servì; del resto ci andavamo allontanando da

questi tipi di gioco per altre attività più serie e impegnative.

Pasqualino Buttafuoco

La scena della palla e di noi con la testa piegata davanti al dottore mi sarebbe

venuta in mente parecchi anni dopo mentre svolgevo il servizio militare a Roma

presso il Reparto Trasmissioni della “Caserma Ruffo” di via Tiburtina e dovetti

assistere alla cerimonia di un “rimprovero solenne” inflitto ad un caporale del

reparto manutenzione automezzi. Immobile davanti al dottore Vitale per tutto il

tempo che egli impiegò per l’operazione del taglio della palla, mi vidi come il

caporale che, sull’attenti, di fronte al Comandante della Caserma e alla presenza

dei reparti schierati, ascoltava con le lacrime agli occhi le motivazioni e le parole

di rito della severa punizione. Ancora più chiaramente rividi la scena, con la

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tristezza nel cuore, quando appresi la notizia che Pasqualino Buttafuoco ci aveva

lasciati: era il 1993, inizio estate. Pasqualino si trovava a Pietraperzia come ogni

anno in quella stagione, assieme alla moglie Gabriella e ai figli Vittorina e

Vincenzo. Professore di lettere in un istituto superiore di Torino, chiedeva di

essere nominato commissario agli esami di maturità in una città della Sicilia per

poter stare, nei mesi estivi, vicino ai genitori. Il giorno della sua dipartita stava

partecipando, ad Enna, all’incontro preliminare della Commissione. Fu nel corso

della riunione che i colleghi commissari lo videro improvvisamente reclinare la

testa sul petto e cadere per terra. L’età, le circostanze, il modo del decesso

scossero la città e il paese. Gabriella mi raccontò successivamente

dell’imponente funerale che si celebrò al paese con la partecipazione dell’intera

cittadinanza, dei colleghi e delle autorità politiche e scolastiche della stessa

provincia. Mi vennero in mente i momenti trascorsi con lui, le interruzioni, le

riprese per motivi contingenti. Conseguita la licenza media, Pasqualino aveva

abbandonato gli studi per qualche anno per aiutare il padre nei lavori della

campagna. Quando riprese, però, bruciò le tappe. Diplomatosi presso l’Istituto

magistrale “F.Crispi” di Piazza Armerina, partì per il servizio militare che svolse

a Torino dove rimase per iniziare la carriera di maestro. Non ci eravamo persi

del tutto di vista ma incrementammo i nostri rapporti amichevoli quando anch’io

mi trasferii in quella città e andavo a trovarlo quasi tutti i sabati ad Alpignano, a

pochi chilometri dal capoluogo, dove lui insegnava presso le scuole elementari

del paese, senza aver conosciuto le fasi della scuola popolare e delle supplenze.

Parlavamo dei libri che stavamo leggendo, di problemi scolastici, dei nostri studi

all’università, di affari di cuore. Aveva sempre a disposizione due biciclette nella

casa-cascina dove abitava e, quando il tempo lo permetteva, facevamo qualche

escursione. A tali incontri partecipò qualche volta anche Totò Zappulla. Assieme

attraversammo le vicende sociopolitiche di quegli anni. Nel ’68, più vecchi di un

decennio circa dei giovani studenti, la contestazione globale ci interessò come

fenomeno sociologico del quale in parte condividemmo la critica all’autoritarismo

e alle forme oppressive delle istituzioni politiche, sociali ed economiche. Fummo

presenti all’affollatissima conferenza che il filosofo Herbert Marcuse, considerato

con il suo saggio L’uomo ad una dimensione l’ideologo di riferimento dei

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movimenti studenteschi e giovanili di protesta (un simbolo dei giovani

contestatori erano le tre <M>: Marcuse, Marx e Mao), venne a tenere a Torino

nel 1969. Fummo maggiormente attratti, per motivi professionali, dalle proposte

dell’MCE (Movimento di Cooperazione Educativa), molto attiva a Torino, che

promuoveva il rinnovamento dei contenuti dei metodi e delle tecniche

d’insegnamento nella scuola elementare e iniziammo a sperimentare in classe il

lavoro di gruppo, la discussione guidata, la drammatizzazione, la ricerca e

l’elaborazione del Giornalino scolastico. Contrastammo invece i Decreti Delegati

del ‘74, che introdussero gli Organi Collegiali nella scuola (molte furono allora

tra i docenti le ore di sciopero), ma, quando la legge passò, collaborammo, dopo

le prime fasi di freddezza, con i genitori e ci attivammo per fare delle scuole e

delle classi delle comunità educative. Pasqualino intanto era passato ad

insegnare lettere alla scuola media e successivamente alle superiori e scriveva

articoli su argomenti pedagogici e psicologici per la rivista “La Tecnica della

Scuola” che gli pubblicò Problemi di psicologia dell’educazione e valutazione

scolastica della collana «Guide didattiche» dell’ANIAT(Associazione Nazionale

Insegnanti di Applicazioni Tecniche). Un buon rapporto si manteneva anche tra

le nostre famiglie con relative vicendevoli visite.

Il giorno che la sua salma arrivò a Torino, qualche giorno dopo le esequie a

Pietraperzia, fui vicino a Gabriella ad attendere il convoglio per delle ore davanti

al cimitero di Corso Novara. Il giorno dopo noi amici di Torino demmo a

Pasqualino l’estremo saluto presso la Parrocchia San Dalmazzo, ad alcune decine

di metri da Via Della Consolata dove egli aveva abitato con la sua famiglia. Uomo

buono, serio, onesto e generoso, da vent’anni Pasquale Buttafuoco riposa nel

Cimitero Monumentale della città, in corso Novara.

***

I fatti raccontati possono ascriversi alla componente seria, rigorosa ed

intransigente del dottore Vitale. Ma il suo carattere possedeva anche una

componente ironica, a cui si possono attribuire, invece, altri episodi di cui

avemmo esperienza o che ci furono raccontati, «come quello che riguarda certi

pacchetti a sorpresa che sapeva preparare», dice Maria. «Dunque, allora, ancora

negli anni ‘40, non tutte le abitazioni disponevano di allacciamento alla rete

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fognaria, né erano fornite di fosse biologiche e di servizi igienici, nemmeno le

case signorili. Le abitazioni con la stalla servivano ottimamente per certi servizi

necessari ed urgenti e le famiglie dei contadini meno sentivano il disagio, sotto

questo riguardo. Tanti altri, per certe loro esigenze igieniche, adoperavano il

vaso da notte e, per più specifiche e consistenti funzioni, il cantaro. Tale

accessorio, elegante per certi aspetti e comodo, alla fine andava svuotato e

pulito. Per eseguire queste operazioni si aspettava la sera, quando tutti si fossero

chiusi in casa, e dei rumori e dei tonfi sospetti non si andava a verificare la

provenienza; le strade subivano quegli oltraggi e, solo al mattino, si scoprivano

certi misfatti. Anche il dottore Vitale possedeva il suo bel cantaro; lo scoprii il

giorno che comprammo la sua casa, in terracotta smaltato, posto in un angolo

di quella che era stata la sua camera da letto. Ebbene, per pulirlo ed eliminare

il prodotto, il dottore si era inventato un modo molto originale, un sistema da

brevetto. Sistemato il contenuto del cantaro in più fogli di giornale, completava

la confezione avvolgendo il tutto con la carta argentata o dorata dei regali che

riceveva e la legava con nastro e fiocchetto, ottenendone un pacchetto elegante

che avrebbe potuto ingannare chiunque. Dal balcone della sua casa poi riusciva,

con un energico lancio, a farlo arrivare fin quasi all’incrocio. Affacciati al balcone

poteva capitare di assistere a scenette di persone che, alla vista degli attraenti

pacchetti, si piegavano, li prendevano in mano, li soppesavano, li ributtavano a

terra o li portavano via. Successe un giorno - l’episodio era noto a tutti i vicini-

che la gnura Pippina la Meccia, mentre tesseva la strada da un incrocio all’altro,

come era solita, si era accorta che un suo parente, salito dal corso Umberto,

arrivato all’incrocio e notato l’elegante pacchetto, lo aveva raccolto e, tutto

contento, se lo teneva in mano, con l’evidente intenzione di portarlo a casa.

Incontratisi e salutatisi, tra i due parenti si svolse il colloquio seguente:

«Cuscì», disse a bassa voce la gnura Pippina, «ittatilu ssu paccu (“Cugino

buttatelo quel pacco”)».

Il cugino, senza nessun sospetto e non comprendendo le buone intenzioni della

cugina:

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«Ma pirchì, cuscì la je ittari, na bbona vota ca mi capita di truvari quarchi cosa!»

(“Ma, cugina, perché lo devo buttare, una buona volta che mi capita di trovare

qualcosa!”).

«Ittatilu, sentiti a mmia» (“Buttatelo, ascoltate me”), continuava la gnura

Pippina, «lassitulu perdiri lu pirchì» (“lasciate perdere il perché”). Ma quello non

pareva voler rinunciare al pacchetto, anzi sembrava ansioso di arrivare a casa e

fare la sorpresa ai suoi figli.

«’Nu lu ittu, cuscì, anzi lassatatimi iri intra ca cci lu purtu a li carusi» (“Non lo

butto, cugina, anzi lasciatemi andare a casa che voglio portarlo ai bambini”).

«Ji pinsu ca jè mmigliu si lu jittati,… sintitimi!» (“Io penso che è meglio se lo

buttate, ascoltatemi!”), insisteva la cugina. L’uomo, immaginando forse che la

cugina volesse impossessarsi lei del pacco, preso da scrupolo, si offrì di dividerne

il contenuto.

«Si propriu vuliti, putimmu fari na mità l’unu» (“Se proprio volete, possiamo fare

metà ciascuno”), disse.

La gnura Pippina, spazientita, visti inutili i suoi inviti,

«Nanò cuscì, grazzii, tinitivillu tuttu ppi bu’, vi salutu» (“No, cugino, grazie,

tenetevelo tutto per voi, vi saluto”). E tornò verso casa sua, parlando tra sé e

sé.

***

«Era un ottobre ancora caldo quello del 1949 quando morì il dottore», racconta

Maria. «Quella mattina la signorina Cecilia ci bussò alla parete come eravamo

soliti quando avevamo bisogno gli uni degli altri per motivi urgenti. E, affacciatici

ai rispettivi balconi, ci diede la notizia. Era triste ma ce la comunicò con un tono

ed un’espressione di normalità: “Questa notte è morto papà”. Volli subito andare

a stare vicina a lei, anche se avevo otto anni e mai avevo visto un morto. Era

sola, la signorina Cecilia, e fu lei stessa che mi prese per mano e mi accompagnò

nella camera del padre.

Il dottore era composto sul suo lettino, vicino a quella scrivania di noce che non

avrebbe mai più usata, accanto alla quale tante volte, piena di soggezione

davanti a lui, l’avevo visto intento a scrivere o a studiare. Il dottore indossava il

vestito nero elegante come quando usciva per andare alla Società Regina

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Margherita; aveva mantenuto la sua espressione severa, che ora mi parve più

addolcita. Mi sembrava impossibile che non l’avrei più rivisto né sentito le sue

parole rivolte a Cecilia, le volte che andavo a casa sua: “Mettile dei libri in mano”.

E mi aspettavo che, improvvisamente, aprisse la bocca e si mettesse a parlare

per ricordare ancora alla figlia: “Falla leggere, falla leggere quella bambina”».